mercoledì 2 giugno 2010

Adnkronos 2.6.10
Libri: letteratura cinese e italiana a confronto in un volume 'double face'
'La rosa e la peonia' edito dall''Asino d'oro' nelle librerie il 4 giugno
Roma, 2 giu. (Adnkronos) - Dalle iscrizioni sui gusci di tartaruga ai romanzi erotici sul web. La letteratura cinese ha più di 4mila anni e 'La rosa e la peonia', testo bilingue della studiosa Valentina Pedone, edito da 'L'Asino d'oro' e in uscita nelle librerie venerdì prossimo, si pone come strumento di confronto con la letteratura italiana, dai testi latini di epoca romana al Nobel Dario Fo, per gli insegnanti, gli studenti e in genere le nuove generazioni che si trovano a confrontarsi con la cultura cinese sempre più presente nel nostro Paese.
Scritto in due lingue, questo libro, a cura dalla Pedone, ricercatore, docente di letteratura cinese presso l’Università di Firenze e di Urbino (traduzione di Wei Yi, insegnante di letteratura italiana contemporanea presso l’Università di Lingue Straniere di Pechino), è un’opera, se così si può definire, “double face”, con due distinte copertine e testi in italiano e in cinese.
“La rosa e la peonia -spiega nella postfazione Valentina Pedone- è rivolto a tutti coloro che incontrano quotidianamente culture diverse dalla propria, a lettori curiosi ed entusiasti, a chiunque voglia conoscere, imparare e crescere nutrendosi di pluralità. E’ rivolto -aggiunge- ai tanti piccoli cittadini cinesi che si incontrano nelle scuole e nelle piazze delle nostre città, che parlano benissimo l’italiano, che si sentono italiani, che riescono a confrontarsi con tutti senza chiedersi nulla e che sarebbe bello sentire parlare anche in lingua cinese”.
(Clt/Col/Adnkronos)

l’Unità 2.6.10
Intervista a Dario Fo
«Silvio cancella la democrazia
e la sinistra se ne sta al balcone»
Il premio Nobel: «Per fermare il premier servirebbero una coerenza e un coraggio morale che fin qui sono mancati. Vedo timori e dolcinerie mentre i tori travolgono tutto»
di Toni Jop

La storia. «Non è uno show in cui sperare di fare una figura passabile. Chi si assume la responsabilità di non aver capito e lottato?»
La strada. «L’avete indicata anche voi dell’Unità: disobbedire. Non si salva l’Italia scendendo a patti con un oscuro nemico del paese»

Partiamo da questo punto incontestabile: siamo governati da un premier che dice “ti amo” a questo paese mentre giorno dopo giorno gli toglie la libertà. Sembra una parabola classica sul potere. Infatti, Berlusconi più ci ama più ci tappa le orecchie. Adesso vuole discrezione, questa è la sordina che vorrebbe imporre alle intercettazioni, questa la gabbia in cui vorrebbe chiudere i magistrati. Affranti, in questa valle di lacrime abbiamo chiesto lumi a Dario Fo, per aggiornare i nostri sensi intorpiditi da un “amore” che ci vuole al buio. Sarà vero amore, Dario? «Dubita, fratello, dubita, che il dubbio ti tiene in vita. Io, per esempio, ho scritto un testo sull'Orecchio di Dioniso. Non fabula, sed historia. Allora, c'era questo Orecchio che amplificava a mille le voci del popolo cosicché, in favore degli dei, una si potesse avvertire molto distante. Orecchio divino, divina macchina
sonora. Ma un giorno, il senso dell' ascolto fu invertito e al “popolo” giunsero le parole segrete degli dei. La divina macchina venne immediatamente murata. Murarono il mito, cosicché si vide di che pasta fosse il mito e quale fosse il cibo prediletto del potere: la coscienza del “popolo”. Chiaro?».
Maestro, questa è la storia della sinistra! Siamo noi che vogliamo ascoltare ciò che non va ascoltato, le parole del potere, le parole proibite. Siamo sulla strada giusta?
«Mica tanto. Perché tutto è scoperto, il gioco è scoperto nella sua violenta doppiezza ma non vedo una adeguata capacità di reazione. Abbiamo un premier che ormai non nasconde i veri obiettivi delle sue azioni e delle sue scelte. Dalle leggi ad personam al ddl sulle intercettazioni mentre echeggiano le voci secondo cui bombe e stragi “mafiose” sarebbero servite da scivolo per la nascita di una forza politica capace di traghettare il peggio della prima repubblica in una seconda, sedicente repubblica».
Ma, scusi, che dobbiamo fare? Denunciamo, facciamo opposizione secondo le regole democratiche... «Ah sì? Eppure a me pare che la sinistra se ne stia affacciata al balcone mentre i tori corrono e travolgono ogni cosa giù in strada. Vedi, se, come è stato finalmente annunciato dalla sinistra, oggi è in gioco la democrazia, allora conviene adeguare le risorse e la lucidità a questa realtà tremenda. Serve una coerenza ferrea che fin qui è mancata. Serve un coraggio morale che fin qui ha oscillato. Eppure, il disegno del potere fu chiaro fin dal G8 di Genova. Ora dico forte: se i responsabili istituzionali di quel massacro degno di una dittatura non pagheranno per quel che hanno fatto, si toglieranno le basi democratiche anche a questa Seconda Repubblica. E i cocci saranno sempre nostri».
Intende per caso sostenere che la sinistra non sta facendo opposizione?
«Tu fai il furbetto, e io so – viva la rima quello che ho detto. All’opposizione restano il mugugno, il timore reverenziale di offendere, una dolcineria paurosa nei confronti di chi sta cancellando la democrazia e questo è ormai chiaro anche alla sinistra non vedente. Il fatto che non lo diciamo più solo io e pochi altri è una consolazione e insieme una disperazione. La storia non è uno show in cui si può sperare di fare una figura passabile, men che meno ora quando tutto è in gioco. Chi si assume la responsabilità di non aver capito e lottato con azioni concrete e coerenti?».
Va bene, ci indichi la strada, qualcuno la seguirà. Ma tenga a mente: lei passa per essere un insopportabile pessimista, un noioso bardo saputello e di Cassandra – viva la rima – fratello...
«La strada l'avete indicata anche voi dell'Unità: disobbedire, la disobbedienza civile sorretta da un “no” forte e coerente di tutto il centrosinistra alla vergogna che ogni giorno il premier allestisce da pessimo attore qual è. Altro che trattativa, altro che accordi: non si salva l'Italia scendendo a patti con un oscuro nemico del paese e della democrazia. Pessimista io? Bene, è il pessimismo che ci tiene in vita. Infatti, guardate l'Ottimista: aveva detto che la crisi non esisteva e che il paese stava benissimo, semmai doveva comprare di più. Eccolo imbastire un gigantesco trucco col quale sfiancherà “il popolo” e grazierà i ricchi e i potenti. Mentre moltiplica la sua personale dotazione di ville meravigliose...» Eppure, moltissimi italiani hanno ancora fiducia nel premier...
«Senti questo elenco. Al ministro Scajola hanno comprato, pare, una casa a sua insaputa. Scajola non sapeva. Alla lista della spesa del ministro Bondi, nella manovra hanno fatto dei tagli che il ministro ignorava. Bondi non sapeva. Alle spalle di Berlusconi hanno piazzato una crisi economica spaventosa che il premier ignorava. Berlusconi non sapeva. Scelgano gli italiani: stanno votando un mucchio di farabutti oppure dei pazzeschi cretini?».

Repubblica 2.6.10
Fuori programma di una scuola media. La preside: deplorevole. Il Pd: lei offende la Resistenza
"Bella ciao" al ministero, alunni censurati
di Laura Mari

Interrogazione di due deputati per chiedere sanzioni contro la dirigente scolastica, che a sua volta chiede a studenti e genitori di scusarsi per la "scorrettezza"

ROMA - A fine concerto, pensando di fare cosa gradita, hanno improvvisato le note di "Bella Ciao" davanti ai rappresentanti del ministero dell´Istruzione. Ma il fuori programma degli studenti di una scuola media di Roma ha scatenato la reazione indignata della preside. E il Pd insorge, con un´interrogazione parlamentare, contro la dirigente scolastica, sostendo che «"Bella ciao" è un simbolo dei valori che stanno alla base della nostra convivenza civile, della nostra costituzione, della nostra Repubblica nata dalla Resistenza».
Protagonisti dell´episodio sono gli alunni dell´istituto Giuseppe Gioacchino Belli. Gli studenti che compongono l´orchestra della scuola, il 27 maggio sono stati invitati ad esibirsi alla presenza del sottosegretario all´Istruzione Giuseppe Pizza, del capo della segreteria del ministro, Pasquale Capo, e di due direttori generali del ministero. Al termine del concerto, i ragazzi hanno deciso di concedersi un fuori programma e hanno accennato le note di "Bella ciao". L´iniziativa non è piaciuta alla preside dell´istituto Belli, che in una lettera inviata a tutti i docenti, agli alunni e alle famiglie, ha espresso la sua amarezza per quello che definisce «un atto deplorevole, di certo non una semplice ragazzata».
Una reazione contro cui polemizzano i deputati Pd Maria Coscia e Walter Verini, che in un´interrogazione al ministro dell´Istruzione Maria Stella Gelmini chiedono quali provvedimenti intenderà prendere il ministro contro la preside.
Nella lettera, la dirigente dell´istituto Belli ha rimproverato gli alunni sottolineando che «non vanno mai dimenticati i doveri verso chi ospita, a cui ci si deve rapportare con rispetto». Parole che hanno sorpreso a loro volta genitori e alunni. La preside però è convinta che il suo richiamo sia stato doveroso. «Sollecito gli adulti a scusarsi - ha scritto nella lettera - e far capire agli studenti che, se è giusto e importante esprimere le proprie convinzioni, è altrettanto giusto e importante non assumere iniziative che travalicano i limiti del rispetto delle persone, della correttezza e del buon gusto».

Repubblica 2.6.10
Se si usa la privacy per difendere il potere
di Stefano Rodotà

Sono state usate le parole giuste e forti per denunciare quel vero attentato all´ordine democratico rappresentato dalle nuove norme sulle intercettazioni. Un´opinione pubblica si è manifestata, ha occupato la scena politica e ad essa soltanto si deve quel mutamento di linea del governo che, pur essendo del tutto inadeguato, mai sarebbe venuto se ancora una volta avessero prevalso gli spiriti deboli e i cultori della moderazione sempre e ovunque. Ma un grave danno culturale è stato comunque provocato. Quando ho visto in piazza Montecitorio un cartello che proclamava "Non ho nulla da nascondere. Intercettatemi", sono stato preso da un vero scoramento, mi sono chiesto il perché di quella protesta estrema e mi è sembrato subito evidente che la nostra fragile cultura della privacy è a rischio proprio a causa di una legge che proclama di volerla proteggere.
Non è un esito paradossale. È il risultato di una riflessione sociale. Un´opinione pubblica sempre più larga si è resa conto che quella non era una legge a tutela della riservatezza delle persone, ma uno scudo protettivo per un ceto di cui si scoprivano l´immoralità civile, i mille traffici, la corruzione come regola. Da qui la reazione estrema, "intercettateci tutti", che ricorda il grido disperato dei ragazzi di Locri dopo l´ennesimo delitto della ´ndrangheta, "ammazzateci tutti".
Ma questa esasperazione ci porta nella direzione sbagliata. Dico per l´ennesima volta che l´"uomo di vetro" è immagine nazista, è l´argomento con il quale tutti i regimi totalitari vogliono impadronirsi della vita delle persone. Se non avete nulla da nascondere, non avete nulla da temere. E così, appena qualcuno vuole rivendicare un brandello di intimità, diventa un "cattivo cittadino" sul quale lo Stato autoritario esercita le sue vendette.
È un argomento, dunque, da non usare mai, così come mai si deve ricorrere al suo opposto, all´uso strumentale della difesa della privacy per occultare comportamenti illegali o socialmente inaccettabili, per negare la trasparenza e la controllabilità dell´esercizio d´ogni potere. Entrambi questi atteggiamenti screditano la privacy agli occhi dei cittadini e occultano la realtà. Una realtà che, in questi anni, ha conosciuto gravi limitazioni della privacy dei dipendenti pubblici e il capovolgimento dell´impostazione con la quale si era cercato di mettere le persone al riparo dai disturbatori telefonici che invadono con pubblicità sgradite la sfera privata. Dopo aver ridotto la privacy di milioni di persone, ora la maggioranza si fa paladina di quella di un ceto indifendibile, cercando di cancellare quanto già è scritto nell´art. 6 del Codice sull´attività giornalistica: «La sfera privata delle persone note o che esercitano funzioni pubbliche deve essere rispettata se le notizie o i dati non hanno alcun rilevo sul loro ruolo o sulla loro vita pubblica». Parole chiarissime, così come è chiara la ragione di questa ridotta "aspettativa di privacy" per tutti quelli che hanno ruoli pubblici. In democrazia non bastano i controlli istituzionali (parlamentari, giudiziari, burocratici), serve il controllo diffuso di tutti i cittadini, dunque la trasparenza. E la Corte europea dei diritti dell´uomo ha sottolineato con forza che questa essenziale esigenza democratica può rendere legittima anche la pubblicazione di notizie coperte dal segreto. L´opposto di quel che si cerca di fare in Italia.
La privacy, dunque, conosce diversi livelli di protezione. E non corrisponde alla realtà dei fatti sostenere che la tutela ha funzionato solo a favore dei vip. Prima di fare affermazioni del genere bisognerebbe dare un´occhiata all´attività passata e presente del Garante e si scoprirebbe che i casi riguardanti i cosiddetti vip sono una percentuale davvero minima e che l´attività nel suo insieme è volta a garantire proprio la "gente comune". Un lavoro sempre più difficile, che non può essere screditato con qualche sprezzante formula liquidatoria, ma che dovrebbe essere accompagnato da una attenzione che dia alle persone la consapevolezza dei loro diritti.
La privacy non è più soltanto il diritto d´essere lasciato solo, di allontanare lo sguardo indesiderato. È sempre di più uno strumento essenziale perché non si debba vivere in una società del controllo, della sorveglianza, della selezione sociale. Servono, dunque, strategie adeguate per contrastare la bulimia informativa di poteri pubblici e privati, per sottrarsi allo "tsunami digitale" che si sta abbattendo sulle persone.
La prima mossa riguarda l´osservanza del principio che limita la raccolta delle informazioni personali a quelle strettamente necessarie per raggiungere una determinata finalità. Una indicazione importante viene dal programma del nuovo governo britannico, che ha scelto una strada del tutto opposta a quella che, negli ultimi anni, stava trasformando l´Inghilterra in una società della sorveglianza. Ecco allora lo stop alla carta d´identità e al passaporto biometrico, alla creazione di banche dati del Dna senza garanzie adeguate, alla raccolta delle impronte digitali dei bambini senza il consenso dei genitori, alla videosorveglianza a tappeto, alla conservazione generalizzata dei dati riguardanti l´accesso a Internet e la posta elettronica, a tutte le misure restrittive introdotte con il pretesto della lotta al terrorismo. I nostri garantisti a corrente alternata daranno un´occhiata a queste pagine, significativamente intitolate "libertà civili"?
La privacy assume così le sembianze di altri specifici diritti. Diritto all´oblio, dunque a ottenere la cancellazione di dati che non debbono seguirci per tutta la vita (un diritto particolarmente importante nel tempo delle reti sociali, di Facebook). Diritto di "rendere silenzioso il chip", vale a dire potere individuale di disconnettersi da una serie di apparati tecnologici di controllo. Diritto all´anonimato, che può essere essenziale per la libertà di espressione, come ha appena sostenuto la Corte suprema di Israele scrivendo che esso offre una tutela importante per chi vuole esprimere opinioni non ortodosse.
Uno sprazzo di questa consapevolezza tecnologica si ritrova persino nell´orrendo testo in discussione al Senato, dove si prevede che, per ottenere i tabulati telefonici, sia necessaria la stessa autorizzazione richiesta per le intercettazioni. Una scelta corretta. Infatti i tabulati, pur non fornendo i contenuti delle conversazioni, rivelano una serie di informazioni (nome del chiamante e del chiamato, luoghi dove questi si trovano, durata della conservazione) che consente di ricostruire l´intera rete delle relazioni personali, politiche, economiche, religiose di tutti. E, mentre si può contestare il contenuto di una intercettazione, liberandosi così dal sospetto, questo diventa più difficile, o addirittura impossibile, quando i dati conservati registrano solo il nudo fatto dell´aver telefonato ad una persona.
Queste sono alcune delle strade da seguire se davvero si vuole tutelare la privacy delle persone, ormai identificata con la libera costruzione della personalità, con il potere di controllare chiunque usi le nostre informazioni, con il rifiuto di sottostare a pretese ammantate di sicurezza o efficienza del mercato. Qui si gioca la vera partita. Anche per questo dobbiamo uscire dalla trappola allestita da chi vuole trasformare la privacy in difesa del nudo potere.

