lunedì 10 maggio 2010

l'Unità 10.5.10
La politica secondo Freud
di Fabio Della Pergola, risponde Luigi Cancrini

Il filosofo francese Onfray ha suscitato scalpore in Francia per il suo attacco all’icona Freud. Elisabeth Roudinesco continua invece ad accreditarlo al campo progressista, separando il suo pensiero dalle sue simpatie politiche verso la destra che in quegli anni preparava l’avvento di fascismo e nazismo.

RISPOSTA Freud, come molti scienziati del suo tempo, non si è mai interessato alle lotte di partito. Sul piano politico, tuttavia, ha espresso idee importanti sulla follia della guerra (efficacemente riassunte in uno scambio di lettere con Einstein) e sui rischi collegati alla mobilitazione emozionale del grande gruppo. Chi visita la casa in cui lavorò a Vienna si incontra ancora oggi con i pensieri suscitati, in un uomo saggio e tranquillo, dalla cerimonia dell’Anschluss, l’annessione dell’Austria al Reich, i cui echi arrivavano fino alla sua finestra: dolorose riflessioni suscitando sulla regressione della folla che acclamava il discorso delirante di Hitler. Malato e distrutto dalla consapevolezza amara del disastro cui il mondo stava andando incontro, Freud fu aiutato a fuggire verso Parigi e Londra pochi giorni dopo. La testimonianza più semplice e più chiara del valore progressista del suo pensiero, del resto, al di là di quello che ne pensa un dissacratore professionale come Onfray, è quella del rogo in cui i nazisti cercarono inutilmente di distruggere quello che lui aveva capito e scritto sull’uomo e sul funzionamento della mente umana.

La versione integrale della lettera inviata all'Unità

"Caro Cancrini,
il filosofo francese Onfray ha suscitato scalpore in Francia per il suo attacco all’icona Freud, sollevando forti reazioni soprattutto su Libération dove Elisabeth Roudinesco lo accusa di rilanciare “un discorso di estrema destra”.
Ma “Freud non si considerava affatto un uomo di sinistra. So che ha sempre votato per un partito liberale austriaco di centro-destra”, sono parole proprio della studiosa, una profonda conoscitrice del pensiero freudiano, in un’intervista del 1994, in cui si arrampica sugli specchi per distinguere e separare il ‘pensiero’ del padre della psicanalisi, accreditandolo comunque al campo progressista, dalle sue simpatie politiche verso la destra che in quegli anni, vale la pena di ricordarlo, preparava l’avvento di fascismo e nazismo.
Separare il pensiero dalla prassi personale sembra essere un antico vizio, in particolare di sinistra, per cui la coerenza tra ‘essere’ e ‘pensare’ non solo non è ritenuta necessaria, ma sembra addirittura essere superflua. Lei che ne pensa ?"
Fabio Della Pergola

Repubblica 10.5.10
La Nato e l´Armata rossa sfilano insieme

MOSCA Il presidente russo Medvedev apre per la prima volta la Piazza Rossa ai soldati della Nato. Ai festeggiamenti per il 65esimo anniversario della vittoria sovietica contro i nazisti nella Seconda guerra mondiale, la tradizionale parata è stata accompagnata da drappelli militari in rappresentanza delle forze a quell´epoca alleate: Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia e Polonia. La sfilata non ha avuto eguali per sfarzo e quantità d´armi dalla fine dell´Urss.

Repubblica 10.5.10
Pedofilia, scontro in Vaticano "Schoenborn è stato inopportuno"
Saraiva Martins: l’attacco a Sodano danneggia la Chiesa
Benedetto XVI invita a pregare "per i sacerdoti". In Germania sospesi due preti per abusi
Il cardinale attacca l'arcivescovo di Vienna: "Accredita l'idea di una Santa Sede divisa"
di Orazio La Rocca

CITTÀ DEL VATICANO «In Portogallo pregherò per la Chiesa, in particolare per i sacerdoti e per la pace nel mondo». Papa Ratzinger il giorno dopo lo scossone-choc che si è abbattuto sul collegio cardinalizio per le critiche piovute addosso al cardinal decano ed ex segretario di Stato Angelo Sodano, accusato a sorpresa dal confratello Christoph Schoenborn arcivescovo di Vienna di aver coperto in passato preti e alti prelati accusati di pedofilia o di violenze sessuali. Parole severe dette per di più da un cardinale come Schoenborn molto vicino a Benedetto XVI che hanno messo a nudo l´esistenza di una grande spaccatura che c´è tra i porporati nei confronti dello scandalo della pedofilia nella Chiesa. Il Pontefice ieri non ne ha fatto cenno durante la domenicale preghiera del Regina Coeli, ma significativamente si è limitato a preannunziare che durante il pellegrinaggio in Portogallo che inizierà domani e si concluderà venerdì pregherà «particolarmente anche per i sacerdoti».
Un invito-appello del Papa non casuale a poche ore del duro scontro Schoenborn-Sodano che dopo alcuni giorni di relativa calma ha fatto riaccendere i riflettori sulla piaga della pedofilia, sulla scia di due nuovi casi esplosi nella diocesi tedesca di Wuerzburg, a sud della Baviera, dove ieri sono stati sospesi altri due sacerdoti accusati di abusi sessuali su minori. La decisione ha fatto molto rumore perchè presa all´indomani delle dimissioni del vescovo di Augusta, Walter Mixa, travolto da analoghe accuse e per questo costretto a farsi da parte in ottemperanza a «quella tolleranza zero voluta dal Papa», commenta il cardinale Josè Saraiva Martins, prefetto emerito per la Congregazione per le Cause dei Santi, tra i possibili candidati alla nomina a delegato pontificio per la delicata carica di commissario dei Legionari di Cristo. Tuttavia, Saraiva Martins non ha apprezzato il «modo» con cui il collega Schoenborn ha criticato il cardinale decano Sodano. «Ho sempre auspicato la tolleranza zero verso i preti pedofili e ho sempre chiesto la massima trasparenza senza sconti per nessuno e senza mai rinunziare alla verità», però Schoenborn specifica Saraiva Martins al sito cattolico Pontifex pur essendo mosso da «un intento onesto non ha reso un buon servizio alla Chiesa», perchè con le sue «accuse a mezzo stampa» ha accreditato «l´idea di una Chiesa dilaniata da polemiche, cosa che non esiste minimamente». «Schoenborn aggiunge il cardinale avrebbe dovuto e potuto usare invece altre modalità, compresa la correzione fraterna; ora si rischia che l´incendio divampi ancora di più e con insistenza, visto che si denuncia un ex segretario di Stato e decano del collegio dei cardinali». Per Saraiva, «sconfessare pubblicamente chi rappresenta la unità dei cardinali non è opportuno». Come non è «opportuno» fanno notare altri autorevoli membri del collegio cardinalizio attaccare pubblicamente chi ha rappresentato per 15 anni «la Segreteria di Stato, dando l´impressione di voler dare un avvertimento anche a chi oggi lo ha sostituito nella stesso incarico, cioè il cardinale Tarcisio Bertone».

l’Unità 10.5.10
Lo studio Clamorosa scoperta del Max Planck Institut di Lipsia
Incroci Nei geni dei sapiens eurasiatici c’è una parte del loro Dna
I Neanderthaliani siamo noi (e non gli africani)
Si sono incontrati ben 80 mila anni fa e, contrariamente a quello che si riteneva finora, hanno avuto prole fertile. Sono i Neanderthaliani e gli Homo sapiens: uno studio pubblicato da «Science».
di Pietro Greco

L’uomo di Neandertal non si è estinto. Non completamente, almeno. Una parte vive in noi. È nei nostri geni. Le popolazioni di Neanderthal e gli Homo sapiens provenienti dall’Africa si sono incontrati 80.000 anni fa e, sia pure raramente, si sono incrociati e hanno avuto una prole fertile. Cosicché oggi nei nostri
geni di sapiens eurasiatici c’è una piccola ma non banale componente (compresa tra l’1 e il 4%) di Dna ereditato da Neanderthal.
È questa la prima – e forse neppure la più importante – conclusione che propone il gruppo di Svante Pääbo, dell’Istituto Max-Planck di antropologia evolutiva di Lipsia, in un articolo pubblicato venerdì su Science dopo aver analizzato oltre 3 miliardi di basi nucleotidiche del Dna nucleare di tre femmine di Neanderthal vissute circa 38.000 anni fa in una grotta della Croazia e aver paragonato la sequenza del loro Dna con quella di tre eurasiatici e di due africani. Dopo un’analisi attenta e molto sofisticata, Svante Pääbo e i suoi collaboratori hanno verificato che nel Dna dei tre eurasiatici vi sono tracce inconfutabili del Dna dei neandertaliano. Tracce assenti nei due africani.
Ciò consente di ricostruire, più o meno, quanto è accaduto. In una o due successive ondate, membri della specie Homo sapiens sono usciti dall’Africa 80.000 e poi 60.000 anni fa, incontrando in Medio Oriente gruppi di neandertaliani. I membri delle due specie umane hanno convissuto a lungo e, talvolta, si sono incrociate. Contrariamente a quanto ritenuto prima, gli accoppiamenti hanno generato una prole fertile. Ed è per questo che nel Dna dei sapiens che si sono successivamente diffusi in Asia e in europa sono presenti tracce del Dna dei neanderthaliani. Mentre i sapiens che sono rimasti in Africa non hanno di queste tracce.
L’analisi consente anche di escludere che successivamente i sapiens giunti in Europa si siano incrociati e abbiano avuto prole fertile con gli uomini e le donne di Neanderthal con cui hanno vissuto per migliaia di anni occupando i medesimi territori. Alcuni sostengono che, invece, in Asia si siano potuti produrre nuovi incroci.
IL SEGRETO DEL CRANIO
Benché clamorosi, tuttavia, non sono questi i risultati più importanti delle analisi effettuate da Svante Pääbo e collaboratori. Il gruppo, infatti, ha individuato una componente genetica che appartiene a Homo sapiens e non a Neanderthal, benché le due specie umane (ma possiamo ancora considerarle due specie distinte, visto che sono state interfeconde?) condividano il 99,84% delle sequenze di Dna. Questa componente è ancora da studiare. Ma pare proprio che abbia a che fare con la morfologia del cranio. E in particolare quella morfologia tonda della testa dei sapiens – difersa da quella ovale dei neanderthal – che consente di ospitare un cervello con le parti dedicate alle funzioni cognitive superiori più sviluppate.
Che Svante Pääbo e il suo gruppo abbiano scoperto non solo i segreti della promiscuità di neanderthal e sapiens, ma anche i segreti del successo dei sapiens che in alcune decine di migliaia di anni ha portato ovunque, in Europa come in Asia, alla scomparsa dei Neandertal?

