domenica 6 giugno 2010

l’Unità 6.6.10
Tremonti chiede sacrifici e intanto La Russa acquista 131 cacciabombardieri dagli americani
Tagliano gli stipendi e comprano armi
Tremonti taglia gli stipendi e la spesa dei comuni, ma intanto il governo spende senza freni negli armamenti. Il governo compra 131 cacciabombardieri dagli americani. Entro il 2026 serviranno ben 15 miliardi di euro.
di Mariagrazia Gerina

Ammodernamento. Armi sofisticate, strumenti di guerra spese senza limiti
Eurofighter. Ottanta sono già in Italia, ma alla fine saranno ben 121

Fuori dai ministeri, tra gli statali che da qui ai prossimi tre anni dovranno sacrificare i loro stipendi per versare allo Stato 5 miliardi di euro contro la crisi, il grido pacifista si è già fatto largo: «Vendessero i cacciabombardieri di La Russa». In realtà più che di vendere si tratterebbe di non acquistarne di nuovi. Idea tutt’altro che peregrina. È quello che sta decidendo di fare la Germania in queste ore, per dire. Il Pd stima che si potrebbero risparmiare almeno 2 miliardi l’anno. Ovvero sei miliardi nei tre anni su cui opera la manovra. Una stima prudenziale, visto che la spesa in armamenti si aggira intorno ai 3,5 miliardi l’anno.
Nella manovra finanziaria di Tremonti, però, di tagli agli armamenti non ne troverete traccia. E sì che in programma il governo italiano non ha solo l’acquisto di nuovi cacciabombardieri. Sul bilancio dello stato, al momento, incombono ben 71 programmi di ammodernamento e riconfigurazione di sistemi d’arma, che ipotecano la spesa bellica da qui al 2026. Tutti passati inosservati sotto lo sguardo vigile del ministro dell’Economia.
CIFRE ASTRONOMICHE
Eppure parliamo di cifre astronomiche, che il governo si è impegnato a versare all’industria bellica per acquistare una varietà incredibile di nuove armi. La lista è lunga. Prendiamo solo qualche esempio. Partiamo proprio dai cacciabombardieri. Programma di ammodernamento numero 65. Un piano faraonico, che impegna l’Italia a comprare dagli Usa 131 cacciabombardieri F-35. Aerei progettati per essere invisibili ai radar (solo che nel frattempo i radar si sono evoluti). Roba da guerra fredda. Solo nel triennio interessato dalla manovra appena varata l’acquisto programmato sulle casse dello stato per circa 2,5 miliardi di euro. Totale della spesa prevista da qui al 2026: 15 miliardi. Che si sovrappone per altro alla spesa per l’acquisto, già programmato, di 121 Eurofighter (80 sono stati già comprati e c’è ancora un’ultima tranche). Ma andiamo oltre. Al programma numero 67, per esempio. Si chiama «Forza Nec»: serve a dotare le forze armate di terra e da sbarco di un sistema assai sofisticato di digitalizzazione. Roba da Vietnam, ovvero da conflitti ad
alta intensità la guerra in Iraq era considerata a media intensità. Per ora siamo alla fase di progettazione, che da sola costa circa 650 milioni di euro. L’esborso finale, non ancora formalizzato, si aggirerà intorno agli 11-12 miliardi. Ma andiamo oltre. Passiamo ai sommergibili. Difficile prevedere una battaglia navale nel Mediterraneo che li richieda, eppure nella lista dei futuri armamenti non mancano due sommergibili di nuova generazione. Costo stimato: circa 915 milioni. Più della metà da versare già nei tre anni della manovra. Una cifra minore ma non per questo più sensata sarà spesa invece per comprare nuovi sistemi di contracarro di terza generazione: 120 milioni di euro.
Cifre da capogiro. Tanto che lo stato italiano fa fatica a stare dietro agli impegni presi. E l’industria bellica è costretta a ricorrere alle banche. Con il risultato che l’indebitamento fa lievitare ulteriormente i costi. Negli ultimi tre anni, l’Italia ha speso in armamenti circa 3,5 miliardi di euro l’anno. Una cifra destinata a lievitare, tanto più che nemmeno la manovra prova a scalfirla.
Una cifra molto opaca, secondo il Pd, che domani in Commissione difesa del senato presenterà una risoluzione per chiedere che il governo iniziafareiconticonlearmieconi miliardi che i 71 fatidici programmi continuano a sottrarre al bilancio dello Stato. Sono tutti così indispensabili? Il Pd chiede di verificarne utilità, tempi d’attuazione e costi. E di adottare quella che definisce una «moratoria ragionata». Obiettivo: ottenere risparmi consistenti. E costringere il governo ad adeguare la spesa ai costi della crisi. E al modello di difesa adottato alla luce della Costituzione.
L’Italia ripudia la guerra, appunto. E però continua a buttare miliardi in armi, oltretutto (per fortuna) inutili. Negli ultimi 15 anni infatti le forze armate italiane sono state impegnate in 35 missioni di peacekeeping. «Ma se dobbiamo portare la pace, che ce ne facciamo dei bombardieri F-35?», osserva il capogruppo del Pd in Commissione Difesa, Gian Piero Scanu, primo firmatario della risoluzione, che illustrerà domani al senato: «Semmai aggiunge abbiamo bisogno di addestrare i militari, di provvedere alla manutenzione dei mezzi di trasporto che utilizzano».
Ecco appunto, di quelli invece la manovra si occupa: un taglio di quasi un miliardo in tre anni, che si aggiunge agli 1,5 miliardi di risparmi sul bilancio di esercizio già programmati dalla prima finanziaria del governo Berlusconi. Forse anche per questo quel grido d’allarme lanciato dal dipendente statale pacifista ormai comincia a diffondersi anche tra le forze armate. «Il rapporto difesa-industria va cambiato, ci sono costi e appetiti che lo rendono non ottimale, l’industria non può imporre ciò che vuole», ha denunciato pubblicamente lo stesso sottocapo di Stato maggiore dell’Aeronautica, Maurizio Ludovisi.
«Fin qui il governo non ha ancora risposto: quale è il modello di difesa a cui finalizza la spesa?», osserva Roberta Pinotti, appoggiando l’iniziativa del capogruppo. «Non è che da domani debbano rientrare gli uomini in missione spiega Achille Serra, vicepresidente della Commessioni -, ma spendiamo soldi per armi inutili ed è doveroso tagliare davanti alla crisi è doveroso».

Repubblica 6.6.10
La cantante israeliana Noa: "Artisti, uniamoci per la pace"
"Ho il cuore spezzato il premier si dimetta"
Vorrei che il mio popolo usasse il voto per eleggere un governo in grado di porre fine all’occupazione
di Carlo Moretti

È la cantante israeliana più famosa al mondo. Ebrea di origini yemenite, Noa crede da sempre nella musica come strumento di pace e di dialogo tra i popoli, e per questo ha spesso collaborato con artisti arabi, tra questi l´algerino Khaled, l´israeliana Mira Awad, il palestinese Nabil Salameh, nato e cresciuto in un campo profughi in Libano. Noa dice che l´attacco ai pacifisti della Flotilla l´ha gettata nella disperazione: «Ho il cuore spezzato, sono così arrabbiata che non trovo le parole giuste per esprimere come mi sento» ha scritto, poche ore dopo il tragico arrembaggio, nel suo blog. Ora accetta di parlarne.
Noa, lei vive in Israele: qual è l´atmosfera che si respira oggi nel paese rispetto a questo tragico evento e quali sono i sentimenti tra le persone che lei frequenta?
«Sono sentimenti terribili, c´è moltissima rabbia e frustrazione, e pesa molto il rimorso per la perdita di vite umane. Nessuno però qui pensa che il governo israeliano volesse uccidere qualcuno su quella nave, ma la situazione è stata gestita in maniera davvero disastrosa. La strage ha scatenato aspre critiche e la demonizzazione dello stato di Israele e del popolo ebraico: fossi al posto del premier o del ministro della difesa mi dimetterei immediatamente, assumendomi le responsabilità per le conseguenze delle mie decisioni, che hanno messo a rischio la sicurezza del mio paese e danneggiato la sua immagine».
Cosa pensa dell´occupazione dei territori palestinesi?
«È sbagliato continuare a vedere nell´occupazione della Cisgiordania una risorsa piuttosto che un obbligo. L´idea che sia una risorsa ha reso per troppo tempo "tollerabili" le implicazioni umane e morali dell´occupazione, mentre io le considero intollerabili. L´occupazione è immorale e inumana, dovrebbe avere termine; e per la nostra sicurezza dovremmo contare invece sull´aiuto di nazioni amiche. Personalmente vorrei correre il rischio di un tentativo in questo senso e spero che gente come me, dall´altra parte, voglia correre lo stesso rischio contrastando la paura e il pregiudizio che coltivano nei loro cuori».
Cosa possono fare gli artisti, e in particolare quelli israeliani, per manifestare questo desiderio di una soluzione pacifica della crisi?
«Vorrei che tutti gli israeliani facessero una campagna di opinione e usassero il loro voto democratico per eleggere un governo in grado di porre fine all´occupazione iniziata nel 1967 e di firmare subito un trattato di pace con il governo democraticamente eletto dai palestinesi. Entrambi i governi potrebbero farsi così interpreti del desiderio dei due popoli di vivere in pace uno accanto all´altro. Farò sempre sentire la mia voce in campagne di questo tipo ed esorto tutti gli artisti, israeliani e palestinesi, a fare lo stesso».

Repubblica 6.6.10
Il processo
Urss, la fabbrica delle condanne perfette
di Nicola Lombardozzi

L´arresto avvenne anni dopo Tra le sue carte, una poesia giovanile: "Perché mai così poca musica? Perché mai un tale silenzio?"
Una sera di maggio del ´34 il poeta Osip Mandelshtam recitò davanti al funzionario della polizia segreta queste parole: "Viviamo senza fiutare più sotto di noi il paese". Firmò così la sua fine: Stalin non lo perdonò e lo mandò a morire in un gulag. Ora dagli archivi emergono i documenti degli interrogatori Che mostrano come si costruisce una sentenza politica senza appello

Mosca. Il poeta sapeva che il dittatore non l´avrebbe mai perdonato. Il poeta era stanco, rassegnato, sicuro che qualcuno tra i suoi amici più cari l´avesse tradito, consegnato alla macchina spietata del terrore staliniano. Mormorò un verso, il primo: «Noi viviamo senza più fiutare sotto di noi il paese». Dall´altra parte della scrivania, in quel tetro ufficio della Lubjanka, il funzionario addetto agli interrogatori cominciò a scrivere su un foglietto di carta da quaderno con la sua penna blu. Lentamente, burocraticamente, senza cambiare espressione del viso. Il poeta continuò tutto di un fiato la sua confessione in rima: «I nostri discorsi non si sentono a dieci passi di distanza…». Il funzionario annotava, e la voce del poeta si faceva sempre più sicura mentre il testo proibito che non aveva mai osato mettere per iscritto prendeva forma, tra tutte quelle informative e rapporti di polizia che servivano a dimostrare la sua pericolosità «per l´autorità dei Soviet» e segnare la sua fine. Il poeta lo firmò.
Quel testo, dettato in una sera di maggio del 1934, è l´unico manoscritto autografo del più famoso epigramma del poeta custodito per più di settant´anni negli archivi dell´allora Nkvd, la polizia segreta sovietica, in una cartellina beige con la scritta: "Fascicolo personale n.662 del detenuto Osip Emileevic Mandelshtam". Dentro c´è la storia della lotta senza speranza tra uno dei più grandi poeti di Russia e il potere. Un gioco di minacce, isolamento e repressione, che si concluse il 27 dicembre del 1938 con la morte di Mandelshtam nel gulag di Vtoraja Recka, alle porte di Vladivostok. Aveva quarantasette anni. La sua storia sta per apparire in un dossier della Fondazione Mandelshtam e dalla Novaja Gazeta, basato su documenti inediti.
Scomodo, Mandelshtam lo era stato da sempre e per tutti. I suoi primi arresti risalgono al 1920 e l´accusa è paradossalmente opposta a quella che lo avrebbe portato al gulag. La prima volta fu interrogato a lungo a Feodossia, nella Crimea che resisteva al comunismo. Fu torchiato dagli agenti del generale Vranghel, uno dei comandanti della Guardia Bianca, che lo sospettavano di collaborazione con i bolscevichi. «Spirito ribelle. Tendenze anticonformistiche», erano l´unica fonte di sospetto. Di sicuro turbava la sua biografia: ebreo nato a Varsavia, studente prima a Parigi, poi a Heidelberg e infine a San Pietroburgo. Scagionato in qualche modo dalle guardie bianche fu arrestato pochi mesi dopo a Batumi, in Georgia. Questa volta furono i menscevichi georgiani ad accusarlo di essere una spia bolscevica. Accuse che avrebbero dovuto valere in seguito come medaglie al merito nell´Unione Sovietica del dopo guerra civile. Ma non fu così.
Protagonista dei circoli letterari, amico della poetessa Akhmatova, fondatore con lei del Movimento Akmeista, Mandelshtam era comunque considerato un personaggio inaffidabile per il regime. L´inizio della fine fu un viaggio con la moglie in Ucraina nel 1933, nell´orrore dell´Holomodor, la spaventosa carestia programmata da Stalin nella furia della sua guerra contro i kulaki, che provocò milioni di morti. Della sua indignazione resta un altro verso segreto dettato all´inquisitore nell´interrogatorio del 1934: «Primavera fredda, la timida Crimea è senza pane…». Ma più di tutto vale il rapporto della polizia segreta custodito nel fascicolo 662: «Al rientro dall´Ucraina gli umori di Mandelshtam hanno preso sfumature antisovietiche. Si è isolato, tiene le tende sempre abbassate. È avvilito dalle scene di fame ma anche dai suoi fallimenti letterari. La casa editrice Gikhl (prontamente allineata agli umori del Partito, ndr) vuole togliere dai cataloghi le vecchie poesie. Delle nuove opere non se ne parla neanche».
Informatissima anche da persone molto vicine a Mandelshtam la polizia continuava a costruire il castello di prove. Ecco un´altra informativa: «Mandelshtam intende scrivere al compagno Stalin ma le sue intenzioni sono chiare. Ha detto che se solo potesse fare un viaggio all´estero sopporterebbe qualsiasi disagio pur di restare lì. Inoltre si è recentemente espresso così: da noi la letteratura non esiste più, lo scrittore è ormai un burocrate, registratore delle menzogne». Ma a far precipitare le cose fu una riunione con amici che credeva fidati. Mendelshtam recitò a memoria la sua poesia contro Stalin Noi viviamo senza…. La voce arrivò puntualmente a chi di dovere. L´arresto scattò la notte del 13 maggio 1934. Mandelshtam fu tenuto per quattro giorni a tormentarsi in una cella della Lubjanka prima di essere portato davanti al suo inquisitore, Nikolaj Shivarov, il funzionario dei servizi esperto di questioni letterarie. L´uomo che annoterà i suoi versi.
Per quella evenienza Mendelshtam si era preparato. Aveva passato lunghe serate con il suo amico Arkadij Furmanov, ex cekista, a giocare all´inquirente, per imparare come aggirare le domande. Ma servì a poco. Convinto che il testo fosse già noto alle autorità finì per autoaccusarsi ripetendolo ad alta voce. Fece anche i nomi degli amici presenti alla audizione privata. Tre di questi furono successivamente arrestati.
Per sua fortuna però i tempi non erano ancora maturi. Il direttore delle Izvestjia, Bukharin, intercedette presso Stalin ma facendo un´altra delazione, segnalandogli cioè che anche lo scrittore Boris Pasternak difendeva il suo collega e che cominciava a lamentarsi pubblicamente. Il dittatore amava queste situazioni e si esibì in una delle sue performance preferite. Telefonò a Pasternak e gli disse secco: «Il caso Mandelshtam è stato riesaminato. Andrà tutto a posto». E poi aggiunse bonario per tranquillizzare lo scrittore terrorizzato: «Anch´io avrei fatto di tutto per salvare un amico nei guai. Inoltre lui è un genio, no?». Confuso Pasternak chiese di essere ricevuto per chiarire. Stalin riattaccò il telefono.
Così nel ´34 Mandelshtam sfuggì alla pena di morte e se la cavò con tre anni di esilio forzato a Cerdyn, negli Urali, e poi a Voronez. Ma il soggiorno alla Lubjanka lo aveva ormai devastato. Soffriva di allucinazioni, improvvisi stati febbrili. Tentò il suicidio. Nel ´37 inviò a Stalin un´ode riparatrice che ebbe un effetto devastante. Al Cremlino i versi apparvero chiaramente irrisori e carichi di doppi sensi.
La fine arrivò il 15 ottobre del 1937. Per quella data Mandelshtam aveva organizzato una serata presso l´Unione scrittori. Una mossa pubblicitaria per rientrare nel giro e uscire dagli incubi. Nel fascicolo dei servizi segreti è conservato un messaggio della Lubjanka al segretario dell´Unione scrittori. Eccola: «Stimato compagno. Il giorno 15 alle sei di sera, si terrà la lettura delle poesie di Mandelshtam. Prego provvedere alla presenza in sala!». Firmato: il segretario del Bureau della sezione Poeti, Surkov. Ordine eseguito. Mandelshtam arrivò, carico di speranze, in una sala completamente vuota. L´arresto definitivo qualche mese dopo, il 2 maggio del ´38. Processato per «comportamenti antisovietici» fu condannato ai lavori forzati a vita in un gulag. Morì poco dopo. Tra le sue carte, una poesia giovanile. «E sopra il bosco quando si fa sera/si alza una luna di rame/perché mai così poca musica/perché mai un tale silenzio?».

