lunedì 17 maggio 2010

Repubblica 17.5.10
Il salone dei record
Pubblico e vendite tutti in fila per i libri-star
A Torino crescono le presenze: "Battuta la crisi"

TORINO - Il Salone internazionale del Libro, capitolo 2010, si appresta a chiudere i battenti nel segno dei record e volge la prua verso il 2011, quando si celebrerà la memoria e il futuro dell´Italia, in occasione dei 150 anni dell´unità nazionale. I numeri, certo, li danno gli organizzatori, e di questi bisogna necessariamente fidarsi.
Si traducono in un aumento di pubblico, a ogni modo, che rispetto all´edizione dell´anno scorso dovrebbe toccare il 20 0 30 per cento in più. Significa oltre 310-320 mila biglietti staccati, che dovrebbero emulare o superare la Librolandia finora ritenuta migliore, quella del 2006. Basti dire che, nella sola giornata di sabato, si sarebbe registrata una crescita di presenze del 30 per cento. Sono andate bene pure le vendite di libri, gli editori sono contenti e si parla di un 20 o 30 per cento in più in confronto a quelle del 2009. Felici poi i promotori dell´International Book Forum, dove si scambiano diritti editoriali e audiovisivi: 3 mila e rotti contatti quotidiani e 7500 incontri, ossia 1500 in più se si paragonano con le cifre dell´anno scorso.
Le polemiche non sono mancate, soprattutto quelle innescate dall´appello degli editori italiani contro il disegno di legge sulle intercettazioni. Pochissimi esponenti del mondo politico al Lingotto. Era atteso il figlio di Bossi, non è venuto. Si vociferava dei ministri Bondi e Tremonti, ma non sono visti. Soltanto un ministro, pertanto, cioè Sacconi, e il sottosegretario Giro. Era anche il primo salone ai tempi della Lega, che governa il Piemonte. Tuttavia lo sbarco padano è stato contenuto, quasi in punta di piedi. Si vedrà che cosa accadrà nel fatidico 2011. Il paese ospite d´onore sarà proprio l´Italia, che dovrebbe avere un padiglione nuovo tutto per sé, l´"oval". Sarà di scena anche la Russia e probabilmente la Slovacchia. Un ostacolo potrebbe venire però dalla nuova giunta regionale piemontese a guida leghista, che ha già annunciato di voler procedere a drastici tagli nei finanziamenti alla cultura: si parla di 34 milioni di euro in meno. Non si sa finora se riguarderanno la Fiera del Libro proprio nella sua edizione dedicata all´Unità d´Italia.
Resta il fatto che Rolando Picchioni, timoniere della fiera insieme a Ernesto Ferrero, non nasconde la sua felicità: «Siamo il solo Salone del Libro in controtendenza: gli altri, in Europa, a cominciare da quello di Parigi, patiscono la crisi, mentre per noi crescono presenze e vendite».
(m.n.)

l’Unità 17.5.10
La denuncia di Hrw: immagini satellitari e video documentano distruzioni massicce senza motivi militari: «Ora i responsabili paghino»
Gaza, la vendetta israeliana: ridotte in macerie le case palestinesi
di Umberto De Giovannangeli

l’Unità 17.5.10
Nella Striscia ormai c’è uno Stato dell’apartheid»
di U. D. G.
qui
http://www.scribd.com/documents/31468841/l-Unita-17-5-10-pp-22-23

Repubblica 17.5.10
Azione civica contro il bavaglio
di Stefano Rodotà

Nessun sistema democratico, per malandato che sia, può fare a meno di una opinione pubblica informata, consapevole, reattiva. Altrimenti si scivola verso la democrazia d´investitura, si trasforma il popolo in "carne da sondaggio".
E torna d´attualità la critica di Jean-Jacques Rousseau: «Il popolo inglese crede d´essere libero, s´inganna, non lo è che durante l´elezione dei membri del Parlamento; non appena questi sono stati eletti, esso diventa schiavo, non è più nulla». Dobbiamo malinconicamente constatare che nell´Italia di oggi anche quella libertà elettorale è stata sequestrata, visto che la "legge porcata" ha trasferito alle oligarchie dei partiti quella scelta dei parlamentari che dovrebbe essere nelle mani degli elettori?
A temperare questo pessimismo sono intervenuti nelle ultime settimane alcuni fatti che mostrano un risveglio dell´opinione pubblica e i nuovi modi in cui essa si organizza e si manifesta. Decine di migliaia di persone sostengono un appello contro "la legge bavaglio" su intercettazioni e divieto di pubblicazione di atti giudiziari. In poco più di tre settimane si è vicini al traguardo del mezzo milione di firme necessarie per il referendum sull´acqua come bene comune. Le dimissioni del ministro Scajola non sarebbero venute senza una reazione popolare, così forte che qualche giornale ha dichiarato d´aver abbandonato la difesa del ministro tante erano state le proteste dei lettori. Ed è significativo che un uomo con orecchio assai sensibile ai rumori provenienti dalla società, Silvio Berlusconi, abbia mutato strategia e dichiari che non vi sarà «nessuna indulgenza e impunità per chi ha sbagliato», senza trincerarsi dietro l´abituale argomento dell´aggressione giudiziaria e del complotto mediatico. Questi fatti suggeriscono quattro considerazioni di carattere generale.
1) Improvvisamente è stata riscoperta la responsabilità politica. Era scomparsa da decenni, con l´argomento che i politici dovevano farsi da parte solo quando sul loro conto vi fosse stato un accertamento giudiziario, possibilmente definitivo. Questo era diventato lo scudo protettivo di schiere di politici. Proprio il caso Scajola, invece, ha messo in evidenza che esistono comportamenti che, pur non avendo rilevanza penale, sono incompatibili con funzioni pubbliche. Conclusione ovvia in altri paesi, ma che in Italia aveva guadagnato l´accusa di moralismo a chi la ricordava e aveva spinto ad arrampicarsi sugli specchi con distinzioni tra reato e peccato. Ora le cose sembrano tornate ad essere chiare. La responsabilità politica è diversa da quella penale, e dovrebbe essere interesse proprio del ceto politico farla valere, per riguadagnare credito presso l´opinione pubblica e non lasciare alla magistratura il ruolo di giudice unico della legittimità della politica.
2) Per evitare, però, che il caso Scajola rimanga una eccezione, è indispensabile salvaguardare le condizioni che hanno reso possibile il ritorno della responsabilità politica: la trasparenza, l´informazione libera. Non ripeteremo mai abbastanza che nulla si sarebbe saputo delle fortune immobiliari di Scajola se fosse stata in vigore la legge che la maggioranza vuol fare approvare. Di questo è divenuta consapevole una opinione pubblica larga, che aderisce ad appelli, si organizza in rete, si manifesta nelle posizioni di magistrati, giornalisti, editori. E questa reazione mette in luce la contraddizione in cui s´impigliano maggioranza e Berlusconi: si parla di una legge anticorruzione e si proclama la tolleranza zero contro i corrotti, ma poi si fa esattamente l´opposto, rendendo impossibile la conoscenza di tutto quel che riguarda le inchieste giudiziarie per un tempo così lungo che sterilizzerebbe ogni anticorpo democratico. A proposito di una vicenda ancora oscura sulla quale ha richiamato l´attenzione il Presidente della Repubblica, l´abbattimento nel 1970 di un aereo civile sopra Ustica, si è calcolato che, con la legge in discussione, sarebbe stato lecito pubblicare le notizie solo nel 2000, trent´anni dopo, rendendo così impossibile anche l´impulso alle indagini venuto dall´opinione pubblica. Bisogna aggiungere che, discutendo della legge, si devono considerare due questioni diverse, ma collegate: i limiti al potere d´indagine della magistratura e il divieto radicale di informare i cittadini. Infatti, anche se alla magistratura fossero restituite tutte o quasi le possibilità di ricorrere alle intercettazioni, questo sarebbe un successo solo parziale, e per certi versi ingannevole, se poi l´opinione pubblica rimanesse condannata all´ignoranza.
3) Lo straordinario successo della raccolta delle firme per il referendum sull´acqua dovrebbe insegnare molto sul modo in cui si può costruire l´agenda politica. È affidata solo alle prepotenze della maggioranza e alle esitazioni dell´opposizione? Si risolve tutta nello spazio mediatico? O può essere anche il risultato di iniziative dei cittadini? La vicenda referendaria consente di rispondere in modo affermativo a quest´ultima domanda. Fino a ieri dell´acqua si discuteva, se ne occupavano benemeriti parlamentari, ma la politica era sostanzialmente disattenta, ignorava una legge d´iniziativa popolare firmata da quattrocentomila persone e venivano approvate norme senza una vera discussione pubblica. È bastato l´annuncio del referendum perché questo panorama cambiasse, non solo creando una grande mobilitazione, ma anche suscitando discussioni sui rischi del referendum e sulla necessità di seguire piuttosto la via parlamentare. Nell´agenda politica è comparso il tema, ineludibile, dell´acqua. Se senatori e deputati pensano che la via parlamentare sia la migliore, possono percorrerla e hanno tempo fino alla primavera del 2011, epoca in cui si dovrebbe andare a votare sul referendum. Ma sono stati i cittadini a dettare i tempi, e alle loro indicazioni i parlamentari non possono sottrarsi.
4) Grandi temi sono davanti a noi. La conoscenza come bene comune, l´acqua (e non solo) come bene comune. Qui le persone mostrano consapevolezza maggiore del ceto politico. E qui nasce una serie di domande. È necessario trovare forme di collegamento che consentano ad un´opinione pubblica avvertita di dare continuità alle sue iniziative grazie alle opportunità offerte da Internet? Sta nascendo un sistema di comunicazione che, sia pure in forme ancora deboli, può cominciare a riequilibrare la prepotenza di un sistema televisivo che Berlusconi occupa militarmente nei momenti decisivi della vita politica? Le iniziative di questi giorni e il caso di Raiperunanotte, la trasmissione organizzata da Santoro nel silenzio elettorale, non sono esempi su cui ragionare? Non dice nulla lo sbarco di Berlusconi su Facebook, segno evidente che sulle reti sociali comincia a giocarsi una partita politica decisiva? Si può ignorare che il Trattato di Lisbona mette a disposizione dei cittadini europei un potere d´iniziativa collettiva che potrà essere sfruttato in pieno solo predisponendo strumenti adeguati? A queste domande si risponde ragionando, ma soprattutto con iniziative permanenti di azione civica.

Repubblica 17.5.10
Se declina la fede nella Chiesa
E nell´anno orribile del Vaticano la fiducia nel Papa scende ai minimi
di Ilvo Diamanti

Solo per il 47% degli italiani la Chiesa è ancora una istituzione credibile
Divisioni interne e lentezza nelle reazioni: queste le cause del progressivo declino

IERI i fedeli hanno voluto far sentire al Papa la loro solidarietà e il loro sostegno, raccogliendosi, in massa, intorno a lui, a piazza San Pietro. D´altronde, la fiducia nella Chiesa e in Papa Benedetto XVI è scesa sensibilmente, nell´ultimo anno.
Espressa, in entrambi i casi, dal 47% degli italiani, secondo il sondaggio di Demos. Una tendenza accentuata dalla lunga catena di scandali dell´ultimo anno. Prima, le dimissioni del direttore dell´Avvenire, Dino Boffo, in base ad accuse rivelatesi infondate. Poi, gli episodi di abuso sessuale sui minori, che hanno coinvolto esponenti del clero – basso, medio e alto. In diversi paesi. Dagli USA all´Irlanda. Dalla Germania al Belgio. Al Brasile. All´Italia. Avvenimenti del passato, esplosi di recente.
Per questo non stupisce il calo di credibilità dell´ultimo anno: 3 punti percentuali in meno, la Chiesa; 7 il Papa. Un declino, peraltro, che dura da anni. Rispetto al 2005 (quando è stato eletto Ratzinger) la fiducia nella Chiesa è scesa di 14 punti. Mentre negli ultimi due anni il consenso verso Benedetto XVI si è ridotto di 9 punti percentuali. Senza considerare Papa Wojtyla, il cui credito, nel 2003, era superiore di circa 30 punti. Ma Wojtyla costituiva – e costituisce – un caso difficilmente ripetibile. Per le vicende che ha attraversato (la caduta del Muro e del comunismo, l´attentato…). E per la sua personale e straordinaria capacità di "comunicare" se stesso – attraverso i suoi viaggi e la sua sofferenza. Così, se la Chiesa e lo stesso Pontefice costituiscono ancora un riferimento importante, per la società italiana, la loro capacità di attrazione appare indebolita. Per ragioni che vanno oltre gli scandali recenti. I quali, tuttavia, pesano.
Il sondaggio di Demos sottolinea, infatti, come una larga maggioranza di italiani – il 62% - consideri inadeguata la risposta della Chiesa di fronte agli episodi di pedofilia. Volta, fino a ieri, a minimizzare il fenomeno. Questo giudizio risulta prevalente anche tra i cattolici praticanti, anche se è meno diffuso: 44% (mentre il 29% considera le accuse strumentali, finalizzate a screditare la Chiesa). Ma è condiviso da oltre i due terzi dei cattolici che dichiarano una frequenza sacramentale saltuaria. Cioè: la larga maggioranza di essi (e della popolazione). Si tratta di un orientamento politicamente trasversale. Si riduce solamente al centro. Fra gli elettori dell´Udc.
Come interpretare questo largo dissenso verso l´azione della Chiesa intorno a un fenomeno che, da tempo, è oggetto di denunce ripetute? E, soprattutto, perché – proprio oggi - intacca in modo tanto profondo la credibilità della Chiesa?
La prima spiegazione chiama in causa proprio il "tempo". Troppo tempo, infatti, è passato prima di prendere i provvedimenti necessari, in modo deciso, senza indulgenza. Troppo tempo. Per cui oggi, che nel muro di silenzio del passato si è aperto (più di) un varco, le notizie irrompono, tutte insieme. Invadono i media con un effetto devastante. La stessa condanna del Papa, implacabile. Il suo vagare, per il mondo, dolente, a chiedere perdono alle vittime e ai loro familiari. Agiscono da amplificatori. Fino, quasi, a tracciare una scia di vergogna.
Un secondo ordine di motivi riguarda la Chiesa stessa. Questi episodi, infatti, la indeboliscono perché essa è più debole che in passato. Divisa, al suo interno. Attraversata da tensioni e conflitti. Fra le gerarchie vaticane e la Cei. Ma anche tra le diverse componenti del mondo associativo. Tra le diverse "voci" e i diversi media cattolici. Giornali, emittenti, riviste… Papa Benedetto XVI, in occasione del suo recente viaggio a Fatima, è stato, al proposito, esplicito. E durissimo. Quando ha scandito che: «Le sofferenze della Chiesa vengono proprio dall´interno della Chiesa. (…) La più grande persecuzione della Chiesa non viene dai nemici fuori, ma nasce dal peccato nella Chiesa». Un concetto ribadito ieri, a piazza San Pietro. Contraddicendo – come ha sottolineato Sandro Magister (nel documentatissimo sito: www.espressonline.it) - «i giudizi espressi da molti ecclesiastici, secondo i quali la Chiesa soffre primariamente per gli attacchi che le vengono portati dall´esterno».
Ciò suggerisce, esplicitamente, una terza ragione. Collega il declino della fiducia nella Chiesa alla sua presenza "istituzionale" nella società. Interpretata, in particolare, dal clero. È, infatti, da tempo che, soprattutto in Italia, i seminari sono vuoti. La crisi di vocazioni è acuta, irreversibile. Non a caso, nelle parrocchie, la presenza di preti provenienti da paesi del Terzo Mondo è sempre più ampia. Segno evidente della profonda crisi di legittimazione sociale che, da tempo, ha colpito la figura del sacerdote (come ha argomentato il sociologo Marco Marzano). Fare il prete, da noi, non garantisce benefici né riconoscimento di status. Il che rende più difficile "reclutare" – e soprattutto "selezionare" - figure credibili e credute, in grado di farsi ascoltare. Tanto più di fronte a regole di accesso alla missione (o, in termini laici, alla "professione") tanto selettive e dure. Come il celibato. Oggi incomprensibile: per la società e per la stessa comunità dei cattolici. Visto che i due terzi degli italiani e oltre la metà dei cattolici praticanti si dicono d´accordo sulla possibilità, per i preti, di sposarsi. Così i comportamenti devianti, nell´ambito del clero, oltre che più diffusi, sono divenuti intollerabili (e intollerati). Impossibili da nascondere e minimizzare.
Da ciò l´impressione che oggi la Chiesa, come istituzione, si scopra inadeguata rispetto al proprio compito. Che le stesse regole, costruite e imposte, storicamente, per rafforzare il proprio "rapporto con il mondo", oggi la rendano, più vulnerabile. Che, per questi motivi, svolgere la "professione" – oppure, se si preferisce, la "missione" – di prete sia divenuto sempre più difficile – e, al contempo, meno credibile. Se, per citare di nuovo il Papa, le peggiori sofferenze "vengono proprio dall´interno", allora la Chiesa, più che dalla società, deve difendersi da se stessa.

