martedì 18 maggio 2010

l’Unità 18.5.10
Il regno dei barbari
L’era moderna in Italia è finita, dice Scalfari Ma la vera domanda è un altra: sono gli invasori incolti ad aver vinto o è la sinistra ad aver perso?
di
Nicola Tranfaglia

Eugenio Scalfari, ospite in una trasmissione televisiva per il suo ultimo libro, ha detto che in Italia l’era moderna è finita e che siamo in un’età contemporanea abitata e dominata dai barbari. Constatazione condivisibile ma fino a un certo punto. Chi ha vissuto con strumenti storici la crisi del vecchio sistema politico del ’92-94 e l’ascesa di Berlusconi non può dimenticare che sono stati proprio molti “moderni”, di cui parla Scalfari, a favorire l’arrivo dei barbari con i loro gravi errori a sinistra come, altrettanto, a destra. E ancora, mentre i barbari ormai impazzano, assistiamo ai soliti scontri tra moderni che assomigliano ai barbari e ripetono all’infinito le vecchie lotte di potere, sempre le stesse.
Affronta la contraddizione di questo periodo con armi più leggere, ma per certi versi più efficaci, un giornalista colto come Piero Dorfles, immaginando di essere un dinosauro di fronte ai barbari di oggi e scrivendo un saggio assai godibile che si intitola Il ritorno del dinosauro. Una difesa della cultura (Garzanti, pp.205, 18 euro) e che mette in luce l’atteggiamento molto negativo delle classi dirigenti, soprattutto di governo, sull’istruzione, sull’università e sulla ricerca, quindi sulla cultura degli italiani.
Da questo punto di vista, vale la pena parlare di un documento straordinario come il Carteggio Pannunzio-Salvemini 1949-1957 (pp 190) edito dall’Archivio Storico della Camera dei Deputati, che rievoca l’incontro felice che si realizza in un periodo difficile, come quello del dopoguerra caratterizzato da un’aspra guerra fredda in cui è immersa l’Italia, tra lo storico pugliese Salvemini, appena tornato dal lungo esilio americano per sfuggire al fascismo, e il giornalista italiano Mario Pannunzio che aveva ripudiato il passato fascista e credeva a una repubblica democratica come quella costruita dall’Italia con la Costituzione del 1948.
Le diffidenze iniziali, che pure c’erano state nel primo incontro, erano state fugate dalla comune volontà delle due personalità che avevano una fede comune nella democrazia occidentale dopo lo scoppio della guerra fredda e Salvemini decide di collaborare al Mondo, il nuovo settimanale fondato da Pannunzio che rappresenta, come osserva a ragione Massimo Teodori nel suo saggio introduttivo, «la reazione alla crisi della forze di democrazia laica emarginate nel 1948» dal governo De Gasperi che si preparava a sostenere, con la cosiddetta “legge truffa” una battaglia mortale il 18 aprile 1948 con i partiti socialista e comunista costretti dalla guerra fredda a passare all’opposizione anche per la loro vicinanza all’Unione Sovietica.
In quello scontro la Democrazia Cristiana non vinse, perché la legge truffa non scattò, ma riuscì a tenere all’opposizione i partiti della sinistra e si aprì un scontro a lungo termine tra le esigenze costituzionali dell’opposizione e le ragioni della democrazia repubblicana.
Il settimanale di Pannunzio, a sua volta, tenne diritta la barra tra la battaglia per i diritti civili e una democrazia avanzata, continuando peraltro a difendere le ragioni dell’alleanza occidentale contro il blocco orientale e filosovietico.
Il carteggio è ricco di notizie sulle grandi campagne giornalistiche condotte dal settimanale per un’Italia consapevole della sua migliore tradizione democratica e furono alla base di quei convegni del Mondo sulla libera concorrenza, sui monopoli, sullo Stato imprenditore, sulla corruzione, sulle interferenze del Vaticano, che avrebbero preparato, assai meglio di altri dibattiti, la nascita del centro-sinistra e di quella che negli anni sessanta sarebbe stata, pur con le sue inevitabili contraddizioni, la stagione delle riforme possibili nella difficile situazione internazionale.
Furono l’espressione di una mentalità illuministica (su cui sono preziose le Lezioni illuministiche di Enzo Ferrone edite da Laterza (200 pagine, 22 euro) che oggi manca nelle classi dirigenti e che è all’origine, non soltanto del fanatismo e degli scontri feroci all’interno della classe politica, ma anche di un tatticismo esasperato che ha sostituito, grazie al tramonto delle grandi ideologie palingenetiche, il modo di agire dei governi e dei partiti.
Capita spesso anche a chi scrive di aver nostalgia di quella grande stagione di tre secoli fa in cui un gruppo di illuministi in Francia, ma anche in Italia, superò l’epoca feudale e l’ancien regime e aprì la strada alla modernità e alla democrazia. Ma possiamo sperare, oggi, in un ritorno dell’illuminismo?

l’Unità 18.5.10
D’Alema liquida il governo d’emergenza: discussione prematura
Prosegue la polemica con De Benedetti per il libro-intervista «Anche a sinistra disprezzo per la politica, sono dei berluschini»
di Simone Collini

In questa decina di giorni in cui Massimo D’Alema ha girato il Brasile per convegni e conferenze, sono successe le seguenti cose: Dario Franceschini, che l’ha più volte attaccato per la mano tesa all’Udc e per il considerare Fini un «interlocutore», ha aperto al governo d’emergenza (e ieri ha anche avuto col presidente della Camera un lungo colloquio a quattr’occhi); Walter Veltroni, che da segretario Pd non ha mai visto di buon occhio Italianieuropei e Red, ha varato la Fondazione Democratica rispondendo con un evasivo «vedremo cosa succede tra tre anni» a chi gli domandava se intenda candidarsi per la premiership; l’editore del gruppo l’Espresso Carlo De Benedetti ha accusato in un libro il presidente del Copasir, insieme a Bersani, di star «ammazzando» il Pd, nonché di essere peggiore di Berlusconi perché «almeno Silvio ha fatto qualcosa, D’Alema e quelli come lui non hanno fatto niente».
Il presidente di Italianieuropei rientra a Roma e prima ancora di riprendersi dal cambio di fuso orario partecipa alla presentazione dell’ultimo libro del professor Michele Prospero («Il comico della politica», casa editrice Ediesse) e in una mezz’ora di intervento a ognuno dà il suo. Il governo d’emergenza «senza e oltre Berlusconi»? «Al governo c’è Berlusconi e non mi pare intenzionato a sgombrare il campo», dice D’Alema definendo quella che si è aperta «una discussione abbastanza prematura», anzi, di più, «dibattiti che apriamo tra di noi allo scopo di creare problemi tra di noi, scopo sempre perseguito con successo pieno». Perché se pure il periodo di solidarietà nazionale diede frutti mai visti nella Seconda Repubblica e se pure con i governi tecnici dei primi anni ‘90 «il paese è stato governato» meglio che negli ultimi 16 anni, oggi non c’è nulla di simile in campo: «La situazione del Paese è grave, c’è una crisi morale della classe dirigente, e un grande partito di opposizione deve prendersi le proprie responsabilità, ma non almanaccando soluzioni che non esistono. Ora questi dibattiti non servono a niente».
E allora cosa può fare il centrosinistra per battere il centrodestra? D’Alema parte da quello che non deve fare, ovvero «accettare l’ideologia dell’avversario», fare come chi ha «teorizzato il nuovismo andando incontro ad esiti catastrofici», puntare alla «investitura diretta del capo da parte del popolo cancellando tutte le mediazioni», pensare che basti trovare un leader «come Berlusconi, solo più giovane e con un più bel sorriso». L’attacco più evidente, anche se non ne cita il nome, è a De Benedetti: «In nessun paese del mondo si oserebbe dire di un uomo politico che non ha combinato niente perché ha fatto solo politica. In Francia nessuno lo direbbe di Sarkozy». E allora non solo Berlusconi ha operato in «un campo abbondantemente destrutturato», «arato» da una «borghesia intellettuale» sedicente di sinistra che ha profuso un pari «disprezzo per la politica e un’esaltazione acritica della società civile»: «Ci sono anche nel nostro campo imprenditori che vogliono condizionare la politica, dei Berlusconi di serie B, dei berluschini, visti i risultati». Negativi, nel senso. E non potrebbe essere altrimenti: «Per battere Berlusconi serve una battaglia culturale che muova dalla rivalutazione della politica. Il nuovismo, il populismo, la cultura padronale, se accetti l’ideologia dell’avversario hai perso prima di cominciare».

Repubblica 18.5.10
D´Alema
"In Italia ci sono Berluschini di sinistra"

ROMA - Massimo D´Alema risponde a Carlo De Benedetti. L´Ingegnere aveva parlato dell´ex premier in un libro intervista accusandolo di molti errori, di aver fatto solo politica nella sua vita e di «ammazzare il Pd» con la sua strategia. D´Alema non cita mai espressamente l´editore di Repubblica, ma a lui si riferisce quando parla di un populismo diffuso anche a sinistra: «In nessun paese si potrebbe dire che un politico non ha combinato nulla perché ha fatto solo politica. Nessuno lo direbbe a Sarkozy. Nel nostro campo - aggiunge - tanti imprenditori vogliono fare i Berlusconi di sinistra. Ma sono dei Berlusconi di serie B, dei berluschini. Lui almeno fa le cose in grande».

l’Unità 18.5.10
I migranti che lavorano nel paese respingente
Uno scambio ineguale

L 'Italia sta mutando: e ciò accade nonostante tutti gli ostacoli, palesi eocculti, posti in essere dall'attuale legislazione che rende difficilel'integrazione dei migranti nella società italiana.Secondo l'Istat, tra il 2006 e il 2009 la percentuale di lavoratoristranieri è aumentata del 165% (da 85mila a 225mila nuove unità l'anno) etra il primo e il 4 ̊ trimestre 2009, la percentuale è aumentata del 13%. Aun simile incremento contribuisce anche il fatto che gli stranieri sonodisposti ad accettare qualunque compromesso pur di non perdere il posto dilavoro e con esso il permesso di soggiorno.Ma non è tutto. Secondo i dati di Unioncamere, nel 2009 sono nate 14mila nuove partite Iva con titolare straniero e sono stati 600 mila gli stranieri che hanno ricoperto una carica aziendale (titolare, socio,amministratore).Al 31 dicembre 2009 risultavano iscritte 324.749 partite Iva straniere,con un aumento del 4,5% in più rispetto all'anno precedente e su centoimprese individuali, nel 2009, 77 risultano guidate da extracomunitari. Un ulteriore dato significativo è rappresentato dalla presenza femminile tra le partite Iva straniere, una su cinque è infatti intestata ad una donna. Sono tutti dati che meritano di essere meditati con attenzione. Secondo le stime disponibili (dati del 2007), gli stranieri contribuisconoal PIL nazionale con un contributo pari al 9.1%, garantiscono un gettito fiscale non indifferente e contribuiscono in modo significativo anche alle casse previdenziali dell'INPS, alle quali versano un contributo pari al 4% a fronte di un'erogazione di prestazioni pensionistiche a proprio favore pari all'1%. Quel che si dice uno scambio
ineguale.

il Fatto 18.5.10
In piazza dal papa ma guai a parlare di problemi (veri)
In 150 mila ad abbracciare una Chiesa in crisi di credibilità per gli scandali I numerosi casi di pedofilia e gli scarsi interventi del Vaticano stanno allontanando i fedeli
di Marco Politi

