martedì 1 giugno 2010

Repubblica 28.5.10
L'intervista/ Escono due libri dell'analista Antonino Ferro che oggi parla a Taormina
"I nostri sogni somigliano alle vignette di altan"
"Di notte e anche di giorno, la mente produce immagini che allontanano le angosce"
di Luciana sica

«Non sogniamo solo di notte, sogniamo anche da svegli: un´attività onirica altrettanto inconscia avviene durante il giorno, di continuo. Sono invece fantasmagorie della mente, ma comunque stati della coscienza, quei sogni ad occhi aperti che noi chiamiamo rêverie». Chi parla è Antonino Ferro, 63 anni, palermitano trapiantato a Pavia, ma conosciuto ovunque: i suoi libri sono tradotti in più di dieci lingue - dal turco all´ebraico, al coreano. Ora ne escono due nuovi: uno s´intitola Tormenti di anime (Cortina, pagg. 216, euro 21), l´altro - firmato con Simone Vender - si chiama La terra di nessuno fra psichiatria e psicoterapia (Bollati Boringhieri, pagg. 250, euro 32).
Ferro non rappresenta "la" psicoanalisi (che al singolare non esiste più), ma piuttosto la scuola bioniana - rêverie è un termine introdotto proprio dal geniale Bion (da rêver, in francese sognare). "Didatta" della Società psicoanalitica italiana, oggi parla al congresso di Taormina.
Il titolo del suo intervento rimanda a non meglio identificate "navette per l´inconscio". Ma cosa sono?
«Sono "shuttles" che ci consentono dei viaggi - di va e vieni - nell´inconscio e dall´inconscio. Una volta si guardava ai lapsus, agli atti mancati, alle dimenticanze e soprattutto al sogno notturno come strumenti che ci connettevano all´inconscio. Oggi prevale l´onirico in tutte le sue declinazioni».
Che fine ha fatto la "via regia" verso l´inconscio, tanto cara a Freud?
«Non si parla più esclusivamente del sogno notturno, ma anche di un pensiero onirico allo stato di veglia che trasforma in immagini tutte le sensazioni e gli stimoli da cui siamo bombardati. Sono immagini che si formano in modo inconsapevole. Noi li definiamo "pittogrammi"».
Pittogrammi? Siamo in pieno slang psicoanalitico... Può tradurre?
«I pittogrammi sono come le vignette di Altan».
In che senso?
«In questo senso: ovviamente le vignette di Altan sono tutt´altro che immagini inconsce, ma consentono una presa di distanza dalle "cose" che sono fonte di angoscia, perché ne restituiscono uno statuto di pensabilità, un senso. Ora, faccia conto che qualcosa ci procuri dolore o rabbia o frustrazione. Se quest´insieme di emozioni, meglio di protoemozioni, restano a uno stato crudo, non elaborato, producono "malattia". La nostra mente è però capace di trasformarle in pittogrammi, che noi oggi consideriamo i costituenti dell´inconscio e - tutti insieme - la matrice del sogno notturno».
Sta dicendo che la funzione Altan somiglia alla funzione Alfa di Bion?
«Sì, più o meno. Voglio dire soprattutto che se abbiamo la capacità di sognare di giorno e di notte, stiamo bene. La sofferenza psichica nasce proprio quando s´inceppa l´attività onirica: il dreaming ensemble, come lo chiama James Grotstein. Minore è la capacità di sognare, maggiori sono le severità delle patologie. Un altro analista americano, Thomas Ogden, tra i più creativi che abbiamo al mondo, dice che il fattore terapeutico fondamentale è aiutare il paziente a sognare i sogni che non è stato o non è capace di fare: la stanza dell´analisi è luogo onirico per eccellenza, è il sogno condiviso di due menti che costruiscono insieme significati e catene visive».
I sogni ad occhi aperti sono oziosi vagabondaggi della mente, pigre fantasticherie, o il concetto di rêverie li ha rivalutati?
«L´abbandono al flusso dei sogni ad occhi aperti implica una maggiore pienezza dell´anima. Una perdita provvisoria di contatto con la realtà può essere preziosa per focalizzare problemi, far riemergere ricordi, immaginare il futuro. Naturalmente cambia molto se si lascia spazio alla fantasia, all´immaginazione, o se prevale il pensiero computerizzato».
Negli ultimi mesi si è letto e parlato di "uomo senza inconscio" (Recalcati), o anche di "inconscio tecnologico" (Galimberti). Lei che ne pensa?
«Penso che l´inconscio è la nostra struttura portante come esseri umani. È come se al nostro corpo mancassero i femori: non potremmo alzarci dal letto, non potremmo vivere! Sarà un discorso poco alla moda, ma noi siamo sempre gli stessi da quando siamo diventati specie sapiens sapiens. Non possiamo comparare le ere geologiche con la vita di una rosa, per dirla con il poeta. In attesa di un salto evolutivo, non c´è alcuna novità nel funzionamento mentale, salvo che ne sappiamo molto di più».
La dimensione post-umana non fa nessuna differenza? Molti suoi colleghi parlano di un "contesto di morte", degli effetti - anche inconsci - del "traumatismo diffuso"...
«Il traumatismo diffuso c´è sempre stato: oggi con la crisi, il terrorismo, le catastrofi climatiche, ieri con le guerre e gli stermini, prima con le emigrazioni e le pestilenze, prima ancora con gli animali feroci che ci assalivano... Ma noi sogniamo come prima: i sogni della signora Sarkozy saranno simili a quelli di Cleopatra: cambia il linguaggio. E quando ci innamoriamo, perdiamo la testa non come un secolo fa, ma come seimila anni fa. E quando un figlio muore, abbiamo le stesse angosce del padre di Patroclo! Certo che abbiamo più difficoltà a entrare in contatto con le nostre emozioni più profonde, ma bisogna intendersi: una cosa è la sociologia, un´altra l´antropologia, un´altra ancora la psicoanalisi».


Repubblica 1.6.10
La condanna della marionetta
di David Grossman

Nessuna spiegazione può giustificare o mascherare il crimine commesso da Israele e nessun pretesto può motivare l'idiozia del suo governo e del suo esercito. Israele non ha inviato i suoi soldati a uccidere civili a sangue freddo, in pratica era l'ultima cosa che voleva che accadesse, eppure una piccola organizzazione turca, dall'ideologia fanatica e religiosa, ostile a Israele, ha arruolato alcune centinaia di pacifisti ed è riuscita a fare cadere lo Stato ebraico in una trappola proprio perché sapeva come avrebbe reagito e fino a che punto era condannato, come una marionetta, a fare ciò che ha fatto.

Non si spara sulle opinioni "È stato un atto criminale destinato a riaccendere la spirale di odio e vendette" Grossman: "Il blocco di Gaza è un errore" Non tutti i partecipanti al convoglio sono animati da intenzioni umanitarie e alcune dichiarazioni sulla distruzione di Israele sono infami, ma queste opinioni non prevedono la pena di morte.

Quanto deve sentirsi insicura, confusa e spaventata una nazione per comportarsi come ha fatto Israele! Ricorrendo a un uso esagerato della forza (malgrado aspirasse a limitare la portata della reazione dei presenti sulla nave) ha ucciso e ferito civili al di fuori delle proprie acque territoriali comportandosi come una masnada di pirati. È chiaro che queste mie parole non esprimono assolutamente consenso alle motivazioni, nascoste o evidenti – e talvolta malvagie – di alcuni dei partecipanti al convoglio diretto a Gaza. Non tutti sono pacifisti animati da intenzioni umanitarie e le dichiarazioni di alcuni di loro riguardanti la distruzione dello stato di Israele sono infami. Ma tutto questo ora è irrilevante: queste opinioni non prevedono, per quanto si sappia, la pena di morte.
L´azione compiuta da Israele ieri sera non è che la continuazione del prolungato e ignobile blocco alla striscia di Gaza, il quale, a sua volta, non è che il prosieguo naturale dell´approccio aggressivo e arrogante del governo israeliano, pronto a rendere impossibile la vita di un milione e mezzo di innocenti nella striscia di Gaza pur di ottenere la liberazione di un unico soldato tenuto prigioniero, per quanto caro e amato. Il blocco è anche la continuazione naturale di una linea politica fossilizzata e goffa che a ogni bivio decisionale e ogni qualvolta servono cervello, sensibilità e creatività, ricorre a una forza enorme, esagerata, come se questa fosse l´unica scelta possibile.
E in qualche modo tutte queste stoltezze – compresa l´operazione assurda e letale di ieri notte – sembrano far parte di un processo di corruzione che si fa sempre più diffuso in Israele. Si ha la sensazione che le strutture governative siano unte, guaste. Che forse, a causa dell´ansia provocata dalle loro azioni, dai loro errori negli ultimi decenni, dalla disperazione di sciogliere un nodo sempre più intricato, queste strutture divengano sempre più fossilizzate, sempre più refrattarie alle sfide di una realtà complessa e delicata, che perdano la freschezza, l´originalità e la creatività che un tempo le caratterizzavano, che caratterizzavano tutto Israele. Il blocco della striscia di Gaza è fallito. È fallito già da quattro anni. Non solo tale blocco è immorale, non è nemmeno efficace, non fa che peggiorare la situazione, come abbiamo potuto constatare in queste ore, e danneggia gravemente anche Israele. I crimini dei leader di Hamas che tengono in ostaggio Gilad Shalit da quattro anni a questa parte senza che abbia ricevuto nemmeno una visita dai rappresentanti della Croce Rossa, che hanno lanciato migliaia di razzi verso i centri abitati israeliani, vanno affrontati per vie legali, con ogni mezzo giuridico a disposizione di uno stato. Il prolungato isolamento di una popolazione civile non è uno di questi mezzi. Vorrei poter credere che il trauma per la sconsiderata azione di ieri ci porti a riesaminare tutta questa idea del blocco e a liberare finalmente i palestinesi dalla loro sofferenza e Israele da questa macchia. Ma la nostra esperienza in questa regione sciagurata ci insegna che accadrà invece il contrario: che i meccanismi della violenza, della rappresaglia e il cerchio della vendetta e dell´odio ieri hanno ricominciato a girare e ancora non possiamo immaginare con quale forza.
Ma più di ogni altra cosa questa folle operazione rivela fino a che punto è arrivato Israele. Non vale la pena di sprecare parole. Chi ha occhi per vedere capisce e sente. Non c´è dubbio che entro poche ore ci sarà chi si affretterà a trasformare il senso di colpa (naturale e giustificato) di molti israeliani, in vocianti accuse a tutto il mondo.
Con la vergogna, comunque, faremo un po´ più fatica a venire a patti.
Traduzione dall´ebraico di A. Shomroni

l’Unità 1.6.10
Verso la catastrofe
di Moni Ovadia

Era inevitabile che accadesse. L’insensato atto di pirateria militare israeliano contro il convoglio navale umanitario con la sua tragica messe di morti e di feriti non è un fatale incidente, è figlio di una cecità psicopatologica, della illogica assenza di iniziativa politica di un governo reazionario che sa solo peggiorare con accanimento l’iniquo devastante status quo. Di cosa parliamo? Dell’asfissia economica di Gaza e della ultraquarantennale occupazione militare delle terre palestinesi, segnata da una colonizzazione perversa ed espansiva che mira a sottrarre spazi esistenziali ad un popolo intero.
Dopo la stagione di Oslo, il sacrificio della vita di Rabin, non c’è più stata da parte israeliana nessuna vera volontà di raggiungere una pace duratura basata sul riconoscimento del diritti del popolo palestinese sulla base della soluzione due popoli due stati. Le varie Camp David, Wye Plantation, Road Map sono state caratterizzate da velleitarismo, tattiche dilatorie e propaganda allo scopo di fare fallire ogni accordo autentico. Anche il ritiro da Gaza non è stato un passo verso la pace ma un piano ben riuscito per spezzare il fronte politico palestinese e rendere inattuabili trattative efficaci. Abu Mazen l’interlocutore credibile che i governanti israeliani stessi dicevano di attendere con speranza è stato umiliato con tutti i mezzi, la sua autorità completamente delegittimata. L’Autorità Nazionale Palestinese è stata la foglia di fico dietro alla quale sottoporre i palestinesi reali e soprattutto donne, vecchi e bambini ad una interminabile vessazione nella prigione a cielo aperto della Cisgiordania e nella gabbia di Gaza resa tale da un atto di belligeranza che si chiama assedio.
Ma soprattutto l’attuale classe politica israeliana brilla per assenza di qualsiasi progettualità che non sia la propria autoperpetuazione. È riuscita nell’intento di annullare l’idea stessa di opposizione grazie anche ad utili idioti come l’ambiziosissimo “laburista” Ehud Barak che per una poltrona siede fianco a fianco del razzista Avigdor Lieberman. Questi politici tengono sotto ricatto la comunità internazionale contrabbandando la menzogna grottesca che ciò che è fatto contro la popolazione civile palestinese garantisca la sicurezza agli Israeliani e a loro volta sono tenuti sotto ricatto dal nazionalismo religioso di stampo fascista delle frange più fanatiche del movimento dei coloni, una vera bomba ad orologeria per il futuro dello stato di Israele. La maggioranza dell’opinione pubblica sembra narcotizzata al punto da non vedere più i vicini palestinesi come esseri umani, ma come fastidioso problema, nella speranza che prima o poi si risolva da solo con una “autosparizione” provocata da una vita miserrima e senza sbocco. Le voci coraggiose dei giusti non trovano ascolto e anche i più ragionevoli appelli interni ed esterni come quello di Jcall, vengono bollati dai falchi dentro e fuori i confini con l’infame epiteto di antisemiti o antiisraeliani. Se questo stato di cose si prolunga ancora il suo esito non può essere che una catastrofe.

l’Unità 1.6.10
«Qua ci giochiamo la libertà»: al Quirino la rivolta degli scrittori
Nel teatro romano decolla bene l’iniziativa degli editori: da Scarpa a Camilleri, da Rosetta Loy a Nadia Urbinati Rodotà: «Le persone tornano a essere opinione pubblica»
di Luca Dal Frà

