lunedì 7 giugno 2010

l’Unità 7.5.10
Oggi Roma, ore 15: la grande manifestazione per la cultura e la libera informazione
Tutti insieme Sindacati, Articolo 21, Usigrai e altri: il disegno del governo è oscurare il paese
Giornalisti Domani sit-in della Fnsi davanti a Montecitorio con tutti i cdr d’Italia
In piazza contro i tagli e i bavagli alle coscienze
L’appuntamento è per le ore 15 in Piazza Navona. Ci saranno i lavoratori dei teatri di prosa e d’opera, i giornalisti, gli istituti culturali, gli archeologi, i ricercatori... contro lo scardinamento della cultura in Italia.
di Luca Del Fra

Doveva essere la manifestazione dei lavoratori delle fondazioni lirico-sinfoniche contro il decreto Bondi ma l’iniziativa si è gonfiata fino a esondare trascinando con sé il mondo della cultura e dell’informazione. Oggi alle 15 a Piazza Navona, oltre ai lavoratori dei teatri d’opera ci saranno anche quelli di cinema, teatro di prosa, musica e danza in generale, insieme agli autori, gli istituti culturali, la Federazione nazionale stampa italiana, Articolo 21 e Usigrai. Lo slogan quindi si è ampliato «contro i tagli e contro i bavagli», e sempre oggi il Pd lancia una giornata di sensibilizzazione sui temi della cultura e dell’informazione in una decina di città italiane. Anche se le due iniziative sono diverse, che ci fanno teatranti, cinematografari, giornalisti, archeologi, musici, scrittori tutti assieme?
«Bisogna dire che purtroppo il governo ci ha dato una mano scoprendo le carte –spiega Silvano Conti della Slc-Cgil–: il disegno è scardinare tutta la cultura pubblica in Italia. Si colpiscono i teatri lirici, si chiudono o definanziano gli istituti di cultura, quelli di ricerca, i musei e nello stesso momento si tenta di oscurare i mezzi di informazione e si taglia scuola, università, ricerca». La Slc-Cgil, con gli altri sindacati di categoria, era stata tra le promotrici di questa manifestazione contro il decreto Bondi, che sta seguendo l’iter di conversione in legge e che vuole trasformare i grandi teatri lirici, come la Scala, il Maggio Fiorentino, il San Carlo di Napoli in teatri di provincia. Il decreto che dava la colpa dei deficit dei nostri teatri lirici ai lavoratori, paradossalmente ha evidenziato come a mettere in ginocchio non solo la lirica ma tutto il settore cultura siano proprio i tagli ai finanziamenti dello stato alle attività culturali, tra i più magri d’Europa: per il 2011 per tutto lo spettacolo, compresi circhi, spettacoli viaggianti, teatro, musica danza e cinema sono previsti 311 milioni, la Francia solo per l’Opéra de Paris stanzia oltre 100 milioni di euro.
Tuttavia la primavera è stata teatro di una offensiva governativa a tutto campo: pochi giorni dopo il decreto sulle fondazioni è arrivata la legge sulle intercettazioni telefoniche, che colpisce sia la libertà di stampa che quella di indagine. Infine con la manovra firmata dal ministro Giulio Tremonti la scure è calata sugli istituti di cultura, da quelli intitolati a Gramsci e De Gasperi fino a quello intitolato a Craxi, per non parlare della Stazione biologica di Napoli, l’Eti o la Quadriennale di Arte Contemporanea di Roma il cui presidente Gino Agnese, intellettuale di destra, ha chiesto le dimissioni del ministro Bondi.
I tagli alle attività culturali sono mascherati dietro l’emergenza della crisi, ma in realtà fin dalla prima vittoria elettorale del 1994, i governi di Berlusconi hanno sempre e incondizionatamente fatto tagli al settore di cultura, scuola, università e ricerca. E lo hanno fatto al di là della congiuntura economica. «C’è un filo nero che collega questi tagli e decreti contro la cultura alla legge sulle intercettazioni –spiega Giuseppe Giulietti portavoce di Articolo 21 del gruppo misto della Camera–: è il tentativo di oscurare la coscienza e la conoscenza. Un oscuramento etico e culturale prelude alla vera macelleria sociale. Domani la Fnsi ha indetto una manifestazione davanti a Montecitorio con i comitati di redazione di tutte le testate italiane. A questa reazione degli oscurati, siano giornalisti o esponenti della cultura, deve seguire il coinvolgimento degli oscurandi, cioè di tutti i cittadini». Nasce così la proposta di una manifestazione nazionale lanciata ieri dallo stesso Giulietti e da Vincenzo Vita del Pd.