Centocinquantamila in piazza San Pietro per gridare Viva Benedetto XVI! Un Papal-Day al posto di una giornata di iniziativa per le vittime. Ma due terzi degli italiani accusano la Chiesa di insabbiamenti e le vittime si organizzano. Come in America, Irlanda e tante altre parti del mondo sta per nascere anche in Italia un coordinamento tra gli abusati. A Verona, il 25 settembre, si terrà la prima riunione nazionale delle vittime per sensibilizzare l’opinione pubblica e gettare le basi di una rete di collegamento. Il recapito è lacolpa@libero.it e il referente Fiorenzo Bugatti racconta che in pochi giorni “già hanno trovato il coraggio di parlare una dozzina di vittime, che avevano sempre taciuto”.
Promossa dai vertici della Cei, la manifestazione di “affetto e sostegno” a Benedetto XVI ha realizzato un paradossale slittamento. Invece di focalizzare l’attenzione sulle vittime si è scelta la rappresentazione vittimistica di un Papa e di una Chiesa “sotto attacco”. E tra striscioni, palloncini, pullman riempiti di aderenti a Comunione e liberazione, Coldiretti e tante altre sigle, si è rimosso l’imperativo scandito dallo stesso Benedetto XVI: il pentimento non basta, “è necessaria la giustizia”. Ma per fare giustizia bisogna prendere iniziative concrete come è stato fatto altrove. Negli Stati Uniti l’episcopato ha proclamato la tolleranza zero. In Irlanda si sono dimessi vescovi omertosi. In Germania i presuli hanno elaborato “linee guida”. In Austria il cardinale Schönborn ha celebrato nel duomo di Vienna una messa di riparazione per le vittime e ha istituito una commissione di inchiesta, guidata da una personalità indipendente. In Italia la Cei ha promesso “collaborazione” alla magistratura, ma sinora – si attende l’assemblea plenaria del 24 maggio – non ha annunciato pubblicamente misure speciali né ha esortato le diocesi a cercare negli archivi per rintracciare denunce inascoltate. Mentre in altre nazioni sono in azione referenti nazionali e locali, numeri verdi e indirizzi mail per segnaare abusi, l’Italia ecclesiastica sembra dormire il sonno di Biancaneve. Peraltro né l’Osservatore né l’Avvenire hanno mai pubblicato il racconto di una vittima. Eppure dai microfoni di Radio Vaticana il prete anti-pedofilia don Fortunato Di Noto ha informato che dal 2000 al 2010 sono già emersi 80 casi di pedofilia del clero. Altre stime indicano il doppio. Ma ciò che vittime ed esperti sanno perfettamente è che per ogni prete colpevole c’è ben più di un minore abusato. Non a caso il procuratore generale del Sant’Uffizio mons. Scicluna ha mandato dalle colonne di Avvenire un larvato avvertimento ai vescovi d’Italia: “Mi preoccupa una certa cultura del silenzio, che vedo ancora troppo diffusa nella Penisola”. Gli italiani condividono questa diffidenza nei confronti dell’inerzia delle gerarchie. Il 62 per cento della popolazione (sondaggio Demos&Pi-La Repubblica) è convinto che la Chiesa ha “cercato di minimizzare o nascondere i casi di pedofilia”.
D’altronde da anni, su molte questioni, tra ripetute interferenze sul piano legislativo – dai veti sulla regolamentazione delle coppie di fatto all’opposizione al testamento biologico – la gerarchia ecclesiastica si è allontanata dal senso comune degli italiani. Di conseguenza la fiducia nella Chiesa, assestata ancora all’inizio del 2000 su soglie superiori al 60 per cento, crolla ora al 47 per cento.
Lo stesso sondaggio testimonia che, parallelamente, la fiducia nell’azione di Benedetto XVI è calata a minimi storici: 46,6 per cento. C’era stata un’avvisaglia negli anni scorsi. Rispetto al primo biennio di pontificato l’affluenza alle udienze e agli eventi pubblici di papa Ratzinger a Roma era diminuita di un milione di persone. Il sondaggio odierno sancisce un giudizio di delusione per il pontificato e rivela che dal 2007 papa Ratzinger riesce a convincere la metà scarsa dei cattolici (un 53 per cento fino al 2009). Ancora più catastrofica è la disaffezione della gioventù. Nel 2004 il 66 per cento dei giovani (indagine Iard) si proclamava cattolico, adesso solo il 52.
Il paradosso è che – a differenza di altre crisi da lui personalmente provocate nell’ultimo quinquennio – nello scandalo della pedofilia Benedetto XVI ha tracciato una via di assoluto rigore, riconoscendo la centralità dell’attenzione alle vittime, intimando la denuncia dei colpevoli ai tribunali di Stato, affermando che le “peggiori persecuzioni” vengono dall’interno della Chiesa, chiedendo di combattere il peccato nelle file della comunità cristiana.
Invece, trasformata in “giornata dell’orgoglio cattolico” la manifestazione di domenica, con largo concorso di esponenti del centrodestra fra cui Letta, Schifani, Alfano (perché si tratta di farsi perdonare con il bacio dell’anello le vicende imbarazzanti di escort presidenziali e ruberie milionarie della “cricca”, cresciuta all’ombra del governo berlusconiano), ha riservato poca attenzione alla preghiera dei fedeli, guidata dal cardinale Bagnasco: “Ascolta, Signore, il grido di coloro che sono nel dolore. Perché trovino giustizia e conforto”. Il timbro dell’evento è risultato auto-celebrativo. Sintomatico uno degli animatori dell’evento, il leader di “Rinnovamento nello Spirito” Martinez: “La fede conosce anche le cadute del peccato, ma la Chiesa è viva, la Chiesa sta in piedi”. Formalmente l’adunata è stata organizzata dalla Consulta nazionale, dalle aggregazioni laicali cui aderiscono associazioni e movimenti dall’Azione cattolica a Sant’Egidio, dalle Acli ai Focolarini a Cl. Ma fa riflettere un fenomeno. La gerarchia chiama sempre le organizzazioni cattoliche a mobilitarsi, a votare (o astenersi) ai referendum su temi etici, a manifestare contro leggi dello Stato (vedi il famoso Family Day, fatto per sabotare i Dico di Prodi). Mai che in questi anni la Consulta si sia riunita per far sentire ai vertici ecclesiastici che cosa i fedeli cattolici pensano realmente di coppie di fatto, unioni gay, testamento biologico, fecondazione e malattie ereditarie.

Repubblica 18.5.10
La corruzione dimenticata
di Guido Crainz

C´è qualcosa che colpisce più ancora della ampiezza dei fenomeni di corruzione venuti alla luce o della pervasività del «sistema», per dirla con l´onorevole Denis Verdini. Colpisce soprattutto che il «sistema» abbia potuto rimodellarsi negli ultimi quindici anni in un silenzio quasi assoluto.
Per molto tempo la politica e la società italiana avevano rappresentato – in primo luogo a se stesse – i guasti degli anni ottanta e novanta come un´anomalia sostanzialmente conclusa. E, progressivamente, come una vicenda ampiamente esagerata dalla faziosità dei giudici e da una cultura moralistica arcaica. In questo modo alla fine del 2008, di fronte al moltiplicarsi di nuove indagini che coinvolgevano anche il centrosinistra, sembrarono prevalere le reazioni che un titolo sintetizzò: Mani Pulite 2? No, grazie. Soprattutto, continuò una forte sottovalutazione della corruzione presente nel paese. Eppure in quello stesso periodo la Corte dei Conti valutava che la sua entità sfiorasse i 60 miliardi di euro, cifra molto più alta rispetto agli anni di Tangentopoli. Nel 2009, poi, le denunce per corruzione aumentarono del 230% e quelle per concussione del 150%: sono ancora dati della Corte dei Conti, resi pubblici il 17 febbraio di quest´anno. Cioè a 18 anni esatti dall´arresto di Mario Chiesa e dall´avvio di Tangentopoli, e mentre già le cronache e le intercettazioni stavano disegnando un panorama inquietante. Caratterizzato però da tratti nuovi rispetto al passato, anche se ad esso ci ha riportati la mazzetta di un politico milanese nascosta in un pacchetto di sigarette.
C´è dunque da interrogarsi meglio sulla coltre di silenzio che ha velato per anni il rimodellarsi del fenomeno, e anche sulle caratteristiche dei processi in corso. Già nel dicembre del 2008 Roberto Saviano rifletteva su La corruzione inconsapevole che affonda il paese e ne coglieva un tratto di fondo: nessuna delle persone indagate «aveva la percezione dell´errore, tantomeno del crimine (…). Cosa potrà mai cambiare in una prassi quando nessuno ci scorge più nulla di sbagliato o di anomalo»? Ne coglieva al tempo stesso il terreno di coltura: la corruzione si estende «quando la politica si accontenta di razzolare nell´esistente e rinuncia a farsi progetto e guida». In altri termini, come annotava poco dopo Piero Ottone ancora su questo giornale, quando viene a mancare la «religione civile»: che può nutrirsi di ideali di progresso o di conservazione ma è, appunto, concezione alta della politica.
Sono passati poi altri mesi e sono venuti alla luce contorni ancor più laceranti di un fenomeno che si è rimodellato sostanzialmente attorno a due cardini: da un lato la sostituzione del «rubare (soprattutto) per il partito» degli anni di Tangentopoli con il «rubare per sé»; dall´altro una eversione delle regole che non si è radicata solo in pratiche anomale o marginali ma all´interno di quella «pratica dell´emergenza» e di quella «politica del fare» che sono state erette a bussola e a bandiera.
Sul primo versante i dibattiti degli anni novanta sono ormai un ricordo sbiadito. Certo, continua ad apparirci indecente il tentativo di assolvere chi almeno «rubava per il partito» (ignorando che in questo modo la corruzione metteva a rischio lo stato di salute della democrazia) ma lo squallore che le intercettazioni portano oggi a galla non ha forse paragoni con il passato. Esse rivelano in realtà un rovesciamento più generale: il «rubare per sé» è così diffuso perché il «primato del sé» ha sostituito «il primato del partito» in una cultura che si è diffusa ben oltre la vita pubblica. Il degrado attuale della politica ci appare dunque non solo causa – come avvenne negli anni ottanta – ma in qualche modo anche conseguenza del trionfo dell´antipolitica. Una antipolitica che è andata al potere.
A questo stesso nodo rimanda un altro corposo «slittamento» rispetto agli anni di Tangentopoli. Allora ci si illuse – ci si volle illudere – che i guasti fossero annidati solo in un degenere ceto politico e che una virtuosa società civile ne fosse del tutto immune. In taluni interventi di oggi, all´opposto, sembra trasparire la tentazione di considerare il Palazzo come corrispettivo quasi inevitabile di una società civile irrimediabilmente perversa. Obbligato in qualche modo ad assecondare il flusso per non perdere consensi. Appaiono così fastidiose «anime belle» coloro che segnalano le responsabilità specifiche della politica: l´abdicazione a una selezione reale della classe dirigente, l´assenza di adeguate misure correttive, la delegittimazione della magistratura, le scelte relative a esenzioni, prescrizioni e condoni, le leggi ad personam, e così via.
Il secondo aspetto centrale dello scenario che si è delineato sta poi nel suo rapporto con alcuni cardini dell´azione del governo. Com´è noto, nulla di ciò che è stato pubblicato sarebbe venuto alla luce se fossero stati già approvati i vincoli alle intercettazioni voluti dalla maggioranza. E solo lo scandalo ha affossato una legge che avrebbe regalato alla Protezione civile una specialissima immunità. Era il corollario minore ma simbolico di un progetto di presidenzialismo che si accompagna all´indebolimento drastico dei controlli, delle regole e delle garanzie: questa è la reale posta in gioco, e i tempi della partita si stanno accorciando.
Negli anni di Tangentopoli un intellettuale e poeta civilmente impegnato come Giovanni Raboni scriveva: c´è qualcosa che mi impedisce di esultare per la giustizia finalmente all´opera, ed è «un pensiero sordo e odioso come certi dolori: e noi, nel frattempo, dove eravamo?». Forse il centrosinistra nel suo insieme dovrebbe porsi oggi la stessa domanda.

Repubblica 18.5.10
La giustizia
Così Amartya sen ci insegna a pensare una società più equa
di Bernardo Valli

È fondamentale considerare le possibilità effettive degli individui
La ricchezza non dice nulla sul benessere di un paese