La reazione c’è: da carne da macello per i sondaggi, le persone stanno tornando a essere opinione pubblica» scandisce Stefano Ro-
dotà: il teatro Quirino ieri era pieno per l’apertura di «I libri sulla libertà», iniziativa degli editori contro la legge bavaglio, che organizza reading di scrittori, giornalisti e gente comune nelle centinaia di librerie che hanno aderito. In questo teatro nel cuore di Roma sono accorsi Andrea Camilleri, Guido Crainz, Rosetta Loy, Tiziano Scarpa, Nadia Urbinati e molti altri per leggere i testi più o meno sacri della libertà democratica. E con loro oltre a Rodotà, sono intervenuti anche Giovanni Sartori e Alessandro Pace. Dopo aver letto l’appello di Concetto Marchesi agli studenti dell’Università di Padova, un j’accuse «All’intera classe dirigente italiana» che sembrava scritto oggi e risaliva al 1943, Camilleri ha ricordato che la Legge bavaglio ha come obbiettivo non solo la stampa, ma anche «garantire ai mafiosi e ai corrotti della cricca di fregarci indisturbati nel più assoluto silenzio». Avrà sobbalzato il fantasma di Pericle constatando l’emozione del pubblico alla lettura di Loy del suo «Discorso agli ateniesi» del 461 a. C, e applaude anche Suor Rita Pintus delle librerie Paoline, catena che ha aderito come Feltrinelli e molte altre all’iniziativa, da cui si è tenuto lontano Mondadori sia come editore sia come catena libraria, ma a cui hanno aderito alcune librerie del gruppo.
«In materia di stampa non c’è via di mezzo tra la servitù e la libertà» è la conclusione secca di Nadia Urbina-ti alla lettura di Democrazia in America di Alexis de Tocqueville: da Antonio Gramsci a Leone XIII, passando per Indro Montanelli, ripescato dal suo allievo Marco Travaglio, Elsa Morante, John Stuart Mill, letto da Corrado Augias, fino a Sergej Dovlatov, sembrano tutti testi di questi ultimi giorni sulla situazione italiana. «La lesione del circuito dell’informazione è palese – spiega nel suo intervento Rodotà –, ma ci sono anche segni positivi: gli editori dei giornali minacciano la disobbedienza, i parlamentari potranno inserire negli atti parlamentari le inchieste, come accadde durante la guerra nel Viet Nam con i “Pentagon papers”, in modo da farli diventare atti pubblici. E l’organizzazione “Reporters sans frontière” ha offerto il suo sito per pubblicare le notizie proibite in Italia. Solo nei regimi totalitari però i cittadini sono costretti a leggere le notizie sul loro paese nei siti internet stranieri». Ci sono anche critiche alla sinistra, considerata da molti corresponsabile del degrado a cui Berlusconi sta portando l’Italia: e su questo Sartori prende un applauso lunghissimo.
«È mancata una reazione morale, sulle libertà non si può trattare, non si negozia»: sintetizza così gli umori del pubblico Giuseppe Laterza editore che assieme a Marco Cassini di Minimum fax, e Stefano Mauri, del gruppo Mauri Spagnol, è stato tra i promotori dell’iniziativa. Gli chiediamo se l’adesione di oggi fa ben sperare? «È straordinaria, ma più interessante è quella degli altri editori, dalle Edizioni San Paolo a De Agostini, e delle piccole librerie che organizzeranno in questa settimana i reading, senza considerare le 12 mila firme al nostro appello tra cui quella spontanea dello storico britannico Eric Hobsbawm». Ma perché gli editori di libri si stanno muovendo per i giornali, avete paura dell’indice? «Siamo stanchi del veleno che viene sparso nella società italiana, inquina il terreno della lettura e costringe gli italiani a guardare la televisione».

l’Unità 1.6.10
Fermiamoli. Intervista a Nadia Urbinati
«Disobbedienza civile
per garantire il rispetto della Costituzione»
La studiosa: questa protesta significa rischiare, assumersi responsabilità e colpa È un atto politico ma è anche una scelta basata sul coraggio dei singoli
di Jolanda Bufalini

Ma la coscienza è la definizione che alla fine trova Nadia Urbinati, politologa “pendolare” fra
Stati Uniti (dove insegna alla Columbia University) e l’Italia. È la cattiva coscienza di una maggioranza che forza il dettato costituzionale sapendo di farlo. Ed è questa la ragione che spiega, sul piano etico e politico, perché si sta producendo in Italia una situazione che dà senso alla disubbidienza civile. Malacoscienza perché quella maggioranza «sa bene che è altamente probabile che il testo sulle intercettazioni non potrà superare il vaglio della Corte Costituzionale. Però potrà sfruttare ai propri fini il lasso di tempo in cui la legge sulle intercettazioni sarà quella approvata dalla maggioranza in Parlamento, e questo produrrà un danno alle nostre libertà».
Lei considera quindi opportuna la disubbidienza civile in queste circostanze? «La disubbidienza civile è l’ultima risorsa, l’estrema ratio. È un’azione certamente politica ma che è messa in atto da individui, dal singolo giornalista, dal singolo magistrato che rischia. Prima di questo, la situazione ottimale sarebbe la mobilitazione politica più ampia possibile, attraverso l’impegno individuale e collettivo dei cittadini, attraverso la battaglia parlamentare e la mobilitazione dell’opinione pubblica, per cambiare o non fare approvare la legge. Quando tutti questi tentativi saranno stati fatti, se nonostante tutto questo, il ddl sulle intercettazioni sarà legge, allora la disubbidienza civile è a mio avviso eticamente giustificata».
Dunque lei auspica, prima di tutto, una mobilitazione politica che eviti l’approvazione del disegno di legge? «Tutto quello che si può fare come iniziativa politica e parlamentare, fino al ricorso alla Corte Costituzionale. Ma bisogna sapere che, una volta che ci sarà la legge, prima che l’Alta
Corte si pronunci, passerà del tempo e questa legge produrrà sofferenza e danno alle nostre libertà costituzionali: sul piano della libertà di stampa, perché la nostra Costituzione ne prevede la limitazione solo in caso di grave rischio per l’ordine pubblico. E sul piano della separazione dei poteri, per i limiti che vengono imposti al lavoro dei magistrati. Io non sono una giurista ma mi pare che la Corte costituzionale non potrà ammettere questa legge. E le decisioni di maggioranza sono legittime solo nel rispetto del quadro costituzionale».
È questo che giustifica il ricorso alla disubbidienza? «Sì, in una società democratica e costituzionale la disubbidienza civile è eticamente giustificata dal conflitto della legge con la norma superiore e fondativa dell’unità dello Stato. In questo conflitto vince la Carta costituzionale. Fu così in America, nella lotta contro la segregazione razziale. La disubbidienza non è il sovvertimento dell’ordine costituito, non è illegalità ma, al contrario, affermazione dei principi che stanno a fondamento dello Stato».
Si sta riferendo alle battaglie per i diritti civili degli anni Sessanta? «Il caso più celebre è quello di Martin Luther King, ma non fu il solo, ci furono molti casi di disubbidienza civile. Le leggi che proibivano ai neri di sedere negli stessi autobus con i bianchi, per esempio, erano in contrasto con la dichiarazione d’Indipendenza e con la Carta dei diritti».
Lei dice che questi sono i casi in cui la disubbidienza civile è eticamente e politicamente giustificata, ma chi disobbedisce può appellarsi a norme sancite dal nostro ordinamento?
«No, la disubbidienza civile è un atto di coraggio democratico dei singoli cittadini, che pagheranno per questo. E sanno che dovranno rischiare e pagare. Sanno che andranno incontro a conseguenze, se ne assumeranno la responsabilità e la colpa. Nella nostra Costituzione non c’è il diritto alla Resistenza, di cui pure si discusse nell’assemblea costituente».

Repubblica 1.6.10
Scrittori anti-bavaglio. Laterza: impossibile fare libri d´inchiesta
Camilleri: rischio fascismo siamo pronti a disubbidire
di Alberto D’Argenio

ROMA - Così torniamo al fascismo. I protagonisti del reading contro la legge-bavaglio sulle intercettazioni non hanno dubbi: uccide la coscienza dell´opinione pubblica e con essa la democrazia. Partite ieri in uno stracolmo teatro Quirino di Roma, le "Letture per la libertà di stampa" organizzate da un centinaio di editori insieme a librai e scrittori andranno avanti tutta la settimana in tutta Italia. «La legge sulle intercettazioni non tocca solo giornali e giornalisti, ma anche le Case editrici che pubblicano libri d´inchiesta, anch´essi potenziali destinatari del ddl», ha detto l´editore Giuseppe Laterza, tra gli organizzatori insieme a Marco Cassini (Minimum Fax) e Stefano Mauri (Mauri-Spagnol).
Ad aprire le letture dei brani è stato Andrea Camilleri, che ha proposto l´appello agli studenti che il rettore dell´università di Padova, Concetto Marchesi, pronunciò il primo dicembre 1943 lasciando l´ateneo per non sottomettersi al fascismo. Un discorso (vibrante la lettura dello scrittore siciliano) che si chiude così: «Liberate l´Italia dalla schiavitù dell´inganno». Passaggio che per Camilleri definisce perfettamente «lo sporco e il luridume dell´attacco alla libertà che oggi si ripropone sotto altre forme». Difendiamo l´informazione - ha proseguito il padre di Montalbano - anche se con la legge-bavaglio non ci sarà proprio più nulla di cui scrivere perché i magistrati non potranno più lavorare «lasciando i mafiosi e la cricca liberi di fregarci nel silenzio». Quindi Camilleri si è congedato dal pubblico con un laconico «buona fortuna». E di grande attualità anche il discorso di Pericle agli Ateniesi, che Paolo Rossi non riuscì a leggere in tv e ieri proposto da Rosetta Loy.
Sul palco anche Stefano Rodotà, secondo il quale «quando si blocca la conoscenza dei fatti si impedisce di deliberare e mettendo a repentaglio la vita democratica: è proprio dei regimi totalitari obbligare i propri cittadini a leggere su siti stranieri le notizie del proprio Paese». Quindi è intervenuto il politologo Giovanni Sartori, che ha definito «vergognosa» la legge-bavaglio: «È l´ultima risorsa per creare una falsa, disinformata e stupida opinione pubblica che non sa nulla del mondo e sa quasi solo cose false dell´Italia». E Marco Travaglio è stato tra coloro che hanno evocato l´inosservanza della legge. Come Massimo Carlotto, per il quale «non resta che la disobbedienza civile». Chi non c´era, come Dacia Maraini, ha affidato ad altri le proprie riflessioni. La serata è stata chiusa da Gianrico Carofiglio, magistrato, scrittore e senatore del Pd: «Il bavaglio che citava Camilleri era lo stesso programma della loggia P2. Non a caso vi erano iscritti anche esponenti del governo»

Repubblica 1.6.10
Il carattere è scritto nella chimica ecco gli ormoni della personalità
L´antropologa Helen Fisher divide l´umanità in pionieri, fondatori, diplomatici e scopritori. Un oroscopo biochimico che si forma nel grembo materno
di Andrea Tarquini

Possiamo innamorarci con il classico colpo di fulmine, oppure scoprire pian piano che ci piace, ci attira e ci interessa una persona che conoscevamo da anni. L´amore è cieco, si dice da millenni. Ma è governato più di quanto non si pensi dalla biochimica: ormoni di diverso tipo attivano differenti regioni del nostro cervello, ci fanno reagire diversamente a stimoli e segnali. Ce lo spiega Helen Fisher, docente alla Rutgers University del New Jersey, esperta di fondamenta neurologiche delle relazioni sessuali e amorose. E nel suo libro "I quattro tipi dell´amore", appena uscito in Germania (Die vier Typen der Liebe, ed. Droemer), scritto dopo aver studiato questionari di 28mila persone, cataloga appunto questi quattro tipi di caratteri: il pioniere, il diplomatico, lo scopritore, il fondatore. E prova a spiegarci se e in che misura possono stare bene insieme.
Scienza seria, tanto che la compassata ma attenta Welt am Sonntag ha appena dedicato al tema una pagina intera. Premessa: i quattro tipi sono semplificazioni per classificare i diversi tipi d´influsso dei differenti ormoni. I più importanti sono testosterone, estrogeni, noradrenalina, dopamina, serotonina e oxitocina. Nell´antichità si distingueva tra collerici, sanguigni, melancolici e flegmatici. Ma la maggior parte degli individui è un misto, subisce influssi di diversi ormoni, presenti in diverse quantità nei nostri organismi. Proviamo allora a riassumere questa specie di oroscopo degli ormoni.
Il pioniere spesso si sviluppa da alte concentrazioni di testosterone nell´utero materno. È diretto e insieme analitico, sa imporre le sue visioni e i suoi piani, sa pensare in modo strategico. I "pionieri" sono padroni di sé, pragmatici maestri d´autocontrollo, pronti ad aiutare il prossimo, ma anche tendenti a frenare i sentimenti, ad analizzarli con scetticismo. Tra i vip, sono classificabili come "pionieri" Obama, o Angela Merkel. La coppia migliore riesce loro con altri pionieri, oppure con un diplomatico. Come Flavio Briatore, tranquillo anche nelle avversità.
E chi è costui? È altamente influenzato da estrogeni, ha la capacità di riassumere, memorizzare e analizzare tanti dati, e rifletterci. È aperto, intuitivo, portato alla fiducia verso il prossimo. Tende a sognare a occhi aperti, cerca l´anima, l´amore, la verità, e insieme è alla permanente ricerca di se stesso, e insieme malinconico e spesso dubbioso su se stesso, come Leonard Cohen in alcuni dei suoi migliori testi, dice la Fisher. Il diplomatico è comunque fatto apposta per la vita di relazione. Può andargli bene con il pioniere, o con lo scopritore, molto più problematica è una sua unione con un fondatore.
Vedremo subito perché, ma descriviamo prima il terzo tipo di amante: è definito "scopritore". È curioso, creativo, ottimista, vuole essere conquistato sia sul piano sensuale sia intellettuale, altrimenti finisce preda della noia. Merito, o colpa, del gene Drd4, che regola l´attività della dopamina. Sta bene con un altro scopritore, o con un diplomatico.
Quarto ma non ultimo, il "fondatore". Il suo valore ormonale dominante, la serotonina, contribuisce a renderlo una persona con i piedi per terra, metodico, tranquillo, spinto al rispetto verso l´autorità, a volte anche un po´ noioso. Il suo ideale è avere una famiglia intatta, o crearla. Sta bene con un altro tipo fondatore, può trovare la felicità anche con un diplomatico o con un pioniere, ma meno che mai con uno scopritore. Un esempio di fondatore è il principe ereditario britannico William, mentre suo fratello minore principe Harry è chiaramente uno scopritore, che tenta vie inabituali. "Per fortuna non è lui il primogenito", scherza il giornale tedesco. Certo, sono schemi semplificanti: in maggioranza, siamo tutti un misto tra i quattro tipi di essere umano e di amante. O meglio, miliardi di misti con dosi diverse. Come tanti cocktail irripetibili di qualità, doti, difetti, emozioni. Se i diversi dosaggi biochimici producono armonia, creano una combinazione naturale, che spinge a una profonda intimità, perché ci si capisce meglio intuitivamente. Il banale, eterno sogno dell´amore perfetto, insomma. Reso possibile o irraggiungibile dal cocktail-oroscopo degli ormoni.

