giovedì 20 maggio 2010

l'Unità 20.5.10
Intervista Marco Bellocchio

«In questa povera Italia
la dittatura è ormai interna alla stessa democrazia»
Il regista Dopo la sua «Lezione di cinema» non riesce a non parlare di politica e tagli alla cultura. E racconta anche del suo nuovo film familiare «Sorelle»
di Gabriella Gallozzi

La crisi. «Chiedono ancora sacrifici alle classi più deboli mentre loro si tolgono il 5%: ridicolo, dovrebbero togliersi il 50%»
I progetti. «La cronaca offre infiniti spunti: il caso Englaro, i finti ciechi che chiedono la licenza per il taxi, il museo con una sola visitatrice...»

Guardate la finanziaria: chiedono ancora sacrifici alle classi più deboli mentre loro si tolgono il 5%. È quasi più ridicolo che vergognoso. E tutto questo di fronte agli operai in cassa integrazione. Ma come? Viviamo nella società dell’immagine, no?! Allora dicessero: eccovi il 50% dei nostri stipendi così guadagnerebbero almeno un po’ di dignità...». Neanche da Cannes è facile parlare di cinema per Marco Bellocchio. Le «urgenze italiane» travolgono tutto. Soprattutto qui sulla Croisette dove ancora risuona l’eco delle polemche di Bondi sul caso Draquila. A distanza di un anno da Vincere, Bellocchio fa ritorno al festival per tenere la sua lezione di cinema davanti ad una platea osannante. Forse un «risarcimento», commenta, o meglio «un riconoscimento» per il suo film su Mussolini che, l’anno passato, uscì a bocca asciutta dal concorso. Ma che la sua rivincita l’ha avuta in seguito nelle sale francesi, nelle critiche entusiaste, nelle vendite in tutto il mondo e, l’ultima, nella vittoria a sorpresa dei David di Donatello.
Il tema del suo film, del resto, è ancora così attuale non solo nell’Italia di Berlusconi, ma anche nell’Europa che svolta sempre più verso l’autoritarismo. «Certo dice Bellocchio la situazione di smarrimento di oggi non è paragonabile a quella del ’22, ma è vero che l’attuale maggioranza lavora molto sulla paura, alla quale contrappone l’uomo forte, decisionista, autoritario. Berlusconi con la tv arriva dappertutto. È il grande fratello. A questo punto non c’è bisogno della dittatura militare: è interna alla stessa democrazia». Come spiegare tutto questo all’estero?
«Gli stranieri si stupiscono della situazione italiana continua Bellocchio -. Eppure Silvio Berlusconi non è un usurpatore, ma è stato votato dalla maggioranza del Paese. Bisognerebbe, piuttosto riflettere sull’atteggiamento della sinistra nei suoi confronti, su questo costante attacco frontale... Se l’obiettivo era scavalcare il cavaliere il tentativo è fallito completamente. Se il mio Vincere l’avessi intitolato Perdere sono sicuro che la sinistra sarebbe stata più contenta».
Il problema dell’opposizione, prosegue il regista, «è l’incapacità di articolare delle alternative. Siamo stati delusi dalla destra e pure dalla sinistra. Ma soprattutto da quest’ultima. Da Bondi certe cose me l’aspetto, non mi offende neanche, è semplicemente inadeguato al suo ruolo. La sinistra però... Penso alla riconferma di Alberoni al Centro sperimentale, per esempio. Non ho niente contro di lui, ma certamente non è uomo di cinema.
Eppure è stato Rutelli a rinnovare il suo mandato. Ecco, ho come l’impressione che, al di là della politica, tutto sia deciso tra amici». Si è toccato davvero il fondo rincara Bellocchio. «E seppure non credo che la Lega conquisterà l’Italia, penso che sia vera la frase tanto di moda «il Pd non ha più la capacità di stare sul territorio». Dovrebbe piuttosto sforzarsi di cambiare davvero al suo interno: per gli ex non c’è futuro. Ci vuole una classe dirigente nuova che col Pci non abbia più niente a che vedere».
Invece ci si continua dividere. Mentre gli attacchi, dall’altra parte si fanno sempre più pesanti. «Brunetta insulta dandoci dei ladri, dei parassiti, convincendo le persone che la cultura non serve a nulla. Nei confronti del cinema, poi, ancora peggio: pensano che quello italiano sia comunista e quindi via, lo rigettano completamente», coi drastici tagli al Fus che sappiamo. Da soli, però «non si va da nessuna parte», dice Bellocchio. «Serve unità, per ricompattare tutto il mondo della cultura, senza ricorrere agli slogan di un tempo che non hanno portato a nulla. Per questo ho aderito al movimento dei Centoautori. Non è piu tempo di barricate, ma come dice Carla Fracci solo l’unione fa la forza. Bisogna rafforzare l’unità nel rispetto delle diseguaglianze e trovare un punto comune».
Puntando ciascuno sulla qualità del proprio lavoro. Come Bellocchio ha sempre fatto, del resto. «A me prosegue non mi interessa l’invettiva, la polemica diretta, la derisione ad personam. Si può fare, certamente, contro Berlusconi, Scajola... figurarsi. Quello che cerco io però è l’approfondimento. Per questo sto pensando ad un film a partire dall’Italia di oggi. Il caso Englaro, per esempio, mi ha colpito come sintesi della disperazione e dell’ipocrisia di questa classe politica che pur di non perdere l’appoggio della chiesa è stata disposta a fare leggi incredibili che poi si sono perse chissà dove». La cronaca di spunti ne offre infiniti. «Penso ancora ai finti ciechi che hanno richiesto la licenza per i taxi. Al museo in Sicilia con una sola visitatrice, al concerto interrotto al Pantheon perché i guardiani avevano finito il turno. Sono tutti casi fra il tragico e il grottesco che potrebbero costituire uno spunto. Al momento però, quello che più lo interessa è Sorelle, «un piccolo film familiare in sei episodi», che racconta il ritorno del regista a Bobbio, nella casa dei Pugni in tasca, insieme ai figli Pier Giorgio e la piccola Elena. E che probabilmente vedremo a Venezia.

Repubblica 20.5.10
Marco Bellocchio accusa l´Italia "Mai eravamo scesi così in basso"
Lo sfogo:"I politici pensano che il cinema è comunista"
Bondi si doveva distinguere e venire al festival: non c´è solo "Draquila", ci sono Luchetti, io...
di Maria Pia Fusco

CANNES. Se il ministro Bondi fosse venuto, avrebbe visto la "sala Buñuel" affollata, soprattutto di giovani, intenti ad ascoltare con grande attenzione la lezioni di cinema di Marco Bellocchio. Avrebbe sentito il calore e gli applausi alle immagini di titoli importanti nel storia del nostro cinema, I pugni in tasca, Nel nome del padre, Salto nel vuoto, L´ora di religione, Buongiorno, notte, Vincere. «Non posso offendermi per la sua assenza, ma si poteva distinguere. Qui non c´è solo Draquila, ci sono io, c´è il film di Luchetti e quello di Frammartino, che, da quanto ho letto, è stato accolto molto bene», dice Bellocchio. Il fatto è che «loro pensano ancora che il cinema sia comunista, che la cultura sia comunista».
Doppio appuntamento ieri a Cannes per il regista. Nella sua lezione, condotta da Michel Ciment, si sofferma sulla fellatio di Diavolo in corpo per illustrare «quanto sia delicato il rapporto tra quello che deve accadere e la sua rappresentazione», spiega la necessità narrativa della sequenza tra padre e figlio in L´ora di religione... Poi nell´incontro con la stampa italiana, il cinema e la politica si intrecciano. «Forse perché mai in Italia la classe politica era scesa così in basso», accusa.
L´essere stato invitato e la presenza in giuria di Giovanna Mezzogiorno «potrebbe essere non un risarcimento ma un riconoscimento per Vincere, che l´anno scorso non ebbe premi, poi è stato un grande successo in Francia, ha avuto critiche positive in America, è uscito e sta ancora uscendo in tanti paesi. Proprio dalla stampa straniera è venuto il paragone Mussolini-Berlusconi. In una situazione di smarrimento c´è la necessità di rifarsi a figure forti, l´attuale maggioranza lavora molto sull´ansia e sulla paura e non vuole intralci. "Lasciateci lavorare", come diceva Tambroni negli anni Sessanta. Mi ha stupito questa nuova finanziaria che chiede sacrifici alle classi più indifese. E poi dicono che loro si taglieranno il 5%. Non hanno il senso del ridicolo? Dite il 50%, oppure "ci toglieremo una mensilità", ma fatelo. In questa società delle immagini sarebbe un segno».
Per Bellocchio «non c´è pericolo di una dittatura in Italia, è diversa l´epoca e sono diversi Berlusconi e Mussolini, che seduceva nobildonne e giornaliste, non aveva bisogno di escort. E non c´è bisogno della dittatura, la televisione arriva ovunque, si può esercitare il controllo anche in democrazia», dice e, alla domanda "come liberarsi di Berlusconi?", risponde: «Mi riconosco il diritto di non saperlo. So che l´opposizione, al di là di rivendicazioni generiche, non fornisce un´alternativa reale. Io sono arrabbiato con la destra e con la sinistra, ma più con la sinistra, perché Bondi so chi è. Non credo che la Lega conquisterà l´Italia, ma è vero che il Pd ha perso il contatto con il territorio. Perché non si sforza di ritrovarlo? Forse per gli ex non c´è futuro, bisogna aspettare una classe dirigente nuova di dirigenti che non siano ex del Pci».

Corriere della Sera 20.5.10
Bellocchio: su Berlusconi la sinistra ha sbagliato tutto
di G.Ma.
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il Riformista 20.5.10
Perdere titolo giusto…
Lago ai biopic, da Ceausescu a Carlos
Programma. Giornata all’insegna della politica. Il regista fa lezione: «Per gli ex Pci non c’è futuro tranne Vendola»
Panahi conferma lo sciopero
di Giacomo Visco Comandini
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Repubblica 20.5.10
La stampa nemica
di Giorgio Bocca

A differenza di altri sultani che nascondono la spada con cui feriscono i nemici, l´estroverso Cavaliere vuole che lo si sappia che è stato lui a usare i suoi soldi e i suoi poteri per sbarazzare il campo dai critici e da quelli di diverso parere. È stata la sua voce isterica e cattiva a lanciare gli anatemi contro giornalisti e opinionisti che osavano contraddirlo.
A chiedere apertis verbis ai dirigenti della Rai di toglierglieli dai piedi, a non sopportare la presenza dei Montanelli, dei Biagi e di chiunque mettesse in discussione il suo sovrano potere sultanesco. Non stupisce quindi che ora voglia addirittura imbavagliare la libertà di stampa tout-court, chiudere la bocca ai giornali e alla verità.
Si è detto spesso che Berlusconi, a differenza di altri padroni, è un buono, uno che corre al capezzale dei dipendenti ammalati, che li manda in crociera per le vacanze e gli telefona: «Siete belli, siete abbronzati, al vostro ritorno troverete una gratifica, la prossima volta ci sarò anch´io, ho già pronto lo smoking». Certo, è un imprenditore non un gangster, uno che usa le parole più che la violenza, ma non è uno che perdona chi si mette sulla sua strada, prima o poi cerca di eliminarlo. Non lo nasconde, vuole che tutti sappiano che l´incauto ha avuto la sua giusta punizione.
Un intercalare solito del Cavaliere è il «se lei mi consente», come a dire: io sono straricco, strapotente ma profondamente democratico fin dalla nascita: chiedo il permesso anche di sbadigliare, anche di respirare, sorrido sempre anche quando metto alla porta un mio dipendente, anche quando licenzio un allenatore del Milan. Il cavaliere di Arcore è buono, generoso, magnanimo ma i direttori di giornali che non gli piacciono escono dalla comune, si chiamino Montanelli o Biagi. Ci pensano i maestri di cerimonia a congedarli. I maestri delle cerimonie, uomini di mondo educati a corte, in questi giorni compaiono sui teleschermi o sui giornali per smentire affabilmente i catastrofisti, i profeti di sventure autoritarie che denunciano l´attacco alla libertà di stampa, come di fatto è il «nuovo ordine» sulle intercettazioni telefoniche.
Ma che dite, di che vi lamentate? Vieteremo solo quelle che fanno danno agli innocenti, che ledono la privacy dei cittadini, che servono solo alle diffamazioni ingiuste, alla maldicenza, al pettegolezzo. Davvero? Le cose stanno diversamente. Senza le intercettazioni telefoniche fatte dalla magistratura e pubblicate dai giornali nessuno avrebbe saputo che un ministro era stato aiutato «a sua insaputa» ad acquistare «un mezzanino» da duecento metri quadrati con vista sul Colosseo da un generoso costruttore edile.
Berlusconi è fisicamente e mentalmente il contrario dei dittatori del secolo scorso. Paragonarlo nei modi di parlare, di fare, di atteggiarsi ai Mussolini, Hitler, Stalin non reggerebbe neppure alla bassezza dell´avanspettacolo. Anche il suo impero televisivo è stato costruito legalmente, con i privilegi e le prepotenze legali in cui i grandi costruttori sono maestri. Ma chi si è opposto a questo sistema, chi si è messo di traverso con le buone o con le cattive è stato cacciato. Si tratta di quella che noi chiamiamo la democrazia autoritaria o la dittatura della maggioranza o l´assolutismo elettorale per cui chi ha più voti, chi ha il maggior consenso popolare può far tutto ciò che gli comoda, anche violare le leggi della Costituzione.
Ma perché questa democrazia autoritaria non è stata denunciata e contrastata in passato, quando i grandi partiti storici, il democristiano e il comunista, si spartivano i poteri uno della politica l´altro del mercato del lavoro? Credo perché quei partiti erano nati dalla guerra di liberazione, erano fondati sui valori della Resistenza, davano garanzie di non arrivare mai alla limitazione se non alla soppressione dei diritti democratici. I dubbi, i timori sul cavaliere di Arcore, su cui i suoi portavoce teatralmente ironizzano, sono autorizzati dal suo sistema di continuo attacco ai baluardi della democrazia, ora alla libertà di stampa come prima alla magistratura e all´opposizione in genere, genericamente definita come comunista, di un comunismo morto e sepolto ma sempre intento a ostacolarlo e danneggiarlo.
Forse, anzi certamente Berlusconi non se ne rende conto, forse come tutti gli «uomini fatali» è convinto di aver sempre ragione, che tutti congiurino ai suoi danni, ma da quando è entrato in politica, da quando ha detto al suo amico Dell´Utri «fare un partito? Lo fanno tutti, lo facciamo anche noi» non ha fatto altro che attaccare, deridere, osteggiare la democrazia, il «teatrino della politica» come la chiama lui. La magistratura, con l´ipocrita distinzione fra quella buona che lo lascia in pace e quella «politicizzata» che lo perseguita, la stampa che concepisce solo, a quanto pare, come mezzo di intimidazione degli avversari.
L´ultimo dei suoi allenatori del Milan è stato licenziato come Santoro: «Consensualmente». Ha detto che c´era «incompatibilità di carattere». Chiamiamola così: fra Berlusconi e la democrazia parlamentare nata dalla guerra di liberazione c´è incompatibilità di carattere.