Amartya Sen si è seccato, anzi infuriato, quando un cronista del Guardian, pensando di fargli un complimento, lo ha definito "Madre Teresa dell´economia". Il paragone non calza, ha protestato con ragione. Anzitutto perché lui lo giudica, con spirito cavalleresco, irrispettoso nei confronti di Madre Teresa di Calcutta; e poi perché le attività di un economista, per quanto impegnative, non hanno nulla in comune con quelle di una religiosa che si sacrificava per il mondo dei poveri. Inoltre lui, ha aggiunto, ama i buoni vini e la buona tavola, insomma desidera campare nel migliore dei modi. Non nella sofferenza.
È vero, il cronista inglese ha scritto uno sproposito. Ma è altrettanto vero che dalle opere del professor Sen, senz´altro uno dei pensatori del nostro tempo, affiora, a volte esplode, un´umanità insolita, un´attenzione piuttosto rara per le calamità che affliggono gli abitanti della Terra, dalle carestie alla povertà, ed anche per il raggiungimento del benessere, non dall´esclusivo punto di vista economico. Di solito la gente della sua casta si esprime, nel migliore dei casi, con arida erudizione. Ma Amartya Sen non vuole che nei suoi scritti si prenda per caritatevole quel che è razionale. Una razionalità espressa con eleganza e, a tratti, non senza ironia. Il professor Sen è un umanista, qualifica che non si addice a tutti i cultori di scienze economiche. Sono ormai anni che le sue idee di economista-filosofo riscaldano i numeri della glaciale aritmetica attraverso i quali interpretiamo il mondo in cui viviamo.
Quando infuriava la tesi dello scontro di civiltà, tutt´altro che defunta, Sen disse che l´idea secondo la quale le persone possono essere classificate soltanto sulla base della religione o della cultura è una pericolosa fonte di conflitto potenziale. La convinzione implicita di una classificazione unica può incendiare il mondo intero. Questo, secondo Sen, non contrasta soltanto con il fatto che noi esseri umani siamo tutti più o meno uguali, ma anche con l´idea, molto più fondata, che siamo diversamente differenti. Se si considera l´umanità soltanto un insieme di religioni, o di civiltà o di culture, si ignorano le altre identità, legate alla classe sociale, al genere, alla professione, alla lingua, alla scienza, alla morale, alla politica, alle abitudini alimentari, agli interessi sportivi, ai gusti musicali, e ad altre cose ancora.
È stata un´impresa audace, per un economista, ridisegnare la figura dell´homo economicus, vale a dire il concetto utilizzato nella scuola neoclassica della teoria economica per modellare il comportamento umano. Insieme al pakistano Mahbub ul Haq, Amartya Sen ha creato per le Nazioni Unite un nuovo indicatore di sviluppo umano (Idh), basato sul principio che la ricchezza misurata soltanto sul prodotto interno lordo non rappresenta un punto di riferimento soddisfacente. È molto limitato. È un disastro. Gli indici della produzione o del commercio non dicono granché sulla libertà e sul benessere, che dipendono dall´organizzazione della società. Né l´economia di mercato né il funzionamento di una società sono processi che si regolano da soli. Hanno bisogno dell´intervento razionale dell´essere umano. La democrazia è fatta per questo: per discutere del mondo che vogliamo. Nel loro Idh, Amartya Sen e Mahbub ul Haq tengono conto di tanti dati, oltre a quelli economici: ad esempio della speranza di vita alla nascita, del tasso di alfabetismo degli adulti, dell´accesso all´educazione e all´assistenza sanitaria. E tra i criteri di misurazione è compresa la situazione della donna, la cui emancipazione è un elemento centrale per lo sviluppo di una società.
Nell´ultima opera (L´Idea di Giustizia, in uscita da Mondadori) si ritrova raccolto il pensiero disperso nei tanti altri scritti di Amartya Sen. Non a caso è dedicata a John Rawls, l´amico americano morto nel novembre 2002. John Rawls ha raggiunto una fama mondiale quando sull´onda delle agitazioni sociali degli anni Sessanta tentò una sintesi tra libertà e uguaglianza, esprimendo il concetto secondo il quale la democrazia liberale può essere giusta, può raggiungere la giustizia sociale. «La giustizia – diceva Rawls – è la prima virtù delle istituzioni sociali come la verità è quella dei sistemi del pensiero».
Amartya Sen rende omaggio a Rawls, riconosce, sottolinea che il suo pensiero è stato tra i più influenti del Ventesimo secolo, ma lo critica, contestando in larga parte Teoria della Giustizia, il libro di Rawls, apparso nel 1971. Il quale ha influenzato, forse più di qualsiasi altro testo del nostro tempo, la filosofia politica, l´etica, il diritto e le scienze sociali. Il pensiero dominante oggi, influenzato da Rawls, identifica dei dispositivi istituzionali giusti e ritenuti tali per qualsiasi società. Sen non è d´accordo. Invece di precisare quel che è giusto di per sé, cerca dei criteri che consentano di affermare se un´opzione è meno ingiusta di un´altra, stabilisce paragoni tra società, e cerca di determinare se una riforma sociale particolare crea giustizia o ingiustizia, nel contesto in cui viene applicata.
Insomma, per Amartya Sen, invece di concentrarsi sulla natura delle istituzioni, l´analisi della giustizia deve tener conto delle condizioni di vita delle persone.
La condizione di un individuo, in termini di opportunità, è giudicata inferiore a quella di un altro se egli ha meno possibilità reali ("capability" parola chiave nel pensiero di Sen) di realizzare quello cui attribuisce valore, e meno libertà di usare i propri beni per scegliere un modo di vita.
Immaginiamo tre bambini e un flauto. Anna sostiene che il flauto le deve essere dato essendo lei la sola in grado di suonarlo. Bob basa la sua richiesta sul fatto che è povero e non ha altri giocattoli. Carla sul fatto che ha speso mesi per fabbricarlo. Come far giustizia di fronte a queste tre rivendicazioni? I partigiani delle teorie oggi dominanti (utilitarismo, egualitarismo, scuola libertaria) peroreranno ognuno per una soluzione diversa, riferendosi al valore che danno alla ricerca del libero, naturale sviluppo umano, all´eliminazione della povertà o al diritto di usufruire del prodotto del proprio lavoro. Ma Amartya Sen fa notare che non c´è istituzione, né procedura capace di aiutarci a risolvere la controversia in un modo universalmente accettato come giusto. Per questo Sen si discosta dalle teorie sulla giustizia che tendono a definire le regole e i principi di istituzioni giuste in un mondo ideale.
(Egli gira, consapevole, le spalle alla tradizione di Hobbes, Rousseau, Locke e Kant, ripresa dall´amico John Rawls. E si iscrive, come precisa, in un´altra tradizione: quella di Adam Smith, Condorcet, Jeremy Bentham, Mary Wollstonecraft, Marx, o John Stuart Mill).
Il Premio Nobel fu attribuito ad Amartya Sen (nel 1998) per avere introdotto la dimensione etica nella ricerca economica. La motivazione spinge a dare uno sguardo all´esistenza del settantasettenne indiano nato nel Bengala, a Santiniketan, nel campus universitario creato da Rabindranath Tagore. Là suo nonno insegnava il sanscrito e la civiltà indiana, e da quel campus Amartya Sen, figlio di un professore di chimica, è partito per un interminabile periplo che lo ha condotto, prima come studente e poi come professore, a Calcutta, al Trinity College di Cambridge, all´università di Delhi, alla London School of Economics, a Oxford, a Harvard, al Mit, a Stanford, a Berkeley.
Ma non è soltanto durante queste tappe prestigiose che è nata la sua idea di giustizia. Quando aveva dieci anni, nel 1943, il Bengala in cui viveva subì una carestia che fece più di un milione di vittime. E poi ha assistito alle violenze della partition tra l´India e il Pakistan. Ogni sei mesi il professor Sen abbandona i campus universitari occidentali, perché sente il bisogno di ritornare in India, terra che ha ispirato tante sue opere. Ed egli ha un legame particolare con l´Italia. Sua moglie, l´economista Eva Colorni, morta nel 1985, era figlia di Eugenio Colorni, il filosofo antifascista ucciso durante la resistenza, ed era cresciuta nella famiglia di Altiero Spinelli.


Repubblica 18.5.10
Carla Fracci contro Alemanno "Vergogna, mi ha snobbato"
L´assemblea all´Opera boccia la riforma Bondi
di Anna Bandettini

In una assemblea strapiena, partecipata e surriscaldata al Teatro dell´Opera di Roma, dove pareva di essere tornati al Sessantotto, tra urla tenorili e striscioni politici i lavoratori e tutti i sindacati (di destra e di sinistra) chiedono che il decreto Bondi sulla riforma delle fondazioni liriche venga ritirato punto e basta, anche una ferrea, pacata signora come Carla Fracci perde la testa e s´infuria: «Buffone!», «Vergogna!, vergogna», urla con l´indice puntato sul sindaco capitolino Gianni Alemanno, impietrito nella sua poltrona mentre gli oltre mille lavoratori in sala inneggiano «Fracci, Fracci...».
La baraonda, imprevista, fuori programma, si scatena nella prima assemblea pubblica sulla riforma delle fondazioni liriche, un attimo dopo la conclusione, tra fischi e applausi, dell´intervento del sindaco capitolino, che bocciando anch´egli, e a sorpresa, il decreto del suo collega di partito, si propone come «mediatore per fare modifiche, perché non devono essere i lavoratori a pagare il prezzo della riforma», dice Alemanno dal palco. Tornato in platea, l´étoile della danza italiana gli si avvicina ma lui reagisce con un evidente gesto di stizza. A quel punto, rossa in volto, gonfia di rabbia, la Fracci è incontenibile: «Sono due anni che chiedo un appuntamento. Nemmeno una risposta. Vergogna! Buffone!». La trascinano via, ma lei urla: «Lui e Muti non si permettano di dire che l´Opera di Roma è un teatro traballante, qui ho dato dieci anni della mia vita. Vergogna».
Più tardi l´étoile dirà pubblicamente: «Gli interventi violenti non sono nel mio stile ma mi sono sentita offesa. Sono solidale con voi lavoratori, sono un´operaia dell´arte». Alemanno, lasciando la sala, liquiderà la faccenda: «Sì, Carla Fracci mi chiede da tempo un incontro, ora glielo darò, ma lei vuole il rinnovo del contratto che dura ormai da troppi anni e per il Teatro dell´Opera è giusto cercare forze più fresche con tutto il rispetto per lei».
L´antipatico siparietto è stata una parentesi nella unanime bocciatura del decreto Bondi ieri al Teatro dell´Opera, zeppo di delegazioni dei lavoratori delle 14 Fondazioni liriche, di politici e sindaci (sono i presidenti delle Fondazioni) tra cui fa notizia, appunto, Alemanno che si è dichiarato "contro Bondi". «Mi auguro che da questa assemblea vengano fuori controproposte - ha detto - da presentare al governo per cambiare la riforma». «Per noi questo decreto va ritirato e basta», dice Silvano Conti della Slc-Cgil all´unisono con la sala dei lavoratori che ha acclamato come un leader il sindaco di Bari Michele Emiliano quando asserisce: «È tutto da rifare». Lo dicono anche i politici, dall´Italia dei Valori all´Udc. Il senatore Pd Vincenzo Vita lancia l´idea di «una manifestazione in difesa della cultura come quella di piazza del Popolo per la libertà di stampa». Intanto, in Senato prosegue l´ostruzionismo al decreto che il 9 giugno arriva in aula, con scarso margine prima della scadenza, il 28. «Bondi farebbe prima a ritirarlo e a dare disponibilità per un disegno di legge di riforma condiviso», dicono nel Pd. E i sindacati: «Noi siamo pronti a occupare i teatri». Dal clima di ieri, c´è da crederci.
l’Unità 18.5.10
Il regno dei barbari
L’era moderna in Italia è finita, dice Scalfari Ma la vera domanda è un altra: sono gli invasori incolti ad aver vinto o è la sinistra ad aver perso?
Nicola Tranfaglia

Eugenio Scalfari, ospite in una trasmissione televisiva per il suo ultimo libro, ha detto che in Italia l’era moderna è finita e che siamo in un’età contemporanea abitata e dominata dai barbari. Constatazione condivisibile ma fino a un certo punto. Chi ha vissuto con strumenti storici la crisi del vecchio sistema politico del ’92-94 e l’ascesa di Berlusconi non può dimenticare che sono stati proprio molti “moderni”, di cui parla Scalfari, a favorire l’arrivo dei barbari con i loro gravi errori a sinistra come, altrettanto, a destra. E ancora, mentre i barbari ormai impazzano, assistiamo ai soliti scontri tra moderni che assomigliano ai barbari e ripetono all’infinito le vecchie lotte di potere, sempre le stesse.
Affronta la contraddizione di questo periodo con armi più leggere, ma per certi versi più efficaci, un giornalista colto come Piero Dorfles, immaginando di essere un dinosauro di fronte ai barbari di oggi e scrivendo un saggio assai godibile che si intitola Il ritorno del dinosauro. Una difesa della cultura (Garzanti, pp.205, 18 euro) e che mette in luce l’atteggiamento molto negativo delle classi dirigenti, soprattutto di governo, sull’istruzione, sull’università e sulla ricerca, quindi sulla cultura degli italiani.
Da questo punto di vista, vale la pena parlare di un documento straordinario come il Carteggio Pannunzio-Salvemini 1949-1957 (pp 190) edito dall’Archivio Storico della Camera dei Deputati, che rievoca l’incontro felice che si realizza in un periodo difficile, come quello del dopoguerra caratterizzato da un’aspra guerra fredda in cui è immersa l’Italia, tra lo storico pugliese Salvemini, appena tornato dal lungo esilio americano per sfuggire al fascismo, e il giornalista italiano Mario Pannunzio che aveva ripudiato il passato fascista e credeva a una repubblica democratica come quella costruita dall’Italia con la Costituzione del 1948.
Le diffidenze iniziali, che pure c’erano state nel primo incontro, erano state fugate dalla comune volontà delle due personalità che avevano una fede comune nella democrazia occidentale dopo lo scoppio della guerra fredda e Salvemini decide di collaborare al Mondo, il nuovo settimanale fondato da Pannunzio che rappresenta, come osserva a ragione Massimo Teodori nel suo saggio introduttivo, «la reazione alla crisi della forze di democrazia laica emarginate nel 1948» dal governo De Gasperi che si preparava a sostenere, con la cosiddetta “legge truffa” una battaglia mortale il 18 aprile 1948 con i partiti socialista e comunista costretti dalla guerra fredda a passare all’opposizione anche per la loro vicinanza all’Unione Sovietica.
In quello scontro la Democrazia Cristiana non vinse, perché la legge truffa non scattò, ma riuscì a tenere all’opposizione i partiti della sinistra e si aprì un scontro a lungo termine tra le esigenze costituzionali dell’opposizione e le ragioni della democrazia repubblicana.
Il settimanale di Pannunzio, a sua volta, tenne diritta la barra tra la battaglia per i diritti civili e una democrazia avanzata, continuando peraltro a difendere le ragioni dell’alleanza occidentale contro il blocco orientale e filosovietico.
Il carteggio è ricco di notizie sulle grandi campagne giornalistiche condotte dal settimanale per un’Italia consapevole della sua migliore tradizione democratica e furono alla base di quei convegni del Mondo sulla libera concorrenza, sui monopoli, sullo Stato imprenditore, sulla corruzione, sulle interferenze del Vaticano, che avrebbero preparato, assai meglio di altri dibattiti, la nascita del centro-sinistra e di quella che negli anni sessanta sarebbe stata, pur con le sue inevitabili contraddizioni, la stagione delle riforme possibili nella difficile situazione internazionale.
Furono l’espressione di una mentalità illuministica (su cui sono preziose le Lezioni illuministiche di Enzo Ferrone edite da Laterza (200 pagine, 22 euro) che oggi manca nelle classi dirigenti e che è all’origine, non soltanto del fanatismo e degli scontri feroci all’interno della classe politica, ma anche di un tatticismo esasperato che ha sostituito, grazie al tramonto delle grandi ideologie palingenetiche, il modo di agire dei governi e dei partiti.
Capita spesso anche a chi scrive di aver nostalgia di quella grande stagione di tre secoli fa in cui un gruppo di illuministi in Francia, ma anche in Italia, superò l’epoca feudale e l’ancien regime e aprì la strada alla modernità e alla democrazia. Ma possiamo sperare, oggi, in un ritorno dell’illuminismo?