Europa 1.6.10
Quando il denaro non contava
di Mari Lavia

C’era un tempo in cui le minoranze all’interno di un partito erano destinate a rimanere tali, era un tempo in cui una minoranza, in base ad un accordo non scritto, si ritagliava una mera funzione di condizionamento: non era molto ma poteva anche non essere poco.
Nel Psi di Nenni, poi di De Martino, fino a Craxi i lombardiani furono esattamente questo: una corrente di minoranza, piccola, combattiva, integerrima, orgogliosa della propria vocazione minoritaria. Ad immagine del suo capo, Riccardo Lombardi.
Una figura sulla quale recentemente sono apparsi in libreria due volumi, uno di Carlo Patrignani (Lombardi e il fenicottero – ed. L’asino d’oro), l’altro (una riedizione di un saggio di tanti anni fa, semplicemente: Lombardi, Ediesse) di Miriam Mafai.
«Io ho imparato molto da Riccardo Lombardi su come si fa dissenso », confidò nell’orazione ai funerali dell’“Ingegnere” (all’epoca era raro un dirigente socialista laureato) uno che di minoranze se ne intendeva, Pietro Ingrao. E in effetti è senz’altro vero che Lombardi fu un gran “dissidente”, degno epigono di quella corrente laica, azionista, “capitiniana” (come sottolinea Marco Pannella nella partecipata introduzione al libro di Patrignani) che vien giù dai fermenti democratici più vivi del Risorgimento.
L’incontro con il socialismo italiano – dopo la fase azionista – lo colloca fra gli anticomunisti progressisti (la perdurante polemica con colui che Patrignani chiama «il freddo Togliatti»), ed è sempre col suo tratto scettico che Lombardi accompagnò l’evoluzione che condusse il Psi al primo governo di centrosinistra in alleanza con la Dc: esperienza travagliata, breve, oggi grandemente rivalutata, specie al confronto con i conati riformisti successivi.
Ecco, di Lombardi piace ricordare, soprattutto alla vigilia del 2 giugno, proprio quelle caratteristiche “minoritarie” che in ultima analisi lo costrinsero in una posizione marginale nel suo partito – l’intransigenza morale, la coerenza e la schiettezza (fu fra i pochissimi a stigmatizzare apertamente i tratti autoritari di Craxi) e anche la lucidità che – viene detto nel libro di Patrignani – lo portò «ad avere ragione dieci anni prima». Insieme – infine – a quella modestia e disinteresse personale che gli fece rispondere così a chi gli chiedeva se avesse mai pensato di avere più denaro: «Non avrei saputo cosa farne.
Non ho neppure una casa. Mi basta poter comperare dei libri».

Il Foglio 1.6.10
Urlatori di Dio
di Luigi Manconi

Devo dire: io, sulle questioni di bioetica (così come su altre tematiche), ho le medesime convinzioni dei Radicali. C’è, tuttavia, una differenza notevole nelle motivazioni che mi portano ad assumere quelle stesse posizioni pubbliche: nel senso che io vi arrivo attraverso un percorso che cerca costantemente di affidarsi anche a una fondazione morale delle scelte valoriali e, in ultima istanza delle opzioni politiche. Mentre i Radicali privilegiano una logica argomentativa concentrata prevalentemente sul piano razionale-utilitaristico (nel significato che la filosofia contemporanea attribuisce a quest’ultima formula). Sarà forse la peculiarità del mio approccio-che tenta di rifarsi, appunto, a un sistema di valori. eticamente costituiti - che mi rende sensibile, o comunque non indifferente, all’accusa più bruciante che mi viene rivolta. E’ un’accusa dettata, in genere, da un calcolo strumentale, e tesa a produrre un effetto di suggestione, che consiste nell’attribuire a chi sostiene posizioni come le miele nostre, una "tentazione eugenetica". Il fatto di sapermi totalmente estraneo a quel rischio non riesce a tranquillizzarmi e questo, oltre a produrre pericolosi travasi di bile, suscita in me quel disdicevole sentimento di avversione morale verso, nell’ordine. Eugenia Roccella, Maurizio Gasparri, monsignor Elio Sgreccia, il prof. Francesco D’Agostino e, nonostante tutto, Giuliano Ferrara (risparmio solo Gaetano Quagliariello in ragione di una trascorsa familiarità, che mi rende immotivatamente indulgente verso il più colpevole tra tutti). Eppure, il fatto di replicare - come so e come posso - a quell’accusa e ritorcerla contro chi la muove a finì esclusivamente ideologicodemagogici, non mi rasserena: e proprio perché so bene quanto le questioni di bioetica e, in particolare, quelle che intersecano categorie come la continuità e la intangibilità della vita umana, si affaccino sull’ignoto e sfiorino l’inaudito.
E so bene quanto simili questioni siano drammaticamente controverse: tali da non consentire letture semplificate e soluzioni nette. Pressoché tutte le grandi questioni di bioetica infatti si presentano, nella forma del dilemma che oppone due diversi diritti, entrambi legittimi ed entrambi degni di trascrizione giuridica. Si può dire, in estrema sintesi, che la bioetica opera nella sfera pubblica in quanto chiamata a dirimere il conflitto tra quei differenti diritti.
Quando quelle questioni si proiettano sul piano legislativo, la politica - che reclama in genere decisioni semplici tende a risolvere la tensione tra i due diritti, privilegiando l’uno e sacrificando l’altro. Rinunciando con ciò alla scelta, più ardua ma più equa, di elaborare - per quanto faticoso possa risultare - una mediazione virtuosa e una convivenza pacifica tra domande in contrasto. Non a caso, la "soluzione politica semplice", con gli effetti regressivi che produce, tende a presentarsi -nella cultura della destra, oggi maggioritariamente clericale - come la più fedele traduzione pubblica di un precetto enunciato solennemente dalla chiesa cattolica: quello che afferma "la sacralità della vita dal concepimento fino alla morte naturale".
Dov’è chi parla di deriva eugenetica? Dico tutto ciò per porre un quesito: che relazione c’è tra quella "sacralità" e la delibera numero 851 (31 marzo 2009) della regione Veneto? Quella dove si stabiliscono "controindicazioni assolute al trapianto d’organo" in caso di "danni cerebrali irreversibili" e "ritardo mentale con quoziente intellettivo inferiore a 50"; e si oppongono "controindicazioni relative" per chi presenti "un ritardo mentale con quoziente intellettivo inferiore a 70".
La questione è di eccezionale e drammatico rilievo e può adombrare una terribile spirale etica. Sorprende, pertanto, che il foltissimo esercito dei "difensori della vita" e della "tutela della dignità umana sempre e comunque" osservi un rigoroso silenzio. A sollevare il caso sono state, meritoriamente, le deputate radicali Maria Antonietta Farina Coscioni e Rita Bernardini, e il Corriere della Sera di sabato 29 maggio.
Ma dove son tutti quelli che urlano alla "deriva eugenetica" anche solo quando si parla di fecondazione assistita? La delibera della regione Veneto solleva una fondamentale questione di etica pubblica e una, altrettanto cruciale, di equità.
A differenza degli urlatori di Dio, non dirò che il provvedimento della regione Veneto è"nazista"; e penso che quanto scritto da Margherita De Bac sul Corriere, seppure non condivisibile, rappresenti un interrogativo serio: "Non potrebbe configurarsi come accanimento terapeutico il fatto di imporre un trapianto. e le pesanti conseguenze dei farmaci antirigetto, a un malato che non è in grado di comprendere la cura?". Ma ciò che lascia davvero scandalizzati sono le parole dell’assessore regionale alla Sanità Luca Coletto: "II nostro è un sistema d’avanguardia. E’ bene riflettere su questi interrogativi per non utilizzare in modo improprio le risorse". Le risorse? Dio lo perdoni: e, intanto, si affidi, quel Coletto, alle cure amorevoli di Maurizio Gasparri e di monsignor Elio Sgreccia.

lunedì 31 maggio 2010

l’Unità 31.5.10
Via Tasso «ente inutile»
Il Museo della memoria che Tremonti condanna
Tra il ’43 e il ’44 le SS qui torturarono 2.000 cittadini. Oggi, coi suoi graffiti, custodisce il ricordo della Resistenza romana. Ma non vale 50.000 euro...
di Maria Serena Palieri

C’è una teca a via Tasso in cui è riassunta, come nessun poeta avrebbe potuto fare (forse ci sarebbe riuscito Giorgio Caproni, il poeta maestro elementare), l’Italia che ribellandosi al nazifascismo usciva dalla guerra: custodisce una pagnotta sulla quale Ignazio Vian scrisse l’ultimo saluto alla sua famiglia, appoggiata su un tricolore senza «traditrici» insegne sabaude. Vian, già ufficiale, l’8 settembre era stato tra i primi a diventare partigiano, arrestato e torturato aveva retto, non aveva denunciato i suoi, finì impiccato. Aveva 27 anni. Il pane, la bandiera, quegli affetti primari da figlio, da ragazzo. Sessantasei anni dopo basterebbe una cifra altrettanto elementare, 50.000 euro un «bicchierino» la definisce il presidente Antonio Parisella per salvare il Museo Storico della Liberazione che ha sede in via Tasso.
Lì dove, nel palazzo costruito negli anni Trenta dai principi Ruspoli e dato in affitto all’ambasciata tedesca a Roma, dopo l’occupazione, tra il ’43 e il ’44, al civico 145 la Sicherheitspolizei, agli ordini dell’Obersturmbannführer Herbert Kappler, in stanze rese sorde e cieche murando finestre, perennemente buie staccando la luce e controllabili grazie a spioncini sulle porte, imprigionò e torturò. Via Tasso a Roma è ancora un nome che evoca terrore, nausea. A Via Tasso, in quei mesi, si finiva per un niente. Ci finirono Giuliano Vassalli (ne scampò) e Giuseppe Cordero Lanza di Montezemolo (ucciso alle Ardeatine). Ci finirono in duemila, tra donne e uomini: militari passati in clandestinità, cittadini qualunque, anche giovanissimi e anche vecchissimi, chiunque fosse sospetto di legami con la Resistenza, di sapere chi proteggeva ebrei, dove si fabbricavano volantini e i chiodi a tre punte usati per forare i copertoni dei camion militari. Da via Tasso uscirono gli antifascisti trucidati a Forte Bravetta e alle Fosse Ardeatine. Da lì il 4 giugno 1944 uscì Bruno Buozzi per andare a morire, ucciso in extremis dalle Ss in fuga, con altri 12 prigionieri, nell’eccidio della Storta. Lì, quello stesso 4 giugno, quando romani e romane si riversarono nell’edificio odiato, fu quasi per miracolo ritrovato dopo un mese di torture, e liberato, Arrigo Paladini, sottotenente dell’Esercito catturato
mentre dal Sud era in missione clandestina a Roma, che vent’anni dopo diventerà uno dei direttori del Museo. Ma ecco, stante alla manovra di Tremonti, a via Tasso si chiude: chiuso il rubinetto del Ministero per i Beni Culturali, anche se dava gocce, 50.000 euro l’anno. Ed ecco un altro passo avanti perché, nel nostro lieto eterno presente, viale Bruno Buozzi, a Roma, diventi semplicemente una smemorata elegante strada in discesa che porta dai Parioli alle Belle Arti.
Via Tasso al civico 145 c’era il carcere, al 155 c’erano i comandi delleSs-nonèunmuseo.Loè,anche. Ma è anzitutto un luogo fisico dove chi entra (ogni anno 15.000 studenti), come avviene ad Auschwitz, entra in una dimensione temporale diversa: «vive» quello che lì è avvenuto tra l’11 settembre 1943 e il 4 giugno 1944. Sveglia alle 7, silenzio alle 20, una gamella di broda e un pezzo di pane al giorno, divieto di parlare tra prigionieri, invito a farlo, di notte, coi seviziatori, nelle sedute notturne di interrogatori e di torture. Contatto con le famiglie una volta a settimana, per avere il cambio e il dono consentito, un uovo sodo, e per cercare di esportare messaggi cifrati sotto il rammendo d’una maglia, come qualcuno disperato e furbissimo riuscì a fare.
A Via Tasso il tempo, per buona parte, è rimasto quello. Nel dopoguerra diventò un rifugio per gli sfollati. Nel 1950 l’erede Ruspoli, principessa Josepha, donò l’edificio allo Stato perché nascesse il Museo storico della lotta di Liberazione in Roma. Tra il ’53 e il ’54 fu trovato un alloggio per gli ultimi sfollati e il 4 giugno del ’55 Gronchi, presidente della Repubblica, inaugurò le prime stanze. Raccoglievano tutto ciò che si era potuto radunare, volantini dei Gap, chiodi a tre punte, editti degli occupanti. Ma soprattutto custodivano i segni lasciati con le unghie da chi lì aveva trascorso giorni e notti: Arrigo Paladini (non sa che di lì uscirà vivo) nel buio della detenzione graffia sul muro un messaggio, chiede perdono a coloro cui può aver fatto del male, «la morte è brutta per chi la teme» scrive un altro, «tu serva Italia di dolore ostello» è un graffito dantesco, c’è chi cerca luce così, «l’ultima speranza non è perduta, forse la vita è salva, abbiate fede». E poi c’è il sangue: sui muri, sulle camicie che indossavano i prigionieri andati al plotone di esecuzione o al cappio per impiccati.
Via Tasso è Ente pubblico sotto tutela del ministero per la Pubblica Istruzione (poi Beni Culturali) dal 14 aprile 1957. Ora per salvare il Museo dalla chiusura dichiarano, bipartisan, disponibilità Regione Lazio, Comune e Provincia di Roma. 50.000 euro l’anno sono come dice Parisella «un bicchierino». Se alle parole Renata Polverini, Gianni Alemanno e Nicola Zingaretti faranno seguire i fatti, il Museo vivrà. Certo è inquietante che quel luogo dove nel buio, e nel coraggio e nel sangue davvero, è nato il primo nucleo di Italia democratica, diventi per il Governo un ente inutile, in questa grande manovra economica di salvataggio della patria. Ma già, questi sono giorni in cui diciamo addio a pezzi di Costituzione e in cui sappiamo che la nuova Repubblica, lieta e immemore, è nata 18 anni fa tra mafia e tintinnar di sciabole.

l’Unità 31.5.10
Il mondo dei libri dice no al bavaglio
Un giorno di letture per fermare la legge
di Marco Cassini