Corriere della Sera 20.5.10
Pansa e la «querelle»
«De Benedetti? Vuole fare politica»
«Con D’Alema è andato oltre. Agnelli non lo fece mai»
di Aldo Cazzullo
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Corriere della Sera 20.5.10
Università primo sì alla riforma
I ricercatori scendono in piazza
di Giulio Benedetti
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mercoledì 19 maggio 2010

l’Unità 19.5.10
La Regione Toscana chiederà la verifica di costituzionalità del provvedimento
I Teatri lirici Intanto proseguono gli scioperi delle prime, mentre le sale aprono al pubblico
Fondazioni, il decreto Bondi finisce alla Corte costituzionale
Mentre è ancora forte la eco dell’epico scontro tra Carla Fracci e Gianni Alemanno sindaco di Roma, i grandi teatri lirici italiani continuano la loro opposizione al decreto del ministro dei Beni e delle Attività Culturali Sandro Bondi.
di Luca Dal Frà

I grandi teatri lirici inventano nuove forme di protesta, e le regioni e le città italiane si stringono intorno ai lavoratori della lirica, promettendo anche un ricorso sulla costituzionalità del provvedimento. Da anni non c’era un clima così vivace nella lirica italiana ed è straordinario che sia dovuto a un ministro come Bondi e al suo entourage: naturalmente non era nelle loro intenzioni, anzi è una schifata reazione ai piani di dismissione della lirica e al tentativo di una cricca di mettere le mani sui teatri.
Della situazione è emblematico lo scontro Fracci-Alemanno avvenuto nella platea dell’Opera di Roma durante la manifestazione contro il decreto di lunedì: il sindaco di Roma è appeso ai pantaloni del governo poiché come lui stesso dice il bilancio della capitale è al «dissesto» e attende nuovi fondi dalla arcigna mano tremontiana. Così, con coraggio peloso, alla manifestazione si era schierato non contro il decreto del governo ma per una sua correzione offrendosi come eroico mediatore: contestatissimo dalla sala, l’impavido sindaco s’è beccato pure la scenata di Fracci: «Vergognati, farabutto! Buffone!» – lo ha epitetato l’étoile. Molti, tra cui l’ineffabile sovrintendente dell’Opera di Roma Catello De Martino, ritengono Fracci fosse infuriata poiché non le è stato rinnovato il contratto come direttore del Corpo di Ballo. In realtà nei dieci anni in cui ha ricoperto questo ruolo la signora della danza italiana ha portato i ballerini del lirico capitolino a diventare la compagine di balletto più importante e produttiva della penisola – quest’anno le recite di danza superano quelle della lirica all’Opera di Roma. Forse anche delusa
dalla mancata riconferma, Fracci aveva chiesto due anni fa un incontro ad Alemanno perché preoccupata del futuro della squadra che con fatica aveva cresciuto e amalgamato. Solo oggi Alemanno si dice disposto a incontrarla, ma il punto è che il sindaco se ne infischia del lato artistico della vicenda e ha puntato le sue carte sull’arrivo di Riccardo Muti, atteso non già come il musicista di grandissimo livello quale è in realtà, ma come evento mediatico con cui coprire notevoli magagne. C’è poi il lato comico della vicenda: Alemanno afferma di voler un nuovo ciclo aprendo ai giovani e il teatro assume per il corpo di ballo Micha van Hoecke, anni 66, appena 4 in meno di Fracci.
PRODUZIONE CIRCUITAZIONE
Genova, Bologna, Roma continuano lo sciopero delle prime contro il decreto, ma nel frattempo sono sbocciate nuove iniziative: la Scala e il Maggio e altri teatri aprono le loro prove al pubblico. E bisognava vederli i milanesi interessati, sorpresi e spiazzati sui palchi della Scala a osservare i ballerini che costruivano il loro spettacolo Trittico del Novecento. Perché tolte le generali, le prove non è che siano proprio un divertimento per il pubblico: è difficile capire cosa stia avvenendo. Ma aprendo le porte e coinvolgendo il pubblico si mostra come, a differenza di quanto sostengo Brunetta, Bondi e altri, nei teatri si lavora: un lavoro lungo, fatto di nervi, sfibrante. E il decreto con i suoi tagli indiscriminati e il blocco di turn-over e integrativi colpisce proprio la produttività dei teatri, a favore della logica degli eventi, come ha scelto di fare Alemanno. Per far questo il provvedimento dà un immenso potere a un’equipe di liquidatori: Bondi stesso – poco interessato all’argomento – e il suo entourage ministeriale. Con principesco distacco e lucidità intellettuale Gioacchino Lanza Tomasi ha definito questa nuova generazione di “ministeriales”: «Funzionari manager (...), con ampio potere discrezionale, il cui orgoglio primario non è quello del servitore dello stato ma dell’imprenditore politico» (Sole 24 Ore 16 maggio). Così mentre i nomi degli alti papaveri del Ministero compaiono nell’elenco delle ristrutturazioni gratuite dell’impresa di Anemone, i boiardi di stato si dilettano a produrre eventi, per lo più circuitando spettacoli affidati ad agenzie di parenti, fidanzate e amici: da L’Aquila, città piegata dal terremoto che invece di un progetto di ricostruzione fin’ora ha ricevuto una profluvie di spettacolini, a Pompei e via così.
ANTI E INCOSTITUZIONALE
Per la prima volta nell’universo della lirica fatto di rivalità, teatri e sindacati hanno prodotto un documento unitario: il decreto è inemendabile. L’opposizione e in particolare il Pd si prepara a fare l’ostruzionismo nelle aule parlamentari. Ancora più interessante sono le iniziative che stanno prendendo alcune regioni ed enti locali, in testa la Toscana: la verifica di costituzionalità del decreto. Infatti la legislazione sulle attività culturali dovrebbe essere decisa nel concorso tra regioni e stato, ma il ministro Bondi per il suo decreto non ha consultato nessuno. Se il provvedimento fosse bloccato per incostituzionalità non sarebbe una sorpresa: tra annullamenti di concorsi, appalti e altre vicende penose, da qualche tempo il ministero dei Beni e delle Attività Culturali non sembra imbroccarne una.

l’Unità 19.5.10
Laici furiosi? No, laici
di Bruno Gravagnuolo

È polemica tra Il Mulino e Reset tra «laici furiosi» e «laici accomodanti», a partire dal pamphlet Rizzoli di Giancarlo Bosetti su Il fallimento dei laici furiosi. Da un lato Bosetti, direttore di Reset, ha accusato gli intellettuali ossessionati dalla «minaccia clericale», colpevoli di non comprendere la società «post-secolare» e di restare inchiodati a un conflitto vetero-liberale tra Stato e Chiesa. Dall’altro al Mulino, con Piero Ignazi, Gian Enrico Rusconi e Mauro Barberis, si replica che la laicità è sul serio in pericolo con questo Papato. E che la proliferazione diffusa della «religiosità» non autorizza cedimenti «post-secolari», dinanzi alle invadenze della gerarchia. Replica poi Bosetti: guardate Obama, da laico non teme cedimenti e fa compromessi sull’aborto. Chi ha ragione? Vediamo. Senz’altro il «post-secolare» è un dato: dalle sette evangeliche, ai fondamentalismi, al nuovo ruolo egemonico della Chiesa cattolica. Dopo la crisi delle ideologie. La secolarizzazione ha al suo interno anche il post-secolare: esigenze di senso esistenziale, appartenenza, identità e tutela psicologica di massa. Giusto quindi capire, dialogare e riassumere nel registro civile anche ispirazioni valoriali religiose. Un filtro laico questo teorizzato dall’ultimo Habermas. Che però ha da essere filtro vero, non colabrodo. Sicché il tema di una laicità forte, e in grado di fare da filtro razional-democratico esiste, nella «Comunicazione universale libera da dominio», per dirla sempre con Habermas. Perciò ci sono cose indisponibili e invalicabili, in senso laico. Il pluralismo di tutte le fedi religiose e senza privilegi. La libertà degli stili di vita. Le unioni civili. Il diritto a scegliere la migliore tecnica fecondativa. La facoltatività dell’insegnamento religioso, senza superiorità curricolari del cattolicesimo a scuola. Infine la difesa da ingerenze clericali, come quella che ha colpito la Bonino. Dialogo? Sì, ma con regole e valori laici. Forti. Anche per salvare la pluralità del «religioso». Obama? Fa compromessi, ma la sua è una religione civile. Laicissima.

il Fatto 19.5.10
Le tegole pugliesi e il momentaccio di D’Alema
di Luca Telese

È vero, l’uomo ci ha abituato a repentini cambiamenti di rotta, infiniti colpi di scena, sorprendenti cadute e spettacolari resurrezioni. Ma, di sicuro, quello che Massimo D’Alema sta passando in questi giorni è davvero “un momentaccio”, un’ennesima prova, un passaggio politico cruciale in cui si intravede un bivio: o un cambio di marcia netto, o il lento logoramento che alla fine erode tutte le leadership forti della politica italiana fino a consumarle. Lo scenario è noto: uomini a lui vicini che cadono nelle maglie delle inchieste, contese polemiche senza rete, offensive interne che mettono in discussione la sua egemonia dentro il Partito democratico, sentenze di condanna comminate senza appello da editori di riferimento della sinistra riformista un tempo vicini. L’ultima tegola, però, ha un nome e un cognome: quella di Flavio Fasano, ex sindaco di Gallipoli, ex assessore provinciale ai Lavori pubblici, da sempre considerato uomo-ombra del Líder Maximo nel tacco d’Italia. L’arresto di Fasano. Due giorni fa, alla porta di Fasano bussano i carabinieri. Per lui scatta l'arresto (assieme ad altri quattro), con un repertorio di accuse che vanno dal concorso in “turbata libertà degli incanti e violazione del segreto d'ufficio”, al “falso per induzione in errore determinato dall'altrui inganno”, dalla “corruzione per atti contrari ai doveri d'ufficio” all’“abuso d'ufficio”. Nella giornata di ieri lo stillicidio di intercettazioni che rimbalzavano sui giornali online era impressionante. Fasano si ritrovava impelagato in intercettazioni come questa, sugli appalti della cartellonistica: “Allora – diceva l'ex sindaco – io qua ti sto dando un quadro economico... di rimozione di 7000 cartelli. Il 75% con un introito medio di 200 euro, un introito di 874.000 euro dalla rimozione. Alla Provincia va a trovare il 5%, appena 45.000 euro”. E ancora: “Io ho detto, a Gino (Siciliano) fai il capogruppo!Midaiil3%,chenoisiamo...”.Certo, i frammenti possono essere interpretati; le accuse devono essere provate, il quadro accusatorio è complesso, ma quello che emerge è perlomeno una incredibile disinvoltura, un tono medio che lascia di stucco, una lingua brutale, un fenomeno che attraversa una intera classe dirigente legata all'ex premier e al Pd. Ieri su Il Giornale, Gian Marco Chiocci riassumeva così un vero e proprio bollettino di guerra: “Dopo le dimissioni dell'indagato segretario organizzativo del Pd, Michele Mazzarano, suo fedelissimo nel Salento (in rapporti con l'imprenditore Tarantini, quello della D'Addario a Palazzo Grazioli); dopo il coinvolgimento nelle inchieste baresi del suo amico-factotum Roberto De Angelis (quello degli incontri fra D'Alema e Tarantini); dopo l'iscrizione sul registro degli indagati dell'imprenditore Enrico Intini, suo intimo amico (nel medesimo filone sesso-sanitario); dopo tutte queste faccende disgraziate, insomma, un altro pesce pregiato del branco dalemiano finisce nella rete giudiziaria”. I dalemiani non esistono. Certo, ha buon gioco D’Alema a ricordare che “i dalemiani non esistono”, e che molti hanno usufruito con molta generosità di questa qualifica. Ed è sicuramente brillante la battuta coniata dalla sua portavoce, Daniela Reggiani, per spiegare che le appartenenze dentro il Pd in questi anni si sono confuse e talvolta ribaltate: “Fatemi capire. Quando Fasano votava la mozione Franceschini, all’ultimo congresso, i giornali scrivevano: ‘È uno schiaffo a D’Alema’. Quando Fasano faceva sapere che votava per Nichi Vendola, commentavano: ‘È uno schiaffo a D’Alema’. È possibile che ora che lo arrestano – ironizza con tono amaro la Reggiani – i giornali scrivano: ‘È uno schiaffo a D’Alema?’”. I “pugliologi” ricordano anche che i rapporti fra il lìder maximo e il dirigente pugliese del Pd (dopo i fasti dei tempi in cui D’Alema lo aveva addirittura sposato) si erano già raffreddati nel 2004, quando Fasano sperava in una candidatura che non arrivò. Ma allo stesso tempo colpisce che il minimo comune fra tutte le storie che abbiamo ricordato sia quello della “Questione morale”.
Il duello sulle signorine. Già nel duello televisivo all’arma bianca con Alessandro Sallusti, a ridosso di uno spot, il condirettore de Il giornale tirò fuori l’argomento tabù. D’Alema: “Adesso le manderanno qualche signorina...”. E Sallusti: “Veramente le signorine in Puglia hanno frequentato i dalemiani!”. Per non parlare delle frasi senza appello di De Benedetti. “Stimo moltissimo Bersani: è stato un eccellente ministro e di lui come persona e uomo di governo posso soltanto dir bene. Ma come leader? È totalmente inadeguato. Lui e D'Alema – dice l’ingegnere in un libro intervista che esce questa settimana ma che è stato già anticipato – stanno ammazzando il Pd”. E ieri a Londra in una lezione alla London Schol of Economics è andato anche oltre: “D’Alema? Un problema umano?”. Si, è vero, è un momentaccio: ma a Ballarò D’Alema ha perso le staffe perché non aveva elaborato una riflessione compiuta sulle vicende pugliesi, e – forse – persino sulla storia della sua casa. Se vuole tornare a “volare alto”, dovrà dirci qualcosa di netto e chiaro su quello che succede “in basso”, sull’abisso in cui sono precipitati uomini che lui conosce come le proprie tasche. O che almeno
credeva di conoscere...