l’Unità 18.5.10
D’Alema liquida il governo d’emergenza: discussione prematura
Prosegue la polemica con De Benedetti per il libro-intervista «Anche a sinistra disprezzo per la politica, sono dei berluschini»
di Simone Collini

In questa decina di giorni in cui Massimo D’Alema ha girato il Brasile per convegni e conferenze, sono successe le seguenti cose: Dario Franceschini, che l’ha più volte attaccato per la mano tesa all’Udc e per il considerare Fini un «interlocutore», ha aperto al governo d’emergenza (e ieri ha anche avuto col presidente della Camera un lungo colloquio a quattr’occhi); Walter Veltroni, che da segretario Pd non ha mai visto di buon occhio Italianieuropei e Red, ha varato la Fondazione Democratica rispondendo con un evasivo «vedremo cosa succede tra tre anni» a chi gli domandava se intenda candidarsi per la premiership; l’editore del gruppo l’Espresso Carlo De Benedetti ha accusato in un libro il presidente del Copasir, insieme a Bersani, di star «ammazzando» il Pd, nonché di essere peggiore di Berlusconi perché «almeno Silvio ha fatto qualcosa, D’Alema e quelli come lui non hanno fatto niente».
Il presidente di Italianieuropei rientra a Roma e prima ancora di riprendersi dal cambio di fuso orario partecipa alla presentazione dell’ultimo libro del professor Michele Prospero («Il comico della politica», casa editrice Ediesse) e in una mezz’ora di intervento a ognuno dà il suo. Il governo d’emergenza «senza e oltre Berlusconi»? «Al governo c’è Berlusconi e non mi pare intenzionato a sgombrare il campo», dice D’Alema definendo quella che si è aperta «una discussione abbastanza prematura», anzi, di più, «dibattiti che apriamo tra di noi allo scopo di creare problemi tra di noi, scopo sempre perseguito con successo pieno». Perché se pure il periodo di solidarietà nazionale diede frutti mai visti nella Seconda Repubblica e se pure con i governi tecnici dei primi anni ‘90 «il paese è stato governato» meglio che negli ultimi 16 anni, oggi non c’è nulla di simile in campo: «La situazione del Paese è grave, c’è una crisi morale della classe dirigente, e un grande partito di opposizione deve prendersi le proprie responsabilità, ma non almanaccando soluzioni che non esistono. Ora questi dibattiti non servono a niente».
E allora cosa può fare il centrosinistra per battere il centrodestra? D’Alema parte da quello che non deve fare, ovvero «accettare l’ideologia dell’avversario», fare come chi ha «teorizzato il nuovismo andando incontro ad esiti catastrofici», puntare alla «investitura diretta del capo da parte del popolo cancellando tutte le mediazioni», pensare che basti trovare un leader «come Berlusconi, solo più giovane e con un più bel sorriso». L’attacco più evidente, anche se non ne cita il nome, è a De Benedetti: «In nessun paese del mondo si oserebbe dire di un uomo politico che non ha combinato niente perché ha fatto solo politica. In Francia nessuno lo direbbe di Sarkozy». E allora non solo Berlusconi ha operato in «un campo abbondantemente destrutturato», «arato» da una «borghesia intellettuale» sedicente di sinistra che ha profuso un pari «disprezzo per la politica e un’esaltazione acritica della società civile»: «Ci sono anche nel nostro campo imprenditori che vogliono condizionare la politica, dei Berlusconi di serie B, dei berluschini, visti i risultati». Negativi, nel senso. E non potrebbe essere altrimenti: «Per battere Berlusconi serve una battaglia culturale che muova dalla rivalutazione della politica. Il nuovismo, il populismo, la cultura padronale, se accetti l’ideologia dell’avversario hai perso prima di cominciare».

l’Unità 18.5.10
I migranti che lavorano nel paese respingente
Uno scambio ineguale

L 'Italia sta mutando: e ciò accade nonostante tutti gli ostacoli, palesi eocculti, posti in essere dall'attuale legislazione che rende difficilel'integrazione dei migranti nella società italiana.Secondo l'Istat, tra il 2006 e il 2009 la percentuale di lavoratoristranieri è aumentata del 165% (da 85mila a 225mila nuove unità l'anno) etra il primo e il 4 ̊ trimestre 2009, la percentuale è aumentata del 13%. Aun simile incremento contribuisce anche il fatto che gli stranieri sonodisposti ad accettare qualunque compromesso pur di non perdere il posto dilavoro e con esso il permesso di soggiorno.Ma non è tutto. Secondo i dati di Unioncamere, nel 2009 sono nate 14mila nuove partite Iva con titolare straniero e sono stati 600 mila gli stranieri che hanno ricoperto una carica aziendale (titolare, socio,amministratore).Al 31 dicembre 2009 risultavano iscritte 324.749 partite Iva straniere,con un aumento del 4,5% in più rispetto all'anno precedente e su centoimprese individuali, nel 2009, 77 risultano guidate da extracomunitari. Un ulteriore dato significativo è rappresentato dalla presenza femminile tra le partite Iva straniere, una su cinque è infatti intestata ad una donna. Sono tutti dati che meritano di essere meditati con attenzione. Secondo le stime disponibili (dati del 2007), gli stranieri contribuisconoal PIL nazionale con un contributo pari al 9.1%, garantiscono un gettito fiscale non indifferente e contribuiscono in modo significativo anche alle casse previdenziali dell'INPS, alle quali versano un contributo pari al 4% a fronte di un'erogazione di prestazioni pensionistiche a proprio favore pari all'1%. Quel che si dice uno scambio
ineguale.

il Fatto 18.5.10
In piazza dal papa ma guai a parlare di problemi (veri)
In 150 mila ad abbracciare una Chiesa in crisi di credibilità per gli scandali
I numerosi casi di pedofilia e gli scarsi interventi del Vaticano stanno allontanando i fedeli
di Marco Politi

Centocinquantamila in piazza San Pietro per gridare Viva Benedetto XVI! Un Papal-Day al posto di una giornata di iniziativa per le vittime. Ma due terzi degli italiani accusano la Chiesa di insabbiamenti e le vittime si organizzano. Come in America, Irlanda e tante altre parti del mondo sta per nascere anche in Italia un coordinamento tra gli abusati. A Verona, il 25 settembre, si terrà la prima riunione nazionale delle vittime per sensibilizzare l’opinione pubblica e gettare le basi di una rete di collegamento. Il recapito è lacolpa@libero.it e il referente Fiorenzo Bugatti racconta che in pochi giorni “già hanno trovato il coraggio di parlare una dozzina di vittime, che avevano sempre taciuto”.
Promossa dai vertici della Cei, la manifestazione di “affetto e sostegno” a Benedetto XVI ha realizzato un paradossale slittamento. Invece di focalizzare l’attenzione sulle vittime si è scelta la rappresentazione vittimistica di un Papa e di una Chiesa “sotto attacco”. E tra striscioni, palloncini, pullman riempiti di aderenti a Comunione e liberazione, Coldiretti e tante altre sigle, si è rimosso l’imperativo scandito dallo stesso Benedetto XVI: il pentimento non basta, “è necessaria la giustizia”. Ma per fare giustizia bisogna prendere iniziative concrete come è stato fatto altrove. Negli Stati Uniti l’episcopato ha proclamato la tolleranza zero. In Irlanda si sono dimessi vescovi omertosi. In Germania i presuli hanno elaborato “linee guida”. In Austria il cardinale Schönborn ha celebrato nel duomo di Vienna una messa di riparazione per le vittime e ha istituito una commissione di inchiesta, guidata da una personalità indipendente. In Italia la Cei ha promesso “collaborazione” alla magistratura, ma sinora – si attende l’assemblea plenaria del 24 maggio – non ha annunciato pubblicamente misure speciali né ha esortato le diocesi a cercare negli archivi per rintracciare denunce inascoltate. Mentre in altre nazioni sono in azione referenti nazionali e locali, numeri verdi e indirizzi mail per segnaare abusi, l’Italia ecclesiastica sembra dormire il sonno di Biancaneve. Peraltro né l’Osservatore né l’Avvenire hanno mai pubblicato il racconto di una vittima. Eppure dai microfoni di Radio Vaticana il prete anti-pedofilia don Fortunato Di Noto ha informato che dal 2000 al 2010 sono già emersi 80 casi di pedofilia del clero. Altre stime indicano il doppio. Ma ciò che vittime ed esperti sanno perfettamente è che per ogni prete colpevole c’è ben più di un minore abusato. Non a caso il procuratore generale del Sant’Uffizio mons. Scicluna ha mandato dalle colonne di Avvenire un larvato avvertimento ai vescovi d’Italia: “Mi preoccupa una certa cultura del silenzio, che vedo ancora troppo diffusa nella Penisola”. Gli italiani condividono questa diffidenza nei confronti dell’inerzia delle gerarchie. Il 62 per cento della popolazione (sondaggio Demos&Pi-La Repubblica) è convinto che la Chiesa ha “cercato di minimizzare o nascondere i casi di pedofilia”.
D’altronde da anni, su molte questioni, tra ripetute interferenze sul piano legislativo – dai veti sulla regolamentazione delle coppie di fatto all’opposizione al testamento biologico – la gerarchia ecclesiastica si è allontanata dal senso comune degli italiani. Di conseguenza la fiducia nella Chiesa, assestata ancora all’inizio del 2000 su soglie superiori al 60 per cento, crolla ora al 47 per cento.
Lo stesso sondaggio testimonia che, parallelamente, la fiducia nell’azione di Benedetto XVI è calata a minimi storici: 46,6 per cento. C’era stata un’avvisaglia negli anni scorsi. Rispetto al primo biennio di pontificato l’affluenza alle udienze e agli eventi pubblici di papa Ratzinger a Roma era diminuita di un milione di persone. Il sondaggio odierno sancisce un giudizio di delusione per il pontificato e rivela che dal 2007 papa Ratzinger riesce a convincere la metà scarsa dei cattolici (un 53 per cento fino al 2009). Ancora più catastrofica è la disaffezione della gioventù. Nel 2004 il 66 per cento dei giovani (indagine Iard) si proclamava cattolico, adesso solo il 52.
Il paradosso è che – a differenza di altre crisi da lui personalmente provocate nell’ultimo quinquennio – nello scandalo della pedofilia Benedetto XVI ha tracciato una via di assoluto rigore, riconoscendo la centralità dell’attenzione alle vittime, intimando la denuncia dei colpevoli ai tribunali di Stato, affermando che le “peggiori persecuzioni” vengono dall’interno della Chiesa, chiedendo di combattere il peccato nelle file della comunità cristiana.
Invece, trasformata in “giornata dell’orgoglio cattolico” la manifestazione di domenica, con largo concorso di esponenti del centrodestra fra cui Letta, Schifani, Alfano (perché si tratta di farsi perdonare con il bacio dell’anello le vicende imbarazzanti di escort presidenziali e ruberie milionarie della “cricca”, cresciuta all’ombra del governo berlusconiano), ha riservato poca attenzione alla preghiera dei fedeli, guidata dal cardinale Bagnasco: “Ascolta, Signore, il grido di coloro che sono nel dolore. Perché trovino giustizia e conforto”. Il timbro dell’evento è risultato auto-celebrativo. Sintomatico uno degli animatori dell’evento, il leader di “Rinnovamento nello Spirito” Martinez: “La fede conosce anche le cadute del peccato, ma la Chiesa è viva, la Chiesa sta in piedi”. Formalmente l’adunata è stata organizzata dalla Consulta nazionale, dalle aggregazioni laicali cui aderiscono associazioni e movimenti dall’Azione cattolica a Sant’Egidio, dalle Acli ai Focolarini a Cl. Ma fa riflettere un fenomeno. La gerarchia chiama sempre le organizzazioni cattoliche a mobilitarsi, a votare (o astenersi) ai referendum su temi etici, a manifestare contro leggi dello Stato (vedi il famoso Family Day, fatto per sabotare i Dico di Prodi). Mai che in questi anni la Consulta si sia riunita per far sentire ai vertici ecclesiastici che cosa i fedeli cattolici pensano realmente di coppie di fatto, unioni gay, testamento biologico, fecondazione e malattie ereditarie.