Repubblica 6.6.10
In quei versi così russi l'arma del tirannicidio
di Viktor Erofeev

O sip Mandelshtam scrisse i versi politici più coraggiosi e più riusciti di tutta la storia della letteratura russa. È un record. Quel proiettile di poesia diretto contro Stalin, quale può essere considerato il suo componimento del 1933 Viviamo senza più fiutare sotto di noi il paese, è di una precisione micidiale. A tutt´oggi, benché siano centinaia i libri su Stalin, Mandelshtam rimane il nostro più grande tirannicida poetico. Il suo talento era pari al potere dispotico di Stalin. Era una lotta tra due giganti. Due giganti che appartenevano a due generi opposti di esseri umani. Mandelshtam era un meraviglioso strumento della cultura russa, che odiava il potere russo e anelava alla sua distruzione.
Il primo tiratore che prese di mira il potere fu Aleksandr Radishov, che con il suo racconto del Viaggio da Pietroburgo a Mosca (1790) suscitò le ire di Caterina II, che mandò l´autore in esilio. Radishov però era un letterato mediocre. Forse solo Pushkin era riuscito a scrivere degli straordinari versi d´amore per la libertà, ancora ben lontani però dall´audacia dell´epigramma di Mandelshtam che annientò il carisma politico di Stalin, lo mise a nudo e fece vedere il suo orribile corpo di mostro. Stalin apprezzò la forza del suo nemico e mostrò nei suoi confronti un´eccezionale indulgenza. Stalin incarnava e riassumeva in sé tutti gli aspetti più ripugnanti della storia del potere russo, e per giunta era determinato a riplasmare la natura umana con inaudito sadismo sul proprio modello politico. Avrebbe ucciso un uomo per peccati molto più lievi, aveva già sulla coscienza la più grave carestia dell´Urss, l´Holomodor; eppure la sfida lanciatagli dal poeta suscitò in lui, a quanto pare, un´involontaria ammirazione.
Stalin, che in gioventù era stato un poeta fallito, comprendeva la grandezza di Mandelshtam. Sentendosi sfidare per nome, egli capì che quanto più si fosse mostrato magnanimo, tanto minor forza avrebbe assunto la verità dell´avversario. Mandelshtam se la cavò con un esilio a Voronez. Vero è che quattro anni più tardi Stalin lo avrebbe schiacciato come una mosca. D´altronde, nel 1938, l´anno del grande terrore, Stalin punì Mandelshtam cancellandolo dalla lista dei tesori della cultura russa, e il poeta andò incontro alla morte certa nel gulag non più come un genio, ma come un coccio di una civiltà in frantumi.
Insomma, perché la cultura russa è così straordinaria e lo Stato russo è così ripugnante, praticamente lungo tutto il corso della storia? Vi svelerò un segreto, il motivo è questo: la cultura russa, la parola letteraria russa sono splendide proprio perché si contrappongono allo Stato russo, facendo passare tutti i loro temi, dall´amore alla morte, attraverso un fiero rifiuto della menzogna. Per parte sua, lo Stato russo è così orribile perché si oppone crudelmente alla cultura che si oppone a esso, nel tentativo di dimostrare la propria verità di supremo paternalismo. Lo Stato russo è fermamente convinto di essere nel giusto e odia la parola che sfugge alla censura. Da tempo ormai si è trasformato in un mostro che divora i poeti, e correggerlo è altrettanto difficile che costringere Mandelshtam, in preda a un terrore animale, a comporre un´ode per Stalin. Stalin e Mandelshtam sono una coppia perfetta di ballerini che in un valzer di sangue volano attraverso i secoli della nostra storia gloriosa, strangolandosi e uccidendosi a vicenda.
(Traduzione di Mirella Meringolo)

sabato 5 giugno 2010

Ansa 4.6.10
Libri: Letteratura italiana e cinese in volume double face
ROMA, 4 GIU - Un volo parallelo attraverso i millenni, tra culture e identita' molto diverse. Da Confucio a Shanghai Baby, dalle opere latine di epoca romana al Nobel Dario Fo. E' 'La rosa e la peonia' un libro ''double face'' con il fior fiore della letteratura italiana e di quella cinese, pubblicato da L'Asino d'oro edizioni. Testo bilingue, a cura della studiosa Valentina Pedone, docente di letteratura cinese all'Universita' di Firenze e di Urbino, il libro e' destinato alle nuove generazioni, gli insegnanti, gli studenti, i mediatori culturali, e inaugura una nuova collana 'Cina' della casa editrice di Matteo Fago e Lorenzo Fagioli. Dalle iscrizioni degli indovini sui gusci di tartaruga, tracciate all'epoca della arcaica dinastia Shang, ai romanzi erotici degli anni 2000 alle popolarissime eroine della narrativa web. La storia della cultura e letteratura cinese, da un lato, nei suoi passaggi piu' salienti e dall'altro, quella delle principali vicende letterarie italiane, sono ripercorse nel volume. Scritto in due lingue, questo libro, a cura di Valentina Pedone, e' curato per la parte cinese da Wei Yi, insegnante di letteratura italiana contemporanea presso l'Universita' di Lingue Straniere di Pechino. ''La rosa e la peonia - spiega nella postfazione Valentina Pedone - e' rivolto a tutti coloro che incontrano quotidianamente culture diverse dalla propria, a lettori curiosi ed entusiasti, a chiunque voglia conoscere, imparare e crescere nutrendosi di pluralita'''.

Agi 5.6.10
Libri: È uscito La rosa e la petunia, double face italia Cina
Roma, 5 giu. - Un libro bilingue e 'double face' che racchiude il fior fiore della letteratura italiana e di quella cinese: da Confucio a Shanghai Baby, dalle opere latine di epoca romana al Nobel Dario Fo. E' 'La rosa e la peonia' per le edizioni 'L'Asino d'oro', della studiosa Valentina Pedone in libreria in tutta Italia da venerdi' 4 giugno. Destinatari: le nuove generazioni, insegnanti, studenti e mediatori culturali. Scritto in due lingue, il libro della Pedone, ricercatrice e docente di letteratura cinese presso l'Universita' di Firenze e di Urbino, e' un'opera, dunque, "double face". E "inaugura una nuova collana della casa editrice di Matteo Fago e Lorenzo Fagioli - si legge in una nota - dedicata a letteratura, poesia e saggistica dell'immenso paese orientale dal titolo 'Cina'. La rosa, elegante e profumata, e la peonia, la rosa senza spine, fiore tradizionale della Cina (ne esistono oltre 600 specie), che puo' vivere anche trecento anni, si dividono il fronte e il retro dell'agile volumetto rosso, con due distinte copertine e testi in italiano e in cinese: un modo originale per mettere in comunicazione tra loro cultura e identita' di due Paesi molti diversi e lontanissimi uno dall'altro. I principali eventi letterari di oltre 4000 anni di civilta' cinese, in lingua italiana, si combinano quindi con i "caratteri" ideografici, che narrano invece le tappe fondamentali della storia della letteratura del nostro Paese. Da Confucio a Shanghai Baby, passando per la letteratura nell'epoca maoista, le fasi storiche e artistiche della "Terra di Mezzo" si ibridano in poche pagine, attraverso le epoche, con quelle italiane: una carrellata che va dalla letteratura in latino di epoca romana, fino al premio Nobel Dario Fo, la cui prima piu' evidente differenza si manifesta, per significato e suono, nelle immagini della scrittura". Il libro, spiega la Pedone, e' rivolto "a tutti coloro che incontrano quotidianamente culture diverse dalla propria, a lettori curiosi ed entusiasti, a chiunque voglia conoscere, imparare e crescere nutrendosi di pluralita'. Ai tanti piccoli cittadini cinesi che si incontrano nelle scuole e nelle piazze delle nostre citta', che parlano benissimo l'italiano, che si sentono italiani, che riescono a confrontarsi con tutti senza chiedersi nulla e che sarebbe bello sentire parlare anche in lingua cinese". (AGI) Pat

Agi 5.6.10
Cultura: Bonino, riconoscere identità umana della donna
Impegnata da sempre, 'solitaria e testarda', nelle battaglie sociali e civili per elevare la condizione della donna considerata al piu' un oggetto, Emma Bonino, oggi alza la posta: e' il momento di riconoscere 'l'identita' umana' della donna. Ed ecco che "l'equiparazione dell'eta' pensionabile nel pubblico impiego e' una manovra che l'Europa ci chiede da tempo per ripristinare equita' sociale e per evitare che con risarcimenti pelosi si perpetrino danni nei confronti delle donne che non hanno alcun vantaggio da una uscita anticipata dal mercato del lavoro", si integra con "la difesa" della RU486 quale "scelta insindacabile" della donna e dell'aborto terapeutico contro l'aborto clandestino. "Non e' l'aborto il diritto ma la scelta - precisa - di una maternita' consapevole". Lunedì 7 giugno la Bonino, insieme ad esponenti del Pd di Roma, Giulio Pelonzi e Gianluca Santilli, discutera' sul libro 'L'identita' umana' e la nuova politica di Livia Profeti per le edizioni 'L'asino d'oro'. Ci tiene pero' a precisare che dalla equiparazione dell'eta' pensionabile, una delle battaglie dei Radicali portate avanti in 'solitudine', non verra', "nessun vantaggio se non quello di dover continuare a fare le funambole per ovviare a servizi di assistenza e cura totalmente insufficienti e per giunta avere, per via di una norma anacronistica, qualcosa che sancisce di diritto una discriminazione pecuniaria tra uomini e donne". Ed aggiunge, "sono anni che ci battiamo per l'equiparazione ma l'urgenza di questa misura, in questo preciso momento di crisi e di necessita' di reperire risorse, e' ancor piu' lungimirante e opportuna". Emma la laica non ci sta a ridurre la donna al ruolo di "moglie fedele, madre di famiglia sempre contenta" o di "belle signorine bizzarramente vestite accanto a uomini vestiti di tutto punto" o "manager, che vuole fare carriera, odiosa antipatica e respingente". Insopportabile dunque l'idea della donna relegata a custode del focolare domestico. Ci sono in questo paese, che "si muove guardando lo specchietto retrovisore - ricorda - i teocretini che pare abbiano solo loro valori da difendere". Ma lei la 'fluoriclasse' di Pier Luigi Bersani che ha battuto a Roma con il 54,18% di voti Renata Polverini, non cede di un millimetro, "dico quel penso e faccio quel che dico", ripete. Si' proprio come quella "nobile onesta intelligente 'razza' azionista e giellista", cui appartengono i Radicali. I 'solitari e cocciuti', di ieri erano persone come Piero Calamandrei, Ernesto Rossi, Emilio Lussu, Altiero Spinelli e l'Ingegenere 'acomunista', Riccardo Lombardi che fa parte della "nostra comunita' capitiniana", conclude, quella della non-violenza. (AGI) Pat

l’Unità 5.6.10
A Gaza, dove s’impara
a sopravvivere senza cibo né acqua
Cresce l’attesa mentre si avvicina la nave Rachel Corrie, ultima della Flottilla L’embargo è sempre più stretto. Ora sono vietati anche sapone, cemento persino carta igienica, spazzolini da denti e ceci. Il dramma dei bambini
di Umberto De Giovannangeli