Durante il recente Salone del Libro di Torino sono stato “intercettato” dall’editore Giuseppe Laterza, il quale con tono concitato mi ha letto il testo di una lettera-comunicato stampa (concepita con Stefano Mauri del gruppo Mauri Spagnol) per sensibilizzare il maggior numero possibile di soggetti sulla gravità del ddl che rischia di diventare una “legge-bavaglio”. L’Associazione Italiana Editori aveva diffuso due giorni prima un comunicato quasi identico ma nessun giornale l’aveva ripreso. Forse operando “dal basso” – ̆diceva Laterza – pur nel rispetto dell’Aie, con una semplice lettera che chiede attenzione ma senza i crismi dell’ufficialità, otterremo un po’ di attenzione.
Quello che ha ottenuto la lettera è stato ben più che “un po’ di attenzione”. Da dieci giorni, e non solo sulle terze pagine o sui blog, si parla, a ragione, della necessità di bloccare il ddl. La lettera è stata sottoscritta da oltre cento editori e più di diecimila fra intellettuali, impiegati, lettori, dipendenti statali, disoccupati, professionisti, insegnanti: insomma, di italiani. Il dibattito è animato quanto lo scontro politico ai massimi livelli istituzionali. In ambito editoriale, ha contribuito all’accensione della querelle la vistosa assenza, fra i firmatari, del gruppo editoriale di proprietà di una parte della famiglia del premier.
Noi editori di libri, anche se apparentemente (solo apparentemente) meno coinvolti dei colleghi editori di giornali, pur favorevoli alla tutela del diritto alla privacy, sentiamo comunque forte il rischio implicito nell’inasprirsi delle pene per chi mette in pratica uno dei principi fondamentali garantiti in ogni civiltà democratica. Una preoccupazione che ci dovrebbe dunque animare da cittadini prima ancora che da editori.
Quando l’altro giorno Laterza mi ha chiamato con quello stesso tono concitato, sapevo che dovevo aspettarmi qualcosa di altrettanto deflagrante. Perché non organizziamo una giornata di letture al teatro Quirino di Roma, per sensibilizzare ulteriormente sull’argomento, unire ancor di più le forze, proprio nel giorno (oggi) in cui il ddl verrà di nuovo discusso nelle sedi istituzionali?
Ho osato rilanciare proponendogli di allargare la cosa a tutto il territorio nazionale, senza limitarci a un unico spazio fisico ma chiedendo l’adesione di tante librerie, e promuovere altri reading per tutta la prossima settimana. Sarebbe bello se aderissero piccoli librai di provincia, mi ha detto Laterza. E allora ho esagerato in ottimismo dicendo «chissà, magari aderirà perfino qualche libreria che porta lo stesso nome di quell’editore che non ha firmato?». È puntualmente successo, e questo mi fa ben sperare nel futuro del paese.
Marco Cassini è, con Daniele di Gennaro, il fondatore della casa editrice «minimum fax»

Repubblica 31.5.10
L’attacco a cultura e bellezza
di Salvatore Settis

Prosegue alacremente il cantiere di smontaggio dello Stato. Sotto l´etichetta di "federalismo demaniale", passano a Regioni ed enti locali 19.005 unità del demanio dello Stato, per un valore nominale di oltre tre miliardi.
Mente Calderoli quando afferma (La Padania, 7 maggio) che i beni trasferiti «demaniali sono e demaniali resteranno». Il demanio non è una forma di proprietà, ma servizio pubblico nell´interesse generale di tutti i cittadini, per questo è inalienabile. Al contrario, i beni trasferiti possono essere «anche alienati per produrre ricchezza a beneficio delle collettività territoriali», o saranno versati in fondi immobiliari di proprietà privata; la legge incoraggia anzi i Comuni a produrre varianti urbanistiche che ne consentano non solo la mercificazione, ma la cementificazione, sigillata e garantita dai ricorrenti condoni edilizi (l´ultimo disegno di legge, presentato dal Pdl, sana con un sol colpo di spugna tutti i reati contro il paesaggio e l´ambiente commessi o da commettersi entro il 31 dicembre 2010).
La manovra Tremonti, approvata sulla parola e senza il testo finale da un Consiglio dei ministri assai ubbidiente, aggraverà lo stato delle finanze locali, strangolando ulteriormente Comuni Province e Regioni. Il taglio previsto, quasi 15 miliardi nel biennio 2011-12 (4 miliardi ai soli Comuni), obbligherà i Comuni ad alienare l´alienabile, e a concedere licenze di edificazione a occhi chiusi, pur di incassare gli oneri di urbanizzazione, un tributo che, contro la ratio originaria della norma Bucalossi (1977), si può ora utilizzare nella spesa corrente per qualsiasi finalità. Ai sacrifici richiesti ai cittadini (basti ricordare la riduzione imposta al Servizio sanitario nazionale: 418 milioni nel 2011, 1.132 milioni dal 2012 in poi) si aggiungerà dunque l´ecatombe delle nostre città, del nostro paesaggio. Le disposizioni in materia di conferenze di servizi (art. 49 della bozza), che riprendono il disegno di legge Brunetta-Calderoli sulla cosiddetta "semplificazione della pubblica amministrazione", vanificano gli argini posti dal Codice dei Beni Culturali. Secondo la nuova norma, ogni volta che il Codice richiede l´autorizzazione di interventi edilizi che incidano sul paesaggio, «il Soprintendente si esprime in via definitiva in sede di conferenza di servizi in ordine a tutti i provvedimenti di sua competenza»; la sua eventuale assenza dalla conferenza dei servizi equivale al pieno consenso del Soprintendente.
Viene in tal modo riesumato e radicalizzato il principio del silenzio-assenso, un istituto che sin dalla legge 241 del 1990 non può applicarsi «agli atti e procedimenti riguardanti il patrimonio culturale e paesaggistico», come ribadito più volte, dalla legge 537 del 1993 alla legge 80 del 2005 (governo Berlusconi). Invano il ministero dei Beni Culturali, che aveva ottenuto la soppressione di analoghe norme almeno due volte (nella Finanziaria 2008 e nell´abortito decreto-legge sul "piano casa"), ha richiamato il governo al rispetto della legge. Ma la tutela del paesaggio imposta dall´art. 9 della Costituzione richiede che, in una materia così sensibile, il previsto giudizio di compatibilità degli interventi edilizi con il valore culturale del bene venga formulato espressamente e dopo attenta valutazione: il silenzio o l´inerzia non può in alcun modo sostituire l´attivo esercizio della tutela, che l´art. 9 della Costituzione pone fra i principi fondamentali dello Stato. Lo ha espressamente dichiarato la Corte Costituzionale in almeno cinque sentenze: in questa materia «il silenzio dell´Amministrazione preposta non può avere valore di assenso» (sentenza nr. 404 del 1997). Il silenzio-assenso, nato per tutelare il cittadino contro l´inerzia della pubblica amministrazione, non può diventare un trucco per eludere la legge col sigillo di una norma anticostituzionale.
Ma c´è di peggio, e lo ha ben visto Eugenio Scalfari (Repubblica, 30 maggio), che ha lucidamente disegnato la «prospettiva raccapricciante» di un´Italia a due velocità: «Federalismo al Nord e accentuazione del centralismo statale al Sud». La "manovra Tremonti" è anche troppo esplicita: prevede (art. 43 della bozza) che «nel Meridione d´Italia possono essere istituite zone a burocrazia zero». Burocrazia zero significa che per tutte le nuove «iniziative produttive» (non meglio definite) ogni procedimento amministrativo di qualsiasi natura viene «adottato esclusivamente dal Prefetto ovvero dal Commissario di Governo», e diventa operativo dopo 30 giorni. Non senza raccapriccio, immaginiamo dunque, domani o dopodomani, un´Italia con il Nord governato dalla Lega e il Sud dai gauleiter della Lega.
Sotto la maschera bugiarda di un federalismo democratico, nuove forme di centralismo spuntano per ogni dove. Definanziando decine di istituti culturali (cito fra gli altri la gloriosa Scuola archeologica di Atene, a Napoli l´Istituto Croce e quello di Studi Filosofici, e così via), la manovra Tremonti sottrae ogni possibile finanziamento futuro di queste istituzioni al ministero dei Beni Culturali, e ne sposta la responsabilità alle Finanze e a Palazzo Chigi: una forma di commissariamento che espande ed esaspera, per contrappasso, quello che i Beni Culturali hanno fatto, dando Pompei a un commissario della Protezione Civile senza la minima competenza archeologica. Le centinaia di pensionamenti dell´alta burocrazia ministeriale, propiziati se non imposti dalla stretta pensionistica della manovra, decapitando numerosi uffici in tutto il Paese, favoriranno inevitabilmente un continuo ridisegnarsi delle competenze, in cui il diktat del ministero delle Finanze avrà sempre più peso, e agli altri ministri non resterà che rassegnarsi al silenzio-assenso.
Se tutto questo fosse fatto, come vuole la party line diffusa anche in quella che fu la sinistra, per contrastare la crisi e avviare la ripresa, potremmo provare a farcene una ragione. Ma incombe su questa interpretazione più d´un sospetto. Perché la devastazione del paesaggio e l´offesa alla Costituzione dovrebbero alleviare la crisi economica? Che cosa guadagna in coesione e in forza economica il Paese col "commissariare" l´intero Sud, riducendolo a una colonia a "burocrazia zero", cioè governata dai prefetti? Perché, se le casse sono vuote al punto da dover ridurre i finanziamenti alla sanità (mettendo in forse il diritto alla salute garantito dall´art. 32 della Costituzione), dovremmo ostinarci a voler costruire il ponte sullo Stretto? Il «tesoretto di Giulio», come qualche leghista ha affettuosamente chiamato i risparmi che la manovra dovrebbe mettere da parte, non servirà proprio a promuovere un federalismo i cui costi nessuno si attarda a calcolare? Lo smontaggio dello Stato serve ad assicurare la stabilità della moneta e il benessere dei cittadini, o ad accelerare la disgregazione del Paese voluta dalla Lega e dai suoi complici d´ogni colore, a velocizzare il saccheggio del territorio e la spartizione del bottino?

Repubblica 31.5.10
Roberta Einaudi, editrice e nipote di Giulio: ecco perché ho firmato gli appelli anti-bavaglio
"Così torniamo a un clima da fascismo"

ROMA - Roberta Einaudi, editore di "Nottetempo" e nipote di Giulio Einaudi, lei ha firmato l´appello sostenuto da Repubblica.it e quello promosso da Laterza contro la legge-bavaglio: ci spiega perché?
«Sarà banale, ma ho paura di quello che temono tutti: è gravissimo se i giornali non potranno più scrivere la verità e spiegarci i fatti. Sono senza parole. Dopo i tremendi anni del fascismo non pensavo che sarebbe successo di nuovo. Non credevo che avrei dovuto vivere un simile evento».
Cosa direbbero suo zio Giulio e suo nonno Luigi di questa legge?
«Beh, nonno Luigi mi ripeteva sempre di leggere, conoscere, ascoltare gli altri e poi ragionare col mio cervello. Era la sua fissazione. Ecco, ora il lettore non potrà più conoscere e quindi non potrà più deliberare. Allora dico: meglio lasciare una colonna in bianco, come durante il fascismo».
Ad essere colpiti non saranno solo giornali e lettori, ma anche i magistrati che non potranno più usare le intercettazioni come prima...
«Come possono pensare di portare avanti le indagini azzoppando le intercettazioni? È una legge idiota. Mi piacerebbe pensare che si tratta solo di ingenuità, ma purtroppo queste non sono persone ingenue. Hanno un interesse ben preciso».
(a.d´a)

l’Unità 31.5.10
Le navi della pace verso Gaza
«Israele non può fermarci»
Le sei imbarcazioni partite da Cipro, attese oggi davanti alle coste della Striscia
A bordo 10mila tonnellate di aiuti e attivisti di 50 Stati. La Difesa israeliana: li bloccheremo
di Umberto De Giovannangeli

In rotta verso Gaza. Malgrado le minacce. «Freedom Flotilla», il convoglio di 6 navi che vuole rompere l’assedio di Gaza sfidando il blocco delle forze armate israeliane, ha raggiunto ieri le coste libanesi.

«Siamo partiti da Cipro dice Greta Berlin, la portavoce di Free Gaza, uno degli organizzatori poco dopo le 16. La Marina israeliana blocca una zona a circa 20 miglia nautiche dalla costa di Gaza, dove noi contiamo di arrivare nella tarda mattinata o all’inizio del pomeriggio di domani (oggi per chi legge,
ndr)». Le navi trasportano circa 10.000 tonnellate di aiuti, materiali da costruzione, case prefabbricate (100) per chi è rimasto senza tetto dopo l’operazione Piombo Fuso del 2008-2009, medicine e apparecchiature mediche, 500 carrozzelle elettriche, depuratori per l’acqua, impianti fotovoltaici, generatori, materiale per la scuola e altri beni fondamentali per la popolazione della Striscia.
ULTIMO TRATTO
Le autorità politiche e militari dello Stato ebraico hanno ribadito che non permetteranno per nessun motivo l’attracco delle navi a Gaza. Hanin Zuabi, un membro del Parlamento israeliano che si trova a bordo della flotta, ha dichiarato che gli attivi-
sti intendono raggiungere la Striscia indipendentemente dai piani per fermarli. «Se gli israeliani cercano di fermarci, scoppierà un’enorme crisi diplomatica e politica», dice Zuabi. «Abbiamo 50 Stati che partecipano a questo progetto e che stanno lanciando un messaggio molto chiaro ad Israele, cioè che la comunità internazionale non accetta l’assedio a Gaza». «Il messaggio d’Israele è stato chiaro: vi fermeremo. Nessuno può impedirci di farlo», gli fa eco Huwaida Arraf, presidente del Free Gaza Movement . Tuttavia, aggiunge Arraf, «migliaia di persone hanno contribuito a far diventare questa flotta una realtà e la popolazione di Gaza ci sta aspettando».
Fonti del ministero della Difesa a Tel Aviv hanno però fatto sapere che le imbarcazioni della Flotilla saranno in ogni caso dirottate nel porto israeliano di Ashood. Tutti i passeggeri saranno smistati in enormi tendoni, allestiti lungo la costa meridionale, dove verranno identificati e, se necessario, sottoposti a cure mediche. Chiunque rifiuterà questo trattamento, verrà arrestato e condotto nelle carceri israeliane. Gli attivisti rischiano l’arresto, l’espulsione e la confisca del cargo, ripete in serata un portavoce di Tsahal. «Contiamo di raggiungere Gaza, non ci fermiamo e non ci fermeremo se ce lo ordineranno. Non opporremo resistenza fisica, ma ci dovranno speronare», ribatte Audrey Bomse, portavoce della Free Gaza organization. «L’unico scenario che ha qualche senso per gli israeliani è smetterla una volta per tutte di fare i “bulli” del Medio Oriente e lasciarci passare», insiste Greta Berlin. «Trascinare le navi nel porto di Ashdod costituirebbe un clamoroso autogol per il governo israeliano, dal momento che sulle navi sono presenti anche personalità arabe di nazionalità israeliana e attivisti della sinistra israeliana, pronti a smascherare la pirateria dei loro militari non appena venissero costretti a sbarcare nel proprio Paese», osserva Hani al-Masri, analista politico palestinese.
LINEA DURA
La risposta non si fa attendere. Ed è durissima. «Non permetteremo che venga violata la nostra sovranità», avverte il ministro degli Esteri israeliano, Avigdor Lieberman, che annuncia di aver comunicato agli ambasciatori di Turchia, Cipro, Irlanda e Grecia (le navi della Freedom Flotilla battono bandiera di questi Paesi) che l’arrivo a Gaza delle navi, con circa settecento persone di 40 nazionalità a bordo, infrangerebbe le leggi internazionali, poiché Israele «ha emesso delle ordinanze che proibiscono l’entrata di navi a Gaza». «Questi attivisti si definiscono difensori dei diritti umani, ma restano in silenzio quando a essere bersagliati sono i civili israeliani o quando il regime di Hamas a Gaza compie brutalità contro gli oppositori», dice il portavoce del governo israeliano.