il Fatto 18.5.10
Israele nega l’ingresso
Chomsky: respinto
Funzionari israeliani hanno negato l’ingresso in Cisgiordania, domenica pomeriggio, al filosofo e linguista americano Noam Chomsky, noto anche per le sue posizioni critiche nei confronti della politica israeliana. Chomsky ha definito “regime stalinista” il governo israeliano che gli ha impedito di tenere una lezione all’Università palestinese di Bir Zit, nei pressi di Ramallah.

lunedì 17 maggio 2010

Repubblica 17.5.10
Il salone dei record
Pubblico e vendite tutti in fila per i libri-star
A Torino crescono le presenze: "Battuta la crisi"

TORINO - Il Salone internazionale del Libro, capitolo 2010, si appresta a chiudere i battenti nel segno dei record e volge la prua verso il 2011, quando si celebrerà la memoria e il futuro dell´Italia, in occasione dei 150 anni dell´unità nazionale. I numeri, certo, li danno gli organizzatori, e di questi bisogna necessariamente fidarsi.
Si traducono in un aumento di pubblico, a ogni modo, che rispetto all´edizione dell´anno scorso dovrebbe toccare il 20 0 30 per cento in più. Significa oltre 310-320 mila biglietti staccati, che dovrebbero emulare o superare la Librolandia finora ritenuta migliore, quella del 2006. Basti dire che, nella sola giornata di sabato, si sarebbe registrata una crescita di presenze del 30 per cento. Sono andate bene pure le vendite di libri, gli editori sono contenti e si parla di un 20 o 30 per cento in più in confronto a quelle del 2009. Felici poi i promotori dell´International Book Forum, dove si scambiano diritti editoriali e audiovisivi: 3 mila e rotti contatti quotidiani e 7500 incontri, ossia 1500 in più se si paragonano con le cifre dell´anno scorso.
Le polemiche non sono mancate, soprattutto quelle innescate dall´appello degli editori italiani contro il disegno di legge sulle intercettazioni. Pochissimi esponenti del mondo politico al Lingotto. Era atteso il figlio di Bossi, non è venuto. Si vociferava dei ministri Bondi e Tremonti, ma non sono visti. Soltanto un ministro, pertanto, cioè Sacconi, e il sottosegretario Giro. Era anche il primo salone ai tempi della Lega, che governa il Piemonte. Tuttavia lo sbarco padano è stato contenuto, quasi in punta di piedi. Si vedrà che cosa accadrà nel fatidico 2011. Il paese ospite d´onore sarà proprio l´Italia, che dovrebbe avere un padiglione nuovo tutto per sé, l´"oval". Sarà di scena anche la Russia e probabilmente la Slovacchia. Un ostacolo potrebbe venire però dalla nuova giunta regionale piemontese a guida leghista, che ha già annunciato di voler procedere a drastici tagli nei finanziamenti alla cultura: si parla di 34 milioni di euro in meno. Non si sa finora se riguarderanno la Fiera del Libro proprio nella sua edizione dedicata all´Unità d´Italia.
Resta il fatto che Rolando Picchioni, timoniere della fiera insieme a Ernesto Ferrero, non nasconde la sua felicità: «Siamo il solo Salone del Libro in controtendenza: gli altri, in Europa, a cominciare da quello di Parigi, patiscono la crisi, mentre per noi crescono presenze e vendite».
(m.n.)

l’Unità 17.5.10
La denuncia di Hrw: immagini satellitari e video documentano distruzioni massicce senza motivi militari: «Ora i responsabili paghino»
Gaza, la vendetta israeliana: ridotte in macerie le case palestinesi
di Umberto De Giovannangeli

l’Unità 17.5.10
Nella Striscia ormai c’è uno Stato dell’apartheid»
di U. D. G.
qui
http://www.scribd.com/documents/31468841/l-Unita-17-5-10-pp-22-23

Repubblica 17.5.10
Azione civica contro il bavaglio
di Stefano Rodotà

Nessun sistema democratico, per malandato che sia, può fare a meno di una opinione pubblica informata, consapevole, reattiva. Altrimenti si scivola verso la democrazia d´investitura, si trasforma il popolo in "carne da sondaggio".
E torna d´attualità la critica di Jean-Jacques Rousseau: «Il popolo inglese crede d´essere libero, s´inganna, non lo è che durante l´elezione dei membri del Parlamento; non appena questi sono stati eletti, esso diventa schiavo, non è più nulla». Dobbiamo malinconicamente constatare che nell´Italia di oggi anche quella libertà elettorale è stata sequestrata, visto che la "legge porcata" ha trasferito alle oligarchie dei partiti quella scelta dei parlamentari che dovrebbe essere nelle mani degli elettori?
A temperare questo pessimismo sono intervenuti nelle ultime settimane alcuni fatti che mostrano un risveglio dell´opinione pubblica e i nuovi modi in cui essa si organizza e si manifesta. Decine di migliaia di persone sostengono un appello contro "la legge bavaglio" su intercettazioni e divieto di pubblicazione di atti giudiziari. In poco più di tre settimane si è vicini al traguardo del mezzo milione di firme necessarie per il referendum sull´acqua come bene comune. Le dimissioni del ministro Scajola non sarebbero venute senza una reazione popolare, così forte che qualche giornale ha dichiarato d´aver abbandonato la difesa del ministro tante erano state le proteste dei lettori. Ed è significativo che un uomo con orecchio assai sensibile ai rumori provenienti dalla società, Silvio Berlusconi, abbia mutato strategia e dichiari che non vi sarà «nessuna indulgenza e impunità per chi ha sbagliato», senza trincerarsi dietro l´abituale argomento dell´aggressione giudiziaria e del complotto mediatico. Questi fatti suggeriscono quattro considerazioni di carattere generale.
1) Improvvisamente è stata riscoperta la responsabilità politica. Era scomparsa da decenni, con l´argomento che i politici dovevano farsi da parte solo quando sul loro conto vi fosse stato un accertamento giudiziario, possibilmente definitivo. Questo era diventato lo scudo protettivo di schiere di politici. Proprio il caso Scajola, invece, ha messo in evidenza che esistono comportamenti che, pur non avendo rilevanza penale, sono incompatibili con funzioni pubbliche. Conclusione ovvia in altri paesi, ma che in Italia aveva guadagnato l´accusa di moralismo a chi la ricordava e aveva spinto ad arrampicarsi sugli specchi con distinzioni tra reato e peccato. Ora le cose sembrano tornate ad essere chiare. La responsabilità politica è diversa da quella penale, e dovrebbe essere interesse proprio del ceto politico farla valere, per riguadagnare credito presso l´opinione pubblica e non lasciare alla magistratura il ruolo di giudice unico della legittimità della politica.
2) Per evitare, però, che il caso Scajola rimanga una eccezione, è indispensabile salvaguardare le condizioni che hanno reso possibile il ritorno della responsabilità politica: la trasparenza, l´informazione libera. Non ripeteremo mai abbastanza che nulla si sarebbe saputo delle fortune immobiliari di Scajola se fosse stata in vigore la legge che la maggioranza vuol fare approvare. Di questo è divenuta consapevole una opinione pubblica larga, che aderisce ad appelli, si organizza in rete, si manifesta nelle posizioni di magistrati, giornalisti, editori. E questa reazione mette in luce la contraddizione in cui s´impigliano maggioranza e Berlusconi: si parla di una legge anticorruzione e si proclama la tolleranza zero contro i corrotti, ma poi si fa esattamente l´opposto, rendendo impossibile la conoscenza di tutto quel che riguarda le inchieste giudiziarie per un tempo così lungo che sterilizzerebbe ogni anticorpo democratico. A proposito di una vicenda ancora oscura sulla quale ha richiamato l´attenzione il Presidente della Repubblica, l´abbattimento nel 1970 di un aereo civile sopra Ustica, si è calcolato che, con la legge in discussione, sarebbe stato lecito pubblicare le notizie solo nel 2000, trent´anni dopo, rendendo così impossibile anche l´impulso alle indagini venuto dall´opinione pubblica. Bisogna aggiungere che, discutendo della legge, si devono considerare due questioni diverse, ma collegate: i limiti al potere d´indagine della magistratura e il divieto radicale di informare i cittadini. Infatti, anche se alla magistratura fossero restituite tutte o quasi le possibilità di ricorrere alle intercettazioni, questo sarebbe un successo solo parziale, e per certi versi ingannevole, se poi l´opinione pubblica rimanesse condannata all´ignoranza.
3) Lo straordinario successo della raccolta delle firme per il referendum sull´acqua dovrebbe insegnare molto sul modo in cui si può costruire l´agenda politica. È affidata solo alle prepotenze della maggioranza e alle esitazioni dell´opposizione? Si risolve tutta nello spazio mediatico? O può essere anche il risultato di iniziative dei cittadini? La vicenda referendaria consente di rispondere in modo affermativo a quest´ultima domanda. Fino a ieri dell´acqua si discuteva, se ne occupavano benemeriti parlamentari, ma la politica era sostanzialmente disattenta, ignorava una legge d´iniziativa popolare firmata da quattrocentomila persone e venivano approvate norme senza una vera discussione pubblica. È bastato l´annuncio del referendum perché questo panorama cambiasse, non solo creando una grande mobilitazione, ma anche suscitando discussioni sui rischi del referendum e sulla necessità di seguire piuttosto la via parlamentare. Nell´agenda politica è comparso il tema, ineludibile, dell´acqua. Se senatori e deputati pensano che la via parlamentare sia la migliore, possono percorrerla e hanno tempo fino alla primavera del 2011, epoca in cui si dovrebbe andare a votare sul referendum. Ma sono stati i cittadini a dettare i tempi, e alle loro indicazioni i parlamentari non possono sottrarsi.
4) Grandi temi sono davanti a noi. La conoscenza come bene comune, l´acqua (e non solo) come bene comune. Qui le persone mostrano consapevolezza maggiore del ceto politico. E qui nasce una serie di domande. È necessario trovare forme di collegamento che consentano ad un´opinione pubblica avvertita di dare continuità alle sue iniziative grazie alle opportunità offerte da Internet? Sta nascendo un sistema di comunicazione che, sia pure in forme ancora deboli, può cominciare a riequilibrare la prepotenza di un sistema televisivo che Berlusconi occupa militarmente nei momenti decisivi della vita politica? Le iniziative di questi giorni e il caso di Raiperunanotte, la trasmissione organizzata da Santoro nel silenzio elettorale, non sono esempi su cui ragionare? Non dice nulla lo sbarco di Berlusconi su Facebook, segno evidente che sulle reti sociali comincia a giocarsi una partita politica decisiva? Si può ignorare che il Trattato di Lisbona mette a disposizione dei cittadini europei un potere d´iniziativa collettiva che potrà essere sfruttato in pieno solo predisponendo strumenti adeguati? A queste domande si risponde ragionando, ma soprattutto con iniziative permanenti di azione civica.