Repubblica 10.5.10
Se le bestie avessero l’anima
Una lezione di Umberto Eco

Secondo Descartes avvertono gioia timore e dolore, ma senza comprendere queste passioni
Il gesuita Pardies attribuiva loro pensieri inconsci al pari degli esseri umani
Per il protestante David Boullier sono capaci di concepire idee generali
Fin dall´antichità e ancor più fra Sei e Settecento ci si è interrogati sulla natura animale

Pubblichiamo parte della lettura di Umberto Eco "Animal ex anima. L´anima degli animali", che ha inaugurato la rassegna "Animalia" promossa dall´Università di Bologna
Descartes, che seguiva Aristotele nel dichiarare che gli animali erano sforniti di linguaggio, ci dice che «le bestie non parlano come noi per il fatto che non hanno alcun pensiero, e non perché manchino loro gli organi». La posizione di Descartes conseguiva e dal suo meccanicismo e dal suo dualismo. Un corpo animale è una macchina, pura res extensa e non res cogitans. Gli animali avvertono gioia, timore o dolore, ma in modo non riflessivo, e cioè senza essere capaci di comprendere questa passione in modo razionale.
Nasce dalla posizione cartesiana una polemica che si sarebbe protratta a lungo, coinvolgendo Leibniz, Locke, Cudworth, More, Shaftesbury, Cordemoy, Fontenelle, Bayle, Buffon, Rousseau e altri, e dove spesso è difficile stabilire quale fosse veramente la posta in gioco. Si trattava di riconoscere un linguaggio agli animali, di riconoscere loro anche un´anima, o di contrastare un meccanicismo che avrebbe potuto (e per esempio potrà con La Mettrie) trasformarsi in materialismo totale, sottraendo l´anima anche agli umani?
Una posizione meccanicistica poteva evitare molti rovelli morali circa la crudeltà verso gli animali, dato che non si può parlare di crudeltà nei confronti di una macchina. In secondo luogo agiva una sorta di difesa nei confronti della cosiddetta «superstizione pitagorica», e cioè la questione della trasmigrazione delle anime. Se gli animali non hanno anima, non possono riceverne per trasmigrazione (bell´argomento, che però non esclude che trasmigrazione possa esservi tra esseri umani).
In polemica con il meccanicismo dualistico, tra Seicento e Settecento, molti obiettano a Cartesio come la differenza tra uomini e bestie sia solo di grado, aprendo una prospettiva che è stata vista come proto-evoluzionista, secondo cui la vita sarebbe un continuum che evolve, senza interruzione e senza fisso discrimine tra res extensa e res cogitans, gradualmente, attraverso una complessità crescente. (…..)
I tre autori di cui volevo particolarmente occuparmi stasera, anche se non sono citati dai grandi che ho appena menzionato, sono certamente stati i primi a tratteggiare idee proto-evoluzioniste. Il primo è padre Pardies, un gesuita che nel 1672 scriveva un Discours de la connaissance des bêtes. Pardies cita un fenomeno già osservato da Agostino: se noi tagliamo un verme in due vediamo che ciascuna delle due parti continua a vivere e a muoversi. Per alcuni questo avrebbe provato che un animo animale, se esiste, non è un principio unico, come accade per l´animo umano, o che i movimenti del verme dipendono solo dall´azione di quegli spiriti animali ammessi anche dai meccanicisti. Tuttavia Pardies (dopo avere dedicato alcune pagine gustose ai tormenti di questo animale diviso, ciascuna delle cui parti vorrebbe o dovrebbe dire «io», incapace di ritrovare l´unità della propria anima - se l´avesse) osserva che fenomeni del genere avvengono anche con gli uomini, come quando una testa appena decapitata continua per un poco a fare smorfie.
(…) Sicuramente gli esseri umani hanno la proprietà di comandare le proprie azioni ma ci sono molte azioni che essi compiono per istinto (come respirare, camminare e persino suonare uno strumento per abitudine acquisita). Gli animali non parlano ma, come gli esseri umani, hanno pensieri inconsci, e molti dei loro comportamenti non dipendono da decisioni volontarie e coscienti, lo stesso accade con gli animali. Non dimentichiamo che tra il 1694 e il 1698 apparirà La connaissance de soi-même di François Lamy, in cui si parlerà di "pensieri impercettibili", pensieri "sordi", confusi e indistinti, i quali impressionano il nostro cuore senza che esso, per mancanza di riflessione, se ne accorga. Senza voler andare a tutti costi a caccia di un pre-freudismo barocco, non sarà male tener presente che all´epoca circolavano anche alcune idee di questo genere.
Se Pardies attribuiva agli animali pensieri inconsci, un protestante, David Boullier, nel suo Essai philosophique sur l´ame des bêtes, pubblicato anonimo nel 1728, sosteneva addirittura che essi non solo erano dotati di intelligenza e volontà, ma anche capaci di concepire idee generali. Supponiamo, dice Boullier, di aver picchiato il nostro cane perché ha divorato una pernice invece di riportarcela; dopo questo incidente il cane si asterrà dal divorare la prossima preda, anche se le future pernici non saranno come la prima. Questo significa che il cane è capace di passare dalla singola percezione di una pernice all´idea generale di pernice. E inoltre è capace di prevedere eventi futuri (come la punizione del padrone) ed evitarli attraverso una scelta libera e cosciente. (…)
Se anche negli esseri umani vi sono stadi di sviluppo, e l´animo di un bambino è meno sviluppato di quello di un adulto, una gradualità di sviluppo si realizza non solo nell´arco di una vita singola ma anche dalla più bassa alla più alta delle specie viventi. Pertanto (concediamo a un uomo della sua epoca una certa dose di "scorrettezza politica") vi sono meno differenze tra una scimmia e un africano che tra un africano e "un bel esprit Européen".
In questa gradualità di sviluppo accade che, mentre le nostre percezioni sono chiare, quelle degli animali sono confuse. Ciò che ci colpisce è che solo nel 1739 Baumgarten parlerà di cognitio sensitiva come una sorta di conoscenza primaria più confusa di quella razionale ma in ogni caso importante per la vita umana, tanto da spiegare persino la nostra esperienza estetica. Boullier cita solo autori francesi, ma proprio per questo è singolare che, per definire un tipo di percezione confusa, egli faccia l´esempio di una esperienza estetica, e cioè il modo in cui in un accordo musicale noi avvertiamo la compresenza di diversi suoni senza tuttavia essere in grado di distinguerli uno per uno.
Sarà forse esagerato asserire che Boullier è stato il primo ad affermare che gli animali (incapaci di elaborare sillogismi e di concepire l´idea di Dio) pensano però "esteticamente", ma di lui certo colpisce questa bizzarra forma di "zoo-crocianesimo".
Entra ora in scena Guillaume Hyacinthe Bougeant che nel 1739 aveva pubblicato un Amusement Philosophique sur les Langages des Bêtes (….) Bougeant dà come sottinteso che le bestie manifestino un comportamento intelligente, che si parlino tra loro, e che comunichino con noi. Ma se sono come noi, saranno riservati anche a loro un paradiso e un inferno? La risposta di Bougeant è abbastanza provocatoria: le bestie sono demoni, introdotti nei corpi animali così da recar seco il loro proprio inferno. I demoni, per poter soffrire in eterno del loro inferno terrestre, migrano continuamente da animale ad animale ogni volta che muore il corpo che li ospitava.
Questo spiega anche perché gli animali siano cattivi (i gatti sono inaffidabili, i leoni crudeli, gli insetti si divorano a vicenda) e perché siano condannati a soffrire della crudeltà umana.
L´idea di Bougeant provocherà successive polemiche come quella di John Hildrop, che nel suo Free Thoughts upon the Brute-Creation (1742-3), sia pure tra il serio e il faceto criticherà l´idea che gli animali siano demoni dicendo che essi semplicemente partecipano - in quanto dominati dall´uomo - del peccato originale. Ma se hanno un´anima e sono esistiti nel paradiso terrestre, essi dovrebbero essere degni di immortalità.
(…) Quanto il libretto di Bougeant sia stato preso sul serio ce lo dice l´attenzione che gli dedica, sia pure per riconoscerne la natura di puro divertissement, l´autore della voce "L´Ame des bêtes", l´abate Yonne, sulla Encyclopedie. In verità l´abate Yonne appare piuttosto come uno sciocco, a cui probabilmente Diderot e d´Alembert avevano affidato una voce che per loro era poco importante, e grazie alla quale potevano imbonire la censura mostrando di porre molta attenzione a non mettere in questione i problemi attinenti alla religione (…).
Quanto al fatto che le bestie, pur avendo un´anima, siano soggette a infinite sofferenze, e senza che lo abbiamo meritato, perché non possiedono le nozioni di bene e di male, Yonne se la cava annotando che merito e demerito valgono solo per agenti liberi. Non essendo agenti liberi, le bestie non mirano né a premi né a castighi e il loro dolore non è punizione per i loro demeriti, ma segnale naturale di comportamenti da evitare. È giusto allora che un pollo muoia perché l´uomo sia nutrito? Evidentemente Yonne si trova di fronte al problema già risolto senza ipocrisie da Tommaso d´Aquino, ma vi ritorna appunto da sciocco, perché cerca di porsi dal punto di vista del pollo: per l´anima puramente sensitiva del pollo la morte, utile a un´anima razionale come quella umana, è la sottrazione di un bene che non era dovuto, e il pollo dovrebbe essere felice di essere al servizio di chi ha una natura superiore alla sua. Insomma, i polli non avevano alcun diritto di venire al mondo e quindi non si lamentino se gli tiriamo il collo.
Richard Dean (An Essay on the Future Life of Brutes, 1768), diceva che le sofferenze degli animali sono conseguenza del peccato umano ma che con la redenzione dell´uomo l´intera natura era stata redenta. Tuttavia, nella misura in cui la ragione umana eccede sulle facoltà dei bruti, così la beatitudine degli esseri umani eccederà su quella dei bruti nella vita dopo la morte.
Al contrario Humphry Primatt (A Dissertation on the Duty of Mercy and Sin of Cruelty to Brute Animals del 1776) sosteneva che "poiché non abbiamo alcuna autorità per dichiarare, e nessuna testimonianza dei Cieli per rendercene sicuri, che vi sia uno stato di ricompensa per le sofferenze dei bruti, e dovremo dunque supporre che non ve ne sia alcuno, da questa supposizione dovremmo pertanto razionalmente inferirne che la crudeltà vero un bruto rappresenti una offesa irreparabile». Mentre la sofferenza umana può essere compensata in uno stato futuro, quale speranza può arridere a un brutto che soffre?
Nel 1811 Giacomo Leopardi scrive una Dissertazione sopra l´anima delle bestie dove si pone il problema di quale sorte ultraterrena attenda animali dotati di anima e ardisce pensare per le bestie a una sorta di felicità extraparadisiaca, a un limbo sul quale peraltro non si pronuncia. Nove anni dopo, nello Zibaldone, ardirà dire che nelle bestie è riscontrabile anche una certa inclinazione all´infinito - e siamo negli anni in cui Leopardi stava mostrando che di infinito se ne intendeva.
A mo´ di conclusione, due citazioni moderne. Una proviene dal Journal di Jules Renard (nomen omen): «La nostra anima è immortale, perché? E perché non quella delle bestie? Quando le due fiammelle si spengono, che differenza c´è ancora la tra la fiamma di una povera candela e quella di una bella lampada dal becco complicato, alta sul proprio stelo, e con l´abat-jour che si allarga come una gonna?».
La seconda proviene da À se tordre (1891) di Alphonse Allais: «Le bestie hanno un´anima? E perché non dovrebbero averla? Ho incontrato nella mia vita una notevole quantità di uomini, tra cui qualche donna, bestie come un´oca, e molti animali non molto più stupidi di tanti elettori».

domenica 9 maggio 2010

l’Unità 9.5.10
L’arcivescovo di Vienna contro Sodano: «Sapeva, ha insabbiato casi di pedofilia»
Accusa dell’arcivescovo di Vienna, cardinale Schoenborn all’ex segretario di Stato cardinale Sodano: ha sabotato la linea di Ratzinger contro la pedofilia. Nuove accuse a monsignor Mixa. Dal Papa i vescovi del Belgio.
di Roberto Monteforte