Ragazzini. Un milione e mezzo di abitanti, il 54% ha meno di 18 anni
La sete. Il 90% dei pozzi è contaminato, si compra da bere dai privati
La fame. Tra le merci proibite anche pasta, riso datteri e marmellata
Hamas. È ovunque, controlla l’economia dei tunnel e le opere «caritatevoli»
La Flottilla. «Quei morti per noi sono degli eroi sono shahid, martiri»
Shayma, 13 anni: «Prima della guerra ero davvero brava a scuola, ora non posso studiare»
Muhammad, 7 mesi: «È morto perché con l’embargo non abbiamo strumenti per operare»

Nemmeno al tuo peggior nemico puoi augurare di «vivere» in questa prigione sventrata, con le fogne a cielo aperto, con i bambini che giocano a scalare montagne di rifiuti in una gabbia ridotta ad un cumulo di macerie, isolata dal mondo. Il caldo soffocante moltiplica il bisogno di acqua. Quasi un miraggio, un bene divenuto di lusso dopo tre anni di embargo. Perché nella Striscia il 90% dei pozzi è chimicamente contaminato e l'acqua di casa non è potabile, per cui la gente è costretta a comprare acqua da privati. Neanche al tuo peggior nemico puoi augurare di «vivere» a Gaza. Di vivere in un paesaggio lunare, fatto di crateri che si susseguono per chilometri. Tra quelle macerie, dentro quei crateri si muove una umanità sofferente che scruta il mare perché dal mare può arrivare la Speranza, sotto forma di navi della libertà, come quelle assaltate dagli uomini rana israeliani l’altra notte.
La realtà di Gaza supera ogni metafora – prigione, gabbia, inferno utilizzata per raccontare di una striscia di terra popolata da un milione e mezzo di persone – 1.527.069 secondo l'ultimo censimento in maggioranza (il 54%) sotto i diciotto anni. Gaza dove –secondo una recente ricerca dell'Agenzia Onu per i rifugiati palestinesi)il numero delle persone che non hanno alcuna sicurezza per l'accesso al cibo e che non dispongono dei mezzi per procurarsi i beni più essenziali come il sapone o l'acqua pulita, è triplicato dall'imposizione del blocco nel giugno 2007. Gaza, dove 300mila rifugiati vivono in condizioni di povertà degradante contro 100mila all'inizio del 2007, con un tasso di disoccupazione tra i più alti al mondo: 41,8%. Gaza, dove il blocco –denuncia la Croce Rossa«continua ad ostacolare gravemente» il trasferimento nella Striscia di attrezzature mediche essenziali, ponendo a rischio le cure immediate e le terapie a più lungo termine di migliaia di pazienti. Gaza, dove il 90% della popolazione dipende dagli aiuti alimentari distribuiti dalle agenzie dell'Onu.
Per entrare all’inferno devi superare a piedi –dopo un meticoloso controllo con fantascientifiche apparecchiature elettroniche da parte israelianail valico di Erez. Sono trecento metri in una terra di nessuno. Lo sguardo abbraccia un orizzonte fatto di macerie. E di bambini. Che camminano tra le rovine degli oltre 4mila edifici distrutti dall’aviazione e dall’artiglieria d’Israele nei 22 giorni dell’operazione «Piombo Fuso»: di quei 4000mila edifici, solo una minima parte sono stati ricostruiti. A Gaza manca il cemento per farlo. Israele ne proibisce l'entrata per timore che serva a ricostruire le infrastrutture di Hamas. Il cemento come mille altre cose: dalla fine di gennaio ci sono restrizioni su carburante, gas per cucinare, materiali per costruire. Poi a febbraio qualcuno ha denunciato che Israele bloccava anche i datteri, le bustine da tè, i puzzle per bambini, la carta per stampare i testi scolastici e la pasta (per Israele non è considerato bene umanitario, solo il riso lo è). Ora nella lista dei materiali proibiti sono entrati anche carta igienica, sapone, spazzolini e dentifricio, marmellata, alcuni tipi di formaggio e i ceci per fare l’hummus. Mancano a Beit Hanoun, a Rafah, Khan Yunis. E ancora: Jabaliya, Bureli, Al Nusayrat, Mughazi, Dayr al Balah, fatiscenti campi profughi trasformatisi in asfissianti centri urbani. Sono trascorsi quasi diciotto mesi da quel 27 dicembre 2008 (inizio dell'offensiva israeliana); 18 mesi dopo, Hamas continua a restare padrone di Gaza. Padrone di una «prigione», ma pur sempre padrone incontrastato.
L'embargo non ha indebolito il movimento islamico. Hamas è ovunque. Nelle organizzazioni «caritatevoli» che dispensano un acconto di cento dollari -un’enormità per chi (oltre 950mila persone) vive sotto la soglia di sopravvivenza– ad ogni famiglia colpita dal fuoco israeliano. Hamas presiede all'«economia dei tunnel», quella che si dipana sottoterra, nella miriade di gallerie che dalla frontiera con l'Egitto (il valico di Rafah riaperto da Mubarak dopo l'assalto alle navi della Freedom Flotilla), fanno arrivare a Gaza merce di ogni tipo. Hamas si è appropriato politicamente delle «Navi della libertà». Almeno diecimila persone hanno partecipato alle manifestazioni organizzate ieri nella Striscia dal movimento islamico contro il blocco israeliano e a sostegno della Freedom Flotilla: a sventolare, per ordine di Hamas, sono bandiere palestinesi e turche. Affianco ai ritratti di sheikh Ahmed Yassin –fondatore di Hamas ucciso dagli israelianicompaiono quelli del «nuovo amico del popolo palestinese», il premier turco Erdogan.
Quello a Hamas è un consenso impastato di rabbia, paura, dolore. Alimentato da una rivendicazione di libertà repressa nel sangue. Per anni Ahmed Al-Jaru aveva sognato il mare, pur vivendo a poche centinaia di metri dalla distesa azzurra. Ma Ahmed e i suoi 9 bambini non potevano arrivarci perché a separarli dal mare c'erano i soldati israeliani che presidiavano uno degli undici insediamenti ebraici nella Striscia. Ora Ahmed e i suoi bambini li incontriamo al vecchio porto di Gaza City. Lui era lì la notte che la festa si è trasformata in tragedia. Era lì assieme a Faisal, Mahmud, Abdel, Zaira, e ad altre migliaia che attendevano la Freedom Flotilla. C'era anche una banda musicale per far festa... Ma a Gaza festeggiare è un sogno irrealizzabile. «Quei pacifisti sono eroi, shahid (martiri), e gli israeliani degli assassini», dice Faisal, 14 anni, il padre ucciso nella seconda Intifada. C'è chi affida il suo pensiero a Internet. È Ola, blogger di Gaza. «Per coloro che pensavano che l'era dei pirati fosse finita... o che rimanesse confinata alla fantasia dei film di Hollywood... Ripensateci. Voi, i martiri della Flotta della Libertà...Gaza voleva accogliervi come vincitori...ma il paradiso vi riceverà come martiri...Le onde del mare e i gabbiani e il tramonto piangono tutti per voi...». «Allah li accolga nel Paradiso degli shahid», le fa eco Yousef, che per sfamare la sua famiglia di undici persone ha ingrossato le fila dell'«esercito» di uomini-talpa che lavorano sottoterra al confine con l'Egitto. Un collega della Tv francese prova a dirgli: non dovete perdere la speranza. La risposta di Yousef è un pugno allo stomaco: «Non possiamo perdere una cosa che non abbiamo».
C'è animazione al porto. Si è sparsa la voce che un’altra nave di Freedom Flotilla la «Rachel Corrie», con a bordo la Premio Nobel per la pace, l'irlandese Mairead Maguire, e il suo connazionale Denis Halliday, ex vice segretario generale delle Nazioni Unite è in avvicinamento alle coste di Gaza. «Siamo partiti per consegnare questo carico alla popolazione di Gaza e quello intendiamo fare è forzare il blocco di Gaza... Non abbiamo paura», fa sapere dalla nave, Mairead Maguire. La nave è carica di materiale da ricostruzione, 20 tonnellate di carta e molti altri prodotti che Israele rifiuta alla popolazione della Striscia. «Di navi ne dovrebbero arrivare cento al giorno per portarci via di qua», sussurra Zaira, dieci anni che tiene per mano il fratellino Yasser, tre anni. A Gaza le prime vittime sono i bambini. Bambini come Shayma, 13 anni, la cui casa è stata distrutta 18 mesi fa dai bombardamenti israeliani e ancora oggi vive con sei fratelli in una baracca di lamiere. Fredda d'inverno, torrida d'estate. «Ho smesso di fare le cose che mi piacevano, disegnare, giocare – dice Shayma -. Non mi piace neanche più guardare la televisione». Shayma ha solo tredici anni, ma il suo sguardo, la sua voce raccontano di una infanzia sfiorita nell'inferno di Gaza. «Prima della guerra ero davvero brava a scuola, avevo buoni voti, adesso non lo sono per niente e ho paura che non riuscirò più a diventare dottore...». Anche Mahmud, 15 anni, ha perso la casa e ora vive in una tenda: «Non ho più sogni. Vorrei sentirmi come se avessi di nuovo una casa». Dalla prigione non si esce. Nella prigione si può solo morire. Anche se non hai alcuna colpa. Anche se hai solo sette mesi. Con le lacrime agli occhi, Yasmeen mi mostra una foto di Muhammad, il suo bambino. Due occhioni neri, un sorriso che apre il cuore. Ma il cuore di Muhammad Akram Khader non batte più. La sua morte – spiega Mu'awiya Hassanein, direttore generale dei servizi di Pronto soccorso nella Striscia è avvenuta a causa di un rigonfiamento del cervello, che richiedeva cure disponibili solo fuori Gaza a causa dell'embargo.
Muhammad è morto dopo che alla sua famiglia non è stato permesso di ricoverarlo in ospedali israeliani.
«Noi bambini diversi» Cosa sia crescere a Gaza, lo racconta Sani Yahya: un missile sparato da un F16 israeliano fece saltare per aria la festa del suo quindicesimo compleanno, uccidendo alcune delle sue sorelle e cugine. A Sany quell'attacco è costato il suo braccio sinistro: «Noi, bambini di Gaza, non siamo come gli altri –dice Sany che incontriamo a casa dei suoi nonni, alla periferia di Gaza City-. Da sempre dormiamo tutti insieme, abbracciati gli uni gli altri nello stesso letto per paura degli F16 che sorvolano di continuo le nostre case. Non parlo solo di adesso, di questa guerra. Noi siamo cresciuti così: senza luce e senz’acqua ogni volta che gli israeliani decidono di tagliarci l’energia; con l’eterna paura degli attacchi di punizione per i missili di Hamas e delle incursioni nelle nostre case. La mia scuola è stata bombardata tre volte in due anni. Non abbiamo diritto ad imparare né a sognare un futuro migliore. Nemmeno alla mia festa di compleanno avevo diritto...”. Il 31 luglio 2009, sulla spiaggia di Gaza, tremila bambini fecero volare in cielo gli aquiloni. Avevano sognato di volare con loro. Superando l'assedio, rompendo l'embargo. Volare via da quell'inferno chiamato Gaza.

l’Unità 5.6.10
La fortezza della paranoia
di Moni Ovadia

L’assetto psicologico che caratterizza i leader dell’attuale governo israeliano è ben rappresentato da una sola frase che il suo ministro della difesa Ehud Barak, il soldato più decorato della storia di Israele, ha pronunciato in occasione del discorso di congratulazione agli uomini del commando che hanno bloccato la Freedom Flottilla con un massacro:«...qui [in Medio Oriente] non c’è pietà per i deboli e non si da una seconda chance a chi non si difende». Eccola qui la Israele-fortezza delle vittime che ha in mente un politico con questa terribile visione. Andando di questo passo forse potrebbe proporre di istituire una Rupe Tarpea per i deboli come i refusnik, i soldati e gli ufficiali renitenti che sono pronti a dare la vita per il loro paese ma non sono disposti a massacrare civili a casa d’altri, o come lo scrittore Amos Oz perché sostiene che l’uso della forza è lecito solo a scopi puramente difensivi e non per colonizzare e schiacciare militarmente un intero popolo, o come Manuela Dviri scrittrice israeliana che ha perso un figlio in Libano per queste parole:« dopo tutto quell’assedio (della striscia di Gaza) figlio dell’ossessione militare e politica al dio della sicurezza, ci costringe a vivere, noi stessi, in un infinito stato d’assedio, chiusi in un invisibile fortino, isolati e condannati dai popoli. Adesso dicono che bisogna spiegare al mondo le nostre ragioni...non c’è nulla da spiegare. C’è solo da fare. C’è da ritirarsi finalmente, e per sempre, dai territori. E da Gaza!» Purtroppo queste parole non toccheranno né i cuori né le menti di questi ottusi governanti e dei loro fan acritici in Israele e nel mondo che vedono in Israele la vittima anche quando il suo esercito occupa e opprime e suoi cittadini colonizzano e rubano terre e vita ai palestinesi. A noi gente di pace e dialogo per rispondere a questa paranoia basta un nome: Itzkhak Rabin.

l’Unità 5.6.10
«Privato è peggio per gli operai della Cina»
La scrittrice: «Ritmi massacranti, molti divieti e straordinari non pagati, meglio le aziende di Stato. Ma oggi i lavoratori cominciano a chiedere»
Intervista a Lijia Zhang
di Marina Mastroluca

Suicidi. «Su internet ho letto commenti di questo tipo: “Perché uccidersi in fabbrica? Meglio organizzare una protesta”»