l’Unità 31.5.10
I cinquant’anni della rivoluzione in una pillola
Maggio 1960 Negli Usa parte la somministrazione della COCP
Gli effetti Ha contribuito a restituire alle donne la gestione del loro corpo
Nel maggio 1960 la Food&Drug Administration degli Usa approva l’utilizzo di una «combined oral contraceptive pill» (Cocp), che diventerà presto nota come la «pillola contaccettiva» o, più semplicemente, la Pillola.
di Pietro Greco

Non è il caso di fermarsi più di tanto sui meccanismi di funzionamento, ormai ben noti, di questo nuovo farmaco, messo a punto dal chimico Carl Djerassi nel 1951 e sperimentato clinicamente dai medici John Rock, Celso-Ramon Garcia e Gregory Pincus nel 1954. Conviene fermarsi sui suoi effetti sociali e cul-
turali: enormi e, ancora oggi, niente affatto esauriti.
E già perché la pillola, assunta quotidianamente dalle donne, inibisce l’ovulazione. E, dunque, le gravidanze indesiderate. Costa poco, è facile da assumere e ha un’elevatissima efficacia. È grazie a questo combinato disposto di caratteristiche che la COCP ha un immediato e clamoroso successo: nel 1961 negli Usa la assumono già 400.000 donne; 1,2 milioni nel 1962; oltre 3,5 milioni nel 1963. Oggi in tutto il mondo la assumono oltre 100 milioni di donne.
L’impatto sulla società è stato ed è tuttora) tale che dieci anni fa la rivista inglese The Economist l’ha eletta a scoperta scientifica più importante del XX secolo. Sia perché la Pillola ha contribuito al controllo delle nascite e alla drastica riduzione del numero di figli per donna prima nei paesi occidentali e poi in molti paesi in via di sviluppo; sia perché ha consentito la separazione tra sesso e riproduzione, fornendo un contributo decisivo a quella che è stata definita la «rivoluzione sessuale»; sia perché ha contribuito a modificare il ruolo che ha la donna nella società e, quindi, ad accelerare quella che molti considerano la più grande rivoluzione sociale del XX secolo: la rivoluzione femminile.
GLI «AVVERSARI»
Un elemento, in particolare, va tenuto in considerazione. La Pillola ha contribuito direttamente e come metafora a restituire alle donne la gestione del proprio corpo, compreso il sistema riproduttivo. E, dunque, ha contribuito all’affermazione di nuovi diritti per tutti, fondati sulla libertà e la responsabilità individuale. «Il corpo è mio e lo gestisco io» è diventata l’idea su cui sono stati ricostruiti i rapporti tra medicina e società e, forse, su diritto e società. Una simile carica dirompente non poteva non suscitare reazioni. Se per alcuni la Pillola è diventata il simbolo di libertà e responsabilità individuale, per altri è diventata il simbolo stesso del male e di quel suo succedaneo che è la società multietica. In breve, è stata avversata da più parti. In primo luogo dai vertici della Chiesa cattolica. La Pillola, si diceva, porterà alla dissoluzione della famiglia e dunque della società. Non è avvenuto. Si è anche cercato di dimostrare che la Pillola ha pesanti effetti collaterali sulla salute delle donne. Proprio quest’anno uno studio condotto per quattro decenni su 46.000 donne ha dimostrato non solo che la Pillola non fa male, ma che le donne che l’assumono vivono in media di più, per loro si riducono i rischi di morire prematuramente per tutte le cause di morte, incluso cancro e malattie cardiovascolari.
Se i cinquant’anni della Pillola sono una plastica dimostrazione degli effetti profondi tra scienza, innovazione tecnologica e società nell’era della conoscenza, non devono indurre ad alcun trionfalismo. La rivoluzione femminile, che ha subito un’accelerazione anche grazie alla Pillola, è ancora largamente incompiuta.

l’Unità 31.5.10
CGIL verso lo sciopero generale
2 giugno: in difesa della Costituzione
Una manovra che divide l’Italia

La CGIL non è contraria in astratto alle manovre correttive. La situazione è grave e densa di incognite ed è necessario intervenire sui conti pubblici. Non lo si può fare, però, mettendo di nuovo le mani in tasca ai soliti noti e costruendo una manovra esclusivamente di tagli e senza alcun intervento in termini di investimenti. Questo, il giudizio della CGIL sulla manovra di Tremonti. Una posizione ribadita dal segretario generale Guglielmo Epifani, che ha lanciato nuovi messaggi di mobilitazione e proposte di politiche economiche alternative. Per quanto riguarda le iniziative di lotta, Epifani ha annunciato che durante il prossimo comitato direttivo della confederazione, che si terrà il 7, l’8 e il 9 giugno, la segreteria proporrà uno sciopero generale da tenersi entro la fine dello stesso mese (“con manifestazioni articolate su base territoriale”). Ma prima dello sciopero, sabato 12 giugno a Roma si terrà una manifestazione nazionale di tutto il mondo del lavoro pubblico. “Obiettivo della protesta – ha detto il leader di corso d’Italia – è quello di cambiare i contenuti della manovra”. “I dipendenti pubblici sono di-
sponibili ai sacrifici, ma questi non possono ricadere solo su di loro. Abbiamo letto il testo della manovra e confermiamo il nostro giudizio: c’è bisogno di una correzione dei conti pubblici, la CGIL dice sì, ma non trova nelle scelte di questa manovra la risposta a tale correzione. È un provvedimento che divide l’Italia. Siamo l’unico paese in Europa in cui la parte più benestante non viene toccata dai tagli. Zapatero ha annunciato un intervento di 5 miliardi sui redditi più alti, Cameron penalizza le banche, mentre la Merkel prevede nuove tasse per trovare ulteriori risorse. Da noi i sacrifici si concentrano unicamente sui lavoratori pubblici, in parte su quelli privati e sui tagli agli enti locali. Non c’è traccia di nessuna riforma di alcun tipo, tutti i provvedimenti sulle pensioni sono un pasticcio, iniqui e non affrontano il vero problema, che è la previdenza dei giovani”.
Secondo Epifani, nella manovra “non c’è nessun sostegno agli investimenti e all’occupazione, anzi con il taglio delle risorse alla ricerca si impoverisce un settore fondamentale. Per questo, chiediamo alle forze politiche, al Parlamento e al governo di cambiare i contenuti della manovra. Presenteremo noi stessi, e vedremo anche se è possibile con Cisl e Uil, degli emendamenti per sostenere l’obiettivo del cambiamento”. Tra le proposte della CGIL, c’è quella d’inserire una tassa di solidarietà per i redditi superiori ai 150 mila euro, per liberare risorse da destinare al futuro dei giovani. La seconda proposta è quella di ripristinare l’Ici per i redditi da 90-100 mila euro. Infine, Epifani propone di alzare la tassazione dello scudo fiscale dal 5 al 7 per cento. Sono due, comunque, gli obiettivi immediati della CGIL: da un lato, la richiesta di modificare la manovra finanziaria e, dall’altro, la necessità di fermare la riduzione dei diritti dei lavoratori, come sta avvenendo con le nuove norme sull’arbitrato.

Repubblica 31.5.10
Dovetti parlare in tv
"In quella notte terribile delle bombe vuoto politico e democrazia debole"
Scalfaro: temo che non sapremo mai la verità sugli attentati
di Vittorio Ragone

Non vedo volontà politiche univoche per una commissione d´inchiesta che faccia piena luce
Nei miei confronti venne montato uno scandalo vergognoso e dovetti parlare in tv al popolo italiano

ROMA - Presidente Scalfaro, lei era Capo dello Stato nel ´93. Se la ricorda la notte fra il 27 e il 28 luglio? Le bombe a via Palestro a Milano, poi a San Giovanni e al Velabro a Roma? Le prime reazioni, le linee telefoniche interrotte, l´ombra di un golpe?
«Non nitidamente come si potrebbe pensare. Ricordo la telefonata con il presidente Ciampi: ero a casa con mia figlia Marianna, vennero a bussare alla porta a notte fonda l´allora segretario generale al Quirinale Gaetano Gifuni e il capo della sicurezza, il prefetto Iannelli. Il telefono non ci aveva svegliati. E ricordo bene la riunione del mattino dopo, quando convocai il capo della polizia, il prefetto Parisi, e i responsabili dei carabinieri e dei servizi»
Quali piste furono seguite all´inizio? La mafia? I servizi stranieri? 007 italiani infedeli? Ci si interrogò sulla regia o sulla "manona" che poteva aver diretto le stragi?
«Formulammo delle ipotesi, tutte queste ipotesi, così come logica vuole davanti a eventi di natura straordinaria. E ordinammo alle persone preposte all´intelligence e alle indagini di raccogliere elementi sufficienti a orientarci in modo convincente. Il prefetto Parisi aveva ricevuto - e teneva in grande conto - una segnalazione del Mossad secondo la quale nel mondo della destra estrema c´era una forte spinta a destabilizzare la situazione italiana, puntando anche alle dimissioni del capo dello Stato. Un anno prima c´erano state le stragi di Falcone, Borsellino e delle scorte, e due mesi prima un´altra autobomba ai Georgofili a Firenze. Cercavamo un filo, una logica che spiegasse questa catena di eventi».
A ripensarci oggi la sequenza di quei giorni oltre che brutale è impressionante: si vede un paese martellato sotto colpi militari e divisioni politiche, lì lì per crollare.
«Furono mesi di preoccupazioni gravi e costanti. La situazione politica era di inquietudine, gravi questioni sociali premevano, la cosiddetta Tangentopoli era in pieno corso; tutti questi fattori creavano tensione nella popolazione. Il mio cruccio in quelle settimane era che - tra una manifestazione sindacale più agitata delle altre e un sit in contro il terrorismo o la mafia - ci potesse scappare l´episodio di violenza; che la piazza cambiasse natura, e che gli eventi degenerassero».
C´è chi parla di una regia più raffinata, un´entità che cuciva insieme una nuova strategia della tensione.
«Il vuoto politico, un vuoto politico come quello che le stavo descrivendo, è la condizione di maggiore debolezza di una democrazia. Sarebbe difficile reggere, per qualsiasi paese. È chiaro che chiunque avesse voluto destabilizzare avrebbe trovato terreno fertile. La mafia? I terroristi? Qualche matto dentro gli apparati dello stato? O tutte e tre le cose insieme? Io credo che sia una risposta difficile da dare. La magistratura avviò indagini in varie direzioni. Abbiamo atteso a lungo qualche elemento che spiegasse fatti, moventi, concatenazioni. Ma devo dire che abbiamo atteso invano. Confesso che anche le prime affermazioni del procuratore Antimafia Pietro Grasso in questi giorni mi avevano lasciato perplesso. Chi ha i poteri per investigare investighi. Ho visto che successivamente ha chiarito in maniera soddisfacente il senso delle sue parole...»
Crede che si possa arrivare oggi alla verità?
«Non bastano le certezze morali per attestare una verità. Occorrono risposte documentate, sentenze, verifiche. E devo dire che quasi non spero più che arriveremo a capire. Soprattutto perché non vedo intorno volontà politiche univoche. Il Parlamento sarebbe in grado di condurre un´autentica inchiesta su quei mesi terribili, senza utilizzarla come pretesto per spararsi addosso, da una parte e dall´altra? Condivido gli appelli alla ricerca della verità, ma osservo una realtà politica che fa acqua da tutte le parti».
Eppure, presidente, lei fu direttamente toccato da quelle vicende. Subito dopo le stragi cominciarono le voci, poi la campagna della destra sui fondi neri del Sisde, sugli ex ministri dell´Interno e su di lei che - fu detto e scritto - li aveva usati in maniera indebita.
«Me le ricordo quelle accuse, particolarmente gravi e strumentali, e poi naturalmente mai dimostrate: che io avessi destinato i fondi neri a disposizione del ministro, non soggetti a rendicontazione, per scopi diversi da quelli previsti. Fu un´azione banditesca: in Piemonte certi individui si recarono nei conventi di clausura a chiedere se il presidente Scalfaro avesse finanziato lavori di ristrutturazione o qualsiasi altro tipo di intervento. Mi difesi pubblicamente. Sfidai chiunque a produrre la prova che anche una sola lira avesse avuto destinazione diversa da quelle legittime. In novembre parlai in televisione, davanti al popolo italiano... «
Il famoso "Non ci sto".
«Dissi: "Prima si è tentato con le bombe, ora con il più vergognoso e ignobile degli scandali. Ma occorre rimanere saldi e sereni"».
E perché, pur toccato direttamente, è così restio a ipotizzare zone grigie e regie uniche?
«Perché nonostante tutto quel che abbiamo rievocato, e nonostante anche Parisi mi dicesse che io stesso ero l´obiettivo d´una manovra più vasta, continuo a pensare che sia compito della magistratura e degli apparati investigativi darci una verità definitiva. E che sia compito di noi tutti mantenere misura e sangue freddo fino a quando questa verità sarà accertata».