il Fatto 2.6.10
La nuova norma potrebbe servire a procurarsi buoni uffici Oltretevere
Legge bavaglio, premio ai pedofili
Un emendamento di Gasparri, Bricolo e compagnia introduce l’atto sessuale “di minore gravità”
Pedofili e in flagranza, un reato minore?
L’ emendamento che vede anche la firma di Gasparri permette al molestatore di non finire in carcere
di Bruno Tinti

Che la legge sul blocco delle intercettazioni e sul bavaglio all’informazione abbia costituito una ghiotta occasione per stipulare patti scellerati con le gerarchie ecclesiastiche lo avevano capito tutti. Perché è un fatto che una tra le tante norme scellerate prevede che, se si deve intercettare un ecclesiastico, prima bisogna avvertire la sua gerarchia. Il che, immagino, secondo gli autori di questa bella trovata, si giustifica con la certezza che chi è dedito alla cura delle anime per prima cosa tiene molto alla sua e quindi mai e poi mai rivelerà al confratello che un pm comunista e miscredente sta per mettergli sotto controllo il telefono.
Si pensava di aver toccato il fondo: 8 per mille, sovvenzioni alle scuole cattoliche, esenzione dall’ICI, non so che altro; adesso anche privilegi ai preti indagati. Il disprezzo per la Costituzione di questa gente davvero non ha limiti.
Adesso ce n’è un’altra; l’iniziativa è (ricordatevene bene per favore, questi nomi non debbono essere dimenticati) di Gasparri, Bricolo, Quagliariello, Centaro, Berselli, Mazzatorta, Divina. Che hanno fatto? La cosa è complicata.
C’è un articolo del codice di procedura penale (380) che elenca i casi in cui si deve (non si può, si deve) procedere all’arresto in flagranza; che significa che il delinquente sorpreso mentre sta commettendo un reato va impacchettato subito e portato in prigione; poi lo processeranno ma, per il momento, in galera resta. Tra i reati per cui si “deve” arrestare non c’era il delitto di atti sessuali con minorenne (609 quater codice penale). Sicché, con raro acume legislativo, qualcuno dei nostri Soloni ha pensato bene di inserircelo, approfittando della legge blocco&bavaglio. Bravo, bene, bis. A questo punto la polizia (cioè PS, CC, GdF, Vigili Urbani etc., sono loro che fanno gli arresti in flagranza), se beccava uno che stava compiendo atti sessuali con un minorenne, doveva (“doveva”, non “poteva”) arrestarlo. C’è qualcuno che dubita che fosse cosa buona e giusta?
Eh, qualcuno c’era; perché i suddetti Gasparri&Compagni hanno presentato un emendamento (1.707) assolutamente criptico (per mettere insieme tutto ho impiegato una mezz’ora) che modifica questo articolo 380 del codice di procedura, appena modificato da qualcuno della loro stessa parrocchia, nel senso che sì, va bene, chi commette atti sessuali con minorenni e viene sorpreso in flagranza deve essere arrestato; ma sempre che non si tratti di atto sessuale di “minore gravità” (veramente la tecnica legislativa (?) adottata è più complicata ma ve la risparmio, il risultato è questo). Dunque, adesso Polizia, CC, Gdf, Vigili urbani, quando beccheranno un pedofilo con i calzoni abbassati (o le gonne alzate) dovranno decidere, prima di arrestarlo, se quello che sta facendo è di gravità normale o minore del normale; e, in questo secondo caso, potranno anche non arrestarlo.
Ma vi rendete conto? La Cassazione si danna per decidere se quello che è stato fatto al ragazzino o alla ragazzina è di minore gravità oppure no. Perché la cosa è importantissima: se il fatto è di minore gravità, la pena è diminuita fino a due terzi, che è mica roba da poco; da 5 anni si passa a poco più di 2 anni, che vuol dire affidamento in prova al servizio sociale, quindi niente galera; e anzi, con un paio di attenuanti (attenuanti generiche e risarcimento del danno) si va a circa anni 1; il che significa sospensione condizionale della pena. Sicché potete immaginare quali monumenti di cultura giuridica vengono costruiti in Tribunale, Appello e Cassazione. E Gasparri&Compagni affidano al poliziotto del caso la responsabilità di decidere se il pedofilo/a va arrestato oppure no. Lì, su due piedi, mentre si sta rialzando i pantaloni o abbassando la gonna. La cosa è talmente grave che adesso la maggioranza dice di volerci ripensare. Sarà vero? Domanda: ma che gliene importa a loro dei pedofili? Grave o no che sia l’atto (immaginatevi la disgustosa classifica), davvero non va bene mandarli in prigione almeno per un po’? In flagranza di reato sono stati sorpresi, c’è poco da discutere. E allora? Qualche reverente pensiero alle norme “Vaticane” davvero è fuor di luogo?

il Fatto 1.6.10
La prossima Intifada
Ripresi gli scontri nella Striscia, a Gerusalemme est tensione con gli israeliani e solidarietà ai “fratelli” di Gaza
di Roberta Zunini

Dei circa trecentomila arabi che vivono a Gerusalemme, più di cinquantamila risiedono nel quartiere di Silwan, a ridosso della città vecchia, vicino alla Moschea di Al Aqsa. Silwan, come Sheik Jarrah, Bet’Aniha e Shu’fat, fa parte di quella zona che l’Onu definisce Gerusalemme Est, territorio occupato palestinese, assieme a Cisgiordania e Gaza. Per Israele invece Gerusalemme Est è parte integrante della municipalità. L’annessione unilaterale, con la proclamazione di Gerusalemme “capitale unica e indivisa “ fu sancita nel 1980 da una legge della Knesset, che formalmente venne subito respinta dalla comunità internazionale. Resta il fatto che gli abitanti arabi di Gerusalemme Est non hanno ottenuto un cambiamento di status. Non sono cioè diventati cittadini ma solo residenti permanenti di Gerusalemme. E’ anche per questo che si sono sempre sentiti più vicini agli arabo palestinesi di Gaza che non agli arabi che vivono in territorio israeliano e hanno il passaporto israeliano. “Lunedì, però, forse per la prima volta ci siamo sentiti un unico popolo. Ci siamo tutti sentiti di nuovo veri fratelli. Abbiamo scioperato tutti assieme – ci dice Selim Aman, ingegnere meccanico – per protestare contro il trattamento disumano a cui sono sottoposti da anni i nostri fratelli di Gaza e per manifestare il nostro disgusto nei confronti del massacro di chi voleva portare loro aiuto. Parteciperò sicuramente ad altre manifestazioni di piazza se ce ne saranno, anche se vuol dire rischiare la vita, perché i soldati, come avete visto, non fanno sconti a nessuno”.
Il Huadi Silwan information center è uno spazio di cannucciato e assi che si trova tra la moschea di Al Aqsa e l’ingresso della City of David, il parco archeologico dove, secondo la Bibbia, si troverebbero anche la dimora e il giardino di re David. L’appalto dei lavori di scavo della City sono stati affidati dal governo israeliano a un’associazione di coloni ebrei, El Ad. “Lunedì, dopo che si era diffusa la notizia del massacro dei pacifisti, qui davanti ci sono stati scontri proprio tra coloni armati di fucili e ragazzi palestinesi con le tasche pesanti di pietre” ci racconta l’assistente sociale arabo Jawad Siam, che gestisce il Silwan information center assieme ad Hagit Ofra, una signora ebrea dell’organizzazione umanitaria Peace Now. A sentire gli abitanti di Silwan, la situazione è esplosiva e non è un caso che, sempre ieri, un gruppo di palestinesi abbia appiccato il fuoco alla propria abitazione, occupata da tempo da una famiglia di coloni. Hamad – che ancora soffre dei postumi di una fucilata alle gambe, sparata da un giovane colono ortodosso che camminava con un M16 a tracolla – ci spiega che ciò è accaduto pochi giorni dopo la sentenza della corte israeliana che intimava ai coloni di andarsene. “I coloni però non se ne volevano andare e le forze dell’ordine israeliane tardavano a intervenire. E’ allora che i legittimi proprietari della casa assieme ad alcuni amici, tra cui mio cugino, hanno dato fuoco all’abitazione per costringere i coloni ad andarsene. Il coraggio di buttare fuori i coloni però gli è venuto proprio ieri”. Anche Adnan Husseini, il Governatore di Gerusalemme dell’Autorità Nazionale Palestinese ci dice che c’è un forte nervosismo oltre che tristezza tra i palestinesi. “E’ una frustrazione che sta corrodendo la speranza, la rabbia è contenuta da troppo tempo ma escludo che possa esplodere una terza intifada. Ciò che è accaduto potrebbe invece aprire una nuova pagina della nostra storia, non negativa. Ormai la comunità internazionale non può più far finta di non vedere quanto sia spietata l’occupazione e spero abbia capito che noi palestinesi siamo di nuovo uniti. Voglio sperare che questo sacrificio dei pacifisti venga colto dal mondo e ci aiuti ad ottenere un nostro Stato”. Ma queste sono le parole della diplomazia. E la vita reale non passa per l’ufficio del Governatore.
E la “vita reale” ha troppo spesso il volto della morte. Una forte esplosione, ieri, ha colpito la città palestinese di Beit Lahya, nell’estremità nord della Striscia di Gaza, uccidendo tre persone. La radio militare israeliana ha reso noto che la deflagrazione è stata provocata da un missile lanciato da un velivolo israeliano e che i morti erano miliziani dell’ala armata del Fronte Popolare, una delle fazioni radicali attive nell’enclave controllata dagli integralisti di Hamas. La stessa fonte afferma che l’attacco è seguito dopo il lancio di due razzi Qassam, esplosi senza fare vittime nei pressi di Ashqelon, nel sud di Israele. Altri due palestinesi, invece, erano morti, nella mattina, in uno scontro a fuoco con una pattuglia militare israeliana, nella zona centrale della Striscia di Gaza.

il Fatto 2.6.10
Ora possiamo solo ritirarci, per sempre
di Manuela Dviri scrittrice e pacifista italo-israeliana

S ono stanca. Stanchissima. Stanca di pensare e ripensare perché. Stanca di parlare dell'orrore di questi giorni , stanca di sognarmelo la notte, ogni notte in modo diverso e sempre orribile. Dicono che il nostro ministro della Difesa, Ehud Barak, sia un genio, che sappia smontare un orologio in pochi secondi. Può essere. Ma di certo, poi, non sa come rimontarlo. E no, la carneficina non è stata creata a tavolino, nonostante da lontano sembri forse altrimenti... e i soldati mandati allo sbaraglio sono vittime dei nostri politici esattamente come lo siamo noi civili. Troppi anni (43) di occupazione ci hanno ridotto così: semplicemente stupidi, militarmente stupidi, politicamente stupidi e adesso anche attoniti e spaventati davanti al disastro, isolati nel mondo e davanti al mondo.
È difficile per me, in questi giorni, essere israeliana, anche se questa è la terra che amo e amerò sempre, la terra in cui ho scelto di vivere tanti anni fa, la terra che mi ha portato via un figlio, proprio dodici anni fa, la terra che non potrò mai lasciare, in cui sono nati e vivono i miei figli e i miei nipoti. Che ne sarà del loro futuro?
In queste ore c'è sciopero generale dei palestinesi israeliani; davanti ai consolati e alle ambasciate israeliane del mondo intero, dimostrazioni di protesta. I rapporti con la Turchia, un tempo preziosa alleata, sono tesissimi. Il mondo ci tratta da appestati. La flottiglia era chiaramente una provocazione e molti di quelli che erano a bordo non erano dei santi, ma non era una flotta di navi di pirati e Gaza non è la Somalia. Se proprio la si voleva allontanare perché attaccarla nelle acque internazionali? Che fretta c'era? Le domande sarebbero tante... sul come e il perchè. Adesso è iniziato il solito balletto delle giustificazioni e dello scambio d'accuse più o meno velate tra l'esercito e i politici, accompagnato dal coro degli esperti, tutti naturalmente ex politici ed ex generali. Dicono, adesso, che la nave era troppo grossa, che non la si poteva fermare in altro modo. Che a bordo c'erano terroristi, che i nostri soldati erano in pericolo di vita.
E se si chiedessero cosa sarebbe successo se quel folle attacco non fosse semplicemente avvenuto? Se in un atto di vera politica, di intelligenza, lungimiranza, creatività e di normale buon senso, li si fosse semplicemente fatti entrare, gli attivisti, con un uno di quei grandiosi gesti inaspettati che poi passano alla storia, per rompere, insieme, l'assedio, l'inutile e terribile assedio che ha tenuto per questi anni un milione e mezzo di abitanti di Gaza chiusi ermeticamente in una prigione a cielo aperto, senza dare a noi, che siamo dall'altra parte, alcun vantaggio?
Dopo tutto, quell'assedio, figlio dell'ossessione militare e politica al Dio della sicurezza, ci costringe a vivere, noi stessi, in un infinito stato d'assedio, chiusi in un invisibile fortino, isolati e condannati dai popoli.
Adesso dicono che bisogna spiegare al mondo le nostre ragioni... Non c'è nulla da spiegare. C'è solo da fare.
C'è da ritirarsi finalmente, e per sempre, dai territori. E da Gaza.

Repubblica 2.6.10
Lo sfogo di Mario Levi, romanziere turco: "Da Israele una dimostrazione di debolezza"
"Noi, ebrei di Istanbul solidali con la gente di Gaza"

Ho simpatia per lo Stato di Israele. Ma questo non significa che io debba rinunciare a criticare le azioni del suo governo

ISTANBUL - «Mi sento completamente diviso. Se fossi musulmano, o semplicemente laico, sarebbe più facile. Ma sono uno scrittore turco ebreo, e allora i miei sentimenti vanno dalla soddisfazione per le parole dure usate dal premier Erdogan contro Israele, all´ira per la stupidità dei governanti di Gerusalemme, alla rabbia per come talvolta vengono presentate qui le cose in tv, anche se non posso affatto parlare di antisemitismo in Turchia».
È un fiume in piena Mario Levi, autore apprezzato anche in Italia (il suo colossale «Istanbul era una favola», più di 700 pagine pubblicate da Bompiani, ha avuto un ottimo riscontro), mentre all´Università di Yeditepe, sulla parte asiatica del Bosforo, corregge gli esami degli studenti, e contemporaneamente pensa alle valigie per volare a Venezia dove da giovedì ha in programma alcune lezioni.
Il titolo del suo prossimo libro, «Dove stavi quando arrivò l´oscurità?», già prenotato in tutta Europa, sembra quasi una metafora della notte maledetta dei pacifisti turchi. E Levi non smette di tornare alla vigilia dell´attacco.
Perché?
«Perché intanto ringrazio il cielo che in Israele ci siano ancora giornalisti come Gideon Levy, che sul quotidiano Haaretz già la scorsa settimana aveva previsto che il suo Paese stesse entrando in quello che ha definito "un mare di stupidità"».
Gerusalemme poteva comportarsi diversamente?
«Altroché. Avrebbe potuto accompagnare la "Mavi Marmara" sotto il suo controllo fino al porto di Ashdod. Non si uccide così deliberatamente come è stato fatto».
C´è chi sostiene la tesi della provocazione.
«Parlerei piuttosto da parte di Israele di una chiara dimostrazione di debolezza e di mancanza di fiducia in sé stessa. Un grande Paese non agisce così, con un atto di terrorismo. Non era quella la soluzione».
Israele ha sbagliato?
«Se io fossi cittadino israeliano, intendiamoci, starei con l´organizzazione pacifista Peace Now. Ho ovviamente simpatia per lo Stato d´Israele. Ma questo non significa non poter criticare un governo in cui c´è un primo ministro sciovinista, Netanyahu, un ministro degli Esteri fascista, Lieberman, e uno della Difesa stolto, Barak».
Gli elettori israeliani hanno scelto liberamente.
«Sì, ognuno si sceglie i governanti che crede. Mi sembra però una situazione paradossale. La gente, in fondo, si sceglie il proprio destino».
Erdogan fa bene a reagire con questa veemenza verbale inusuale contro Israele?
«Erdogan ha fatto un´ottima dichiarazione. Bisogna dire che il suo partito fa molto di più rispetto ai socialdemocratici o ai nazionalisti».
E la comunità ebraica di Istanbul che cosa dice?
«Hanno fatto un comunicato molto duro sul loro sito ufficiale, protestando per l´accaduto. È lo stesso sentimento provato quando ci furono i bombardamenti sulla Striscia di Gaza».
Nessun problema per gli ebrei a vivere in un ambiente a stragrande maggioranza musulmana?
«Io non vivo in questo Paese una sensazione di antisemitismo. Anche se poi, a volte, percepisci quasi di essere considerato uno straniero».
(m. ans.)