Repubblica 17.5.10
Se declina la fede nella Chiesa
E nell´anno orribile del Vaticano la fiducia nel Papa scende ai minimi
di Ilvo Diamanti

Solo per il 47% degli italiani la Chiesa è ancora una istituzione credibile
Divisioni interne e lentezza nelle reazioni: queste le cause del progressivo declino

IERI i fedeli hanno voluto far sentire al Papa la loro solidarietà e il loro sostegno, raccogliendosi, in massa, intorno a lui, a piazza San Pietro. D´altronde, la fiducia nella Chiesa e in Papa Benedetto XVI è scesa sensibilmente, nell´ultimo anno.
Espressa, in entrambi i casi, dal 47% degli italiani, secondo il sondaggio di Demos. Una tendenza accentuata dalla lunga catena di scandali dell´ultimo anno. Prima, le dimissioni del direttore dell´Avvenire, Dino Boffo, in base ad accuse rivelatesi infondate. Poi, gli episodi di abuso sessuale sui minori, che hanno coinvolto esponenti del clero – basso, medio e alto. In diversi paesi. Dagli USA all´Irlanda. Dalla Germania al Belgio. Al Brasile. All´Italia. Avvenimenti del passato, esplosi di recente.
Per questo non stupisce il calo di credibilità dell´ultimo anno: 3 punti percentuali in meno, la Chiesa; 7 il Papa. Un declino, peraltro, che dura da anni. Rispetto al 2005 (quando è stato eletto Ratzinger) la fiducia nella Chiesa è scesa di 14 punti. Mentre negli ultimi due anni il consenso verso Benedetto XVI si è ridotto di 9 punti percentuali. Senza considerare Papa Wojtyla, il cui credito, nel 2003, era superiore di circa 30 punti. Ma Wojtyla costituiva – e costituisce – un caso difficilmente ripetibile. Per le vicende che ha attraversato (la caduta del Muro e del comunismo, l´attentato…). E per la sua personale e straordinaria capacità di "comunicare" se stesso – attraverso i suoi viaggi e la sua sofferenza. Così, se la Chiesa e lo stesso Pontefice costituiscono ancora un riferimento importante, per la società italiana, la loro capacità di attrazione appare indebolita. Per ragioni che vanno oltre gli scandali recenti. I quali, tuttavia, pesano.
Il sondaggio di Demos sottolinea, infatti, come una larga maggioranza di italiani – il 62% - consideri inadeguata la risposta della Chiesa di fronte agli episodi di pedofilia. Volta, fino a ieri, a minimizzare il fenomeno. Questo giudizio risulta prevalente anche tra i cattolici praticanti, anche se è meno diffuso: 44% (mentre il 29% considera le accuse strumentali, finalizzate a screditare la Chiesa). Ma è condiviso da oltre i due terzi dei cattolici che dichiarano una frequenza sacramentale saltuaria. Cioè: la larga maggioranza di essi (e della popolazione). Si tratta di un orientamento politicamente trasversale. Si riduce solamente al centro. Fra gli elettori dell´Udc.
Come interpretare questo largo dissenso verso l´azione della Chiesa intorno a un fenomeno che, da tempo, è oggetto di denunce ripetute? E, soprattutto, perché – proprio oggi - intacca in modo tanto profondo la credibilità della Chiesa?
La prima spiegazione chiama in causa proprio il "tempo". Troppo tempo, infatti, è passato prima di prendere i provvedimenti necessari, in modo deciso, senza indulgenza. Troppo tempo. Per cui oggi, che nel muro di silenzio del passato si è aperto (più di) un varco, le notizie irrompono, tutte insieme. Invadono i media con un effetto devastante. La stessa condanna del Papa, implacabile. Il suo vagare, per il mondo, dolente, a chiedere perdono alle vittime e ai loro familiari. Agiscono da amplificatori. Fino, quasi, a tracciare una scia di vergogna.
Un secondo ordine di motivi riguarda la Chiesa stessa. Questi episodi, infatti, la indeboliscono perché essa è più debole che in passato. Divisa, al suo interno. Attraversata da tensioni e conflitti. Fra le gerarchie vaticane e la Cei. Ma anche tra le diverse componenti del mondo associativo. Tra le diverse "voci" e i diversi media cattolici. Giornali, emittenti, riviste… Papa Benedetto XVI, in occasione del suo recente viaggio a Fatima, è stato, al proposito, esplicito. E durissimo. Quando ha scandito che: «Le sofferenze della Chiesa vengono proprio dall´interno della Chiesa. (…) La più grande persecuzione della Chiesa non viene dai nemici fuori, ma nasce dal peccato nella Chiesa». Un concetto ribadito ieri, a piazza San Pietro. Contraddicendo – come ha sottolineato Sandro Magister (nel documentatissimo sito: www.espressonline.it) - «i giudizi espressi da molti ecclesiastici, secondo i quali la Chiesa soffre primariamente per gli attacchi che le vengono portati dall´esterno».
Ciò suggerisce, esplicitamente, una terza ragione. Collega il declino della fiducia nella Chiesa alla sua presenza "istituzionale" nella società. Interpretata, in particolare, dal clero. È, infatti, da tempo che, soprattutto in Italia, i seminari sono vuoti. La crisi di vocazioni è acuta, irreversibile. Non a caso, nelle parrocchie, la presenza di preti provenienti da paesi del Terzo Mondo è sempre più ampia. Segno evidente della profonda crisi di legittimazione sociale che, da tempo, ha colpito la figura del sacerdote (come ha argomentato il sociologo Marco Marzano). Fare il prete, da noi, non garantisce benefici né riconoscimento di status. Il che rende più difficile "reclutare" – e soprattutto "selezionare" - figure credibili e credute, in grado di farsi ascoltare. Tanto più di fronte a regole di accesso alla missione (o, in termini laici, alla "professione") tanto selettive e dure. Come il celibato. Oggi incomprensibile: per la società e per la stessa comunità dei cattolici. Visto che i due terzi degli italiani e oltre la metà dei cattolici praticanti si dicono d´accordo sulla possibilità, per i preti, di sposarsi. Così i comportamenti devianti, nell´ambito del clero, oltre che più diffusi, sono divenuti intollerabili (e intollerati). Impossibili da nascondere e minimizzare.
Da ciò l´impressione che oggi la Chiesa, come istituzione, si scopra inadeguata rispetto al proprio compito. Che le stesse regole, costruite e imposte, storicamente, per rafforzare il proprio "rapporto con il mondo", oggi la rendano, più vulnerabile. Che, per questi motivi, svolgere la "professione" – oppure, se si preferisce, la "missione" – di prete sia divenuto sempre più difficile – e, al contempo, meno credibile. Se, per citare di nuovo il Papa, le peggiori sofferenze "vengono proprio dall´interno", allora la Chiesa, più che dalla società, deve difendersi da se stessa.

Repubblica 17.5.10
Shoah
"Io come Littell perché i nostri libri sono scandalosi"

"Il testimone inascoltato" di Haenel ha diviso la Francia: ora esce in Italia "Noi giovani abbiamo un altro rapporto con la storia"
"Do voce a Karski che aveva spiegato agli alleati, nel 1943, la portata dell´Olocausto"
"Sostengo che si poteva intervenire prima. Non capisco le accuse che mi ha fatto Lanzmann"

PARIGI. Testimoniare, per i testimoni. «Nei prossimi anni, scompariranno gli ultimi sopravvissuti della Shoah. Cambierà il nostro rapporto con la memoria e sono convinto che il ricorso alla finzione diventerà inevitabile». Yannick Haenel fa parte di quei giovani scrittori che non hanno paura di affrontare la pagina più buia del Novecento con gli occhi del romanziere. Il testimone inascoltato (Guanda, pagg. 163, euro 15) racconta la storia di Jan Karski, militante della resistenza polacca, cattolico fervente, ma soprattutto "messaggero" degli ebrei durante l´occupazione nazista. Karski aveva visto gli sterminatori all´opera. Sapeva. Per due volte, nel 1942, era entrato nel ghetto di Varsavia e in un campo di concentramento. Ma, soprattutto, è stato uno dei primi testimoni diretti dell´Olocausto a poter raccontare la verità agli alleati, incontrando gli emissari dei governi di Londra e Washington e persino Theodore Roosevelt nel 1943. Davanti a Karski, il presidente americano si sofferma a guardare le gambe di una segretaria. E´ un´invenzione letteraria che permette a Haenel di evocare la "colpevole inerzia" degli alleati di fronte alla Shoah. "Lo sterminio degli ebrei – scrive l´autore – non è un crimine contro l´umanità ma un crimine dell´umanità".
Non le sembra eccessivo parlare di responsabilità dell´Occidente?
«Storicamente sappiamo che non c´è stata nessuna reazione rilevante da parte degli occidentali tra la fine del 1942 e l´inizio del 1944, quando Roosevelt lancia l´avvertimento ad Hitler sugli ebrei d´Europa. La Shoah è una responsabilità del nazismo. Ma il tempo di reazione degli occidentali è stato, obiettivamente, molto lungo. Gli storici oggi ammettono che nell´amministrazione statunitense c´erano molti funzionari antisemiti che filtravano o insabbiavano le informazioni su quello che accadeva in Europa. Le cose sono un po´ più complicate di come ce le hanno raccontate. E credo, anche, che usare la parola "vittoria" nel 1945 sia stato in qualche modo indecente».
Perché ha scelto una struttura narrativa che mischia documenti a finzione?
«Non dimenticherò mai la prima volta che ho visto Jan Karski. Era nel film di Claude Lanzmann, Shoah. Le immagini sono del 1977, quando lui ormai vive in America, dove insegna. Davanti alle telecamere, non riesce a parlare. Sono trentacinque anni che non viene interrogato sul suo ruolo di "messaggero" dell´Olocausto. Alla prima domanda, esce dal campo visivo. Quel posto vuoto mi ha profondamente colpito. Volevo riempire il suo silenzio. Ma per farlo ho voluto raccontare di nuovo ciò che Karski aveva detto nella sua biografia, uscita nel 1944, e poi nell´intervista di Shoah. Il libro ha tre parti: parola, scrittura, silenzio. Il lettore che arriva al terzo capitolo sa tutto quello che c´è da sapere su Karski. Io gli faccio una proposta di finzione. Si può accettare o rifiutare».
Lanzmann l´ha criticata duramente, accusandola di plagio e di aver scritto una "falsificazione storica".
«Sono rimasto sorpreso dai suoi attacchi, immaginavo anzi che prendesse il libro come un omaggio al suo lavoro. Sul plagio non credo valga la pena rispondere. Ho fatto delle citazioni, come si fa abitualmente. Più seriamente, credo che Lanzmann, come molti intellettuali della sua generazione, non riesce ad accettare che si sia arrivati a un´altra fase della riflessione sulla Shoah. Parte degli archivi storici sono stati aperti e credo sia doveroso adesso tentare nuovi approcci di analisi. Qualche mese fa, Lanzmann ha anche mostrato nuove immagini della sua intervista a Karski per contraddire il mio libro. In realtà, io ci ho visto confermata la delusione di questo straordinario testimone inascoltato».
Lei fa pronunciare a Karski accuse molto pesanti contro gli alleati, frasi che lui non ha mai detto.
«Negli anni Ottanta, Karski scrisse in una rivista che i governi alleati avevano abbandonato gli ebrei. Ha usato queste parole esatte. Non ho fatto altro che sviluppare questo concetto. Sono entrato nella testa di Karski perché lui è morto nel 2000 e non ho avuto l´opportunità di fargli altre domande. La finzione può essere uno strumento della conoscenza. Come può uno storico parlare del lutto, della disperazione, della debolezza? Il romanziere invece può tentare di farlo».
Roosevelt che sbadiglia davanti al racconto del ghetto di Varsavia. La sua è una provocazione.
«Sull´incontro con Roosevelt ci testimonianze contraddittorie. Anche Karski ha dato versioni diverse. Certamente ho pensato a questa scena come un elettroshock. Volevo fosse un´allegoria dell´abbandono. Credo che Karski abbia vissuto una violenza guardando l´inerzia degli alleati di fronte al suo messaggio».
Prima Jonathan Littell, con Le Benevole, ora lei. La Shoah diventa materia di romanzi, con tutti i rischi che comporta.
«Ho 43 anni, la stessa età di Littell. Molti scrittori della mia generazione hanno un nuovo rapporto con la Storia. Siamo attratti da una memoria che ci appartiene, per ovvie ragioni anagrafiche. Abbiamo un gesto narrativo più libero, disinibito. Io la chiamo finzione "etica", parte dai documenti per andare oltre. C´è una parte di verità che è, per sua natura, irrappresentabile, ed è la parte del romanziere. Gli ultimi testimoni stanno scomparendo, la finzione diventa sempre più inevitabile per tramandare la memoria. Ovviamente ci sono dei rischi. La finzione è come un esplosivo, può anche far saltare tutto».
Perché Karski è rimasto un testimone inascoltato?
«All´epoca, il suo messaggio era irricevibile. Qualcuno che nel 1942 parla di Olocausto non può essere compreso. Il messaggio di Karski creava la vertigine della verità. Eppure sappiamo ormai che l´amministrazione americana era al corrente di quello che stava accadendo. Una delle idee del mio libro, certo discutibile, è che gli Alleati non abbiano voluto soccorrere gli ebrei d´Europa perché, tecnicamente, volevano privilegiare l´alleanza con l´Unione sovietica e la strategia militare. L´aiuto agli ebrei era secondario. Anzi, dal 1943, Karski è diventato persino un testimone scomodo perché in qualche modo disturbava i piani degli alleati. Il nuovo mondo nato nel 1945 è fondato su una menzogna, o su un silenzio che abbiamo il dovere di indagare».