CITTÀ DEL VATICANO. L’attacco è frontale. «Il cardinale Sodano nel 1995 fermò l’inchiesta contro l'allora arcivescovo di Vienna, Hans Hermann Groer, accusato di molestie verso minori». Non usa perifrasi l’arcivescovo di Vienna, cardinale Christopher Schoenborn. L’accusa all’ex segretario di Stato vaticano è diretta. Sarebbe sua secondo Schoenborn e «dell’ala diplomatica» della curia romana, la responsabilità di aver impedito la costituzione immediata di una commissione d’inchiesta sugli abusi sessuali compiuti da Groer, richiesta dall’allora prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, cardinale Ratzinger. Ecco chi avrebbe ostacolato la linea della fermezza contro la pedofilia nella Chiesa.
LE NUOVE ACCUSE
L’operazione trasparenza continua. Ieri il pontefice ha accolto le dimissioni del vescovo di Augsburg (Augusta) e ordinario militare per la Germania, monsignor Walter Mixa presentate il mese scorso. Un gesto atteso, ma reso ancora più necessario dopo l’annuncio della procura di Ingolstadt di aver aperto un fascicolo con l’accusa di aver commesso abusi su minori quando era vescovo di Eichstatt (dal 1996 al 2005). Su monsignor Mixa, quindi, peserebbero accuse ben più gravi di quelle per le quali ha presentato le sue dimissioni anche su consiglio del presidente della conferenza episcopale tedesca, monsignor Robert Zollitish: maltrattamenti su minori quando era parroco a Schrobenhausen, circostanza che in un primo tempo ha negato e poi è stato costretto a riconoscere, quindi uso personale di fondi della diocesi destinati all’istituto per l’accoglienza dei bambini. Pare per farsi costruire un solarium ed acquistare stampe antiche e bottiglie di vino pregiato. Ora l’accusa è di pedofilia. Pare sia ricoverato in una clinica per il recupero degli alcolisti monsignor Walter Mixa. Un altro brutto colpo alla credibilità della Chiesa tedesca impegnata seriamente nell’operazione verità e trasparenza. Ma anche per Benedetto XVI, che nel 2005 tra i primi suoi atti del suo pontificato impose la nomina di Mixa, espressione dell’ala più conservatrice della Chiesa tedesca.
IL DOPO BRUGES
Ieri il Papa ha ricevuto in udienza i vescovi del Belgio in Vaticano per la visita ad limina guidati dal presidente della conferenza episcopale, monsignor Leonard. La visita era prevista da tempo, ma ha avuto un segno particolare dopo le dimissioni «forzate» del vescovo di Bruges, monsignor Vangheluwe, reo confesso di aver «abusato sessualmente di un giovane» da sacerdote ed anche da vescovo. Un colpo duro per una Chiesa già in forte difficoltà nella secolarizzata società belga. Ieri il Papa ha invitato quella Chiesa «provata dal peccato» a «non scoraggiarsi» e a reagire. Ai giornalisti incontrati dopo l’udienza, monsignor Leonard ha assicurato «la totale sintonia» dell’episcopato belga con il pontefice. La linea è quella «del rigore e della trasparenza». Il Papa avrebbe dedicato solo un breve cenno al problema della pedofilia nella Chiesa, senza fare alcun riferimento specifico al caso di Bruges perché, spiega Leonard, vescovi e Papa starebbe sulla «stessa lunghezza d’onda». Pieno appoggio dell’episcopato belga, quindi, alla linea ratzingeriana della trasparenza.
Si muovono le acque anche in Italia. A Bergano si sono date appuntamento ed è la prima volta circa 150 persone vittime di abusi anche di sacerdoti per discutere e condividere «l'atroce esperienza della violenza sessuale». L'iniziativa è dell'associazione Prometeo. Al termine dell’incontro è previsto che i partecipanti firmeranno una lettera per chiedere un incontro a Papa Benedetto XVI: «Chiederemo al Santo Padre un incontro assicurano gli organizzatori che sia un momento di condivisione per ricevere da lui un aiuto spirituale e condividere questa sofferenza».

Repubblica 9.5.10
Pedofilia, Schoenborn contro Sodano "Coprì i colpevoli e offese le vittime"
L’arcivescovo di Vienna: l´ex segretario di Stato insabbiò le denunce
"Congiura del silenzio sul caso di monsignor Groer, accusato di violenze su minori"
di Andrea Tarquini

BERLINO Lo scontro nella Chiesa cattolica sullo scandalo degli abusi sessuali e delle accuse di violenze pedofile arriva a un´escalation senza precedenti. Per la prima volta un cardinale, l´arcivescovo di Vienna Christoph Schoenborn, accusa un ex segretario di Stato vaticano, cioè Angelo Sodano, di aver coperto i presunti colpevoli e di aver offeso le vittime. Il duro "j´accuse" del cardinale Scheonborn arriva proprio nel giorno in cui la Santa Sede, cogliendo un successo nella promessa di linea di tolleranza zero venuta da papa Benedetto XVI, accettava le dimissioni del vescovo di Augsburg, Walter Mixa. Il quale, capofila fino a ieri della corrente ultraconservatrice del clero tedesco, è ormai indagato dalla magistratura per la grave accusa di abusi sessuali.
Ex allievo e da tempo amico del Pontefice, e noto per le sue posizioni riformatrici e aperte, il cardinale Schoenborn, in una conversazione con un gruppo di giornalisti di cui riferisce l´agenzia di stampa cattolica Kathpress, per la prima volta accusa per nome Angelo Sodano. Prima di tutto spiega che egli ha arrecato grave danno alle vittime delle violenze e degli abusi sessuali e all´immagine della Chiesa, avendo affermato che le loro denunce erano semplicemente «pettegolezzi e chiacchericcio». In secondo luogo, egli indica in Sodano il responsabile dell´insabbiamento di ogni inchiesta vaticana su uno dei casi più gravi, cioè quello delle ripetute violenze sessuali su minorenni compiute da monsignor Hans Hermann Groer, a lungo arcivescovo della capitale austriaca.
Più volte il cardinale Schoenborn aveva detto che Groer era stato salvato e coperto da una congiura del silenzio di una maggioranza della curia vaticana. L´ultima volta, lo aveva affermato nella Domenica delle Palme, senza però fare nomi di alcun presunto responsabile. Aveva semplicemente asserito di conoscere Joseph Ratzinger da tempo, e di ricordare bene che all´epoca del caso Groer l´attuale pontefice allora prefetto della Congregazione per la dottrina della Fede aveva chiesto chiarezza totale e tolleranza zero, ma gli confessò di essere stato messo in minoranza dalla Curia.
Ma questa volta, secondo il resoconto della Kathpress, Schoenborn punta il dito. Fu Sodano, egli avrebbe affermato in sostanza, a impedire la costituzione di una commissione d´inchiesta vaticana sul caso Groer, nonostante che l´allora arcivescovo di Vienna fosse stato denunciato ai media da una sua ex vittima, e nonostante il parere di Ratzinger. «A lungo il principio della Chiesa è stato il perdono, ma questo principio è stato interpretato in modo falso, a favore dei responsabili e non delle vittime», ha aggiunto il cardinale Schoenborn. Continuando: ora la Chiesa è cambiata, ma non tutti nella Curia appoggiano la svolta e la tolleranza zero voluta dal Papa.
Sulle accuse di Schoenborn, Sodano al momento tace. Mantiene il silenzio anche sulle accuse rivoltegli dal National catholic reporter circa le coperture al responsabile dei Legionari di Cristo. In una coincidenza probabilmente casuale ma importante, le accuse di Schoenborn vengono proprio in contemporanea con la caduta di Mixa. In aprile, l´arcivescovo di Augsburg allora accusato di percosse ai danni di minorenni era stato invitato dal presidente della Conferenza episcopale tedesca, Robert Zollitsch, ad autosospendersi.

Repubblica 9.5.10
La rottura nella Chiesa
di Giancarlo Zizola

La critica pubblica indirizzata dal cardinale Christoph Schoenborn all´ex segretario di Stato cardinale Angelo Sodano rompe il costume apologetico che copre di nebbie d´incenso i vertici della Chiesa e rivela i contraccolpi profondi della bufera della pedofilia nel clero sugli equilibri interni del sistema centrale della Chiesa cattolica.
Il cardinale di Vienna mette in gioco la sua vicinanza teologica e umana con Papa Ratzinger, fin da quando lavoravano fianco a fianco sul Catechismo della Chiesa cattolica. E dà voce a quella corrente di pensieri nella Chiesa che interpreta l´attuale crisi come strumento necessario di liberazione del male oscuro,a lungo rimosso, passaggio doloroso ma necessario per recuperare la prospettiva della riforma ecclesiale. Egli si schiera con quanti sono convinti che subire questa crisi aspettando che la nuvola nera passi e tornare anzi all´idea di una Chiesa «società perfetta» sia una strategia perdente.
Contrariamente al messaggio trionfalista lanciato da Sodano a Pasqua, che denigrava come «chiacchiericcio» il ruolo dei media mondiali nelle indagini sullo scandalo, Shoenborn ritiene che sia erroneo accusare i media o la cultura permissiva. Egli mostra di apprezzare la copertura mediatica degli abusi clericali come un aiuto offerto alla Chiesa nella ricerca della verità dei fatti, e dunque un implicito alleato all´azione purificatrice intrapresa da Ratzinger, che ha smantellato il sistema organizzato dell´omertà : misura decisiva per avviare il radicale risanamento istituzionale e interiore del sistema ecclesiastico. È la stessa convinzione che ha portato il cardinale Carlo Maria Martini a salutare «con favore» il fatto che la società esiga che venga fatta piena luce su questi fatti delittuosi e che le vittime abbiano avuto il coraggio «di denunciare tali crimini secondo verità».
Più che in altre congiunture drammatiche, la prova attuale mette a nudo il carattere sistemico della crisi della pedofilia e indica che la guarigione, per essere radicale, non può che essere cercata in una ripresa dell´autoriforma della Chiesa, non nella sua sepoltura. La crisi trova infatti la sua chiave di lettura pertinente se ricondotta alle resistenze istituzionali alle spinte innovatrici del Concilio Vaticano II. Non a caso si moltiplicano i segnali del coinvolgimento di esponenti di alto rango del governo centrale della Chiesa nel sistema omertoso invalso. E lo stesso, celebrato sistema di selezione centralista dei candidati all´episcopato si sta dimostrando al di sotto della sua fama. Il caso del cardinale Groer, citato dal suo successore a Vienna, è tipico del grado di opacità istituzionale, misto alla presunzione di certi esponenti ecclesiastici: egli resistette a lungo alle ingiunzioni di Giovanni Paolo II che esigeva le sue dimissioni, e rifiutò di aderire alla rinuncia alla porpora, che pure gli era stata richiesta.
E´ possibile che anche questa crisi, se recepita in modo appropriato, possa accelerare col tempo la trasformazione di un modello di Chiesa rimasto troppo attaccato alla figura regale e politica della cristianità avvitata intorno alla casa clericale e alla curia romana, in un modello più spoglio, meno privilegiato e patriarcale, più egualitario e fraterno, meno autoritario e centralista. È opinione di molti vescovi che misure repressive o di tipo poliziesco non siano sufficienti. Benvenute le innovazioni annunciate come l´avvento della psicologia nei seminari, la messa in valore della sessualità umana, la ricezione della figura della donna in quell´universo monosessuale che è la struttura del clero. Nelle analisi più lungimiranti la crisi della pedofilia è causata meno da perversioni individuali che da un modello clericale di Chiesa divenuto insostenibile. Dopotutto, le perversioni di potere, i compromessi del clero con il regno del denaro non ricevono un rilievo comparabile a quello ottenuto dagli abusi clericali sui minori. Eppure è in questione, in entrambi i casi, la struttura di potere della Chiesa. Tipico il caso di Marcial Maciel, fondatore dei Legionari di Cristo recentemente inquisiti: ai crimini di pedofilia congiungeva la sua stretta alleanza con i grandi poteri finanziari del Messico, ben felici della sua lauta lotta contro la Teologia della Liberazione. Prova quasi apologetica che se la Chiesa non fosse così strettamente associata al clero, se fosse una reale comunità, con ministeri anche laicali, a uomini e donne e se tornasse alla «Chiesa dei poveri» dimenticata, probabilmente neanche queste deviazioni sarebbero state possibili né avrebbero scatenato la disaffezione che la Chiesa sta subendo. Sembra dunque plausibile la tesi di Martini, Schoenborn e altri secondo i quali la purificazione deve venire associata a misure di trasformazione del modello di Chiesa, un modello più umile, più interiore e meglio adatto alla situazione di minoranza dei cristiani nel mondo .

sabato 8 maggio 2010

Altritaliani.net 7.5.10
Freud la polemica. Intervista allo psichiatra Massimo Fagioli.
venerdì 7 maggio 2010 di Carlo Patrignani
qui
http://www.altritaliani.net/spip.php?article431

l’Unità 8.5.10
Marx, genio e illusioni
Un grande pensatore moderno da rileggere con mentalità liberale
L’anticipazione Ecco uno stralcio del nuovo libro di Eugenio Scalfari, Per l’alto mare aperto, tratto dal capitolo XX e dedicato a Karl Marx: «Il rivoluzionario ammirava Napoleone»
di Eugenio Scalfari