Repubblica 2.6.10
L’autore, sopravvissuto al ghetto di Varsavia: "Una scelta anche strategicamente sbagliata"
Halter: "È stata un´azione orribile non è così che si combatte una guerra"

I falchi al governo mi fanno pensare al vecchio proverbio: "Quando Dio vuol punire qualcuno, gli toglie l´intelligenza"
Il nuovo ruolo della Turchia complica il quadro, ma può anche portare a passi avanti positivi

GERUSALEMME - «Che si tratti di un errore militare o di una cattiva interpretazione degli ordini ricevuti, il risultato è sotto gli occhi di tutti. Ed è un massacro». Questo pensa lo scrittore e filosofo francese Marek Halter, che nel 1944, assieme ai genitori, riuscì a fuggire dal ghetto di Varsavia. «Vede, quello che è accaduto al largo di Gaza, mi fa sentire lo stesso sdegno che hanno provato i cattolici di fronte ai preti pedofili. Ma non per questo i cattolici hanno smesso di sentirsi tali. Allo stesso modo io continuerò a sentirmi ebreo, perché so che i soldati che hanno compiuto quell´eccidio sono una minoranza».
Signor Halter, non pensa che sia stato uno scivolone dell´attuale governo di "falchi", lo stesso che continua a costruire insediamenti in barba all´indignazione dell´intero pianeta?
«Certo, oggi a capo del governo israeliano non c´è Yitzhak Rabin. Ma sono state uccise nove persone, e questo è qualcosa di orrendo. Non solo: è stata anche una mossa strategicamente sbagliata, perché non è in questo modo che si combatte una guerra. Non credo che una tale operazione risulti utile né ai "falchi" né ai coloni. C´è un proverbio yiddish che dice: "Quando Dio vuole punire qualcuno, gli toglie l´intelligenza". Ora, in politica, l´idiozia costa sempre molto caro, perché quando si è idioti si diventa anche cattivi».
Quali saranno le conseguenze di quanto è accaduto?
«Israele è un paese democratico, perciò sono sicuro che i responsabili di un atto così barbaro saranno portati davanti alla giustizia. E colui che ha dato l´ordine di sparare sui pacifisti pagherà per quella decisione. Non ci dimentichiamo che quando il premier Olmert è stato inquisito per corruzione fu costretto a dimettersi».
E il processo di pace, in tutto questo?
«Il processo di pace israelo-palestinese è un rompicapo all´interno del quale c´è un nuovo protagonista: la Turchia, che una volta rifiutata dall´Europa, s´è voltata verso la regione alla quale appartiene, ovvero il mondo musulmano».
Si riferisce al ruolo di paciere tra l´Iran e il resto del mondo per la vicenda nucleare?
«Sì, ma oggi i turchi hanno una nuova ambizione, quella di intervenire nel lungo conflitto tra israeliani e palestinesi. E il ruolo che intende giocare è quello di sostituirsi all´Iran. Da un lato, è una novità positiva: se l´interlocutore di Hamas diventa Ankara, al posto dell´Iran di Ahmadinejad, è verosimile che si potranno fare passi avanti. Dall´altra, un nuovo protagonista delle dimensioni geo-strategiche della Turchia rischia anche di complicare le cose».
E i morti di due giorni fa, molti dei quali turchi, non miglioreranno la situazione.
«Già, poiché adesso che ci sono dei morti, i turchi si sentiranno autorizzati ad alzare la voce».
Che cosa fare per uscire da questo pantano?
«Per dare un´altra opportunità alla pace, bisognerà ancora una volta, e malgrado tutto, risvegliare l´opinione pubblica internazionale. Contro i "falchi" israeliani ma anche contro l´integralismo di Hamas».
(p. d. r)

Repubblica 2.6.10
Quando gli uomini programmano il male
risponde Corrado Augias

Caro Augias, marines israeliani hanno sparato contro coloro che portavano aiuti a Gaza. Può esserci azione più nefanda? Eppure si resta muti. Non per la particolare crudeltà del crimine, ma perché non ci si può indignare ogni volta, come se mai fosse successo prima, e sapendo che succederà ancora molte volte, forse sempre, sino a che l'umanità non scomparirà dalla faccia della terra. E la terra, muta, e le stelle mute, serberanno il ricordo delle nefandezze compiute dagli uomini. Non esiste un popolo buono e un altro cattivo. Tutti i popoli, ora possono essere vittima, ora carnefici. Anche il popolo più civile e più democratico del mondo, all'occorrenza diventa carnefice. Il guasto è nella natura umana. Gli uomini sono capaci di programmare il male. Ieri ad essere maltrattati, come il «servo conoscitore della sofferenza, simile a uno davanti al quale ci si copre la faccia», erano membri del popolo di Dio, del popolo di Isaia; oggi membri del popolo di Dio, del popolo eletto, con elmetto e faccia coperta, non certo per ribrezzo davanti al «servo sofferente», sono coloro che maltrattano. La differenza tante volte non è nella qualità del male compiuto, ma solo nella quantità.
Elisa Merlo lisamer@tiscali. it

Sì, è vero: «Il guasto è nella natura umana. Gli uomini sono capaci di programmare il male». Ma la politica dovrebbe servire proprio a questo. La buona politica dovrebbe raddrizzare, nei limiti del possibile, il legno storto dell'umanità. Ciò che manca in questo momento in Israele è soprattutto la lucidità di una visione politica quale aveva avuto per esempio Itzak Rabin, se la mano di un estremista non l'avesse assassinato mentre stava portando a compimento un possibile processo di pace, compreso il nodo di Gerusalemme. Era quindici anni fa e da allora le cose si sono bloccate. Sappiamo che su quelle navi non c'erano solo inermi pacifisti ma anche persone che reclamano la distruzione dell'"entità sionista", come viene beffardamente chiamato Israele. Ma appunto per questo sarebbe servita la politica: permettere ai veri pacifisti di portare a termine la loro azione, evitando la trappola che gli altri avevano preparato. Far sbarcare gli aiuti destinati ad un milione mezzo di persone tenute prigioniere di un blocco che David Grossman ieri su questo giornale ha definito «troppo lungo e ignobile». Il governo israeliano è andato invece a cacciarsi in un'azione nella quale stupidità e crudeltà si sono contese il primato. L'aggressione alle navi, i morti, la perdita ulteriore del prestigio di Israele avranno conseguenze che dureranno a lungo, altre vittime, forse un'altra Intifada. La sola speranza: che lo shock ponga fine ad una politica così stupida, cieca, crudele.

Repubblica 2.6.10
Prigionieri della forza
di Luigi Caracciolo

Il disastroso arrembaggio notturno è il paradigma di una non-logica fondata sull´uso della forza, non al servizio della politica ma in sua vece

Israele è prigioniero della sua forza. O meglio, dei suoi vertici militari, che hanno fatto dell´uso semiautomatico e volutamente eccessivo della forza il marchio dello Stato ebraico.

Lo hanno fatto con l´avallo dei leader politici e il sostegno di gran parte dell´opinione pubblica e, nelle intenzioni, era la garanzia della sopravvivenza di Israele in un mare di nemici aperti o subdoli. Nelle conseguenze, un efficace strumento di erosione della sicurezza nazionale.
Paradosso tanto più sorprendente perché oggi nessuno pare in grado di distruggere Israele. Almeno finché l´Iran non si doterà di un arsenale nucleare e spezzerà così il monopolio regionale non dichiarato di Gerusalemme in materia. Ciò che la strage del Mavi Marmara rende più, non meno probabile.
Il disastroso arrembaggio notturno al convoglio umanitario diretto a Gaza è il paradigma di questa non-logica. Fondata sull´uso della forza non al servizio della politica, ma in sua vece. Il boomerang è inevitabile. I vincitori della partita sono anzitutto Hamas e l´Iran, non certo le forze speciali della Marina che hanno avuto ragione dei civili a bordo della nave turca. Gerusalemme sostiene che fra loro vi fossero dei provocatori. Sicuro. A maggior ragione una leadership matura e responsabile non sarebbe dovuta cadere nella trappola. Per poi aggravare il danno, lasciando intendere che sia buono e giusto mitragliare all´impazzata chi è armato di bastoni e coltelli.
La prima regola di qualsiasi strategia è dividere il nemico. Israele tende sistematicamente a compattarlo. Si obietterà che in questo modo intende consolidare il senso di appartenenza allo Stato della sua piuttosto eterogenea popolazione, per un quinto araba e per il resto segnata da storie, culture, lingue diverse. Questo genere di pedagogia nazionale basato sull´emergenza permanente invita però a restare al di qua della linea d´ombra, con il fucile al piede e con la testa al fucile. Finora l´eccezionalismo ha funzionato. Nulla stabilisce che funzionerà domani e dopodomani.
La strategia di Israele è lo status quo infinito. Ma restar fermi quando tutto si muove - a cominciare dalla demografia araba e islamica - e macchiare la crema delle proprie Forze armate per eternare gli equilibri contingenti, implica la rinuncia a contare nel mondo. In altri termini: la forza di Israele ne colpisce la potenza.
Tale sindrome è forse indotta anche da una ragione più profonda: oggi la leadership israeliana, civile e militare, identifica il destino dello Stato con quello delle sue colonie. Non solo degli insediamenti ormai urbani in Cisgiordania, financo dell´avamposto che Israele ha abbandonato ma che non abbandona Israele: Gaza. Il blocco della Striscia è il tabù dei tabù, per non infrangere il quale Netanyahu è disposto a spararsi sui piedi. L´autolesionismo di Gerusalemme si spiega meglio con la rinuncia a ragionare in termini di interesse nazionale per accomodare l´estremismo irrazionale dei coloni e dei potenti gruppi politici e militari che ne hanno sposato la causa.
Mezzo milione di settlers tiene in ostaggio i restanti sette milioni di israeliani. Sono loro la quantità marginale capace di inclinare l´ago della bilancia domestica in un senso o nell´altro. Più giovani, più prolifici e molto più ortodossi dell´israeliano medio, i coloni esercitano l´arte a suo tempo praticata nel Senese da Ghino di Tacco. Con effetti leggermente più incisivi, stante la loro collocazione geopolitica, alla frontiera fra due mondi ostili.
Risultato: quelle che per Sharon dovevano essere le cinture di sicurezza di Israele, in mano a Netanyahu e Lieberman sono diventate le cinture con cui lo Stato ebraico rischia di soffocarsi.
Molti in Israele ne sono consapevoli, anche se preferiscono negarlo. Molti meno sono disposti a trarne le conseguenze. Non si può rimettere il genio/colono nella bottiglia/Israele senza rischiare la guerra civile. Né tantomeno mettere Tsahal sotto processo permanente. Conclusione: Netanyahu non avrà ragione, ma ha certamente la forza che gli deriva dalla mancanza di alternative visibili. Se questa per Israele sia una buona notizia, è lecito dubitare.

Repubblica 2.6.10
La Cassazione conferma la richiesta del procuratore generale: niente idoneità a chi esprime preferenze etniche
Adozioni, niente bimbi a genitori razzisti "Non si può scegliere il colore della pelle"
Bocciata la domanda di una coppia che voleva un figlio solo di origine europea
di Elsa Vinci

ROMA - Niente adozioni alle coppie "razziste". Per la prima volta nella storia della giurisprudenza italiana la Cassazione a Sezioni Unite ha stabilito che l´aspirante genitore non può scegliere l´etnia del bambino. Non otterrà l´idoneità chi preferirebbe figli di pelle bianca o rifiuta bimbi neri. Il magistrato non potrà convalidare decreti di adozione che contengano simili discriminazioni e, anzi, mettono in discussione la capacità stessa della coppia ad accogliere un bambino. Chiaro il monito della Suprema Corte: un figlio va amato, non scelto.
Il principio, sancito con la sentenza 13332, cassa la richiesta di una coppia siciliana che desiderava adottare solo piccoli di origine europea. Lo scorso 28 aprile la Procura generale di piazza Cavour, sollecitata da un esposto dell´Associazione Amici dei bambini, ha chiesto alle Sezioni Unite di mettere al bando i decreti di adozione con indicazioni sulla razza. Ieri il principio enunciato dalla Cassazione: «Il decreto di idoneità all´adozione pronunciato dal tribunale non può essere emesso sulla base di riferimenti all´etnia dei minori adottandi né può contenere indicazioni relative a tale etnia. Ove tali discriminazioni siano espresse dalla coppia di richiedenti, esse vanno apprezzate dal giudice di merito nel quadro della valutazione alla idoneità degli stessi alla adozione internazionale». La Corte stabilisce così che coloro che vogliono soltanto figli europei non sono pronti a diventare mamma e papà.
«Se sceglie il colore della pelle, che genitore è?», commenta l´Associazione famiglie adottive e affidatarie. Non è così definitivo V. M., quarantenne romano padre di una bambina colombiana di 11 anni, che sottolinea i problemi provocati dal razzismo ai piccoli e ai genitori adottivi. «La sua pelle è color caffellatte - dice - Chiunque la vede capisce che non ha i tratti somatici della famiglia. Io e mia moglie non l´abbiamo scelta. L´abbiamo accolta. L´amiamo ogni giorno, confrontandoci e accettando le sue diversità che per noi non sono quelle della pelle ma di una persona che cerca la sua identità. Non è scandaloso che alcuni, magari per basso livello di istruzione o per un complesso contesto ambientale, non si sentano in grado di affrontare la diversità della pelle. Negare che i problemi esistono non aiuta la causa».
Non a caso la Cassazione insiste sulla necessità che i servizi sociali diano una formazione adeguata alle coppie che intraprendono le procedure per l´adozione internazionale. Per guidarle «verso una più profonda consapevolezza di carattere solidaristico e prevenire opzioni di impronta discriminatoria», per aiutarle a superare le difficoltà di accogliere «un bimbo che non sia a propria immagine», o le paure di quanti dicono no al bambino diverso «per timore di fenomeni xenofobi che espongano a rischio l´integrazione del minore e creino in lui problemi di adattamento». La Corte non ammette che si esprimano preferenze per «determinate caratteristiche genetiche» anche perché tutti i bambini abbandonati hanno una storia «già profondamente tormentata» e più degli altri hanno bisogno di un padre e una madre «con peculiari doti di sensibilità».

martedì 1 giugno 2010

Repubblica 28.5.10
L'intervista/ Escono due libri dell'analista Antonino Ferro che oggi parla a Taormina
"I nostri sogni somigliano alle vignette di altan"
"Di notte e anche di giorno, la mente produce immagini che allontanano le angosce"
di Luciana sica