l’Unità 7.5.10
Cgil, verso lo sciopero e la nuova segreteria

Il direttivo della Cgil che inizia oggi proclamerà lo sciopero generale contro la manovra. All'ordine del giorno c’è anche il rinnovo della segreteria confederale. Tre dei segretari (Morena Piccinini, Paola Agnello Modica, e Nicoletta Rocchi) sono in uscita perché il loro mandato è scaduto. Piccinini potrebbe guidare l’Inca. Lascerà anche Agostino Megale, per andare a dirigere i bancari (Fisac) dopo le dimissioni di Mimmo Moccia e la guida transitoria di Carlo Ghezzi. Tra i nuovi ingressi, si fa il nome di Serenza Sorrentino, 32 anni, oggi alle Pari opportunità. Certa è anche l’entrata di Nicola Nicolosi, coordinatore di «Lavoro e società» e quelle dei segretari uscenti dell’Emilia, Danilo Barbi, e del Piemonte, Vincenzo Scudiere. Altre nomine, tra cui un o una rappresentante dei lavoratori migranti, sembrano slittare a settembre quando anche Guglielmo Epifani lascerà. Al suo posto viene data Susanna Camusso.

l’Unità 7.5.10
Viaggio nell’Israele dei pacifisti minacciati dai falchi
A Tel Aviv più di diecimila in piazza Rabin per dire no al blitz militare e chiedere giustizia per i palestinesi di Gaza. Il leader storico Ury Avnery circondato da un gruppo di ultrà. Sternhell: «È un campanello d’allarme»
di Umberto De GIovannangeli