La vulgata sostiene che con Marx, come con tutti i profeti e i predicatori, non ci possono essere vie di mezzo: o si sta con lui o contro di lui indipendentemente dalla statura intellettuale degli interlocutori. Ma non è vero, le cose non stanno in questo modo né in generale nei confronti dei profeti e dei predicatori ma tanto meno nei confronti di Marx, nel quale allo spirito profetico che indubbiamente gli spirò dentro con soffio vigoroso, si accompagnò uno studioso attento, munito d’un intelletto eccezionale e d’una capacità intuitiva fuori dalla norma.
Predicò, certamente. Voleva diffondere il suo credo e ci riuscì in vita e soprattutto in morte. Mobilitò attorno all’opera sua e alla sua memoria centinaia di milioni di persone. Spaccò il pianeta in due anche prima dell’ottobre rosso. Adesso la sua profezia è andata in pezzi, ma gli ideali e i bisogni che l’hanno alimentata non sono stati affatto soddisfatti e restano un tema aperto e più che mai scottante. L’incendio è sopito, ma le sue braci non sono spente. Avverrà in altri modi, su altri terreni; ma il tema dell’eguaglianza, dello sfruttamento, dei bisogni, delle società inclusive, della democrazia e dello Stato: non sarà il comunismo la panacea di questi mali, i mali restano, resi ancor più urticanti nel mondo delle comunicazioni globali.
Carlo Marx comunque è una figura storica e appartiene al suo tempo. Non è un profeta religioso, anche se ha predicato il paradiso in terra. Ma non fu il solo: tutta la vasta categoria degli utopisti ha fissato gli sguardi sulla «Città futura» e sull’approdo senza più conflitti, nella pace e nella felicità.
Il suo guaio è stato l’attuazione d’un comunismo che non somigliava in nulla alle sue indicazioni teoriche né alle sue speranze e ai suoi ideali. Settant’anni di dittatura, di tirannia, di stragi di massa, di crimini, di incubo, di disumanizzazione devastante, molte delle cui vittime (e anche dei suoi responsabili) sono ancora tra di noi.
Ma ritenere Marx responsabile di quell’Inferno che prese il posto del Paradiso da lui ipotizzato è un errore. Del resto basta leggerlo (perché bisogna leggerlo) per capire che quell’accusa è insensata come lo sono tutte le accuse che attribuiscono al pensiero dell’uomo i crimini della bestia che è in lui.
Si discute e si è sempre discusso molto se l’eccellenza del pensiero di Marx sia consegnata al Capitale e agli altri suoi scritti sul plusvalore, sulla rendita, sull’interesse, sul salario, insomma al materialismo storico, cioè a quel modo di leggere la storia e lo sviluppo delle società attraverso l’evoluzione delle forze produttive e del capitale. Una storia che fu anche definita storia della struttura, al posto di quella fin lì praticata e ancor oggi prevalente nelle culture che lui avrebbe definito borghesi, di storia della sovrastruttura: gli Stati, i governi, le guerre, la diplomazia, i personaggi, le istituzioni, sia pure senza ignorare (ma dopo di lui sarebbe impossibile) l’aspetto economico, lo sviluppo e i mutamenti delle forze produttive, gli interessi dei ceti forti e di quelli deboli.
(...) Il Capitale resta un’opera essenziale del pensiero economico moderno, ma la parte imperitura del «corpus» marxiano è la scoperta del materialismo storico e del determinismo rivoluzionario che esso porta con sé.
Aggiungo come titolo di significativa originalità che l’autore con il quale Marx ebbe maggiore empatia intellettuale e congenialità di pensiero fu, pensate un po’, Alexis de Tocqueville. Un liberale, uno studioso acutissimo dell’Ancien Régime, un altrettanto attento studioso della democrazia americana, un uomo di nobile famiglia, un orleanista convinto. Chi avrebbe mai detto che il profeta del comunismo guardasse a lui e ai suoi libri piuttosto che per esempio a Rousseau e a Condorcet? O a Babeuf e a Buonarroti? Guardò a Tocqueville, ma anche a Robespierre e al Terrore. E perfino a Napoleone. Chi crede che Marx sia stato un rozzo pensatore e un invasato profeta da cui non provennero che sventure, o non l’ha letto o non ha capito ciò che è scritto in quelle migliaia di pagine sulle quali passò la sua vita. Commise certamente un errore capitale: quello d’aver dato al suo pensiero la forma di un letto di Procuste sul quale avrebbe dovuto trovar posto tutta la storia universale, dalla fase dello schiavismo all’economia della divisione del lavoro e del denaro, dominata dalla borghesia.
Si comprende la ragione di questo errore: una generazione prima di lui, Kant ed Hegel avevano costruito due grandiosi sistemi filosofici che pretendevano d’aver risposto a tutte le domande che la nostra mente si pone da quando la specie del sapiens sapiens ha preso possesso della natura.
Marx aveva una mente filosofica e sistematica. Dopo un primo approccio alla sinistra hegeliana, in particolare a Feuerbach, capovolse l’impianto della Fenomenologia dello spirito, della Filosofia del diritto e dell’Estetica create da Hegel e allo Spirito assoluto contrappose la Materia come sostanza dominante dell’Universo. Accettò in eredità soltanto il metodo dialettico trasferendolo però dallo spirito alla materia, dal pensiero all’essere. Disconobbe la libertà come elemento fondamentale della dialettica e la sostituì con un determinismo rigoroso che lasciava poco spazio all’iniziativa individuale.
Anche Hegel aveva dato forma ad una ideologia che nulla risparmiava all’inventiva dei singoli; l’identificazione del reale con il razionale vanificava di fatto quella libertà da lui tanto celebrata. Marx non fu da meno quanto a rigidità sistematica: dettava le leggi dell’evoluzione sociale e delle rivoluzioni che le trascinavano avanti. L’approdo sarebbe stato un comunismo universale, l’abolizione dello Stato e la piena libertà per ciascun individuo capace di identificarsi con la massa, agendo e parlando in suo nome.
Il Capitale cui Marx dedicò gli ultimi venticinque anni della sua vita fu l’elemento dimostrativo dell’impianto materialistico. Fece il punto sugli esiti della rivoluzione capitalistica inglese, ne indagò passo passo le crudeltà, lo spirito di classe che l’animava, le contraddizioni all’interno della classe dominante, la persistenza d’un mondo contadino e di proprietari fondiari che ritardava lo slancio della borghesia industriale e finanziaria senza però riuscire a fermarla poiché essa rappresentava in quel momento il motore che spingeva in avanti la dialettica degli opposti. All’ombra della classe dominante prendeva forma intanto la protesta del proletariato e la sua organizzazione di lotta. Sarebbe stata lunga e contrastata, quella lotta. Il determinismo rivoluzionario gli assegnava la vittoria, ma Marx non sapeva, non poteva sapere, né il come né il quando, salvo che su un punto: quando lo sviluppo delle forze produttive, del capitale, della consapevolezza storica degli attori sociali avesse raggiunto il livello della piena maturità, la rivoluzione sarebbe stata generale trascinando con sé anche società che non avevano ancora raggiunto il livello di pieno sviluppo.

l’Unità 8.5.10
Diritti e Bellocchio, la storia nei David
Sono i vincitori degli Oscar italiani nell’anno della crisi. Protesta corale contro i tagli
di Gabriella Gallozzi

La storia, quella più nera del nostro passato recente, le stragi nazi-fasciste e colui che alla tragedia della guerra ci ha condotto, Mussolini, sono al centro di questa edizione 2010 dei David. Miglior film dell’anno L’uomo che verrà di Giorgio Diritti, più il David per la migliore produzione a Raicinema e Aranciafilm e quello per il miglior fonico di presa diretta a Carlo Missidenti. Miglior regista Marco Bellocchio per Vincere, con altre 7 statuette nelle categorie tecniche. Mentre il favoritissimo (18 candidature) La vita è bella di Paolo Virzì vince con le interpretazioni di Micaela Ramazzotti e Valerio Mastandrea che chiama in diretta la nonna al telefono, e con la sceneggiatura firmata dallo stesso Virzì con Francesco Bruni e Francesco Piccolo. I migliori attori non protagonisti sono Ilaria Occhini ed Ennio Fantastichini per Mine vaganti. È l’Oscar italiano delle sorprese, della crisi, delle polemiche e delle proteste questo dell’edizione 54, la cui premiazione si è svolta ieri sera a Roma all’Auditorium della conciliazione. Ne escono vincitori il bellissimo film sulla strage di Marzabotto e Bellocchio che, a parte il premio della regia, colleziona altre sette statuette «minori»: fotografia (Ciprì), scenografo (Dentici), costumi (Ballo), trucco (Corridfoni), acconciatore (Giuliani), montatore (Francesca Calvelli)e effetti speciali (Trisoglio e Marinoni). Mentre c’è poca gloria per Baaria: solo due David per il miglior musicista (Morricone) e il David Giovani. E la scelta di premiare la qualità nella categoria del documentario, La bocca del lupo di Pietro Marcello e in quella del film europeo, Il concerto di Radu Mihaileanu.
Ma è anche il David delle proteste questo 2010. A introdurre la cerimonia di premiazione è stato il grido di all’allarme lanciato dai Centoautori per bocca di Stefania Sandrelli. Un messaggio lucido e severo sulla drammatica crisi del nostro cinema, nei confronti della quale il governo si mostra completamente sordo. Denuncia rilanciata da Bellocchio durante la premiazione: «In molti hanno chiesto, domandato gentilmente, pregato il governo. La risposta è stata: non vi diamo una lira! Ora serve una nuova forma di protesta. Non basta più chiedere, pregare, gentilmente...». I primi segnali di tensione si sono avvertiti già in mattinata, al Quirinale, dove il presidente Napolitano ha incontrato i candidati. Nessun rappresentante del governo era presente. Neanche Bondi, «giustificato» dallo stesso Presidente perché impegnato in Consiglio dei ministri. Nel suo intervento, infatti, non mancano i riferimenti alle «difficoltà» del nostro cinema, nonostante definisca «un’annata da collezione» questa del 2009 in cui «una nuova leva di giovani» si è rivelata. Le difficoltà, secondo Napolitano sono da «collegare» a quelle «complessive dovute alla crisi finanziaria mondiale». Consapevole che «queste difficoltà non sono finite» il Presidente aggiunge che questa situazione «impone anche al mondo del cinema una più intelligente selezione dei destinatari delle risorse pubbliche. Dobbiamo sentire il dovere comune di contribuire a superare questa crisi. Sono convinto che anche l’anno prossimo sarà un buon anno». Anche, perché, sottolinea «il cinema ha dato un grande contributo all’unificazione della lingua e della cultura italiana, raccogliendo tutte le diversità di accenti di cui sono ricche. Questo contributo è necessario in un momento complesso per lo sviluppo unitario del nostro Paese». Accuse poi, e durissime, quelle lanciate dal produttore Domenico Procacci e da Carlo Verdone contro la giuria troppo allargata (sono 1592 i componenti) dei David, composta da alcune «persone incompetenti e disinteressate alla materia». Tra cui figurano anche il sindaco Alemanno e Montezemolo. Per Verdone si tratta addirittura di un’accozzaglia di autisti di qualcuno e figli di qualcun altro. Tanto che si chiede che cosa ci facciano anche i suoi figli. La proposta, dunque, è azzerare tutto, ridurre il numero dei giurati e fare come in Francia, spiega Procacci, dove ai Cèsar votano soltanto «in 3000 ma tutta gente di cinema». Gian Luigi Rondi, presidente dell’Accademia dei David tenta la difesa: «Se ci sono buoni suggerimenti li ascolteremo, ma va detto che il premio è nato proprio in uno spirito che coinvolgesse le persone comuni. Anzi sono stato io ad allargare la giuria coinvolgendo tutte le persone che hanno avuto una nomination».

il Fatto 8.5.10
Le novecento schiave di padre Maciel
Il fondatore dei Legionari di Cristo sottraeva beni alle sue “religiose”
di Miguel Mora