Repubblica 31.5.10
L’uomo e l’animale
Il grande enigma delle metamorfosi
di Massimo Cacciari

In modo diverso, ogni epoca e ogni civiltà hanno raffigurato nelle bestie la grandezza e la miseria degli esseri umani. Da Dante a Nietzsche
Tra i bestiari antichi il più celebre è quello che troviamo nella "Divina Commedia" La varietà è impressionante, quanto a realismo e simbolismo
In "Zarathustra" sono presenti l´istinto punitivo della tarantola, l´ingordigia delle mosche e la trasformazione dello spirito in cammello
L´immagine del Leviatano, mostro biblico, campeggia nel grandioso frontespizio barocco dell’opera omonima di Thomas Hobbes

Con questo intervento ha chiuso giovedì 27 il ciclo "Animalia" all´Università di Bologna
ome l´uomo ha "finto" a propria immagine gli dèi, così ha "finto" anche gli animali. Antropomorfizzare l´altro sembra essere costitutivo della sua essenza. L´altro tende sempre ad apparirgli non come essere che gli si dà, che gli si manifesta da un "fondo" tanto meraviglioso quanto, alla fine, misterioso, ma come non-Io, e cioè come prodotto dell´Io. L´animale è "a disposizione" della ricerca che l´Io compie per conoscere se stesso; e così anche il dio può trasformarsi nell´idolo che l´uomo si fa per soddisfare la propria volontà di sapere e potere. Così l´Io cerca di addomesticare animale e dèi - per quanto la loro natura, il loro originario essere per sé, debba finire sempre per travolgere quel tentativo. Vi saranno infinite specie di animali e forme del divino dopo che questo uomo scomparirà - oltre l´uomo.
In modo diverso, ogni epoca e ogni civiltà hanno "immaginato" nell´animale la loro grandezza come la loro miseria. E, ancora più, hanno associato all´animale i propri dèi, proprio perché si è sempre avvertito che animale e dio formano insieme quell´Altro che si vorrebbe, appunto, ridurre a nostro "prodotto". Le metamorfosi dell´animale divino vanno dalla terranea potenza del toro, che si accompagna alla serpe degli dèi di sotterra, al volo irrefrenabilmente libero dell´aquila, fino alle angeliche farfalle, creatura di luce, del Paradiso. Vi sono poi gli animali-messaggero che accompagnano l´anima, a volte di buona, a volte di cattiva razza, come i cavalli di Platone. Le immagini tornano per l´animale umano, ma come impoverite; l´aria del mondo sublunare corrode anche loro. L´uomo si riflette con timore e tremore sul volto dell´animale. Il rapporto era un simbolo nel mondo divino. Qui diviene, invece, una relazione altamente pericolosa. La mente sovrana del dio poteva sempre "avere la meglio" sulla "natura" dell´animale; la vittoria non è affatto scontata per l´uomo. In ogni momento egli può soccombere all´essere animale; e vincere questa possibilità è per lui davvero un super-vincere, poiché egli, a differenza del dio, è sempre, comunque, "anche" animale, e sempre lo resterà. Così la sua immagine è essenzialmente metamorfosi; la sua immagine può essere descritta, cioè, come sempre in movimento tra l´uccello-angelo, l´uccello dell´anima che "sale" a "indiarsi", a farsi-uno col dio, e l´infimo degli animali.
Tra i grandi "bestiari" che descrivono questo metamorfizzarsi instancabile dell´Io incomparabilmente il più grande è quello che troviamo nella Comedìa dantesca. La varietà delle figure è impressionante, quanto il realismo che incarna ogni simbolismo. Par di vedere e toccare quei porci, quei botoli, quei cani che si trasformano in lupi, quelle volpi che abitano "la maledetta e sventurata fossa" della valle dell´Arno! I vizi, come le virtù, divengono nel linguaggio di Dante carne e sangue, nervi e ossa. Ma la bestia non è soltanto lonza-leone-lupo, i peccati, nella loro "logica" connessione, che lottano per impedire al pellegrino di compiere il suo itinerario in deum; né è soltanto il "bruto" che non vuole esperire e conoscere (il bruto non è, in questo caso, nient´affatto la bestia, bensì colui che Ulisse inganna, che non sa opporsi alla frode dell´eroe). Vi sono, pur sempre nel mondo del peccato, anche le colombe di Francesca. Anche il timbro dell´amore cortese, amore che seduce ed è necessario oltrepassare per quanto ciò costi fatica quasi sovrumana, può avere la voce dell´animale.
Se dovessi citare un altro "bestiario", all´altro polo della nostra civiltà, così da disegnare un arco chiuso nel nostro discorso, parlerei dello Zarathustra di Nietzsche. Anche in quest´opera l´animale è sostanzialmente scandalo, ostacolo all´Itinerario verso l´Oltre-uomo. È l´invidia, la gelosia, l´istinto di punire della tarantola; è l´ingordigia delle mosche velenose che tormentano il solitario. Ma appare anche nelle prime due metamorfosi: quella dello spirito in cammello capace di portare i pesi più gravosi (è in questo labor che lo spirito inizia a comprendere la propria potenza), e quella del cammello in leone (è qui che lo spirito afferma il proprio volere, anzi: il proprio voler essere tutti i valori). Ma l´ultima metamorfosi è quella del leone in Puer, nel Fanciullo che non è "caricato" di passato, di rimpianti, di sensi di colpa - insomma, nell´infanzia innocente, che crea senza sapere, che fa senza fare. L´animale appare perciò come la "via" che ci conduce all´immagine dell´infanzia e del Gioco, che ci libera dal "primato" del Logos, del Discorso, del Progetto. Capovolgimento del "bestiario" dantesco? Sì, certo - ma anche l´ascesi dantesca finisce nell´attonito silenzio che supera ogni fantasia - e di fronte al balenare dell´immagine, nel cuore del Mistero, proprio del Figlio.
Ma è senza dubbio nel campo della contesa, della lotta politica che il ricorso al linguaggio della metamorfosi e all´"uso" dell´animale hanno trovato il più rigoglioso sviluppo. L´eterno scontro tra sovrani e sudditi, potenti e miseri, la denuncia della tirannide come della degenerazione dei regimi democratici in oclocrazia, tutto ciò ha alimentato nei secoli il linguaggio dell´uomo "animale politico". In questo contesto, tuttavia, l´immagine più forte, e più inquietante per noi, non è quella di un animale, anche se di un animale porta il nome. È l´animale creato dal Signore all´origine, dotato di una potenza che a nulla sulla terra può essere comparata. «Non est potestas super terram quae comparetur», così il Signore presenta a Giobbe il Leviatano nella sua rivelazione finale. A questo immenso animale, così immenso da non riuscire neppure a "porlo" in una immagine, abbiamo tuttavia dato figura - umana. Essa campeggia nel grandioso frontespizio barocco della opera omonima di Thomas Hobbes. Sul margine alto l´inequivocabile rimando al mostro biblico; subito sotto, dalle alture di un paesaggio ben coltivato, emerge, come un sole, un gigante coronato, che tiene in pugno i simboli della potestas politica e dell´auctoritas spirituale, e il cui corpo è formato dall´ordinata moltitudine degli individui. Questa moltitudine compone tale Corpo. Esso non sarebbe che un vuoto fantasma senza la loro presenza. Ma, ad un tempo, questa moltitudine non sarebbe una, bensì molteplicità vagante, senza i sicuri confini che quel Corpo detta.
Ma Leviatano è il suo vero nome. E finalmente ci potremo cibare della sua carne nel giorno del Giudizio. Ce ne potremo liberare. Il mostro ci è forse ora necessario - tuttavia, tale rimane, e noi attendiamo l´Ultimo Giorno proprio per poterlo sacrificare. Così in quel Giorno potremo non dover più ricorrere all´animale per rappresentare noi stessi, ovvero: per nasconderci a noi stessi - potremo cercare senza finzioni quell´altro che siamo e, insieme, incontrare quell´altro che l´animale è, quel "sereno animale" di cui Rilke ha cantato, la cui casa, la terra, noi abbiamo trasformato nel suo inferno

domenica 30 maggio 2010

striscia rossa 29.5.10
Ciò che tutti noi vorremmo è una disobbedienza civile di massa. Ma questa non può essere forzata, deve essere spontanea per meritarsi tale nome edavere successo
Mahatma Gandhi

striscia rossa 30.5.10
Non è grave il clamore chiassoso dei violenti, bensì il silenzio spaventoso delle persone
Martin Luther King

Obiezione di coscienza
(immagine: NO)

l’Unità 30.5.10
Disubbidire subito
di Giovanni Maria Bellu

In Gran Bretagna, la perfida Albione, come direbbe il nostro Duce, succedono cose incredibili. Si scopre che un viceministro ha messo nella nota spese l’affitto di una casa dove non abita e scoppia uno scandalo colossale. Tanto che il poveretto deve scusarsi davanti alla nazione, giurare che rimborserà le casse pubbliche fino all’ultima sterlina e avviarsi a capo chino verso la Commissione Etica del Parlamento.
È davvero singolare che un popolo che ha la parola “privacy” nel suo vocabolario la tenga in minor considerazione di noi che abbiano solo quei desueti “privatezza” e “riservatezza”. Eppure è proprio così: solo qua, nel felice regno di Berlusconia , la privacy è davvero sacra. Per dire: due terzi dei parlamentari non giustifica in alcun modo l’utilizzo dei 4000 euro (al mese e a cranio) destinati alla retribuzione degli assistenti e nessuno ci fa caso. Anche se il danno erariale è di 20 milioni di euro e non di 40.000 miserabili sterline.
Ma, dobbiamo riconoscerlo, sopravvive anche tra noi una minoranza di moralisti che si scandalizza se un ministro riceve in regalo un appartamento da un imprenditore che lavora per il suo ministero, o se un presidente del Consiglio va a puttane, o se uno dei suoi principali collaboratori è anche collaboratore part time di Cosa Nostra. Durerà poco. La maggioranza del nostro Parlamento che annovera alcune delle più autorevoli vittime di questo residuale ma feroce giustizialismo comunista sta per risolvere definitivamente il problema. Tra l’altro con garbo e delicatezza. Noi giornalisti (e a dire il vero anche i nostri familiari) abbiamo appreso con sollievo che non finiremo in galera, come annunciato in un primo tempo, ma semplicemente sulla strada per le sanzioni economiche inflitte agli editori, se incorreremo in quella forma di violazione della privacy che si sostanzia nel dare le notizie. E i magistrati, sempre al contrario di quanto comunicato in un primo tempo, potranno proseguire le intercettazioni telefoniche anche oltre i 75 giorni se stanno cercando un latitante. Decisione che, al dire il vero, un po’ viola la privacy di Osama Bin Laden e Matteo Messina Denaro, ma non si può avere tutto dalla vita.
In più per noi giornalisti è previsto l’aggiornamento professionale gratuito attraverso una serie di esercitazioni che affineranno la nostra padronanza della lingua italiana. Come il “riassunto degli atti giudiziari”. Se ci troveremo davanti a uno di quei giganteschi incartamenti di migliaia di pagine nei quali i magistrati giustizialisti raccolgono le loro accuse, magari per sostenere che un certo uomo politico, chissà anche un presidente del Consiglio, va rinviato a giudizio, non dovremmo più fare la fatica di descriverne il contenuto nel modo più chiaro e onesto possibile, come faticosamente facciamo oggi, ma dovremmo limitarci a riassumerne il senso. In poche parole. Ma quali? “Presunto delinquente” va bene?
Stiamo suscitando nel mondo civile un sentimento che oscilla tra la compassione e la paura. Ci consola e ci rafforza il sostegno dei colleghi delle principali democrazie occidentali. Disubbidiremo subito.

Repubblica 30.5.10
Sit-in in molte città per fermare la legge-bavaglio
ROMA - Mobilitazione in tutta Italia contro la legge-bavaglio sulle intercettazioni. Ieri si sono svolte manifestazioni sponsorizzate dal Popolo Viola. Migliaia di persone in piazza a Milano, Torino, Udine, Bologna, Cagliari, Napoli, Salerno e Cagliari. Anche a Londra il popolo della Rete ha radunato i suoi davanti alla sede della Bbc. In settimana proteste e presidi andranno avanti. Tra le altre iniziative quella di editori e librai con una serie di letture. Parteciperanno anche Camilleri, Sartori, Travaglio, Rodotà, Augias, Pace e Carofiglio.

Corriere della Sera 30.5.10
Gli enti culturali pronti alla piazza
di Antonio Carioti

Corriere della Sera 29.5.10
Niente trapianti ai disabili mentali
Accuse al Veneto
di Margherita de Bac

Corriere della Sera 29.5.10
Un rene è un diritto, l’intelligenza non c’entra
di Giuseppe Remuzzi

Repubblica 30.5.10
La nostra giustizia e quella di Dio
di Adriano Prosperi

Monsignor Charles J. Scicluna ha il titolo di «promotore di giustizia» presso la Congregazione per la dottrina della fede. In termini di giustizia laica è il pubblico ministero.
In quanto tale ha il compito di trattare i «delicta graviora», cioè quelli dei sacerdoti colpevoli di pedofilia e di uso della confessione per indurre penitenti a rapporti sessuali. In questa veste ha raccontato di aver esaminato circa 9.000 casi di religiosi accusati di quei crimini (in una intervista al quotidiano «Avvenire» del 13 marzo scorso). Lo ha fatto nel corso di procedure segrete, sulla base delle norme canoniche.
Il dilagare della questione dei pedofili sulla stampa mondiale e nei tribunali laici ha spinto il «promotore di giustizia» ad assumere una nuova veste, quella di pubblico e spietato accusatore dei preti pedofili. La voce che è risuonata in San Pietro è stata l´arringa del pubblico ministero che chiede la condanna più dura. Quella chiesta ieri da Scicluna è una condanna a morte eterna: secondo lui sui colpevoli grava la minaccia dell´Inferno, dell´eterna dannazione. Ma non può sfuggire il fatto che questa retorica giudiziaria di accusatore dei delinquenti svolge la funzione di coprire le responsabilità dell´istituzione.
Scicluna è il difensore d´ufficio dell´autorità ecclesiastica in generale e di quella della Congregazione in particolare. Tanto più forte l´accusa di quelli quanto più netta la difesa di questa. Non è la prima volta che vediamo ricorrere a un doppio registro di questo genere: già ai tempi del rito della «purificazione della memoria» di papa Wojtyla, le colpe del passato di cui chiedere perdono erano state quelle di singoli cristiani restando santa la Chiesa con i suoi pontefici. Quanto alla minaccia dell´Inferno proferita ieri da monsignor Scicluna, si può immaginare il tormento di un uomo di Chiesa mentre pronuncia una sentenza del genere.
Tuttavia resta il fatto che quella pur tremenda sentenza rimanda ad altro e remoto giudizio, diverso da quelli terreni, un giudizio del quale ognuno è libero di pensare quel che vuole. Da molto tempo l´immagine dell´Inferno come luogo di perenne sofferenza oltre la morte è entrata in crisi anche tra i cristiani, come ha dimostrato la ricerca dello storico inglese D. P. Walker. Declino irreversibile. Da secoli si è andata diffondendo sempre più la convinzione che il vero inferno è qui tra gli uomini, sulla terra. E contemporaneamente si è affermata la distinzione fondamentale della giustizia moderna: quella tra reato e peccato: una distinzione che è all´origine delle legislazioni e delle culture moderne. Il peccato riguarda la coscienza del credente e può essere trattato nel segreto della confessione. Il reato riguarda la giustizia. Per i crimini c´è il codice penale, c´è l´obbligo della denunzia da parte di chi ne è a conoscenza.
Nei riti segreti della Congregazione vaticana questa distinzione fondamentale per ora non si è affermata. Nell´intervista già citata il monsignore ammetteva che nei paesi di cultura anglosassone e in Francia i vescovi a conoscenza di quel tipo di reati sono obbligati a denunziarli all´autorità giudiziaria. In Italia no, perché qui la legge dello stato non lo impone: e in questi casi le autorità della Congregazione vaticana non obbligano i vescovi a denunciare i propri sacerdoti. Ecco il problema che gli anatemi di questi giorni non riescono a nascondere. Un problema per noi cittadini, per lo stato italiano colpevole di tollerare nel suo sistema giudiziario infrazioni come questa al principio dell´uguaglianza davanti alla legge. A noi cittadini corre l´obbligo di ricordare che lo Stato ha le sue leggi e che i suoi inferni sono le prigioni. È allo Stato che spetta obbligare per legge i vescovi e qualunque autorità ecclesiastica a denunziare delitti come questi.
Quanto alla Chiesa, anch´essa ha la sua colpa, diversa da quelle dei singoli religiosi ma non meno grave: quella della connivenza, del segreto con cui ha coperto finché ha potuto i casi dei preti pedofili. E non possiamo nascondere lo sconcerto davanti alle parole di monsignor Scicluna quando chiede la nostra comprensione per le sofferenze della Chiesa e dei vescovi nel denunziare i religiosi colpevoli: «Questi vescovi – ha detto nell´intervista a Avvenire – sono costretti a compiere un gesto paragonabile a quello compiuto da un genitore che denuncia un proprio figlio». E´ una scelta di linguaggio veramente singolare in una storia in cui ci sono veri inferni, veri e terribili dolori: e soprattutto figli veri.