L'altra Israele scende in piazza in nome della verità e della giustizia. Verità sugli attacchi alla «Freedom Flotilla». Giustizia per la popolazione di Gaza sfiancata da tre anni di embargo. Scende in piazza, l'altra Israele. E lo ha fatto in una piazza dedicata al generale, Yitzhak Rabin, che osò la pace con l'Olp di Yasser Arafat e per questo fu assassinato da un giovane zelota dell'ultradestra ebraica. Alza la testa, l'altra Israele. E per questo subisce l'aggressione dei fanatici di «Eretz Israel». È accaduto l'altra notte, a Tel Aviv. In migliaia, più di diecimila, si erano radunati in Piazza Rabin per protestare contro l'occupazione dei Territori palestinesi e contro il blitz israeliano sulla nave turca Mavi Marmara, mentre era diretta a Gaza con aiuti umanitari . Una bella manifestazione, una delle più significative tra quelle organizzate dal variegato arcipelago della sinistra pacifista israeliana, con una adesione di movimenti disparati, da Gush Shalom (Pace Adesso), fino al partito comunista arabo-ebraico Hadash.
Quella protesta suonava come una provocazione per i gruppi oltranzisti israeliani. Le invettive non bastano più. Occorre passare all'intimidazione fisica. Quei pacifisti vanno trattati come traditori. E i «giustizieri» provano a prendersela con un uomo di 87 anni. Il simbolo di un pacifismo irriducibile: Uri Avnery. I dimostranti di destra, racconta Avnery, hanno cercato di disturbare i comizi e qualcuno ha anche lanciato nella folla un candelotto fumogeno. «Forse quel qualcuno sperava di creare panico, ma la nostra reazione è stata compassata», aggiunge Avnery che si trovava, con la moglie, a due metri di distanza. «Al termine della manifestazione, mentre accompagnato da un paio di amici e da mia moglie attraversavo la centrale via Ibn Gvirol per salire in macchina – denuncia il leader pacifista siamo stati circondati da una decina di persone ben organizzate». «Hanno cercato a forza di impedirmi di entrare nella macchina, mentre ci gridavano: “Andate a Gaza, maniaci». Avnery ha avuto la sensazione che presto sarebbero passati anche alla violenza fisica, ma l'intervento tempestivo della polizia lo ha salvato.
«Quando alla Knesset si grida “vattene a Gaza” ad una parlamentare araba israeliana, quando lo stesso veleno dal Parlamento si sparge nelle piazze, allora vuol dire che qualcosa di molto grave sta avvenendo dentro la società israeliana e nelle sue istituzioni», dice a l'Unità Yossi Sarid, fondatore del Meretz (la sinistra sionista), più volte ministro e oggi editorialista di punta del quotidiano Haaretz.
«La cosa più grave è che questi fanatici trovano coperture e giustificazioni tra le forze che oggi governano il Paese. E sapere di essere protetti li rende ancora più aggressivi e pericolosi», aggiunge Yael Dayan, scrittrice, già deputata laburista, figlia dell'eroe della Guerra dei sei giorni: il generale Moshe Dayan. Il clima è pesante. Chi non si adegua viene tacciato di essere una quinta colonna di Hamas nello Stato ebraico. «Questa caccia al pacifista è un campanello d'allarme per tutti coloro, non importa se di sinistra, centro o destra, in Israele hanno a cuore la democrazia», ci dice Zeev Sternhell, lo storico che per aver denunciato la violenza dei coloni è rimasto vittima di un attentato (25 settembre 2008. In questo quadro, incalza Uri Avnery, «il compito della sinistra israeliana in questa fase è di lottare contro il lavaggio del cervello e la propaganda stolta ispirati dai falchi e i razzisti che siedono al Governo».