Corriere della Sera 19.5.10
De Benedetti e il caso «berluschini»
«D’Alema? È un problema umano
di Paolo Conti

il Riformista 19.5.10
D’Alema, la fede e il no ai matrimoni gay
Laicità inclusiva. L’ex premier sul dialogo tra Chiesa, politica e scienza. Legge sul fine vita? «Non ce n’è bisogno»
di Jacopo Matano
qui
http://www.scribd.com/documents/31608102/il-Riformista-19-5-10-p10

il Fatto 19.5.10
Povera scuola
Il governo studia il blocco degli scatti di anzianità ma i docenti italiani sono già i meno pagati d’Europa
di Caterina Perniconi

Da anni si parla del taglio allo stipendio dei parlamentari, ma per ora di questa riforma non c’è traccia. Chi vede invece di anno in anno svalutarsi lo stipendio sono gli insegnanti, messi nuovamente nel mirino del ministro dell’Economia. Infatti nella manovra di quest’anno è previsto un prelievo dalle tasche degli statali, compresi i lavoratori della scuola, con il congelamento degli scatti d’anzianità.
I soldi raccolti da questo tipo di operazione sono molti solo grazie alla quantità di docenti su cui si abbatte il taglio, più di un milione. Perché gli scatti sono irrisori, vanno dai 30 euro ai 100 euro lordi ognuno, e si verificano mediamente ogni 4 anni. Un’insegnante di scuola media romana, Rossella Ciardullo, ci ha mostrato la sua busta paga, dopo 35 anni di carriera, al massimo degli scatti d’anzianità e “gonfiata” dagli straordinari: 1.924 euro. Un laureato e specializzato SISS, che oggi si appresta a fare il docente, non può sperare nella sua vita di guadagnare più di 1500 euro. A fronte, peraltro, di un maggior carico di lavoro dovuto alla riforma del maestro unico, e al taglio degli insegnanti precari. Ovviamente l’Europa sta a un altro livello: un maestro francese guadagna il 33% di stipendio in più, un professore di scuola media spagnolo circa il 25% in più e i tedeschi dall’80% al 100% in più.
PRIMARIA
“Io guadagno 1.667 euro al mese dopo 33 anni di lavoro –raccontaFranca Campana, insegnante di scuola primaria – andrò in pensione con meno di 1.300 euro e lasciando una scuola in cui manca tutto. Pensate che i genitori si fanno carico anche della carta igienica. E prima della ripresa delle lezioni vengono persino a pitturare le classi”. Gli istituti, che non sono mai stati ricchi, risentono dei tagli della Finanziaria 2008, e da due anni non ricevono più i fondi di gestione ordinaria per coprire le spese didattiche. Sulle famiglie gravano quindi oneri statali e contributi volontari, anche per le attività integrative pomeridiane. Inoltre è stato ridotto del 78% il fondo per le supplenze brevi, ragione per cui ibambini a cui manca un’insegnante vengono spesso divisi in gruppi e accorpati ad altre classi, magari di età e con programmi di studio diversi. Quindi i precari, oltre 140 mila, restano a casa. Secondo i Cobas il prossimo anno scolastico spariranno 26 mila posti di lavoro tra i docenti e circa 15 mila tra gli ATA. Eppure il problema più grande che stanno portando i tagli, facendo insorgere migliaia di genitori in tutt’Italia, è la riduzione del tempo pieno. “Le classi consolidate che non si riformeranno quest’anno sono 800 – spiega Piero Castello dell’esecutivo provinciale di Roma dei Cobas – senza contare le oltre 2000 nuovechenonnasceranno.Il tempo pieno è stato una conquista degli operai e oggi è diventato il modello pedagogico più ricco ed elaborato”. Per non parlare dell’affollamento delle classi con maestro unico e senza compresenza, metodo efficace per recuperare gli alunni in difficoltà, che spesso superano i 25 bambini, anche disabili, contro la legge che ne permetterebbe al massimo 20.
SECONDARIA
Non se la passano meglio i docenti delle scuole secondarie. “Quest’anno i miei ragazzi hanno fatto uno scambio culturale con Copenaghen – racconta Graziella Graziani, professoressa di lettere al liceo scientifico Morgagni di Roma – appena hanno messo piede in quella scuola mi hanno chiesto: ‘Professore’, ma che stiamo alla privata?’. E io ho dovuto spiegargli che era semplicemente una scuola pubblica funzionante, con i computer per chi non ne possiede e attrezzature moderne”. Secondo la Graziani “quelle che arrivano dal ministero sono indicazioni contraddittorie. Ci chiedono didattica più qualificata e tagliano insegnanti, supplenti e ore. E come possiamo fare allora a lavorare sui singoli e finire i programmi?”. Il problema delle scuole superiori è anche quello dei corsi di recupero. I fondi per farli non ci sono più e le famiglie sono costrette a pagare le ripetizioni a casa. SICUREZZA
Le province toscane sono mobilitate per protestare contro i limiti del patto di stabilità a cui sono sottoposte le amministrazioni locali, che impediscono l'impegno delle risorse per l’edilizia scolastica. “Il fatto che tutte le Province si mobilitino all'unisono – ha spiegato Andrea Pieroni, presidente di Upi Toscana – mostra quanto grave sia la situazione e come venga percepita allo stesso modo ovunque. La nostra protesta non ha colore politico e rappresenta solo l’ultimo sforzo di chi ha a cuore le nuove generazioni e la loro sicurezza. Una nazione con le scuole pericolanti è una nazione pericolante”.

il Fatto 19.5.10
La riforma uccide la ricerca. Gelmini: “Gli studenti sono con me”

È più utile per l’Italia comprare aerei da combattimento per 17 miliardi di euro o investire nell’università e nella ricerca?”. La provocazione arriva per bocca del governatore della Regione Puglia, Nichi Vendola, ma rispecchia l’interrogativo che si pongono in molti all’interno degli Atenei: a che punto delle priorità di questo governo arriva la cultura? Evidentemente è molto in basso nella lista. Di anno in anno i finanziamenti calano, non ci sono posti di lavoro, né risorse per fare ricerca, e i cervelli continuano a fuggire all’estero. La nuova riforma dell’Università procede in Parlamento e non è certo ciò che gli atenei si aspettavano. Non scontenta solo studenti e ricercatori (i primi hanno occupato ieri la maggior parte dei rettorati in tutt’Italia, da Milano, a Trieste, da Roma a Palermo, i secondi protestano oggi alle 10 davanti al Senato a Roma dove si discute la nuova legge) ma anche docenti e rettori.
Luigi Frati, rettore della Sapienza tradizionalmente vicino alla maggioranza, ha dichiarato che il ddl Gelmini presenta “illogicità manifeste” che vanno cambiate. “Durante la discussione al Senato – ha detto Frati – sono state corrette alcune questioni. Ad esempio erano sorti dei dubbi sulla composizione del Consiglio di amministrazione che ora, con le modifiche, avrà una minoranza esterna”. Poi il problema dei ricercatori: “Mentre si progetta un nuovo sistema di reclutamento dei ricercatori, con contratti a termine che precedono la possibile assunzione come professori associati – ha spiegato Frati – non si sa se ci saranno le risorse perché poi ci siano effettivamente i posti. E con quali soldi? E che sarà degli altri 20 mila ricercatori che ci sono già nell’università? C’è un problema tecnico evidente”. Ma il ministro è convinto del suo operato: “Il ddl sostiene la Gelmini riforma completamente il sistema universitario italiano; elimina sprechi e privilegi, rivede la governance degli atenei, punta sul merito, apre le porte ai giovani. La stragrande maggioranza degli studenti, come dimostrano le recenti elezioni universitarie, ha voglia di cambiare e non ha nessuna intenzione di seguire chi cerca di strumentalizzarli”. Secondo gli studenti la titolare del dicastero dell’Istruzione “dà i numeri. Citare a suo favore le elezioni studentesche, in cui ha votato una percentuale ridicola degli studenti, significa mentire spudoratamente. E’ un patetico tentativo di nascondere la contrarietà delle università al suo ddl”. La Sapienza di Roma, infatti, ha proclamato ieri, durante l’assemblea di ateneo, “lo stato di agitazione generale dell’intera comunità universitaria per il prossimo anno accademico”.
E le proteste più forti arrivano da Napoli, da Bari e da Palermo. Un Mezzogiorno che ha bisogno di ripartire dalla cultura e dall’innovazione. “Il disegno di legge sulla riforma dell’università è una minaccia per il futuro degli atenei e quindi per lo sviluppo del Paese” spiegano i ricercatori della Seconda università di Napoli, riuniti in un presidio simbolico di protesta. “Ci siamo rallegrati – spiega il rappresentante dei 510 ricercatori della Sun in senato accademico, Vincenzo Paolo Senese – quando è stato annunciato un provvedimento che garantiva il merito. Purtroppo di questo criterio non vi è traccia nel disegno di legge, che invece mira a ridurre il personale, abbassare le retribuzioni, bloccare la possibilità di progressione delle carriere e incentivare quei contratti a tempo determinato che raramente vengono rinnovati”. Ciò a cui vanno incontro infatti i futuri studenti che si affacceranno alla carriera universitaria sono tre anni di contratto a termine come ricercatore, rinnovabili di altri tre, e poi un fantomatico concorso che dovrebbe farli diventare associati. Ma come chiede il rettore Frati, con quali soldi? Nel frattempo i 20 mila ricercatori già presenti negli atenei
vengono schiacciati da questo meccanismo. Eppure la soluzione esiste, non è un’impresa impossibile. “Abbiamo elaborato una proposta a costo zero per far diventare oggi professori i ricercatori che insegnano da anni degli atenei – ha spiegato Marco Merafina, a capo del Coordinamento nazionale dei ricercatori universitari – il problema si può risolvere senza spendere un euro”. Ma per ora nessuno li ascolta.
“Mentre in Parlamento si discute, il malato muore – dichiara Mimmo Pantaleo, segretario generale della Flc-Cgil – tanti atenei nei prossimi mesi rischiano il collasso finanziario, altri sono dovuti ricorrere all’esercizio provvisorio. Il ddl mina l’autonomia dell’università, la sottopone, nei fatti, al controllo del ministero dell’Economia, nel meccanismo di governance abolisce la partecipazione democratica, compromette il diritto allo studio istituendo un fondo per il merito privo di risorse. Insomma tutto viene fatto per piegare l’università a una logica aziendalistica con l’unico vero obiettivo di recuperare risorse”. (c. pe.)

Corriere della Sera 19.5.10
Intercettazioni, spunta la norma pro Vaticano
La cheisa va avvisata se il pm ascolta un religioso
di Dino Martirano

Corriere della Sera 19.5.10
Pannella e gli amori
«Ne ho avuti 400»

Corriere della Sera 19.5.10
Juliette Binoche in lacrime per il dramma di Panahi
Kiarostami, mobilitazione generale sull’Iran
di Giovanna Grassi

il Riformista 19.5.10
La vittoria di Bonanni nel Congresso della Cgil
di Giorgio Cremaschi
qui
http://www.scribd.com/documents/31608108/il-Riformista-19-5-10-p6

martedì 18 maggio 2010

l’Unità 18.5.10
Il regno dei barbari
L’era moderna in Italia è finita, dice Scalfari Ma la vera domanda è un altra: sono gli invasori incolti ad aver vinto o è la sinistra ad aver perso?
di
Nicola Tranfaglia

Eugenio Scalfari, ospite in una trasmissione televisiva per il suo ultimo libro, ha detto che in Italia l’era moderna è finita e che siamo in un’età contemporanea abitata e dominata dai barbari. Constatazione condivisibile ma fino a un certo punto. Chi ha vissuto con strumenti storici la crisi del vecchio sistema politico del ’92-94 e l’ascesa di Berlusconi non può dimenticare che sono stati proprio molti “moderni”, di cui parla Scalfari, a favorire l’arrivo dei barbari con i loro gravi errori a sinistra come, altrettanto, a destra. E ancora, mentre i barbari ormai impazzano, assistiamo ai soliti scontri tra moderni che assomigliano ai barbari e ripetono all’infinito le vecchie lotte di potere, sempre le stesse.
Affronta la contraddizione di questo periodo con armi più leggere, ma per certi versi più efficaci, un giornalista colto come Piero Dorfles, immaginando di essere un dinosauro di fronte ai barbari di oggi e scrivendo un saggio assai godibile che si intitola Il ritorno del dinosauro. Una difesa della cultura (Garzanti, pp.205, 18 euro) e che mette in luce l’atteggiamento molto negativo delle classi dirigenti, soprattutto di governo, sull’istruzione, sull’università e sulla ricerca, quindi sulla cultura degli italiani.
Da questo punto di vista, vale la pena parlare di un documento straordinario come il Carteggio Pannunzio-Salvemini 1949-1957 (pp 190) edito dall’Archivio Storico della Camera dei Deputati, che rievoca l’incontro felice che si realizza in un periodo difficile, come quello del dopoguerra caratterizzato da un’aspra guerra fredda in cui è immersa l’Italia, tra lo storico pugliese Salvemini, appena tornato dal lungo esilio americano per sfuggire al fascismo, e il giornalista italiano Mario Pannunzio che aveva ripudiato il passato fascista e credeva a una repubblica democratica come quella costruita dall’Italia con la Costituzione del 1948.
Le diffidenze iniziali, che pure c’erano state nel primo incontro, erano state fugate dalla comune volontà delle due personalità che avevano una fede comune nella democrazia occidentale dopo lo scoppio della guerra fredda e Salvemini decide di collaborare al Mondo, il nuovo settimanale fondato da Pannunzio che rappresenta, come osserva a ragione Massimo Teodori nel suo saggio introduttivo, «la reazione alla crisi della forze di democrazia laica emarginate nel 1948» dal governo De Gasperi che si preparava a sostenere, con la cosiddetta “legge truffa” una battaglia mortale il 18 aprile 1948 con i partiti socialista e comunista costretti dalla guerra fredda a passare all’opposizione anche per la loro vicinanza all’Unione Sovietica.
In quello scontro la Democrazia Cristiana non vinse, perché la legge truffa non scattò, ma riuscì a tenere all’opposizione i partiti della sinistra e si aprì un scontro a lungo termine tra le esigenze costituzionali dell’opposizione e le ragioni della democrazia repubblicana.
Il settimanale di Pannunzio, a sua volta, tenne diritta la barra tra la battaglia per i diritti civili e una democrazia avanzata, continuando peraltro a difendere le ragioni dell’alleanza occidentale contro il blocco orientale e filosovietico.
Il carteggio è ricco di notizie sulle grandi campagne giornalistiche condotte dal settimanale per un’Italia consapevole della sua migliore tradizione democratica e furono alla base di quei convegni del Mondo sulla libera concorrenza, sui monopoli, sullo Stato imprenditore, sulla corruzione, sulle interferenze del Vaticano, che avrebbero preparato, assai meglio di altri dibattiti, la nascita del centro-sinistra e di quella che negli anni sessanta sarebbe stata, pur con le sue inevitabili contraddizioni, la stagione delle riforme possibili nella difficile situazione internazionale.
Furono l’espressione di una mentalità illuministica (su cui sono preziose le Lezioni illuministiche di Enzo Ferrone edite da Laterza (200 pagine, 22 euro) che oggi manca nelle classi dirigenti e che è all’origine, non soltanto del fanatismo e degli scontri feroci all’interno della classe politica, ma anche di un tatticismo esasperato che ha sostituito, grazie al tramonto delle grandi ideologie palingenetiche, il modo di agire dei governi e dei partiti.
Capita spesso anche a chi scrive di aver nostalgia di quella grande stagione di tre secoli fa in cui un gruppo di illuministi in Francia, ma anche in Italia, superò l’epoca feudale e l’ancien regime e aprì la strada alla modernità e alla democrazia. Ma possiamo sperare, oggi, in un ritorno dell’illuminismo?

l’Unità 18.5.10
D’Alema liquida il governo d’emergenza: discussione prematura
Prosegue la polemica con De Benedetti per il libro-intervista «Anche a sinistra disprezzo per la politica, sono dei berluschini»
di Simone Collini