Repubblica 17.5.10
Shoah
"Io come Littell perché i nostri libri sono scandalosi"

"Il testimone inascoltato" di Haenel ha diviso la Francia: ora esce in Italia "Noi giovani abbiamo un altro rapporto con la storia"
"Do voce a Karski che aveva spiegato agli alleati, nel 1943, la portata dell´Olocausto"
"Sostengo che si poteva intervenire prima. Non capisco le accuse che mi ha fatto Lanzmann"

PARIGI. Testimoniare, per i testimoni. «Nei prossimi anni, scompariranno gli ultimi sopravvissuti della Shoah. Cambierà il nostro rapporto con la memoria e sono convinto che il ricorso alla finzione diventerà inevitabile». Yannick Haenel fa parte di quei giovani scrittori che non hanno paura di affrontare la pagina più buia del Novecento con gli occhi del romanziere. Il testimone inascoltato (Guanda, pagg. 163, euro 15) racconta la storia di Jan Karski, militante della resistenza polacca, cattolico fervente, ma soprattutto "messaggero" degli ebrei durante l´occupazione nazista. Karski aveva visto gli sterminatori all´opera. Sapeva. Per due volte, nel 1942, era entrato nel ghetto di Varsavia e in un campo di concentramento. Ma, soprattutto, è stato uno dei primi testimoni diretti dell´Olocausto a poter raccontare la verità agli alleati, incontrando gli emissari dei governi di Londra e Washington e persino Theodore Roosevelt nel 1943. Davanti a Karski, il presidente americano si sofferma a guardare le gambe di una segretaria. E´ un´invenzione letteraria che permette a Haenel di evocare la "colpevole inerzia" degli alleati di fronte alla Shoah. "Lo sterminio degli ebrei – scrive l´autore – non è un crimine contro l´umanità ma un crimine dell´umanità".
Non le sembra eccessivo parlare di responsabilità dell´Occidente?
«Storicamente sappiamo che non c´è stata nessuna reazione rilevante da parte degli occidentali tra la fine del 1942 e l´inizio del 1944, quando Roosevelt lancia l´avvertimento ad Hitler sugli ebrei d´Europa. La Shoah è una responsabilità del nazismo. Ma il tempo di reazione degli occidentali è stato, obiettivamente, molto lungo. Gli storici oggi ammettono che nell´amministrazione statunitense c´erano molti funzionari antisemiti che filtravano o insabbiavano le informazioni su quello che accadeva in Europa. Le cose sono un po´ più complicate di come ce le hanno raccontate. E credo, anche, che usare la parola "vittoria" nel 1945 sia stato in qualche modo indecente».
Perché ha scelto una struttura narrativa che mischia documenti a finzione?
«Non dimenticherò mai la prima volta che ho visto Jan Karski. Era nel film di Claude Lanzmann, Shoah. Le immagini sono del 1977, quando lui ormai vive in America, dove insegna. Davanti alle telecamere, non riesce a parlare. Sono trentacinque anni che non viene interrogato sul suo ruolo di "messaggero" dell´Olocausto. Alla prima domanda, esce dal campo visivo. Quel posto vuoto mi ha profondamente colpito. Volevo riempire il suo silenzio. Ma per farlo ho voluto raccontare di nuovo ciò che Karski aveva detto nella sua biografia, uscita nel 1944, e poi nell´intervista di Shoah. Il libro ha tre parti: parola, scrittura, silenzio. Il lettore che arriva al terzo capitolo sa tutto quello che c´è da sapere su Karski. Io gli faccio una proposta di finzione. Si può accettare o rifiutare».
Lanzmann l´ha criticata duramente, accusandola di plagio e di aver scritto una "falsificazione storica".
«Sono rimasto sorpreso dai suoi attacchi, immaginavo anzi che prendesse il libro come un omaggio al suo lavoro. Sul plagio non credo valga la pena rispondere. Ho fatto delle citazioni, come si fa abitualmente. Più seriamente, credo che Lanzmann, come molti intellettuali della sua generazione, non riesce ad accettare che si sia arrivati a un´altra fase della riflessione sulla Shoah. Parte degli archivi storici sono stati aperti e credo sia doveroso adesso tentare nuovi approcci di analisi. Qualche mese fa, Lanzmann ha anche mostrato nuove immagini della sua intervista a Karski per contraddire il mio libro. In realtà, io ci ho visto confermata la delusione di questo straordinario testimone inascoltato».
Lei fa pronunciare a Karski accuse molto pesanti contro gli alleati, frasi che lui non ha mai detto.
«Negli anni Ottanta, Karski scrisse in una rivista che i governi alleati avevano abbandonato gli ebrei. Ha usato queste parole esatte. Non ho fatto altro che sviluppare questo concetto. Sono entrato nella testa di Karski perché lui è morto nel 2000 e non ho avuto l´opportunità di fargli altre domande. La finzione può essere uno strumento della conoscenza. Come può uno storico parlare del lutto, della disperazione, della debolezza? Il romanziere invece può tentare di farlo».
Roosevelt che sbadiglia davanti al racconto del ghetto di Varsavia. La sua è una provocazione.
«Sull´incontro con Roosevelt ci testimonianze contraddittorie. Anche Karski ha dato versioni diverse. Certamente ho pensato a questa scena come un elettroshock. Volevo fosse un´allegoria dell´abbandono. Credo che Karski abbia vissuto una violenza guardando l´inerzia degli alleati di fronte al suo messaggio».
Prima Jonathan Littell, con Le Benevole, ora lei. La Shoah diventa materia di romanzi, con tutti i rischi che comporta.
«Ho 43 anni, la stessa età di Littell. Molti scrittori della mia generazione hanno un nuovo rapporto con la Storia. Siamo attratti da una memoria che ci appartiene, per ovvie ragioni anagrafiche. Abbiamo un gesto narrativo più libero, disinibito. Io la chiamo finzione "etica", parte dai documenti per andare oltre. C´è una parte di verità che è, per sua natura, irrappresentabile, ed è la parte del romanziere. Gli ultimi testimoni stanno scomparendo, la finzione diventa sempre più inevitabile per tramandare la memoria. Ovviamente ci sono dei rischi. La finzione è come un esplosivo, può anche far saltare tutto».
Perché Karski è rimasto un testimone inascoltato?
«All´epoca, il suo messaggio era irricevibile. Qualcuno che nel 1942 parla di Olocausto non può essere compreso. Il messaggio di Karski creava la vertigine della verità. Eppure sappiamo ormai che l´amministrazione americana era al corrente di quello che stava accadendo. Una delle idee del mio libro, certo discutibile, è che gli Alleati non abbiano voluto soccorrere gli ebrei d´Europa perché, tecnicamente, volevano privilegiare l´alleanza con l´Unione sovietica e la strategia militare. L´aiuto agli ebrei era secondario. Anzi, dal 1943, Karski è diventato persino un testimone scomodo perché in qualche modo disturbava i piani degli alleati. Il nuovo mondo nato nel 1945 è fondato su una menzogna, o su un silenzio che abbiamo il dovere di indagare».

Repubblica 17.5.10
Scalfari: "Più dei barbari temo gli imbarbariti"
"Da ragazzo avevo preso di Nietzsche solo la teoria del Superuomo. Oggi lo vedo come la bomba che mina la modernità"
di Massimo Novelli

«La modernità è un epoca, quella che mette in discussione gli assoluti. E come epoca, è finita». Oggi arrivano i «barbari», che si definiscono così non in modo spregiativo o limitativo, bensì nel senso che gli davano i greci antichi: gente, dunque, che parla una lingua a noi estranea, incomprensibile. Sono «il nuovo che arriva, sono la nuova epoca». Non «amano leggere libri, non amano la parola scritta. Non contestano, come facevamo noi, i valori dei nostri nonni e dei nostri padri per cambiarli: non lo fanno semplicemente perché non vogliono nuovi valori. Vogliono ricominciare da zero, il che è pure importante. Se li faranno da soli, i valori».
I barbari, comunque, sono pur sempre «un fattore vitale», mentre ben altra cosa sono gli «imbarbariti». Oggi ce n´è una molteplicità di «imbarbariti», che imbarbariscono i nostri valori. Per questo «li dobbiamo combattere». Gli «imbarbariti» non sono presenti in Per l´alto mare aperto (Einaudi), l´ultimo libro di Eugenio Scalfari, che è un viaggio, un´esperienza, dalla nascita alla decadenza della modernità, intrapresi tra Cartesio e Montaigne, Spinoza, Kant e Hegel, Diderot e Nietzsche, Ulisse e Don Chisciotte. Il fondatore di Repubblica, tuttavia, fa emergere l´imbarbarimento in virtù di una domanda partita dalla platea affollatissima del Salone del Libro di Torino, dove ieri ha dialogato con Ernesto Franco e Antonio Gnoli.
È un pomeriggio intenso, di riflessioni e d´interrogativi, quello che nella Sala Gialla del Lingotto, davanti a una folla silenziosa e attenta, prende l´avvio dall´avvento della modernità che Scalfari identifica piuttosto che con la scoperta dell´America con Montaigne e i suoi Saggi, sul finire del secolo XVI, in quanto rappresentano «il pensiero che pensa la modernità». La ricognizione si chiude con Nietzsche. La "bomba" innescata da Montaigne nell´universo dell´assoluto e della metafisica, in ogni caso, scoppia quando il filosofo tedesco annuncia che «Dio è morto e noi l´abbiamo ucciso». Rifacendosi a un recente commento del direttore de L´Osservatore Romano, che interpretava da cattolico quell´affermazione sulla morte di Dio, e sul fatto che siano stati gli uomini a ucciderlo, l´autore di Per l´alto mare aperto avverte, pur senza volere intaccare l´autorevolezza del giornalista vaticano: «Nietzsche dice che abbiamo ucciso ciò che abbiamo creato. Siccome noi abbiamo creato Dio, siamo in grado di ucciderlo».
C´è molto Nietzsche nel ragionamento di Scalfari, nel colloquio con Franco e con Gnoli. Quel Nietzsche che è «una malattia», che spezza «il centro», l´io irrigidito, e sostiene che è ovunque. Come tutte le malattie, del resto, ha vari stadi, diversi gradi di lettura. Cambia il nostro modo di leggere, come dice Montaigne «siamo noi che cambiamo. Io l´ho letto tre volte, lo leggerò ancora». Racconta che in gioventù lo lesse in una maniera assai differente da quelle che sarebbero seguite: «Ero allora uno studente fascista, scrivevo sui giornali del Guf, portavo una stupenda divisa che piaceva alle ragazze. Un giorno fui convocato dal segretario del partito. Quando fui davanti a lui mi strappò le spalline, me le gettò in faccia e mi espulse. Restai sbalordito, credevo di essere fascista. Così mi domandai se era lui a essere diventato antifascista, oppure se lo ero diventato io. Dico questo perché, a quell´epoca, avevo letto Nietzsche da fascista: il superuomo che prende il potere e schiaccia i deboli».
Il pomeriggio con Scalfari si conclude tra domande e applausi. Con quei «barbari» che «non si possono distruggere perché sono il nuovo che arriva», quelle ««isole» dell´epoca della modernità che «resistono, circondate». E con quegli «imbarbariti» che frantumano i valori che sopravvivono, ma che sono un buon motivo per combattere un´estrema battaglia di civiltà.

domenica 16 maggio 2010

Libero 14.5.10
Salone Libro: domani nuova edizione di “Istinto di morte e conoscenza”
Adnkronos
qui
http://www.libero-news.it/articolo.jsp?id=411935

l’Unità 16.5.10
Visco bastona il Pd «Tra noi c’è chi protegge gli evasori»
di Andrea Carugati
qui
http://www.scribd.com/documents/31428232/unita-visco

il Riformista 16.5.10
Arriva nello Statuto la norma - Vendola
Il Pd è «scalabile»
di E. C.
qui
http://www.scribd.com/documents/31428275/Riformista-16-5-10-Vendola-p15

l’Unità 16.5.10
La cultura per la 180 con Psichiatria Democratica
di Cristiana Pulcinelli
qui
http://www.scribd.com/documents/31428173/pulcinelli