Il clima di intolleranza l'abbiamo respirato l'altro giorno ad Ashdod, tra una folla di oltranzisti che ha accolto con fischi, urla, invettive l'ingresso nel porto della «Rachel Carrie», la nave della Freedom Flotilla intercettata dalla Marina militare israeliana mentre tentava di raggiungere Gaza. Un clima da Paese in guerra. E chi si sente in guerra non ammette defezioni né accetta voci contrarie. Nella «hit» dell'odio, il premier turco Recep Tayyip Erdogan ha quasi raggiunto il presidente iraniano Mahmud Ahmadinejad. «I turchi sono esperti di genocidi, basta vedere cosa hanno fatto agli armeni», sentenzia David Wilder, uno dei capi dei coloni ultrà di Hebron (Cisgiordania). «La lista dei Nemici si allunga di giorno in gior-
no. Questa psicosi dell'accerchiamento si sta trasformando in paranoia. E questo non fa ben sperare per il futuro», osserva preoccupato Amram Mitzna, ex segretario generale e “colomba” laburista. Preoccupazioni condivise dal suo compagno di partito e attuale ministro (Affari sociali), Isaac Herzog : «È tempo di sollevare il blocco (di Gaza), ridurre le restrizioni alla popolazione e cercare altre alternative”, ha affermato ieri nel corso della seduta domenicale dell'esecutivo.
L'altra Israele chiede verità sull' attacco alla Mavi Marmara e sostiene la richiesta di una commissione d'inchiesta internazionale. Ma fa i conti con il no del governo. Benjamin Netanyahu ha bocciato la proposta avanzata dal segretario generale delle Nazioni Unite, Ban Ki-moon, per l'istituzione di una commissione d'inchiesta internazionale sul blitz compiuto dagli incursori della marina israeliana a bordo della Mavi Marmara. A capo della commissione, secondo Ban, sarebbe nominato l'ex premier neozelandese Geoffrey Palmer, e ne farebbero parte anche rappresentanti di Israele, della Turchia e degli Stati Uniti. Aprendo la riunione del Consiglio dei ministri, Netanyahu riferisce di averne parlato direttamente con Ban, al quale ha spiegato che «l'indagine sui fatti dovrà essere svolta in modo responsabile e obiettivo». «Abbiamo bisogno di considerare la questione attentamente, salvaguardando gli interessi di Israele e dell' esercito israeliano», aggiunge il premier che in serata ha riunito il Gabinetto di sicurezza.
Nella seduta di governo, Netanyahu ha detto anche che a bordo della nave turca c'era un gruppo omogeneo, salito a bordo da un porto diverso da quello degli altri passeggeri, senza sottoporsi a ispezioni, ben equipaggiato e «fermamente deciso» a ricorrere ad una violenza organizzata. A dar man forte al premier ci pensa il ministro degli Esteri, Avigdor Lieberman: Israele, afferma Lieberman, è uno Stato sovrano e dunque l'indagine deve essere condotta «con i nostri propri mezzi». E questi mezzi sono stati utilizzati dal Governo israeliano per ordinare in serata l'espulsione in aereo verso l'Irlanda di undici passeggeri della Rachel Corrie. Fra gli espulsi ci sono Mairead Maguire, Premio Nobel per la pace, e Denis Halliday, ex vice segretario generale dell' Onu. In precedenza erano stati espulsi verso la Giordania altri sette passeggeri, di nazionalità malese.