Per essere una fabbrica non è male. C’è anche la piscina e l’ospedale». Steve Jobs, boss della Apple, cancella con qualche battuta la pubblicità negativa che insudicia l’immagine asetticamente avveniristica del suo ultimo gioiello. Alla fabbrica dei suicidi, quella Foxconn di Shenzhen dove nascono gli I-pad, hanno steso delle reti protettive e assoldato una trentina di monaci buddisti e psicologi per prevenire nuovi tentativi. L’impresa taiwanese che prima aveva imposto ai lavoratori un impegno scritto a non suicidarsi e alle famiglie la rinuncia preventiva a rivalersi sull’azienda ha fatto un passo indietro e ha concesso un aumento salariale. Più soldi e migliori condizioni in fabbrica dovrebbero bastare, questa è anche la speranza del boss della Apple.
Per due volte in pochi giorni la vita nelle fabbriche cinesi è finita sotto la lente dei media. Dopo la Foxconn, in un impianto della Honda i 1900 operai tutti giovani hanno scioperato bloccando la produzione in 4 stabilimenti: paghe troppo basse, chiedevano il doppio dei loro 150 dollari al mese. Per Lijia Zhang, scrittrice e giornalista cinese, operaia ai tempi di Mao, come ha raccontato nel suo libro «Socialismo è grande» (Cooper), è il segno di una maggiore consapevolezza dei lavoratori. Operai che scioperano, non è all’ordine del giorno in Cina.
«In effetti è così, anche se è sicuramente più frequente di quanto non fosse nel passato. Molto dipende dal fatto che i sindacati non funzionano, non difendono i diritti dei lavoratori. Quanto alle proteste alla Honda va detto che i salari nelle fabbriche giapponesi in Cina sono particolarmente bassi, più di quanto non siano in aziende britanniche, o italiane. Ora lo sciopero è finito e sono stati concessi degli aumenti. Ma c’è un’altra cosa interessante...»
E cioé?
«La coincidenza di queste proteste con la serie di suicidi alla Foxconn. Mi è capitato di leggere su internet commenti di questo tenore: “Se non sei contento di come vanno le cose, perché uccidersi? Meglio organizzare una lotta”. Ed è esattamente quello che è successo, con gli scioperi e la richiesta di aumenti salariali. C’è stata poi anche una pressione da parte delle autorità centrali cinesi, perché si prestasse maggiore attenzione ai diritti dei lavoratori. Si è creata una serie di circostanze favorevoli». Solo un problema salariale dietro ai suicidi?
«No, certo. Per esempio alla Foxconn gli operai sono costretti a sottoscrivere la disponibilità “volontaria” a fare straordinari. Ci sono ritmi di lavoro estremamente intensi 12 o più ore di lavoro al giorno davvero un rischio per la salute mentale. In particolare per i lavoratori emigrati, che sono molto soli e si trovano in città dove non si sentono accettati. Guardando ai singoli casi, le ragioni dei suicidi sembrano spesso insignificanti: soldi persi, la rottura con un fidanzato. Ma la ragione vera è la profonda infelicità: sono giovani che speravano di avere in cambio dei loro sacrifici almeno i soldi da mandare a casa ma neanche il denaro è abbastanza». Che cosa è cambiato da quando lei era operaia in una fabbrica? Nel suo libro lei parla di una «polizia mestruale»: un controllo ossessivo nella vita privata degli operai. «Devo dire che io lavoravo per un’impresa statale. Anche oggi le condizioni di lavoro in questo tipo di fabbriche sono spesso migliori che nel settore privato, dove non sempre vengono rispettate le regole. Per esempio non vengono pagati gli straordinari. E ci sono regolamenti interni molto rigidi: non si può parlare, si viene sgridati. Per certi versi si può dire che le condizioni di lavoro siano persino peggiorate rispetto al passato. Ma anche che i lavoratori cominciano a chiedere. E a differenza che nel passato hanno maggiori opportunità di lasciare la fabbrica: io mi sentivo in fondo ad un pozzo. Ora è diverso».
C’è una maggiore consapevolezza dei propri diritti? «Politici non direi. Alla fine degli anni ‘80 c’era l’idea di poter arrivare a riforme politiche. Dopo l’89, dopo Tianamen, non è più così, non c’è questa speranza. Ma c’è sicuramente più consapevolezza dei diritti individuali».
Anche quest’anno ci sono stati arresti in occasione dell’anniversario di Tienanmen. Lei stessa aveva partecipato alle proteste dell’89. È ancora una ferita aperta?
«Non se ne parla. È in qualche modo tabù. I giovani non ne sanno un granché e non solo perché è accaduto 21 anni fa. È perché nessuno glielo ha insegnato».
E per quello che la riguarda, quale è il suo grado di libertà? «Non bisogna immaginare la Cina come un Grande fratello che controlla tutto. È una realtà confusa. Io non mi definisco una dissidente, non appartengo a nessuna organizzazione. Mi limito a scrivere in inglese. E il mio libro non è stato tradotto in cinese. Si può comprare su Amazone, certo, ma la pubblicazione non è mai stata autorizzata».

l’Unità 5.6.10
Vittorio Foa dal carcere all’Europa
La politica intesa come azione, le radici dell’europeismo, la vibrante polemica antirazzista: ecco le lettere di un gigante della sinistra italiana scritte negli otto anni passati dietro le sbarre durante il regime fascista
di Federica Montevecchi

L’epistolario. In otto anni poté comunicare solo con i familiari più stretti

Vittorio Foa riteneva le lettere che aveva scritto dal carcere fascista la memoria di riferimento della sua lunga vita: ne parlava spesso, ne ricordava con precisione brani, che poi voleva rileggere e verificare, e tutte le volte ogni lettura, lungi dal risolversi in un omaggio al passato, apriva inesauribili possibilità di riflessione e di discussione. Questo accadeva non soltanto perché Vittorio viveva la vecchiaia in maniera progettuale, con rare concessioni alla malinconia, ma anche perché il suo epistolario si presta a interpretazioni molteplici. Esso è a un tempo il documento di un'esperienza storicamente fonda-
mentale, la testimonianza indiretta di un mondo, quello della Torino antifascista degli anni ’30 del Novecento, e il resoconto di una educazione politico-intellettuale. L’intreccio di questi aspetti si riflette naturalmente anche nella scelta di lettere (o di parti di lettere) che Vittorio preparò, nell'estate del 2008, per questa edizione: il criterio adottato per tale scelta era riconducibile in primo luogo al bisogno di mettere in risalto quello che egli riteneva essere il suo carattere prevalente, vale a dire quell'identità profonda e invariabile che permane in ogni età e nelle mutevoli espressioni dell’esistenza. Le comunicazioni ai genitori e alla famiglia, le riflessioni, le analisi di libri contenute in questa scelta di lettere mostrano come il carattere prevalente di Vittorio fosse intellettuale: questo era il continuum che costituiva il suo modo di essere e che, per il legame inscindibile di intellettualità e politica, ha trovato necessariamente e coerentemente espressione nei diversi ruoli che egli ha ricoperto nella vita pubblica italiana. Prova di tutto ciò è dunque la vita stessa di Vittorio a partire proprio dall'esperienza del carcere, luogo dove egli trascorse gran pate della giovinezza, dai 25 ai 33 anni. (...)
Negli otto anni, tre mesi e otto giorni di reclusione a Vittorio Foa fu concesso di comunicare soltanto con i famigliari più stretti per mezzo di lettere che inizialmente avevano cadenza bisettimanale e poi, dopo il processo, cadenza settimanale: alcune lettere straordinarie erano permesse in occasione delle festività o per comunicare alla famiglia eventuali trasferimenti. Della corrispondenza di questi anni ossia delle 525 lettere, cinque cartoline postali e un telegramma conservate dai genitori di Vittorio restano 498 lettere e quattro cartoline postali.
Nel carcere fascista per scrivere la lettera era concesso un solo foglio quasi sempre di carta assorbente e a spese del detenuto che con lo scoppio della guerra venne ridotto alla metà; ogni lettera era poi sottoposta al controllo della censura presso la direzione centrale della polizia politica (OVRA) al ministero dell’Interno e lì in alcuni casi archiviata, in altri censurata parzialmente, a volte con inchiostro spennellato, altre volte con i tratti minuti di un pennino. Nell’epistolario sono presenti 103 lettere censurate parzialmente e solo tre di queste più alcune righe di altre due furono lette, all’epoca dell’edizione integrale, nella parte coperta grazie all’impegno dell’Istituto di patologia del libro e della Polizia scientifica; per quanto riguarda le lettere trattenute dalla censura, infine, resta tuttora valida l’ipotesi che si possano ancora trovare negli archivi del ministero dell’Interno. (...) Nelle lettere selezionate per questa edizione le riflessioni di Vittorio su se stesso e sulla sua esperienza carceraria si intrecciano con analisi storiche, economiche e letterarie che mostrano il suo modo di pensare e, al tempo stesso, anticipano alcuni dei temi che resteranno per lui essenziali. (...) È sempre attraverso il richiamo all’azione, alla necessità di una politica che sia tale, e cioè capace di comprendere il proprio tempo e di agirlo, che Vittorio risponde anche alla campagna razziale e al dolore di assistere dal carcere alla dispersione della propria famiglia. (...) Anche in questo momento drammatico Vittorio cerca di capire, di trovare il senso degli accadimenti: interessante a tal proposito è, ad esempio, la lettera del 7 luglio 1938 si afferma l’inutilità delle frequenti conversioni di ebrei al cattolicesimo poiché appariva chiaro che la persecuzione antisemita non aveva carattere religioso ma razzista. (...) Rivendicare l’appartenenza al proprio tempo significa anche condividerne le responsabilità riconoscendo, soprattutto nel caso della campagna razziale, che è solo «la diretta esperienza del male che può dare a noi uomini comuni la piena coscienza del male e della necessità di combatterlo; fuori di quella esperienza si dicono delle belle parole e si dorme».(...)
L’EUROPEISTA RESPONSABILE
Va da sé che la Resistenza e la storia successiva alla seconda mondiale avrebbero mostrato come la lotta contro il nazi-fascismo «richiedeva anche il recupero di quelle identità nazionali che il nazismo aveva tentato di annullare e che erano le precondizioni per avviarsi a disegni più alti». Il fatto stesso che, già all’epoca del carcere, Vittorio fosse un convinto europeista e, al tempo stesso, orgoglioso della sua identità italiana formata sulla memoria risorgimentale (...) è l’esempio più chiaro della duplicità dell’idea di nazione, del fatto cioè che anche le forme politiche più nobili sono soggette a rischi di degenerazione risultando così tanto positive quanto potenzialmente negative. Questa ambiguità, che si riflette inevitabilmente nel linguaggio politico, costituisce un richiamo indiretto alla responsabilità, che per Vittorio Foa era il criterio primo dell’azione politica e punto di vista privilegiato da cui guardare alla storia del Novecento.