Repubblica 16.5.10
L’accusa della Bresso: momento terribile per il Paese
"Le donne per far politica obbligate a passare dal letto"
di Sara Strippoli

TORINO La donna che Berlusconi pensava non potesse guardarsi nello specchio al mattino «perché avrebbe visto la Bresso», si concede adesso qualche valutazione in libertà sul ruolo delle donne in politica e nel lavoro. Dal Salone del libro di Torino, l´ex presidente del Piemonte invita le più giovani a ribellarsi contro un sistema che sempre di più le vede protagoniste di carriere spesso comprate: «Stiamo assistendo ad un avvilente messaggio per le nostre giovani donne: per far carriera, anche politica, devi passare dal letto di un uomo e il lavoro sulla propria formazione non è determinante».
L´attacco arriva durante la presentazione di Guerra e Pace, il libro firmato da Alessandra Guerra, ex-presidente del Friuli Venezia Giulia, leghista delusa ora passata nelle file del Pd. Ero diventata un lupo, ha raccontato davanti al pubblico del Salone Guerra, «sono stata costretta a correre con le regole degli altri, da uomo e non da donna». Più tardi, a margine dell´incontro, Bresso chiarisce che le sue riflessioni non riguardano soltanto la carriera politica e non solo le donne del centrodestra: «Mi sembra che il modello Berlusconi parli chiaro, ma qualche segnale si vede anche da noi. E il rischio aumenta con l´attuale tendenza al giovanilismo».
Le donne del centrodestra reagiscono con stupore, nel caso di Giorgia Meloni con indignazione: «Mi pare una grande banalità dice il ministro alle politiche giovanili Una posizione assolutamente non condivisibile, Bresso farebbe meno a citare nomi e situazioni se vuole essere credibile, ogni donna ha una storia, e ne risponde personalmente. Quante volte sono stata personalmente attaccata da intellettuali, donne e uomini di sinistra, che non si sono risparmiati epiteti come "gallinelle del potere"». Stefania Prestigiacomo considera le dichiarazioni di Bresso quelle di una persona delusa dalla sconfitta: «Queste parole hanno il triste sapore del disappunto di chi non ha ancora accettato di aver perso alle elezioni, anche se ciò non significa che non esistano problemi di mercificazione della donna». Gli elettori però sanno decidere e «chi vale va avanti, essere donne significa competere alla pari», conclude il ministro all´Ambiente. Proprio da Bresso arrivano queste dichiarazioni? La domanda è di Elena Maccanti, giovane parlamentare del Carroccio, ora assessore nella nuova giunta Cota: «Proprio adesso che le donne stanno emergendo, e molte di loro dopo un lungo percorso in politica». Un sostegno indiretto a Bresso arriva da Rosy Bindi, che alla presidente uscente del Piemonte in campagna elettorale aveva regalato uno specchio in segno di solidarietà dopo la boutade del premier: «Per anni alle donne non è stata neppure riconosciuta l´anima ha detto al Salone durante il dibattito sulla laicità per la presentazione del libro di Gustavo Zagrebelsky adesso a mala pena si riconosce la possibilità che siano intelligenti».

Repubblica 16.5.10
La manica larga dei professori di religione
risponde Corrado Augias

Gentile Augias, il ministro dell'Istruzione Gelmini ha esultato alla sentenza del Consiglio di Stato che riconosceva la legittimità delle ordinanze nelle quali si equiparava la religione alle altre materie. In altre parole, ai fini dell'attribuzione del credito scolastico, basato sulla media dei voti riportata dall'alunno, occorre tener conto anche del giudizio espresso dal docente di religione. Il Consiglio di Stato infatti ha stabilito che, nel caso l'alunno scelga di avvalersi di questo insegnamento, la materia diventa per lo studente obbligatoria e concorre quindi all'attribuzione del credito scolastico. Tutto giusto. Però sarebbe anche giusto che il professore di religione, come è sempre accaduto ed ancora accade, non fosse troppo di manica larga nei suoi giudizi. Dico questo, perché anch'io come tutti i miei colleghi di religione, ho fatto così finché ho insegnato. Le insufficienze in religione sono rare come le mosche bianche. Sarebbe giusto che la materia fosse insegnata seriamente e studiata seriamente, alla stregua delle altre materie. Lo dico perché ho anch'io le mie colpe.
Renato Pierri renatopierri@tiscali.it

La sentenza del Consiglio di Stato suscita alcuni rilevanti quesiti. Uno dei primi è il seguente: se frequentare l'ora di religione produce crediti, lo stesso dovrebbe darsi per chi frequenta l'ora 'alternativa'. In caso contrario si crea una palese disparità come lo stesso Consiglio ha rilevato: «la mancata attivazione dell'insegnamento alternativo può pertanto incidere sulla libertà religiosa dello studente o delle famiglie, e di questo aspetto il Ministero appellante dovrà necessariamente farsi carico». Che farà il ministero? Si troveranno i fondi per attivare queste ore 'alternative'? Domande che un paese civilizzato europeo non può ignorare. Mi scrive per esempio il preside Cardinetti del liceo Copernico di Pavia: «A parte l'incidenza minima sui crediti (non sono otto, ma uno per fascia di media), in ogni caso si creerebbe disparità di trattamento, visto che il ministero non assegna alcun fondo per i docenti di attività alternative eventualmente richieste dalle famiglie». Si impegnerà il ministro Gelmini? O si riterrà invece paga della sua 'vittoria' di principio? Altra questione di uguale rilievo è quella sollevata dal prof. Pierri: se gli insegnanti di religione si dimostrano così di manica larga, magari per invogliare gli allievi alla frequenza, si verrà ugualmente a creare una disparità con gli altri allievi. Un corretto sistema scolastico non dovrebbe consentirlo. Tanto più che la spaventosa ignoranza in materia religiosa di molti italiani consiglierebbe semmai una manica non larga bensì stretta, strettissima.

l'Unità 15.5,10
«Poche culle, gli italiani sono a rischio estinzione»
Lo studioso inglese: «Il vostro è un paese dominato dagli anziani Se i tassi di natalità non aumentano, perderete l’86% della popolazione»
di Cesare Buquicchio

Gli italiani sono in via d’estinzione, ma a nessuno sembra importare. Sembra bizzarro, ma non sembra importare nemmeno a chi sulla tutela degli “italiani” ci costruisce slogan e campagne elettorali. Per tutto questo c’è anche una spiegazione, ma la rimandiamo a tra poco. Intanto, va detto, che il destino della popolazione del nostro paese interessa a Fred Pearce, giornalista scientifico inglese pluripremiato per i suoi libri e per le sue inchieste.
Pearce ha da poco pubblicato un libro (edito in Italia da Bruno Mondadori) che si intitola Il pianeta del futuro. Dal baby boom al crollo demografico e che studia gli andamenti demografici della popolazione umana e gli scenari futuri. Affrontando questo studio ricco, oltre che di dati, di testimonianze e racconti raccolti in giro per il mondo, Pearce non ha potuto non soffermarsi sul paese più vecchio del mondo (l’Italia) e con un tasso di crescita demografica disastroso (sempre l’Italia).
Italiani in via d’estinzione, dicevamo, perché, scrive Pearce, se si continuerà a fare figli con questo ritmo entro la fine del secolo gli italiani sarebbero l’86% in meno di adesso, scendendo a 8 milioni di abitanti contro i 56 milioni attuali. Perché sta succedendo?
«Quello sta capitando in Italia è una anteprima di una tendenza mondiale che vedrà nei prossimi anni un picco di crescita della popolazione umana e poi un brusco e prolungato calo – ci spiega Pearce in un incontro nella redazione de l’Unità –. Ci sono spiegazioni diverse in ogni paese per questo: dalla legge del figlio unico cinese, agli effetti della recessione globale per le economie avanzate. Ma, lo “sciopero delle culle” italiano risponde a dinamiche anche più concrete».
Quali sono?
«I giovani non hanno nessuna fiducia nel futuro, si sentono a stento in grado di badare alla propria sopravvivenza, figurarsi a quella di una famiglia. Le giovani donne, inoltre, condividono queste preoccupazioni e ci aggiungono la scarsa affidabilità dei loro compagni a condividere il peso dei figli e le scarsissime tutele che il mercato del lavoro assegna loro».
Scusi Pearce, ma come si fa ad immaginare un paese che tutela i suoi giovani se, dall’altra parte, invitiamo gli anziani, che sono sempre di più e che occupano tutti gli spazi decisionali della società, a comportarsi come trentenni, a godersi la vita, a vendere
le loro grandi case rimaste vuote per pagarsi viaggi o corsi di skateboard (tutti esempi presi dal suo libro). Insomma, quelle grandi case vuote non sarebbero utilizzate meglio come incentivo ai giovani per mettere su famiglia?
«Gli anziani sono destinati rapidamente a diventare il blocco sociale più numeroso e potente, non solo in Italia ma in tutto il mondo. E questo accadrà per la prima volta nella storia dell’umanità, quindi non si sa cosa succederà. Possiamo solo avanzare delle ipotesi: gli anziani come risorsa per le società del futuro, con la lo-
ro saggezza, pacatezza e frugalità che influenza anche i comportamenti degli altri membri della comunità. Oppure potremmo avere anziani individualisti ed egocentrici che tentano di non invecchiare mai e, aiutati dalla medicina, si comportano secondo i modelli culturali consumistici». Tipo un settantenne molto popolare in Italia, coinvolto in scandali sessuali e che non perde occasione per dire di sentirsi un trentacinquenne... «Esatto. Il vostro premier è l’unico in Europa nato prima della seconda guerra mondiale e da come si comporta non sembra dare molta attenzione alle esigenze dei giovani e, davvero, non sembra rispecchiare quel modello di anziano saggio, frugale e attento al bene della comunità».
Ed ecco qui una delle spiegazioni al perché si parla tanto di famiglia e di “italiani” ma in concreto non si fa niente per tutelarla.
«Per garantire la sopravvivenza degli italiani e, più in là, del genere umano, occorre che ci sia un patto tra le generazioni. I giovani devono cominciare a considerare gli anziani non più come un peso, ma come una risorsa. Questi ultimi devono sentirsi più responsabilizzati, devono prolungare la loro età lavorativa, soprattutto le donne, e mettersi al servizio della società».
A guardarsi intorno, ad osservare il massiccio trasferimento di risorse dalla fase iniziale dell’età lavorativa a quella finale coinciso con la diffusione del precariato nel nostro paese,
«Sì, così sembra. Ma se vogliamo che i giovani ricomincino a fare figli e a guardare con fiducia al futuro la situazione deve cambiare. Deve cambiare l’atteggiamento dello Stato, innanzitutto, ma non solo quello. È importante che anche il rapporto tra uomini e donne sia diverso. Non dobbiamo mettere in condizione le donne di dover scegliere tra i figli e il lavoro, non è ammissibile. E poi servono soluzioni creative, livelli retributivi che non abbiano un andamento banalmente crescente per tutta l’età lavorativa, ma che sostengano la nuova organizzazione sociale».
Un altro elemento che dal suo libro appare essenziale per un futuro equilibrato è quello della libera migrazione delle persone dalle società più povere a quelle più ricche.
«Sono convinto che l’immigrazione sia un dato di fatto e che avremo sempre più bisogno di stranieri per mantenere i nostri livelli demografici e rispondere alle domande del mercato del lavoro. Il Giappone, il paese più vecchio del mondo dopo l’Italia, da florida potenza economica è entrato in una profonda recessione e in tanti ora rimpiangono il fatto di aver impedito una massiccia immigrazione».

l'Unità 15.5.10
«La guerra sporca di Gaza. L’ordine era sparare a tutto ciò che si muoveva»
I racconti di soldati israeliani confermano che l’Operazione Piombo Fuso lanciata da Israele fu condotta violando le regole di ingaggio «Sulla spiaggia camminavamo su pezzi di vetro, è l’effetto del fosforo bianco»
di Umberto De Giovannangeli

Aron, 24 anni
«Non potevo tacere su ciò che ho visto, mi sarei sentito un traditore»
Il racconto
«La potenza di fuoco è stata enorme, la terra tremava continuamente»