«Non sogniamo solo di notte, sogniamo anche da svegli: un´attività onirica altrettanto inconscia avviene durante il giorno, di continuo. Sono invece fantasmagorie della mente, ma comunque stati della coscienza, quei sogni ad occhi aperti che noi chiamiamo rêverie». Chi parla è Antonino Ferro, 63 anni, palermitano trapiantato a Pavia, ma conosciuto ovunque: i suoi libri sono tradotti in più di dieci lingue - dal turco all´ebraico, al coreano. Ora ne escono due nuovi: uno s´intitola Tormenti di anime (Cortina, pagg. 216, euro 21), l´altro - firmato con Simone Vender - si chiama La terra di nessuno fra psichiatria e psicoterapia (Bollati Boringhieri, pagg. 250, euro 32).
Ferro non rappresenta "la" psicoanalisi (che al singolare non esiste più), ma piuttosto la scuola bioniana - rêverie è un termine introdotto proprio dal geniale Bion (da rêver, in francese sognare). "Didatta" della Società psicoanalitica italiana, oggi parla al congresso di Taormina.
Il titolo del suo intervento rimanda a non meglio identificate "navette per l´inconscio". Ma cosa sono?
«Sono "shuttles" che ci consentono dei viaggi - di va e vieni - nell´inconscio e dall´inconscio. Una volta si guardava ai lapsus, agli atti mancati, alle dimenticanze e soprattutto al sogno notturno come strumenti che ci connettevano all´inconscio. Oggi prevale l´onirico in tutte le sue declinazioni».
Che fine ha fatto la "via regia" verso l´inconscio, tanto cara a Freud?
«Non si parla più esclusivamente del sogno notturno, ma anche di un pensiero onirico allo stato di veglia che trasforma in immagini tutte le sensazioni e gli stimoli da cui siamo bombardati. Sono immagini che si formano in modo inconsapevole. Noi li definiamo "pittogrammi"».
Pittogrammi? Siamo in pieno slang psicoanalitico... Può tradurre?
«I pittogrammi sono come le vignette di Altan».
In che senso?
«In questo senso: ovviamente le vignette di Altan sono tutt´altro che immagini inconsce, ma consentono una presa di distanza dalle "cose" che sono fonte di angoscia, perché ne restituiscono uno statuto di pensabilità, un senso. Ora, faccia conto che qualcosa ci procuri dolore o rabbia o frustrazione. Se quest´insieme di emozioni, meglio di protoemozioni, restano a uno stato crudo, non elaborato, producono "malattia". La nostra mente è però capace di trasformarle in pittogrammi, che noi oggi consideriamo i costituenti dell´inconscio e - tutti insieme - la matrice del sogno notturno».
Sta dicendo che la funzione Altan somiglia alla funzione Alfa di Bion?
«Sì, più o meno. Voglio dire soprattutto che se abbiamo la capacità di sognare di giorno e di notte, stiamo bene. La sofferenza psichica nasce proprio quando s´inceppa l´attività onirica: il dreaming ensemble, come lo chiama James Grotstein. Minore è la capacità di sognare, maggiori sono le severità delle patologie. Un altro analista americano, Thomas Ogden, tra i più creativi che abbiamo al mondo, dice che il fattore terapeutico fondamentale è aiutare il paziente a sognare i sogni che non è stato o non è capace di fare: la stanza dell´analisi è luogo onirico per eccellenza, è il sogno condiviso di due menti che costruiscono insieme significati e catene visive».
I sogni ad occhi aperti sono oziosi vagabondaggi della mente, pigre fantasticherie, o il concetto di rêverie li ha rivalutati?
«L´abbandono al flusso dei sogni ad occhi aperti implica una maggiore pienezza dell´anima. Una perdita provvisoria di contatto con la realtà può essere preziosa per focalizzare problemi, far riemergere ricordi, immaginare il futuro. Naturalmente cambia molto se si lascia spazio alla fantasia, all´immaginazione, o se prevale il pensiero computerizzato».
Negli ultimi mesi si è letto e parlato di "uomo senza inconscio" (Recalcati), o anche di "inconscio tecnologico" (Galimberti). Lei che ne pensa?
«Penso che l´inconscio è la nostra struttura portante come esseri umani. È come se al nostro corpo mancassero i femori: non potremmo alzarci dal letto, non potremmo vivere! Sarà un discorso poco alla moda, ma noi siamo sempre gli stessi da quando siamo diventati specie sapiens sapiens. Non possiamo comparare le ere geologiche con la vita di una rosa, per dirla con il poeta. In attesa di un salto evolutivo, non c´è alcuna novità nel funzionamento mentale, salvo che ne sappiamo molto di più».
La dimensione post-umana non fa nessuna differenza? Molti suoi colleghi parlano di un "contesto di morte", degli effetti - anche inconsci - del "traumatismo diffuso"...
«Il traumatismo diffuso c´è sempre stato: oggi con la crisi, il terrorismo, le catastrofi climatiche, ieri con le guerre e gli stermini, prima con le emigrazioni e le pestilenze, prima ancora con gli animali feroci che ci assalivano... Ma noi sogniamo come prima: i sogni della signora Sarkozy saranno simili a quelli di Cleopatra: cambia il linguaggio. E quando ci innamoriamo, perdiamo la testa non come un secolo fa, ma come seimila anni fa. E quando un figlio muore, abbiamo le stesse angosce del padre di Patroclo! Certo che abbiamo più difficoltà a entrare in contatto con le nostre emozioni più profonde, ma bisogna intendersi: una cosa è la sociologia, un´altra l´antropologia, un´altra ancora la psicoanalisi».


Repubblica 1.6.10
La condanna della marionetta
di David Grossman

Nessuna spiegazione può giustificare o mascherare il crimine commesso da Israele e nessun pretesto può motivare l'idiozia del suo governo e del suo esercito. Israele non ha inviato i suoi soldati a uccidere civili a sangue freddo, in pratica era l'ultima cosa che voleva che accadesse, eppure una piccola organizzazione turca, dall'ideologia fanatica e religiosa, ostile a Israele, ha arruolato alcune centinaia di pacifisti ed è riuscita a fare cadere lo Stato ebraico in una trappola proprio perché sapeva come avrebbe reagito e fino a che punto era condannato, come una marionetta, a fare ciò che ha fatto.

Non si spara sulle opinioni "È stato un atto criminale destinato a riaccendere la spirale di odio e vendette" Grossman: "Il blocco di Gaza è un errore" Non tutti i partecipanti al convoglio sono animati da intenzioni umanitarie e alcune dichiarazioni sulla distruzione di Israele sono infami, ma queste opinioni non prevedono la pena di morte.

Quanto deve sentirsi insicura, confusa e spaventata una nazione per comportarsi come ha fatto Israele! Ricorrendo a un uso esagerato della forza (malgrado aspirasse a limitare la portata della reazione dei presenti sulla nave) ha ucciso e ferito civili al di fuori delle proprie acque territoriali comportandosi come una masnada di pirati. È chiaro che queste mie parole non esprimono assolutamente consenso alle motivazioni, nascoste o evidenti – e talvolta malvagie – di alcuni dei partecipanti al convoglio diretto a Gaza. Non tutti sono pacifisti animati da intenzioni umanitarie e le dichiarazioni di alcuni di loro riguardanti la distruzione dello stato di Israele sono infami. Ma tutto questo ora è irrilevante: queste opinioni non prevedono, per quanto si sappia, la pena di morte.
L´azione compiuta da Israele ieri sera non è che la continuazione del prolungato e ignobile blocco alla striscia di Gaza, il quale, a sua volta, non è che il prosieguo naturale dell´approccio aggressivo e arrogante del governo israeliano, pronto a rendere impossibile la vita di un milione e mezzo di innocenti nella striscia di Gaza pur di ottenere la liberazione di un unico soldato tenuto prigioniero, per quanto caro e amato. Il blocco è anche la continuazione naturale di una linea politica fossilizzata e goffa che a ogni bivio decisionale e ogni qualvolta servono cervello, sensibilità e creatività, ricorre a una forza enorme, esagerata, come se questa fosse l´unica scelta possibile.
E in qualche modo tutte queste stoltezze – compresa l´operazione assurda e letale di ieri notte – sembrano far parte di un processo di corruzione che si fa sempre più diffuso in Israele. Si ha la sensazione che le strutture governative siano unte, guaste. Che forse, a causa dell´ansia provocata dalle loro azioni, dai loro errori negli ultimi decenni, dalla disperazione di sciogliere un nodo sempre più intricato, queste strutture divengano sempre più fossilizzate, sempre più refrattarie alle sfide di una realtà complessa e delicata, che perdano la freschezza, l´originalità e la creatività che un tempo le caratterizzavano, che caratterizzavano tutto Israele. Il blocco della striscia di Gaza è fallito. È fallito già da quattro anni. Non solo tale blocco è immorale, non è nemmeno efficace, non fa che peggiorare la situazione, come abbiamo potuto constatare in queste ore, e danneggia gravemente anche Israele. I crimini dei leader di Hamas che tengono in ostaggio Gilad Shalit da quattro anni a questa parte senza che abbia ricevuto nemmeno una visita dai rappresentanti della Croce Rossa, che hanno lanciato migliaia di razzi verso i centri abitati israeliani, vanno affrontati per vie legali, con ogni mezzo giuridico a disposizione di uno stato. Il prolungato isolamento di una popolazione civile non è uno di questi mezzi. Vorrei poter credere che il trauma per la sconsiderata azione di ieri ci porti a riesaminare tutta questa idea del blocco e a liberare finalmente i palestinesi dalla loro sofferenza e Israele da questa macchia. Ma la nostra esperienza in questa regione sciagurata ci insegna che accadrà invece il contrario: che i meccanismi della violenza, della rappresaglia e il cerchio della vendetta e dell´odio ieri hanno ricominciato a girare e ancora non possiamo immaginare con quale forza.
Ma più di ogni altra cosa questa folle operazione rivela fino a che punto è arrivato Israele. Non vale la pena di sprecare parole. Chi ha occhi per vedere capisce e sente. Non c´è dubbio che entro poche ore ci sarà chi si affretterà a trasformare il senso di colpa (naturale e giustificato) di molti israeliani, in vocianti accuse a tutto il mondo.
Con la vergogna, comunque, faremo un po´ più fatica a venire a patti.
Traduzione dall´ebraico di A. Shomroni

l’Unità 1.6.10
Verso la catastrofe
di Moni Ovadia

Era inevitabile che accadesse. L’insensato atto di pirateria militare israeliano contro il convoglio navale umanitario con la sua tragica messe di morti e di feriti non è un fatale incidente, è figlio di una cecità psicopatologica, della illogica assenza di iniziativa politica di un governo reazionario che sa solo peggiorare con accanimento l’iniquo devastante status quo. Di cosa parliamo? Dell’asfissia economica di Gaza e della ultraquarantennale occupazione militare delle terre palestinesi, segnata da una colonizzazione perversa ed espansiva che mira a sottrarre spazi esistenziali ad un popolo intero.
Dopo la stagione di Oslo, il sacrificio della vita di Rabin, non c’è più stata da parte israeliana nessuna vera volontà di raggiungere una pace duratura basata sul riconoscimento del diritti del popolo palestinese sulla base della soluzione due popoli due stati. Le varie Camp David, Wye Plantation, Road Map sono state caratterizzate da velleitarismo, tattiche dilatorie e propaganda allo scopo di fare fallire ogni accordo autentico. Anche il ritiro da Gaza non è stato un passo verso la pace ma un piano ben riuscito per spezzare il fronte politico palestinese e rendere inattuabili trattative efficaci. Abu Mazen l’interlocutore credibile che i governanti israeliani stessi dicevano di attendere con speranza è stato umiliato con tutti i mezzi, la sua autorità completamente delegittimata. L’Autorità Nazionale Palestinese è stata la foglia di fico dietro alla quale sottoporre i palestinesi reali e soprattutto donne, vecchi e bambini ad una interminabile vessazione nella prigione a cielo aperto della Cisgiordania e nella gabbia di Gaza resa tale da un atto di belligeranza che si chiama assedio.
Ma soprattutto l’attuale classe politica israeliana brilla per assenza di qualsiasi progettualità che non sia la propria autoperpetuazione. È riuscita nell’intento di annullare l’idea stessa di opposizione grazie anche ad utili idioti come l’ambiziosissimo “laburista” Ehud Barak che per una poltrona siede fianco a fianco del razzista Avigdor Lieberman. Questi politici tengono sotto ricatto la comunità internazionale contrabbandando la menzogna grottesca che ciò che è fatto contro la popolazione civile palestinese garantisca la sicurezza agli Israeliani e a loro volta sono tenuti sotto ricatto dal nazionalismo religioso di stampo fascista delle frange più fanatiche del movimento dei coloni, una vera bomba ad orologeria per il futuro dello stato di Israele. La maggioranza dell’opinione pubblica sembra narcotizzata al punto da non vedere più i vicini palestinesi come esseri umani, ma come fastidioso problema, nella speranza che prima o poi si risolva da solo con una “autosparizione” provocata da una vita miserrima e senza sbocco. Le voci coraggiose dei giusti non trovano ascolto e anche i più ragionevoli appelli interni ed esterni come quello di Jcall, vengono bollati dai falchi dentro e fuori i confini con l’infame epiteto di antisemiti o antiisraeliani. Se questo stato di cose si prolunga ancora il suo esito non può essere che una catastrofe.

l’Unità 1.6.10
«Qua ci giochiamo la libertà»: al Quirino la rivolta degli scrittori
Nel teatro romano decolla bene l’iniziativa degli editori: da Scarpa a Camilleri, da Rosetta Loy a Nadia Urbinati Rodotà: «Le persone tornano a essere opinione pubblica»
di Luca Dal Frà

La reazione c’è: da carne da macello per i sondaggi, le persone stanno tornando a essere opinione pubblica» scandisce Stefano Ro-
dotà: il teatro Quirino ieri era pieno per l’apertura di «I libri sulla libertà», iniziativa degli editori contro la legge bavaglio, che organizza reading di scrittori, giornalisti e gente comune nelle centinaia di librerie che hanno aderito. In questo teatro nel cuore di Roma sono accorsi Andrea Camilleri, Guido Crainz, Rosetta Loy, Tiziano Scarpa, Nadia Urbinati e molti altri per leggere i testi più o meno sacri della libertà democratica. E con loro oltre a Rodotà, sono intervenuti anche Giovanni Sartori e Alessandro Pace. Dopo aver letto l’appello di Concetto Marchesi agli studenti dell’Università di Padova, un j’accuse «All’intera classe dirigente italiana» che sembrava scritto oggi e risaliva al 1943, Camilleri ha ricordato che la Legge bavaglio ha come obbiettivo non solo la stampa, ma anche «garantire ai mafiosi e ai corrotti della cricca di fregarci indisturbati nel più assoluto silenzio». Avrà sobbalzato il fantasma di Pericle constatando l’emozione del pubblico alla lettura di Loy del suo «Discorso agli ateniesi» del 461 a. C, e applaude anche Suor Rita Pintus delle librerie Paoline, catena che ha aderito come Feltrinelli e molte altre all’iniziativa, da cui si è tenuto lontano Mondadori sia come editore sia come catena libraria, ma a cui hanno aderito alcune librerie del gruppo.
«In materia di stampa non c’è via di mezzo tra la servitù e la libertà» è la conclusione secca di Nadia Urbina-ti alla lettura di Democrazia in America di Alexis de Tocqueville: da Antonio Gramsci a Leone XIII, passando per Indro Montanelli, ripescato dal suo allievo Marco Travaglio, Elsa Morante, John Stuart Mill, letto da Corrado Augias, fino a Sergej Dovlatov, sembrano tutti testi di questi ultimi giorni sulla situazione italiana. «La lesione del circuito dell’informazione è palese – spiega nel suo intervento Rodotà –, ma ci sono anche segni positivi: gli editori dei giornali minacciano la disobbedienza, i parlamentari potranno inserire negli atti parlamentari le inchieste, come accadde durante la guerra nel Viet Nam con i “Pentagon papers”, in modo da farli diventare atti pubblici. E l’organizzazione “Reporters sans frontière” ha offerto il suo sito per pubblicare le notizie proibite in Italia. Solo nei regimi totalitari però i cittadini sono costretti a leggere le notizie sul loro paese nei siti internet stranieri». Ci sono anche critiche alla sinistra, considerata da molti corresponsabile del degrado a cui Berlusconi sta portando l’Italia: e su questo Sartori prende un applauso lunghissimo.
«È mancata una reazione morale, sulle libertà non si può trattare, non si negozia»: sintetizza così gli umori del pubblico Giuseppe Laterza editore che assieme a Marco Cassini di Minimum fax, e Stefano Mauri, del gruppo Mauri Spagnol, è stato tra i promotori dell’iniziativa. Gli chiediamo se l’adesione di oggi fa ben sperare? «È straordinaria, ma più interessante è quella degli altri editori, dalle Edizioni San Paolo a De Agostini, e delle piccole librerie che organizzeranno in questa settimana i reading, senza considerare le 12 mila firme al nostro appello tra cui quella spontanea dello storico britannico Eric Hobsbawm». Ma perché gli editori di libri si stanno muovendo per i giornali, avete paura dell’indice? «Siamo stanchi del veleno che viene sparso nella società italiana, inquina il terreno della lettura e costringe gli italiani a guardare la televisione».