Repubblica 7.6.10
Espulsi tutti gli attivisti della Rachel Corrie. Il governo: "Cinque passeggeri della Mavi Marmara vicini ai terroristi"
Pacifisti, sfida al blocco navale "Pronti a una nuova missione"
di Alessandra Baduel

Gli attivisti della "Rachel Corrie" pensano alla nuova Freedom Flotilla. Determinati a ripartire verso Gaza appena possibile, sono disposti a guardare al passato solo per tornare a denunciare l´assalto alla "Mavi Marmara", sul quale gli attivisti già tornati nei loro Paesi continuano a fornire nuovi elementi. I 19 a bordo dell´ultima nave della Flotilla, bloccata sabato dagli israeliani, sono in parte già ad Amman da ieri, in parte in arrivo a Dublino questa mattina, inclusa la premio Nobel Mairead Maguire.
«Siamo delusi, l´obiettivo era Gaza»: il primo a parlare, passato il ponte di Allenby che divide Israele dalla Giordania, è stato Matthias Chang, avvocato, politico e scrittore malese, attivista della Perdana Global Peace come Shamsul Kamal e Ahmed Faizal Bin Azumu. Il gruppo malese include anche il deputato Mhod Nizar Zakaria e due giornalisti dell´emittente TV3, Abdul Halim Bin Mohamed e Mohd Jufri Bin Mohd Judin. Con loro c´erano un marinaio cubano dell´equipaggio e un ottavo espulso, il giornalista indonesiano Surya Fachrizal della rivista Hidavatullah, colpito sulla "Mavi Marmara": ha una ferita da arma da fuoco al petto, fino a ieri non era trasportabile. Ora è ricoverato ad Amman.
«Siamo portatori di un messaggio di pace - ha detto ancora Matthias Chang - Siamo molto tristi per la perdita di vite umane che c´è stata sulla "Mavi Marmara", il messaggio che deve prevalere nel mondo è "non fatelo mai più, non usate le armi". Tenteremo un´altra missione il prima possibile». Quella nuova missione ha già seguaci fra attivisti come i quattro indonesiani che hanno omaggiato al grido di «Allah è grande» l´ambulanza del conterraneo arrivato in Giordania, mentre Hamas saluta «i simpatizzanti della "Rachel Corrie"» e accusa Israele di un nuovo «blitz sionista». Si è fatta sentire anche la voce dei Guardiani della Rivoluzione iraniani: «Siamo pronti a scortare le flottiglie degli aiuti», dice da Teheran la loro guida Ali Shirazi.
Nelle stesse ore, Israele dichiara che sulla Mavi Marmara c´erano cinque passeggeri legati al terrorismo, di cui due di Hamas e uno vicino ad Al Qaeda. Sui siti del Free Gaza, si accavallano altre denunce: «Quattro feriti gettati in mare dagli israeliani - dice Idris Simsek, attivista che era a bordo della Mavi Marmara, al giornale turco Today´s Zaman - e ho visto sparare a un uomo che sventolava una bandiera bianca». La cineasta Iara Lee, dal Brasile: «Un massacro, ma abbiamo filmato tutto». Sul suo blog "Intifada elettronica", Ali Abunimah pubblica le foto del giornale turco Hurriyet: dei passeggeri in giubbotto salvagente tamponano le ferite di giovani con indosso la divisa israeliana. «Loro i soldati li stavano aiutando», commenta. Per Israele, le stesse foto sono prova dell´aggressione subita.