Repubblica 17.5.10
Scalfari: "Più dei barbari temo gli imbarbariti"
"Da ragazzo avevo preso di Nietzsche solo la teoria del Superuomo. Oggi lo vedo come la bomba che mina la modernità"
di Massimo Novelli

«La modernità è un epoca, quella che mette in discussione gli assoluti. E come epoca, è finita». Oggi arrivano i «barbari», che si definiscono così non in modo spregiativo o limitativo, bensì nel senso che gli davano i greci antichi: gente, dunque, che parla una lingua a noi estranea, incomprensibile. Sono «il nuovo che arriva, sono la nuova epoca». Non «amano leggere libri, non amano la parola scritta. Non contestano, come facevamo noi, i valori dei nostri nonni e dei nostri padri per cambiarli: non lo fanno semplicemente perché non vogliono nuovi valori. Vogliono ricominciare da zero, il che è pure importante. Se li faranno da soli, i valori».
I barbari, comunque, sono pur sempre «un fattore vitale», mentre ben altra cosa sono gli «imbarbariti». Oggi ce n´è una molteplicità di «imbarbariti», che imbarbariscono i nostri valori. Per questo «li dobbiamo combattere». Gli «imbarbariti» non sono presenti in Per l´alto mare aperto (Einaudi), l´ultimo libro di Eugenio Scalfari, che è un viaggio, un´esperienza, dalla nascita alla decadenza della modernità, intrapresi tra Cartesio e Montaigne, Spinoza, Kant e Hegel, Diderot e Nietzsche, Ulisse e Don Chisciotte. Il fondatore di Repubblica, tuttavia, fa emergere l´imbarbarimento in virtù di una domanda partita dalla platea affollatissima del Salone del Libro di Torino, dove ieri ha dialogato con Ernesto Franco e Antonio Gnoli.
È un pomeriggio intenso, di riflessioni e d´interrogativi, quello che nella Sala Gialla del Lingotto, davanti a una folla silenziosa e attenta, prende l´avvio dall´avvento della modernità che Scalfari identifica piuttosto che con la scoperta dell´America con Montaigne e i suoi Saggi, sul finire del secolo XVI, in quanto rappresentano «il pensiero che pensa la modernità». La ricognizione si chiude con Nietzsche. La "bomba" innescata da Montaigne nell´universo dell´assoluto e della metafisica, in ogni caso, scoppia quando il filosofo tedesco annuncia che «Dio è morto e noi l´abbiamo ucciso». Rifacendosi a un recente commento del direttore de L´Osservatore Romano, che interpretava da cattolico quell´affermazione sulla morte di Dio, e sul fatto che siano stati gli uomini a ucciderlo, l´autore di Per l´alto mare aperto avverte, pur senza volere intaccare l´autorevolezza del giornalista vaticano: «Nietzsche dice che abbiamo ucciso ciò che abbiamo creato. Siccome noi abbiamo creato Dio, siamo in grado di ucciderlo».
C´è molto Nietzsche nel ragionamento di Scalfari, nel colloquio con Franco e con Gnoli. Quel Nietzsche che è «una malattia», che spezza «il centro», l´io irrigidito, e sostiene che è ovunque. Come tutte le malattie, del resto, ha vari stadi, diversi gradi di lettura. Cambia il nostro modo di leggere, come dice Montaigne «siamo noi che cambiamo. Io l´ho letto tre volte, lo leggerò ancora». Racconta che in gioventù lo lesse in una maniera assai differente da quelle che sarebbero seguite: «Ero allora uno studente fascista, scrivevo sui giornali del Guf, portavo una stupenda divisa che piaceva alle ragazze. Un giorno fui convocato dal segretario del partito. Quando fui davanti a lui mi strappò le spalline, me le gettò in faccia e mi espulse. Restai sbalordito, credevo di essere fascista. Così mi domandai se era lui a essere diventato antifascista, oppure se lo ero diventato io. Dico questo perché, a quell´epoca, avevo letto Nietzsche da fascista: il superuomo che prende il potere e schiaccia i deboli».
Il pomeriggio con Scalfari si conclude tra domande e applausi. Con quei «barbari» che «non si possono distruggere perché sono il nuovo che arriva», quelle ««isole» dell´epoca della modernità che «resistono, circondate». E con quegli «imbarbariti» che frantumano i valori che sopravvivono, ma che sono un buon motivo per combattere un´estrema battaglia di civiltà.

domenica 16 maggio 2010

Libero 14.5.10
Salone Libro: domani nuova edizione di “Istinto di morte e conoscenza”
Adnkronos
qui
http://www.libero-news.it/articolo.jsp?id=411935

l’Unità 16.5.10
Visco bastona il Pd «Tra noi c’è chi protegge gli evasori»
di Andrea Carugati
qui
http://www.scribd.com/documents/31428232/unita-visco

il Riformista 16.5.10
Arriva nello Statuto la norma - Vendola
Il Pd è «scalabile»
di E. C.
qui
http://www.scribd.com/documents/31428275/Riformista-16-5-10-Vendola-p15

l’Unità 16.5.10
La cultura per la 180 con Psichiatria Democratica
di Cristiana Pulcinelli
qui
http://www.scribd.com/documents/31428173/pulcinelli

Repubblica 16.5.10
L’accusa della Bresso: momento terribile per il Paese
"Le donne per far politica obbligate a passare dal letto"
di Sara Strippoli

TORINO La donna che Berlusconi pensava non potesse guardarsi nello specchio al mattino «perché avrebbe visto la Bresso», si concede adesso qualche valutazione in libertà sul ruolo delle donne in politica e nel lavoro. Dal Salone del libro di Torino, l´ex presidente del Piemonte invita le più giovani a ribellarsi contro un sistema che sempre di più le vede protagoniste di carriere spesso comprate: «Stiamo assistendo ad un avvilente messaggio per le nostre giovani donne: per far carriera, anche politica, devi passare dal letto di un uomo e il lavoro sulla propria formazione non è determinante».
L´attacco arriva durante la presentazione di Guerra e Pace, il libro firmato da Alessandra Guerra, ex-presidente del Friuli Venezia Giulia, leghista delusa ora passata nelle file del Pd. Ero diventata un lupo, ha raccontato davanti al pubblico del Salone Guerra, «sono stata costretta a correre con le regole degli altri, da uomo e non da donna». Più tardi, a margine dell´incontro, Bresso chiarisce che le sue riflessioni non riguardano soltanto la carriera politica e non solo le donne del centrodestra: «Mi sembra che il modello Berlusconi parli chiaro, ma qualche segnale si vede anche da noi. E il rischio aumenta con l´attuale tendenza al giovanilismo».
Le donne del centrodestra reagiscono con stupore, nel caso di Giorgia Meloni con indignazione: «Mi pare una grande banalità dice il ministro alle politiche giovanili Una posizione assolutamente non condivisibile, Bresso farebbe meno a citare nomi e situazioni se vuole essere credibile, ogni donna ha una storia, e ne risponde personalmente. Quante volte sono stata personalmente attaccata da intellettuali, donne e uomini di sinistra, che non si sono risparmiati epiteti come "gallinelle del potere"». Stefania Prestigiacomo considera le dichiarazioni di Bresso quelle di una persona delusa dalla sconfitta: «Queste parole hanno il triste sapore del disappunto di chi non ha ancora accettato di aver perso alle elezioni, anche se ciò non significa che non esistano problemi di mercificazione della donna». Gli elettori però sanno decidere e «chi vale va avanti, essere donne significa competere alla pari», conclude il ministro all´Ambiente. Proprio da Bresso arrivano queste dichiarazioni? La domanda è di Elena Maccanti, giovane parlamentare del Carroccio, ora assessore nella nuova giunta Cota: «Proprio adesso che le donne stanno emergendo, e molte di loro dopo un lungo percorso in politica». Un sostegno indiretto a Bresso arriva da Rosy Bindi, che alla presidente uscente del Piemonte in campagna elettorale aveva regalato uno specchio in segno di solidarietà dopo la boutade del premier: «Per anni alle donne non è stata neppure riconosciuta l´anima ha detto al Salone durante il dibattito sulla laicità per la presentazione del libro di Gustavo Zagrebelsky adesso a mala pena si riconosce la possibilità che siano intelligenti».

Repubblica 16.5.10
La manica larga dei professori di religione
risponde Corrado Augias

Gentile Augias, il ministro dell'Istruzione Gelmini ha esultato alla sentenza del Consiglio di Stato che riconosceva la legittimità delle ordinanze nelle quali si equiparava la religione alle altre materie. In altre parole, ai fini dell'attribuzione del credito scolastico, basato sulla media dei voti riportata dall'alunno, occorre tener conto anche del giudizio espresso dal docente di religione. Il Consiglio di Stato infatti ha stabilito che, nel caso l'alunno scelga di avvalersi di questo insegnamento, la materia diventa per lo studente obbligatoria e concorre quindi all'attribuzione del credito scolastico. Tutto giusto. Però sarebbe anche giusto che il professore di religione, come è sempre accaduto ed ancora accade, non fosse troppo di manica larga nei suoi giudizi. Dico questo, perché anch'io come tutti i miei colleghi di religione, ho fatto così finché ho insegnato. Le insufficienze in religione sono rare come le mosche bianche. Sarebbe giusto che la materia fosse insegnata seriamente e studiata seriamente, alla stregua delle altre materie. Lo dico perché ho anch'io le mie colpe.
Renato Pierri renatopierri@tiscali.it

La sentenza del Consiglio di Stato suscita alcuni rilevanti quesiti. Uno dei primi è il seguente: se frequentare l'ora di religione produce crediti, lo stesso dovrebbe darsi per chi frequenta l'ora 'alternativa'. In caso contrario si crea una palese disparità come lo stesso Consiglio ha rilevato: «la mancata attivazione dell'insegnamento alternativo può pertanto incidere sulla libertà religiosa dello studente o delle famiglie, e di questo aspetto il Ministero appellante dovrà necessariamente farsi carico». Che farà il ministero? Si troveranno i fondi per attivare queste ore 'alternative'? Domande che un paese civilizzato europeo non può ignorare. Mi scrive per esempio il preside Cardinetti del liceo Copernico di Pavia: «A parte l'incidenza minima sui crediti (non sono otto, ma uno per fascia di media), in ogni caso si creerebbe disparità di trattamento, visto che il ministero non assegna alcun fondo per i docenti di attività alternative eventualmente richieste dalle famiglie». Si impegnerà il ministro Gelmini? O si riterrà invece paga della sua 'vittoria' di principio? Altra questione di uguale rilievo è quella sollevata dal prof. Pierri: se gli insegnanti di religione si dimostrano così di manica larga, magari per invogliare gli allievi alla frequenza, si verrà ugualmente a creare una disparità con gli altri allievi. Un corretto sistema scolastico non dovrebbe consentirlo. Tanto più che la spaventosa ignoranza in materia religiosa di molti italiani consiglierebbe semmai una manica non larga bensì stretta, strettissima.

l'Unità 15.5,10
«Poche culle, gli italiani sono a rischio estinzione»
Lo studioso inglese: «Il vostro è un paese dominato dagli anziani Se i tassi di natalità non aumentano, perderete l’86% della popolazione»
di Cesare Buquicchio