Repubblica 5.6.10
La battaglia non è finita
di Stefano Rodotà

Ora che sembra profilarsi una qualche marcia indietro, varrebbe la pena di stilare un impietoso catalogo delle dichiarazioni tracotanti che, nei giorni scorsi e nei luoghi più disparati, erano venute da "autorevoli" esponenti di governo e maggioranza per difendere le norme contenute nel disegno di legge sulle intercettazioni.
Norme di cui si proclamavano l´assoluta necessità e immodificabilità per tutelare i diritti delle persone, l´intangibilità dello Stato di diritto, e via imbrogliando. Sarebbe un buon servizio per i cittadini, almeno per quelli che vogliono mantenere una attitudine critica verso chi li rappresenta e governa. Ma non credo che avrebbe alcun effetto su un ceto politico ormai abituato ad una disinvoltura che sconfina in una sfrontatezza che fa negare l´evidenza, dimenticare le dichiarazioni del giorno prima, dire tutto e il suo contrario. Per questo bisogna mantenere un giusto distacco, essere massimamente cauti di fronte all´annuncio di emendamenti che dovrebbero migliorare quel testo sciagurato.
Costretti a rimettere le mani su norme di cui al Senato si erano addirittura induriti gli aspetti più aggressivi, Berlusconi e i suoi hanno conosciuto una sconfitta politica, resa possibile dal congiungersi di diversi fattori. Una opposizione parlamentare finalmente determinata. Una attenzione vigile di quegli organi istituzionali ai quali spetta sempre il compito di vegliare sul rispetto della legalità repubblicana, questa volta il presidente della Repubblica e il presidente dalla Camera. Un movimento che ha coinvolto direttamente centinaia di migliaia di persone, che si è manifestato nelle piazze virtuali e in quelle reali, che si è progressivamente allargato con una benefica "discesa in campo" dei più diversi gruppi e associazioni, di editori d´ogni parte, del sistema dell´informazione con quasi tutte le sue componenti più significative. Non dirò che proprio da qui, da questa reazione diffusa e determinata, sia venuto l´impulso maggiore. Ma è certo che questa sorta di mobilitazione generale e quotidiana ha dato il senso di una urgenza, di un confine non valicabile, che ha messo le istituzione di fronte a tutta la loro responsabilità, all´impossibilità di girare la testa dall´altra parte.
Vinta una battaglia, però, bisogna sempre ricordarsi che si può perdere la guerra. Per questo occorre mantenere la tensione, essere rigorosissimi nella valutazione delle novità o presunte tali, non correre frettolosamente alla conclusione che comunque qualcosa si è ottenuto e che non è il caso di cadere nel peccato dell´intransigenza. Non è tempo di sconti, non si può finire nella trappola vecchissima di chi chiede mille, finge poi di negoziare, scende a novecento, convince il compratore che questo è "un buon punto di equilibrio" e così porta a casa quasi tutto quello che si era prefisso, illudendo la controparte d´aver fatto un affare. Non si è alzata la voce oltre il giusto, e oggi non è venuto il momento di abbassarla. Si è detto a chiare lettere che si stava consumando un attentato alla democrazia, che vanificare aspetti essenziali del controllo di legalità e imbavagliare l´informazione determinava un cambiamento di regime. È questo il metro che dobbiamo continuare ad adoperare, anche a costo di scontentare quelli che non vedono l´ora di trovare un pretesto per dire che non è più il caso di agitarsi.
Tre sono le istruzioni che debbono guidarci in questa nuova fase. La prima impone di non dare giudizi definitivi prima d´aver letto le proposte della maggioranza: qui, davvero, il diavolo si annida nei dettagli, soprattutto quando si tratta di disciplinare uno strumento importante e delicatissimo qual è quello delle intercettazioni. La seconda riguarda la necessità di guardare all´intero circuito informativo: la limitazione delle possibilità d´indagare porta con sé l´impossibilità di conoscere e rendere pubbliche vicende rilevanti, così come il ritorno a norme più ragionevoli sulle intercettazioni non può compensare il mantenimento di limiti gravi al diritto d´informare e essere informati. La terza suggerisce di non abbandonare la messa a punto di una strategia capace di contrastare efficacemente il permanere di limitazioni alla libertà di manifestazione del pensiero: disobbedienza civile, ricorsi alla Corte costituzionale, lettura in Parlamento dei documenti "vietati".
Da quel che si apprende, l´emendamento della maggioranza conterrebbe alcune aperture per quanto riguarda la durata delle intercettazioni, ma questa possibilità sarebbe accompagnata da una macchinosa procedura che, per i reati ordinari, prevede una richiesta di proroga ogni 48 ore, con evidentissime complicazioni organizzative e con le difficoltà derivanti dall´obbligo di indicare ogni volta ragioni per la prosecuzione dell´intercettazione diverse da quelle prodotte in precedenza. Rimarrebbe immutata la norma riguardante la prima autorizzazione ad intercettare, che dovrebbe essere rivolta al tribunale distrettuale: una procedura motivata con l´argomento che una valutazione collegiale garantisce meglio dal rischio di abusi, ma di cui è stata da più parti sottolineata la irrazionalità. Tre giudici al posto di uno, quando un solo magistrato può addirittura condannare all´ergastolo in caso di rito abbreviato; lungaggini e problemi di sicurezza legati al trasferimento dell´intero fascicolo processuale (anche molti "faldoni") in una sede diversa e lontana da quella delle indagini; difficoltà per le sedi con organico ridotto, perché i magistrati partecipanti all´autorizzazione diverrebbero poi "incompatibili" per la celebrazione dei relativi processi. La necessità di evitare abusi, e di responsabilizzare maggiormente i magistrati, rischia così di produrre derive analoghe a quelle determinate in passato da norme, che, introdotte con l´intento di garantire meglio i diritti dell´indagato e dell´imputato, hanno contribuito grandemente ad accrescere i tempi processuali.
Si presentano come emendamenti migliorativi quelli riguardanti la possibilità di effettuare intercettazioni ambientali e di registrare e trasmettere le udienze. Di nuovo, però, il giudizio è sospeso in attesa di leggere i testi relativi. E lo stralcio della norma riguardante le conversazioni degli appartenenti ai servizi di sicurezza, accolta con favore da maggioranza e opposizione, richiederà molta attenzione in futuro, per evitare che una nuova disciplina venga orientata verso ampliamenti ulteriori del segreto di Stato, seguendo una discutibile sentenza della Corte costituzionale e creando una situazione che contrasta assai con le esigenze, riemerse proprio in questi giorni, di uscire dall´oscurità tutte le volte che vi siano situazioni pericolose per le istituzioni.
Sul versante dell´informazione, la novità sarebbe rappresentata dal ritorno alla norma del testo a suo tempo approvato dalla Camera, e poi cancellato dal Senato, secondo il quale è lecita la pubblicazione "per riassunto" degli atti giudiziari. Ma questo passo in avanti non scioglie una grave contraddizione. Rimane, infatti, il divieto di pubblicare in qualsiasi forma, dunque anche per riassunto, il contenuto delle intercettazioni, anche quando queste non siano più segrete. Poiché, per giustificare questo divieto si ricordano indubbi abusi del passato, è bene ripetere per l´ennesima volta che gli abusi e le violazioni della privacy si evitano con divieti mirati, riguardanti le conversazioni di chi sia estraneo alle indagini o le parti non rilevanti delle conversazioni degli stessi indagati. Il resto non ha nulla a che fare con la privacy, ma riguarda la trasparenza del potere, il diritto dei cittadini di controllare chiunque abbia ruoli pubblici, com´è chiaramente stabilito fin dal 1998 dal Codice di deontologia dell´attività giornalistica. E che dire della sanzione a carico degli editori che, pure dopo lo sconto da 465.000 a 309.000 euro, legittima un potere di controllo dei proprietari, aprendo così la strada ad una censura di mercato?
No, non siamo ancora entrati in una zona di bonaccia.

Repubblica 5.6.10
Ecologia e ambiente
Per Heidegger su questa parola si basano tutte le lingue Aristotele, Kant e Chomsky però la ridimensionano
La meravigliosa debolezza del verbo essere
a cura di Antonio Cianciullo

L´ontologia è la disciplina filosofica che si occupa dell´essere, ed è stata battezzata molto tardi (per i tempi quasi biblici della filosofia), all´inizio del Seicento, partendo da ontos, il genitivo del participio presente di einai, "essere" in greco. La sua domanda fondamentale, d´accordo con il filosofo americano Willard Van Orman Quine (1908-2000) è "Che cosa c´è?". In un certo senso Andrea Moro, professore di Linguistica generale presso il San Raffaele di Milano si mette a indagare il seguito della frase, non in Quine, ma in Ornella Vanoni e Gino Paoli: «C´è che mi sono innamorato di te», e si chiede che cosa esattamente significhi questo "C´è". La sua scienza non riguarda gli enti, ma il verbo essere, e Moro propone ironicamente di chiamarla "einaiologia", da einai. Diciamo subito che, al di là della linguistica, l´einaiologia è utilissima per l´ontologia, e aiuta a liberarla da tante fisime, in particolare quella secondo cui il verbo essere sarebbe un verbo fortissimo, che, come una specie di Atlante, regge il mondo sulle proprie spalle.
La formula canonica del giudizio, S è p, un certo soggetto è un certo predicato, "il tavolo è nero", "Socrate è musico", porta in sé qualcosa del "fiat lux", della creazione del mondo. Heidegger scriveva con una certa ebbrezza che se nella lingua mancasse la parola "essere" non è che avremmo una parola in meno, non avremmo nessuna lingua. All´iperbole soggiaceva anche il solitamente sobrio Quine, perché alla domanda "Che cosa c´è?" rispondeva "C´è tutto", lasciando intendere che il verbo essere conferiva una esistenza, sia pure umbratile, a tutto quanto, compresi i ferri lignei e i rotondiquadrati. In questo titanismo si cela un retrogusto di prova ontologica, quasi che la copula è facesse esistere le cose, o quantomeno che nella terza persona dell´indicativo presente del verbo essere si nascondesse il segreto dell´esistenza.
Ed è qui che, a svegliare l´ontologia dal suo sonno dogmatico, interviene l´einaiologia. Prendiamo la frase "Vietato attraversare i binari". Se io metto "È vietato attraversare i binari" cambia qualcosa? No, il concetto resta tale e quale. Kant, nel dire che "essere" non è un predicato reale, bensì una posizione assoluta, ha messo tutti sull´avviso. Pretendere che l´essere aggiunga qualcosa a un concetto è un po´ come andare al bar e ordinare una birra piccola, chiara e reale: quell´ultima specificazione apparirebbe bizzarra e lascerebbe di stucco il barista. Che cosa cambia allora? È il tempo. Potrei mettere «era vietato attraversare i binari» (e ora non lo è più) o «sarà vietato attraversare i binari» (e non lo è ancora). Essere e tempo? Sì, proprio così, in Aristotele molto prima e molto meglio che in Heidegger: la copula "è" in S è p, non serve per far esistere le cose (al punto che se dicessi "Beato lui!" dovrei necessariamente supporre che il giudizio implichi "Lui è beato"), ma serve essenzialmente per marcare il tempo, nella fattispecie il presente.
Questo è il primo degli indebolimenti dell´essere a cui si impegna Moro, che però non si limita al recupero di Aristotele e Kant, ma ne propone un secondo sulla scia della linguistica di Noam Chomsky: il verbo essere è flessibilissimo, cioè, appunto, più debole di altri verbi. In italiano, osserva Moro con una scoperta originale, in una sequenza sintagma nominale / verbo / sintagma nominale (in parole più imprecise nome / verbo / nome), il verbo si accorda sempre con il sintagma nominale di sinistra: si dice "Caino uccise Abele e Pinocchio", e non "Caino uccisero Abele e Pinocchio". Quando però il verbo è l´essere, le cose vanno diversamente. Posso dire sia "Due foto del muro furono la causa della rivolta", sia "La causa della rivolta furono due foto del muro", dove il verbo si accorda con "due foto sul muro", il sintagma nominale di destra. Abbiamo dunque sia la frase copulare canonica, sia la frase copulare inversa, e questo appunto perché il verbo essere è molto più arrendevole degli altri.
Questa breve storia del verbo essere non è una storia, ma una teoria, però siamo contenti lo stesso. L´asimmetria tra il ruolo centrale degli enti (naturali, ideali, sociali) nella nostra vita e l´evanescenza del verbo essere ci fa toccare con mano, ancora una volta, la differenza tra ontologia, quello che c´è, e l´epistemologia, quello che pensiamo e diciamo a proposito di quello che c´è. Hanno sbagliato i filosofi a pretendere che l´essere costituisse il linguaggio o che il linguaggio costituisse l´essere. Niente di grave. Proprio perché quello che c´è ha in una grande quantità di casi una bellissima autonomia rispetto a tutti i linguaggi e a tutte le teorie, ci può essere ontologia, che si chiede "Che cosa c´è?", e indaga gli enti (cioè in parole povere gli oggetti) in quanto possono anche rivelarsi indipendenti dalle nostre cogitazioni e formulazioni linguistiche. E ci può essere einaiologia (da intendersi come una branca dell´epistemologia), che studia frasi tutt´altro che trasparenti – anche dal punto di vista linguistico – come «C´è che mi sono innamorato di te».

il Riformista 5.6.10
Prodi vede un «Vis-conti»
Vendola vuole la piazza
e il Pd fa contro-proposte
di Ettore Colombo
qui
http://www.scribd.com/doc/32558309/il-Riformista-5-6-10-p6


Repubblica 5.6.10
Nessuna pietà per chi chiede asilo

Il senso del libro di Laura Boldrini sta tutto nel titolo: Tutti indietro. Dove "tutti" sono i richiedenti asilo, i profughi e i rifugiati che l´autrice, portavoce dell´Alto commissariato Onu per i rifugiati (Unhcr), ha incontrato in anni di lavoro dai Balcani all´Afghanistan, passando per l´Africa e il Medio Oriente, fino ad arrivare in Italia. Spinta dall´attualità – ovvero la decisione dell´estate 2009 del governo Berlusconi di respingere in mare tutti coloro che tentano di raggiungere il paese in barca – Boldrini racconta chi sono e da dove arrivano quelli che l´Italia manda via senza neanche guardarli in faccia: somali, afgani, sudanesi, ghanesi, iracheni. «Se sei in mezzo al mare perché nel tuo paese c´è la guerra poco importa. Se sei su un gommone perché a casa rischi la tortura è lo stesso», scrive. Eppure, a guardarli da vicino, questi «sono soltanto esseri umani che non hanno il privilegio di vivere a casa loro e cercano altrove pace e sicurezza». Laura Boldrini dà voce alle loro storie: e all´Italia "che c´è ma non si vede", fa di tutto per aiutare e in questo modo salva la coscienza del paese.

Repubblica 5.6.10
Una grande mostra al Santa Maria della Scala, al Battistero e al Duomo In prestito opere preziose ottenute grazie a sei anni di preparazione
Da Jacopo a Donatello Siena celebra il suo ‘400