In questa decina di giorni in cui Massimo D’Alema ha girato il Brasile per convegni e conferenze, sono successe le seguenti cose: Dario Franceschini, che l’ha più volte attaccato per la mano tesa all’Udc e per il considerare Fini un «interlocutore», ha aperto al governo d’emergenza (e ieri ha anche avuto col presidente della Camera un lungo colloquio a quattr’occhi); Walter Veltroni, che da segretario Pd non ha mai visto di buon occhio Italianieuropei e Red, ha varato la Fondazione Democratica rispondendo con un evasivo «vedremo cosa succede tra tre anni» a chi gli domandava se intenda candidarsi per la premiership; l’editore del gruppo l’Espresso Carlo De Benedetti ha accusato in un libro il presidente del Copasir, insieme a Bersani, di star «ammazzando» il Pd, nonché di essere peggiore di Berlusconi perché «almeno Silvio ha fatto qualcosa, D’Alema e quelli come lui non hanno fatto niente».
Il presidente di Italianieuropei rientra a Roma e prima ancora di riprendersi dal cambio di fuso orario partecipa alla presentazione dell’ultimo libro del professor Michele Prospero («Il comico della politica», casa editrice Ediesse) e in una mezz’ora di intervento a ognuno dà il suo. Il governo d’emergenza «senza e oltre Berlusconi»? «Al governo c’è Berlusconi e non mi pare intenzionato a sgombrare il campo», dice D’Alema definendo quella che si è aperta «una discussione abbastanza prematura», anzi, di più, «dibattiti che apriamo tra di noi allo scopo di creare problemi tra di noi, scopo sempre perseguito con successo pieno». Perché se pure il periodo di solidarietà nazionale diede frutti mai visti nella Seconda Repubblica e se pure con i governi tecnici dei primi anni ‘90 «il paese è stato governato» meglio che negli ultimi 16 anni, oggi non c’è nulla di simile in campo: «La situazione del Paese è grave, c’è una crisi morale della classe dirigente, e un grande partito di opposizione deve prendersi le proprie responsabilità, ma non almanaccando soluzioni che non esistono. Ora questi dibattiti non servono a niente».
E allora cosa può fare il centrosinistra per battere il centrodestra? D’Alema parte da quello che non deve fare, ovvero «accettare l’ideologia dell’avversario», fare come chi ha «teorizzato il nuovismo andando incontro ad esiti catastrofici», puntare alla «investitura diretta del capo da parte del popolo cancellando tutte le mediazioni», pensare che basti trovare un leader «come Berlusconi, solo più giovane e con un più bel sorriso». L’attacco più evidente, anche se non ne cita il nome, è a De Benedetti: «In nessun paese del mondo si oserebbe dire di un uomo politico che non ha combinato niente perché ha fatto solo politica. In Francia nessuno lo direbbe di Sarkozy». E allora non solo Berlusconi ha operato in «un campo abbondantemente destrutturato», «arato» da una «borghesia intellettuale» sedicente di sinistra che ha profuso un pari «disprezzo per la politica e un’esaltazione acritica della società civile»: «Ci sono anche nel nostro campo imprenditori che vogliono condizionare la politica, dei Berlusconi di serie B, dei berluschini, visti i risultati». Negativi, nel senso. E non potrebbe essere altrimenti: «Per battere Berlusconi serve una battaglia culturale che muova dalla rivalutazione della politica. Il nuovismo, il populismo, la cultura padronale, se accetti l’ideologia dell’avversario hai perso prima di cominciare».

Repubblica 18.5.10
D´Alema
"In Italia ci sono Berluschini di sinistra"

ROMA - Massimo D´Alema risponde a Carlo De Benedetti. L´Ingegnere aveva parlato dell´ex premier in un libro intervista accusandolo di molti errori, di aver fatto solo politica nella sua vita e di «ammazzare il Pd» con la sua strategia. D´Alema non cita mai espressamente l´editore di Repubblica, ma a lui si riferisce quando parla di un populismo diffuso anche a sinistra: «In nessun paese si potrebbe dire che un politico non ha combinato nulla perché ha fatto solo politica. Nessuno lo direbbe a Sarkozy. Nel nostro campo - aggiunge - tanti imprenditori vogliono fare i Berlusconi di sinistra. Ma sono dei Berlusconi di serie B, dei berluschini. Lui almeno fa le cose in grande».

l’Unità 18.5.10
I migranti che lavorano nel paese respingente
Uno scambio ineguale

L 'Italia sta mutando: e ciò accade nonostante tutti gli ostacoli, palesi eocculti, posti in essere dall'attuale legislazione che rende difficilel'integrazione dei migranti nella società italiana.Secondo l'Istat, tra il 2006 e il 2009 la percentuale di lavoratoristranieri è aumentata del 165% (da 85mila a 225mila nuove unità l'anno) etra il primo e il 4 ̊ trimestre 2009, la percentuale è aumentata del 13%. Aun simile incremento contribuisce anche il fatto che gli stranieri sonodisposti ad accettare qualunque compromesso pur di non perdere il posto dilavoro e con esso il permesso di soggiorno.Ma non è tutto. Secondo i dati di Unioncamere, nel 2009 sono nate 14mila nuove partite Iva con titolare straniero e sono stati 600 mila gli stranieri che hanno ricoperto una carica aziendale (titolare, socio,amministratore).Al 31 dicembre 2009 risultavano iscritte 324.749 partite Iva straniere,con un aumento del 4,5% in più rispetto all'anno precedente e su centoimprese individuali, nel 2009, 77 risultano guidate da extracomunitari. Un ulteriore dato significativo è rappresentato dalla presenza femminile tra le partite Iva straniere, una su cinque è infatti intestata ad una donna. Sono tutti dati che meritano di essere meditati con attenzione. Secondo le stime disponibili (dati del 2007), gli stranieri contribuisconoal PIL nazionale con un contributo pari al 9.1%, garantiscono un gettito fiscale non indifferente e contribuiscono in modo significativo anche alle casse previdenziali dell'INPS, alle quali versano un contributo pari al 4% a fronte di un'erogazione di prestazioni pensionistiche a proprio favore pari all'1%. Quel che si dice uno scambio
ineguale.

il Fatto 18.5.10
In piazza dal papa ma guai a parlare di problemi (veri)
In 150 mila ad abbracciare una Chiesa in crisi di credibilità per gli scandali I numerosi casi di pedofilia e gli scarsi interventi del Vaticano stanno allontanando i fedeli
di Marco Politi

Centocinquantamila in piazza San Pietro per gridare Viva Benedetto XVI! Un Papal-Day al posto di una giornata di iniziativa per le vittime. Ma due terzi degli italiani accusano la Chiesa di insabbiamenti e le vittime si organizzano. Come in America, Irlanda e tante altre parti del mondo sta per nascere anche in Italia un coordinamento tra gli abusati. A Verona, il 25 settembre, si terrà la prima riunione nazionale delle vittime per sensibilizzare l’opinione pubblica e gettare le basi di una rete di collegamento. Il recapito è lacolpa@libero.it e il referente Fiorenzo Bugatti racconta che in pochi giorni “già hanno trovato il coraggio di parlare una dozzina di vittime, che avevano sempre taciuto”.
Promossa dai vertici della Cei, la manifestazione di “affetto e sostegno” a Benedetto XVI ha realizzato un paradossale slittamento. Invece di focalizzare l’attenzione sulle vittime si è scelta la rappresentazione vittimistica di un Papa e di una Chiesa “sotto attacco”. E tra striscioni, palloncini, pullman riempiti di aderenti a Comunione e liberazione, Coldiretti e tante altre sigle, si è rimosso l’imperativo scandito dallo stesso Benedetto XVI: il pentimento non basta, “è necessaria la giustizia”. Ma per fare giustizia bisogna prendere iniziative concrete come è stato fatto altrove. Negli Stati Uniti l’episcopato ha proclamato la tolleranza zero. In Irlanda si sono dimessi vescovi omertosi. In Germania i presuli hanno elaborato “linee guida”. In Austria il cardinale Schönborn ha celebrato nel duomo di Vienna una messa di riparazione per le vittime e ha istituito una commissione di inchiesta, guidata da una personalità indipendente. In Italia la Cei ha promesso “collaborazione” alla magistratura, ma sinora – si attende l’assemblea plenaria del 24 maggio – non ha annunciato pubblicamente misure speciali né ha esortato le diocesi a cercare negli archivi per rintracciare denunce inascoltate. Mentre in altre nazioni sono in azione referenti nazionali e locali, numeri verdi e indirizzi mail per segnaare abusi, l’Italia ecclesiastica sembra dormire il sonno di Biancaneve. Peraltro né l’Osservatore né l’Avvenire hanno mai pubblicato il racconto di una vittima. Eppure dai microfoni di Radio Vaticana il prete anti-pedofilia don Fortunato Di Noto ha informato che dal 2000 al 2010 sono già emersi 80 casi di pedofilia del clero. Altre stime indicano il doppio. Ma ciò che vittime ed esperti sanno perfettamente è che per ogni prete colpevole c’è ben più di un minore abusato. Non a caso il procuratore generale del Sant’Uffizio mons. Scicluna ha mandato dalle colonne di Avvenire un larvato avvertimento ai vescovi d’Italia: “Mi preoccupa una certa cultura del silenzio, che vedo ancora troppo diffusa nella Penisola”. Gli italiani condividono questa diffidenza nei confronti dell’inerzia delle gerarchie. Il 62 per cento della popolazione (sondaggio Demos&Pi-La Repubblica) è convinto che la Chiesa ha “cercato di minimizzare o nascondere i casi di pedofilia”.
D’altronde da anni, su molte questioni, tra ripetute interferenze sul piano legislativo – dai veti sulla regolamentazione delle coppie di fatto all’opposizione al testamento biologico – la gerarchia ecclesiastica si è allontanata dal senso comune degli italiani. Di conseguenza la fiducia nella Chiesa, assestata ancora all’inizio del 2000 su soglie superiori al 60 per cento, crolla ora al 47 per cento.
Lo stesso sondaggio testimonia che, parallelamente, la fiducia nell’azione di Benedetto XVI è calata a minimi storici: 46,6 per cento. C’era stata un’avvisaglia negli anni scorsi. Rispetto al primo biennio di pontificato l’affluenza alle udienze e agli eventi pubblici di papa Ratzinger a Roma era diminuita di un milione di persone. Il sondaggio odierno sancisce un giudizio di delusione per il pontificato e rivela che dal 2007 papa Ratzinger riesce a convincere la metà scarsa dei cattolici (un 53 per cento fino al 2009). Ancora più catastrofica è la disaffezione della gioventù. Nel 2004 il 66 per cento dei giovani (indagine Iard) si proclamava cattolico, adesso solo il 52.
Il paradosso è che – a differenza di altre crisi da lui personalmente provocate nell’ultimo quinquennio – nello scandalo della pedofilia Benedetto XVI ha tracciato una via di assoluto rigore, riconoscendo la centralità dell’attenzione alle vittime, intimando la denuncia dei colpevoli ai tribunali di Stato, affermando che le “peggiori persecuzioni” vengono dall’interno della Chiesa, chiedendo di combattere il peccato nelle file della comunità cristiana.
Invece, trasformata in “giornata dell’orgoglio cattolico” la manifestazione di domenica, con largo concorso di esponenti del centrodestra fra cui Letta, Schifani, Alfano (perché si tratta di farsi perdonare con il bacio dell’anello le vicende imbarazzanti di escort presidenziali e ruberie milionarie della “cricca”, cresciuta all’ombra del governo berlusconiano), ha riservato poca attenzione alla preghiera dei fedeli, guidata dal cardinale Bagnasco: “Ascolta, Signore, il grido di coloro che sono nel dolore. Perché trovino giustizia e conforto”. Il timbro dell’evento è risultato auto-celebrativo. Sintomatico uno degli animatori dell’evento, il leader di “Rinnovamento nello Spirito” Martinez: “La fede conosce anche le cadute del peccato, ma la Chiesa è viva, la Chiesa sta in piedi”. Formalmente l’adunata è stata organizzata dalla Consulta nazionale, dalle aggregazioni laicali cui aderiscono associazioni e movimenti dall’Azione cattolica a Sant’Egidio, dalle Acli ai Focolarini a Cl. Ma fa riflettere un fenomeno. La gerarchia chiama sempre le organizzazioni cattoliche a mobilitarsi, a votare (o astenersi) ai referendum su temi etici, a manifestare contro leggi dello Stato (vedi il famoso Family Day, fatto per sabotare i Dico di Prodi). Mai che in questi anni la Consulta si sia riunita per far sentire ai vertici ecclesiastici che cosa i fedeli cattolici pensano realmente di coppie di fatto, unioni gay, testamento biologico, fecondazione e malattie ereditarie.