l’Unità 1.6.10
Fermiamoli. Intervista a Nadia Urbinati
«Disobbedienza civile
per garantire il rispetto della Costituzione»
La studiosa: questa protesta significa rischiare, assumersi responsabilità e colpa È un atto politico ma è anche una scelta basata sul coraggio dei singoli
di Jolanda Bufalini

Ma la coscienza è la definizione che alla fine trova Nadia Urbinati, politologa “pendolare” fra
Stati Uniti (dove insegna alla Columbia University) e l’Italia. È la cattiva coscienza di una maggioranza che forza il dettato costituzionale sapendo di farlo. Ed è questa la ragione che spiega, sul piano etico e politico, perché si sta producendo in Italia una situazione che dà senso alla disubbidienza civile. Malacoscienza perché quella maggioranza «sa bene che è altamente probabile che il testo sulle intercettazioni non potrà superare il vaglio della Corte Costituzionale. Però potrà sfruttare ai propri fini il lasso di tempo in cui la legge sulle intercettazioni sarà quella approvata dalla maggioranza in Parlamento, e questo produrrà un danno alle nostre libertà».
Lei considera quindi opportuna la disubbidienza civile in queste circostanze? «La disubbidienza civile è l’ultima risorsa, l’estrema ratio. È un’azione certamente politica ma che è messa in atto da individui, dal singolo giornalista, dal singolo magistrato che rischia. Prima di questo, la situazione ottimale sarebbe la mobilitazione politica più ampia possibile, attraverso l’impegno individuale e collettivo dei cittadini, attraverso la battaglia parlamentare e la mobilitazione dell’opinione pubblica, per cambiare o non fare approvare la legge. Quando tutti questi tentativi saranno stati fatti, se nonostante tutto questo, il ddl sulle intercettazioni sarà legge, allora la disubbidienza civile è a mio avviso eticamente giustificata».
Dunque lei auspica, prima di tutto, una mobilitazione politica che eviti l’approvazione del disegno di legge? «Tutto quello che si può fare come iniziativa politica e parlamentare, fino al ricorso alla Corte Costituzionale. Ma bisogna sapere che, una volta che ci sarà la legge, prima che l’Alta
Corte si pronunci, passerà del tempo e questa legge produrrà sofferenza e danno alle nostre libertà costituzionali: sul piano della libertà di stampa, perché la nostra Costituzione ne prevede la limitazione solo in caso di grave rischio per l’ordine pubblico. E sul piano della separazione dei poteri, per i limiti che vengono imposti al lavoro dei magistrati. Io non sono una giurista ma mi pare che la Corte costituzionale non potrà ammettere questa legge. E le decisioni di maggioranza sono legittime solo nel rispetto del quadro costituzionale».
È questo che giustifica il ricorso alla disubbidienza? «Sì, in una società democratica e costituzionale la disubbidienza civile è eticamente giustificata dal conflitto della legge con la norma superiore e fondativa dell’unità dello Stato. In questo conflitto vince la Carta costituzionale. Fu così in America, nella lotta contro la segregazione razziale. La disubbidienza non è il sovvertimento dell’ordine costituito, non è illegalità ma, al contrario, affermazione dei principi che stanno a fondamento dello Stato».
Si sta riferendo alle battaglie per i diritti civili degli anni Sessanta? «Il caso più celebre è quello di Martin Luther King, ma non fu il solo, ci furono molti casi di disubbidienza civile. Le leggi che proibivano ai neri di sedere negli stessi autobus con i bianchi, per esempio, erano in contrasto con la dichiarazione d’Indipendenza e con la Carta dei diritti».
Lei dice che questi sono i casi in cui la disubbidienza civile è eticamente e politicamente giustificata, ma chi disobbedisce può appellarsi a norme sancite dal nostro ordinamento?
«No, la disubbidienza civile è un atto di coraggio democratico dei singoli cittadini, che pagheranno per questo. E sanno che dovranno rischiare e pagare. Sanno che andranno incontro a conseguenze, se ne assumeranno la responsabilità e la colpa. Nella nostra Costituzione non c’è il diritto alla Resistenza, di cui pure si discusse nell’assemblea costituente».

Repubblica 1.6.10
Scrittori anti-bavaglio. Laterza: impossibile fare libri d´inchiesta
Camilleri: rischio fascismo siamo pronti a disubbidire
di Alberto D’Argenio

ROMA - Così torniamo al fascismo. I protagonisti del reading contro la legge-bavaglio sulle intercettazioni non hanno dubbi: uccide la coscienza dell´opinione pubblica e con essa la democrazia. Partite ieri in uno stracolmo teatro Quirino di Roma, le "Letture per la libertà di stampa" organizzate da un centinaio di editori insieme a librai e scrittori andranno avanti tutta la settimana in tutta Italia. «La legge sulle intercettazioni non tocca solo giornali e giornalisti, ma anche le Case editrici che pubblicano libri d´inchiesta, anch´essi potenziali destinatari del ddl», ha detto l´editore Giuseppe Laterza, tra gli organizzatori insieme a Marco Cassini (Minimum Fax) e Stefano Mauri (Mauri-Spagnol).
Ad aprire le letture dei brani è stato Andrea Camilleri, che ha proposto l´appello agli studenti che il rettore dell´università di Padova, Concetto Marchesi, pronunciò il primo dicembre 1943 lasciando l´ateneo per non sottomettersi al fascismo. Un discorso (vibrante la lettura dello scrittore siciliano) che si chiude così: «Liberate l´Italia dalla schiavitù dell´inganno». Passaggio che per Camilleri definisce perfettamente «lo sporco e il luridume dell´attacco alla libertà che oggi si ripropone sotto altre forme». Difendiamo l´informazione - ha proseguito il padre di Montalbano - anche se con la legge-bavaglio non ci sarà proprio più nulla di cui scrivere perché i magistrati non potranno più lavorare «lasciando i mafiosi e la cricca liberi di fregarci nel silenzio». Quindi Camilleri si è congedato dal pubblico con un laconico «buona fortuna». E di grande attualità anche il discorso di Pericle agli Ateniesi, che Paolo Rossi non riuscì a leggere in tv e ieri proposto da Rosetta Loy.
Sul palco anche Stefano Rodotà, secondo il quale «quando si blocca la conoscenza dei fatti si impedisce di deliberare e mettendo a repentaglio la vita democratica: è proprio dei regimi totalitari obbligare i propri cittadini a leggere su siti stranieri le notizie del proprio Paese». Quindi è intervenuto il politologo Giovanni Sartori, che ha definito «vergognosa» la legge-bavaglio: «È l´ultima risorsa per creare una falsa, disinformata e stupida opinione pubblica che non sa nulla del mondo e sa quasi solo cose false dell´Italia». E Marco Travaglio è stato tra coloro che hanno evocato l´inosservanza della legge. Come Massimo Carlotto, per il quale «non resta che la disobbedienza civile». Chi non c´era, come Dacia Maraini, ha affidato ad altri le proprie riflessioni. La serata è stata chiusa da Gianrico Carofiglio, magistrato, scrittore e senatore del Pd: «Il bavaglio che citava Camilleri era lo stesso programma della loggia P2. Non a caso vi erano iscritti anche esponenti del governo»

Repubblica 1.6.10
Il carattere è scritto nella chimica ecco gli ormoni della personalità
L´antropologa Helen Fisher divide l´umanità in pionieri, fondatori, diplomatici e scopritori. Un oroscopo biochimico che si forma nel grembo materno
di Andrea Tarquini

Possiamo innamorarci con il classico colpo di fulmine, oppure scoprire pian piano che ci piace, ci attira e ci interessa una persona che conoscevamo da anni. L´amore è cieco, si dice da millenni. Ma è governato più di quanto non si pensi dalla biochimica: ormoni di diverso tipo attivano differenti regioni del nostro cervello, ci fanno reagire diversamente a stimoli e segnali. Ce lo spiega Helen Fisher, docente alla Rutgers University del New Jersey, esperta di fondamenta neurologiche delle relazioni sessuali e amorose. E nel suo libro "I quattro tipi dell´amore", appena uscito in Germania (Die vier Typen der Liebe, ed. Droemer), scritto dopo aver studiato questionari di 28mila persone, cataloga appunto questi quattro tipi di caratteri: il pioniere, il diplomatico, lo scopritore, il fondatore. E prova a spiegarci se e in che misura possono stare bene insieme.
Scienza seria, tanto che la compassata ma attenta Welt am Sonntag ha appena dedicato al tema una pagina intera. Premessa: i quattro tipi sono semplificazioni per classificare i diversi tipi d´influsso dei differenti ormoni. I più importanti sono testosterone, estrogeni, noradrenalina, dopamina, serotonina e oxitocina. Nell´antichità si distingueva tra collerici, sanguigni, melancolici e flegmatici. Ma la maggior parte degli individui è un misto, subisce influssi di diversi ormoni, presenti in diverse quantità nei nostri organismi. Proviamo allora a riassumere questa specie di oroscopo degli ormoni.
Il pioniere spesso si sviluppa da alte concentrazioni di testosterone nell´utero materno. È diretto e insieme analitico, sa imporre le sue visioni e i suoi piani, sa pensare in modo strategico. I "pionieri" sono padroni di sé, pragmatici maestri d´autocontrollo, pronti ad aiutare il prossimo, ma anche tendenti a frenare i sentimenti, ad analizzarli con scetticismo. Tra i vip, sono classificabili come "pionieri" Obama, o Angela Merkel. La coppia migliore riesce loro con altri pionieri, oppure con un diplomatico. Come Flavio Briatore, tranquillo anche nelle avversità.
E chi è costui? È altamente influenzato da estrogeni, ha la capacità di riassumere, memorizzare e analizzare tanti dati, e rifletterci. È aperto, intuitivo, portato alla fiducia verso il prossimo. Tende a sognare a occhi aperti, cerca l´anima, l´amore, la verità, e insieme è alla permanente ricerca di se stesso, e insieme malinconico e spesso dubbioso su se stesso, come Leonard Cohen in alcuni dei suoi migliori testi, dice la Fisher. Il diplomatico è comunque fatto apposta per la vita di relazione. Può andargli bene con il pioniere, o con lo scopritore, molto più problematica è una sua unione con un fondatore.
Vedremo subito perché, ma descriviamo prima il terzo tipo di amante: è definito "scopritore". È curioso, creativo, ottimista, vuole essere conquistato sia sul piano sensuale sia intellettuale, altrimenti finisce preda della noia. Merito, o colpa, del gene Drd4, che regola l´attività della dopamina. Sta bene con un altro scopritore, o con un diplomatico.
Quarto ma non ultimo, il "fondatore". Il suo valore ormonale dominante, la serotonina, contribuisce a renderlo una persona con i piedi per terra, metodico, tranquillo, spinto al rispetto verso l´autorità, a volte anche un po´ noioso. Il suo ideale è avere una famiglia intatta, o crearla. Sta bene con un altro tipo fondatore, può trovare la felicità anche con un diplomatico o con un pioniere, ma meno che mai con uno scopritore. Un esempio di fondatore è il principe ereditario britannico William, mentre suo fratello minore principe Harry è chiaramente uno scopritore, che tenta vie inabituali. "Per fortuna non è lui il primogenito", scherza il giornale tedesco. Certo, sono schemi semplificanti: in maggioranza, siamo tutti un misto tra i quattro tipi di essere umano e di amante. O meglio, miliardi di misti con dosi diverse. Come tanti cocktail irripetibili di qualità, doti, difetti, emozioni. Se i diversi dosaggi biochimici producono armonia, creano una combinazione naturale, che spinge a una profonda intimità, perché ci si capisce meglio intuitivamente. Il banale, eterno sogno dell´amore perfetto, insomma. Reso possibile o irraggiungibile dal cocktail-oroscopo degli ormoni.

Europa 1.6.10
Quando il denaro non contava
di Mari Lavia

C’era un tempo in cui le minoranze all’interno di un partito erano destinate a rimanere tali, era un tempo in cui una minoranza, in base ad un accordo non scritto, si ritagliava una mera funzione di condizionamento: non era molto ma poteva anche non essere poco.
Nel Psi di Nenni, poi di De Martino, fino a Craxi i lombardiani furono esattamente questo: una corrente di minoranza, piccola, combattiva, integerrima, orgogliosa della propria vocazione minoritaria. Ad immagine del suo capo, Riccardo Lombardi.
Una figura sulla quale recentemente sono apparsi in libreria due volumi, uno di Carlo Patrignani (Lombardi e il fenicottero – ed. L’asino d’oro), l’altro (una riedizione di un saggio di tanti anni fa, semplicemente: Lombardi, Ediesse) di Miriam Mafai.
«Io ho imparato molto da Riccardo Lombardi su come si fa dissenso », confidò nell’orazione ai funerali dell’“Ingegnere” (all’epoca era raro un dirigente socialista laureato) uno che di minoranze se ne intendeva, Pietro Ingrao. E in effetti è senz’altro vero che Lombardi fu un gran “dissidente”, degno epigono di quella corrente laica, azionista, “capitiniana” (come sottolinea Marco Pannella nella partecipata introduzione al libro di Patrignani) che vien giù dai fermenti democratici più vivi del Risorgimento.
L’incontro con il socialismo italiano – dopo la fase azionista – lo colloca fra gli anticomunisti progressisti (la perdurante polemica con colui che Patrignani chiama «il freddo Togliatti»), ed è sempre col suo tratto scettico che Lombardi accompagnò l’evoluzione che condusse il Psi al primo governo di centrosinistra in alleanza con la Dc: esperienza travagliata, breve, oggi grandemente rivalutata, specie al confronto con i conati riformisti successivi.
Ecco, di Lombardi piace ricordare, soprattutto alla vigilia del 2 giugno, proprio quelle caratteristiche “minoritarie” che in ultima analisi lo costrinsero in una posizione marginale nel suo partito – l’intransigenza morale, la coerenza e la schiettezza (fu fra i pochissimi a stigmatizzare apertamente i tratti autoritari di Craxi) e anche la lucidità che – viene detto nel libro di Patrignani – lo portò «ad avere ragione dieci anni prima». Insieme – infine – a quella modestia e disinteresse personale che gli fece rispondere così a chi gli chiedeva se avesse mai pensato di avere più denaro: «Non avrei saputo cosa farne.
Non ho neppure una casa. Mi basta poter comperare dei libri».