Le donne provenivano da ricche famiglie di Spagna, Italia Messico,Nuova Zelanda, Francia e Germania
Dopo la condanna vaticana di Marcial Maciel, l’annuncio della rifondazione dell’ordine e il commissariamento dei Legionari di Cristo da parte di papa Benedetto XVI, continuano a trapelare particolari sull’indagine condotta negli ultimi 10 mesi ad opera di cinque inviati pontifici. Secondo quanto pubblicato dal giornale messicano Milenio, nel corso dell’inchiesta condotta in Messico il Vaticano ha scoperto che Maciel – poligamo e pedofilo, morto nel 2008 – aveva creato una congregazione femminile senza l’avallo di Roma, composta da 900 giovani che vivevano in condizioni di “virtuale schiavitù”. Il quotidiano afferma che le “religiose” al loro arrivo venivano isolate e potevano fare visita alla famiglia solamente per 15 giorni ogni sette anni e ricevere una telefonata al mese. I genitori potevano andarle a trovare una volta l’anno. Le donne, che appartenevano al ramo laico dell’ordine, Regnum Christi, venivano reclutate tra le famiglie ricche di Spagna, Messico, Stati Uniti, Francia, Italia, Germania e Nuova Zelanda.
Le novizie dovevano essere “donne sorridenti, di buone maniere, di bella presenza e di modesta formazione culturale e religiosa”, ha scritto il giornale. Tra i loro doveri c’era quello di “non criticare” mai le decisioni dei responsabili dell’ordine e di riferire ai superiori se qualcuna lo faceva.
Secondo Milenio, 15 anni dopo aver preso i voti tradizionali – che comportavano la castità, l’obbedienza e la povertà – erano obbligate a consegnare metà dei loro beni e dopo 25 anni la totalità dei loro beni. Inoltre, sempre secondo il quotidiano messicano, “in occasione del compleanno di Maciel, cioè a dire ogni 10 marzo, venivano sollecitate a fare un dono in denaro che consisteva in un assegno di 250.000 dollari”.
Le indagini hanno portato alla luce altri terribili fatti avvenuti all’interno dell’ordine. Il vescovo messicano di Tepic, Ricardo Watty, uno dei cinque prelati che hanno indagato sui Legionari di Cristo, ha rivelato di aver consegnato al Papa la documentazione relativa ad un gruppo di legionari che avevano subito abusi sessuali da parte del fondatore della Legione e ha aggiunto che probabilmente Benedetto XVI incontrerà le vittime. Il vescovo Watty ha dichiarato al canale televisivo Televisa: “Nella personalità di padre Marcial ci sono molti elementi che hanno influenzato [i sacerdoti e i membri del movimento]. Di tutto questo bisogna liberare la Legione. Sono persone buone, ma avvolte in una cappa di dannazione e malvagità”.
Lo scandalo degli abusi sessuali non cessa di arricchirsi di nuovi episodi in ogni parte del mondo.
Proprio ieri Ratzinger ha accettato le dimissioni del vescovo irlandese Joseph Duffy, che, stando a quanto reso noto dal Vaticano si è reso colpevole di aver coperto abusi sessuali su minori ad opera di sacerdoti. Le dimissioni sono state ufficialmente attribuite a ragioni di età in quanto Duffy ha compiuto 76 anni. Il Papa ha la facoltà di accettare o meno le dimissioni per ragioni di età.
Sono già quattro i vescovi irlandesi dimissionati dopo la pubblicazione dei due rapporti ufficiali – il Rapporto Ryan e il Rapporto Murphy – che hanno rivelato che in Irlanda nell’arco di 70 anni centinaia di bambini hanno subito abusi sessuali da parte di sacerdoti.
Traduzione di Carlo Antonio Biscotto (c) El Pais

Repubblica 8.5.10
"Quelle ultime notti accanto a Eluana tra pietà e polemiche"
In un libro il racconto del dottor De Monte
di Piero Colaprico

Il volume scritto a quattro mani con la moglie Cinzia. Insieme accudirono la ragazza in coma
Pagine ricche di dubbi e riflessioni per capire quei giorni nella clinica di Udine
"Su questa vicenda sono state scritte tante bugie, a volte in buona fede, ma spesso interessate"

MILANO - Una parola che ricorre spesso è «bugia». Esce in queste ore un libro che mette in primo piano la realtà scientifica della storia e della morte di Eluana. L´hanno scritto il medico e l´infermiera, marito e moglie, Amato De Monte e Cinzia Gori, che hanno vegliato a Udine la figlia di Beppino Englaro. Chi crede di trovare in questo «Gli ultimi giorni di Eluana» (Edizioni della biblioteca dell´Immagine) gente con la verità in tasca si sbaglia di grosso, anzi le pagine sono ricche di dubbi, riflessioni anche sorprendenti: per esempio quando il medico, alla fine, accompagna Eluana in autoambulanza e si sente (parole sue) ormai «incastrato», non può più dire di no.
Ma, carte alla mano e documentazione clinica finalmente alla luce del sole, si comprende meglio che cosa è accaduto dietro le quinte di questa vicenda. E la diversità di vedute con le suore Misericordine di Lecco (a parte suor Rosangela, che per quindici anni ha accudito Eluana) è fortissima. C´è una questione cruciale e inedita: «Mi sono spesso imbattuta, in seguito, in storie fantasiose di individui estranei che - si legge in un capitolo - in quei giorni di ricovero sarebbero passati a portare dei fiori a Eluana e l´avrebbero vista "bellissima, tranquilla, sdraiata nel suo letto". Si tratta di racconti totalmente inattendibili», dicono gli autori. «Dov´erano i sorrisi, lo sguardo che ti segue, la pelle bellissima?», si chiede l´infermiera quando prende in carico Eluana dopo il viaggio Lecco-Udine.
C´è chi, senza averla mai visitata, sosteneva che Eluana potesse deglutire: anche questo era diventato un tema fondamentale per le polemiche. Su questa ragazza, diventata donna dopo i lunghi diciassette anni in stato vegetativo, a Udine notano però «due brutte escrescenze alle orecchie», all´inizio inspiegabili. Poi, «proseguendo nella sistemazione delle sue cose trovai - racconta l´infermiera - anche una serie di telini bianchi piegati e ben ordinati. A quale uso erano destinati lo avrei scoperto, inaspettatamente, molto presto». Da sola perché mancano informazioni: «Niente consegne infermieristiche... Mi domandavo: era stato fatto apposta, era una superficialità, una semplicemente una svista o cos´altro?». Che cosa nascondeva la clinica di Lecco?
La scoperta dell´indicibile avviene durante la prima notte, quando si sente Eluana tossire. È una strana e improvvisa tosse, l´infermiera accorre e dopo un «momento di stupore incredulo», aiuta Eluana a respirare: è piena di saliva. Com´era possibile? «Ripensai al mattino e finalmente capii a cosa servivano tutti i telini bianchi... Posizionati al lato della bocca di Eluana, servivano ad assorbire la saliva». Hanno dunque una spiegazione anche le piaghe alle orecchie della malata: «Sono dovute al fatto che veniva tenuta sul fianco per evitare che affogasse nella propria saliva, potevano anche dircelo, no?!».
Il giorno dopo le suore lecchesi inviano, attraverso i giornali, questo messaggio: «Accarezzare Eluana, osservare il suo respiro e ascoltare il battito del suo cuore». Hanno sempre avallato le ricostruzioni più demenziali, mentre l´autopsia rivelerà che i «polmoni stavano diventando di pietra e osso» per una rara malattia e che le zone della percezione erano lesionate e quindi non aveva alcuna relazione possibile con il mondo esterno.
Quello che più conta, in queste 250 pagine, non sono tanto le precisazioni nei confronti di una politica che non vuol sentire le cose come stanno, ma è il ripercorrere «dall´interno» una vicenda umana e clinica senza precedenti. Con il ricordo un altro ragazzo sfortunato, Roby Margutti, del tutto sconosciuto ai più. Nel 1990, a ventun anni, per un incidente era diventato tetraplegico. Per diciott´anni aveva vissuto con uno «stimolatore diaframmatico»: una dozzina di scosse al minuto gli permettevano di respirare. Dopo altre complicazioni, Roby per un po´ resistette alla grande, rifiutò le cure che non curavano. Amato De Monte ne ricorda le parole della madre: «"Vola libero mio tesoro" diceva al figlio morto, mentre lo baciava e piangeva».
Torna perciò in mente l´ultima telefonata di Amato a papà Beppino: «E je lade Bepino, tu le as liberade», «se n´è andata Beppino, l´hai liberata». Mentre, «a tutti noi - si legge - rimaneva il bagaglio indimenticabile» del confronto con Eluana: un bagaglio che ancora non si chiude.

Repubblica 8.5.10
A Villa Manin, vicino a Udine, una grande mostra celebra la famiglia di artisti Partiti dal figurativo, le strade poi si dividono: ma tra le opere resta un colloquio segreto
Afro, Dino e Mirko il dialogo di tre fratelli tra pittura e scultura

Quando si dice che l´arte è un vizio di famiglia. Il pittore e decoratore friulano Leo Basaldella quando scompare, nel 1918, lascia tre figli: Dino di nove anni, Mirko di otto, Afro appena di sei. Affidati alle cure degli zii Remo e Ivo, il primo orafo, il secondo pittore, diventeranno artisti. Tutti e tre. Come se il loro fosse un destino obbligato, una vocazione trasmessa con il sangue. Nascono a Udine, dove Dino resta quasi tutta la vita. Gli altri due scelgono di andar via, raggiungendo Roma: è qui che Afro si ferma fino alla morte avvenuta nel 1976 in un ospedale di Zurigo, dov´è ricoverato per un ictus. Mentre Mirko, nel 1957, parte per Cambridge, Massachusetts e, negli Stati Uniti, scompare nel 1969. È forse a causa del suo essere stanziale e non per la minore qualità delle opere, che Dino, morto a Udine nel 1977, è ancora oggi il meno celebre dei tre. Il più conosciuto, anche a livello internazionale, il solo che sceglie la suggestione del colore, è il pittore Afro. Mirko e Dino invece si incamminano lungo la via della materia, e della scultura.
Una mostra, intanto, li ha riportati tutti a casa. Proprio in provincia di Udine, a Passariano, nelle sale di Villa Manin, è allestita fino al 29 agosto l´esposizione I Basaldella, curata da Giuseppe Appella, Fabrizio D´Amico e Marco Goldin (catalogo Linea d´ombra), che indaga l´intrecciarsi del loro lavoro, gli stimoli reciproci, gli scarti, le differenze, la definizione di un linguaggio autonomo da quello degli altri. Che, tuttavia, un po´ per forza e un po´ per desiderio, finisce col farci i conti. In questo senso in mostra ci sono piccoli dialoghi sotterranei che rivelano il loro guardarsi, spiarsi, suggerirsi idee e soluzioni anche involontarie.
Tra le prime sale c´è un gioco di figure maschili distese che Afro dipinge nel 1936 (Ragazzo disteso) e Mirko e Dino scolpiscono quasi negli stessi anni (Narciso e L´assetato per il primo; il Pescatore d´anguilla per il secondo). Opere che sembrano davvero parlarsi tra loro. Siamo ancora in piena figurazione per i tre artisti che lentamente, insieme eppure separati, giungeranno a quegli esiti astratti con cui sono noti. La loro astrazione ha comunque come punto di partenza la memoria: di un fatto, di uno stato d´animo, di un mondo lontano nel tempo o nello spazio. Colpisce e quasi commuove l´ultimo Dino che inserisce il colore nei suoi ferri dolenti, perché quei rossi di sangue sembrano arrivare direttamente dalle tele di Afro.
Quando il pittore comincia a sfaccettare le immagini sull´onda di una fascinazione per il Cubismo che lui declina attraverso Braque e non Picasso, Mirko scarnifica i suoi personaggi come succede al leggendario Ettore, a cui sembra restato soltanto lo scheletro. Il pianeta della fortuna dipinto da Afro nel 1948 finisce così per sembrare la raffigurazione di un personaggio di Mirko colorato. Rientrato in una cornice, come se, all´interno di questa, potesse pacare l´aspetto dionisiaco della sua creazione. Dei tre, infatti, lo scultore che finirà i suoi giorni in America, è quello più convulso, il più inquieto. Segue una traiettoria discontinua, posseduto com´è da un ossessivo desiderio di sperimentazione. Guarda e fa suo un mondo di etruschi e sciamani, di maschere azteche e rilievi babilonesi, di divinità primitive e di eroi della Grecia, di idoli africani e di scomposizioni cubiste, di magia barocca e di antichi guerrieri, di foreste abitate da inconsci surrealisteggianti e di racconti frementi di materiali che pulsano. Come gli altri due, ha i suoi anni eroici, quelli della svolta, della conquista del proprio modo di sentire, nei Cinquanta che pullulano di ‘totem´ e di ‘chimere´.
Più lineare è il percorso intrapreso da Dino, affascinato da una realtà fatta di ingranaggi, macchinismi complessi che qui trovano la forza espressiva di un nuovo equilibrio. Le sue sculture ‘barbariche´ hanno la fierezza delle cose remote, di forme primordiali, come fossero grandi animali preistorici sopravvissuti, orgogliosi di esserci ancora. Camminando nella sala centrale della villa dove le sculture sono allestite una accanto all´altra, come alberi di un bosco, si ha la sensazione di attraversare qualcosa di vibrante.
Il polmone di Afro invece è il colore. E per lui, che ha studiato a Venezia, questo significa luce. Che rivela e smangia, come quella di Medardo Rosso, lo scultore tanto amato da Dino. I suoi esordi sono legati alla figura: volti maschili soprattutto, ma anche fiori morandiani e una Roma trasfigurata in cui le rovine antiche e le demolizioni fasciste sembrano specchiarsi: le prime sono ciò che il tempo ha conservato, le altre ciò che l´uomo decide di distruggere, ma per Afro il risultato non cambia. Nei suoi capolavori degli anni Cinquanta e Sessanta lo sguardo naviga in abissi di blu profondi e esplora rossi carichi di energia. Su tutto poi compaiono dei segni scuri, indimenticabili. Perché Afro è uno dei pochi artisti per cui il nero non fa rima con il buio, ma con il suo contrario. Attraverso i suoi neri luminosi si entra in un mondo di trasparenze, di velature, di visioni sognanti e sfocate, come se giungessero da un ricordo non ancora completamente riemerso. E da quell´indefinitezza così sicura, viene voglia di non uscire più.