Repubblica 18.5.10
La corruzione dimenticata
di Guido Crainz

C´è qualcosa che colpisce più ancora della ampiezza dei fenomeni di corruzione venuti alla luce o della pervasività del «sistema», per dirla con l´onorevole Denis Verdini. Colpisce soprattutto che il «sistema» abbia potuto rimodellarsi negli ultimi quindici anni in un silenzio quasi assoluto.
Per molto tempo la politica e la società italiana avevano rappresentato – in primo luogo a se stesse – i guasti degli anni ottanta e novanta come un´anomalia sostanzialmente conclusa. E, progressivamente, come una vicenda ampiamente esagerata dalla faziosità dei giudici e da una cultura moralistica arcaica. In questo modo alla fine del 2008, di fronte al moltiplicarsi di nuove indagini che coinvolgevano anche il centrosinistra, sembrarono prevalere le reazioni che un titolo sintetizzò: Mani Pulite 2? No, grazie. Soprattutto, continuò una forte sottovalutazione della corruzione presente nel paese. Eppure in quello stesso periodo la Corte dei Conti valutava che la sua entità sfiorasse i 60 miliardi di euro, cifra molto più alta rispetto agli anni di Tangentopoli. Nel 2009, poi, le denunce per corruzione aumentarono del 230% e quelle per concussione del 150%: sono ancora dati della Corte dei Conti, resi pubblici il 17 febbraio di quest´anno. Cioè a 18 anni esatti dall´arresto di Mario Chiesa e dall´avvio di Tangentopoli, e mentre già le cronache e le intercettazioni stavano disegnando un panorama inquietante. Caratterizzato però da tratti nuovi rispetto al passato, anche se ad esso ci ha riportati la mazzetta di un politico milanese nascosta in un pacchetto di sigarette.
C´è dunque da interrogarsi meglio sulla coltre di silenzio che ha velato per anni il rimodellarsi del fenomeno, e anche sulle caratteristiche dei processi in corso. Già nel dicembre del 2008 Roberto Saviano rifletteva su La corruzione inconsapevole che affonda il paese e ne coglieva un tratto di fondo: nessuna delle persone indagate «aveva la percezione dell´errore, tantomeno del crimine (…). Cosa potrà mai cambiare in una prassi quando nessuno ci scorge più nulla di sbagliato o di anomalo»? Ne coglieva al tempo stesso il terreno di coltura: la corruzione si estende «quando la politica si accontenta di razzolare nell´esistente e rinuncia a farsi progetto e guida». In altri termini, come annotava poco dopo Piero Ottone ancora su questo giornale, quando viene a mancare la «religione civile»: che può nutrirsi di ideali di progresso o di conservazione ma è, appunto, concezione alta della politica.
Sono passati poi altri mesi e sono venuti alla luce contorni ancor più laceranti di un fenomeno che si è rimodellato sostanzialmente attorno a due cardini: da un lato la sostituzione del «rubare (soprattutto) per il partito» degli anni di Tangentopoli con il «rubare per sé»; dall´altro una eversione delle regole che non si è radicata solo in pratiche anomale o marginali ma all´interno di quella «pratica dell´emergenza» e di quella «politica del fare» che sono state erette a bussola e a bandiera.
Sul primo versante i dibattiti degli anni novanta sono ormai un ricordo sbiadito. Certo, continua ad apparirci indecente il tentativo di assolvere chi almeno «rubava per il partito» (ignorando che in questo modo la corruzione metteva a rischio lo stato di salute della democrazia) ma lo squallore che le intercettazioni portano oggi a galla non ha forse paragoni con il passato. Esse rivelano in realtà un rovesciamento più generale: il «rubare per sé» è così diffuso perché il «primato del sé» ha sostituito «il primato del partito» in una cultura che si è diffusa ben oltre la vita pubblica. Il degrado attuale della politica ci appare dunque non solo causa – come avvenne negli anni ottanta – ma in qualche modo anche conseguenza del trionfo dell´antipolitica. Una antipolitica che è andata al potere.
A questo stesso nodo rimanda un altro corposo «slittamento» rispetto agli anni di Tangentopoli. Allora ci si illuse – ci si volle illudere – che i guasti fossero annidati solo in un degenere ceto politico e che una virtuosa società civile ne fosse del tutto immune. In taluni interventi di oggi, all´opposto, sembra trasparire la tentazione di considerare il Palazzo come corrispettivo quasi inevitabile di una società civile irrimediabilmente perversa. Obbligato in qualche modo ad assecondare il flusso per non perdere consensi. Appaiono così fastidiose «anime belle» coloro che segnalano le responsabilità specifiche della politica: l´abdicazione a una selezione reale della classe dirigente, l´assenza di adeguate misure correttive, la delegittimazione della magistratura, le scelte relative a esenzioni, prescrizioni e condoni, le leggi ad personam, e così via.
Il secondo aspetto centrale dello scenario che si è delineato sta poi nel suo rapporto con alcuni cardini dell´azione del governo. Com´è noto, nulla di ciò che è stato pubblicato sarebbe venuto alla luce se fossero stati già approvati i vincoli alle intercettazioni voluti dalla maggioranza. E solo lo scandalo ha affossato una legge che avrebbe regalato alla Protezione civile una specialissima immunità. Era il corollario minore ma simbolico di un progetto di presidenzialismo che si accompagna all´indebolimento drastico dei controlli, delle regole e delle garanzie: questa è la reale posta in gioco, e i tempi della partita si stanno accorciando.
Negli anni di Tangentopoli un intellettuale e poeta civilmente impegnato come Giovanni Raboni scriveva: c´è qualcosa che mi impedisce di esultare per la giustizia finalmente all´opera, ed è «un pensiero sordo e odioso come certi dolori: e noi, nel frattempo, dove eravamo?». Forse il centrosinistra nel suo insieme dovrebbe porsi oggi la stessa domanda.

Repubblica 18.5.10
La giustizia
Così Amartya sen ci insegna a pensare una società più equa
di Bernardo Valli

È fondamentale considerare le possibilità effettive degli individui
La ricchezza non dice nulla sul benessere di un paese

Amartya Sen si è seccato, anzi infuriato, quando un cronista del Guardian, pensando di fargli un complimento, lo ha definito "Madre Teresa dell´economia". Il paragone non calza, ha protestato con ragione. Anzitutto perché lui lo giudica, con spirito cavalleresco, irrispettoso nei confronti di Madre Teresa di Calcutta; e poi perché le attività di un economista, per quanto impegnative, non hanno nulla in comune con quelle di una religiosa che si sacrificava per il mondo dei poveri. Inoltre lui, ha aggiunto, ama i buoni vini e la buona tavola, insomma desidera campare nel migliore dei modi. Non nella sofferenza.
È vero, il cronista inglese ha scritto uno sproposito. Ma è altrettanto vero che dalle opere del professor Sen, senz´altro uno dei pensatori del nostro tempo, affiora, a volte esplode, un´umanità insolita, un´attenzione piuttosto rara per le calamità che affliggono gli abitanti della Terra, dalle carestie alla povertà, ed anche per il raggiungimento del benessere, non dall´esclusivo punto di vista economico. Di solito la gente della sua casta si esprime, nel migliore dei casi, con arida erudizione. Ma Amartya Sen non vuole che nei suoi scritti si prenda per caritatevole quel che è razionale. Una razionalità espressa con eleganza e, a tratti, non senza ironia. Il professor Sen è un umanista, qualifica che non si addice a tutti i cultori di scienze economiche. Sono ormai anni che le sue idee di economista-filosofo riscaldano i numeri della glaciale aritmetica attraverso i quali interpretiamo il mondo in cui viviamo.
Quando infuriava la tesi dello scontro di civiltà, tutt´altro che defunta, Sen disse che l´idea secondo la quale le persone possono essere classificate soltanto sulla base della religione o della cultura è una pericolosa fonte di conflitto potenziale. La convinzione implicita di una classificazione unica può incendiare il mondo intero. Questo, secondo Sen, non contrasta soltanto con il fatto che noi esseri umani siamo tutti più o meno uguali, ma anche con l´idea, molto più fondata, che siamo diversamente differenti. Se si considera l´umanità soltanto un insieme di religioni, o di civiltà o di culture, si ignorano le altre identità, legate alla classe sociale, al genere, alla professione, alla lingua, alla scienza, alla morale, alla politica, alle abitudini alimentari, agli interessi sportivi, ai gusti musicali, e ad altre cose ancora.
È stata un´impresa audace, per un economista, ridisegnare la figura dell´homo economicus, vale a dire il concetto utilizzato nella scuola neoclassica della teoria economica per modellare il comportamento umano. Insieme al pakistano Mahbub ul Haq, Amartya Sen ha creato per le Nazioni Unite un nuovo indicatore di sviluppo umano (Idh), basato sul principio che la ricchezza misurata soltanto sul prodotto interno lordo non rappresenta un punto di riferimento soddisfacente. È molto limitato. È un disastro. Gli indici della produzione o del commercio non dicono granché sulla libertà e sul benessere, che dipendono dall´organizzazione della società. Né l´economia di mercato né il funzionamento di una società sono processi che si regolano da soli. Hanno bisogno dell´intervento razionale dell´essere umano. La democrazia è fatta per questo: per discutere del mondo che vogliamo. Nel loro Idh, Amartya Sen e Mahbub ul Haq tengono conto di tanti dati, oltre a quelli economici: ad esempio della speranza di vita alla nascita, del tasso di alfabetismo degli adulti, dell´accesso all´educazione e all´assistenza sanitaria. E tra i criteri di misurazione è compresa la situazione della donna, la cui emancipazione è un elemento centrale per lo sviluppo di una società.
Nell´ultima opera (L´Idea di Giustizia, in uscita da Mondadori) si ritrova raccolto il pensiero disperso nei tanti altri scritti di Amartya Sen. Non a caso è dedicata a John Rawls, l´amico americano morto nel novembre 2002. John Rawls ha raggiunto una fama mondiale quando sull´onda delle agitazioni sociali degli anni Sessanta tentò una sintesi tra libertà e uguaglianza, esprimendo il concetto secondo il quale la democrazia liberale può essere giusta, può raggiungere la giustizia sociale. «La giustizia – diceva Rawls – è la prima virtù delle istituzioni sociali come la verità è quella dei sistemi del pensiero».
Amartya Sen rende omaggio a Rawls, riconosce, sottolinea che il suo pensiero è stato tra i più influenti del Ventesimo secolo, ma lo critica, contestando in larga parte Teoria della Giustizia, il libro di Rawls, apparso nel 1971. Il quale ha influenzato, forse più di qualsiasi altro testo del nostro tempo, la filosofia politica, l´etica, il diritto e le scienze sociali. Il pensiero dominante oggi, influenzato da Rawls, identifica dei dispositivi istituzionali giusti e ritenuti tali per qualsiasi società. Sen non è d´accordo. Invece di precisare quel che è giusto di per sé, cerca dei criteri che consentano di affermare se un´opzione è meno ingiusta di un´altra, stabilisce paragoni tra società, e cerca di determinare se una riforma sociale particolare crea giustizia o ingiustizia, nel contesto in cui viene applicata.
Insomma, per Amartya Sen, invece di concentrarsi sulla natura delle istituzioni, l´analisi della giustizia deve tener conto delle condizioni di vita delle persone.
La condizione di un individuo, in termini di opportunità, è giudicata inferiore a quella di un altro se egli ha meno possibilità reali ("capability" parola chiave nel pensiero di Sen) di realizzare quello cui attribuisce valore, e meno libertà di usare i propri beni per scegliere un modo di vita.
Immaginiamo tre bambini e un flauto. Anna sostiene che il flauto le deve essere dato essendo lei la sola in grado di suonarlo. Bob basa la sua richiesta sul fatto che è povero e non ha altri giocattoli. Carla sul fatto che ha speso mesi per fabbricarlo. Come far giustizia di fronte a queste tre rivendicazioni? I partigiani delle teorie oggi dominanti (utilitarismo, egualitarismo, scuola libertaria) peroreranno ognuno per una soluzione diversa, riferendosi al valore che danno alla ricerca del libero, naturale sviluppo umano, all´eliminazione della povertà o al diritto di usufruire del prodotto del proprio lavoro. Ma Amartya Sen fa notare che non c´è istituzione, né procedura capace di aiutarci a risolvere la controversia in un modo universalmente accettato come giusto. Per questo Sen si discosta dalle teorie sulla giustizia che tendono a definire le regole e i principi di istituzioni giuste in un mondo ideale.
(Egli gira, consapevole, le spalle alla tradizione di Hobbes, Rousseau, Locke e Kant, ripresa dall´amico John Rawls. E si iscrive, come precisa, in un´altra tradizione: quella di Adam Smith, Condorcet, Jeremy Bentham, Mary Wollstonecraft, Marx, o John Stuart Mill).
Il Premio Nobel fu attribuito ad Amartya Sen (nel 1998) per avere introdotto la dimensione etica nella ricerca economica. La motivazione spinge a dare uno sguardo all´esistenza del settantasettenne indiano nato nel Bengala, a Santiniketan, nel campus universitario creato da Rabindranath Tagore. Là suo nonno insegnava il sanscrito e la civiltà indiana, e da quel campus Amartya Sen, figlio di un professore di chimica, è partito per un interminabile periplo che lo ha condotto, prima come studente e poi come professore, a Calcutta, al Trinity College di Cambridge, all´università di Delhi, alla London School of Economics, a Oxford, a Harvard, al Mit, a Stanford, a Berkeley.
Ma non è soltanto durante queste tappe prestigiose che è nata la sua idea di giustizia. Quando aveva dieci anni, nel 1943, il Bengala in cui viveva subì una carestia che fece più di un milione di vittime. E poi ha assistito alle violenze della partition tra l´India e il Pakistan. Ogni sei mesi il professor Sen abbandona i campus universitari occidentali, perché sente il bisogno di ritornare in India, terra che ha ispirato tante sue opere. Ed egli ha un legame particolare con l´Italia. Sua moglie, l´economista Eva Colorni, morta nel 1985, era figlia di Eugenio Colorni, il filosofo antifascista ucciso durante la resistenza, ed era cresciuta nella famiglia di Altiero Spinelli.


Repubblica 18.5.10
Carla Fracci contro Alemanno "Vergogna, mi ha snobbato"
L´assemblea all´Opera boccia la riforma Bondi
di Anna Bandettini

In una assemblea strapiena, partecipata e surriscaldata al Teatro dell´Opera di Roma, dove pareva di essere tornati al Sessantotto, tra urla tenorili e striscioni politici i lavoratori e tutti i sindacati (di destra e di sinistra) chiedono che il decreto Bondi sulla riforma delle fondazioni liriche venga ritirato punto e basta, anche una ferrea, pacata signora come Carla Fracci perde la testa e s´infuria: «Buffone!», «Vergogna!, vergogna», urla con l´indice puntato sul sindaco capitolino Gianni Alemanno, impietrito nella sua poltrona mentre gli oltre mille lavoratori in sala inneggiano «Fracci, Fracci...».
La baraonda, imprevista, fuori programma, si scatena nella prima assemblea pubblica sulla riforma delle fondazioni liriche, un attimo dopo la conclusione, tra fischi e applausi, dell´intervento del sindaco capitolino, che bocciando anch´egli, e a sorpresa, il decreto del suo collega di partito, si propone come «mediatore per fare modifiche, perché non devono essere i lavoratori a pagare il prezzo della riforma», dice Alemanno dal palco. Tornato in platea, l´étoile della danza italiana gli si avvicina ma lui reagisce con un evidente gesto di stizza. A quel punto, rossa in volto, gonfia di rabbia, la Fracci è incontenibile: «Sono due anni che chiedo un appuntamento. Nemmeno una risposta. Vergogna! Buffone!». La trascinano via, ma lei urla: «Lui e Muti non si permettano di dire che l´Opera di Roma è un teatro traballante, qui ho dato dieci anni della mia vita. Vergogna».
Più tardi l´étoile dirà pubblicamente: «Gli interventi violenti non sono nel mio stile ma mi sono sentita offesa. Sono solidale con voi lavoratori, sono un´operaia dell´arte». Alemanno, lasciando la sala, liquiderà la faccenda: «Sì, Carla Fracci mi chiede da tempo un incontro, ora glielo darò, ma lei vuole il rinnovo del contratto che dura ormai da troppi anni e per il Teatro dell´Opera è giusto cercare forze più fresche con tutto il rispetto per lei».
L´antipatico siparietto è stata una parentesi nella unanime bocciatura del decreto Bondi ieri al Teatro dell´Opera, zeppo di delegazioni dei lavoratori delle 14 Fondazioni liriche, di politici e sindaci (sono i presidenti delle Fondazioni) tra cui fa notizia, appunto, Alemanno che si è dichiarato "contro Bondi". «Mi auguro che da questa assemblea vengano fuori controproposte - ha detto - da presentare al governo per cambiare la riforma». «Per noi questo decreto va ritirato e basta», dice Silvano Conti della Slc-Cgil all´unisono con la sala dei lavoratori che ha acclamato come un leader il sindaco di Bari Michele Emiliano quando asserisce: «È tutto da rifare». Lo dicono anche i politici, dall´Italia dei Valori all´Udc. Il senatore Pd Vincenzo Vita lancia l´idea di «una manifestazione in difesa della cultura come quella di piazza del Popolo per la libertà di stampa». Intanto, in Senato prosegue l´ostruzionismo al decreto che il 9 giugno arriva in aula, con scarso margine prima della scadenza, il 28. «Bondi farebbe prima a ritirarlo e a dare disponibilità per un disegno di legge di riforma condiviso», dicono nel Pd. E i sindacati: «Noi siamo pronti a occupare i teatri». Dal clima di ieri, c´è da crederci.
l’Unità 18.5.10
Il regno dei barbari
L’era moderna in Italia è finita, dice Scalfari Ma la vera domanda è un altra: sono gli invasori incolti ad aver vinto o è la sinistra ad aver perso?
Nicola Tranfaglia