So che c’è chi ci considera dei traditori, dei venduti al nemico. Ero orgoglioso di vestire la divisa di Tsahal e di difendere il mio Paese. Ma quello a cui ho assistito è qualcosa che va contro ciò in cui credevo. E se fossi rimasto in silenzio, allora sì che mi sarei sentito un traditore...». Aron ha 24 anni ed ha combattuto in un reparto di élite dell’Idf (l’esercito dello Stato ebraico) durante l’operazione «Piombo Fuso» condotta dalle armate israeliane a Gaza. Aron è a conoscenza delle denunce di associazioni umanitarie internazionali sull’uso di armi non convenzionali a Gaza. «Qualcosa circolava tra noi al riguardo dice a l’Unità ma chi provava a saperne di più veniva subito zittito». Le considerazioni di Aron riportano a quanto denunciato in un libretto dall’organizzazione Breaking the silence, organizzazione di veterani israeliani che dal 2004 raccoglie testimonianze dei colleghi sugli abusi commessi dall’esercito nei Territori Occupati. Tutte le 54 testimonianze raccolte sono anonime. Esse mettono in luce la facilità con cui si sono distrutte case e moschee, anche se non erano obiettivi militari; l’uso di bombe al fosforo in zone popolate da civili; l’uccisione di vittime innocenti; la distruzione di proprietà private; regole vaghe su cosa fare di fronte ai palestinesi, che ha permesso un uso spropositato delle armi da fuoco per uccidere. Mikhael Mankin di Breaking the silence afferma che «le testimonianze provano che il modo immorale in cui la guerra è stata condotta è dipeso dal sistema in atto, più che dagli individui».
Fosforo banco 1 Testimonianza: Che cos’era la storia dell’uso di bombe di mortaio al fosforo bianco? Il comandante della compagnia dà al comandante del plotone che ha il mortaio un obiettivo e gli ordina di fare fuoco. Che cosa c’era, lo sa? Un obiettivo. Li definiscono obiettivi. Non so veramente dire cosa fosse. Qualche volta si sentiva alla radio: «Via libera, fosforo nell’aria». Tutto qua. Non mi ricordo se venisse confermato dal comandante della compagnia, ma so anche di un ufficiale che sparò senza chiedere l’autorizzazione. Perché sparare fosforo? Perché è divertente. Fantastico. Professionalmente avete del fosforo da usare contro queste minacce? Non so a quale scopo sia usato. Ne stavo proprio parlando ieri. Non capisco come queste munizioni siano tra i nostri rifornimenti se poi non dobbiamo usarle. È ridicolo»
Fosforo bianco 2 Poi siamo ritornati a nord, a circa 500 metri dal recinto, e siamo rimasti là di guardia tutta la notte. Non abbiamo visto niente di speciale. Il giorno dopo siamo tornati alla base per prendere
nuovi ordini della missione e siamo stati di nuovo assegnati ad un’unità del battaglione *** con cui siamo entrati. Abbiamo camminato con loro sulla spiaggia e abbiamo visto tutte le bombe al fosforo bianco di cui le ho detto, abbiamo visto vetri sulla sabbia. Può descriverlo? Che cosa ha visto? Cammini lungo la sabbia e senti questo scricchiolio di qualcosa che viene frantumato. Abbiamo guardato per terra e abbiamo visto delle cose che sembravano frammenti di mi-
gliaia di bottiglie di vetro rotte. Che colore avevano? Marrone sporco. Ne ha visto dei resti da altre parti nelle vicinanze? C’era un’area di circa 200-300 metri quadrati di sabbia vetrosa come quella. Abbiamo capito che veniva dal fosforo bianco ed è stato sconvolgente. Perché? Perché durante l’addestramento si impara che il fosforo bianco non si usa, e si impara che non è umano. Si vedono dei film e si vede quello che fa alla gente che ne è colpita, e ti dici “Ecco, è quello che stiamo facendo”. Non è quello che mi aspettavo di vedere. Fino a quel momento, avevo pensato di appartenere all’esercito più umano del mondo....».
Fosforo bianco 3 Lì è stato senz’altro usato del fosforo bianco, l’ho visto e non ci si può sbagliare, si vedono proprio degli ombrelli infiammati. «È successo qualcosa di nuovo nell’Operazione Piombo Fuso a Gaza, qualcosa che non era mai accaduto», ribadisce Yehuda Shaul, 26 anni, uno dei fondatori di Breaking the Silence. «Non ho mai sentito storie come queste. L’aggressività dei comandanti, l’uso massiccio dell’artiglieria in un’area urbana, la scomparsa della distinzione tra civili e combattenti. Sono entrati a Gaza senza regole d’ingaggio. Si sparava a tutto ciò che si muoveva e che non si muoveva. Ci sono testimonianze sulla demolizione di massa di abitazioni senza che ce ne fossero necessità operative».
Un soldato che operò al cannone di un carro armato al nord est della frangia spiega che se dovevano girare e non c’era visibilità «si sparavano dodici bombe alle case intorno e si continuava». In due settimane di offensiva dice di aver sparato 50 bombe, 32 casse di munizioni da mitra-
gliatrice media (più di 7.000 colpi), 20 colpi di mortaio da 60mm e 300 cariche da mitragliatrice pesante Browning 0.5. «E questo è solo un carro: ce n’erano più di duecento», aggiunge.
Una scala completamente diversa. Lei ha servito nell’esercito a Gaza per anni, è stata una distruzione in qualche modo simile a quelle che ha conosciuto prima? No, nel modo più assoluto. Si è trattato di una scala completamente diversa. Questa è stata una potenza di fuoco come non ne ho mai conosciuto. Non posso dire che quando ero a Gaza non si fosse usata l’aviazione. Ma no, la terra non tremava di continuo. Voglio dire, c’erano tutto il tempo esplosioni. Se fossero lontane o vicine, questa è già semantica. Ma la nostra sensazione di fondo era che la terra tremasse costantemente. Si sentivano tutto il giorno esplosioni, la notte era piena di bagliori, un’intensità che non avevo mai provato prima. Molti bulldozer D-9 operavano 24 ore su 24, erano costantemente occupati. Questa è stata una scala di intensità molto diversa da quelle conosciute prima. Molto più grande...
Guardi, quando ci sparavano, non vedevamo veramente il nemico con i nostri occhi. D’altra parte, ci sparavano e noi rispondevamo al fuoco verso punti sospetti. Che cos’è un punto sospetto? Significa che decidevi che era sospetto e potevi riversargli addosso tutta la tua rabbia». Una rabbia «non convenzionale». Come le armi utilizzate.
I vertici politici e militari israeliani hanno contestato queste affermazioni e proposto controdeduzioni. Ma la forza di una democrazia e quella israeliana è tale sta nel non chiudere gli occhi di fronte alle pagine più nere, alle denunce più gravi. «La risposta ai razzi Qassam è stata sproporzionata e le testimonianze dei soldati non fanno che dimostrare quanto brutale fosse la situazione sul campo», rileva Valentina Azarov. esperta legale di HaMoked, il Centro per la Difesa dell’Individuo associazione dei diritti umani con sede a Gerusalemme Est.

Corriere della Sera 16.5.10
Slansky, il contrappasso del «grande spazzino»
Il comunista ceco che da carnefice divenne divenne vittima
di Sergio Romano
qui
http://www.scribd.com/documents/31427539/Corriere-Della-Sera-Memorie-16-Mag-2010-Page-1

Corriere della Sera Salute 16.5.10
Mezz’ora di Mozart al posto delle pillole
di Elena Meli
qui
http://www.scribd.com/documents/31427569/Corriere-Della-Sera-Mezz%E2%80%99ora-di-Mozart-al-posto-delle-pillole-16-mag-2010-Page-62

Corriere della Sera Salute 16.5.10
Italiani «veloci» in amore, troppe false credenze
qui
http://www.scribd.com/documents/31427600/Corriere-Della-Sera-Italiani-%E2%80%9Cveloci%E2%80%9D-in-amore-troppe-false-credenze-16-mag-2010-Page-63

Corriere della Sera Salute 16.5.10
Ascoltiamo i pareri degli esperti sull’EP
di Emmanuele Jonnini
qui
http://www.scribd.com/documents/31427616/Corriere-Della-Sera-Ascoltiamo-il-parere-degli-esperti-sull%E2%80%99-EP-16-mag-2010-Page-63

Terra 16.5.10
L’Europa verso il suicidio dell’austerità
di Luca Bonaccorsi
qui
http://www.scribd.com/doc/31427949/Terra-16-5-10-p1-2

Terra 16.5.10
L’amore di una pivellina
di Alessia Mazzenga
qui
http://www.scribd.com/documents/31428073/Terra-16-5-10-p-7

venerdì 14 maggio 2010

l’Unità 14.5.10
Tra i primi 420 nomi politici, grand commis, uomini di Chiesa, dello spettacolo, dell’esercito
Devono andarsene
di Concita De Gregorio

La madre, la moglie, la figlia, la suocera. Il fratello della fidanzata, il cognato, la ragazza dell’amico del figlio, l’ex ragazza. L’amante, la segretaria, l’autista. Il figlio del giardiniere della casa di campagna. Il capo di gabinetto, il capo dell’ufficio legislativo, il capo del dipartimento, l’archivista, il dirigente Rai, il giornalista, il regista, il produttore, il generale. L’assistente del generale. Il ragioniere, suo genero l’attore. L’ex moglie. La sorella.
Il miglior falegname della città, come lo chiama Bertolaso, ha la mappa dettagliata delle parentele e delle relazioni fino al quinto grado, coppie di fatto e clandestine comprese, dei suoi clienti. Siccome è preciso la mole di lavoro, del resto, possente annota in un quadernetto. A volte col solo nome di battesimo. Altre volte col solo indirizzo. In casi di intimità estrema con l’iniziale, con un nomignolo affettuoso. Il miglior falegname della città è generoso: non segna cifre, niente importi, non un pagato o da pagare come succede, per dire, a chiunque di voi porti il cappotto in lavanderia. No, con le case ai Fori o a Cortina non funziona così. A volte dimentica persino di aver realizzato i lavori o di aver fatto dono di un appartamento. Nel mucchio può succedere. Poi capita anche che qualcuno pretenda di pagare, per i lavori ottenuti: una bizzarria, una forma di moralismo che va compresa e assecondata. Qualcuno certamente ha pagato. C’è chi ha persino conservato le
ricevute, gente d’altri tempi. Per il resto: tutto in un conto unico. In cambio di che cosa lo dirà la magistratura, voi intanto siete liberi di immaginare per quale motivo un falegname così prodigioso da esser divenuto il titolare delle ristrutturazioni per conto dei servizi segreti oltre che delle più costose e grandi opere pubbliche degli ultimi anni si adoperasse a riparare tapparelle a casa della suocera del funzionario del ministero, si figuri se disturba, ci mancherebbe.
La moglie di Guido Bertolaso lavorava per lui. Non è vero che l’abbia fatto solo prima che Anemone si aggiudicasse gli appalti, come ha detto suo marito in conferenza stampa. Il falegname con gli occhiali a specchio faceva lavoretti per Bertolaso in casa e in ufficio da molto, molto prima che la signora rimettesse a posto i giardini del Salaria Village. Una piccola menzogna, certo, nel monte di falsità e nella palude di corruttela che la cricca gelatinosa ha costruito e poi abitato per anni. Bisogna partire da quelle spudorate menzogne (omissioni? dimenticanze?) e tirare il filo. Basta, davvero. Devono andarsene, la cloaca di corruzione non può ingoiare il paese intero. Lo divoreranno. Non lasciamoglielo fare. Pretendiamo le dimissioni di chi ha corrotto e chi si è fatto corrompere, pazienza se strilleranno che è una congiura, una gogna, un complotto. Hanno sempre fatto così: colti in flagrante, messi di fronte all’evidenza dei fatti hanno protestato cose tipo: state violando la privacy. Loro invece stanno violando l’ultimo residuo di dignità. Anemone ha avuto anche i lavori di ricostruzione della scuola di San Giuliano, quella dove morirono 27 bambini e un insegnante. Di terremoto in terremoto hanno fatto miliardi e lasciato a noi le macerie. Non sono gli italiani senza lavoro né speranze a dover lasciare il paese. Sono loro che devono andarsene. Ricostruiremo da capo. Staremo meglio.

l’Unità 14.5.10
Sipario strappato per Silvio «Draquila» trionfa a Cannes
Sala gremita, applausi, risate e commenti alla proiezione per la stampa estera del film di Sabina Guzzanti sulla ricostruzione post-terremoto: «Berlusconi sembra Bush». E ancora: «Non vorremmo vivere in Italia...»
di Gabriella Gallozzi

Croisette Applausi e risate alla proiezione della stampa estera. «È un film rigoroso e scioccante»
All’attacco L’attrice e regista: «Quella di Berlusconi è eversione, un vero colpo di Stato»

Quando si dice un boomerang. Se il G8 dell'Aquila è stato per Berlusconi il suo «trionfo internazionale» è, ora, proprio la platea internazionale di Cannes a sdegnarsi per quel reality show, raccontato da Sabina Guzzanti nel suo film messo al bando dal governo. Ieri al Festival non si parlava d'altro. Alla proiezione di Draquila per la stampa straniera la sala era al completo, il pubblico ha partecipato ridacchiando nei momenti di satira più esplicita e, alla fine, sono partiti gli applausi. «Berlusconi sembra Bush», commenta un giornalista americano, «ed è molto interessante com'è raccontata l'intrusione della mafia. Lo stile è quello di Michael Moore, ma il risultato è ancora piu' forte». «In Francia c'era molta attesa per questo film – spiega una collega francese per via di tutto quello che abbiamo letto. E devo dirlo: Draquila è davvero rigoroso e scioccante». Anche perché, sottolinea un'altra «siamo paesi vicini, quello che accade oggi da voi può succedere anche da noi da un momento all'altro». Fuori dalla sala è tutto un groviglio di telecamere. Ed un incrocio di commenti: i francesi che cercano le dichiarazioni degli italiani e viceversa. «Sicuramente non passerà in tv – dice sarcastico l'inviato della radio tv del Lussemburgo, Jean-Pierre Thilges – lo sappiamo bene che anche la Rai è sotto il controllo di Berlusconi. Coraggiosa la regista ad aver raccontato in modo comprensibile per chi non lo sa tutto quello che sta accadendo da voi. Quello che non capisco è perché gli italiani continuino a votarlo. Evidentemente perché non sanno queste cose per via del potente controllo sui media. Certo è che non vorrei proprio vivere in Italia».
Un vero terremoto, insomma, quello che si è abbattuto ieri a Cannes sull' immagine del divo di Arcore. Le recensioni del film si leggeranno soltanto oggi, ma intanto gli addetti stampa francesi già parlano di unanime consenso, a parte Le Figaro, ovviamente, noto per le sue posizioni di destra.
Radiosa, in abito rosa da gran diva, è poi Sabina Guzzanti che, in mattinata, si è concessa finalmente alla stampa di settore italiana, alla quale si era sottratta per il lancio in sala del film. Che, intanto, sta andando alla grande: 413mila euro di incassi. Qui da Cannes Sabina non lesina i commenti. Parla di «deriva autoritaria», di «profonda crisi culturale» di «eversione e colpo di stato» da parte di Berlusconi. «Lo sanno tutti – dice come funzionano le cose in Italia. Se lui vuole la Repubblica presidenziale è senz' altro un suo diritto, ma per averla non continui a inquinare il Parlamento con i suoi fisioterapisti e sovvertendo i principi costituzionali. Questa si chiama eversione e colpo di Stato».
E CHI L’HA INVITATO?
Quanto a Bondi, che ieri ha reso noto di aver visto il film della discordia, Sabina rivela, «nessuno l'aveva invitato». Ma certo che il suo forfait è stato un bel colpo per Draquila. «Quando ha detto no a Cannes abbiamo pensato: evviva, è tutta pubblicità gratuita. Gli mandiamo una cassa di champagne. Ma poi abbiamo capito: le sue sparate sono rivolte a non far vedere il film alla grande massa dei suoi elettori. La loro politica è quella di far passare gli oppositori al governo come degli estremisti. A me più volte hanno dato della posseduta dal demonio». Il risultato, dunque, prosegue Sabina, «non è censurare il film, ma riuscire a censurare quelli che la pensano come loro. Chi legge Il Giornale e vede le reti Mediaset non ha contatti col mondo. E così devono rimanere».
La colpa dell'opposizione, rappresentata malinconicamente nel film con la tenda vuota del Pd, è stata la sottovalutazione del pericolo. «Un un atto di superficialità e di arroganza da parte della sinistra», dice la Guzzanti. A cominciare dallo sposare la tesi di Montanelli buonanima: “lasciatelo governare”». Sui motivi dell'assenza dell'opposizione Sabina preferisce non soffermarsi, «perché sono profondi. Ma del resto basta guardare all'Europa per capire che non riguardano solo noi. In Francia, ed ora pure in Inghilterra, si dibatte soLo su chi deve essere il leader, il nuovo Obama».
Dall’altra parte Berlusconi per la prima volta risponde a Sabina: «Io un dittatore? Assurdo, basta che accendiate la tv e vedrete che in tutte le trasmissioni ci sono solo attacchi contro di me e il Governo». Lo avrebbe detto ad una cena a Palazzo Grazioli. ❖

l’Unità 14.5.10
«La guerra di Gaza causò mutazioni genetiche»
Rapporto shock sui danni provocati dall’uso di armi segrete nel conflitto lanciato da Israele. Sui corpi feriti trovati metalli tossici e sostanze cancerogene
Le analisi condotte dai ricercatori di tre Università, coinvolta anche Roma
di Umberto De Giovannangeli