venerdì 7 maggio 2010

l’Unità 7.4.10
Quei figli traditi dai padri mancati
Pedofilia Grazie a Dio tutto il mondo se ne sta occupando. Ma chi sono veramente gli uomini che molestano e abusano dei bambini? Adulti sessualmente immaturi che in modo perverso veicolano nel sesso il loro potere
di Vittorio Lingiardi
Ordinario di Psicopatologia a Roma

Psichiatria. Tra pedofilia e omosessualità non c’è alcun legame
Il genere conta poco. La seduzione è data dal controllo su un oggetto fiducioso
Lo psicoanalista Ferenczi. Un’estrema confusione tra i linguaggi di tenerezza e passione
Il trauma. Ogni volta che succede vuole dire che qualcuno ha chiuso gli occhi

Grazie a Dio tutto il mondo si sta occupando dei casi di molestie e abuso perpretrati da preti cattolici su bambini e adolescenti bisognosi e fiduciosi. Il tema, già difficilissimo per gli addetti ai lavori, ha sollevato dichiarazioni false, grossolane, crudeli o semplicemente strategiche. Con buona pace del Cardinale Bertone, tra pedofilia e omosessualità (laica o talare che sia) noi psichiatri non vediamo alcun legame (come dovremmo
chiamare chi abusa di bambine o ragazze?). La stessa definizione di pedofilia formulata dall’International Classification of Diseases («preferenza sessuale per soggetti in età prepuberale o puberale iniziale. Alcuni pedofili sono attrati solo dalle ragazze, altri solo dai ragazzi ed altri ancora da entrambi i sessi») verrebbe a cadere. In alcuni casi, inoltre, il genere della vittima conta poco, essendo il potere e il controllo su un oggetto fiducioso, più che le sue caratterstiche sessuali, a stimolare la seduzione, l’eccitazione e la predatorietà. Qualunque psicologo, psichiatra o assistente sociale, peraltro, sa che gli abusi sui minori avvengono per lo più all’interno della famiglia da parte di maschi adulti eterosessuali.
Per Hans Kung una delle principali cause del proliferare di condotte pedofile nella Chiesa va ricercata nel celibato. Non credo. Direi piuttosto che la personalità pedofila può trovare nella posizione ecclesiastica, e di conseguenza nel celibato, un habitat che consente un'identità sociale slegata da un’opzione sessuale esplicita e la possibilità di stare in intimità psichica e fisica con un pubblico giovane in attesa di educazione. Quell’educazione che un grumo di fiducia e tradimento può trasformare nella mala educación di cui, con intuito ed esperienza, ci ha raccontato Almodóvar. Agli occhi dell’adolescente sedotto, il sacerdote incarna l’autorevolezza e l’autorità del Padre. Il prete pedofilo (che spesso a sua volta ha una storia di abuso) è contemporaneamente l’adulto sessualmente immaturo che si proietta e identifica predatoriamente nel bambino o adolescente da sedurre, e l’adulto che sessualizza in modo perverso il potere insito nella sua funzione pedagogica e genitoriale. Il titolo di un saggio del 1932 dello psicoanalista ungherese Sandor Ferenczi aiuta a capire più di molti discorsi: Confusione delle lingue tra adulti e bambini. Il linguaggio della tenerezza e il linguaggio della passione. Sarebbe dunque più appropriato ragionare di «padri mancanti e figli traditi», all’interno di un tipo di relazione in cui l’adulto sfrutta a fini sessuali, spesso senza averne coscienza, il potere conferitogli dal suo status. La dinamica si protegge dall’interno e dall’esterno per mezzo di negazioni («non dire a nessuno cosa stiamo facendo», «questo è il nostro segreto») e razionalizzazioni («gli/le sto donando un’esperienza d’amore speciale»).
Chi conosce le dinamiche e gli effetti di un abuso sessuale subito nell’infanzia sa che la possibilità di condividerlo in un racconto fiducioso (e qui si gioca un grande passo della terapia) è uno degli elementi che possono aiutare l’elaborazione di un fatto di per sé inelaborabile. Dunque, almeno simbolicamente, il recente impegno all’ascolto preso da Ratzinger a Malta è un fatto, se non terapeutico, quantomeno in grado di promuovere sollievo psichico in alcune vittime. Ma chi è esperto di questa materia sa anche che i casi di vittimizzazione sessuale di un minore implicano quasi sempre tre posizioni soggettive tipiche: la vittima/ superstite, il perpetratore e lo spettatore silenzioso, che sa o percepisce che qualcosa non va, ma rimane in silenzio. Per dirla con la Frawley-O’Dea, una dei massimi esperti di trauma, «ogni volta che un minore subisce un abuso sessuale, vuol dire che qualcuno ha chiuso gli occhi». Dopo averli chiusi per anni, la Chiesa, travolta da uno scandalo senza precedenti, oggi è costretta ad aprirli. All’impegno preso dal Papa di «consegnare i responsabili alla giustizia», si affiancano manovre di attacco che dispiacciono. Vengono attaccati i media perché «ostili alla fede». Ma come si può condannare gli abusi e al tempo stesso stigmatizzare il sistema informativo che li ha rivelati al mondo? Vengono attaccati gli omosessuali, e in particolare i preti omosessuali. Ma che senso ha accanirsi, contro ogni evidenza scientifica, su soggetti incolpevoli, vulnerabili e già marginalizzati?
Non si tratta, come dice anche Mauro Pesce nella bella introduzione al volume Atti impuri. La piaga dell’abuso sessuale nella chiesa cattolica (Cortina, 2009), di essere cattolici o anticattolici, ma di analizzare in profondità un problema senza passare né per silenzi omertosi e terrificati, né per scorciatoie scandalistiche. Di studiare le radici di un fenomeno che non ha mai un singolo aspetto, ma che, nel triangolo «vittima-abusatore-spettatore silenzioso», raduna elementi storici, dottrinali e psicologici. Jung diceva che «qualsiasi realtà interiore che non viene portata alla coscienza, si manifesta all’esterno sotto forma di fato». Basterebbero le parole del Vangelo: «Guardatevi dal lievito dei farisei, che è l’ipocrisia. Non c’è nulla di nascosto che non sarà svelato, né di segreto che non sarà conosciuto. Pertanto ciò che avrete detto nelle tenebre, sarà udito in piena luce; e ciò che avrete detto all’orecchio nelle stanze più interne, sarà annunziato sui tetti».

il Fatto 7.5.10
Pedofilia, la colpa e il reato

Alcuni psicoanalisti hanno argomentato che anche un paziente in analisi è “minorenne” di fronte al terapeuta Se vi è un abuso, difficilmente potrà denunciarlo subito: è ambivalente come l’abusato bambino
di Luigi Zoja
psicoanalista junghiano e saggista

L a maggior parte dei crimini ha una delimitazione netta. Qualcuno ha preso un oggetto di nascosto? È un furto. Alcuni, però, hanno un confine variabile. È il caso dell’abuso sessuale, che varia col grado di consenso, col potere delle persone coinvolte e la loro età. Di più. Se anche un oggetto è stato rubato 20 o 30 anni fa, sia il proprietario sia il ladro sapevano che si trattava di un furto. La convinzione che un rapporto sessuale sia stato atto libero o abuso varia invece con la vita dell’abusato. Un bambino desidera sia abbracci sia dolciumi. Può lasciarsi sedurre. Crescendo, potrà capire due cose. Innanzitutto quell’adulto, che dava a lui cibo e affetto, in realtà prendeva per sé. Secondariamente, quel rapporto era molto asimmetrico: più che di amore, fatto di potere. Ancora più ovvia è la variabilità storica dell’abuso. La definizione di furto cambia poco nei millenni. Invece, fino alla seconda metà del secolo XIX in certi paesi esisteva la schiavitù: il rapporto sessuale del padrone con una schiava – oggi un abuso – era uso. Lo schiavo, infatti, era proprietà. Le differenze non finiscono qui. Per non essere abuso, un rapporto sessuale deve anche tener conto della mentalità prevalente: e quella verso i reati sessuali è molto cambiata nell’ultimo mezzo secolo.
I religiosi e i bambini
Gli abusi commessi da religiosi, di cui oggi si discute, sono prevalentemente omosessuali e su minorenni. Negli Stati Uniti l’omosessualità era definita malattia mentale fino al 1973. Oggi è sempre meno rilevante che le attività sessuali siano omo o eterosessuali, se avvengono fra adulti consenzienti. Viceversa, si presta molta attenzione all’età: oggi gli studi psicoanalitici dicono che costringere i minori ad attività sessuali è traumatico. La loro gravità si dimostra da sola, col tempo. È un vero contagio psichico: se scaviamo nel passato di un abusatore, quasi sempre scopriamo che egli è stato a sua volta abusato nell’infanzia. Questo ha conseguenze paradossali. Da un lato è una seria attenuante per il colpevole, che in origine è stato vittima non responsabile. Dall’altro, richiede una particolare severità perché il male può perpetuarsi attraverso le generazioni, come una maledizione nella tragedia greca. In ogni caso, oggi si considera che grave sia la violenza psichica compiuta su una mente impreparata, non il tipo di sessualità in sé (in altre parole: il delitto è compiuto contro una persona, non contro il “buon costume”).
Il caso Polanski
Consideriamo un esempio noto. Nel 1977, il regista Polanski comparve di fronte a un tribunale di Los Angeles per reati sessuali su una minore. All’inizio del 1978 fuggì in Francia. Oltre 30 anni dopo è stato fermato dalle autorità svizzere su mandato di cattura americano. Malgrado gli Stati Uniti siano tradizionalmente severi, nel processo del 1978 si era quasi raggiunto un accordo senza pene detentive: l’imputato accettava l’accusa di stupro, ma le altre venivano cancellate (tra cui quella di sodomia, che allora in America era un grave reato punibile in sé, indipendentemente da consenso ed età dei coinvolti). Persino la madre della ragazza sapeva dove lei si trovava quella sera, e si era offerta di venirla a prendere. È come se nel ‘78 la pedofilia fosse ancora tollerata, similmente all’antica Grecia, ma molto fosse poi cambiato in tre decenni. Oggi la posizione dell’imputato è molto più grave. Non solo scappando si è trasformato in un ricercato: oggi l’età della ragazza (13 anni) e il fatto che Polanski le avesse dato psicofarmaci ed alcool sono valutati molto più severamente che negli anni ‘70.
Gli aspetti sfuggenti
Ma gli abusi sessuali che riguardano oggi la Chiesa cattolica hanno anche un altro aspetto sfuggente. Quello che per la legge è un reato, interessa invece la Chiesa come colpa. Naturalmente, nel moderno Stato laico la Chiesa dovrebbe essere solo una delle tante istituzioni, tenuta a rispettare le leggi come tutti. Ma i criteri morali hanno la tendenza a rimanere per secoli immobili nell’inconscio collettivo: finché non giungono cataclismi di cui è inevitabile prendere atto e che sconvolgono la coscienza della società. È solo in parte vero che la Chiesa non ha voluto accorgersi degli abusi: piuttosto, ha seguitato a trattarli come colpe morali. E mentre la soluzione di un reato si ha con la condanna giuridica, quella della colpa si ha con il perdono. Anche da una prospettiva psicoanalitica le connessioni dei fatti nel tempo hanno rilievo per valutare le responsabilità. Nella vicenda di Polanski si dovrebbe considerare che egli, bambino ebreo, era sopravvissuto da vagabondo nella Polonia occupata dai nazisti. Nella sua biografia, il regista non specifica con quali espedienti: ma la vita stessa di un piccolo, solo in quelle circostanze, non era già violenza e abuso? Vittima da
bambino, l’adulto famoso si è trasformato nel carnefice di una bambina. Oggi, comunque, non è irrilevante che questa, divenuta maggiorenne, lo ha perdonato, chiedendo che le accuse vengano lasciate cadere. Torniamo alla Chiesa. Proprio nel perdono essa è stata manchevole. Ha concesso assoluzioni direttamente al suo interno. (In casi anche clamorosi, come quello di Padre Maciel – fondatore dei potenti Legionari di Cristo – ha invece castigato: la sostanza autocratica, però, non cambia). Sarebbe invece prioritario coinvolgere le vittime nella riconciliazione. In un mondo che dà ormai per scontati i diritti individuali laici, si sono così formate associazioni di vittime furenti. Queste non chiedono solo punizioni: vogliono che la Chiesa renda conto anche fuori delle sue strutture.
L’abuso nelle terapie
La storia della psicanalisi avrebbe qui qualcosa da insegnare. Nelle prime generazioni, diverse terapie si sono risolte in forme di abuso (gli analisti eran prevalentemente uomini e le pazienti donne). Come la Chiesa, le società analitiche hanno cercato di affrontare questi problemi con procedure interne. Come nella Chiesa, questa modalità ha due aspetti: da un lato, ha permesso che la estrema delicatezza delle rispettive materie (l’educazione religiosa e il processo psicanalitico) non venisse affidata a un apparato giuridico impersonale e impreparato. Dall’altro, sia gli analisti sia il clero hanno certamente seguito questa pista anche per proteggersi dallo scandalo pubblico. Si sono studiate forme di riconciliazione, di indennizzo e si sono messi in discussione i tempi di prescrizione. In qualunque campo, infatti, esistono dei tempi limite per chiedere la punizione di un crimine. Per l’abuso su minori i tempi sono più lunghi: bisogna attendere la loro maggiore età. Per un bambino abusato a dieci anni, solo dai suoi 18 anni si cominciano a contare gli anni per la prescrizione. Alcuni psicoanalisti hanno argomentato che anche un paziente in analisi è, per diversi aspetti, “minorenne” di fronte all’analista. Se vi è un abuso, difficilmente potrà denunciarlo subito: è ambivalente come l’abusato bambino. Spesso cercherà, con fatica, un altro analista, tentando di nuovo il percorso psicologico. Solo al suo compimento, tornato in ogni senso “maggiorenne”, potrà decidere se denunciare il trasgressore. Le vittime dei religiosi sono spesso doppiamente “minorenni”: lo sono per età, ma sono anche persone educate a non metter in discussione l’autorità del clero. Oggi sembra che anche la Chiesa stia finalmente pensando a una graduale riconciliazione con le vittime, simile a quella necessaria per gli abusi psicoterapeutici. Lo suggerisce (Süddeutsche Zeitung 23/4/10) l’arcivescovo di Monaco successore di Ratzinger: Reinhard Marx, intellettuale progressista come il lontano cugino Karl. L’analogia con la psicoanalisi non sta solo nell’origine, ma anche nella soluzione del problema. Le vittime potrebbero ritrovare fiducia in sé attraverso un nuovo rapporto con un religioso non abusante; o con uno psicoanalista, pagato dalla istituzione religiosa.
Anche ammettendo che questo abbia successo, rimarrà comunque un problema non risolvibile a priori. Torniamo alla “trasgressione” analitica. L’analisi che Sabine Spielrein compì con Carl Gustav Jung è forse il più clamoroso esempio di rapporto che divenne intimo (non è sicuro se fu anche sessuale) in una maniera oggi inaccettabile. Ma quell’analisi, ormai oggetto di studi infiniti, fu probabilmente anche l’esempio più clamoroso e rapido di guarigione analitica mai visto. Riflettiamo sul motivo.
Dopo gli scandali avvenuti nei collegi religiosi in Germania è stato ricordato (H-E Tenorth, Die Welt 12/3/10; Adolf Muschg, Tagesspiegel 15/3/10; Daniel Cohn-Bendit, Die Zeit 10/3/10) che il modello più alto di insegnamento, quello dell’antica Grecia, includeva la sessualità. Altri (Micha Brumlik, Neue Zürcher Zeitung 14/4/10) hanno precisato che, proprio come oggi, anche allora la vittima di abuso soffriva.
Tra insegnante e allievo
Proviamo a sintetizzare. Il rapporto più ricco tra insegnante e allievo comporta una passione, non troppo diversamente da quello tra paziente e psicoterapeuta. Questa passionalità può anche esser chiamata eros. Non è, però, identica a sessualità: proprio nel dialogo di Platone che definisce l’eros, il Simposio, Alcibiade spiega che ammira Socrate perché è stato il migliore dei maestri senza cadere nella intimità sessuale (allora ampiamente accettata).
Anche oggi il problema è questo. Nessuno dubita che si debba stroncare l’abuso. Molti temono però che, vietando rigidamente emotività e contatti fisici, il docente diventi un soggetto freddo, meccanico, anerotico. Si tratta di una semplificazione eccessiva: spesso gli abusatori sono proprio soggetti poco affettivi, che cercano inconsciamente di superare il loro limite attraverso l’intimità. L’insegnamento – moderno amore conoscitivo – è una passione distinta dalla sessualità. Dopo quella tra insegnamento e psicanalisi, permettiamoci un’ultima analogia, con la letteratura. Anche secondo Dante e Petrarca per il poeta lo scopo dell’amore non era il possesso della persona amata, ma l’elevazione di quella che ama.