SIENA. Ricordate il divertente spot pubblicitario che magnificava un pennello da imbianchini, giocando argutamente sulla inversione «pennello grande, grande pennello»? Ebbene, di fronte a tante maxirassegne dalla millantata grandezza viene spontaneo chiedersi se è ancora possibile allestire «grandi mostre» e non solo «mostre grandi».
Una squillante risposta affermativa al nostro quesito giunge in questi giorni da Siena, dove in quello straordinario palinsesto di storia artistica e sociale cittadina che è lo Spedale di Santa Maria della Scala, e nei due vicini ambienti del Battistero e della Cripta del Duomo, si può visitare una mostra che non esito a definire la più importante e anche spettacolare dell´odierna stagione: «Da Jacopo della Quercia a Donatello. Le Arti a Siena nel primo Rinascimento», a cura di Max Seidel, fino all´11 luglio).
Si tratta di una rassegna di ampio respiro, che allinea un numero imponente di sculture, dipinti, disegni, oreficerie e tessuti, a testimonianza di una stagione artistica vivacissima durata oltre mezzo secolo, dal 1400 al 1460. Ma questi dati quantitativi, come ho anticipato, non sarebbero di per sé sufficienti a farne una «grande mostra». Altri infatti sono i fattori che rendono questa esposizione memorabile, dalla progettazione in ogni minimo dettaglio all´affidamento di ogni singola sezione ad alcuni tra i migliori esperti in materia. O ancora, l´aver saputo sfruttare al meglio le eccezionali opportunità offerte dai luoghi in cui è allestita, integrando le opere convenute dai musei di ogni parte del mondo con quegli straordinari complessi scolpiti o dipinti che lo Spedale e il Battistero offrono in pianta stabile.
Ma tutte queste, a ben vedere, sono solo concause della buona riuscita della rassegna: la causa prima, il fattore-chiave all´origine di tutto è un altro, e Max Seidel lo rivendica orgogliosamente fin dall´insolito titolo, «Sei anni di preparazione», della sua introduzione al catalogo. In paesi di maggior civiltà espositiva del nostro (che da tempo sembra aver rinunciato al ruolo guida conquistato in questo campo negli anni ´50 e ‘60), un´incubazione di parecchi anni per una grande mostra non è l´eccezione, ma la norma. Ma nel trafelato fast food espositivo che impazza oggi da noi, una simile richiesta suona come un´insensata e snobistica pretesa. Ha pertanto ragione Seidel a dichiarare tutta la sua gratitudine agli sponsor, prima fra tutti la Fondazione del Monte dei Paschi, che hanno accettato senza fiatare questa sua «precondizione». D´altra parte è solo grazie all´autorevolezza dei richiedenti e ai tempi lunghi di una preparazione certosina che si deve il dato quantitativo, questo sì determinante nel qualificare la mostra, di cui Seidel giustamente si compiace: delle tante richieste di opere in prestito da lui avanzate alle raccolte, pubbliche e private, di tutto il mondo, ben l´87% sono state esaudite. Una percentuale eccezionale, specie se si tien conto che si è trattato quasi sempre di sculture o di opere su tavola delicatissime. Grazie a questi prestiti è stato possibile ricostruire in mostra, recuperandone le disiecta membra sparse ai quattro angoli del mondo, la Pala di San Pietro a Ovile di Matteo di Giovanni, alcuni polittici cruciali di Giovanni di Paolo, il famoso Trittico dell´Arte della Lana del Sassetta e la stupefacente Pala di S. Antonio Abate del Maestro dell´Osservanza. E si è potuto esporre le sculture originali della Fonte Gaia, accanto ai due frammenti di pergamena(uno proveniente da New York, l´altro da Londra) in cui Jacopo della Quercia vergò il progetto per quel suo capolavoro destinato alla Piazza del Campo.
Sono queste le differenze tra una bella mostra e una mostra che fa epoca. Differenze che sono perfettamente percepite tanto dal grande pubblico che dagli studiosi. Studiosi che nel vedere l´una accanto all´altro tutte le opere principali del Maestro dell´Osservanza e di Sano di Pietro potranno dire una parola definitiva sull´eterna querelle che divide chi li considera due maestri diversi da chi invece sostiene che il primo altri non è che Sano da giovane.
Ma queste sono solo alcune delle tante leccornie imbandite da una mostra che offre in apertura una vera e propria rassegna monografica dell´eroe del primo Rinascimento senese, Jacopo della Quercia, che con la sua scultura, elegante e al contempo vigorosa, si mantiene in bilico tra squisitezze gotiche e prorompente plasticità rinascimentale, incarnando alla perfezione la riluttante e un po´ trasognata ambiguità di questa stagione dell´arte senese, incerta tra nostalgia di un illustre passato e aperture sul futuro. Un dilemma che è plasticamente sintetizzato in mostra anche dal confronto ravvicinato tra una Madonna con il Bambino in terracotta di Jacopo e una folgorante interpretazione dello stesso tema proposta da Donatello.
Uno degli snodi più spettacolari della rassegna è la sala in cui si affollano varie coppie di statue lignee con l´Annunciazione, intagliate da Jacopo della Quercia e dai suoi due seguaci, il raffinatissimo Francesco di Valdambrino e il più arcaizzante Niccolò dei Cori. Ma non meno riuscito è il fitto dialogo che si è riusciti a intrecciare, alternando sezioni cronologiche a sezioni tematiche e mettendo a confronto dipinti e sculture con oreficerie, tessuti, manoscritti miniati, altaroli portatili, cofanetti e tanti altri deliziosi «oggetti da maneggiare» di devozione privata o di prezioso arredo tra il sacro e il profano.
Ma a elencare le cose mirabili non basterebbe un´intera pagina. Mi limito perciò a segnalarne solo una ancora: la parete di una sala, in cui è perfettamente messa a fuoco, con tre esempi scelti in modo esemplare, la stretta, quasi palpabile contiguità stilistica che si venne a stabilire in una certa fase tra la pittura del senese Domenico di Bartolo, e l´arte di due suoi colleghi fiorentini, il pittore Filippo Lippi e lo scultore Luca della Robbia.

venerdì 4 giugno 2010

l’Unità 4.6.10
Gli errori e la paura
Israele-Anp Il baratro è dietro l’angolo
di Tobia Zevi

Visti da qui, israeliani e palestinesi appaiono come due lottatori, ormai stanchi, incapaci di liberarsi da una morsa che rischia di rivelarsi reciprocamente mortale. L’assalto israeliano alla flottiglia pacifista è stato un assurdo errore politico dalle conseguenze tragiche. A poco servono le immagini dei militanti di quaranta paesi che impugnano coltelli e lanciano granate: come ha rilevato la stampa israeliana si trattava di una trappola (turca), in cui il governo israeliano si è infilato sbagliando l’azione sul piano militare e causando le vittime civili.
A ben vedere, però, l’episodio rivela l’assoluta incapacità di entrambi di immaginare un futuro migliore. Gli israeliani sentono sulla loro pelle la minaccia della bomba iraniana e dei vicini arabi che li circondano e che vogliono «buttarli a mare»; paradossalmente fanno di tutto per allontanare anche gli unici alleati regionali, l’Egitto (che ha riaperto il valico di Gaza) e la Turchia, senza considerare le relazioni burrascose degli ultimi mesi con l’alleato americano. I palestinesi, dal canto loro, possono mostrare al mondo quante siano dure le loro condizioni, ma non riescono a dotarsi di una leadership vera, che sia interlocutore credibile nel processo per la pace, e a Gaza hanno preferito i fondamentalisti di Hamas ai moderati di Fatah, cacciati nel 2007.
In questo contesto le opinioni pubbliche non sono in grado di invertire la rotta. La politica, se esiste, non indica il sentiero ragionevole e stretto. Prevale un senso di disperazione miope che supporta scelte sbagliate, che non scorge il limite da non oltrepassare. Il punto dove la morte dell’uno è anche la morte dell’altro. Difficile dire cosa bisognerebbe fare: sul piano del negoziato, conosciamo le tappe necessarie. Ma Israele non è disposta a trattare con Hamas e Hamas continua a dichiarare di voler distruggere Israele (oltre a lanciare migliaia di missili), e dunque le trattative vere neanche partono, mentre quelle indirette con Abu Mazen sembrano ormai solamente uno stanco rituale tra due leadership screditate.
Personalmente speravo molto nella nuova aria iniettata da Obama. Un presidente che fin dall’insediamento si è interessato a questa tragedia cronicizzata – mentre Bush si recò nell’area dopo sette anni di mandato! – e che sembra disposto a mettere il suo fedele alleato, unica democrazia dell’area, di fronte alle sue responsabilità, rafforzato anche dalla nascita di gruppi di pressione ebraici decisi ad appoggiare Israele in modo critico (Jstreet).
Finora non ci sono stati effetti positivi. E il tempo è sempre meno, se fare un passo in avanti sembra quasi impossibile, e il baratro è pericolosamente dietro l’angolo.

l’Unità 4.6.10
L’assedio di Gaza divide Israele. Il mondo preme: deve finire
Dopo la strage sulla nave della pace, a Gerusalemme prime crepe nel Muro dell’intransigenza Critiche all’embargo sulla stampa e alla Knesset. Per le strade c’è chi dice: la forza non basta più
di Umberto De Giovannangeli

Il blocco di Gaza deve essere immediatamente revocato» perché «punisce civili innocenti». Così Ban ki-Moon, segretario generale delle Nazioni Unite. «Rompere il blocco israeliano della Striscia di Gaza con ogni mezzo». Così i ministri degli Esteri della Lega Araba. E così l'Unione Europea. La Comunità internazionale preme su Israele. E in Israele il «Muro» dell'intransigenza comincia a mostrare le sue prime crepe. Nei palazzi della politica. Tra la gente.
«L'embargo deve finire». È perentorio il deputato laburista Raleb Majadele, da sei settimane vice presidente della Knesset (il Parlamento israeliano), in un'intervista pubblicata ieri con grande risalto dal quotidiano Haaretz. «Il governo di Israele deve decidere di indire un ordine del giorno saggio e togliere l'assedio a Gaza», dice colui che è stato il primo arabo musulmano a diventare ministro dello Stato ebraico. «Mi chiedo, l'assedio ha favorito il rilascio di Gilad Shalit (il caporale israeliano rapito da Hamas nel giugno 2006, ndr)? L'assedio è stato dannoso solo per i membri di Hamas? si chiede Majadele -. La risposta è che l'assedio non ha portato alcun vantaggio e ha danneggiato Israele agli occhi della Comunità internazionale. In ogni modo Israele invia beni a Gaza ogni giorno. L'assedio è durato più di tre anni. Ci ha dato qualcosa?».
Secondo l'ex ministro della Cultura, con l'embargo a Gaza «abbiamo solo rafforzato Hamas. È probabile che ottenga il Premio Nobel (per la pace, ndr). Presto avremo colloqui diretti con Hamas». A una
domanda circa il suo rapporto con il ministro della Difesa Ehud Barak, leader del partito laburista, Majadele ammette di «non capirlo». E non è il solo nel Labour e in un sempre più disorientato elettorato di sinistra. «Come ha fatto a cadere in questa trappola? Non capisco dove vuole arrivare. Se, Dio non voglia, un elicottero fosse esploso sopra la nave (della Freedom Flotillla, attaccata lunedì dalla Marina israeliana, ndr), i morti sarebbero stati a centinaia. Ci sono modi migliori per fermare la flottiglia». Il «Muro dell'intransigenza» s'incrina anche sulla commissione d'inchiesta internazionale. Due dei cinque ministri laburisti il titolare dell'Industria, Benyamin Ben Eliezer, e quello degli Affari Sociali, Avishai Braverman non si dicono contrari. «Israele dichiara in particolare Ben Eliezer non deve aver paura di una indagine internazionale, perché ha agito nel rispetto del diritto internazionale e non ha niente da nascondere». Da chiarire, però, sì. Il numero delle vittime del blitz sulla Mavi Marmara , ad esempio: i morti accertati sono nove, ma, secondo alcuni testimoni e attivisti, molti corpi potrebbero essere stati buttati in mare dai militari. Le nove vittime «ufficiali» erano di età compresa fra 19 e 61 anni ed erano tutte turche (il più giovane aveva anche la cittadinanza statunitense). Secondo i testimoni, di diverse nazionalità, il bilancio si aggirerebbe invece fra i 16 e i 20 morti.
Israele s'interroga. E si scopre più isolato, più solo. Nessuno mette sotto accusa i ragazzi in divisa, ma i politici che hanno dato l'ordine, questo sì. «Quelli della nave turca saranno stati pure dei provocatori, ma c'è qualcuno che oggi può sostenere con orgoglio quello che è stato fatto dai nostri?», dice Yael Katz, 22 anni, studentessa all'Università ebraica di Gerusalemme. «Ma non si rendono conto quelli al governo che in questo modo fanno solo il gioco di Hamas?», le fa eco Uri Lappin, suo compagno di studi.
Un capannello si crea nell'assolata isola pedonale di Ben Yehuda, nel cuore della Gerusalemme ebraica. Il dibattito si anima: «Hanno fatto bene a sparare, se non lo facevano loro l'avrebbero fatto quei terroristi», taglia corto Avishav Selig, il padrone di un negozio che vende magliette e gadget dell'Idf, le forze armate d'Israele. «Non dire fesserie – ribatte David Izenberg , che ha da poco finito i tre anni di servizio militare – Il nostro diritto a difenderci è fuori discussione, ma non possiamo pensare che tutto si risolva con la forza». «Tutto no, ma non possiamo neanche subire i ricatti dei turchi diventati amici di quel criminale di Ahmadinejad», s'inserisce Yaakov Lazaroff, sessantenne sostenitore di Avigdor Lieberman, il super falco ministro degli Esteri. Israele s'interroga. E il malessere, l'incertezza, la paura di essere sempre più risucchiati in una spirale di violenza e di terrore, si rispecchiano nelle pagine dei giornali, mai come ora specchio fedele di un'opinione pubblica disorientata, divisa. Haaretz, bandiera dell'intellighenzia liberal del Paese, pubblica un editoriale che definisce «fallimentare» la strategia del blocco e critica severamente l'atteggiamento di Netanyahu (ma anche del ministro della Difesa laburista, Barak). Secondo Haaretz il blocco va ripensato non solo per le critiche internazionali ma anche perché ingiusto nei confronti della popolazione civile dell'enclave palestinese controllata da Hamas. E soprattutto perché «inutile e dannoso». Da destra, le critiche arrivano invece dal generale della riserva Ghiora Eiland, già consigliere per la sicurezza nazionale dell'ex premier Ariel Sharon. In un'analisi pubblicata da Yediot Ahronot, Eiland invoca «un nuovo approccio», fondato sul pragmatismo, con Hamas, il cui potere nella Striscia va ormai considerato «legittimo». Un approccio che accetti di esplorare i canali di dialogo aperti con gli integralisti da altri Paesi e si limiti a proteggere i confini terrestri di Israele, rinunciando a velleità di assedio totale. Senza pretendere restrizioni alla frontiera fra la Striscia e l'Egitto e lasciando passare sul fronte marittimo tutte le navi dirette a Gaza: purché allestite da «entità riconosciute da Israele» e previo «il diritto a ispezionarne» il carico.

l’Unità 4.6.10
«Israele come Polifemo
I suoi leader sono ciechi»
Lo scrittore israeliano: «Non c’è nessuna lungimiranza, il governo è debole e ostaggio delle frange più oltranziste. Si fa dettare l’agenda dai coloni»
di Umberto De Giovannangeli