Le analisi. Condotte dai ricercatori di tre Università, coinvolta anche Roma
Mezzi sperimentali. Non hanno lasciato schegge o frammenti sui corpi colpiti

La guerra di Gaza non ha curato la ferita che avevamo disperatamente bisogno di medicare. Al contrario, ha rivelato ancor più i nostri errori di rotta, tragici e ripetuti, e la profondità della trappola in cui siamo imprigionati». Così scriveva David Grossman riflettendo sulle conseguenze dell'operazione Piombo Fuso scatenata da Israele nella Striscia di Gaza. Quella ferita continua a sanguinare e come un tragico Vaso di Pandora da quella prigione a cielo aperto e isolata dal mondo che è Gaza, continuano a uscire notizie raccapriccianti.
Come la storia che l'Unità ha deciso di raccontare dopo aver compiuto i necessari riscontri. Una storia sconvolgente. Metalli tossici ma anche sostanze carcinogene, in grado cioè di provocare mutazioni genetiche. È quanto individuato nei tessuti di alcune persone ferite a Gaza durante le operazioni militari israeliane del 2006 e del 2009. L'indagine ha riguardato ferite provocate da armi che non hanno lasciato schegge o frammenti nel corpo delle persone colpite, una particolarità segnalata più volte dai medici di Gaza e che indicherebbe l'impiego sperimentale di armi sconosciute, i cui effetti sono ancora da accertare completamente.
La ricerca, che ha messo a confronto il contenuto di 32 elementi rilevati dalle biopsie attraverso analisi di spettrometria di massa effettuate in tre diverse università, La Sapienza di Roma, l'Università di Chalmer (Svezia) e l'Università di Beirut (Libano) è stata coordinata da New Weapons Research Group (Nwrg), una commissione indipendente di scienziati ed esperti basata in Italia che studia l'impiego delle armi non convenzionali per investigare i loro effetti di medio periodo sui residenti delle aree in cui vengono utilizzate. La rilevante presenza di metalli tossici e carcinogeni, riferisce la commissione in un comunicato, indica rischi diretti per i sopravvissuti ma anche di contaminazione ambientale. I tessuti sono stati prelevati da medici dell'ospedale Shifa di Gaza City, che hanno collaborato a questa ricerca e classificato il tipo di ferita delle vittime. L'analisi è stata realizzata su 16 campioni di tessuto appartenenti a 13 vittime.
I campioni che fanno riferimento alle prime quattro persone risalgono al giugno2006, periodo dell' operazione «Piogge estive». Quelli che appartengono alle altre 9 sono state invece raccolti nella prima settimana del gennaio 2009, nel corso dell'operazione Piombo Fuso.
Tutti i tessuti sono stati esaminati in ciascuna delle tre università. Inglobare schegge o respirare micropolveri di tungsteno, metallo pesante e notoriamente cancerogeno, non potrà che provocare nella popolazione sopravvissuta o che vive nei dintorni un aumento della frequenza di insorgenze tumorali.
Sono stati individuati quattro tipi di ferite: carbonizzazione, bruciature superficiali, bruciature da fosforo bianco e amputazioni. Gli elementi di cui è stata rilevata la presenza più significativa, in quantità molto superiore a quella rilevata nei tessuti normali, sono: alluminio, titanio, rame, stronzio, bario, cobalto, mercurio, vanadio, cesio e stagno nei campioni prelevati dalle persone che hanno subito una amputazione o sono rimaste carbo-
nizzate; alluminio, titanio, rame, stronzio, bario, cobalto e mercurio nelle ferite da fosforo bianco; cobalto, mercurio, cesio e stagno nei campioni di tessuto appartenenti a chi ha subito bruciature superficiali; piombo e uranio in tutti i tipi di ferite; bario, arsenico, manganese, rubidio, cadmio, cromo e zinco in tutti i tipi di ferite salvo che in quelle da fosforo bianco; nichel solo nelle amputazioni. Alcuni di questi elementi sono carcinogeni (mercurio, arsenico, cadmio, cromo nichel e uranio), altri potenzialmente carcinogeni (cobalto, vanadio), altri ancora fetotossici (alluminio, mercurio, rame, bario, piombo, manganese). I primi sono in grado di produrre mutazioni genetiche; i secondi provocano questo effetto negli animali ma non è dimostrato che facciano altrettanto nell’uomo; i terzi hanno effetti tossici per le persone e provocano danni anche per il nascituro nel caso di donne incinte: sono in grado, in particolare l'alluminio, di oltrepassare la placenta e danneggiare l’embrione o il feto. Tutti i metalli trovati, inoltre, sono capaci anche di causare patologie croniche dell’apparato respiratorio, renale e riproduttivo e della pelle. La differente combinazione della presenza e della quantità di questi metalli rappresenta una «firma metallica».
«Nessuno – spiega Paola Manduca, che insegna genetica all'Università di Genova, portavoce del New Weapons Research Group – aveva mai condotto questo tipo di analisi bioptica su campioni di tessuto appartenenti a feriti. Noi abbiamo focalizzato lo studio su ferite prodotte da armi che non lasciano schegge e frammenti perché ferite di questo tipo sono state riportate ripetutamente dai medici a Gaza e perché esistono armi sviluppate negli ultimi anni con il criterio di non lasciare frammenti nel corpo. Abbiamo deciso di usare questo tipo di analisi per verificare la presenza, nelle armi che producono ferite amputanti e carbonizzanti, di metalli che si depositano sulla pelle e dentro il derma nella sede della ferita”. «La presenza – prosegue – di metalli in queste armi che non lasciano frammenti era stata ipotizzata, ma mai provata prima. Con nostra sorpresa, anche le bruciature da fosforo bianco contengono molti metalli in quantità elevate. La loro presenza in tutte queste armi implica anche una diffusione nell'ambiente, in un'area di dimensioni a noi ignote, variabile secondo il tipo di arma. Questi elementi vengono perciò inalati dalla persona ferita e da chi si trovava nelle adiacenze anche dopo l'attacco militare. La loro presenza comporta così un rischio sia per le persone coinvolte direttamente, che per quelle che invece non sono state colpite». L'indagine fa seguito a due ricerche analoghe del Nwrg. La prima, pubblicata il 17 dicembre 2009, aveva individuato la presenza di metalli tossici nelle aree di crateri prodotti dai bombardamenti israeliani a Gaza, indicando una contaminazione del suolo che, associata alle precarie condizioni di vita, in particolare nei campi profughi, espone la popolazione al rischio di venire in contatto con sostanze velenose.
La seconda ricerca, pubblicata il 17 marzo scorso, aveva evidenziato tracce di metalli tossici in campioni di capelli di bambini palestinesi che vivono nelle aree colpite dai bombardamenti israeliani all'interno della Striscia di Gaza. Una conferma viene anche da attendibili fonti mediche palestinesi indipendenti a Gaza City contattate dall'Unità. Tra queste, Thabet El-Masri, primario del reparto di terapia intensiva presso l’ospedale Shifa di Gaza, il dottor Ashur, direttore dello Shifa Hospital e il dottor Bassam Abu Warda direttore della struttura medica attiva a Jabalya, il più grande campo profughi della Striscia (300mila persone).
«L'occupazione di Gaza – riflette Gideon Levy, una delle firme del giornalismo israelianoha semplicemente assunto una nuova forma: un recinto al posto delle colonie. I carcerieri fanno la guardia dall'esterno invece che all'interno». Ed è una «guardia» spietata.❖

l’Unità 14.5.10
India e Cina. Due colossi senza stabilità
Scenari globali È uno degli economisti più importanti del subcontinente e nel suo ultimo libro cita Tien An Men, Woodstock, le Br e il fascismo La sua tesi: l’infinita transizione di «Cindia» al capitalismo comporterà conflitti
di Maria Serena Palieri

Cindia? Dopo il profluvio di saggi di economisti, sociologi, giornalisti occidentali sull' affascinante «mistero» del boom asiatico, ecco una voce diversa. Prem Shankar Jha, indiano settantunenne laureato a Oxford, considerato tra i massimi economisti del pianeta, già autore del Caos prossimo venturo tradotto da noi nel 2007, in Quando la tigre incontra il dragone (in uscita in Italia anch'esso per Neri Pozza) offre una lettura inedita di quanto avviene in Cina e in India. È vero che Cindia si avvia a diventare egemone nel pianeta e che l'Occidente è irrevocabilmente destinato alla zona d'ombra? Quando la tigre incontraildragoneèunsaggiofluviale,dove Shankar Jha ripercorre anche la nostra storia novecentesca, leggendo con occhio originale fascismo e Woodstock, guerre mondiali e Br. Ma veniamo al terzo millennio e a quest'Asia ruggente, dove i dirigenti del Pc cinese girano in Rolls mentre i contadini indiani 200 mila dal 2002 si suicidano in massa. Jha dice che questo saggio nasce da un «se»: nel rapporto sui cosiddetti Brics (Brasile, Russia, India, Cina) Goldman Sachs, nel 2005, affermava che gliultimiduepaesipotevanoconquistare l'egemonia entro il 2050 «se» avessero raggiunto una stabilità politica. Perché quel “se” ha colpito la sua immaginazione di studioso? «Perché entrambi i paesi stanno affrontando una fase di transizione non solo verso un'economia, ma verso una società capitalista. E questa transizione lì dove è già avvenuta, in Europa e negli Usa, ha provocato conflitti. La forza trainante del capitalismo è la concorrenza. Dentro il capitalismo c'è sempre un conflitto, c'è chi vince e chi perde. In Europa, e in misura minore negli Usa, il conflitto si è ricomposto grazie a sindacati, democrazia e Welfare, esattamente in quest'ordine. Il capitalismo si è umanizzato, ma il processo non è avvenuto automaticamente, è stato frutto di una lotta politica che è durata duecento anni».
In India e Cina esistono le condizioni perché il capitalismo si umanizzi? «La Cina potrebbe arrivare già prima del 2030 ad avere un'economia, in dollari, molto più grande di quella statunitense. Ma in Cina non c'è democrazia, i sindacati sono solo portavoce del governo e quanto al Welfare, ciò che c'era ai tempi di Mao è stato distrutto. In Cina il conflitto sociale cresce in modo costante e non ci sono istituzioni che possano contenerlo. Lo strumento confuciano che il sistema concedeva ai cinesi per reclamare giustizia, il cosiddetto 'diritto all'appello', è stato travolto dalla corruzione che pervade il Partito comunista a tutti i livelli. In Cina il problema non è solo politico, è morale».
La storia del suo Paese è diversa: Gandhi, Nehru... «In India c'è una democrazia vivace, vibrante. La percentuale di votanti cresce a ogni elezione. L'India è caratterizzata da un'enorme diversità, più di trecento minoranze etniche, con quindici principali cui fanno capo 150-200 milioni di cittadini. Questo, senza neppure parlare delle caste. Tra questi gruppi, salvo poche eccezioni, c'è armonia sociale. C'è un senso di appartenenza comune ed è ciò che si manifesta quando si va al voto. Eppure anche da noi ci sono difficoltà analoghe a quelle cinesi. Il sistema politico ancora non riesce a raccogliere la sfida che viene dal capitalismo. Il problema è nel fatto che la convivenza delle minoranze produce una divisione verticale della società, mentre la riconciliazione sociale deve avvenire in modo orizzontale. È il capitalismo a dividere la società orizzontalmente, tra ricchi e poveri, in modo trasversale a etnìe e fedi religiose. E cos'è successo in India negli ultimi sessant'anni? Preoccupati per la convivenza tra minoranze, non ci siamo accorti che la borghesia aveva preso il controllo: tra il 1956 e il 1991 commercianti, imprenditori, ricchi agricoltori avevano messo le mani sul governo. Dopo la liberalizzazione del '91, il giro d'affari si ingigantisce. Ma eccoci al problema politico squisitamente indiano: la macchina democratica costa e, a differenza di quanto avviene in molti paesi europei, il governo indiano non ha mai formulato leggi né stanziato fondi a questo scopo. Il sistema da noi è simile a quello della Gran Bretagna, ma mentre lì un candidato deve confrontarsi con un distretto di 60.000 elettori, in India un distretto copre 6.000 kmq, con un bacino di 1.200.000 votanti. Un candidato spende per la sua campagna tra un milione e tre milioni di dollari. E modi legali di raccogliere fondi non ci sono. Allora chi paga? Le grandi aziende, di nascosto. Per i poveri perciò lo Stato è per natura un nemico. I poveri vedono il nemico nei burocrati, nella polizia, nel mondo dei grandi affari. È vero: lo Stato si 'sdebita' regalando alle imprese soldi per erigere infrastrutture. Si costruiscono strade e dighe nelle terre dei più poveri, ma nessuno dà loro niente in cambio. Il risultato è questo: l'India partiva da un passato egualitario, la crescita economica ha migliorato lo stile di vita dell'80% della popolazione. Ma c'è un 20% che sta peggio. E a questi la politica non sa dare risposte».
Lei dedica nel suo saggio uno spazio importante a Tian an Men. Ne dà una lettura diversa da quella che ce ne diedero allora i nostri media. Perché Tiananmen fu il momento in cui la Cina perse il treno per una conciliazione tra sviluppo economico e una propria, originale, democrazia?
«Tian an Men fu frutto di un movimento d'élite, studenti, lavoratori dell'industria ed esponenti dello stesso Pcc, la prima ribellione all'ineguaglianza che andava nascendo e in nome degli ideali che si andavano perdendo. All'epoca i contadini stavano ancora bene. Il governo ci mise sei lunghe settimane a reprimere la rivolta. Perché? Non voleva giustiziare la futura classe di governo. Ma, Prem Shankar Jha è uno dei massimi economisti indiani. Tra il 1986 e il 1990 è stato il corrispondente indiano dell’Economist, e nel 1990 è diventato collaboratore del primo ministro V.P. Singh. Dal 1997 al 2000 ha insegnato all’Università della Virginia. Il suo libro più celebre è «Il caos prossimo venturo».
dopo Tiananmen, fu imposta la linea dell'arricchimento veloce, per emarginare gli scontenti e chi denunciava la corruzione. Ha funzionato fino al '97. Poi con la recessione hanno cominciato a imporre tasse illegittime: oggi gli scontenti tra i contadini sono 60 volte più che allora». L'Europa nel suo saggio non ha spazio: non è uno dei “giocatori”. Cosa pensa della crisi dell'eurozona?
«Obama mi ha dato speranza. Ma c'è la crisi dell'euro, Usa e Gran Bretagna, con la politica di spesa, non hanno raggiunto i risultati sperati, dal 2003 i conflitti di India e Cina sono diventati più evidenti. I poteri stabilizzati da tempo collassano, i paesi nuovi sono tormentati da guerre intestine. E, legato a tutto questo, c'è il problema del riscaldamento globale. Il mondo è in una crisi esistenziale. E il fatto è che abbiamo pochissimo tempo per capire come affrontarla».