Repubblica 7.6.10
Nell´inferno di Gaza isolati dal mondo "Così ci fanno morire lentamente"
La disperazione di chi aspettava cibo e medicine: quelle navi ci salvano la vita
Reportage da Gaza senza cibo nè medicine
di Pietro Del Re

Aziz gestiva una fabbrica tessile Adesso ha chiuso per mancanza di materia prima
L´80% dei beni di consumo, dalla farina alle moto, entra a Gaza dai circa 1.600 tunnel
Taisir, 5 anni, è tetraplegico. Il padre: "Non mi danno il visto per farlo curare"

GAZA CITY - È un mare torbido e maleodorante quello da cui doveva arrivare la manna umanitaria fatta di medicinali, cemento, quaderni, giocattoli e tutti quei beni che nella Striscia scarseggiano dal 2006, da quando cioè Israele ha cominciato a soffocarla lentamente, chiudendone i valichi terrestri e isolandola con un impenetrabile blocco navale. «Nutrivamo tutti molte speranze nella nave turca, perché sapevamo che era piena di attivisti e che questi non si sarebbero arresi facilmente», dice Aziz, il quale prima dell´embargo gestiva una fabbrica tessile in cui lavoravano cinquanta persone, ma che un paio d´anni fa è stato costretto a chiudere per mancanza di materia prima. Aziz sperava che l´arrivo della Flottiglia Free Gaza avrebbe concentrato l´attenzione dei grandi network internazionali sulle sofferenze della sua gente. «Da questo punto di vista è andata benissimo: mai come in questi giorni si è parlato delle conseguenze del blocco israeliano. E questo lo dobbiamo ai martiri della "Mavi Marmara"».
Sulle case grigiastre che costeggiano la spiaggia, sventola qualche bandiera turca. L´aria è impestata dal fumo delle bancarelle dove vengono arrostiste pannocchie ancora acerbe. Dopo il cruento arrembaggio di lunedì scorso, quando due giorni fa s´è stagliata all´orizzonte la sagoma della "Raquel Corrie", gli abitanti di Gaza l´hanno appena degnata di uno sguardo. Sapevano che gli israeliani avrebbero intercettato anche il cargo irlandese. Dice Aziz: «Sarebbe stato umiliante accettare quei doni, ma siamo ridotti così male che non avremmo potuto rifiutarli».
Nel porticciolo dove dovevano attraccare le imbarcazioni dei pacifisti molti capannoni sono chiusi. Padre di dieci figli, Soher Bakir ci spiega che da quando c´è il blocco navale, ai pescatori non è consentito allontanarsi più di due miglia dalla costa, perciò oltre la metà della flotta di pescherecci è ormai in disarmo. «Il nostro mare non è più pescoso come una volta, quindi, per sfamare la mia famiglia, la notte sono costretto ad avventurarmi oltre il consentito, rischiando ogni volta la vita. Quando superi di poche decine di metri il limite stabilito, la marina israeliana ti spara addosso», dice Bakir che, suo malgrado, ha cominciato ad acquistare salmone surgelato importato a Gaza dai grossisti di Tel Aviv.
Ex combattente delle milizie Azzadine el Qassam, il braccio armato di Hamas, Hamed Hassan è oggi uno dei leader dell´organizzazione estremista islamica. «Inizialmente i vertici di Hamas erano contrari all´arrivo della flotta umanitaria, perché sostenevano che sarebbe stato come chiedere l´elemosina. Poi, una volta capito il risvolto politico della faccenda, hanno cambiato parere. Ma attenzione: ricevere gli aiuti è anche un´ammissione della nostra incapacità a gestire l´embargo di Israele». Quando gli chiediamo se è per questo motivo che Hamas non lascia entrare a Gaza il carico della "Mavi Marmara" che gli israeliani vorrebbero adesso consegnare ai loro destinatari originari, così risponde Hassan: «Non vogliamo prestarci al gioco di Israele che con una mano accarezza i nostri figli mentre con l´altra cerca di sgozzarti. Netanyahu e i suoi ministri vorrebbero farsi passare per benefattori. Ma si sbagliano se credono di farci la carità».
Emblematica è la storia del piccolo e sorridente Taisir al Burai, cinque anni, da quattro tetraplegico per via di un farmaco sbagliato. Secondo i medici palestinesi e stranieri che l´hanno visitato, la sola opportunità per farlo guarire, o quanto meno migliorare, consiste nel portarlo in Israele o in Germania o addirittura in Giordania, comunque lontano dai decrepiti ospedali di Gaza. «Sono due anni e mezzo che chiedo all´esercito israeliano un visto per uscire da Gaza, ma da allora ho ricevuto soltanto rifiuti», dice suo padre Ramzi, secondo il quale lo Stato ebraico discrimina i più poveri, in particolare se musulmani, come appunto gli abitanti della Striscia. L´esercito di Israele ha tuttavia rilasciato un visto alla moglie di Ramzi, che le permetterebbe di accompagnare il figlio all´estero, in una struttura sanitaria adeguata. «Perché non ce la mando? Perché c´è il rischio che dopo il valico di Erez mia moglie venga stuprata da una banda di ebrei. Ma potrebbe anche finire in un carcere dei servizi segreti israeliani, dove le farebbero il lavaggio del cervello».
Taisir necessita di farmaci che a Gaza difettano. In mancanza di meglio, il bimbo assume una molecola a cui ormai è assuefatto. Ma è proprio vero che nella Striscia scarseggiano le medicine? «Sì, mancano soprattutto quelli per le malattie croniche, che si tratti di anti-diabetici o di anti-ipertensivi. Abbiamo solo quelli che arrivano dall´Egitto attraverso i tunnel», spiega la farmacista Ranya al Daouk. «E´ perciò vitale che i farmaci portati dalle imbarcazioni umanitarie arrivino al più presto, anche se come ho letto da qualche parte sono in parte scaduti e anche se una volta giunti nei nostri ospedali vengono distribuiti non in base al bisogno del paziente ma piuttosto all´identità del malato».
Come i farmaci, anche l´80 per cento dei beni di consumo, dalla farina alle motociclette, entra a Gaza dai tunnel, che seconda una stima della polizia egiziana sarebbero circa 1.600. Secondo Mohammed Hassouna, proprietario dell´omonimo supermercato, questo significa che otto commercianti su dieci sono dediti al contrabbando. «Quanto agli altri sono morti di fame che vivono, o meglio sopravvivono, sia con le tessere alimentari dell´Onu sia di debiti», dice Mohammed. Il quale, per avvalorare la sua tesi, tira fuori da un cassetto un quaderno spesso come un elenco telefonico su cui da quattro anni segna i nomi di tutti i suoi debitori.