Eugenio Scalfari, ospite in una trasmissione televisiva per il suo ultimo libro, ha detto che in Italia l’era moderna è finita e che siamo in un’età contemporanea abitata e dominata dai barbari. Constatazione condivisibile ma fino a un certo punto. Chi ha vissuto con strumenti storici la crisi del vecchio sistema politico del ’92-94 e l’ascesa di Berlusconi non può dimenticare che sono stati proprio molti “moderni”, di cui parla Scalfari, a favorire l’arrivo dei barbari con i loro gravi errori a sinistra come, altrettanto, a destra. E ancora, mentre i barbari ormai impazzano, assistiamo ai soliti scontri tra moderni che assomigliano ai barbari e ripetono all’infinito le vecchie lotte di potere, sempre le stesse.
Affronta la contraddizione di questo periodo con armi più leggere, ma per certi versi più efficaci, un giornalista colto come Piero Dorfles, immaginando di essere un dinosauro di fronte ai barbari di oggi e scrivendo un saggio assai godibile che si intitola Il ritorno del dinosauro. Una difesa della cultura (Garzanti, pp.205, 18 euro) e che mette in luce l’atteggiamento molto negativo delle classi dirigenti, soprattutto di governo, sull’istruzione, sull’università e sulla ricerca, quindi sulla cultura degli italiani.
Da questo punto di vista, vale la pena parlare di un documento straordinario come il Carteggio Pannunzio-Salvemini 1949-1957 (pp 190) edito dall’Archivio Storico della Camera dei Deputati, che rievoca l’incontro felice che si realizza in un periodo difficile, come quello del dopoguerra caratterizzato da un’aspra guerra fredda in cui è immersa l’Italia, tra lo storico pugliese Salvemini, appena tornato dal lungo esilio americano per sfuggire al fascismo, e il giornalista italiano Mario Pannunzio che aveva ripudiato il passato fascista e credeva a una repubblica democratica come quella costruita dall’Italia con la Costituzione del 1948.
Le diffidenze iniziali, che pure c’erano state nel primo incontro, erano state fugate dalla comune volontà delle due personalità che avevano una fede comune nella democrazia occidentale dopo lo scoppio della guerra fredda e Salvemini decide di collaborare al Mondo, il nuovo settimanale fondato da Pannunzio che rappresenta, come osserva a ragione Massimo Teodori nel suo saggio introduttivo, «la reazione alla crisi della forze di democrazia laica emarginate nel 1948» dal governo De Gasperi che si preparava a sostenere, con la cosiddetta “legge truffa” una battaglia mortale il 18 aprile 1948 con i partiti socialista e comunista costretti dalla guerra fredda a passare all’opposizione anche per la loro vicinanza all’Unione Sovietica.
In quello scontro la Democrazia Cristiana non vinse, perché la legge truffa non scattò, ma riuscì a tenere all’opposizione i partiti della sinistra e si aprì un scontro a lungo termine tra le esigenze costituzionali dell’opposizione e le ragioni della democrazia repubblicana.
Il settimanale di Pannunzio, a sua volta, tenne diritta la barra tra la battaglia per i diritti civili e una democrazia avanzata, continuando peraltro a difendere le ragioni dell’alleanza occidentale contro il blocco orientale e filosovietico.
Il carteggio è ricco di notizie sulle grandi campagne giornalistiche condotte dal settimanale per un’Italia consapevole della sua migliore tradizione democratica e furono alla base di quei convegni del Mondo sulla libera concorrenza, sui monopoli, sullo Stato imprenditore, sulla corruzione, sulle interferenze del Vaticano, che avrebbero preparato, assai meglio di altri dibattiti, la nascita del centro-sinistra e di quella che negli anni sessanta sarebbe stata, pur con le sue inevitabili contraddizioni, la stagione delle riforme possibili nella difficile situazione internazionale.
Furono l’espressione di una mentalità illuministica (su cui sono preziose le Lezioni illuministiche di Enzo Ferrone edite da Laterza (200 pagine, 22 euro) che oggi manca nelle classi dirigenti e che è all’origine, non soltanto del fanatismo e degli scontri feroci all’interno della classe politica, ma anche di un tatticismo esasperato che ha sostituito, grazie al tramonto delle grandi ideologie palingenetiche, il modo di agire dei governi e dei partiti.
Capita spesso anche a chi scrive di aver nostalgia di quella grande stagione di tre secoli fa in cui un gruppo di illuministi in Francia, ma anche in Italia, superò l’epoca feudale e l’ancien regime e aprì la strada alla modernità e alla democrazia. Ma possiamo sperare, oggi, in un ritorno dell’illuminismo?

l’Unità 18.5.10
D’Alema liquida il governo d’emergenza: discussione prematura
Prosegue la polemica con De Benedetti per il libro-intervista «Anche a sinistra disprezzo per la politica, sono dei berluschini»
di Simone Collini

In questa decina di giorni in cui Massimo D’Alema ha girato il Brasile per convegni e conferenze, sono successe le seguenti cose: Dario Franceschini, che l’ha più volte attaccato per la mano tesa all’Udc e per il considerare Fini un «interlocutore», ha aperto al governo d’emergenza (e ieri ha anche avuto col presidente della Camera un lungo colloquio a quattr’occhi); Walter Veltroni, che da segretario Pd non ha mai visto di buon occhio Italianieuropei e Red, ha varato la Fondazione Democratica rispondendo con un evasivo «vedremo cosa succede tra tre anni» a chi gli domandava se intenda candidarsi per la premiership; l’editore del gruppo l’Espresso Carlo De Benedetti ha accusato in un libro il presidente del Copasir, insieme a Bersani, di star «ammazzando» il Pd, nonché di essere peggiore di Berlusconi perché «almeno Silvio ha fatto qualcosa, D’Alema e quelli come lui non hanno fatto niente».
Il presidente di Italianieuropei rientra a Roma e prima ancora di riprendersi dal cambio di fuso orario partecipa alla presentazione dell’ultimo libro del professor Michele Prospero («Il comico della politica», casa editrice Ediesse) e in una mezz’ora di intervento a ognuno dà il suo. Il governo d’emergenza «senza e oltre Berlusconi»? «Al governo c’è Berlusconi e non mi pare intenzionato a sgombrare il campo», dice D’Alema definendo quella che si è aperta «una discussione abbastanza prematura», anzi, di più, «dibattiti che apriamo tra di noi allo scopo di creare problemi tra di noi, scopo sempre perseguito con successo pieno». Perché se pure il periodo di solidarietà nazionale diede frutti mai visti nella Seconda Repubblica e se pure con i governi tecnici dei primi anni ‘90 «il paese è stato governato» meglio che negli ultimi 16 anni, oggi non c’è nulla di simile in campo: «La situazione del Paese è grave, c’è una crisi morale della classe dirigente, e un grande partito di opposizione deve prendersi le proprie responsabilità, ma non almanaccando soluzioni che non esistono. Ora questi dibattiti non servono a niente».
E allora cosa può fare il centrosinistra per battere il centrodestra? D’Alema parte da quello che non deve fare, ovvero «accettare l’ideologia dell’avversario», fare come chi ha «teorizzato il nuovismo andando incontro ad esiti catastrofici», puntare alla «investitura diretta del capo da parte del popolo cancellando tutte le mediazioni», pensare che basti trovare un leader «come Berlusconi, solo più giovane e con un più bel sorriso». L’attacco più evidente, anche se non ne cita il nome, è a De Benedetti: «In nessun paese del mondo si oserebbe dire di un uomo politico che non ha combinato niente perché ha fatto solo politica. In Francia nessuno lo direbbe di Sarkozy». E allora non solo Berlusconi ha operato in «un campo abbondantemente destrutturato», «arato» da una «borghesia intellettuale» sedicente di sinistra che ha profuso un pari «disprezzo per la politica e un’esaltazione acritica della società civile»: «Ci sono anche nel nostro campo imprenditori che vogliono condizionare la politica, dei Berlusconi di serie B, dei berluschini, visti i risultati». Negativi, nel senso. E non potrebbe essere altrimenti: «Per battere Berlusconi serve una battaglia culturale che muova dalla rivalutazione della politica. Il nuovismo, il populismo, la cultura padronale, se accetti l’ideologia dell’avversario hai perso prima di cominciare».

l’Unità 18.5.10
I migranti che lavorano nel paese respingente
Uno scambio ineguale

L 'Italia sta mutando: e ciò accade nonostante tutti gli ostacoli, palesi eocculti, posti in essere dall'attuale legislazione che rende difficilel'integrazione dei migranti nella società italiana.Secondo l'Istat, tra il 2006 e il 2009 la percentuale di lavoratoristranieri è aumentata del 165% (da 85mila a 225mila nuove unità l'anno) etra il primo e il 4 ̊ trimestre 2009, la percentuale è aumentata del 13%. Aun simile incremento contribuisce anche il fatto che gli stranieri sonodisposti ad accettare qualunque compromesso pur di non perdere il posto dilavoro e con esso il permesso di soggiorno.Ma non è tutto. Secondo i dati di Unioncamere, nel 2009 sono nate 14mila nuove partite Iva con titolare straniero e sono stati 600 mila gli stranieri che hanno ricoperto una carica aziendale (titolare, socio,amministratore).Al 31 dicembre 2009 risultavano iscritte 324.749 partite Iva straniere,con un aumento del 4,5% in più rispetto all'anno precedente e su centoimprese individuali, nel 2009, 77 risultano guidate da extracomunitari. Un ulteriore dato significativo è rappresentato dalla presenza femminile tra le partite Iva straniere, una su cinque è infatti intestata ad una donna. Sono tutti dati che meritano di essere meditati con attenzione. Secondo le stime disponibili (dati del 2007), gli stranieri contribuisconoal PIL nazionale con un contributo pari al 9.1%, garantiscono un gettito fiscale non indifferente e contribuiscono in modo significativo anche alle casse previdenziali dell'INPS, alle quali versano un contributo pari al 4% a fronte di un'erogazione di prestazioni pensionistiche a proprio favore pari all'1%. Quel che si dice uno scambio
ineguale.

il Fatto 18.5.10
In piazza dal papa ma guai a parlare di problemi (veri)
In 150 mila ad abbracciare una Chiesa in crisi di credibilità per gli scandali
I numerosi casi di pedofilia e gli scarsi interventi del Vaticano stanno allontanando i fedeli
di Marco Politi

Centocinquantamila in piazza San Pietro per gridare Viva Benedetto XVI! Un Papal-Day al posto di una giornata di iniziativa per le vittime. Ma due terzi degli italiani accusano la Chiesa di insabbiamenti e le vittime si organizzano. Come in America, Irlanda e tante altre parti del mondo sta per nascere anche in Italia un coordinamento tra gli abusati. A Verona, il 25 settembre, si terrà la prima riunione nazionale delle vittime per sensibilizzare l’opinione pubblica e gettare le basi di una rete di collegamento. Il recapito è lacolpa@libero.it e il referente Fiorenzo Bugatti racconta che in pochi giorni “già hanno trovato il coraggio di parlare una dozzina di vittime, che avevano sempre taciuto”.
Promossa dai vertici della Cei, la manifestazione di “affetto e sostegno” a Benedetto XVI ha realizzato un paradossale slittamento. Invece di focalizzare l’attenzione sulle vittime si è scelta la rappresentazione vittimistica di un Papa e di una Chiesa “sotto attacco”. E tra striscioni, palloncini, pullman riempiti di aderenti a Comunione e liberazione, Coldiretti e tante altre sigle, si è rimosso l’imperativo scandito dallo stesso Benedetto XVI: il pentimento non basta, “è necessaria la giustizia”. Ma per fare giustizia bisogna prendere iniziative concrete come è stato fatto altrove. Negli Stati Uniti l’episcopato ha proclamato la tolleranza zero. In Irlanda si sono dimessi vescovi omertosi. In Germania i presuli hanno elaborato “linee guida”. In Austria il cardinale Schönborn ha celebrato nel duomo di Vienna una messa di riparazione per le vittime e ha istituito una commissione di inchiesta, guidata da una personalità indipendente. In Italia la Cei ha promesso “collaborazione” alla magistratura, ma sinora – si attende l’assemblea plenaria del 24 maggio – non ha annunciato pubblicamente misure speciali né ha esortato le diocesi a cercare negli archivi per rintracciare denunce inascoltate. Mentre in altre nazioni sono in azione referenti nazionali e locali, numeri verdi e indirizzi mail per segnaare abusi, l’Italia ecclesiastica sembra dormire il sonno di Biancaneve. Peraltro né l’Osservatore né l’Avvenire hanno mai pubblicato il racconto di una vittima. Eppure dai microfoni di Radio Vaticana il prete anti-pedofilia don Fortunato Di Noto ha informato che dal 2000 al 2010 sono già emersi 80 casi di pedofilia del clero. Altre stime indicano il doppio. Ma ciò che vittime ed esperti sanno perfettamente è che per ogni prete colpevole c’è ben più di un minore abusato. Non a caso il procuratore generale del Sant’Uffizio mons. Scicluna ha mandato dalle colonne di Avvenire un larvato avvertimento ai vescovi d’Italia: “Mi preoccupa una certa cultura del silenzio, che vedo ancora troppo diffusa nella Penisola”. Gli italiani condividono questa diffidenza nei confronti dell’inerzia delle gerarchie. Il 62 per cento della popolazione (sondaggio Demos&Pi-La Repubblica) è convinto che la Chiesa ha “cercato di minimizzare o nascondere i casi di pedofilia”.
D’altronde da anni, su molte questioni, tra ripetute interferenze sul piano legislativo – dai veti sulla regolamentazione delle coppie di fatto all’opposizione al testamento biologico – la gerarchia ecclesiastica si è allontanata dal senso comune degli italiani. Di conseguenza la fiducia nella Chiesa, assestata ancora all’inizio del 2000 su soglie superiori al 60 per cento, crolla ora al 47 per cento.
Lo stesso sondaggio testimonia che, parallelamente, la fiducia nell’azione di Benedetto XVI è calata a minimi storici: 46,6 per cento. C’era stata un’avvisaglia negli anni scorsi. Rispetto al primo biennio di pontificato l’affluenza alle udienze e agli eventi pubblici di papa Ratzinger a Roma era diminuita di un milione di persone. Il sondaggio odierno sancisce un giudizio di delusione per il pontificato e rivela che dal 2007 papa Ratzinger riesce a convincere la metà scarsa dei cattolici (un 53 per cento fino al 2009). Ancora più catastrofica è la disaffezione della gioventù. Nel 2004 il 66 per cento dei giovani (indagine Iard) si proclamava cattolico, adesso solo il 52.
Il paradosso è che – a differenza di altre crisi da lui personalmente provocate nell’ultimo quinquennio – nello scandalo della pedofilia Benedetto XVI ha tracciato una via di assoluto rigore, riconoscendo la centralità dell’attenzione alle vittime, intimando la denuncia dei colpevoli ai tribunali di Stato, affermando che le “peggiori persecuzioni” vengono dall’interno della Chiesa, chiedendo di combattere il peccato nelle file della comunità cristiana.
Invece, trasformata in “giornata dell’orgoglio cattolico” la manifestazione di domenica, con largo concorso di esponenti del centrodestra fra cui Letta, Schifani, Alfano (perché si tratta di farsi perdonare con il bacio dell’anello le vicende imbarazzanti di escort presidenziali e ruberie milionarie della “cricca”, cresciuta all’ombra del governo berlusconiano), ha riservato poca attenzione alla preghiera dei fedeli, guidata dal cardinale Bagnasco: “Ascolta, Signore, il grido di coloro che sono nel dolore. Perché trovino giustizia e conforto”. Il timbro dell’evento è risultato auto-celebrativo. Sintomatico uno degli animatori dell’evento, il leader di “Rinnovamento nello Spirito” Martinez: “La fede conosce anche le cadute del peccato, ma la Chiesa è viva, la Chiesa sta in piedi”. Formalmente l’adunata è stata organizzata dalla Consulta nazionale, dalle aggregazioni laicali cui aderiscono associazioni e movimenti dall’Azione cattolica a Sant’Egidio, dalle Acli ai Focolarini a Cl. Ma fa riflettere un fenomeno. La gerarchia chiama sempre le organizzazioni cattoliche a mobilitarsi, a votare (o astenersi) ai referendum su temi etici, a manifestare contro leggi dello Stato (vedi il famoso Family Day, fatto per sabotare i Dico di Prodi). Mai che in questi anni la Consulta si sia riunita per far sentire ai vertici ecclesiastici che cosa i fedeli cattolici pensano realmente di coppie di fatto, unioni gay, testamento biologico, fecondazione e malattie ereditarie.