l’Unità 14.5.10
Abbiamo bisogno di eroi
di Carlo Lucarelli

Parlare di Emilio Fede in un confronto con Roberto Saviano, sia dal punto di vista umano che civile e giornalistico, sarebbe come sparare sulla Croce Rossa e io non lo faccio. Prendo spunto, quindi, da una delle tante sciocchezze devo ripetere questo termine già usato qui in precedenza più o meno allo stesso proposito per fermarmi sul concetto di eroe. Benedetto il paese che non ha bisogno di eroi, diceva Bertold Brecht. Bene: noi non siamo quel paese.
Quel paese che non ha bisogno di eroi è un paese in pace e con una società così matura da non avere bisogno di simboli, stimoli ed esempi. Noi non siamo quella società.
Siamo un paese in guerra la guerra contro le Mafie di cui abbiamo tutti i giorni coscienza attraverso crimini, sequestri, arresti e denunce che ha bisogno continuamente di essere risvegliato e allarmato. Saviano, col suo essere scrittore e giornalista, col suo essere intellettuale ma anche soltanto col suo essere Saviano, fa esattamente questo. Come hanno fatto tante altre persone che devono essere chiamate eroi, da coloro che sono stati uccisi a quelli che ogni giorno testimoniano della lotta alla mafia senza avere addosso i riflettori che ha Saviano. Riflettori che vanno benissimo: abbiamo sempre denunciato il silenzio attorno alla Mafia, che senso ha lamentarsi quando i riflettori arrivano, non importa chi se li tira dietro, anzi, grazie, soprattutto se lo fa sulla propria pelle.
Ora, un paio di domande ad Emilio Fede. La prima: che significa che Saviano è un rompiscatole? In che modo rompe? Che fa per rompere, che dice? Io lo conosco, seguo il suo lavoro, leggo le sue cose e non l’ho ancora capito.
La seconda, ed è più maliziosa: a chi le rompe, le scatole, Saviano?

giovedì 13 maggio 2010

l’Unità 13.5.10
FIEG e FNSI Difendiamo il diritto di cronaca
Intercettazioni: Appello congiunto al Parlamento
Riportiamo di seguito l’appello congiunto rivolto al Parlamento dalla Federazione italiana editori di giornali (Fieg) e dalla Federazione nazionale stampa italiana (Fnsi) a proposito del ddl sulle intercettazioni

In occasione della discussione al Senato della Repubblica del disegno di legge sulle intercettazioni («ddl Alfano»), la Fieg e la Fnsi si uniscono nel rinnovare al Parlamento e a tutte le forze politiche l’appello a non introdurre nel nostro ordinamento limitazioni ingiustificate al diritto di cronaca e sanzioni sproporzionate a carico di giornalisti ed editori.
Il testo all’approvazione dell’Aula del Senato è ancora più restrittivo di quello già negativo approvato dalla Camera dei deputati. Viene imposto, infatti, il divieto di pubblicare il contenuto, anche per riassunto, di tutti gli atti d’indagine, anche se non più coperti da segreto, fino alla chiusura delle indagini.
Si tratta di previsioni che nulla hanno a che fare con la pubblicazione delle intercettazioni e che intervengono in modo sproporzionato impedendo di fatto il diritto di cronaca giudiziaria sancito dalla Costituzione italiana e dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Il divieto di pubblicazione non è giustificato né dalla protezione dell’attività investigativa, perché si tratta di atti non più coperti da segreto, né dalla tutela della riservatezza delle persone, perché si tratta della notizia di atti d’indagine tipicamente oggetto del diritto di cronaca giudiziaria.
Gli editori e i giornalisti concordano sulla necessità che sia tutelata la riservatezza delle persone, soprattutto se estranee alle indagini, ma denunciano con forza l’inaccettabilità di interventi che porterebbero ad un risultato abnorme e sproporzionato: impedire la cronaca di eventi rilevanti per la pubblica opinione, quali le indagini investigative, imponendo il divieto di pubblicare la notizia di atti non segreti.
Allo stesso effetto di limitazione della libertà di informazione portano le previsioni del disegno di legge che introducono pesanti sanzioni nei confronti dei giornalisti e la responsabilità oggettiva a carico dell’editore, per la pubblicazione di notizie di cronaca interdette dalla nuova normativa, responsabilità che verrebbe ad aggiungersi, e in modo confuso, a quella del direttore di giornale.
È necessario salvaguardare il diritto di cronaca e di libera informazione. Occorre tutelare la funzione della stampa e del giornalista. L’Italia deve restare in linea con la propria tradizione e con i principi europei e delle nazioni più evolute.

Repubblica 13.5.10
Gli esperimenti dello psicologo Tomasello mostrano che per istinto siamo portati a cooperare I test sono stati condotti su gruppi di bambini fino a 18 mesi. Poi i comportamenti cambiano
Ecco perché generosi si nasce ma la bontà dura fino a due anni
"Mi schiero con Rousseau che considerava gli esseri umani per natura solidali, ma poi corrotti dalla società"
di Marina Cavalieri

Generosi per vocazione, altruisti per istinto. Portati ad allearsi più che a scontrarsi. Più disposti ad aiutare che a tradire. Così sono i bambini piccolissimi, tra il primo e il secondo anno di vita, con una tendenza naturale ad aiutare il prossimo, un sentimento non indotto da condizionamenti sociali e culturali, non influenzato dai desideri e dalle minacce dei genitori. Solo dopo questo istinto originario si trasforma. Solo più tardi si perde l´innocenza. Ed eccoci da adulti, così come sappiamo: un po´ meno angeli e un po´ più demoni.
Altruisti nati Perché cooperiamo fin da piccoli è l´ultimo libro di Michael Tomasello (Bollati Boringhieri, pagg. 144, euro 15), noto psicologo evoluzionista americano, considerato un impavido pioniere dai suoi colleghi. Tomasello illustra con pignoleria ed esperimenti di laboratorio il comportamento dei bambini nelle prime fasi dell´esistenza, raggiungendo risultati da molti giudicati sorprendenti perché dimostra, stupendo molti genitori, che i cuccioli d´uomo, a differenza di quelli di scimpanzé, sembrano più disposti a mettere da parte il vantaggio individuale e ad aiutare generosamente il prossimo. «Mi schiero con Rousseau», scrive deciso Tomasello, «il filosofo che considerava gli esseri umani per natura cooperativi e solidali ma poi corrotti dalla società. Anche se integro quella teoria con alcune critiche: sostengo che i bambini si dimostrano collaborativi in molte situazioni ma non in tutte perché ogni organismo deve avere anche un po´ di egoismo per sopravvivere».
E Tomasello si assume l´onere della prova. Con i suoi esperimenti vuole dimostrare alcune cose: i bambini sono capaci di prestare aiuto, fornire informazioni, condividere. Tutto con assoluto e disarmante disinteresse. Il punto di partenza è molto semplice: bambini tra i 14 e i 18 mesi vengono messi di fronte ad un adulto che vedono per la prima volta. L´adulto si trova ad affrontare un banale problema pratico e i piccoli lo aiutano a risolverlo, sia che si tratti di recuperare oggetti lontani dalla sua portata o aprire un armadietto se l´adulto ha le mani impegnate. Su 24 bambini presi in esame 22 hanno offerto il loro aiuto almeno una volta. Immediatamente.
Ma non finisce qui. Per lo psicologo c´è nei bambini una propensione spontanea a simpatizzare con qualcuno in difficoltà. Infatti vediamo i bambini-cavia di Tomasello solidarizzare con un adulto a cui era stato strappato intenzionalmente un foglio: «guardano la vittima con un´espressione partecipe», scrive lo psicologo. I piccoli sono anche capaci di fornire informazioni utili. In un altro esperimento li osserviamo aiutare un adulto che aveva perso un oggetto, i bambini, ignari protagonisti, si sforzano di dare indicazioni, fornendo una specifica forma d´aiuto che solo i cuccioli d´uomo sanno fare ovvero «condividendo le informazioni necessarie».
Ma le gesta eroiche e gentili dei nostri piccoli altruisti sono molteplici. È evidente, si sente in dovere di aggiungere Tomasello, che gli esseri umani non sono angeli della cooperazione, uniscono le forze anche per compiere atti ignobili, tali atti però non sono diretti contro gli appartenenti al gruppo. Come i politici hanno sempre saputo, il modo migliore per motivare le persone è identificare dei nemici. E i bambini hanno un innato, e squisitamente umano, senso del «noi». Fin qui gli ingegnosi esperimenti per dimostrare le radici dell´altruismo. Alla base ci sarebbe una tendenza innata. Dopo vengono le norme, le istituzioni. Tutte le complicazioni, più o meno necessarie, che conosciamo. Ma a che punto si perda la primitiva innocenza, e quando anche i bimbi s´incarogniscono, Tomasello non lo spiega, non è parte della ricerca. Questa è un´altra storia.

Repubblica 13.5.10
Lo scrittore Ammaniti: "Molto dipende dal carattere"
"L'egoismo sembra quasi genetico i piccoli seguono la legge della giungla"
intervista di Dario Pappalardo

«La mia sensazione è esattamente contraria». Secondo Niccolò Ammaniti, che guarda il mondo dell´infanzia con gli occhi dello scrittore e lo racconta dentro romanzi come Io non ho paura, i bambini non nascono altruisti. Anzi. «Ma non mi baso su ricerche e dati statistici, solo sulla vita vissuta».
Ammaniti, i bambini sono tendenzialmente cattivi?
«Credo che naturalmente esista un egoismo quasi genetico. Anche i bambini rispondono in qualche modo alla legge della giungla. Tendono a sopraffarsi. Poi l´educazione mitiga le cose. Ma l´istinto naturale a sopravvivere va contro quello di condividere le cose».
Insomma, concorda più con Hobbes che con Rousseau...
«Direi di sì. Certo, oltre all´istinto, ci sono le attitudini del carattere: i bambini generosi esistono. In loro, come negli adulti, mi pare di vedere comunque la tendenza a dividersi in leader e in gregari. È quello che ho descritto in Io non ho paura, dove ci sono leader tirannici, ma il protagonista è un gregario sentimentale».
Tornerà a raccontare i bambini in un romanzo?
«Sicuramente riprenderò l´argomento nei prossimi romanzi. La crescita è sostanziale come momento della vita. E uno scrittore non può rinunciare a raccontarla».

mercoledì 12 maggio 2010

il Fatto 12.5.10
Da donna a donne: stupratele, tanto abortiscono
A Massa durante un convegno sulla pillola Ru486 l’incitamento da parte delle estremiste di destra
di Giampiero Calapà

Presente anche Roberto Fiore, leader di Forza Nuova Per lui l’aborto è come l’eutanasia

Insulti misogini pronunciati da donne contro altre donne: “Stupratele tanto abortiscono”, violenza con spintoni e la telecamera della tv locale “Antenna3” distrutta, oltre al caos politico con reciproche accuse tra i partiti. L’iniziativa di domenica scorsa sulla pillola Ru486, organizzata al Teatro dei Servi di Massa dalla rivista “Ordine Futuro” (riconducibile a Forza Nuova), lascia questa eredità alla città toscana, non nuova a tensioni e episodi di violenza fra estrema destra e Carc.
Al convegno, a cui partecipavano diversi medici e altre sigle politiche, come i Radicali, il parapiglia è cominciato sulle parole del leader di Forza Nuova, Roberto Fiore: “L’aborto è come l’eutanasia”. A quel punto, racconta la giornalista di Antenna3, Manuela D’Angelo, “un gruppo di donne del comitato ‘Usciamo dal silenzio’ hanno deciso di abbandonare il teatro”. Qualcuna di loro ha
gridato “siete i soliti fascisti”. “Ci avevano già riconosciute mentre entravamo – raccontano una rappresentante del comitato – e alcuni di loro ci hanno detto che quella era la casa dei fascisti, che era il prezzo da pagare alla democrazia che noi abbiamo voluto, una vergogna”. Anche perché fuori dalla sala del convegno, dopo le parole di Fiore, gli insulti si sono fatti più pesanti e quello “stupratele tanto abortiscono” per bocca di una simpatizzante
dell’area di estrema destra ha fatto molto male, proprio perché pronunciato da un’altra donna. “Da parte nostra – precisano al comitato – non c’è stata alcuna provocazione, ma ci siamo sentite dire anche altre cose come: ‘Se non apriste le gambe certe cose non servirebbero’, incitazioni allo stupro gravissime”. Sentite le urla provenienti da fuori la sala del convegno, D’Angelo e il direttore di Antenna3 Andrea Lazzoni, per l’occasione in funzione da operatore, sono accorsi al corridoio d’ingresso, ma “ragazzotti di destra, non sappiamo se tesserati a Forza Nuova o meno, ma comunque simpatizzanti, hanno alzato le mani scaraventando per terra la telecamere e minacciandoci fisicamente”.
A un chilometro di distanza dal Teatro dei Servi, contemporaneamente, andava in scena una manifestazione di protesta delle sigle di estrema sinistra. Intanto la maggioranza in consiglio comunale, che va dall’Udc a Rifondazione ma senza il Pd, si è impegnata a chiedere al sindaco Roberto Pucci di adottare un regolamento che consenta di non concedere spazi pubblici, quel teatro è comunale, a soggetti di evidente ispirazione “xenofoba, razzista, omofoba e fascista”: chiudere le porte di Massa a movimenti come quello di Fiore insomma. Dal Pdl arriva la difesa, invece, dei camerati di Forza Nuova, infatti per il consigliere comunale Stefano Caruso “tutto il caos è stato creato dai comu-
nisti esaltati e anacronistici, altro che apologia di fascismo, l’iniziativa è stata utile per divulgare informazioni rispetto a un argomento poco conosciuto e oggetto di errate interpretazioni: è preoccupante sentire etichettare come antidemocratico chi si propone di fare cultura”. E per Forza Nuova chi ha minacciato o insultato “non è un esponente o iscritto al partito, ci dispiace che nessuno si sia accorto della sala gremita e dei professionisti che hanno preso parte al convegno”. A muso duro contro il sindaco Pucci parte quel Partito democratico che qui non è nella maggioranza di centrosinistra: “Quando si amministra una città medaglia d’oro della Resistenza non si può transigere sui principi fondamentali facendo finta di non vedere”. Francesco Mangiarcina, responsabile di Forza Nuova, replica che “il Pd che si schiera con i Carc lo fa solo per non perdere occasione di attaccare il sindaco Pucci, per loro motivazioni politiche che non ci riguardano”.