Il Foglio 1.6.10
Urlatori di Dio
di Luigi Manconi

Devo dire: io, sulle questioni di bioetica (così come su altre tematiche), ho le medesime convinzioni dei Radicali. C’è, tuttavia, una differenza notevole nelle motivazioni che mi portano ad assumere quelle stesse posizioni pubbliche: nel senso che io vi arrivo attraverso un percorso che cerca costantemente di affidarsi anche a una fondazione morale delle scelte valoriali e, in ultima istanza delle opzioni politiche. Mentre i Radicali privilegiano una logica argomentativa concentrata prevalentemente sul piano razionale-utilitaristico (nel significato che la filosofia contemporanea attribuisce a quest’ultima formula). Sarà forse la peculiarità del mio approccio-che tenta di rifarsi, appunto, a un sistema di valori. eticamente costituiti - che mi rende sensibile, o comunque non indifferente, all’accusa più bruciante che mi viene rivolta. E’ un’accusa dettata, in genere, da un calcolo strumentale, e tesa a produrre un effetto di suggestione, che consiste nell’attribuire a chi sostiene posizioni come le miele nostre, una "tentazione eugenetica". Il fatto di sapermi totalmente estraneo a quel rischio non riesce a tranquillizzarmi e questo, oltre a produrre pericolosi travasi di bile, suscita in me quel disdicevole sentimento di avversione morale verso, nell’ordine. Eugenia Roccella, Maurizio Gasparri, monsignor Elio Sgreccia, il prof. Francesco D’Agostino e, nonostante tutto, Giuliano Ferrara (risparmio solo Gaetano Quagliariello in ragione di una trascorsa familiarità, che mi rende immotivatamente indulgente verso il più colpevole tra tutti). Eppure, il fatto di replicare - come so e come posso - a quell’accusa e ritorcerla contro chi la muove a finì esclusivamente ideologicodemagogici, non mi rasserena: e proprio perché so bene quanto le questioni di bioetica e, in particolare, quelle che intersecano categorie come la continuità e la intangibilità della vita umana, si affaccino sull’ignoto e sfiorino l’inaudito.
E so bene quanto simili questioni siano drammaticamente controverse: tali da non consentire letture semplificate e soluzioni nette. Pressoché tutte le grandi questioni di bioetica infatti si presentano, nella forma del dilemma che oppone due diversi diritti, entrambi legittimi ed entrambi degni di trascrizione giuridica. Si può dire, in estrema sintesi, che la bioetica opera nella sfera pubblica in quanto chiamata a dirimere il conflitto tra quei differenti diritti.
Quando quelle questioni si proiettano sul piano legislativo, la politica - che reclama in genere decisioni semplici tende a risolvere la tensione tra i due diritti, privilegiando l’uno e sacrificando l’altro. Rinunciando con ciò alla scelta, più ardua ma più equa, di elaborare - per quanto faticoso possa risultare - una mediazione virtuosa e una convivenza pacifica tra domande in contrasto. Non a caso, la "soluzione politica semplice", con gli effetti regressivi che produce, tende a presentarsi -nella cultura della destra, oggi maggioritariamente clericale - come la più fedele traduzione pubblica di un precetto enunciato solennemente dalla chiesa cattolica: quello che afferma "la sacralità della vita dal concepimento fino alla morte naturale".
Dov’è chi parla di deriva eugenetica? Dico tutto ciò per porre un quesito: che relazione c’è tra quella "sacralità" e la delibera numero 851 (31 marzo 2009) della regione Veneto? Quella dove si stabiliscono "controindicazioni assolute al trapianto d’organo" in caso di "danni cerebrali irreversibili" e "ritardo mentale con quoziente intellettivo inferiore a 50"; e si oppongono "controindicazioni relative" per chi presenti "un ritardo mentale con quoziente intellettivo inferiore a 70".
La questione è di eccezionale e drammatico rilievo e può adombrare una terribile spirale etica. Sorprende, pertanto, che il foltissimo esercito dei "difensori della vita" e della "tutela della dignità umana sempre e comunque" osservi un rigoroso silenzio. A sollevare il caso sono state, meritoriamente, le deputate radicali Maria Antonietta Farina Coscioni e Rita Bernardini, e il Corriere della Sera di sabato 29 maggio.
Ma dove son tutti quelli che urlano alla "deriva eugenetica" anche solo quando si parla di fecondazione assistita? La delibera della regione Veneto solleva una fondamentale questione di etica pubblica e una, altrettanto cruciale, di equità.
A differenza degli urlatori di Dio, non dirò che il provvedimento della regione Veneto è"nazista"; e penso che quanto scritto da Margherita De Bac sul Corriere, seppure non condivisibile, rappresenti un interrogativo serio: "Non potrebbe configurarsi come accanimento terapeutico il fatto di imporre un trapianto. e le pesanti conseguenze dei farmaci antirigetto, a un malato che non è in grado di comprendere la cura?". Ma ciò che lascia davvero scandalizzati sono le parole dell’assessore regionale alla Sanità Luca Coletto: "II nostro è un sistema d’avanguardia. E’ bene riflettere su questi interrogativi per non utilizzare in modo improprio le risorse". Le risorse? Dio lo perdoni: e, intanto, si affidi, quel Coletto, alle cure amorevoli di Maurizio Gasparri e di monsignor Elio Sgreccia.

lunedì 31 maggio 2010

l’Unità 31.5.10
Via Tasso «ente inutile»
Il Museo della memoria che Tremonti condanna
Tra il ’43 e il ’44 le SS qui torturarono 2.000 cittadini. Oggi, coi suoi graffiti, custodisce il ricordo della Resistenza romana. Ma non vale 50.000 euro...
di Maria Serena Palieri

C’è una teca a via Tasso in cui è riassunta, come nessun poeta avrebbe potuto fare (forse ci sarebbe riuscito Giorgio Caproni, il poeta maestro elementare), l’Italia che ribellandosi al nazifascismo usciva dalla guerra: custodisce una pagnotta sulla quale Ignazio Vian scrisse l’ultimo saluto alla sua famiglia, appoggiata su un tricolore senza «traditrici» insegne sabaude. Vian, già ufficiale, l’8 settembre era stato tra i primi a diventare partigiano, arrestato e torturato aveva retto, non aveva denunciato i suoi, finì impiccato. Aveva 27 anni. Il pane, la bandiera, quegli affetti primari da figlio, da ragazzo. Sessantasei anni dopo basterebbe una cifra altrettanto elementare, 50.000 euro un «bicchierino» la definisce il presidente Antonio Parisella per salvare il Museo Storico della Liberazione che ha sede in via Tasso.
Lì dove, nel palazzo costruito negli anni Trenta dai principi Ruspoli e dato in affitto all’ambasciata tedesca a Roma, dopo l’occupazione, tra il ’43 e il ’44, al civico 145 la Sicherheitspolizei, agli ordini dell’Obersturmbannführer Herbert Kappler, in stanze rese sorde e cieche murando finestre, perennemente buie staccando la luce e controllabili grazie a spioncini sulle porte, imprigionò e torturò. Via Tasso a Roma è ancora un nome che evoca terrore, nausea. A Via Tasso, in quei mesi, si finiva per un niente. Ci finirono Giuliano Vassalli (ne scampò) e Giuseppe Cordero Lanza di Montezemolo (ucciso alle Ardeatine). Ci finirono in duemila, tra donne e uomini: militari passati in clandestinità, cittadini qualunque, anche giovanissimi e anche vecchissimi, chiunque fosse sospetto di legami con la Resistenza, di sapere chi proteggeva ebrei, dove si fabbricavano volantini e i chiodi a tre punte usati per forare i copertoni dei camion militari. Da via Tasso uscirono gli antifascisti trucidati a Forte Bravetta e alle Fosse Ardeatine. Da lì il 4 giugno 1944 uscì Bruno Buozzi per andare a morire, ucciso in extremis dalle Ss in fuga, con altri 12 prigionieri, nell’eccidio della Storta. Lì, quello stesso 4 giugno, quando romani e romane si riversarono nell’edificio odiato, fu quasi per miracolo ritrovato dopo un mese di torture, e liberato, Arrigo Paladini, sottotenente dell’Esercito catturato
mentre dal Sud era in missione clandestina a Roma, che vent’anni dopo diventerà uno dei direttori del Museo. Ma ecco, stante alla manovra di Tremonti, a via Tasso si chiude: chiuso il rubinetto del Ministero per i Beni Culturali, anche se dava gocce, 50.000 euro l’anno. Ed ecco un altro passo avanti perché, nel nostro lieto eterno presente, viale Bruno Buozzi, a Roma, diventi semplicemente una smemorata elegante strada in discesa che porta dai Parioli alle Belle Arti.
Via Tasso al civico 145 c’era il carcere, al 155 c’erano i comandi delleSs-nonèunmuseo.Loè,anche. Ma è anzitutto un luogo fisico dove chi entra (ogni anno 15.000 studenti), come avviene ad Auschwitz, entra in una dimensione temporale diversa: «vive» quello che lì è avvenuto tra l’11 settembre 1943 e il 4 giugno 1944. Sveglia alle 7, silenzio alle 20, una gamella di broda e un pezzo di pane al giorno, divieto di parlare tra prigionieri, invito a farlo, di notte, coi seviziatori, nelle sedute notturne di interrogatori e di torture. Contatto con le famiglie una volta a settimana, per avere il cambio e il dono consentito, un uovo sodo, e per cercare di esportare messaggi cifrati sotto il rammendo d’una maglia, come qualcuno disperato e furbissimo riuscì a fare.
A Via Tasso il tempo, per buona parte, è rimasto quello. Nel dopoguerra diventò un rifugio per gli sfollati. Nel 1950 l’erede Ruspoli, principessa Josepha, donò l’edificio allo Stato perché nascesse il Museo storico della lotta di Liberazione in Roma. Tra il ’53 e il ’54 fu trovato un alloggio per gli ultimi sfollati e il 4 giugno del ’55 Gronchi, presidente della Repubblica, inaugurò le prime stanze. Raccoglievano tutto ciò che si era potuto radunare, volantini dei Gap, chiodi a tre punte, editti degli occupanti. Ma soprattutto custodivano i segni lasciati con le unghie da chi lì aveva trascorso giorni e notti: Arrigo Paladini (non sa che di lì uscirà vivo) nel buio della detenzione graffia sul muro un messaggio, chiede perdono a coloro cui può aver fatto del male, «la morte è brutta per chi la teme» scrive un altro, «tu serva Italia di dolore ostello» è un graffito dantesco, c’è chi cerca luce così, «l’ultima speranza non è perduta, forse la vita è salva, abbiate fede». E poi c’è il sangue: sui muri, sulle camicie che indossavano i prigionieri andati al plotone di esecuzione o al cappio per impiccati.
Via Tasso è Ente pubblico sotto tutela del ministero per la Pubblica Istruzione (poi Beni Culturali) dal 14 aprile 1957. Ora per salvare il Museo dalla chiusura dichiarano, bipartisan, disponibilità Regione Lazio, Comune e Provincia di Roma. 50.000 euro l’anno sono come dice Parisella «un bicchierino». Se alle parole Renata Polverini, Gianni Alemanno e Nicola Zingaretti faranno seguire i fatti, il Museo vivrà. Certo è inquietante che quel luogo dove nel buio, e nel coraggio e nel sangue davvero, è nato il primo nucleo di Italia democratica, diventi per il Governo un ente inutile, in questa grande manovra economica di salvataggio della patria. Ma già, questi sono giorni in cui diciamo addio a pezzi di Costituzione e in cui sappiamo che la nuova Repubblica, lieta e immemore, è nata 18 anni fa tra mafia e tintinnar di sciabole.

l’Unità 31.5.10
Il mondo dei libri dice no al bavaglio
Un giorno di letture per fermare la legge
di Marco Cassini

Durante il recente Salone del Libro di Torino sono stato “intercettato” dall’editore Giuseppe Laterza, il quale con tono concitato mi ha letto il testo di una lettera-comunicato stampa (concepita con Stefano Mauri del gruppo Mauri Spagnol) per sensibilizzare il maggior numero possibile di soggetti sulla gravità del ddl che rischia di diventare una “legge-bavaglio”. L’Associazione Italiana Editori aveva diffuso due giorni prima un comunicato quasi identico ma nessun giornale l’aveva ripreso. Forse operando “dal basso” – ̆diceva Laterza – pur nel rispetto dell’Aie, con una semplice lettera che chiede attenzione ma senza i crismi dell’ufficialità, otterremo un po’ di attenzione.
Quello che ha ottenuto la lettera è stato ben più che “un po’ di attenzione”. Da dieci giorni, e non solo sulle terze pagine o sui blog, si parla, a ragione, della necessità di bloccare il ddl. La lettera è stata sottoscritta da oltre cento editori e più di diecimila fra intellettuali, impiegati, lettori, dipendenti statali, disoccupati, professionisti, insegnanti: insomma, di italiani. Il dibattito è animato quanto lo scontro politico ai massimi livelli istituzionali. In ambito editoriale, ha contribuito all’accensione della querelle la vistosa assenza, fra i firmatari, del gruppo editoriale di proprietà di una parte della famiglia del premier.
Noi editori di libri, anche se apparentemente (solo apparentemente) meno coinvolti dei colleghi editori di giornali, pur favorevoli alla tutela del diritto alla privacy, sentiamo comunque forte il rischio implicito nell’inasprirsi delle pene per chi mette in pratica uno dei principi fondamentali garantiti in ogni civiltà democratica. Una preoccupazione che ci dovrebbe dunque animare da cittadini prima ancora che da editori.
Quando l’altro giorno Laterza mi ha chiamato con quello stesso tono concitato, sapevo che dovevo aspettarmi qualcosa di altrettanto deflagrante. Perché non organizziamo una giornata di letture al teatro Quirino di Roma, per sensibilizzare ulteriormente sull’argomento, unire ancor di più le forze, proprio nel giorno (oggi) in cui il ddl verrà di nuovo discusso nelle sedi istituzionali?
Ho osato rilanciare proponendogli di allargare la cosa a tutto il territorio nazionale, senza limitarci a un unico spazio fisico ma chiedendo l’adesione di tante librerie, e promuovere altri reading per tutta la prossima settimana. Sarebbe bello se aderissero piccoli librai di provincia, mi ha detto Laterza. E allora ho esagerato in ottimismo dicendo «chissà, magari aderirà perfino qualche libreria che porta lo stesso nome di quell’editore che non ha firmato?». È puntualmente successo, e questo mi fa ben sperare nel futuro del paese.
Marco Cassini è, con Daniele di Gennaro, il fondatore della casa editrice «minimum fax»