il Fatto 18.5.10
Israele nega l’ingresso
Chomsky: respinto
Funzionari israeliani hanno negato l’ingresso in Cisgiordania, domenica pomeriggio, al filosofo e linguista americano Noam Chomsky, noto anche per le sue posizioni critiche nei confronti della politica israeliana. Chomsky ha definito “regime stalinista” il governo israeliano che gli ha impedito di tenere una lezione all’Università palestinese di Bir Zit, nei pressi di Ramallah.

lunedì 17 maggio 2010

Repubblica 17.5.10
Il salone dei record
Pubblico e vendite tutti in fila per i libri-star
A Torino crescono le presenze: "Battuta la crisi"

TORINO - Il Salone internazionale del Libro, capitolo 2010, si appresta a chiudere i battenti nel segno dei record e volge la prua verso il 2011, quando si celebrerà la memoria e il futuro dell´Italia, in occasione dei 150 anni dell´unità nazionale. I numeri, certo, li danno gli organizzatori, e di questi bisogna necessariamente fidarsi.
Si traducono in un aumento di pubblico, a ogni modo, che rispetto all´edizione dell´anno scorso dovrebbe toccare il 20 0 30 per cento in più. Significa oltre 310-320 mila biglietti staccati, che dovrebbero emulare o superare la Librolandia finora ritenuta migliore, quella del 2006. Basti dire che, nella sola giornata di sabato, si sarebbe registrata una crescita di presenze del 30 per cento. Sono andate bene pure le vendite di libri, gli editori sono contenti e si parla di un 20 o 30 per cento in più in confronto a quelle del 2009. Felici poi i promotori dell´International Book Forum, dove si scambiano diritti editoriali e audiovisivi: 3 mila e rotti contatti quotidiani e 7500 incontri, ossia 1500 in più se si paragonano con le cifre dell´anno scorso.
Le polemiche non sono mancate, soprattutto quelle innescate dall´appello degli editori italiani contro il disegno di legge sulle intercettazioni. Pochissimi esponenti del mondo politico al Lingotto. Era atteso il figlio di Bossi, non è venuto. Si vociferava dei ministri Bondi e Tremonti, ma non sono visti. Soltanto un ministro, pertanto, cioè Sacconi, e il sottosegretario Giro. Era anche il primo salone ai tempi della Lega, che governa il Piemonte. Tuttavia lo sbarco padano è stato contenuto, quasi in punta di piedi. Si vedrà che cosa accadrà nel fatidico 2011. Il paese ospite d´onore sarà proprio l´Italia, che dovrebbe avere un padiglione nuovo tutto per sé, l´"oval". Sarà di scena anche la Russia e probabilmente la Slovacchia. Un ostacolo potrebbe venire però dalla nuova giunta regionale piemontese a guida leghista, che ha già annunciato di voler procedere a drastici tagli nei finanziamenti alla cultura: si parla di 34 milioni di euro in meno. Non si sa finora se riguarderanno la Fiera del Libro proprio nella sua edizione dedicata all´Unità d´Italia.
Resta il fatto che Rolando Picchioni, timoniere della fiera insieme a Ernesto Ferrero, non nasconde la sua felicità: «Siamo il solo Salone del Libro in controtendenza: gli altri, in Europa, a cominciare da quello di Parigi, patiscono la crisi, mentre per noi crescono presenze e vendite».
(m.n.)

l’Unità 17.5.10
La denuncia di Hrw: immagini satellitari e video documentano distruzioni massicce senza motivi militari: «Ora i responsabili paghino»
Gaza, la vendetta israeliana: ridotte in macerie le case palestinesi
di Umberto De Giovannangeli

l’Unità 17.5.10
Nella Striscia ormai c’è uno Stato dell’apartheid»
di U. D. G.
qui
http://www.scribd.com/documents/31468841/l-Unita-17-5-10-pp-22-23

Repubblica 17.5.10
Azione civica contro il bavaglio
di Stefano Rodotà

Nessun sistema democratico, per malandato che sia, può fare a meno di una opinione pubblica informata, consapevole, reattiva. Altrimenti si scivola verso la democrazia d´investitura, si trasforma il popolo in "carne da sondaggio".
E torna d´attualità la critica di Jean-Jacques Rousseau: «Il popolo inglese crede d´essere libero, s´inganna, non lo è che durante l´elezione dei membri del Parlamento; non appena questi sono stati eletti, esso diventa schiavo, non è più nulla». Dobbiamo malinconicamente constatare che nell´Italia di oggi anche quella libertà elettorale è stata sequestrata, visto che la "legge porcata" ha trasferito alle oligarchie dei partiti quella scelta dei parlamentari che dovrebbe essere nelle mani degli elettori?
A temperare questo pessimismo sono intervenuti nelle ultime settimane alcuni fatti che mostrano un risveglio dell´opinione pubblica e i nuovi modi in cui essa si organizza e si manifesta. Decine di migliaia di persone sostengono un appello contro "la legge bavaglio" su intercettazioni e divieto di pubblicazione di atti giudiziari. In poco più di tre settimane si è vicini al traguardo del mezzo milione di firme necessarie per il referendum sull´acqua come bene comune. Le dimissioni del ministro Scajola non sarebbero venute senza una reazione popolare, così forte che qualche giornale ha dichiarato d´aver abbandonato la difesa del ministro tante erano state le proteste dei lettori. Ed è significativo che un uomo con orecchio assai sensibile ai rumori provenienti dalla società, Silvio Berlusconi, abbia mutato strategia e dichiari che non vi sarà «nessuna indulgenza e impunità per chi ha sbagliato», senza trincerarsi dietro l´abituale argomento dell´aggressione giudiziaria e del complotto mediatico. Questi fatti suggeriscono quattro considerazioni di carattere generale.
1) Improvvisamente è stata riscoperta la responsabilità politica. Era scomparsa da decenni, con l´argomento che i politici dovevano farsi da parte solo quando sul loro conto vi fosse stato un accertamento giudiziario, possibilmente definitivo. Questo era diventato lo scudo protettivo di schiere di politici. Proprio il caso Scajola, invece, ha messo in evidenza che esistono comportamenti che, pur non avendo rilevanza penale, sono incompatibili con funzioni pubbliche. Conclusione ovvia in altri paesi, ma che in Italia aveva guadagnato l´accusa di moralismo a chi la ricordava e aveva spinto ad arrampicarsi sugli specchi con distinzioni tra reato e peccato. Ora le cose sembrano tornate ad essere chiare. La responsabilità politica è diversa da quella penale, e dovrebbe essere interesse proprio del ceto politico farla valere, per riguadagnare credito presso l´opinione pubblica e non lasciare alla magistratura il ruolo di giudice unico della legittimità della politica.
2) Per evitare, però, che il caso Scajola rimanga una eccezione, è indispensabile salvaguardare le condizioni che hanno reso possibile il ritorno della responsabilità politica: la trasparenza, l´informazione libera. Non ripeteremo mai abbastanza che nulla si sarebbe saputo delle fortune immobiliari di Scajola se fosse stata in vigore la legge che la maggioranza vuol fare approvare. Di questo è divenuta consapevole una opinione pubblica larga, che aderisce ad appelli, si organizza in rete, si manifesta nelle posizioni di magistrati, giornalisti, editori. E questa reazione mette in luce la contraddizione in cui s´impigliano maggioranza e Berlusconi: si parla di una legge anticorruzione e si proclama la tolleranza zero contro i corrotti, ma poi si fa esattamente l´opposto, rendendo impossibile la conoscenza di tutto quel che riguarda le inchieste giudiziarie per un tempo così lungo che sterilizzerebbe ogni anticorpo democratico. A proposito di una vicenda ancora oscura sulla quale ha richiamato l´attenzione il Presidente della Repubblica, l´abbattimento nel 1970 di un aereo civile sopra Ustica, si è calcolato che, con la legge in discussione, sarebbe stato lecito pubblicare le notizie solo nel 2000, trent´anni dopo, rendendo così impossibile anche l´impulso alle indagini venuto dall´opinione pubblica. Bisogna aggiungere che, discutendo della legge, si devono considerare due questioni diverse, ma collegate: i limiti al potere d´indagine della magistratura e il divieto radicale di informare i cittadini. Infatti, anche se alla magistratura fossero restituite tutte o quasi le possibilità di ricorrere alle intercettazioni, questo sarebbe un successo solo parziale, e per certi versi ingannevole, se poi l´opinione pubblica rimanesse condannata all´ignoranza.
3) Lo straordinario successo della raccolta delle firme per il referendum sull´acqua dovrebbe insegnare molto sul modo in cui si può costruire l´agenda politica. È affidata solo alle prepotenze della maggioranza e alle esitazioni dell´opposizione? Si risolve tutta nello spazio mediatico? O può essere anche il risultato di iniziative dei cittadini? La vicenda referendaria consente di rispondere in modo affermativo a quest´ultima domanda. Fino a ieri dell´acqua si discuteva, se ne occupavano benemeriti parlamentari, ma la politica era sostanzialmente disattenta, ignorava una legge d´iniziativa popolare firmata da quattrocentomila persone e venivano approvate norme senza una vera discussione pubblica. È bastato l´annuncio del referendum perché questo panorama cambiasse, non solo creando una grande mobilitazione, ma anche suscitando discussioni sui rischi del referendum e sulla necessità di seguire piuttosto la via parlamentare. Nell´agenda politica è comparso il tema, ineludibile, dell´acqua. Se senatori e deputati pensano che la via parlamentare sia la migliore, possono percorrerla e hanno tempo fino alla primavera del 2011, epoca in cui si dovrebbe andare a votare sul referendum. Ma sono stati i cittadini a dettare i tempi, e alle loro indicazioni i parlamentari non possono sottrarsi.
4) Grandi temi sono davanti a noi. La conoscenza come bene comune, l´acqua (e non solo) come bene comune. Qui le persone mostrano consapevolezza maggiore del ceto politico. E qui nasce una serie di domande. È necessario trovare forme di collegamento che consentano ad un´opinione pubblica avvertita di dare continuità alle sue iniziative grazie alle opportunità offerte da Internet? Sta nascendo un sistema di comunicazione che, sia pure in forme ancora deboli, può cominciare a riequilibrare la prepotenza di un sistema televisivo che Berlusconi occupa militarmente nei momenti decisivi della vita politica? Le iniziative di questi giorni e il caso di Raiperunanotte, la trasmissione organizzata da Santoro nel silenzio elettorale, non sono esempi su cui ragionare? Non dice nulla lo sbarco di Berlusconi su Facebook, segno evidente che sulle reti sociali comincia a giocarsi una partita politica decisiva? Si può ignorare che il Trattato di Lisbona mette a disposizione dei cittadini europei un potere d´iniziativa collettiva che potrà essere sfruttato in pieno solo predisponendo strumenti adeguati? A queste domande si risponde ragionando, ma soprattutto con iniziative permanenti di azione civica.

Repubblica 17.5.10
Se declina la fede nella Chiesa
E nell´anno orribile del Vaticano la fiducia nel Papa scende ai minimi
di Ilvo Diamanti

Solo per il 47% degli italiani la Chiesa è ancora una istituzione credibile
Divisioni interne e lentezza nelle reazioni: queste le cause del progressivo declino