Israele si comporta come un Polifemo. Un Polifemo cieco. Privo di lungimiranza, che prova a mascherare con la forza la sua debolezza politica». A sostenerlo è uno dei più grandi scrittori israeliani: Meir Shalev. «La leadership dell'Israele di oggi – rimarca Shalev – naviga a vista, senza alcuna strategia né di pace né di guerra. E a dettarne l'agenda sono i coloni. Dobbiamo essere onesti con noi stessi e guardare in faccia la realtà: se oggi siamo nei guai è per responsabilità di governi prigionieri delle frange più radicali e oltranziste, e non perché nel mondo c'è una opposizione a Israele che a volte sfocia nell'antisemitismo».
Lei ha usato tempo fa, per descrivere Israele, l'immagine di Polifemo, che fende colpi a destra e a manca, perde le sue energie e, alla fine perde anche la sua vista ...
«Rimango fedele a questa immagine e riprendo soprattutto l'aspetto della cecità. Israele oggi non ha una visione a distanza, nel tempo. Non sa dove vuole arrivare di qui ad alcuni anni. La sua leadership non ha capacità e coraggio di dire "noi crediamo in questa o quella idea e vogliamo portare il Paese a realizzarla". Guardi, le mie idee politiche sono piuttosto note: credo ancora alla soluzione di due Stati per due popoli, anche se la cosa sembra diventare sempre più difficile da realizzare. Eppure, con tutto il rammarico personale ma nel rispetto della democrazia, accetterei la legittimità anche di un Governo che sostenesse la Grande Israele dal Giordano al Mediterraneo e che si muovesse in quella direzione con la chiara intenzione di conseguirla. Invece, la leadership dell' Israele di oggi, vive il momento, reagisce senza pensare a dove la porteranno le sue azioni e di conseguenza compie azioni che si rivelano poi fallimentari per il suo stesso futuro e per quello di altri. Naviga-
no a vista, illudendosi di poter mantenere nel tempo, magari con la forza, l'attuale status quo. Ma questa rischia di rivelarsi, per tutti noi, una tragica, devastante, illusione. Come si è rivelata un'illusione pensare che il blocco di Gaza facesse crollare Hamas. Ma Hamas vive sulla sofferenza della gente palestinese, se ne alimenta e indirizza il malcontento contro il Nemico: Israele. Purtroppo, stiamo facendo di tutto per aiutarli in questo».
Sembra comunque che l'aspetto più devastante, sul fronte interno, sia quello della tensione fra la popolazione ebraica e quella araba che l'altro ieri è giunta perfino alla Knesset e che potrebbe arrivare nelle strade e nei quartieri in cui le due popolazioni vivono una accanto all'altra...
«Non esiste governo che possa decretare una legge secondo cui ebrei e arabi, da domani, devono volersi bene ed essere buoni vicini. Un governo deve preoccuparsi di dare al ragazzo e alla ragazza arabi pari occasioni di vita, studio, sanità, occupazione e i cittadini arabi che vogliono vivere come israeliani, devono trovare il modo di integrarsi maggiormente nella società, facendo per esempio nel periodo che i ragazzi ebrei e drusi sono militari, un servizio civile sostitutivo all'esterno o nelle proprie comunità, che li faccia sentire parte della realtà del Paese, alla pari dei loro coetanei. Devo comunque dire che le leadership delle due parti hanno pesanti responsabilità. Personalmente, penso che i parlamentari arabi stiano dando un contributo negativo alla situazione esistente fra le due popolazioni. È una critica che sento spesso anche da parte della popolazione araba nei confronti dei propri stessi rappresentanti. Si occupano quasi esclusivamente di quanto succede a Gaza e ai propri fratelli palestinesi che vivono fuori dai confini dello Stato d'Israele, ma fanno poco o nulla per confrontarsi e cercare di risolvere i problemi chi li ha fatti eleggere, vale a dire gli Arabi Israeliani. La cosa, oltre che assicurare molto più eco nei mass media, risponde anche alle necessità della parte più militante e religiosamente fanatica della popolazione araba. Ciò che succede nel Parlamento israeliano non è molto diverso da quello che succede nel Medio Oriente: gli arabi estremisti cercano di attirare Israele in provocazioni che causino reazioni estreme e non sagge, e noi li accontentiamo. In fondo, la quasi rissa di ieri (mercoledì, ndr) alla Knesset non è molto diversa da quanto è avvenuto tre giorni fa in mare aperto: in ambedue i casi si è agito senza prendere in alcuna considerazione le conseguenze».
La linea di difesa di Israele su quanto è avvenuto è una controaccusa al mondo ipocrita che ama abbracciare cause fotogeniche lasciando il lavoro sporco a Israele che è costretta a farlo perché nel suo caso non si tratta di apparire più o meno bene, ma di sopravvivenza. È una tesi sostenibile?
«Ci sono situazioni in cui questo è vero e non solo nella politica. Ci si potrebbe chiedere perché si hanno campagne mondiali per il salvataggio dall'estinzione dei panda e non dei rospi, che in alcune parti del mondo corrono un rischio identico se non maggiore. Ma Israele non può permettersi e non deve pensare in questi termini. Per la leadership israeliana è il modo più semplice per sfuggire alle proprie responsabilità e se anche in questa tesi può esserci del vero, non è rilevante ai fini della gestione di un Paese come Israele. Si deve pensare alla vera risoluzione dei problemi partendo dal fatto che dal '67 ad oggi tutti i governi israeliani – chi più o chi meno – si sono fatti trascinare dalle azioni compiute da estremisti di tutte le fazioni, compresi quelli della destra israeliana – i coloni – che hanno il sopravvento e dettano l'agenda politica del Paese. Siamo onesti con noi stessi e non facciamo confusione: è questo il motivo per cui oggi siamo nei guai e non perché nel mondo c'è una opposizione a Israele che talvolta sfocia in antisemitismo».
Per Israele la forza di coesione interna è non meno importante di quella militare. Le due sembrano essere intaccate drammaticamente negli ultimi tempi. Che può significare per il futuro del Paese?
«Non consiglio a chi vorrebbe la scomparsa di Israele, di contare troppo sul fatto che commetta questo suicidio. Penso che Israele e la sua società abbiano ancora, nonostante tutto, riserve e anticorpi che assicurano il loro futuro il loro risanamento. È una forza che deriva dalla coscienza, dal senso di moralità e – non meno importante per una società in continua pressione dal tradizionale senso dell' humor ebraico. Non la forza che ti fa desiderare la morte del nemico, bensì quella che ti fa desiderare la vita del tuo popolo».

Repubblica 4.6.10
Salvare Israele da se stesso
di Nicholas D. Kristof

Quando su Twitter è cominciata a circolare la notizia di un attacco sanguinoso delle unità speciali israeliane contro la flottiglia diretta a Gaza, io non l´ho inoltrata perché mi sembrava inverosimile. «Israele non può essere tanto ottuso da sparare contro presunti pacifisti in acque internazionali sotto gli occhi di decine di giornalisti».
E invece sì, Israele può essere tanto ottuso. Si è tirato la zappa sui piedi, suoi e dell´America, compromettendo tutti i suoi obbiettivi strategici di lungo termine. Abba Eban, l´ex uomo di Stato israeliano, è rimasto famoso per aver detto, nel 1973: «Gli arabi non perdono mai un´occasione di perdere un´occasione». Fu una frase che ebbe grande risonanza perché in buona parte coincideva con la verità.
I palestinesi sono rimasti bloccati per anni in una dinamica autolesionistica di violenza e autocommiserazione, che ha portato a terrorismo e intransigenza. Sentendosi incompresi, non si curavano dell´opinione pubblica mondiale e colpivano alla cieca ogni volta che potevano, danneggiando la loro stessa causa.
Ma ora, come fa notare un rabbino sulla mia pagina Facebook, è Israele che non perde mai un´occasione di perdere un´occasione.
Sotto il governo del primo ministro Benjamin Netanyahu, Israele sembra bloccato in una dinamica autolesionistica in cui si sente incompreso e non si cura dell´opinione pubblica internazionale. Colpisce con forza usando modalità che danneggiano i propri stessi interessi. Ha imboccato una strada che potrebbe rivelarsi catastrofica.
È indiscutibile che Israele deve fronteggiare minacce alla propria esistenza. È per questo motivo che i suoi leader dovrebbero concentrarsi innanzitutto su due cose: un trattato arabo-israeliano e le pressioni sull´Iran per indurlo ad abbandonare il suo programma nucleare.
Non sono traguardi semplici, e per il momento un accordo fra israeliani e palestinesi potrebbe rivelarsi impossibile. Israele, però, potrebbe congelare tutti gli insediamenti e prendere altre misure propedeutiche a un accordo. Sappiamo già come dovrà essere l´assetto finale: una soluzione basata sui due Stati sulla base dei «parametri di Clinton», le condizioni che l´allora presidente americano propose nel 2000.
Israele farebbe bene anche a coltivare i rapporti con la Turchia, una pedina fondamentale negli sforzi per convincere l´Iran a desistere dai suoi intenti. E invece l´assalto in acque internazionali a una nave battente bandiera turca ha inflitto un duro colpo agli sforzi per imporre nuove sanzioni all´Iran. Uno dei grandi vincitori del disastro di questa settimana è il regime di Teheran.
Israele si sta alienando anche la sua base di consenso negli Stati Uniti, che è un elemento fondamentale per garantire la sua sopravvivenza.
Nell´ultimo numero della New York Review of Books, Peter Beinart ha scritto un articolo molto efficace sui giovani ebrei americani, la cui identificazione con Israele è molto meno forte rispetto alla generazione precedente. Beinart osserva che perfino il senato studentesco dell´Università Brandeis, che ha forti legami con la comunità ebraica, ha bocciato una risoluzione che chiedeva di commemorare il sessantesimo anniversario della fondazione di Israele.
Le politiche intransigenti di Israele stanno sperperando non solo il proprio capitale politico internazionale, ma anche quello dell´America. Il generale David Petraeus due mesi fa ha osservato che la percezione di un trattamento di favore da parte dell´America nei confronti di Israele genera antiamericanismo e rafforza Al Qaeda. Il capo del Mossad, Meir Dagan, ha espresso questo punto in modo più succinto: «Israele si sta gradualmente trasformando in un peso per gli Stati Uniti».
A molti israeliani tutto questo appare profondamente ingiusto. Israele è una democrazia vera, che si è ritirata da Gaza eppure continua a essere bersagliata dai razzi sia da nord che da sud. Di conseguenza, gli israeliani e i loro supporter più intransigenti tendono a liquidare le critiche esterne definendole ingiuste e antisemite, e optano per soluzioni unilaterali basate sulla forza. Come suggerisce il quotidiano Haaretz, Israele ormai è «disperso in mare».
Che cosa possiamo fare per cambiare questa dinamica? Un passo indispensabile è un´indagine approfondita su quello che è successo. Un altro è mettere fine in tempi rapidi al blocco di Gaza, sia da parte egiziana che da parte israeliana. Il blocco non è riuscito nel suo intento di far cadere Hamas, non è riuscito a ottenere la liberazione di Gilad Shalit, il soldato israeliano prigioniero di Hamas, e non è riuscito a far cessare i lanci di razzi da Gaza.
Chi si reca a Gaza vede con i propri occhi che l´assedio non ha prodotto nessun risultato tranne quello di devastare la vita di un milione e mezzo di semplici cittadini.
Il presidente Obama deve trovare una sua voce e premere con decisione per la fine dell´embargo a Gaza. Deve far ragionare a Israele e convincerlo a smetterla di tirarsi la zappa sui piedi, suoi e nostri.
©2010 New York Times
News Service (Traduzione di Fabio Galimberti)

l’Unità 4.6.10
Il servo liberato che divenne tiranno
Andrea Carandini svela il mistero che circondava le origini di Servio Tullio re bastardo dopo Tarquinio Prisco
di Stefano Miliani

Manovre di potere, sangue, appelli al popolo. In una Roma aperta a genti latine, sabine, etrusche, con greci e orientali, tra il616a.C.eil534a.C.,unasequenza regale cambiò la cosa pubblica e gli ordinamenti: prima re Lucio Tarquinio Prisco, greco-etrusco, seguito da Servio Tullio, ex servo che sarebbe stato suo figlio e in quanto tale non poteva di salire al trono, perché la Roma di allora vietava la successione diretta e richiedeva l’interruzione almeno di un regno. Andrea Carandini, archeologo, il maggior studioso delle origini di Roma, presidente del Consiglio superiore dei beni culturali, ha scritto una saga avvincente di trame, tradimenti e manipolazione del «popolo»: Re Tarquinio e il divino bastardo (Rizzoli, 171 pagine, 18 euro). Fondata su documenti testuali e visivi (come le pitture della tomba etrusca a Vulci detta di François), la narrazione sbroglia, con incursioni nei pensieri e nei sentimenti dei protagonisti, intricate faccende che evocano temi dell’Italia di oggi: costituzioni violate, demagogia, privilegi di oligarchie in discussione. A chi legge, fa pensare anche a Berlusconi.
Professore, perché ha voluto raccontare questa storia con piglio narrativo? «È la prima metà di una grande saga che riguarda la seconda età regia di Roma. Racconterò la seconda parte in un prossimo libro Rizzoli. Ho fatto ricerche su quel tempo e dopo tanti lavori eruditi ho voluto rivolgermi, per una volta, al grande pubblico. In Italia gli studiosi non hanno un rapporto con il popolo, la divulgazione pertanto è generalmente cattiva (salvo Piero Angela in tv): altera date e inventa misteri. Invece il dotto ha il dovere di raccontare quello che sa in modo semplice. Questo ho tentato».
A pagina 100 e oltre lei descrive un tiranno capace di parlare alla «pancia e alla fantasia» del popolo, che lo plasma ambendo a poteri più personali rispetto ai sovrani antichi o alle magistrature repubblicane. Ci ricorda la nostra Italia odierna.
«Questo è un libro sul potere. Generalmente il re trova la sua forza nel rapporto con il popolo favorendolo e manipolandolo perché l’aristocrazia ha beni, una sua autonomia, una libertà privilegiata, e fa la Fronda. È una trama che può esistere anche in forme democratiche: possono esserci gruppi elitari che vogliono conservare il potere e un popolo che si fa trascinare da un leader carismatico». Come Servio Tullio, il figlio bastardo sostiene lei. Alla morte di Lucio Tarquinio, diventerà re reggente, grazie alle manovre della vedova del re Tanaquil, eliminerà il fratello legittimo Gneo facendolo uccidere e dal 578 sarà il primo tiranno di Roma. Il quale si rivolge direttamente ai romani scavalcando tutti.
«Sì, lui cerca un rapporto con il popolo non filtrato dai nobili. È stato un tiranno riformatore, modernizzatore, cui seguirà il superbissimo Tarquinio il Superbo: le tirannidi, anche quelle con le migliori intenzioni, finiscono per degenerare. Prima delle democrazie, solo una tirannide poteva mettere nell’angolo un’oligarchia. Ma anche nelle democrazie possono esserci tendenze più costituzionali e altre tendenti alla rottura delle regole».
Sembra di vedere un ritratto in nuce di Berlusconi, con tutte le differenze del caso. Il premier, almeno fino a poco fa, ha saputo comunicare direttamente ai cittadini, al «popolo» dice lui, e al «popolo» si appella quando travalica le regole.
«Rimango pur sempre uno storico e so bene come i paragoni possono indurre a interpretazioni partigiane. Servio Tullio poteva prendere il potere solo illegalmente, rompendo ogni regola, perché era figlio illegittimo e segreto di re: un servo liberato. Questo potentissimo liberto ha rifondato una Costituzione, superando quella di Romolo. Ha avuto aspetti liberatori, come la cittadinanza basata sulla residenza, e ha creato le basi della futura potenza di Roma. D’altronde ogni rottura delle regole può esser fatta a fin di bene (Servio) e a fin di male (Tarquinio il Superbo)». Ma qualcosa richiama l’attuale premier.
«Un aspetto tipico di tutte personalità carismatiche nella storia è la loro illimitatezza. Starei però molto attento a vedere una metafora dell’oggi nel mio racconto. Se devo fare un paragone con i nostri giorni, vedo l’emergere nuovi ceti, che incontro alle mostre, che popolano gli outlet. È facile dire: ecco i barbari! È come se ci fosse stata una lotta di classe... La vecchia borghesia è stata sconfitta e questo nuovo ceto medio diffuso è antropologicamente diverso. Tutte le vecchie classi hanno visto male l’emergere di nuovi ceti: nei balli parigini sotto Napoleone gli ufficiali avevano mani coperte di diamanti! Ai nuovi ceti bisogna offrire scelte diverse. Loro votano e la storia torna a macinare...».