Repubblica 31.5.10
L’attacco a cultura e bellezza
di Salvatore Settis

Prosegue alacremente il cantiere di smontaggio dello Stato. Sotto l´etichetta di "federalismo demaniale", passano a Regioni ed enti locali 19.005 unità del demanio dello Stato, per un valore nominale di oltre tre miliardi.
Mente Calderoli quando afferma (La Padania, 7 maggio) che i beni trasferiti «demaniali sono e demaniali resteranno». Il demanio non è una forma di proprietà, ma servizio pubblico nell´interesse generale di tutti i cittadini, per questo è inalienabile. Al contrario, i beni trasferiti possono essere «anche alienati per produrre ricchezza a beneficio delle collettività territoriali», o saranno versati in fondi immobiliari di proprietà privata; la legge incoraggia anzi i Comuni a produrre varianti urbanistiche che ne consentano non solo la mercificazione, ma la cementificazione, sigillata e garantita dai ricorrenti condoni edilizi (l´ultimo disegno di legge, presentato dal Pdl, sana con un sol colpo di spugna tutti i reati contro il paesaggio e l´ambiente commessi o da commettersi entro il 31 dicembre 2010).
La manovra Tremonti, approvata sulla parola e senza il testo finale da un Consiglio dei ministri assai ubbidiente, aggraverà lo stato delle finanze locali, strangolando ulteriormente Comuni Province e Regioni. Il taglio previsto, quasi 15 miliardi nel biennio 2011-12 (4 miliardi ai soli Comuni), obbligherà i Comuni ad alienare l´alienabile, e a concedere licenze di edificazione a occhi chiusi, pur di incassare gli oneri di urbanizzazione, un tributo che, contro la ratio originaria della norma Bucalossi (1977), si può ora utilizzare nella spesa corrente per qualsiasi finalità. Ai sacrifici richiesti ai cittadini (basti ricordare la riduzione imposta al Servizio sanitario nazionale: 418 milioni nel 2011, 1.132 milioni dal 2012 in poi) si aggiungerà dunque l´ecatombe delle nostre città, del nostro paesaggio. Le disposizioni in materia di conferenze di servizi (art. 49 della bozza), che riprendono il disegno di legge Brunetta-Calderoli sulla cosiddetta "semplificazione della pubblica amministrazione", vanificano gli argini posti dal Codice dei Beni Culturali. Secondo la nuova norma, ogni volta che il Codice richiede l´autorizzazione di interventi edilizi che incidano sul paesaggio, «il Soprintendente si esprime in via definitiva in sede di conferenza di servizi in ordine a tutti i provvedimenti di sua competenza»; la sua eventuale assenza dalla conferenza dei servizi equivale al pieno consenso del Soprintendente.
Viene in tal modo riesumato e radicalizzato il principio del silenzio-assenso, un istituto che sin dalla legge 241 del 1990 non può applicarsi «agli atti e procedimenti riguardanti il patrimonio culturale e paesaggistico», come ribadito più volte, dalla legge 537 del 1993 alla legge 80 del 2005 (governo Berlusconi). Invano il ministero dei Beni Culturali, che aveva ottenuto la soppressione di analoghe norme almeno due volte (nella Finanziaria 2008 e nell´abortito decreto-legge sul "piano casa"), ha richiamato il governo al rispetto della legge. Ma la tutela del paesaggio imposta dall´art. 9 della Costituzione richiede che, in una materia così sensibile, il previsto giudizio di compatibilità degli interventi edilizi con il valore culturale del bene venga formulato espressamente e dopo attenta valutazione: il silenzio o l´inerzia non può in alcun modo sostituire l´attivo esercizio della tutela, che l´art. 9 della Costituzione pone fra i principi fondamentali dello Stato. Lo ha espressamente dichiarato la Corte Costituzionale in almeno cinque sentenze: in questa materia «il silenzio dell´Amministrazione preposta non può avere valore di assenso» (sentenza nr. 404 del 1997). Il silenzio-assenso, nato per tutelare il cittadino contro l´inerzia della pubblica amministrazione, non può diventare un trucco per eludere la legge col sigillo di una norma anticostituzionale.
Ma c´è di peggio, e lo ha ben visto Eugenio Scalfari (Repubblica, 30 maggio), che ha lucidamente disegnato la «prospettiva raccapricciante» di un´Italia a due velocità: «Federalismo al Nord e accentuazione del centralismo statale al Sud». La "manovra Tremonti" è anche troppo esplicita: prevede (art. 43 della bozza) che «nel Meridione d´Italia possono essere istituite zone a burocrazia zero». Burocrazia zero significa che per tutte le nuove «iniziative produttive» (non meglio definite) ogni procedimento amministrativo di qualsiasi natura viene «adottato esclusivamente dal Prefetto ovvero dal Commissario di Governo», e diventa operativo dopo 30 giorni. Non senza raccapriccio, immaginiamo dunque, domani o dopodomani, un´Italia con il Nord governato dalla Lega e il Sud dai gauleiter della Lega.
Sotto la maschera bugiarda di un federalismo democratico, nuove forme di centralismo spuntano per ogni dove. Definanziando decine di istituti culturali (cito fra gli altri la gloriosa Scuola archeologica di Atene, a Napoli l´Istituto Croce e quello di Studi Filosofici, e così via), la manovra Tremonti sottrae ogni possibile finanziamento futuro di queste istituzioni al ministero dei Beni Culturali, e ne sposta la responsabilità alle Finanze e a Palazzo Chigi: una forma di commissariamento che espande ed esaspera, per contrappasso, quello che i Beni Culturali hanno fatto, dando Pompei a un commissario della Protezione Civile senza la minima competenza archeologica. Le centinaia di pensionamenti dell´alta burocrazia ministeriale, propiziati se non imposti dalla stretta pensionistica della manovra, decapitando numerosi uffici in tutto il Paese, favoriranno inevitabilmente un continuo ridisegnarsi delle competenze, in cui il diktat del ministero delle Finanze avrà sempre più peso, e agli altri ministri non resterà che rassegnarsi al silenzio-assenso.
Se tutto questo fosse fatto, come vuole la party line diffusa anche in quella che fu la sinistra, per contrastare la crisi e avviare la ripresa, potremmo provare a farcene una ragione. Ma incombe su questa interpretazione più d´un sospetto. Perché la devastazione del paesaggio e l´offesa alla Costituzione dovrebbero alleviare la crisi economica? Che cosa guadagna in coesione e in forza economica il Paese col "commissariare" l´intero Sud, riducendolo a una colonia a "burocrazia zero", cioè governata dai prefetti? Perché, se le casse sono vuote al punto da dover ridurre i finanziamenti alla sanità (mettendo in forse il diritto alla salute garantito dall´art. 32 della Costituzione), dovremmo ostinarci a voler costruire il ponte sullo Stretto? Il «tesoretto di Giulio», come qualche leghista ha affettuosamente chiamato i risparmi che la manovra dovrebbe mettere da parte, non servirà proprio a promuovere un federalismo i cui costi nessuno si attarda a calcolare? Lo smontaggio dello Stato serve ad assicurare la stabilità della moneta e il benessere dei cittadini, o ad accelerare la disgregazione del Paese voluta dalla Lega e dai suoi complici d´ogni colore, a velocizzare il saccheggio del territorio e la spartizione del bottino?

Repubblica 31.5.10
Roberta Einaudi, editrice e nipote di Giulio: ecco perché ho firmato gli appelli anti-bavaglio
"Così torniamo a un clima da fascismo"

ROMA - Roberta Einaudi, editore di "Nottetempo" e nipote di Giulio Einaudi, lei ha firmato l´appello sostenuto da Repubblica.it e quello promosso da Laterza contro la legge-bavaglio: ci spiega perché?
«Sarà banale, ma ho paura di quello che temono tutti: è gravissimo se i giornali non potranno più scrivere la verità e spiegarci i fatti. Sono senza parole. Dopo i tremendi anni del fascismo non pensavo che sarebbe successo di nuovo. Non credevo che avrei dovuto vivere un simile evento».
Cosa direbbero suo zio Giulio e suo nonno Luigi di questa legge?
«Beh, nonno Luigi mi ripeteva sempre di leggere, conoscere, ascoltare gli altri e poi ragionare col mio cervello. Era la sua fissazione. Ecco, ora il lettore non potrà più conoscere e quindi non potrà più deliberare. Allora dico: meglio lasciare una colonna in bianco, come durante il fascismo».
Ad essere colpiti non saranno solo giornali e lettori, ma anche i magistrati che non potranno più usare le intercettazioni come prima...
«Come possono pensare di portare avanti le indagini azzoppando le intercettazioni? È una legge idiota. Mi piacerebbe pensare che si tratta solo di ingenuità, ma purtroppo queste non sono persone ingenue. Hanno un interesse ben preciso».
(a.d´a)

l’Unità 31.5.10
Le navi della pace verso Gaza
«Israele non può fermarci»
Le sei imbarcazioni partite da Cipro, attese oggi davanti alle coste della Striscia
A bordo 10mila tonnellate di aiuti e attivisti di 50 Stati. La Difesa israeliana: li bloccheremo
di Umberto De Giovannangeli

In rotta verso Gaza. Malgrado le minacce. «Freedom Flotilla», il convoglio di 6 navi che vuole rompere l’assedio di Gaza sfidando il blocco delle forze armate israeliane, ha raggiunto ieri le coste libanesi.

«Siamo partiti da Cipro dice Greta Berlin, la portavoce di Free Gaza, uno degli organizzatori poco dopo le 16. La Marina israeliana blocca una zona a circa 20 miglia nautiche dalla costa di Gaza, dove noi contiamo di arrivare nella tarda mattinata o all’inizio del pomeriggio di domani (oggi per chi legge,
ndr)». Le navi trasportano circa 10.000 tonnellate di aiuti, materiali da costruzione, case prefabbricate (100) per chi è rimasto senza tetto dopo l’operazione Piombo Fuso del 2008-2009, medicine e apparecchiature mediche, 500 carrozzelle elettriche, depuratori per l’acqua, impianti fotovoltaici, generatori, materiale per la scuola e altri beni fondamentali per la popolazione della Striscia.
ULTIMO TRATTO
Le autorità politiche e militari dello Stato ebraico hanno ribadito che non permetteranno per nessun motivo l’attracco delle navi a Gaza. Hanin Zuabi, un membro del Parlamento israeliano che si trova a bordo della flotta, ha dichiarato che gli attivi-
sti intendono raggiungere la Striscia indipendentemente dai piani per fermarli. «Se gli israeliani cercano di fermarci, scoppierà un’enorme crisi diplomatica e politica», dice Zuabi. «Abbiamo 50 Stati che partecipano a questo progetto e che stanno lanciando un messaggio molto chiaro ad Israele, cioè che la comunità internazionale non accetta l’assedio a Gaza». «Il messaggio d’Israele è stato chiaro: vi fermeremo. Nessuno può impedirci di farlo», gli fa eco Huwaida Arraf, presidente del Free Gaza Movement . Tuttavia, aggiunge Arraf, «migliaia di persone hanno contribuito a far diventare questa flotta una realtà e la popolazione di Gaza ci sta aspettando».
Fonti del ministero della Difesa a Tel Aviv hanno però fatto sapere che le imbarcazioni della Flotilla saranno in ogni caso dirottate nel porto israeliano di Ashood. Tutti i passeggeri saranno smistati in enormi tendoni, allestiti lungo la costa meridionale, dove verranno identificati e, se necessario, sottoposti a cure mediche. Chiunque rifiuterà questo trattamento, verrà arrestato e condotto nelle carceri israeliane. Gli attivisti rischiano l’arresto, l’espulsione e la confisca del cargo, ripete in serata un portavoce di Tsahal. «Contiamo di raggiungere Gaza, non ci fermiamo e non ci fermeremo se ce lo ordineranno. Non opporremo resistenza fisica, ma ci dovranno speronare», ribatte Audrey Bomse, portavoce della Free Gaza organization. «L’unico scenario che ha qualche senso per gli israeliani è smetterla una volta per tutte di fare i “bulli” del Medio Oriente e lasciarci passare», insiste Greta Berlin. «Trascinare le navi nel porto di Ashdod costituirebbe un clamoroso autogol per il governo israeliano, dal momento che sulle navi sono presenti anche personalità arabe di nazionalità israeliana e attivisti della sinistra israeliana, pronti a smascherare la pirateria dei loro militari non appena venissero costretti a sbarcare nel proprio Paese», osserva Hani al-Masri, analista politico palestinese.
LINEA DURA
La risposta non si fa attendere. Ed è durissima. «Non permetteremo che venga violata la nostra sovranità», avverte il ministro degli Esteri israeliano, Avigdor Lieberman, che annuncia di aver comunicato agli ambasciatori di Turchia, Cipro, Irlanda e Grecia (le navi della Freedom Flotilla battono bandiera di questi Paesi) che l’arrivo a Gaza delle navi, con circa settecento persone di 40 nazionalità a bordo, infrangerebbe le leggi internazionali, poiché Israele «ha emesso delle ordinanze che proibiscono l’entrata di navi a Gaza». «Questi attivisti si definiscono difensori dei diritti umani, ma restano in silenzio quando a essere bersagliati sono i civili israeliani o quando il regime di Hamas a Gaza compie brutalità contro gli oppositori», dice il portavoce del governo israeliano.

l’Unità 31.5.10
I cinquant’anni della rivoluzione in una pillola
Maggio 1960 Negli Usa parte la somministrazione della COCP
Gli effetti Ha contribuito a restituire alle donne la gestione del loro corpo
Nel maggio 1960 la Food&Drug Administration degli Usa approva l’utilizzo di una «combined oral contraceptive pill» (Cocp), che diventerà presto nota come la «pillola contaccettiva» o, più semplicemente, la Pillola.
di Pietro Greco

Non è il caso di fermarsi più di tanto sui meccanismi di funzionamento, ormai ben noti, di questo nuovo farmaco, messo a punto dal chimico Carl Djerassi nel 1951 e sperimentato clinicamente dai medici John Rock, Celso-Ramon Garcia e Gregory Pincus nel 1954. Conviene fermarsi sui suoi effetti sociali e cul-
turali: enormi e, ancora oggi, niente affatto esauriti.
E già perché la pillola, assunta quotidianamente dalle donne, inibisce l’ovulazione. E, dunque, le gravidanze indesiderate. Costa poco, è facile da assumere e ha un’elevatissima efficacia. È grazie a questo combinato disposto di caratteristiche che la COCP ha un immediato e clamoroso successo: nel 1961 negli Usa la assumono già 400.000 donne; 1,2 milioni nel 1962; oltre 3,5 milioni nel 1963. Oggi in tutto il mondo la assumono oltre 100 milioni di donne.
L’impatto sulla società è stato ed è tuttora) tale che dieci anni fa la rivista inglese The Economist l’ha eletta a scoperta scientifica più importante del XX secolo. Sia perché la Pillola ha contribuito al controllo delle nascite e alla drastica riduzione del numero di figli per donna prima nei paesi occidentali e poi in molti paesi in via di sviluppo; sia perché ha consentito la separazione tra sesso e riproduzione, fornendo un contributo decisivo a quella che è stata definita la «rivoluzione sessuale»; sia perché ha contribuito a modificare il ruolo che ha la donna nella società e, quindi, ad accelerare quella che molti considerano la più grande rivoluzione sociale del XX secolo: la rivoluzione femminile.
GLI «AVVERSARI»
Un elemento, in particolare, va tenuto in considerazione. La Pillola ha contribuito direttamente e come metafora a restituire alle donne la gestione del proprio corpo, compreso il sistema riproduttivo. E, dunque, ha contribuito all’affermazione di nuovi diritti per tutti, fondati sulla libertà e la responsabilità individuale. «Il corpo è mio e lo gestisco io» è diventata l’idea su cui sono stati ricostruiti i rapporti tra medicina e società e, forse, su diritto e società. Una simile carica dirompente non poteva non suscitare reazioni. Se per alcuni la Pillola è diventata il simbolo di libertà e responsabilità individuale, per altri è diventata il simbolo stesso del male e di quel suo succedaneo che è la società multietica. In breve, è stata avversata da più parti. In primo luogo dai vertici della Chiesa cattolica. La Pillola, si diceva, porterà alla dissoluzione della famiglia e dunque della società. Non è avvenuto. Si è anche cercato di dimostrare che la Pillola ha pesanti effetti collaterali sulla salute delle donne. Proprio quest’anno uno studio condotto per quattro decenni su 46.000 donne ha dimostrato non solo che la Pillola non fa male, ma che le donne che l’assumono vivono in media di più, per loro si riducono i rischi di morire prematuramente per tutte le cause di morte, incluso cancro e malattie cardiovascolari.
Se i cinquant’anni della Pillola sono una plastica dimostrazione degli effetti profondi tra scienza, innovazione tecnologica e società nell’era della conoscenza, non devono indurre ad alcun trionfalismo. La rivoluzione femminile, che ha subito un’accelerazione anche grazie alla Pillola, è ancora largamente incompiuta.

l’Unità 31.5.10
CGIL verso lo sciopero generale
2 giugno: in difesa della Costituzione
Una manovra che divide l’Italia

La CGIL non è contraria in astratto alle manovre correttive. La situazione è grave e densa di incognite ed è necessario intervenire sui conti pubblici. Non lo si può fare, però, mettendo di nuovo le mani in tasca ai soliti noti e costruendo una manovra esclusivamente di tagli e senza alcun intervento in termini di investimenti. Questo, il giudizio della CGIL sulla manovra di Tremonti. Una posizione ribadita dal segretario generale Guglielmo Epifani, che ha lanciato nuovi messaggi di mobilitazione e proposte di politiche economiche alternative. Per quanto riguarda le iniziative di lotta, Epifani ha annunciato che durante il prossimo comitato direttivo della confederazione, che si terrà il 7, l’8 e il 9 giugno, la segreteria proporrà uno sciopero generale da tenersi entro la fine dello stesso mese (“con manifestazioni articolate su base territoriale”). Ma prima dello sciopero, sabato 12 giugno a Roma si terrà una manifestazione nazionale di tutto il mondo del lavoro pubblico. “Obiettivo della protesta – ha detto il leader di corso d’Italia – è quello di cambiare i contenuti della manovra”. “I dipendenti pubblici sono di-
sponibili ai sacrifici, ma questi non possono ricadere solo su di loro. Abbiamo letto il testo della manovra e confermiamo il nostro giudizio: c’è bisogno di una correzione dei conti pubblici, la CGIL dice sì, ma non trova nelle scelte di questa manovra la risposta a tale correzione. È un provvedimento che divide l’Italia. Siamo l’unico paese in Europa in cui la parte più benestante non viene toccata dai tagli. Zapatero ha annunciato un intervento di 5 miliardi sui redditi più alti, Cameron penalizza le banche, mentre la Merkel prevede nuove tasse per trovare ulteriori risorse. Da noi i sacrifici si concentrano unicamente sui lavoratori pubblici, in parte su quelli privati e sui tagli agli enti locali. Non c’è traccia di nessuna riforma di alcun tipo, tutti i provvedimenti sulle pensioni sono un pasticcio, iniqui e non affrontano il vero problema, che è la previdenza dei giovani”.
Secondo Epifani, nella manovra “non c’è nessun sostegno agli investimenti e all’occupazione, anzi con il taglio delle risorse alla ricerca si impoverisce un settore fondamentale. Per questo, chiediamo alle forze politiche, al Parlamento e al governo di cambiare i contenuti della manovra. Presenteremo noi stessi, e vedremo anche se è possibile con Cisl e Uil, degli emendamenti per sostenere l’obiettivo del cambiamento”. Tra le proposte della CGIL, c’è quella d’inserire una tassa di solidarietà per i redditi superiori ai 150 mila euro, per liberare risorse da destinare al futuro dei giovani. La seconda proposta è quella di ripristinare l’Ici per i redditi da 90-100 mila euro. Infine, Epifani propone di alzare la tassazione dello scudo fiscale dal 5 al 7 per cento. Sono due, comunque, gli obiettivi immediati della CGIL: da un lato, la richiesta di modificare la manovra finanziaria e, dall’altro, la necessità di fermare la riduzione dei diritti dei lavoratori, come sta avvenendo con le nuove norme sull’arbitrato.