Corriere della Sera 7.5.10
Libertà sessale e pedofilia, un dibattito degli anni 70
risponde Sergio Romano
qui
http://www.scribd.com/doc/31030488/Corriere-Della-Sera-LIBERTA-SESSUALE-E-PEDOFILIA-UNDIBATTITO-DEGLI-ANNI-70-7-mag-2010-Page-51

Repubblica 7.5.10
I migranti preferiscono il centrosinistra ma quelli dell´Est guardano a destra
Dossier Ismu sui nuovi italiani: i filippini i più desiderosi di recarsi alle urne, i cinesi invece i meno motivati
di Vladimiro Polchi

ROMA Se potessero, gli immigrati voterebbero centrosinistra. Il loro identikit? Uomini, africani, residenti in Italia da molti anni, con un basso reddito. A destra, guardano invece soprattutto le donne, provenienti dall´Est Europa, cristiane e con redditi medio alti.
A fotografare gli orientamenti di voto dei "nuovi italiani" è un´indagine dell´Osservatorio regionale per l´integrazione e la multietnicità (Orim), svolta dalla fondazione Ismu. La ricerca raccoglie le opinioni di 9mila immigrati rappresentativi della popolazione straniera ultraquattordicenne, provenienti dai Paesi a forte pressione migratoria e presenti a qualunque titolo nel territorio lombardo.
Cosa ne emerge? «Nel 2009 – spiega il professore Gian Carlo Blangiardo, ricercatore dell´Ismu – il 59,8% degli immigrati si è dichiarato interessato a partecipare alle elezioni. Le donne sono generalmente le meno partecipi». A mettersi in fila davanti alle urne sarebbero per primi i filippini (74%), seguiti da romeni (64%), marocchini (63%) e senegalesi (62%). I meno interessati al voto? Ucraini (43%) e soprattutto cinesi (solo il 30% di loro si recherebbe ai seggi). Molto dipende anche dagli anni di residenza: è interessato al voto il 71,3% di chi è in Italia da oltre dieci anni e solo il 47,3% di quanti sono arrivati da meno di due anni. E ancora: parteciperebbe alle elezioni l´84,2% di chi ha la cittadinanza italiana e il 67,6% dei titolari di carta di soggiorno. Percentuali che scendono al 56-57% per chi ha solo il permesso di soggiorno, calano al di sotto del 50% per chi non ha attualmente i documenti in regola e raggiungono appena il 40% per chi non li ha mai avuti.
Ma come voterebbero gli immigrati? Ben il 42,1% sceglierebbe la sinistra, contro il 28,8% che si dichiara di destra (il resto non ha chiari orientamenti di voto). A votare per il centrosinistra sono per lo più uomini (45,2% rispetto al 38,1% di donne), provenienti da Senegal (67,6%), Costa d´Avorio (56%) e Marocco (55,7%). Di destra si dichiarano in maggioranza i brasiliani (50,7%), i romeni (46,7%) e gli ucraini (41,5%). Tra le 19 principali nazionalità d´origine dei flussi migratori, in 14 prevale comunque l´orientamento a sinistra, solo in tre quello di destra.
Insomma, se gli extracomunitari voterebbero in gran parte a sinistra, va rilevato che i neocomunitari (che già possono votare alle elezioni amministrative) preferirebbero invece la destra. E tra questi soprattutto i romeni, forti delle loro primato: 800mila presenze in Italia, su 4.5 milioni di immigrati residenti.
E ancora: l´orientamento a sinistra è più marcato tra gli irregolari, tra chi non ha alcun titolo di studio, tra musulmani e copti, tra disoccupati e studenti lavoratori. A destra sono orientati soprattutto imprenditori, ortodossi o evangelici, e chi guadagna mensilmente almeno 2.500 euro netti.
Voterebbero, infine, a sinistra gli immigrati di lungo corso: la maggioranza di quelli che risiedono in Italia da almeno 10 anni.