il Fatto 4.6.10
Legge bavaglio. È un pericolo per gli altri Paesi
Tabucchi: l’Europa dovrebbe farci
un esame di democrazia
di Silvia Truzzi
nelle edicole

Repubblica 4.6.10
Proposta dei ginecologi "Trattamento obbligatorio per neomamme depresse"

ROMA Applicare la procedura del trattamento sanitario obbligatorio alle donne affette da depressione post partum e a rischio di infanticidio, come il recente caso a Passo Corese (Ri). È quanto propongono al ministro della Salute Fazio Giorgio Vittori, presidente della Sigo (Società Italiana di Ginecologia e Ostetricia) e Antonio Picano, presidente dell´Associazione Strade onlus. Un´equipe specializzata potrebbe occuparsi 24 ore su 24 delle donne con comportamenti potenzialmente omicidi. I casi che richiederebbero un provvedimento di Tso sarebbero circa mille per anno.

http://www.ansa.it/web/notizie/rubriche/scienza/2010/06/03/visualizza_new.html_1818817677.html

http://www.adnkronos.com/IGN/News/Cronaca/Tso-alle-neomamme-per-combattere-depressione-post-partum-e-infanticidio_487886937.html

Cangemi Novelli

Repubblica 4.6.10
Coraggio. Una proteina e passa la paura
di Elena Dusi

L´iniezione di una molecola ha cancellato il timore di esperienze dolorose dal cervello di alcuni topolini Un primo passo per chi punta a un farmaco che elimini terrore, ansia e stress anche negli uomini
Questi esperimenti subiscono un´accelerazione nei periodi di guerra

Se a qualcuno un´iniezione lascia brutti ricordi, per un gruppo di topolini la puntura è servita a cancellare la paura. La somministrazione di un farmaco, hanno dimostrato i neuroscienziati dell´università di San Juan nel Portorico, può annullare gli effetti di uno spavento sul cervello, rendendo gli animali spavaldi anche dopo un´esperienza dolorosa.
L´esperimento pubblicato oggi su Science segna una nuova tappa nella ricerca di un metodo efficace per cancellare dalla mente i traumi del passato. Questo filone delle neuroscienze subisce sempre delle accelerazioni nei periodi di guerra. I ricercatori portoricani hanno ricevuto parte dei loro finanziamenti dagli Stati Uniti, e un precedente studio americano aveva dimostrato che un soldato su otto torna dal fronte con disturbi di ansia o disordini da stress post-traumatico. Sono problemi causati dalle violenze vissute in battaglia che si riaffacciano anche dopo il ritorno alla vita normale.
Come prima tappa, i topolini di San Juan sono stati indotti a temere un certo suono. Subito dopo averlo udito, i roditori subivano uno shock elettrico che gli provocava dolore a una zampa. Ogni volta che il suono si ripresentava, gli animali si rannicchiavano spaventati. Non importava che a volte la scossa non arrivasse: la paura era sempre puntuale.
Ma ogni paura appresa nel corso della vita è frutto di un brutto ricordo. E i ricercatori portoricani hanno pensato di cancellare gli effetti dell´esperienza negativa sui topolini agendo sul meccanismo di formazione della memoria. Nel cervello dei roditori hanno iniettato una proteina che rende malleabile le cellule e impedisce ai ricordi degli eventi spaventosi di crescere troppo, ripresentandosi in maniera ossessiva e impedendo una vita normale. Questa sostanza si chiama Bdnf (fattore neurotrofico di derivazione cerebrale), non è dissimile dal fattore di crescita scoperto da Rita Levi Montalcini e gioca un ruolo importante nel rafforzare le connessioni fra i neuroni, cioè nel consolidare la memoria.
Normalmente, per cancellare dalla testa dei topolini una paura, il suono viene ripetuto molte volte senza essere associato ad alcuna scossa. "Noi abbiamo scoperto con sorpresa - racconta su Science lo psichiatra Gregory Quirk che ha diretto l´esperimento - che non c´è bisogno di un nuovo condizionamento per riportare il topolino alla tranquillità. È sufficiente la somministrazione del fattore Bdnf all´interno della corteccia prefrontale". Quest´area situata nella parte anteriore del cervello è considerata la sede del pensiero razionale e bilancia la sua attività con quella dell´amigdala, che regola la paura a livello istintivo. Se un leone ci comparisse davanti, l´amigdala prenderebbe il comando facendoci scappare a gambe levate. Poco spazio resterebbe alla corteccia per pensarci su e decidere il da farsi. Ma nei topolini portoricani, "potenziare" la corteccia prefrontale con un´iniezione del fattore di crescita Bdnf è servito a ridimensionare la paura legata al suono.
Un esperimento complementare a quello di oggi, condotto a gennaio alla Emory University, aveva dimostrato che bloccando nei topolini il gene che regola la produzione di Bdnf nell´amigdala, i ricordi paurosi non riuscivano a consolidarsi. E i roditori continuavano a muoversi spavaldi nonostante suoni e scosse elettriche. Un altro filone delle ricerche anti-paura punta invece a bloccare il consolidamento del ricordo subito dopo il trauma, somministrando un farmaco che blocca temporaneamente le nuove connessioni fra i neuroni. Ma anche se questi esperimenti sono utili alla comprensione dei meccanismi della mente, le applicazioni pratiche per l´uomo sono lontane. Il farmaco anti-terrore assunto per bocca non esiste ancora. E l´idea di un´iniezione nel cervello fa paura anche a chi non ne abbia mai fatto esperienza.

Repubblica 4.6.10
Ritrovata una conferenza tenuta nel 1946 dal leader del Pci alla Normale
La lezione di Togliatti sul riformista Mazzini
di Lucio Villari

"Serve un rinnovamento profondo dell´ordine sociale, in modo da permettere agli uomini di vivere in pace tra loro. Questo è il problema centrale della vita"

Il 10 marzo 1946 Palmiro Togliatti tenne una lezione alla Normale inaugurando un istituto di studi intitolato a Mazzini. In quell´anno Togliatti era ministro di grazia e giustizia, l´Italia era ancora una monarchia (il Luogotenente Umberto di Savoia era il capo dello Stato), e si era alla agitata vigilia del referendum del 2 giugno. Togliatti era stato invitato a Pisa, dove la memoria di Mazzini era più viva che mai: qui Mazzini era morto sotto falso nome nel 1872 ,in casa degli antenati di Carlo e Nello Rosselli.
Il tema della lezione: le riforme sociali attraverso un giudizio storico su Mazzini, il marxismo, l´Italia risorgimentale, con un accenno distaccato a Cattaneo (manca in lui, «una concezione generale storicistica e riformatrice»). Terminata la lezione Togliatti non comunicò il suo testo a nessuno. Nel 1967 Rinascita, diretta da Luca Pavolini, decise di pubblicarlo senza alcuna indicazione sulla sua provenienza. Poi l´oblio.
Togliatti parlò del marxismo come di «una dottrina capace di liberare le forze che hanno in se stesse la possibilità di costruire un mondo nuovo...». Ne parlò quasi da liberale (è molto crociano quel "hanno in se stesse"...) rifiutando le ortodosse litanie sovietiche («Marx irrideva coloro che facevano piani per la società futura...»). I relativi nodi teorici di una utilizzazione politica di questo marxismo "riformista" sono filtrati attraverso la storia dell´Italia risorgimentale e la rievocazione di rivoluzionari e di riformatori spesso trascurati. Riemerge così, proveniente dalla grande madre, la rivoluzione francese, l´eredità positiva degli utopisti (che Marx nel Manifesto del 1848 aveva sminuito e che per Togliatti rappresentavano invece «un sistema di idee, di propositi, di piani che essi non traevano da una intuizione sociale astratta»; erano, disse, veri e propri "riformatori sociali"), del giacobino Vincenzo Russo, di Spaventa e Labriola, dei positivisti politici e soprattutto di Giuseppe Mazzini.
Certo, Togliatti aveva letto i Quaderni del carcere di Gramsci, non ancora pubblicati, e non celava gli stimoli avuti dalle riflessioni gramsciane, preannunziandone, anzi, il grande valore: «...il nostro Gramsci, di cui pubblicheremo tra poche settimane gli scritti filosofici e scientifici. Tutti si stupiranno della profondità di quel pensiero per il modo come egli riesce a collegare ed a fondere il pensiero rigidamente marxista con la tradizione culturale millenaria italiana». Togliatti dichiarava di credere in questa tradizione, appunto perché millenaria, dunque ben fondata nella storia reale, più di qualunque teoria politica o filosofica elaborate su contingenti motivazioni ideologiche. Di qui il suo dichiarato fastidio per le palingenesi rivoluzionarie, «come se noi conducessimo una battaglia per creare un mondo in cui tutti dovrebbero vivere, pensare e sentire allo stesso modo». Si diceva perciò convinto che per evitare altre catastrofi si dovesse finalmente aprire la strada «all´idea della riforma sociale, nel senso di un rinnovamento profondo delle basi del nostro ordinamento sociale, in modo da permettere agli uomini di vivere in pace tra loro... Questo problema è oggi il problema centrale della vita, il problema dei problemi per il nostro paese e per tutti gli altri paesi. Per questo io non posso salutare che con simpatia l´iniziativa che voi avete preso di fondare questo istituto [...] dedicato al nome del nostro grande riformatore sociale Giuseppe Mazzini». Era la prima volta che un esponente comunista chiamava "nostro" Giuseppe Mazzini. L´aggettivo possessivo apriva un varco vitale. Togliatti anticipava anche un giudizio su Gramsci di Benedetto Croce (avversario sempre del comunismo in ogni sua forma) che fece scalpore. Fu quando nel 1947 apparvero le Lettere dal carcere. Croce, commosso da quelle lettere chiamò Gramsci uno "dei nostri".
Togliatti, accogliendo il "riformismo", cancellava l´anatema comunista della Terza Internazionale scagliato contro la cultura borghese delle riforme e le correlative idee socialdemocratiche della Seconda Internazionale. «Mi pare che quella discussione sia chiusa e non si adatti più alle condizioni nelle quali si svolge oggi la lotta politica e la lotta sociale».
Dunque Mazzini. «Giganteggia in questo periodo la figura di Giuseppe Mazzini. Giganteggia perché la sua intuizione riformatrice e le sue idee riformatrici sono inserite in una concezione generale del mondo e della vita dalla quale egli ricava una direttiva per l´azione. Per questo egli è grande e lo riconoscono grande tutti gli italiani, anche noi che non siamo d´accordo con la sua posizione ideologica di partenza. Lo riconoscono grande tutti gli italiani, i quali sanno come, con la sua azione, con il suo sforzo di lotta, di pensiero, di attività, di educazione, egli abbia dato un valido contributo alla redenzione del nostro paese».
Nel nome del Mazzini che Marx aveva sempre osteggiato e irriso, Togliatti chiudeva davanti agli studenti della Normale «una questione che, credo, non possa dar luogo nemmeno a una discussione seria, in sede scientifica. Alludo alla polemica [...] tra una cosiddetta ala riformista del movimento socialista ed operaio e coloro che invece si chiamarono rivoluzionari». Nei successivi decenni di guerra fredda e di democrazia imperfetta della prima repubblica, questa indicazione non ebbe grandi sviluppi, ma l´equivalenza tra la mazziniana "educazione" del popolo e la "redenzione" dell´Italia non è del tutto inattuale.

Agi.4.10
Togliatti: Tamburrano, abile stalinista per pensiero e azione
Roma, 4 giu. - Palmiro Togliatti e' stato un abilissimo stalinista: di Stalin accetto' tutto ed e' il caso di dirlo con le parole di Giuseppe Mazzini: pensiero ed azione. Lo sostiene lo storico e Presidente della 'Fondazione Nenni', Giuseppe Tamburrano replicando ad un storico di formazione comunista, Lucio Villari. "Nel suo lucido articolo ('la Repubblica' di oggi) Villari ricorda una pagina del versatile Togliatti su Mazzini dalla quale pero' non emerge alcuna prova di presa di distanza dal marxismo-leninismo-stalinismo - nota Tamburrano - Togliatti testimonia per Mazzini una stima che Carlo Marx non ebbe: e questa e' l'unica originalita'. Ma tra il marxismo di Marx e quello sovietico - avverte - vi e' un abisso. Quanto a riabilitatore annessionista di grandi personaggi della storia italiana, Togliatti fu maestro: riusci' anche a farlo con Giovanni Giolitti". Poi l'affondo. "Togliatti rifornista? E' ridicolo - chiosa Tamburrano - quello che scrisse sul padre del riformismo Filippo Turati (un "traditore") e sugli esuli che - disse - passavano il loro tempo seduti ai tavolini degli Champs Elyse'es fu semplicemente ignobile: quegli esuli hanno combattuto con le armi alle mano contro Franco in Spagna (laddove Togliatti svolgeva il ruolo gregario di emissario di Stalin) e alcuni di loro sono stati assassinati dai fascisti come i fratelli Nello e Carlo Rosselli". Togliatti il Migliore, non amo' gli 'azionisti' e i 'giellisti', dispezzava lo stesso Ferruccio Parri. "Togliatti e' stato - conclude lo storico socialista - un abilissimo stalinista: di Stalin accetto' tutto. E' il caso di dirlo con le parole di Mazzini: pensiero ed azione".