il Riformista 12.5.10
«O ci chiedi o ci chiudi» dissero
Il comitato di bioetica è stato chiuso
Scadenza. L’organismo consultivo della presidenza del Consiglio chiude i battenti nel disinteresse generale. «Meglio così» dicono molti membri. Ma Palazzo Chigi smentisce il taglio.
di Anna Meldolesi
qui
http://www.scribd.com/doc/31262438/il-Riformista-12-5-10-p6

Repubblica 12.5.10
"Il burqa è contro i valori della Francia"
L’Assemblea nazionale avvia l´iter per vietare il velo integraleVoto quasi unanime Ma nelle Università islamiche si potrà studiare per diventare imam
di Giampiero Martinotti

PARIGI - Il burqa è contrario «ai valori della Repubblica»: l´Assemblea nazionale ha avviato ieri sera l´iter che porterà al bando del velo integrale in qualsiasi spazio pubblico. Lo ha fatto con una risoluzione votata alla quasi unanimità, una convergenza effimera, poiché la sinistra non intende votare la legge proposta dalla maggioranza, ritenuta eccessiva e, probabilmente, incostituzionale. Solo questo primo passo ha trovato tutta la classe politica d´accordo, con la sola eccezione del gruppo comunista, che parla di una «stigmatizzazione della comunità musulmana». Eppure, se la Francia s´incammina sulla strada di un divieto totale per burqa e niqab, lo deve proprio a un deputato comunista, che per primo ha lanciato il dibattito e convinto la destra, ma non i suoi compagni di partito.
Il voto di ieri è stato consensuale e non poteva essere altrimenti, trattandosi di una risoluzione sui principi, un atto solenne ma dal valore puramente simbolico. Nel testo si fa esplicito riferimento al burqa: «Le pratiche radicali che offendono la dignità e l´eguaglianza tra uomini e donne, fra cui il porto di un velo integrale, sono contrarie ai valori della Repubblica». Secondo i deputati, la libertà di espressione non può «affrancarsi dalle regole comuni senza curarsi dei valori, dei diritti e dei doveri che fondano la società». Ma se tutti sono d´accordo sui principi, la loro applicazione è oggetto di forti contrasti e di appassionati dibattiti.
Il capogruppo parlamentare del centro-destra, Jean-François Copé, difende l´idea del divieto globale: «La risoluzione spiega, la legge agisce». Logico, secondo lui, che il consiglio dei ministri vari la settimana prossima un ddl senza ambiguità: «Nessuno può, nello spazio pubblico, portare una tenuta destinata a dissimulare il suo volto». Su questo punto, la destra fa blocco, seguita solo da qualche raro deputato socialista: «Il burqa non è il benvenuto», aveva detto l´anno scorso Nicolas Sarkozy. Senza dare il minimo peso alla marginalità del fenomeno: appena duemila donne, secondo dati ufficiosi, porterebbero il velo integrale su 5-6 milioni di musulmani. Unica concessione alla comunità islamica: in due università pubbliche si potrà studiare per diventare imam. Anche per questo i socialisti presenteranno una proposta di legge più morbida, in linea con le conclusioni cui è giunto, qualche settimana fa, il Consiglio di Stato: il velo integrale va vietato solo nei servizi pubblici, nei trasporti e nei commerci, non per strada.
La maggioranza, tuttavia, ha deciso di andare avanti e di seguire l´esempio del Belgio, che ha già bandito il velo integrale dalle strade. Un´idea che non piace all´assemblea parlamentare del Consiglio d´Europa, che si appresta a bollare il divieto totale come una violazione del diritto alla libertà religiosa.

Repubblica 12.5.10
I guerrieri delle banlieue giovani, stranieri e soli
di Jenner Meletti

Gang, palazzi-ghetto e poco lavoro la mappa delle banlieue d´Italia
Da Roma a Milano, le zone a rischio. "Troppe frustrazioni per i più giovani"
L´allarme dalla ricerca della Cattolica: "Stanno diventando una polveriera"
"Nelle nostre città manca ancora la capacità di vivere insieme, italiani e immigrati"

Per un anno ha camminato nelle strade romane di Tor Pignattara, è entrata nei palazzi e nei negozi. «Secondo la nostra ricerca questo quartiere è fra quelli più a rischio. C´è un pericolo banlieue perché c´è una seconda generazione di immigrati che è alla ricerca di una propria identità. Sono giovani che subiscono angherie e prima o poi reagiranno. Il disagio si sente, si tocca, e può diventare una polveriera».
Stefania Della Queva è una delle ricercatrici che ha lavorato per la facoltà di sociologia dell´università Cattolica di Milano per studiare «processi migratori e integrazione nelle periferie urbane». Dopo avere letto questa ricerca il ministro Roberto Maroni ha annunciato il rischio-banlieue per l´Italia. Nella relazione presentata dal professor Vincenzo Cesareo si rileva anche che le periferie critiche possono diventare «recruitment magnets», calamite di reclutamento, «ovvero luoghi di incubazione e progettazione di eventi eversivi».
Tor Pignattara è una delle sei aree studiate dai sociologi della Cattolica. «Dal 1997 al 2007 - dice Stefania della Queva - in questo quartiere gli immigrati sono aumentati dell´81%. In alcune strade vedi quasi soltanto bengalesi con negozi alimentari e internet point e cinesi con ristoranti e laboratori. Meno visibili i romeni, impegnati nei cantieri. La tensione è pesante. «Non siamo più a casa nostra», dicono gli italiani, che accusano soprattutto i bengalesi di sporcare la città, di fare chiasso fino a notte fonda davanti ai loro negozi, di infestare i condomini con gli odori di aglio e altre spezie… Ci sono stati assalti ai negozi di stranieri. Finora i giovani bengalesi, in gran parte nati in Italia, non hanno reagito, ma c´è il pericolo che una scintilla provochi l´esplosione. Per i bambini la scuola funziona, anche se la percentuale di stranieri alle elementari Pisacane (l´82,2%) è la più alta d´Italia. Alle medie Pavoni è del 28,5%. I problemi iniziano dopo, quando i giovani non trovano più un luogo dove incontrare gli altri giovani del quartiere e si riuniscono in gruppi etnici».
L´Italia non è la Francia ma i segnali di allarme non mancano. «Le banlieue parigine - racconta Rita Bichi, docente di metodologia della ricerca sociale - hanno la loro ossatura nei palazzoni periferici di edilizia popolare anni ‘50 poi occupati da chi arrivava dalle ex colonie. Là c´è stata una ghettizzazione pesante. Da noi le banlieue sono a pelle di leopardo, occupano pezzi di periferia e anche centri storici. Ma ciò che manca, anche in Italia, è quella che noi sociologi chiamiamo mixité, mescolanza, quella voglia di conoscenza reciproca che caccia gli stereotipi e abbassa le paure. Nel 2005 in Francia protagoniste della rivolta sono state le seconde e terze generazioni di francesi che non si sentivano francesi. Da noi queste generazioni stanno crescendo adesso».
Due le zone di Milano sotto inchiesta: via Padova e San Siro - Gratosolio. «Uno dei problemi più seri - dice il ricercatore Davide Scotti che ha seguito via Padova - è rappresentato dagli adolescenti che arrivano qui tramite il ricongiungimento familiare. Sognano di trovare la ricchezza e si trovano in case fatiscenti, magari con una famiglia per stanza, nelle quali non se la sentono di invitare i compagni di scuola italiani. Qui le tensioni sono soprattutto fra le diverse etnie, in particolare fra magrebini e sudamericani. I rapporti fra italiani e immigrati in questi ultimi mesi sono meno tesi che in passato. Dopo gli incidenti, tutti hanno interesse a tenere un profilo basso. La tensione nasce dalla coabitazione non governata di persone arrivate da tutto il mondo. Qui l´edilizia è soprattutto privata e i privati affittano badando soltanto al denaro. Non ci sono custodi sociali, come nelle case comunali. Un´azienda svizzera affitta stanze in ex albergo. L´hotel degradato è diventato il rifugio dei transessuali. Il presidente della zona 2, che voleva visitare il palazzo, è stato accolto con il lancio di wc dai balconi. Il nuovo si costruisce quando si capisce che l´integrazione non può essere un obiettivo ma una conseguenza. Faccio un esempio: non si organizza un "torneo di calcio per l´integrazione" ma un torneo aperto a tutti. Se va bene, potrà nascere la scintilla giusta».
I ricercatori hanno lavorato anche lontano dalle metropoli. «Qui ad Acerra - dice Emiliana Mangone - sarà difficile arrivare ad una integrazione fra italiani e immigrati perché c´è divisione anche fra gli italiani. Siamo poco lontano da Napoli e in sette anni la popolazione è aumentata del 19,8%. Migliaia di napoletani sono venuti ad abitare qui e c´è ancora una distinzione netta fra loro e gli acerrani doc. La periferia è cresciuta in modo abnorme, causa "immigrazione" dal capoluogo e anche perché il centro storico, davvero malridotto, è stato abbandonato dagli acerriani. Nei "bassi" ora ci sono soltanto immigrati dell´Est, soprattutto donne, e magrebini. Gli africani sono nelle campagne, pronti a lavorare per pochi euro al giorno. Anche questa potrà diventare una banlieue, quando gli immigrati chiederanno una vita migliore. E anche perché le tensioni della città sono arrivate da noi, ad esempio con la trasferta dei gruppi disoccupati organizzati».
Sesta e ultima inchiesta nella città di Chieri, sulle colline piemontesi. «È stata scelta quasi a caso - spiega Paolo Parra Saiani - per capire cosa succede in una città "normale". Abbiamo studiato i numeri e fatto tante domande. Questa sembra davvero un´isola felice. Non c´è un´alta criminalità, non ci sono ghetti. Ma i residenti doc e gli stranieri arrivati da 70 paesi diversi vivono in mondi paralleli e separati. Lo straniero è arrivato anche qui. La convivenza ancora no».

Repubblica 12.5.10
La postmodernità secondo Bauman
L´ultimo saggio dello studioso polacco spiega in che modo possiamo affrontare un destino senza certezze
È finita per sempre la pretesa degli intellettuali di essere coloro che stabiliscono ciò che è falso e ciò che è vero
di Zygmunt Bauman