Repubblica 28.5.10
Pedofilia, lo scandalo travolge i gesuiti
Prime ammissioni: in Germania l´ordine ha tenuto nascosti centinaia di casi
Crisi di credibilità per la Chiesa tedesca: in un anno registrati 125 mila fedeli in meno
di Andrea Tarquini

BERLINO Centinaia di bambini e ragazzi sono stati violentati o brutalmente percossi per decenni nelle istituzioni scolastiche dei gesuiti in Germania, e per decenni l´ordine ha sistematicamente coperto e insabbiato le denunce. Lo hanno denunciato ieri la dottoressa Ursula Raue, la studiosa incaricata dalla Chiesa stessa di indagare sullo scandalo degli abusi sessuali nelle scuole dei gesuiti, e padre Stefan Dartmann, il provinciale della Compagnia nella Repubblica federale.
Il rapporto della signora Raue rivela che l´orrore ha avuto dimensioni ancor più vaste di quanto si pensasse. E coincide con un esodo in massa dalla Chiesa cattolica in Germania: 125 mila fedeli l´hanno lasciata, un record storico che denuncia la gravissima crisi di credibilità del cattolicesimo nel paese del Papa, e lo espone anche a serie difficoltà finanziarie, con il venir meno dei contributi fiscali dei fedeli.
«È scandaloso, è una realtà che ci copre di vergogna e disonore, chiedo perdono a tutte le vittime», ha detto padre Dartmann. Ha condannato i decenni di silenzio, «frutto di una cultura di solidarietà con i colpevoli anziché con le loro vittime, una cultura non solo scelta da singole persone ma ben radicata nell´ordine, allora e, temo, ancora oggi». Dartmann non ha voluto però precisare se si pensa a indennizzi finanziari o materiali per chi subì il martirio.
«I casi accertati sono 205, ma temo che la cifra reale sia ancora più grande», ha spiegato Ursula Raue. Molte vittime, teme l´investigatrice ufficiale, probabilmente non hanno ancora trovato il coraggio di superare la vergogna e denunciare il loro caso, mentre altre potrebbero essere già morte. E secondo i media, almeno altri 50 casi sono stati accertati in istituzioni cattoliche non dipendenti dai gesuiti.
Nella sua relazione, la dottoressa Raue ha offerto testimonianze agghiaccianti. Almeno 12 sacerdoti, sei dei quali deceduti, sono colpevoli diretti; altri 32 tra religiosi e assistenti laici sono fortemente sospettati. C´era padre Eckhart, del prestigioso collegio Canisius di Berlino, che «picchiava spesso e volentieri», o padre Michael, «che amava percuotere i bimbi sul sedere nudo in presenza di altri minori, e poi controllava chi degli altri piccoli aveva un´erezione». Un altro religioso, di cui non viene fatto il nome, è accusato di aver violentato nel confessionale una bimba di 9 anni e una di 14. «Il confine tra stupro e percosse era spesso labile, spesso i padri si eccitavano picchiando i minorenni», ha spiegato Ursula Raue. La lista delle scuole religiose coinvolte è una mappa di tutto il Paese: il Canisius a Berlino, Sankt Blasien, il collegio Aloisius a Bonn, Sankt Ansgar ad Amburgo, istituzioni a Goettingen, il collegio dell´Immacolata a Bueren, in Westfalia, dice la lista parziale diffusa ieri sera da Spiegel.

il Fatto 29.5.10
Cei, azione zero sui pedofili
di Marco Politi

Abusi. La Chiesa italiana fa la sua scelta: azione zero. Sugli stupri del clero l’assemblea dei vescovi decide che un intervento collettivo non serve. Niente “tolleranza zero” come negli Usa, niente Linee guida come quelle che autorizzano in Germania a chiamare a rapporto il singolo presule disattento, niente commissione d’inchiesta come in Austria, niente numeri verdi né referenti cui possa rivolgersi la vittima.
L’esempio inglese citato dal direttore dell’Osservatore Romano – una task force in ogni parrocchia – viene definito “non un’indicazione per l’Italia”. Troppo persino per una giornalista cattolica, che in conferenza stampa ha chiesto al cardinal Bagnasco: “Scusi Eminenza, ma allora uno deve chiamare il centralino della diocesi dicendo: sono una vittima, mi passi il vescovo?”.
Il comunicato dell’assemblea esalta il “coraggio della verità che, anche quando è dolorosa e odiosa, non può essere taciuta e coperta”: proclamazione surreale mentre i vertici ecclesiastici negano chiarimenti all’opinione pubblica su chi sono e che fine hanno fatto i cento preti delinquenti (numero fornito dalla Cei) già coinvolti in un procedimento. È un fossato tra l’invito di papa Ratzinger all’azione per dare voce a quanti per decenni non sono stati ascoltati, portando i colpevoli in tribunale, e l’inazione della Cei come organismo collettivo. Evidentemente prevale nelle gerarchie la paura di scoperchiare il vaso delle violenze. Sostiene Bagnasco che, date le autorevoli indicazioni dei testi vaticani, “non è necessario né opportuno” prendere altri provvedimenti. Tutto è lasciato al “discernimento” dei singoli vescovi. Esattamente ciò che per secoli ha prodotto insabbiamenti e ritardi, che lo stesso Bagnasco ammette “possibili”. Riproporre questo sistema è attendismo e si paga sempre.

Corriere della Sera 29.5.10
L’incubo (non solo cattolico) dell’abisso senza luce
di Armando Torno

Corriere della Sera 29.5.10
Le Goff: «Questa mia Europa laica»
«L’amo profondamente ma nego che le sue radici siano cristiane»
di Nuccio Ordine

Il Fatto 29.5.10
Luciano Canfora: “Vuole più poteri, come il Duce”
di Wanda Marra

N on è casuale e ha anche una sua pertinenza storica la citazione di Mussolini fatta da Berlusconi giovedì al vertice dell’Ocse (“non ho nessun potere, forse ce l'hanno i gerarchi, ma non io”). Parola di Luciano Canfora, filologo, storico, studioso dell’antichità. Che pur ricordando che i diari in cui è contenuta l’affermazione sono “una patacca” spiega che la tradizione orale racconta che il Duce spesso faceva dichiarazioni simili. Professore, il riferimento di Berlusconi agli oligarchi fascisti è una gaffe casuale o un’osservazione che vuole significare qualcosa di preciso? Rivela un obiettivo molto chiaro: ottenere più poteri al Premier rispetto a quelli del presidente della Repubblica. Anche Mussolini ha avuto questo problema: lo Statuto albertino dava pochi poteri al presidente del Consiglio rispetto al Re. Mussolini è riuscito a rovesciare la situazione, sbilanciando il rapporto a suo favore, con le leggi eccezionali del ‘26. L’affermazione di non avere in realtà nessun potere che scopo ha?
Rivela un altro lato del mussolinismo. Anche il Duce spesso attribuiva ai livelli intermedi la responsabilità dei problemi, pilotando così lo scontento verso altri. Insomma, io credo che il paragone a Berlusconi sia stato suggerito, e con abilità, da qualcuno.
Non è certo la prima volta che Berlusconi cita il fascismo... Nella sua visione il fascismo è stato in parte un fatto positivo, fino al 1938: lo disse nel '94, quando cercava l’alleanza con Fini. Oggi invece il suo riferimento al ventennio ha anche l’obiettivo di togliere al presidente della Camera il consenso dei suoi compagni di partito.
Ma crede sia possibile che Berlusconi sia fatto fuori dai suoi, in una sorta di versione contemporanea del Gran Consiglio del Fascismo che mise in minoranza Mussolini?
Non vedo all’orizzonte figure capaci di sostituirsi al capo. Siamo all’interno di in un regime o viceversa in un sistema che può trasformarsi in una dittatura?
Siamo in un periodo intermedio, equiparabile agli anni tra il 22 e il 26, prima delle leggi speciali. La storia prenderà un cammino che noi non possiamo prevedere. Penso che sia difficile il salto verso una forma aperta di dittatura. Ma la crisi può dare risultati imprevisti: se si aggravasse nessuno può prevedere le reazioni dell’opinione pubblica.
Perché Berlusconi ha scelto un palcoscenico internazionale per la sua citazione di Mussolini? Per avere maggiore risonanza internazionale. Le mosse più brusche e più forti, le ha fatte sempre parlando all'estero.

l’Unità 30.5.10
Gelmini regista del caos
di Fabio Luppino

L e riflessioni a mente fredda aiutano a trovare la verità. L’eccitazione diffusa di chi non si fa carico dei problemi delle famiglie rispetto alla posticipazione dell’inizio dell’an-
no scolastico serve a mascherare, in realtà, soprattutto da parte del ministro, la confusione di queste settimane. Stando ai fatti sarà quasi impossibile un inizio di anno regolare: s’intende con i professori ai loro posti, con le classi formate, con i trasferimenti effettuati, con le sforbiciate sulle ore sistemate a dovere, con il calcolo millimetrico che non dovrà consentire ad alcun precario di avere incarichi di alcuna sorta.
Nel mese di maggio i funzionari ministeriali stanno sottoponendo ad un ridicolo balletto le segreterie di tutti gli istituti. Vengono inviate le classi di concorso che potranno insegnare questa o quella materia. Ma c’è un continuo aggiornamento con circolari che smentiscono le precedenti, con mutamenti prodotti, a volte, nel giro di sole ventiquattr’ore. Per i profani della materia è bene spiegare. Attraverso queste determinazioni, con la certezza di chi potrà insegnare cosa, le scuole decideranno l’organico di diritto, quali e quanti insegnanti avere per il prossimo anno scolastico. Sembra facile, ma non è così. E, soprattutto, la macchina infernale messa in moto con la cosiddetta riforma delle superiori sta sfuggendo di mano ai suoi profeti. Dopo aver decretato la «morte sul lavoro» di 25mila insegnanti precari, il ministero non si può permettere di produrre scientemente altri soprannumerari o perdenti posto tra i prof di ruolo, destinati in poco tempo alla disoccupazione. Ma avendo ridotto le ore e alcuni insegnamenti, ogni giorno che passa si accorge che esistono classi di concorso senza materia da insegnare. Facciamo un esempio: gli ultimi docenti in stenografia e dattilografia (materie oggi archeologiche) sono stati riconvertiti ad una materia che si chiama trattamento testi, l’anticamera dell’informatica. Dal prossimo anno scolastico in molti istituti questa materia non ci sarà più. Cosa faranno gli insegnanti? I demiurghi del ministero stanno cercando di abbinare la loro classe di concorso alla materia informatica, di cui gli stessi sanno ben poco. Il trionfo delle tre I! Allo stesso modo procedono con le altre materie, in particolare quelle scientifiche. Ma bisogna stare attenti se non si consentirà l’insegnamento della matematica ad un laureato in Biologia marina...
Il problema resta, però, l’organico. Senza questo e le ore corrispondenti per professore non si può mettere in moto la macchina organizzativa relativa ai trasferimenti di quei prof che nel frattempo grazie ai tagli di Gelmini non hanno più le 18 ore su un’unica scuola. Così che al 15 settembre l’appuntamento è con il caos.

l’Unità 29.5.10
Rimettiamo in moto la politica
Il Pd, i radicali e un’agenda comune
di Valter Vecellio

H a risposto positivamente il segretario del Pd Bersani, dicendosi disponibile a un incontro ufficiale e non estemporaneo con i dirigenti della galassia Radicale per una messa a punto delle cose da fare, che si possono fare, e sul come farle. Ed è positivo che alla recente assemblea del Pd si sia deciso – almeno per quel che riguarda i propri dirigenti e amministratori – di aderire all’Anagrafe Patrimoniale degli Eletti. Ora, evidentemente, si tratta di scendere sul terreno pratico, scandire i tempi di una possibile agenda di lavoro; passare dalle intenzioni ai fatti, costruire e praticare l’alternativa riformatrice all’esistente. «Les temps des monts enragés et de l’amitié fantastique», dice René Char nel 142esimo dei «Fogli d’Ipnos». Versi non a caso dedicati ad Albert Camus: davvero, mai come oggi sono tempi di monti furenti, mai come oggi c’è necessità di “fantastiche amicizie”.
È stata, è, può essere “fantastica amicizia” – e perciò leale, fatta anche di aspre verità che ci si dice l’un l’altro – quella tra Pd e Radicali. “Amicizia fantastica” che ha già dato frutti: è grazie ai voti conquistati allo schieramento moderato dalla Rosa nel Pugno (Radicali e Socialisti) che Prodi ha sconfitto Berlusconi; e recentemente l’Istituto Cattaneo ha certificato che i Radicali sono in grado di strappare consensi da settori che ad altre forze del mondo progressista sono preclusi. Dunque, e nell’ottica di un Partito Democratico all’americana dove convivono molte “anime” in fecondo confronto, sarebbe un incomprensibile masochismo che i Radicali venissero esclusi dal progetto che faticosamente si cerca di costruire.
In queste ore parecchi (e parecchio interessati) suonano la campana a morto per il Pd. Il rischio esiste e c’è un solo modo per recidere gordianamente la questione: se si muore per mancanza di iniziativa politica, per vivere occorre fare di tutto per assicurarla, nutrirla, farla lievitare.
Quello dei Radicali è un invito, un appello a parlarsi e ascoltarsi; per analizzare la situazione di straordinaria gravità in cui la “democrazia reale”, italiana sta precipitando le nostre istituzioni”; per far vivere e rafforzare” l’alleanza con il Pd e riflettere insieme su come realizzare l’alternativa.
Per questo è urgente arricchire analisi e dibattito: premessa per poter mobilitare il popolo italiano e la comunità internazionale, e superare la drammatica condizione di fuorilegge delle nostre istituzioni, a cominciare da quella della giustizia e delle carceri italiane. E poi, per esempio, le riforme istituzionali, e il cruciale nodo di un’informazione negata, confiscata. Perché non discuterne?