Repubblica 31.5.10
Dovetti parlare in tv
"In quella notte terribile delle bombe vuoto politico e democrazia debole"
Scalfaro: temo che non sapremo mai la verità sugli attentati
di Vittorio Ragone

Non vedo volontà politiche univoche per una commissione d´inchiesta che faccia piena luce
Nei miei confronti venne montato uno scandalo vergognoso e dovetti parlare in tv al popolo italiano

ROMA - Presidente Scalfaro, lei era Capo dello Stato nel ´93. Se la ricorda la notte fra il 27 e il 28 luglio? Le bombe a via Palestro a Milano, poi a San Giovanni e al Velabro a Roma? Le prime reazioni, le linee telefoniche interrotte, l´ombra di un golpe?
«Non nitidamente come si potrebbe pensare. Ricordo la telefonata con il presidente Ciampi: ero a casa con mia figlia Marianna, vennero a bussare alla porta a notte fonda l´allora segretario generale al Quirinale Gaetano Gifuni e il capo della sicurezza, il prefetto Iannelli. Il telefono non ci aveva svegliati. E ricordo bene la riunione del mattino dopo, quando convocai il capo della polizia, il prefetto Parisi, e i responsabili dei carabinieri e dei servizi»
Quali piste furono seguite all´inizio? La mafia? I servizi stranieri? 007 italiani infedeli? Ci si interrogò sulla regia o sulla "manona" che poteva aver diretto le stragi?
«Formulammo delle ipotesi, tutte queste ipotesi, così come logica vuole davanti a eventi di natura straordinaria. E ordinammo alle persone preposte all´intelligence e alle indagini di raccogliere elementi sufficienti a orientarci in modo convincente. Il prefetto Parisi aveva ricevuto - e teneva in grande conto - una segnalazione del Mossad secondo la quale nel mondo della destra estrema c´era una forte spinta a destabilizzare la situazione italiana, puntando anche alle dimissioni del capo dello Stato. Un anno prima c´erano state le stragi di Falcone, Borsellino e delle scorte, e due mesi prima un´altra autobomba ai Georgofili a Firenze. Cercavamo un filo, una logica che spiegasse questa catena di eventi».
A ripensarci oggi la sequenza di quei giorni oltre che brutale è impressionante: si vede un paese martellato sotto colpi militari e divisioni politiche, lì lì per crollare.
«Furono mesi di preoccupazioni gravi e costanti. La situazione politica era di inquietudine, gravi questioni sociali premevano, la cosiddetta Tangentopoli era in pieno corso; tutti questi fattori creavano tensione nella popolazione. Il mio cruccio in quelle settimane era che - tra una manifestazione sindacale più agitata delle altre e un sit in contro il terrorismo o la mafia - ci potesse scappare l´episodio di violenza; che la piazza cambiasse natura, e che gli eventi degenerassero».
C´è chi parla di una regia più raffinata, un´entità che cuciva insieme una nuova strategia della tensione.
«Il vuoto politico, un vuoto politico come quello che le stavo descrivendo, è la condizione di maggiore debolezza di una democrazia. Sarebbe difficile reggere, per qualsiasi paese. È chiaro che chiunque avesse voluto destabilizzare avrebbe trovato terreno fertile. La mafia? I terroristi? Qualche matto dentro gli apparati dello stato? O tutte e tre le cose insieme? Io credo che sia una risposta difficile da dare. La magistratura avviò indagini in varie direzioni. Abbiamo atteso a lungo qualche elemento che spiegasse fatti, moventi, concatenazioni. Ma devo dire che abbiamo atteso invano. Confesso che anche le prime affermazioni del procuratore Antimafia Pietro Grasso in questi giorni mi avevano lasciato perplesso. Chi ha i poteri per investigare investighi. Ho visto che successivamente ha chiarito in maniera soddisfacente il senso delle sue parole...»
Crede che si possa arrivare oggi alla verità?
«Non bastano le certezze morali per attestare una verità. Occorrono risposte documentate, sentenze, verifiche. E devo dire che quasi non spero più che arriveremo a capire. Soprattutto perché non vedo intorno volontà politiche univoche. Il Parlamento sarebbe in grado di condurre un´autentica inchiesta su quei mesi terribili, senza utilizzarla come pretesto per spararsi addosso, da una parte e dall´altra? Condivido gli appelli alla ricerca della verità, ma osservo una realtà politica che fa acqua da tutte le parti».
Eppure, presidente, lei fu direttamente toccato da quelle vicende. Subito dopo le stragi cominciarono le voci, poi la campagna della destra sui fondi neri del Sisde, sugli ex ministri dell´Interno e su di lei che - fu detto e scritto - li aveva usati in maniera indebita.
«Me le ricordo quelle accuse, particolarmente gravi e strumentali, e poi naturalmente mai dimostrate: che io avessi destinato i fondi neri a disposizione del ministro, non soggetti a rendicontazione, per scopi diversi da quelli previsti. Fu un´azione banditesca: in Piemonte certi individui si recarono nei conventi di clausura a chiedere se il presidente Scalfaro avesse finanziato lavori di ristrutturazione o qualsiasi altro tipo di intervento. Mi difesi pubblicamente. Sfidai chiunque a produrre la prova che anche una sola lira avesse avuto destinazione diversa da quelle legittime. In novembre parlai in televisione, davanti al popolo italiano... «
Il famoso "Non ci sto".
«Dissi: "Prima si è tentato con le bombe, ora con il più vergognoso e ignobile degli scandali. Ma occorre rimanere saldi e sereni"».
E perché, pur toccato direttamente, è così restio a ipotizzare zone grigie e regie uniche?
«Perché nonostante tutto quel che abbiamo rievocato, e nonostante anche Parisi mi dicesse che io stesso ero l´obiettivo d´una manovra più vasta, continuo a pensare che sia compito della magistratura e degli apparati investigativi darci una verità definitiva. E che sia compito di noi tutti mantenere misura e sangue freddo fino a quando questa verità sarà accertata».

Repubblica 31.5.10
L’uomo e l’animale
Il grande enigma delle metamorfosi
di Massimo Cacciari

In modo diverso, ogni epoca e ogni civiltà hanno raffigurato nelle bestie la grandezza e la miseria degli esseri umani. Da Dante a Nietzsche
Tra i bestiari antichi il più celebre è quello che troviamo nella "Divina Commedia" La varietà è impressionante, quanto a realismo e simbolismo
In "Zarathustra" sono presenti l´istinto punitivo della tarantola, l´ingordigia delle mosche e la trasformazione dello spirito in cammello
L´immagine del Leviatano, mostro biblico, campeggia nel grandioso frontespizio barocco dell’opera omonima di Thomas Hobbes

Con questo intervento ha chiuso giovedì 27 il ciclo "Animalia" all´Università di Bologna
ome l´uomo ha "finto" a propria immagine gli dèi, così ha "finto" anche gli animali. Antropomorfizzare l´altro sembra essere costitutivo della sua essenza. L´altro tende sempre ad apparirgli non come essere che gli si dà, che gli si manifesta da un "fondo" tanto meraviglioso quanto, alla fine, misterioso, ma come non-Io, e cioè come prodotto dell´Io. L´animale è "a disposizione" della ricerca che l´Io compie per conoscere se stesso; e così anche il dio può trasformarsi nell´idolo che l´uomo si fa per soddisfare la propria volontà di sapere e potere. Così l´Io cerca di addomesticare animale e dèi - per quanto la loro natura, il loro originario essere per sé, debba finire sempre per travolgere quel tentativo. Vi saranno infinite specie di animali e forme del divino dopo che questo uomo scomparirà - oltre l´uomo.
In modo diverso, ogni epoca e ogni civiltà hanno "immaginato" nell´animale la loro grandezza come la loro miseria. E, ancora più, hanno associato all´animale i propri dèi, proprio perché si è sempre avvertito che animale e dio formano insieme quell´Altro che si vorrebbe, appunto, ridurre a nostro "prodotto". Le metamorfosi dell´animale divino vanno dalla terranea potenza del toro, che si accompagna alla serpe degli dèi di sotterra, al volo irrefrenabilmente libero dell´aquila, fino alle angeliche farfalle, creatura di luce, del Paradiso. Vi sono poi gli animali-messaggero che accompagnano l´anima, a volte di buona, a volte di cattiva razza, come i cavalli di Platone. Le immagini tornano per l´animale umano, ma come impoverite; l´aria del mondo sublunare corrode anche loro. L´uomo si riflette con timore e tremore sul volto dell´animale. Il rapporto era un simbolo nel mondo divino. Qui diviene, invece, una relazione altamente pericolosa. La mente sovrana del dio poteva sempre "avere la meglio" sulla "natura" dell´animale; la vittoria non è affatto scontata per l´uomo. In ogni momento egli può soccombere all´essere animale; e vincere questa possibilità è per lui davvero un super-vincere, poiché egli, a differenza del dio, è sempre, comunque, "anche" animale, e sempre lo resterà. Così la sua immagine è essenzialmente metamorfosi; la sua immagine può essere descritta, cioè, come sempre in movimento tra l´uccello-angelo, l´uccello dell´anima che "sale" a "indiarsi", a farsi-uno col dio, e l´infimo degli animali.
Tra i grandi "bestiari" che descrivono questo metamorfizzarsi instancabile dell´Io incomparabilmente il più grande è quello che troviamo nella Comedìa dantesca. La varietà delle figure è impressionante, quanto il realismo che incarna ogni simbolismo. Par di vedere e toccare quei porci, quei botoli, quei cani che si trasformano in lupi, quelle volpi che abitano "la maledetta e sventurata fossa" della valle dell´Arno! I vizi, come le virtù, divengono nel linguaggio di Dante carne e sangue, nervi e ossa. Ma la bestia non è soltanto lonza-leone-lupo, i peccati, nella loro "logica" connessione, che lottano per impedire al pellegrino di compiere il suo itinerario in deum; né è soltanto il "bruto" che non vuole esperire e conoscere (il bruto non è, in questo caso, nient´affatto la bestia, bensì colui che Ulisse inganna, che non sa opporsi alla frode dell´eroe). Vi sono, pur sempre nel mondo del peccato, anche le colombe di Francesca. Anche il timbro dell´amore cortese, amore che seduce ed è necessario oltrepassare per quanto ciò costi fatica quasi sovrumana, può avere la voce dell´animale.
Se dovessi citare un altro "bestiario", all´altro polo della nostra civiltà, così da disegnare un arco chiuso nel nostro discorso, parlerei dello Zarathustra di Nietzsche. Anche in quest´opera l´animale è sostanzialmente scandalo, ostacolo all´Itinerario verso l´Oltre-uomo. È l´invidia, la gelosia, l´istinto di punire della tarantola; è l´ingordigia delle mosche velenose che tormentano il solitario. Ma appare anche nelle prime due metamorfosi: quella dello spirito in cammello capace di portare i pesi più gravosi (è in questo labor che lo spirito inizia a comprendere la propria potenza), e quella del cammello in leone (è qui che lo spirito afferma il proprio volere, anzi: il proprio voler essere tutti i valori). Ma l´ultima metamorfosi è quella del leone in Puer, nel Fanciullo che non è "caricato" di passato, di rimpianti, di sensi di colpa - insomma, nell´infanzia innocente, che crea senza sapere, che fa senza fare. L´animale appare perciò come la "via" che ci conduce all´immagine dell´infanzia e del Gioco, che ci libera dal "primato" del Logos, del Discorso, del Progetto. Capovolgimento del "bestiario" dantesco? Sì, certo - ma anche l´ascesi dantesca finisce nell´attonito silenzio che supera ogni fantasia - e di fronte al balenare dell´immagine, nel cuore del Mistero, proprio del Figlio.
Ma è senza dubbio nel campo della contesa, della lotta politica che il ricorso al linguaggio della metamorfosi e all´"uso" dell´animale hanno trovato il più rigoglioso sviluppo. L´eterno scontro tra sovrani e sudditi, potenti e miseri, la denuncia della tirannide come della degenerazione dei regimi democratici in oclocrazia, tutto ciò ha alimentato nei secoli il linguaggio dell´uomo "animale politico". In questo contesto, tuttavia, l´immagine più forte, e più inquietante per noi, non è quella di un animale, anche se di un animale porta il nome. È l´animale creato dal Signore all´origine, dotato di una potenza che a nulla sulla terra può essere comparata. «Non est potestas super terram quae comparetur», così il Signore presenta a Giobbe il Leviatano nella sua rivelazione finale. A questo immenso animale, così immenso da non riuscire neppure a "porlo" in una immagine, abbiamo tuttavia dato figura - umana. Essa campeggia nel grandioso frontespizio barocco della opera omonima di Thomas Hobbes. Sul margine alto l´inequivocabile rimando al mostro biblico; subito sotto, dalle alture di un paesaggio ben coltivato, emerge, come un sole, un gigante coronato, che tiene in pugno i simboli della potestas politica e dell´auctoritas spirituale, e il cui corpo è formato dall´ordinata moltitudine degli individui. Questa moltitudine compone tale Corpo. Esso non sarebbe che un vuoto fantasma senza la loro presenza. Ma, ad un tempo, questa moltitudine non sarebbe una, bensì molteplicità vagante, senza i sicuri confini che quel Corpo detta.
Ma Leviatano è il suo vero nome. E finalmente ci potremo cibare della sua carne nel giorno del Giudizio. Ce ne potremo liberare. Il mostro ci è forse ora necessario - tuttavia, tale rimane, e noi attendiamo l´Ultimo Giorno proprio per poterlo sacrificare. Così in quel Giorno potremo non dover più ricorrere all´animale per rappresentare noi stessi, ovvero: per nasconderci a noi stessi - potremo cercare senza finzioni quell´altro che siamo e, insieme, incontrare quell´altro che l´animale è, quel "sereno animale" di cui Rilke ha cantato, la cui casa, la terra, noi abbiamo trasformato nel suo inferno