Anticipiamo un brano del libro di "Modernità e ambivalenza" pubblicato da Bollati Boringhieri e in uscita in questi giorni
Il crollo delle "grandi narrazioni" (come le definisce Lyotard) – il dissolversi della fede nelle corti d´appello sovraindividuali e sovracomunitarie – è stato visto con timore da molti osservatori, come un invito a una situazione del tipo "tutto va bene", alla permissività universale e dunque, alla fine, alla rinuncia a ogni ordine morale e sociale.
Memori della massima di Dostoevskij «Se Dio non esiste, tutto è permesso», e dell´identificazione durkheimiana del comportamento asociale con l´indebolirsi del consenso collettivo, siamo giunti a credere che, a meno che un´autorità imponente e indiscussa – sacra o secolare, politica o filosofica – non incomba su ogni individuo, il futuro ci riserverà probabilmente anarchia e carneficina universale. Questa credenza ha efficacemente sostenuto la moderna determinazione a instaurare un ordine artificiale: un progetto che sospettava di ogni spontaneità finché non se ne provava l´innocenza; un progetto che metteva al bando tutto ciò che non era esplicitamente prescritto e identificava l´ambivalenza con il caos, con la "fine della civiltà" così come la conosciamo e potremmo immaginarla. Forse la paura scaturiva dalla coscienza repressa che il progetto era condannato fin dal principio; forse era coltivata deliberatamente, dal momento che svolgeva l´utile ruolo di baluardo emotivo contro il dissenso; forse era solo un effetto collaterale, un ripensamento intellettuale nato dalla pratica sociopolitica della crociata culturale e dell´assimilazione forzata. In un modo o nell´altro, la modernità decisa a demolire ogni differenza non autorizzata e tutti i modelli di vita ribelli non poteva che concepire l´orrore per la deviazione e trasformare la deviazione in sinonimo di diversità. Come commentano Adorno e Horkheimer, la cicatrice intellettuale ed emotiva permanente lasciata dal progetto filosofico e dalla pratica politica della modernità è stata la paura del vuoto; e il vuoto era l´assenza di uno standard vincolante, inequivocabile e applicabile a livello universale.
Della popolare paura del vuoto, dell´ansia nata dall´assenza di istruzioni chiare che non lascino nulla alla straziante necessità della scelta, siamo informati dai racconti preoccupati degli intellettuali, interpreti designati o autodesignati dell´esperienza sociale. I narratori però non sono mai assenti dalla loro narrazione, ed è un compito disperato quello di provare a separare la loro presenza dalle loro storie. È possibile che in generale ci fosse una vita fuori dalla filosofia, e che questa vita non condividesse le preoccupazioni dei narratori; che se la passasse piuttosto bene anche senza essere disciplinata da standard di verità, bontà e bellezza provati razionalmente e approvati filosoficamente.
È possibile persino che molta di questa vita fosse vivibile, ordinata e morale proprio perché non era ritoccata, manipolata e corrotta dagli agenti autoproclamati della "necessità universale". Ma non c´è dubbio sul fatto che una particolare forma di vita non possa passarsela bene senza il sostegno di standard universalmente vincolanti e apoditticamente validi: si tratta della forma di vita dei narratori stessi (più precisamente, la forma di vita che contiene le storie narrate per gran parte della storia moderna).
È stata soprattutto quella forma di vita a perdere il suo fondamento una volta che i poteri sociali hanno abbandonato le loro ambizioni ecumeniche, e a sentirsi dunque minacciata più di chiunque altro dal dissolversi delle aspettative universalistiche. Finché i poteri moderni si sono aggrappati con risolutezza all´intenzione di costruire un ordine più efficace, guidato dalla ragione e dunque in definitiva universale, gli intellettuali non hanno avuto grande difficoltà ad articolare la loro rivendicazione a un ruolo cruciale nel processo: l´universalità era il loro dominio e il loro campo di specializzazione. Finché i poteri moderni hanno insistito sull´eliminazione dell´ambivalenza come misura del miglioramento sociale, gli intellettuali hanno potuto considerare il loro lavoro – la promozione di una razionalità universalmente valida – come veicolo principale e forza trainante del progresso. Finché i poteri moderni hanno continuato a denigrare, mettere al bando e sfrattare l´Altro, il diverso, l´ambivalente, gli intellettuali hanno potuto contare su un massivo supporto alla loro autorità di giudicare e di distinguere il vero dal falso, la conoscenza dalla mera opinione. Come il protagonista adolescente dell´Orfeo di Jean Cocteau, convinto che il sole non sorgesse senza la serenata della sua chitarra, gli intellettuali si sono convinti che il fato della moralità, della vita civile e dell´ordine sociale dipendesse dalla loro soluzione del problema dell´universalità: dalla loro capacità di fornire la prova decisiva e definitiva del fatto che il "dovere" umano sia inequivocabile, e che la sua inequivocabilità abbia fondamenti incrollabili e totalmente affidabili.
Questa convinzione si è tradotta in due credenze complementari: che non ci sarebbe stato niente di buono nel mondo, a meno che non ne fosse provata la necessità; e che provare questa necessità, se e quando ci si fosse riusciti, avrebbe avuto sul mondo un effetto simile a quello attribuito agli atti legislativi di un governante: avrebbe sostituito il caos con l´ordine e reso trasparente ciò che era opaco.
L´effetto più spettacolare e durevole dell´ultima battaglia della verità assoluta non è stato tanto la sua inconcludenza, derivante come direbbero alcuni dagli errori di progetto, ma la sua totale irrilevanza per il destino mondano di verità e bontà. Questo destino è stato deciso molto lontano dalle scrivanie dei filosofi, giù nel mondo della vita quotidiana dove infuriavano le lotte per la libertà politica e dove si spingevano avanti e si ricacciavano indietro i confini dell´ambizione statale di legiferare sull´ordine sociale, di definire, segregare, organizzare, costringere e reprimere.

Repubblica 12.5.10
"Draquila, la Guzzanti denuncia la deriva autoritaria d´Italia"
di Maria Pia Fusco

Le frasi-choc del catalogo ufficiale sul film

CANNES. Se l´ignaro spettatore, senza nessuna conoscenza del nostro paese, leggesse la presentazione di Draquila-L´Italia che trema al festival di Cannes contenuta nel catalogo ufficiale che accompagna le proiezioni, avrebbe l´impressione di un´Italia sull´orlo della dittatura. «Perché gli italiani votano Berlusconi? La virulenza della propaganda, l´impotenza dei cittadini, un sistema economico precario, giochi di potere illegali, una città devastata dal terremoto: sono questi - si legge nel catalogo nella presentazione del film in programma domani - i fattori che, combinati insieme, possono spiegare come la giovane democrazia italiana sia stata assoggettata». E ancora «la caricatura di Berlusconi - una delle imitazioni più celebri dell´attrice - passeggia nella tendopoli dell´Aquila e vaga nella città deserta, come un imperatore alla fine di un regno... «. Perfino più pesanti le considerazioni della rivista Le film français: l´Aquila, devastata dal terremoto - si legge - «diventa lo spazio ideale per raccontare la deriva autoritaria dell´Italia, l´imbroglio dei ricatti, gli scandali, la corruzione e l´inerzia di una classe politica, dei media, degli abitanti e di tutto ciò che paralizza il paese».
Parole forti, che gettano benzina sul fuoco delle polemiche che in Italia hanno già reso il film un "caso", già infuocate dopo la decisione del ministro Bondi di prendere le distanze dal film rinunciando a una visita al festival. Secondo la rivista Le film français, Draquila risponde non solo alla domanda sulle ragioni del voto a Berlusconi, ma anche al «perché gli italiani non considerano la democrazia un sistema adatto al governo della nazione» o «perché credono di più a quello che dice la televisione piuttosto che alla realtà di quello che vedono». E ancora: «Perché gli abitanti dell´Aquila hanno scambiato ciò che avevano di più prezioso, la loro comunità, una città dinamica piena di studenti e di opere d´arte, con un piccolo appartamento fornito da Berlusconi nelle periferie?».
Anche le recensioni del film non vanno per il sottile: Screen International, analizzando le tesi della Guzzanti, sottolinea che «in nome dell´emergenza, si è permesso alla Protezione civile di agire senza controllo e al di fuori della legge». E secondo Screen questo fatto «dovrebbe avere come conseguenza processi ed arresti».
Altrettanto partecipe la critica di Variety: «Un tragico terremoto, scioccante corruzione e gigantesco abuso di potere. Anche per gli italiani abituati agli scandali del loro paese Draquila è un pugno nello stomaco». La rivista riconosce alla Guzzanti il merito di essere «scrupolosamente corretta. Non ignora i fan di Berlusconi ed è pronta a denunciare l´inefficienza dell´opposizione. Tuttavia il ritratto di questo disastro e il modo in cui Berlusconi ha convinto la maggioranza degli italiani del suo benevolo paternalismo, suscita un profondo disturbo. E soprattutto, dando voce all´Aquila, suggerisce che le sofferenze della città dopo il terremoto siano il risultato di una deliberata politica di disinformazione».

l’Unità 12.5.10
Emilia, il caso Ronchi travolge i vendoliani
«Logiche di potere»
A migliaia su Facebook i sostenitori dell’ex assessore alla cultura sostituito da un altro dirigente di Sel: la vicenda rilanciata da Fofi Lui accusa il suo partito e i grillini: fanno vecchia politica
di Adriana Comaschi

È l’ultima “ferita” lamentata a Bologna dal popolo di sinistra, già scosso dall’addio con scandalo dell’ex sindaco Flavio Delbono. Questa volta a fare rumore è la mancata riconferma dell’assessore regionale alla Cultura, Alberto Ronchi, nella giunta guidata per la terza volta consecutiva da Vasco Errani: da sempre nei Verdi, anticonformista (non ha il cellulare), apprezzato in modo trasversale per il suo lavoro negli ultimi cinque anni, Ronchi è rimasto a casa. «Triturato» dice lui, dalle logiche di spartizione che ormai affliggono tutti i partiti. Anche a sinistra: un’accusa rilanciata domenica sulle pagine dell’Unità da Goffredo Fofi.
Accusa che per Ronchi trova conferma nelle parole del suo successore, Massimo Mezzetti, entrato nella squadra di Errani “in quota” Sel (di cui era coordinatore regionale): «Anche noi vendoliani avevamo diritto a un posto». Un dibattito che in Emilia non è confinato ai salotti della politica: a chiedere un secondo mandato per Ronchi è stato pratica-
mente tutto il mondo della cultura in regione. Con un appello sottoscritto da 3500 persone su Facebook, tra cui 170 intellettuali e artisti: da Guccini a Giuseppe Bertolucci, da Lucarelli a Fresu.
Ronchi stesso dirà la sua, questa mattina in una conferenza stampa in cui sono attese diverse “anime” della sinistra cittadina, molta società civile, operatori culturali. Obiettivo, svelare i “retroscena” della sua esclusione, lanciare «un progetto» in dieci punti per Bologna, scagliarsi contro quella che chiama «politica spettacolo», virus di origine berlusconiana dilagante «anche in Emilia-Romagna». È la politica «fatta di dichiarazioni, di frottole» raccontate ai cittadini mentre nella pratica di tutti i giorni si fa tutt’altro: «Nella retorica quotidiana della sinistra si insiste su merito, esperienza, cultura, ruolo della società civile. Nella realtà, di queste cose non importa nulla». Nel caso emiliano, ecco allora una Sel «che a livello nazionale, con Vendola, parla di poesia nella politica, di fabbriche, ma che poi si muove secondo la vecchia logica delle “componenti interne”, dei posti. Vedi le affermazioni di Mezzetti, a cui peraltro auguro buon lavoro di cuore».
Il paladino di teatri, fondazioni, biblioteche, musicisti e di una miriade di associazioni assicura di non serbare rancore. Non ce l’ha con Errani, precisa, «lo stimo come prima delle elezioni e penso che senza di lui qui ci sarebbe stato un altro Piemonte. È uno dei pochi che non fa politica spettacolo, non va nei salotti tv ma sta sul territorio». Certo l’ex assessore si dice dispiaciuto, «poteva dare un segnale diverso con la mia riconferma, non ha voluto o potuto farlo». Le stilettate più forti vanno dunque a Sel, ma anche ai grillini: «Sono comunque un partito su base leaderistica e dal linguaggio mass mediatico, l’unica differenza è che usano internet invece che giornali e tv». La prova? Il «pasticcio» andato in scena dopo il voto, quando a scegliere il secondo eletto da portare in Regione «è stato il leader bolognese, che ha voluto un proprio uomo scavalcando la seconda più votata».
I vendoliani danno un’altra versione dei fatti. E invitano a valutare cosa sarebbe successo se ogni assessore “forte” della giunta Errani avesse fatto “campagna” su Facebook per la riconferma.
Al di là delle vicende personali il rischio all’orizzonte, nell’affaire Ronchi, è quello di una nuova fuga dalla politica. «In parte sono d’accordo con Fofi. E cioè sul fatto spiega la scrittrice Grazia Verasani, firmataria del documento pro Ronchi che il Pd oggi a Bologna non ha più il concetto di diversità. Se va avanti così però a votare non vado più».

Repubblica 12.5.10
Rivelazioni del leader radicale: la mia compagna non è mai stata gelosa
Sesso, le confessioni di Pannella "Ho amato tre, quattro uomini"
di Antonello Caporale

"Non mi sono mai sposato, ci andai vicino ma lei era troppo innamorata"
"Non ho mai avuto voglia di un figlio, ma credo che ci sia un cinquantenne che mi somiglia"

ROMA - «Io alle tre di notte esco per la città perché ho voglia di piangere e amare», spiegò Marco Pannella ai compagni raccolti attorno a lui in un congresso a Napoli.
Della essenza della vita e del valore, «anche politico», delle «carezze» Marco ha variamente illustrato. Ora dal palco, ora ai microfoni di radio radicale, e anche nelle stanze del partito, durante le chilometriche riunioni in via di Torre Argentina. Oppure a casa sua, dietro Fontana di Trevi. Una casa aperta nel senso letterale, avendo egli deciso, lo rivela Filippo Ceccarelli ("Il letto e il potere", Longanesi) di lasciare per anni senza serratura la porta d´ingresso e così rendere plateale la sua idea di convivenza plurima e felice.
Perciò Benedetto Della Vedova, ora deputato amico di Fini ma fior di ex per essere stato dentro la trincea radicale, ha letto senza stupore il flash d´agenzia che riportava il "coming out" pannelliano, e i "tre, quattro uomini che ho amato molto". «Solo chi è lontano da quel mondo si stupirebbe. Io no».
Eppure, ad ottant´anni e qualche giorno, Pannella ha voluto rievocare, in un´intervista a Clemente Mimun che oggi pubblica il settimanale Chi, anche il carattere bisessuale della sua inesauribile e polimorfa personalità. «Sono legato da 40 anni a Mirella (Paracchini, ndr), ma ho avuto tre, quattro uomini che ho amato molto. Non c´è mai stata alcuna gelosia con lei. Potevamo avere, e avevamo, anche altre storie».
Tre o quattro uomini. O cinque o anche sei e più. Certo tutti particolarmente giovani, e particolarmente militanti, decisamente coinvolti e rapiti dall´idea di contribuire alla sovversione dell´ordine e al ridisegno di valori finora destinati a colorare di grigio per tanti la vita striminzita e borghesuccia. Era, è anzi sempre risultata temeraria ma avvincente l´idea pannelliana di fare sesso come complemento e pratica politica, in qualche modo ideologizzarlo. E quindi è divenuto usuale, naturale abbracciare, anche come compimento finale di un ragionamento, i corpi in casa sua, nella stanza accanto a quella dove per esempio poteva capitare dormisse la propria compagna.
«Labile e deformato il confine tra politica e amore, linea d´ombra, segno indistinto», dice Marco Cappato, anch´egli espressione della straordinaria fucina di giovani talenti radicali. Militante semplice, ma presto segretario e poi eurodeputato. Un cursus honorum simile ai tanti coetanei che hanno raccolto dalla bocca di Pannella le prime parole d´ordine, e sfidato, avanzato, issato e poi ammainato la bandiera. Alcuni tradendola. Si ricordano solo i volti più noti: quello di Francesco Rutelli, o anche di Giovanni Negri («ma adesso mi occupo di vino e non di Pannella»), o di Daniele Capezzone, oggi portavoce di Berlusconi, o il belga Jean Fabre, uno dei primi segretari del partito divenuto "trasnazionale".
«L´amore come topos definito», afferma Della Vedova che si è aggiunto a quel mondo senza mai troppo mischiarsi. E´ questo Pannella. E anche quest´altro.
«Non mi sono mai sposato, ma arrivai alle pubblicazioni con Bianca, una ragazza che conobbi a Pavia. Però era troppo innamorata, pendeva dalle mie labbra, non poteva funzionare». E sulla mancata paternità: «Con Mirella ci abbiamo riflettuto tanto ad avere un figlio. Ma io non ne ho mai avuto voglia. Anche se ho un forte dubbio su una ragazza che conobbi tanti anni fa, Gabriella. Chissà se non ci sia un cinquantenne in giro che mi somiglia fin troppo». Ecco, un piccolo Pannella sarebbe una notizia. E una novità eccessiva e insopportabile: per il figlio putativo e forse anche per suo padre.