IERI i fedeli hanno voluto far sentire al Papa la loro solidarietà e il loro sostegno, raccogliendosi, in massa, intorno a lui, a piazza San Pietro. D´altronde, la fiducia nella Chiesa e in Papa Benedetto XVI è scesa sensibilmente, nell´ultimo anno.
Espressa, in entrambi i casi, dal 47% degli italiani, secondo il sondaggio di Demos. Una tendenza accentuata dalla lunga catena di scandali dell´ultimo anno. Prima, le dimissioni del direttore dell´Avvenire, Dino Boffo, in base ad accuse rivelatesi infondate. Poi, gli episodi di abuso sessuale sui minori, che hanno coinvolto esponenti del clero – basso, medio e alto. In diversi paesi. Dagli USA all´Irlanda. Dalla Germania al Belgio. Al Brasile. All´Italia. Avvenimenti del passato, esplosi di recente.
Per questo non stupisce il calo di credibilità dell´ultimo anno: 3 punti percentuali in meno, la Chiesa; 7 il Papa. Un declino, peraltro, che dura da anni. Rispetto al 2005 (quando è stato eletto Ratzinger) la fiducia nella Chiesa è scesa di 14 punti. Mentre negli ultimi due anni il consenso verso Benedetto XVI si è ridotto di 9 punti percentuali. Senza considerare Papa Wojtyla, il cui credito, nel 2003, era superiore di circa 30 punti. Ma Wojtyla costituiva – e costituisce – un caso difficilmente ripetibile. Per le vicende che ha attraversato (la caduta del Muro e del comunismo, l´attentato…). E per la sua personale e straordinaria capacità di "comunicare" se stesso – attraverso i suoi viaggi e la sua sofferenza. Così, se la Chiesa e lo stesso Pontefice costituiscono ancora un riferimento importante, per la società italiana, la loro capacità di attrazione appare indebolita. Per ragioni che vanno oltre gli scandali recenti. I quali, tuttavia, pesano.
Il sondaggio di Demos sottolinea, infatti, come una larga maggioranza di italiani – il 62% - consideri inadeguata la risposta della Chiesa di fronte agli episodi di pedofilia. Volta, fino a ieri, a minimizzare il fenomeno. Questo giudizio risulta prevalente anche tra i cattolici praticanti, anche se è meno diffuso: 44% (mentre il 29% considera le accuse strumentali, finalizzate a screditare la Chiesa). Ma è condiviso da oltre i due terzi dei cattolici che dichiarano una frequenza sacramentale saltuaria. Cioè: la larga maggioranza di essi (e della popolazione). Si tratta di un orientamento politicamente trasversale. Si riduce solamente al centro. Fra gli elettori dell´Udc.
Come interpretare questo largo dissenso verso l´azione della Chiesa intorno a un fenomeno che, da tempo, è oggetto di denunce ripetute? E, soprattutto, perché – proprio oggi - intacca in modo tanto profondo la credibilità della Chiesa?
La prima spiegazione chiama in causa proprio il "tempo". Troppo tempo, infatti, è passato prima di prendere i provvedimenti necessari, in modo deciso, senza indulgenza. Troppo tempo. Per cui oggi, che nel muro di silenzio del passato si è aperto (più di) un varco, le notizie irrompono, tutte insieme. Invadono i media con un effetto devastante. La stessa condanna del Papa, implacabile. Il suo vagare, per il mondo, dolente, a chiedere perdono alle vittime e ai loro familiari. Agiscono da amplificatori. Fino, quasi, a tracciare una scia di vergogna.
Un secondo ordine di motivi riguarda la Chiesa stessa. Questi episodi, infatti, la indeboliscono perché essa è più debole che in passato. Divisa, al suo interno. Attraversata da tensioni e conflitti. Fra le gerarchie vaticane e la Cei. Ma anche tra le diverse componenti del mondo associativo. Tra le diverse "voci" e i diversi media cattolici. Giornali, emittenti, riviste… Papa Benedetto XVI, in occasione del suo recente viaggio a Fatima, è stato, al proposito, esplicito. E durissimo. Quando ha scandito che: «Le sofferenze della Chiesa vengono proprio dall´interno della Chiesa. (…) La più grande persecuzione della Chiesa non viene dai nemici fuori, ma nasce dal peccato nella Chiesa». Un concetto ribadito ieri, a piazza San Pietro. Contraddicendo – come ha sottolineato Sandro Magister (nel documentatissimo sito: www.espressonline.it) - «i giudizi espressi da molti ecclesiastici, secondo i quali la Chiesa soffre primariamente per gli attacchi che le vengono portati dall´esterno».
Ciò suggerisce, esplicitamente, una terza ragione. Collega il declino della fiducia nella Chiesa alla sua presenza "istituzionale" nella società. Interpretata, in particolare, dal clero. È, infatti, da tempo che, soprattutto in Italia, i seminari sono vuoti. La crisi di vocazioni è acuta, irreversibile. Non a caso, nelle parrocchie, la presenza di preti provenienti da paesi del Terzo Mondo è sempre più ampia. Segno evidente della profonda crisi di legittimazione sociale che, da tempo, ha colpito la figura del sacerdote (come ha argomentato il sociologo Marco Marzano). Fare il prete, da noi, non garantisce benefici né riconoscimento di status. Il che rende più difficile "reclutare" – e soprattutto "selezionare" - figure credibili e credute, in grado di farsi ascoltare. Tanto più di fronte a regole di accesso alla missione (o, in termini laici, alla "professione") tanto selettive e dure. Come il celibato. Oggi incomprensibile: per la società e per la stessa comunità dei cattolici. Visto che i due terzi degli italiani e oltre la metà dei cattolici praticanti si dicono d´accordo sulla possibilità, per i preti, di sposarsi. Così i comportamenti devianti, nell´ambito del clero, oltre che più diffusi, sono divenuti intollerabili (e intollerati). Impossibili da nascondere e minimizzare.
Da ciò l´impressione che oggi la Chiesa, come istituzione, si scopra inadeguata rispetto al proprio compito. Che le stesse regole, costruite e imposte, storicamente, per rafforzare il proprio "rapporto con il mondo", oggi la rendano, più vulnerabile. Che, per questi motivi, svolgere la "professione" – oppure, se si preferisce, la "missione" – di prete sia divenuto sempre più difficile – e, al contempo, meno credibile. Se, per citare di nuovo il Papa, le peggiori sofferenze "vengono proprio dall´interno", allora la Chiesa, più che dalla società, deve difendersi da se stessa.

Repubblica 17.5.10
Shoah
"Io come Littell perché i nostri libri sono scandalosi"

"Il testimone inascoltato" di Haenel ha diviso la Francia: ora esce in Italia "Noi giovani abbiamo un altro rapporto con la storia"
"Do voce a Karski che aveva spiegato agli alleati, nel 1943, la portata dell´Olocausto"
"Sostengo che si poteva intervenire prima. Non capisco le accuse che mi ha fatto Lanzmann"

PARIGI. Testimoniare, per i testimoni. «Nei prossimi anni, scompariranno gli ultimi sopravvissuti della Shoah. Cambierà il nostro rapporto con la memoria e sono convinto che il ricorso alla finzione diventerà inevitabile». Yannick Haenel fa parte di quei giovani scrittori che non hanno paura di affrontare la pagina più buia del Novecento con gli occhi del romanziere. Il testimone inascoltato (Guanda, pagg. 163, euro 15) racconta la storia di Jan Karski, militante della resistenza polacca, cattolico fervente, ma soprattutto "messaggero" degli ebrei durante l´occupazione nazista. Karski aveva visto gli sterminatori all´opera. Sapeva. Per due volte, nel 1942, era entrato nel ghetto di Varsavia e in un campo di concentramento. Ma, soprattutto, è stato uno dei primi testimoni diretti dell´Olocausto a poter raccontare la verità agli alleati, incontrando gli emissari dei governi di Londra e Washington e persino Theodore Roosevelt nel 1943. Davanti a Karski, il presidente americano si sofferma a guardare le gambe di una segretaria. E´ un´invenzione letteraria che permette a Haenel di evocare la "colpevole inerzia" degli alleati di fronte alla Shoah. "Lo sterminio degli ebrei – scrive l´autore – non è un crimine contro l´umanità ma un crimine dell´umanità".
Non le sembra eccessivo parlare di responsabilità dell´Occidente?
«Storicamente sappiamo che non c´è stata nessuna reazione rilevante da parte degli occidentali tra la fine del 1942 e l´inizio del 1944, quando Roosevelt lancia l´avvertimento ad Hitler sugli ebrei d´Europa. La Shoah è una responsabilità del nazismo. Ma il tempo di reazione degli occidentali è stato, obiettivamente, molto lungo. Gli storici oggi ammettono che nell´amministrazione statunitense c´erano molti funzionari antisemiti che filtravano o insabbiavano le informazioni su quello che accadeva in Europa. Le cose sono un po´ più complicate di come ce le hanno raccontate. E credo, anche, che usare la parola "vittoria" nel 1945 sia stato in qualche modo indecente».
Perché ha scelto una struttura narrativa che mischia documenti a finzione?
«Non dimenticherò mai la prima volta che ho visto Jan Karski. Era nel film di Claude Lanzmann, Shoah. Le immagini sono del 1977, quando lui ormai vive in America, dove insegna. Davanti alle telecamere, non riesce a parlare. Sono trentacinque anni che non viene interrogato sul suo ruolo di "messaggero" dell´Olocausto. Alla prima domanda, esce dal campo visivo. Quel posto vuoto mi ha profondamente colpito. Volevo riempire il suo silenzio. Ma per farlo ho voluto raccontare di nuovo ciò che Karski aveva detto nella sua biografia, uscita nel 1944, e poi nell´intervista di Shoah. Il libro ha tre parti: parola, scrittura, silenzio. Il lettore che arriva al terzo capitolo sa tutto quello che c´è da sapere su Karski. Io gli faccio una proposta di finzione. Si può accettare o rifiutare».
Lanzmann l´ha criticata duramente, accusandola di plagio e di aver scritto una "falsificazione storica".
«Sono rimasto sorpreso dai suoi attacchi, immaginavo anzi che prendesse il libro come un omaggio al suo lavoro. Sul plagio non credo valga la pena rispondere. Ho fatto delle citazioni, come si fa abitualmente. Più seriamente, credo che Lanzmann, come molti intellettuali della sua generazione, non riesce ad accettare che si sia arrivati a un´altra fase della riflessione sulla Shoah. Parte degli archivi storici sono stati aperti e credo sia doveroso adesso tentare nuovi approcci di analisi. Qualche mese fa, Lanzmann ha anche mostrato nuove immagini della sua intervista a Karski per contraddire il mio libro. In realtà, io ci ho visto confermata la delusione di questo straordinario testimone inascoltato».
Lei fa pronunciare a Karski accuse molto pesanti contro gli alleati, frasi che lui non ha mai detto.
«Negli anni Ottanta, Karski scrisse in una rivista che i governi alleati avevano abbandonato gli ebrei. Ha usato queste parole esatte. Non ho fatto altro che sviluppare questo concetto. Sono entrato nella testa di Karski perché lui è morto nel 2000 e non ho avuto l´opportunità di fargli altre domande. La finzione può essere uno strumento della conoscenza. Come può uno storico parlare del lutto, della disperazione, della debolezza? Il romanziere invece può tentare di farlo».
Roosevelt che sbadiglia davanti al racconto del ghetto di Varsavia. La sua è una provocazione.
«Sull´incontro con Roosevelt ci testimonianze contraddittorie. Anche Karski ha dato versioni diverse. Certamente ho pensato a questa scena come un elettroshock. Volevo fosse un´allegoria dell´abbandono. Credo che Karski abbia vissuto una violenza guardando l´inerzia degli alleati di fronte al suo messaggio».
Prima Jonathan Littell, con Le Benevole, ora lei. La Shoah diventa materia di romanzi, con tutti i rischi che comporta.
«Ho 43 anni, la stessa età di Littell. Molti scrittori della mia generazione hanno un nuovo rapporto con la Storia. Siamo attratti da una memoria che ci appartiene, per ovvie ragioni anagrafiche. Abbiamo un gesto narrativo più libero, disinibito. Io la chiamo finzione "etica", parte dai documenti per andare oltre. C´è una parte di verità che è, per sua natura, irrappresentabile, ed è la parte del romanziere. Gli ultimi testimoni stanno scomparendo, la finzione diventa sempre più inevitabile per tramandare la memoria. Ovviamente ci sono dei rischi. La finzione è come un esplosivo, può anche far saltare tutto».
Perché Karski è rimasto un testimone inascoltato?
«All´epoca, il suo messaggio era irricevibile. Qualcuno che nel 1942 parla di Olocausto non può essere compreso. Il messaggio di Karski creava la vertigine della verità. Eppure sappiamo ormai che l´amministrazione americana era al corrente di quello che stava accadendo. Una delle idee del mio libro, certo discutibile, è che gli Alleati non abbiano voluto soccorrere gli ebrei d´Europa perché, tecnicamente, volevano privilegiare l´alleanza con l´Unione sovietica e la strategia militare. L´aiuto agli ebrei era secondario. Anzi, dal 1943, Karski è diventato persino un testimone scomodo perché in qualche modo disturbava i piani degli alleati. Il nuovo mondo nato nel 1945 è fondato su una menzogna, o su un silenzio che abbiamo il dovere di indagare».

Repubblica 17.5.10
Scalfari: "Più dei barbari temo gli imbarbariti"
"Da ragazzo avevo preso di Nietzsche solo la teoria del Superuomo. Oggi lo vedo come la bomba che mina la modernità"
di Massimo Novelli

«La modernità è un epoca, quella che mette in discussione gli assoluti. E come epoca, è finita». Oggi arrivano i «barbari», che si definiscono così non in modo spregiativo o limitativo, bensì nel senso che gli davano i greci antichi: gente, dunque, che parla una lingua a noi estranea, incomprensibile. Sono «il nuovo che arriva, sono la nuova epoca». Non «amano leggere libri, non amano la parola scritta. Non contestano, come facevamo noi, i valori dei nostri nonni e dei nostri padri per cambiarli: non lo fanno semplicemente perché non vogliono nuovi valori. Vogliono ricominciare da zero, il che è pure importante. Se li faranno da soli, i valori».
I barbari, comunque, sono pur sempre «un fattore vitale», mentre ben altra cosa sono gli «imbarbariti». Oggi ce n´è una molteplicità di «imbarbariti», che imbarbariscono i nostri valori. Per questo «li dobbiamo combattere». Gli «imbarbariti» non sono presenti in Per l´alto mare aperto (Einaudi), l´ultimo libro di Eugenio Scalfari, che è un viaggio, un´esperienza, dalla nascita alla decadenza della modernità, intrapresi tra Cartesio e Montaigne, Spinoza, Kant e Hegel, Diderot e Nietzsche, Ulisse e Don Chisciotte. Il fondatore di Repubblica, tuttavia, fa emergere l´imbarbarimento in virtù di una domanda partita dalla platea affollatissima del Salone del Libro di Torino, dove ieri ha dialogato con Ernesto Franco e Antonio Gnoli.
È un pomeriggio intenso, di riflessioni e d´interrogativi, quello che nella Sala Gialla del Lingotto, davanti a una folla silenziosa e attenta, prende l´avvio dall´avvento della modernità che Scalfari identifica piuttosto che con la scoperta dell´America con Montaigne e i suoi Saggi, sul finire del secolo XVI, in quanto rappresentano «il pensiero che pensa la modernità». La ricognizione si chiude con Nietzsche. La "bomba" innescata da Montaigne nell´universo dell´assoluto e della metafisica, in ogni caso, scoppia quando il filosofo tedesco annuncia che «Dio è morto e noi l´abbiamo ucciso». Rifacendosi a un recente commento del direttore de L´Osservatore Romano, che interpretava da cattolico quell´affermazione sulla morte di Dio, e sul fatto che siano stati gli uomini a ucciderlo, l´autore di Per l´alto mare aperto avverte, pur senza volere intaccare l´autorevolezza del giornalista vaticano: «Nietzsche dice che abbiamo ucciso ciò che abbiamo creato. Siccome noi abbiamo creato Dio, siamo in grado di ucciderlo».
C´è molto Nietzsche nel ragionamento di Scalfari, nel colloquio con Franco e con Gnoli. Quel Nietzsche che è «una malattia», che spezza «il centro», l´io irrigidito, e sostiene che è ovunque. Come tutte le malattie, del resto, ha vari stadi, diversi gradi di lettura. Cambia il nostro modo di leggere, come dice Montaigne «siamo noi che cambiamo. Io l´ho letto tre volte, lo leggerò ancora». Racconta che in gioventù lo lesse in una maniera assai differente da quelle che sarebbero seguite: «Ero allora uno studente fascista, scrivevo sui giornali del Guf, portavo una stupenda divisa che piaceva alle ragazze. Un giorno fui convocato dal segretario del partito. Quando fui davanti a lui mi strappò le spalline, me le gettò in faccia e mi espulse. Restai sbalordito, credevo di essere fascista. Così mi domandai se era lui a essere diventato antifascista, oppure se lo ero diventato io. Dico questo perché, a quell´epoca, avevo letto Nietzsche da fascista: il superuomo che prende il potere e schiaccia i deboli».
Il pomeriggio con Scalfari si conclude tra domande e applausi. Con quei «barbari» che «non si possono distruggere perché sono il nuovo che arriva», quelle ««isole» dell´epoca della modernità che «resistono, circondate». E con quegli «imbarbariti» che frantumano i valori che sopravvivono, ma che sono un buon motivo per combattere un´estrema battaglia di civiltà.