Gli italiani sono in via d’estinzione, ma a nessuno sembra importare. Sembra bizzarro, ma non sembra importare nemmeno a chi sulla tutela degli “italiani” ci costruisce slogan e campagne elettorali. Per tutto questo c’è anche una spiegazione, ma la rimandiamo a tra poco. Intanto, va detto, che il destino della popolazione del nostro paese interessa a Fred Pearce, giornalista scientifico inglese pluripremiato per i suoi libri e per le sue inchieste.
Pearce ha da poco pubblicato un libro (edito in Italia da Bruno Mondadori) che si intitola Il pianeta del futuro. Dal baby boom al crollo demografico e che studia gli andamenti demografici della popolazione umana e gli scenari futuri. Affrontando questo studio ricco, oltre che di dati, di testimonianze e racconti raccolti in giro per il mondo, Pearce non ha potuto non soffermarsi sul paese più vecchio del mondo (l’Italia) e con un tasso di crescita demografica disastroso (sempre l’Italia).
Italiani in via d’estinzione, dicevamo, perché, scrive Pearce, se si continuerà a fare figli con questo ritmo entro la fine del secolo gli italiani sarebbero l’86% in meno di adesso, scendendo a 8 milioni di abitanti contro i 56 milioni attuali. Perché sta succedendo?
«Quello sta capitando in Italia è una anteprima di una tendenza mondiale che vedrà nei prossimi anni un picco di crescita della popolazione umana e poi un brusco e prolungato calo – ci spiega Pearce in un incontro nella redazione de l’Unità –. Ci sono spiegazioni diverse in ogni paese per questo: dalla legge del figlio unico cinese, agli effetti della recessione globale per le economie avanzate. Ma, lo “sciopero delle culle” italiano risponde a dinamiche anche più concrete».
Quali sono?
«I giovani non hanno nessuna fiducia nel futuro, si sentono a stento in grado di badare alla propria sopravvivenza, figurarsi a quella di una famiglia. Le giovani donne, inoltre, condividono queste preoccupazioni e ci aggiungono la scarsa affidabilità dei loro compagni a condividere il peso dei figli e le scarsissime tutele che il mercato del lavoro assegna loro».
Scusi Pearce, ma come si fa ad immaginare un paese che tutela i suoi giovani se, dall’altra parte, invitiamo gli anziani, che sono sempre di più e che occupano tutti gli spazi decisionali della società, a comportarsi come trentenni, a godersi la vita, a vendere
le loro grandi case rimaste vuote per pagarsi viaggi o corsi di skateboard (tutti esempi presi dal suo libro). Insomma, quelle grandi case vuote non sarebbero utilizzate meglio come incentivo ai giovani per mettere su famiglia?
«Gli anziani sono destinati rapidamente a diventare il blocco sociale più numeroso e potente, non solo in Italia ma in tutto il mondo. E questo accadrà per la prima volta nella storia dell’umanità, quindi non si sa cosa succederà. Possiamo solo avanzare delle ipotesi: gli anziani come risorsa per le società del futuro, con la lo-
ro saggezza, pacatezza e frugalità che influenza anche i comportamenti degli altri membri della comunità. Oppure potremmo avere anziani individualisti ed egocentrici che tentano di non invecchiare mai e, aiutati dalla medicina, si comportano secondo i modelli culturali consumistici». Tipo un settantenne molto popolare in Italia, coinvolto in scandali sessuali e che non perde occasione per dire di sentirsi un trentacinquenne... «Esatto. Il vostro premier è l’unico in Europa nato prima della seconda guerra mondiale e da come si comporta non sembra dare molta attenzione alle esigenze dei giovani e, davvero, non sembra rispecchiare quel modello di anziano saggio, frugale e attento al bene della comunità».
Ed ecco qui una delle spiegazioni al perché si parla tanto di famiglia e di “italiani” ma in concreto non si fa niente per tutelarla.
«Per garantire la sopravvivenza degli italiani e, più in là, del genere umano, occorre che ci sia un patto tra le generazioni. I giovani devono cominciare a considerare gli anziani non più come un peso, ma come una risorsa. Questi ultimi devono sentirsi più responsabilizzati, devono prolungare la loro età lavorativa, soprattutto le donne, e mettersi al servizio della società».
A guardarsi intorno, ad osservare il massiccio trasferimento di risorse dalla fase iniziale dell’età lavorativa a quella finale coinciso con la diffusione del precariato nel nostro paese,
«Sì, così sembra. Ma se vogliamo che i giovani ricomincino a fare figli e a guardare con fiducia al futuro la situazione deve cambiare. Deve cambiare l’atteggiamento dello Stato, innanzitutto, ma non solo quello. È importante che anche il rapporto tra uomini e donne sia diverso. Non dobbiamo mettere in condizione le donne di dover scegliere tra i figli e il lavoro, non è ammissibile. E poi servono soluzioni creative, livelli retributivi che non abbiano un andamento banalmente crescente per tutta l’età lavorativa, ma che sostengano la nuova organizzazione sociale».
Un altro elemento che dal suo libro appare essenziale per un futuro equilibrato è quello della libera migrazione delle persone dalle società più povere a quelle più ricche.
«Sono convinto che l’immigrazione sia un dato di fatto e che avremo sempre più bisogno di stranieri per mantenere i nostri livelli demografici e rispondere alle domande del mercato del lavoro. Il Giappone, il paese più vecchio del mondo dopo l’Italia, da florida potenza economica è entrato in una profonda recessione e in tanti ora rimpiangono il fatto di aver impedito una massiccia immigrazione».

l'Unità 15.5.10
«La guerra sporca di Gaza. L’ordine era sparare a tutto ciò che si muoveva»
I racconti di soldati israeliani confermano che l’Operazione Piombo Fuso lanciata da Israele fu condotta violando le regole di ingaggio «Sulla spiaggia camminavamo su pezzi di vetro, è l’effetto del fosforo bianco»
di Umberto De Giovannangeli

Aron, 24 anni
«Non potevo tacere su ciò che ho visto, mi sarei sentito un traditore»
Il racconto
«La potenza di fuoco è stata enorme, la terra tremava continuamente»

So che c’è chi ci considera dei traditori, dei venduti al nemico. Ero orgoglioso di vestire la divisa di Tsahal e di difendere il mio Paese. Ma quello a cui ho assistito è qualcosa che va contro ciò in cui credevo. E se fossi rimasto in silenzio, allora sì che mi sarei sentito un traditore...». Aron ha 24 anni ed ha combattuto in un reparto di élite dell’Idf (l’esercito dello Stato ebraico) durante l’operazione «Piombo Fuso» condotta dalle armate israeliane a Gaza. Aron è a conoscenza delle denunce di associazioni umanitarie internazionali sull’uso di armi non convenzionali a Gaza. «Qualcosa circolava tra noi al riguardo dice a l’Unità ma chi provava a saperne di più veniva subito zittito». Le considerazioni di Aron riportano a quanto denunciato in un libretto dall’organizzazione Breaking the silence, organizzazione di veterani israeliani che dal 2004 raccoglie testimonianze dei colleghi sugli abusi commessi dall’esercito nei Territori Occupati. Tutte le 54 testimonianze raccolte sono anonime. Esse mettono in luce la facilità con cui si sono distrutte case e moschee, anche se non erano obiettivi militari; l’uso di bombe al fosforo in zone popolate da civili; l’uccisione di vittime innocenti; la distruzione di proprietà private; regole vaghe su cosa fare di fronte ai palestinesi, che ha permesso un uso spropositato delle armi da fuoco per uccidere. Mikhael Mankin di Breaking the silence afferma che «le testimonianze provano che il modo immorale in cui la guerra è stata condotta è dipeso dal sistema in atto, più che dagli individui».
Fosforo banco 1 Testimonianza: Che cos’era la storia dell’uso di bombe di mortaio al fosforo bianco? Il comandante della compagnia dà al comandante del plotone che ha il mortaio un obiettivo e gli ordina di fare fuoco. Che cosa c’era, lo sa? Un obiettivo. Li definiscono obiettivi. Non so veramente dire cosa fosse. Qualche volta si sentiva alla radio: «Via libera, fosforo nell’aria». Tutto qua. Non mi ricordo se venisse confermato dal comandante della compagnia, ma so anche di un ufficiale che sparò senza chiedere l’autorizzazione. Perché sparare fosforo? Perché è divertente. Fantastico. Professionalmente avete del fosforo da usare contro queste minacce? Non so a quale scopo sia usato. Ne stavo proprio parlando ieri. Non capisco come queste munizioni siano tra i nostri rifornimenti se poi non dobbiamo usarle. È ridicolo»
Fosforo bianco 2 Poi siamo ritornati a nord, a circa 500 metri dal recinto, e siamo rimasti là di guardia tutta la notte. Non abbiamo visto niente di speciale. Il giorno dopo siamo tornati alla base per prendere
nuovi ordini della missione e siamo stati di nuovo assegnati ad un’unità del battaglione *** con cui siamo entrati. Abbiamo camminato con loro sulla spiaggia e abbiamo visto tutte le bombe al fosforo bianco di cui le ho detto, abbiamo visto vetri sulla sabbia. Può descriverlo? Che cosa ha visto? Cammini lungo la sabbia e senti questo scricchiolio di qualcosa che viene frantumato. Abbiamo guardato per terra e abbiamo visto delle cose che sembravano frammenti di mi-
gliaia di bottiglie di vetro rotte. Che colore avevano? Marrone sporco. Ne ha visto dei resti da altre parti nelle vicinanze? C’era un’area di circa 200-300 metri quadrati di sabbia vetrosa come quella. Abbiamo capito che veniva dal fosforo bianco ed è stato sconvolgente. Perché? Perché durante l’addestramento si impara che il fosforo bianco non si usa, e si impara che non è umano. Si vedono dei film e si vede quello che fa alla gente che ne è colpita, e ti dici “Ecco, è quello che stiamo facendo”. Non è quello che mi aspettavo di vedere. Fino a quel momento, avevo pensato di appartenere all’esercito più umano del mondo....».
Fosforo bianco 3 Lì è stato senz’altro usato del fosforo bianco, l’ho visto e non ci si può sbagliare, si vedono proprio degli ombrelli infiammati. «È successo qualcosa di nuovo nell’Operazione Piombo Fuso a Gaza, qualcosa che non era mai accaduto», ribadisce Yehuda Shaul, 26 anni, uno dei fondatori di Breaking the Silence. «Non ho mai sentito storie come queste. L’aggressività dei comandanti, l’uso massiccio dell’artiglieria in un’area urbana, la scomparsa della distinzione tra civili e combattenti. Sono entrati a Gaza senza regole d’ingaggio. Si sparava a tutto ciò che si muoveva e che non si muoveva. Ci sono testimonianze sulla demolizione di massa di abitazioni senza che ce ne fossero necessità operative».
Un soldato che operò al cannone di un carro armato al nord est della frangia spiega che se dovevano girare e non c’era visibilità «si sparavano dodici bombe alle case intorno e si continuava». In due settimane di offensiva dice di aver sparato 50 bombe, 32 casse di munizioni da mitra-
gliatrice media (più di 7.000 colpi), 20 colpi di mortaio da 60mm e 300 cariche da mitragliatrice pesante Browning 0.5. «E questo è solo un carro: ce n’erano più di duecento», aggiunge.
Una scala completamente diversa. Lei ha servito nell’esercito a Gaza per anni, è stata una distruzione in qualche modo simile a quelle che ha conosciuto prima? No, nel modo più assoluto. Si è trattato di una scala completamente diversa. Questa è stata una potenza di fuoco come non ne ho mai conosciuto. Non posso dire che quando ero a Gaza non si fosse usata l’aviazione. Ma no, la terra non tremava di continuo. Voglio dire, c’erano tutto il tempo esplosioni. Se fossero lontane o vicine, questa è già semantica. Ma la nostra sensazione di fondo era che la terra tremasse costantemente. Si sentivano tutto il giorno esplosioni, la notte era piena di bagliori, un’intensità che non avevo mai provato prima. Molti bulldozer D-9 operavano 24 ore su 24, erano costantemente occupati. Questa è stata una scala di intensità molto diversa da quelle conosciute prima. Molto più grande...
Guardi, quando ci sparavano, non vedevamo veramente il nemico con i nostri occhi. D’altra parte, ci sparavano e noi rispondevamo al fuoco verso punti sospetti. Che cos’è un punto sospetto? Significa che decidevi che era sospetto e potevi riversargli addosso tutta la tua rabbia». Una rabbia «non convenzionale». Come le armi utilizzate.
I vertici politici e militari israeliani hanno contestato queste affermazioni e proposto controdeduzioni. Ma la forza di una democrazia e quella israeliana è tale sta nel non chiudere gli occhi di fronte alle pagine più nere, alle denunce più gravi. «La risposta ai razzi Qassam è stata sproporzionata e le testimonianze dei soldati non fanno che dimostrare quanto brutale fosse la situazione sul campo», rileva Valentina Azarov. esperta legale di HaMoked, il Centro per la Difesa dell’Individuo associazione dei diritti umani con sede a Gerusalemme Est.

Corriere della Sera 16.5.10
Slansky, il contrappasso del «grande spazzino»
Il comunista ceco che da carnefice divenne divenne vittima
di Sergio Romano
qui
http://www.scribd.com/documents/31427539/Corriere-Della-Sera-Memorie-16-Mag-2010-Page-1

Corriere della Sera Salute 16.5.10
Mezz’ora di Mozart al posto delle pillole
di Elena Meli
qui
http://www.scribd.com/documents/31427569/Corriere-Della-Sera-Mezz%E2%80%99ora-di-Mozart-al-posto-delle-pillole-16-mag-2010-Page-62

Corriere della Sera Salute 16.5.10
Italiani «veloci» in amore, troppe false credenze
qui
http://www.scribd.com/documents/31427600/Corriere-Della-Sera-Italiani-%E2%80%9Cveloci%E2%80%9D-in-amore-troppe-false-credenze-16-mag-2010-Page-63

Corriere della Sera Salute 16.5.10
Ascoltiamo i pareri degli esperti sull’EP
di Emmanuele Jonnini
qui
http://www.scribd.com/documents/31427616/Corriere-Della-Sera-Ascoltiamo-il-parere-degli-esperti-sull%E2%80%99-EP-16-mag-2010-Page-63

Terra 16.5.10
L’Europa verso il suicidio dell’austerità
di Luca Bonaccorsi
qui
http://www.scribd.com/doc/31427949/Terra-16-5-10-p1-2

Terra 16.5.10
L’amore di una pivellina
di Alessia Mazzenga
qui
http://www.scribd.com/documents/31428073/Terra-16-5-10-p-7