Repubblica 7.5.10
Eugenio Scalfari. Viaggio nella modernità
di Alberto Asor Rosa

L´antecedente immediato di quest´ultimo libro di Eugenio Scalfari, Per l´alto mare aperto (Einaudi, pagg. 281, euro 19,50), è Incontro con io (Rizzoli, 1994). Immediato? Sono passati sedici anni, come si vede, fra l´uno e l´altro, e nel frattempo Scalfari ha pubblicato quello che definirei un romanzo allegorico, La ruga sulla fronte (Rizzoli, 2001) e quella che definirei un´autobiografia filosofica, L´uomo che non credeva in Dio (Einaudi, 2008), oltre, s´intende, vari altri testi di carattere più decisamente politicoeconomico ed impegnato. Immediato in che senso, allora? Nel senso che Incontro con io segna il punto di partenza di un lungo percorso (tornerò su questo termine) che l´Autore ha deciso non da ora di compiere attraverso la cultura della modernità, passando però, e via via sempre più instancabilmente, attraverso se stesso, attraverso «io».
Questo percorso raggiunge il suo culmine (per ora) in Per l´alto mare aperto. Il catalogo degli autori che Scalfari chiama a raccolta per sostenere la propria idea di modernità si è fatto sempre più vasto e comprensivo: da Montaigne a Pascal, da Diderot a Tocqueville, da Cartesio a Kant, da Spinoza a Marx, da Leopardi a Baudelaire, da Dostoevskij a Tolstoij, da Rilke a Kafka a Proust, da Freud a Nietzsche, le varie «cime» (raramente tranquille, più spesso tempestose) della modernità sono scalate dal nostro Autore con straordinaria agilità e incredibile capacità comunicativa (che però non diviene mai volgarizzazione pura e semplice). Però, al tempo stesso, si è fatta sempre più vasta e comprensiva la problematica dell´«io» che filtra, deposita, organizza, dà «senso» (espressione scalfariana), sistematizza i materiali che mette (o rimette) a disposizione del lettore. Al centro del libro, dunque, non sta, puramente o semplicemente, la cultura della modernità, come Scalfari la intende. Ma c´è Scalfari come sperimenta, vive, modifica, vivendola, la cultura della modernità nell´atto d´intenderla. Se si perde di vista questo doppio passaggio, c´è il rischio di perdere di vista il senso assai complesso dell´intero libro.
Poiché non posso parlare di tutto, dirò solo di due cose, che però a me sembrano essenziali (con un corollario finale). La prima riguarda la «forma del libro» (che per me è essenziale per capire «cos´è il libro»). Dicevo all´inizio: «percorso». Sarebbe più esatto dire: «viaggio». Scrive Scalfari: «Il viaggio è la nostra dimensione naturale, posto che viviamo immersi nel tempo e nello spazio». Ma: «Quando quel percorso si svolge dentro di noi, allora le scoperte e le avventure, le persone e i fantasmi sono ancora più sconvolgenti perché è la nostra storia che andiamo ricostruendo...». Il fatto che si tratti in ambedue i casi di citazioni da Incontro con io ribadisce la linea di continuità di cui parlavamo in partenza. Infatti, in Per l´alto mare aperto: «L´Intelligenza che viaggia nel mondo sempre in lotta con la stupidità. Un viaggio difficile, contrastato, un viaggio per spiriti liberi...». Più esplicitamente ancora: «Continuando questo mio viaggio...».
La forma del viaggio comporta in Scalfari un recupero dantesco (Diderot = Virgilio) e uno omerico-dantesco: Ulisse, inteso come «mito» primigenio cui ancorare solidamente la modernità. Comporta una ricostruzione del tessuto culturale, ideale, filosofico, letterario della modernità, con le sue tappe, i suoi crocicchi, i suoi incontri e scontri, ma anche, come ogni viaggio che si rispetti, i suoi ritorni all´indietro, quando risulta necessario. Ma comporta anche, e su questo aspetto io vorrei attirare di più l´attenzione, forse perché meno visibile, un´esplorazione à rebours del proprio passato da parte dell´Autore, fino alle insondabili profondità infantili, in cui un certo interesse, una certa pulsione sono germinati, per fondersi più avanti con le letture dell´adolescenza, della giovinezza, della maturità e... della vecchiaia. È la forma del viaggio, sostengo, che dà a questo libro, pur denso nei suoi contenuti, la sua piacevolezza, il suo fascino discorsivo, la sua capacità di comunicazione con il lettore, che ne segue, persino divertito, lo scorrevole andamento.
La seconda osservazione riguarda il catalogo. Chiunque si sia azzardato a proporre un «canone» (nessuno meglio di me può saperlo), si espone al rischio del famoso (e del tutto ozioso) gioco delle «sottrazioni» e delle «aggiunte». Non di questo intendo parlare. Vorrei invece dire la mia, troppo brevemente, me ne rendo conto, sull´idea di modernità che quel canone esprime. Io la riassumerei in questo modo: la modernità è un pensiero forte, che, a partire da una fiducia illimitata nella Ragione, man mano che si misura rigorosamente (e in mille straordinari modi) con il filtro dell´«io», del soggetto dichiarato e risolutamente monocentrato, perde i suoi fondamenti iniziali, si sfalda, trova nuove forme e, nelle nuove forme, dissolve ogni contatto persino con un residuo di Assoluto. Per questo il canone, pur rimanendo ancorato all´Illuminismo-Diderot, comincia di fatto con Montaigne e finisce con Nietzsche. Il relativismo, s´intende, ne rappresenta l´approdo finale. Ma se non è un gioco di parole un relativismo che resta anch´esso solidamente razionale e non perde mai i suoi rapporti con l´umano. E cioè un relativismo che non disintegra né immiserisce i valori, ma, spero che neanche questo sia un gioco di parole, li relativizza, riconoscendone intelligentemente la presenza e l´opportunità (ma anche i limiti) all´interno dell´agire storico-umano.
Questo modo di procedere, che è al tempo stesso contemplativo e lucidamente razionale, introspettivo e storico-critico produce una vera e propria mappatura del pensiero moderno, che andrebbe esaminata punto per punto, nei suoi accostamenti, non sempre scontati, e nelle singole figure che li compongono e rappresentano.
Confesso che uno dei capitoli che mi ha colpito di più, per comprensibili motivi personali, è quello dedicato a Karl Marx. Si chiede Scalfari in esordio, e lo chiede ai suoi lettori (riprendendo fra l´altro un topos sul quale noi ci siamo già soffermati): «Sapevamo, non è vero? Che in questo nostro viaggio uno degli incontri più significativi sarebbe stato questo [con Marx]». Be´, io non lo sapevo: non nel senso che io non sia incline ad attribuire a Marx il ruolo nel percorso storico della modernità che Scalfari gli attribuisce: ma nel senso che non avrei pensato che Scalfari, intellettuale della più specchiata tradizione liberaldemocratica, fosse disposto a farlo, e in questa misura. Arrovesciando totalmente il Marx sostenitore della dittatura del proletariato nel Marx critico e analista della società capitalistica, Scalfari finisce brillantemente per collocarlo fra i teorizzatori dello Stato centralizzato ed autonomo e al tempo stesso (ma non contraddittoriamente) della società civile intesa come luogo in cui l´individuo esercita in modo privilegiato la propria libertà. Se mai, un lettore incontentabile potrebbe osservare che fra i testi fondativi dell´imperitura modernità marxiana, accanto al Capitale, si potrebbero annoverare, e persino con qualche motivazione in più, gli Scritti filosofici giovanili e i Grundrisse: ma il baricentro del ragionamento non cambierebbe certo granché.
Come tutto questo poi si ricolleghi più in generale all´esperienza pubblica e alla figura politico-intellettuale di Eugenio Scalfari (un altro tratto del viaggio da tener presente), un lettore normale non dovrebbe far fatica a capirlo.
Il corollario è che, secondo Scalfari, la modernità è cominciata, c´è stata ma è anche finita. Intorno a noi i nostri contemporanei sono i nostri posteri e i nostri posteri sono i nuovi barbari. È un pensiero con cui mi sono anch´io recentemente confrontato, ed è io credo il pensiero di una generazione e di una storia. Fin dove arrivano questa generazione (forse una multi-generazione) e questa storia (forse più storie, molte storie diverse)? La cultura della modernità dovrebbe fare un ultimo sforzo: capire più esattamente dove la frattura si è verificata e perché, dove le generazioni e le storie più esattamente sono rientrate nella barbarie. La modernità ha un debito aperto con la contemporaneità: bisognerebbe pensarci molto seriamente. Intanto Scalfari ha fatto molto più che la sua parte. Mi è accaduto molto recentemente di sentirlo parlare ad un folto pubblico di giovani e di rimanere stupito, da vecchio docente, della corrente di comprensione, di simpatia, anzi di vera e propria complicità che correva fra loro al di sopra di un abisso di quasi settant´anni e di centinaia di migliaia di esperienze diverse: segno, penso, che i fili non sono del tutto spezzati e forse si possono ancora riallacciare.

Corriere della Sera 7.5.10
Ascesa e crisi della modernità
Il nuovo saggio di Eugenio Scalfari dagli illuministi a Nietzsche
di Cesare Segre
qui

Repubblica 7.5.10
Quel mondo perduto tra Nietzsche ePproust
Ad essere indicato come terminale di una svolta nel modo di trattare le grandi questioni filosofiche è il pensatore tedesco
di Antonio Gnoli

L´intreccio tra modernità e filosofia è una delle componenti su cui più forte è stata la riflessione negli ultimi anni. Figure come Habermas e Blumenberg hanno costruito una linea di difesa del moderno contro gli attacchi provenienti da quegli autori, in particolare Lyotard, Derrida, Baudrillard, che ne avevano con ragioni diverse, decretato la fine. Una lunga battaglia si è svolta tra chi nel moderno ha colto i motivi ancora validi di un pensiero in grado di confermare quanto da Descartes in poi la ragione umana aveva, pur tra incertezze e dubbi, costruito nei più diversi campi: dalle scienze alla società, dall´arte alla politica, dalla religione alla vita. E coloro che, avendone colto l´esaurirsi della spinta propulsiva, ne hanno denunciato il carattere autoritario e violento. È su questo sfondo conflittuale che ho letto il nuovo libro di Scalfari, la cui forza risiede nel volersi ritagliare una posizione terza che è tanto più interessante in quanto tiene conto di entrambe le sensibilità.
La modernità, avverte Scalfari, dura grosso modo quattrocento anni. In questo arco di tempo cambia il nostro rapporto con la scienza, la politica, l´economia, l´arte, la religione. È un´epoca densa di rivolgimenti nella quale declina la metafisica. Non è di questo che la filosofia si è occupata fino a quel momento? E che cosa, da questo punto in poi, ci riserverà? Tra i filosofi, che meglio hanno segnato il mondo moderno, Scalfari ne individua quattro: Descartes, Spinoza, Kant e Hegel. Non furono meno moderni, ci avverte l´autore, Hobbes, Leibniz e Hume. Ma in quelli che ha eletto a rappresentanti della modernità, ne coglie la grandiosità del disegno, la forza persuasiva del sistema, la problematicizzazione della trascendenza e dunque il diverso posto che assegnano a Dio.
Sono pagine di grande chiarezza che Scalfari dedica a questa sorta di rivoluzione filosofica che ha alle spalle un padre tanto autorevole quanto appartato: Michel de Montaigne. È lui la vera icona della modernità che, nel chiuso del suo castello, descrive negli Essais un mondo completamente nuovo: mosso, mutevole, apprezzabile e molto più grande di quanto non immagini la vecchia metafisica. Sarà quella visione relativa delle cose, osserva Scalfari, a incantare prima Diderot e poi lo stesso Goethe. Nei confronti dell´artefice dell´Encyclopedie Scalfari prova una vera attrazione. Diderot è il più inquieto tra gli illuministi. Ama le donne di spirito, combatte il potere dall´interno del potere, realizza straordinarie imprese editoriali, scrive romanzi che tutta l´Europa leggerà, si professa ateo coerente e spregiudicato. Cosa c´è, dunque, di più moderno di una tale sensibilità duttile, provocatoria, capace di mettere alla prova la ragione e dare un senso all´azione? Quella modernità che ebbe inizio con Montaigne, si conclude con Nietzsche: "L´ultimo gioco intellettuale, l´ultima playstation è Nietzsche", scrive con un´immagine efficace Scalfari.
Se la modernità ci ha insegnato a viaggiare e a relativizzare il conosciuto, se ha messo in discussione, senza tuttavia cancellarlo, il rapporto con Dio, se ha rivisto la relazione tra politica e morale, se ha assegnato all´economia un ruolo che prima non aveva e alla ragione umana un posto di tutto rispetto, se ha alimentato il dubbio e la tolleranza, se ha sottoposto la verità al controllo sperimentale, se ha dato forza al presente e al futuro, allora in che senso Nietzsche metterebbe fine a tutto questo?
Già col precedente libro Scalfari insisteva sul ruolo che l´autore dello Zarathustra aveva svolto nell´ambito della modernità. Ma si ha l´impressione che il nuovo lavoro indichi una svolta nel modo di pensare le grandi questioni filosofiche di cui Nietzsche è il terminale. «Nel mio libro L´uomo che non credeva in Dio», scrive Scalfari, «ho parlato a lungo di Nietzsche e ho creduto di capire che il suo pensiero si rifaceva al "tutto scorre nulla permane" eracliteo... Ma poi tornando a riflettere su quelle pagine, mi è sembrato che il "tutto scorre" non sia il solo principio al quale si ispira la concezione filosofica di Nietzsche. Il suo pensiero è molto più complesso e il divenire per lui rappresenta la modalità dell´essere». Con questa nuova consapevolezza si aprono questioni non marginali. La prima delle quali ci pare riconducibile a una sorta di paradossale accostamento tra Nietzsche e Montaigne. E se dunque uno, capovolgendo il sistema dei valori, chiude la modernità, l´altro - con il suo relativismo - la condanna fin dall´inizio.
C´è una seconda questione che richiama sia il rapporto di Nietzsche con la metafisica, sia il modo in cui Heidegger interpreta questa relazione. Scalfari gli dedica alcune pagine. E se capisco bene lo svolgersi del ragionamento scalfariano, Heidegger restituisce un´interpretazione "malandrina" di Nietzsche, perché occulta la soggettività del proprio sguardo. In altre parole il limite di Heidegger risiederebbe nel fatto di non dichiarare che la sua interpretazione di Nietzsche non è l´unica. Peccando così di una slealtà interpretativa tanto più grave, osserva Scalfari, in quanto «l´intera ermeneutica nicciana si basa su questo delicato rapporto tra la soggettività dell´interprete e l´oggettività della cosa interpretata». Ma è proprio questa l´accusa che Heidegger muove a tutta la tradizione della metafisica occidentale (compreso Nietzsche che fallisce nel suo tentativo di uscirne): aver posto soggetto e oggetto (diciamolo un po´ alla buona) uno di fronte all´altro. Dell´autore di Essere e Tempo si possono dire molte cose, ma non che egli abbia voluto restaurare una qualche forma di metafisica.
Il libro di Scalfari si avvale di una sensibilità che lo spinge a indagare i vari livelli in cui la modernità si è resa manifesta: da quello filosofico, come si è visto, a quello letterario. Sul quale ancora una volta mostra le sue preferenze: Proust e Rilke, su tutti gli altri. È un altro modo per discendere le scale del moderno e vedere cosa si nasconde ancora nelle sue cantine. Verrebbe a questo punto voglia di chiedere: se il moderno è finito, da quale luogo noi continueremo a pensare e a parlare? Scalfari è consapevole che qualcosa di fondamentale si è rotto e, a quanto pare, non più rimediabile. Egli fiuta l´aria del nuovo che ancora non c´è, ma che irresistibile giungerà. È il destino delle epoche di aprirsi e chiudersi. Noi, moderni viviamo il paradosso, sembra dirci Scalfari, di essere dentro e fuori da quel mondo. È il nostro lungo declino, in attesa che i nuovi barbari vengano legittimati.