l’Unità 30.5.10
«Stesso sangue, stessi diritti» Braccianti indiani in piazza
Per la prima volta un’intera comunità di immigrati fa sciopero e va in piazza. È accaduto ieri a Latina, dove i braccianti indiani hanno manifestato per reclamare gli stessi diritti degli italiani.
di Roberto Rossi

Stesso sangue, stessi diritti”. Tra piazza della Libertà e largo caduti di Nassirya, in una Latina deserta e indifferente, davanti al tetro palazzo della Prefettura e sotto un cielo coperto e afoso, per la prima volta nel nostro Paese la rappresentanza di un'intera comunità di immigrati, quasi tutti indiani e braccianti agricoli, ha scioperato e manifestato. Lo ha fatto per reclamare giustizia, dignità e, come recitava, lo striscione di apertura “stessi diritti” degli italiani. Lo ha fatto, sotto le insegne della Flai-Cgil, in modo ordinato e pacifico, per far capire a una città intera, e forse anche a una nazione che ignora o, peggio, tollera la loro condizione, di non volere mai più essere, come cantavano durante la marcia, “schiavi” o “animali” ma “delle persone normali”.
Eppure sciopero per “i nuovi cittadini”, come si definiscono, è una parola che ancora spaventa. Dei 500 presenti ieri in piazza, ci spiega Vicky, un giovane Sikh tra gli artefici della manifestazione, solo una fetta, circa il 70%, ha veramente incrociato le braccia. Il resto ha lavorato nei campi la mattina, come tutti i giorni, ad eccezione della domenica per pochi euro. “Il mio datore di lavoro mi ha fatto un contratto di otto euro l'ora – racconta Sing Amarg, in un italiano incerto ma poi ne ricevo tre”. Ed fortunato, altri arrivano a due, qualcuno fatica invece per 80 centesimi. Sono quelli più ricattabili, con il permesso di soggiorno scaduto o nelle mani di uno dei proprietari delle trentamila aziende della zona, delle quali solo un terzo denunciate regolarmente.
Per questo la parola sciopero incute timore. In verità non solo agli immigrati indiani – settemila regolari, il doppio, forse il triplo, a seconda della stagione, senza permesso di soggiorno ma anche a chi gestisce e sfrutta questo immenso traffico di uomini. Alcuni segnali sono stati eloquenti. Il primo, spiega Giovanni Gioia della Flai-Cgil locale, sono le retate effettuate dalla Polizia nei vari borghi che costellano l'agro pontino: “Otto solo negli ultimi giorni”. Una frequenza sospetta in una zona che tollera gli immigrati e che dal loro sfruttamento ricava il 19% del produzione locale. Il secondo un articolo, uscito a ridosso della manifestazione nelle pagine di Latina Oggi. Nel quale i Comitati agricoli riuniti, e cioè gli agricoltori della zona, criticavano fortemente il corteo mettendo anche in guardia dal parteciparvi. “E invece, nonostante le intimidazioni, è stata una scommessa vinta” ha detto il segretario generale della Flai-Cgil Stefania Crogi. “Da oggi – ha aggiunto Claudio De Berardino segretario Cgil Lazio nessuno potrà più dire di non sapere, di non conoscere. Da oggi tutti sanno e tutti conoscono”.
Anche la Prefettura, e cioè il governo. Alla quale sono state avanzate delle richieste ben precise. Come la creazione di un osservatorio permanente e un tavolo di discussione con i sindacati. Se questo riuscirà ad arginare o circoscrivere un fenomeno, come quello dello sfruttamento degli immigrati, meglio se irregolari, è tutto da vedere. Ieri i 500 hanno sfilato tra l'indifferenza generale. Questo perché Latina e provincia vivono di lavoro irregolare. In genere sono le mafie, come la Camorra o la 'ndragheta, qui fortissime, che alimentano il sommerso, ultimamente, invece, è stata anche la crisi. Che, nella zona, sta mietendo molte più vittime che altrove. Non è un case se a Latina e dintorni è presente un tasso di disoccupazione del 27%, cioè quasi tre volte superiore a quello nazionale. Molte fabbriche stanno chiudendo. L'ultima è la multinazionale francese Nexans (che produce cavi ad alta e media tensione). Dal primo giugno manderà a casa 300 operai. Che ieri hanno sfilato proprio accanto ai braccianti agricoli indiani. Come ricordava lo striscione: “Stesso sangue, stessi diritti”.

l’Unità 29.5.10
Vendola-Chiamparino idee per la sinistra che verrà «Ma non chiamatelo ticket...»
Sarebbe il terzo ticket per Nichi Vendola: con De Magistris, poi Veltroni, ora Chiamparino. Il governatore si schermisce: «In Puglia i ticket li ho tolti». Ma sulla sinistra che verrà molti punti in comune con il sindaco di Torino.
di Jolanda Bufalini

Sarebbe il terzo ticket, dopo quello con Veltroni e quello con De Magistris ma Nichi Vendola si schermisce: «Da governatore in Puglia i ticket li ho tolti». Confronto a due, organizzato e moderato dal direttore di Reset, fra Sergio Chiamparino e Nichi Vendola, il tema lo dà il titolo del nuovo numero della rivista: «Italia nelle mani di Bossi, a sinistra ancora nebbia». Due che più diversi non si potrebbe, ma niente affatto dissonanti e, anche, abbastanza divertiti e inclini all’amarcord fra Marx e Lenin. La crisi finanziaria è, per Vendola «crisi di un modello sociale di cui Tremonti è stato un protagonista» Un esempio: i derivati e la regione Puglia, accordi con la Merrill Lynch siglati sotto lo sguardo protettivo del ministro dell’economia. Il sindaco di Torino si spinge a dire «facciamo come in tutta Europa, chiamiamoci sinistra, una parola con una latitudine ampia. Centrosinistra contiene in sè già un' idea di subalternità e di chiusura, riassume l'idea per cui la sinistra non può governare i processi complessi della società contemporanea». E il presidente pugliese apre a sua volta nelle battute finali: «La mia storia e quella di Sergio devono essere portate in un luogo dove noi non proponiamo la replica dei nostri copioni, ma troviamo le parole giuste per parlare al nostro tempo. Non abbiamo nostalgia delle parolacce», punzecchia verso il segretario del Pd.
Giancarlo Bosetti sonda sulla leadership a sinistra, «nuovo contenitore o coalizione», Chiamparino non vuol fare il pierino ma: «Spetta al Pd avviare una discussione vera anche perché le questioni in ballo sono scottanti e non sono indolori». Chiede impegno su un programma essenziale evitando i «manuali», come fu quello che portò undici forze diverse a siglare l’accordo a sostegno di Prodi. Anche se il programma di Lenin, tutto il potere ai soviet, «magari era troppo sintetico».
Il refrein post-regionali della Lega nord «insediata nel territorio» non piace a Nichi Vendola: «Non vuol dire niente, sono molti anni che la Lega è insediata a covare uova di serpente come il razzismo. Ma è la globalizzazione e la sua crisi che hanno consentito alle uova di serpente di schiudersi». Opporre, dice, il governatore rosso «al territorio come regressione tribale o piccola patria il lavoro come diritto, alla comunità rancorosa una finestra aperta e cosmopolita sul mondo».
Analitico e concreto, Chiamparino fa qualche esempio per rispondere: «A Torino dove stiamo costruendo una nuova Moschea, noi siamo andati avanti e la Lega ha perso voti. Significa che è possibile operare per una comunità integrata e non del rancore». Secondo: «Gippo Farassino prese, agli esordi della Lega, il 23 per cento. Il suo nuovo successo è del 9%» Tre: «Il panettiere di Murazzano è orientato a sinistra ma, quando il sindaco di Barolo è andato a chiedere il voto per le regionali, lui gli ha risposto che lo avrebbe dato a Giordano, che lo aiuta sempre nelle pratiche per le pecore». Conclusione: la Lega sta mutuando dalla vecchia Dc l’intermediazione dei rapporti con le capitali, Torino, Roma.

l’Unità 29.5.10
Le navi di pace sfidano Israele
Lieberman: li fermeremo
I pacifisti non demordono: la «Flotta della solidarietà» proverà oggi a forzare il blocco navale israeliano per raggiungere Gaza. La tensione è altissima. La marina dello Stato ebraico è pronta all’abbordaggio.
di Umberto De Giovannangeli

I falchi di Gerusalemme «abbordano» la Flotta della solidarietà. Il ministro degli Esteri israeliano, Avigdor Lieberman, bolla come un atto di «propaganda violenta contro Israele» la spedizione della flottiglia multinazionale delle organizzazioni non governative di «Free Gaza» salpate in questi giorni con l'intenzione dichiarata di spezzare il blocco contro la Striscia.
AVIGDOR ATTACCA
«Nella Striscia di Gaza non c'è crisi umanitaria», sostiene Lieberman, in polemica con diverse istituzioni internazionali, nel corso di una riunione ad hoc durante la quale ha ribadito che il suo governo non permetterà ai battelli di raggiungere la meta. «Israele aggiunge si sta comportando nel modo più umanitario possibile e lascia passare migliaia di tonnellate di cibo e materiale verso Gaza, malgrado i crimini di guerra e i lanci di razzi di Hamas». L'iniziativa delle Ong rincara la dose è dunque solo «un tentativo di propaganda violenta contro Israele» cui Israele risponderà «non consentendo alcuna violazione della sua sovranità: in mare, nei cieli o a terra». Secondo voci riportate dai media delle regione, le forze di sicurezza israeliane hanno già provveduto a mettere in
campo sistemi di disturbo delle comunicazioni attorno alla Striscia sottoposta dallo Stato ebraico a una forte limitazione di accesso di merci e persone fin dall'ascesa al potere degli islamico-radicali di Hamas, nel 2007 e hanno predisposto tende e servizi attorno al porto di Ashdod (sud di Israele): dove hanno annunciato di voler dirottare la flottiglia, per poi provvedere al rimpatrio forzato degli attivisti e al trasbordo via terra dei loro aiuti sotto il proprio controllo. I moniti israeliani non hanno in ogni caso scoraggiato i responsabili della traversata, promossa da Ong registrate in Turchia, Svezia, Grecia, Cipro, Irlanda e Algeria, con la partecipazione anche di alcuni pacifisti italiani.
DETERMINATI A PROSEGUIRE
La tensione è altissima. La flottiglia internazionale ha rimandato a oggi la partenza, secondo quanto hanno reso noto gli organizzatori. «Abbiamo cambiato due volte i programmi perché gli Israeliani minacciavano di catturare l'imbarcazione turca e quindi abbiamo deciso di rinviare il raduno di tutte le imbarcazioni», spiega Audrey Bomse, una delle organizzatrici del movimento «Free Gaza», che guida l'iniziativa. Un altro problema, aggiunge Bomse, è stato un guasto tecnico che ha colpito uno dei natanti. Sette imbarcazioni cariche di aiuti umanitari si sono radunate nelle acque internazionali al largo di Cipro per fare rotta su Gaza. La «Flottiglia» trasporta tonnellate di medicinali, materiali da costruzione, generatori di corrente, carrozzine elettriche e materiale scolastico per la popolazione della Striscia (1,5milioni di persone, in maggioranza donne, bambini e adolescenti).
PALAZZO CHIGI ALLERTATO
La «Freedom Flotilla Italia» ha inviato-27maggioore19:42-unfaxal sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, Gianni Letta. «Di sicuro saprà si legge nel messaggio che agenzie di stampa hanno riportato come il Governo di Israele ha ripetutamente minacciato di impedire al convoglio, denominato Freedom Flotilla, di giungere a Gaza ricorrendo anche alla forza ed all’arrembaggio. Non saprà forse, signor sottosegretario, che la Freedom Flotilla navigherà unicamente in acque internazionali e nella acque territoriali di Gaza, sicché qualsiasi azione della marina israeliana si configurerebbe come atto di pirateria, ciò che la comunità internazionale non può permettere...Ci rivolgiamo perciò a lei auspicando vivamente che il Governo Italiano svolga con immediatezza perché le navi giungeranno tra breve in vista della acque territoriali di Gaza – i passi necessari per invitare il Governo Israeliano al rispetto delle norme del diritto internazionale che non riconoscono ad Israele alcun diritto su Gaza da dove ha ritirato con scelta unilaterale il proprio esercito. Lo stesso assedio di Gaza che dura da un anno e mezzo è arbitrario ed illegittimo Restiamo in fiduciosa e vigile attesa, confidando in una sua risposta rassicurante...». La risposta, finora, è solo una: il silenzio. Inquietante. Complice.

Corriere della Sera 29.5.10
«Nucleare, secco no di Israele
al Trattato di non proliferazione
E non accetteremo di essere sottoposti a ispezioni»
Israele: «Non partecipiamo al Trattato
di non proliferazione nucleare»
Per Tel Aviv la risoluzione del Tnp «ignora la realtà del Medio Oriente e le vere minacce»
qui
http://www.corriere.it/esteri/10_maggio_29/israele-trattato-nucleare_785c5330-6b5b-11df-9ae5-00144f02aabe.shtml

Repubblica “29.5.10
Israele denunci le atomiche", l´ira degli Usa

NEW YORK - I paesi arabi vincono il braccio di ferro alla Conferenza per la Non proliferazione nucleare di New York. Ieri, in chiusura di lavori, per la prima volta dopo 10 anni di impasse, la conferenza ha adottato un documento di revisione del Trattato entrato in vigore nel 1970: nel testo si auspica un Medio Oriente libero dalle armi nucleari e si fissa per il 2012 una conferenza internazionale che faccia il punto sul nucleare nella regione.
Il documento ha suscitato una dura reazione da parte dei rappresentanti americani, perché mette sul banco degli imputati Israele. Il testo auspica infatti che lo Stato ebraico aderisca al Trattato mettendo le sue testate nucleari sotto il controllo dell´Aiea, l´Agenzia internazionale per l´energia atomica. Israele non ha mai ammesso ufficialmente di possedere armi nucleari, ma sono pochi gli esperti che dubitano dell´esistenza di testate all´interno del suo territorio. Nè la Siria nè l´Iran, che avevano espresso riserve sulla dichiarazione finale, hanno bloccato il documento, che è stato fortemente voluto da Egitto ed altri Paesi arabi.