l’Unità 7.5.10
Intervista a Saeb Erekat

«La battaglia del mare un boomerang per Israele»
Il capo negoziatore palestinese: «Il mondo ha visto dove può portare l’unilateralismo. Ma non cadremo nella trappola di fermare la trattativa»

di Umberto De Giovannangeli

Avrà vinto la “battaglia del mare” ma ha perso quella della politica. Dopo gli attacchi alle navi della solidarietà, il mondo ha piena consapevolezza di dove può portare l'unilateralismo d'Israele». Incontriamo Saeb Erekat nel suo ufficio a Gerico (Cisgiordania). Il capo negoziatore dell'Anp, primo consigliere politico del presidente Mahmud Abbas (Abu Mazen) ha appena terminato un lungo giro di telefonate con «importanti interlocutori internazionali». «Tutti – dice Erekat a l'Unità – hanno condannato l'atteggiamento israeliano, dichiarandosi disposti a sostenere la richiesta di una fine immediata del blocco a Gaza». Dopo il sanguinoso blitz degli uomini rana israeliani contro la Mara Marmaris, il presidente Abu Mazen parlò di «crimine di guerra» e di «atto di terrorismo di Stato». Affermazioni gravi, che Erekat non rinnega: «Le navi della Freedom Flotilla – rimarca il dirigente palestinese – sono state abbordate in acque internazionali. Israele afferma di non avere nulla da temere. Ma se così è, perché non accetta che sia una commissione d'inchiesta internazionale a fare piena luce su una vicenda che, è bene non dimenticarlo, è costata la vita a nove persone?». La nostra conversazione è interrotta da un assistente di Erekat che comunica una telefonata importante: quella dell'inviato di Obama in Medio Oriente, George Mitchell. Il capo negoziatore del' Anp si assenta per una mezz'ora. Quando rientra appare più sollevato: «La Casa Bianca – ci dice – è consapevole che così non è possibile andare avanti e che prima che avvenga un disastro ancora più grande, è necessario agire per porre fine al blocco di Gaza, e in tempi rapidi».
Come leggere le drammatiche vicende di questi giorni? «Non posso che fare mie le parole della signora Pillay (l'Alto commissario dell'Onu per i Diritti umani, ndr): la legge umanitaria internazionale vieta di affamare un popolo come azione di guerra. Così come è contro il diritto internazionale imporre ai civili punizioni collettive. Hamas non può continuare ad essere l'alibi usato da Israele per giustificare l'ingiustificabile».
Ma questa denuncia non è in contraddizione con la decisione assunta dall' Autorità palestinese di riprendere i negoziati indiretti con Israele? Hamas vi ha attaccati per questo.
«Rinnegare la linea del negoziato è proprio quello che i falchi israeliani vorrebbero che noi facessimo. Ma non cadremo in questa trappola. E tanto meno lo faremo ora che il mondo ha più chiaro dove possa portare l'unilateralismo israeliano. Penso alla posizione assunta dall'Unione Europea, a quella americana, alle parole del Papa, del segretario generale delle Nazioni Unite. La prova di forza contro le navi della solidarietà ha indebolito politicamente Israele anche agli occhi di chi ne aveva sempre sostenuto a spada tratta le ragioni. Negoziare non significa cedere. Significa far valere le nostre ragioni anche in sede diplomatica. Ed è ciò che intendiamo fare. So bene che non è impresa facile e che ogni giorno siamo chiamati a fare i conti con iniziative delle autorità israeliane che contrastano palesemente con l'asserita volontà di dialogo. Penso alla colonizzazione in Cisgiordania e a Gerusalemme Est, penso al blocco di Gaza...Ma, lo ripeto, l'esibizione di potenza di cui ha dato prova Israele non è un segno di forza ma di debolezza».
Debolezza?
«Sì, debolezza. Perché non è attaccando navi pacifiste che Israele garantirà la sua sicurezza. Così alimenterà ancor più la rabbia non solo fra i palestinesi ma nel mondo arabo e musulmano, e nella stessa opinione pubblica europea. Spero che in Israele cresca la consapevolezza di ciò».
In una recente intervista a l'Unità, il leader di Hamas nella Striscia, Ismail Haniyeh, non ha chiuso le porte ad una forza d'interposizione tra la Striscia e Israele.
«È una proposta che l'Anp fa sua. Una forza internazionale sotto egida Onu può accompagnare la fine del blocco a Gaza e garantire la sicurezza di ambedue le parti. Aggiungo che questo meccanismo di verifica potrebbe poi presiedere all'attuazione di altri punti di un accordo di pace. Questo è un punto essenziale, perché le intese non basta firmarle, poi vanno applicate e fatte rispettare. E questo non potrà avvenire senza un impegno sul campo della Comunità internazionale, e in particolare del “Quartetto” (Usa, Onu, Russia, Ue) che ha tracciato un percorso di pace senza però definire tempi e modi della sua attuazione».
Un accordo che ha bisogno di un'”assistenza” internazionale. In particolare degli Usa. Delusi da Barack Obama? «No, non siamo delusi, semmai esigenti. Il presidente Obama crede davvero in un “Nuovo Inizio” in Medio Oriente e in una pace fondata sulla soluzione “due popoli, due Stati”. Per questo è osteggiato dalla destra oltranzista israeliana. A Obama, come all'Europa, chiediamo di dare continuità e maggiore determinazione alla propria iniziativa. Ora più che mai, perché, come dimostrato da quanto accaduto in questi giorni, il tempo non lavora per la pace”.
Si è più forti se si è uniti. Ma in campo palestinese l'unità tra Fatah e Hamas è una metà irraggiungibile? «Sarebbe una sciagura se fosse così. Per quanto ci riguarda, perseguiamo l'unità. Una base già c'è: ed è quella mediata a suo tempo dall'Egitto. Se Hamas l'accetta, il più è fatto».



Repubblica 7.6.10
Bioetica, dopo il caso Eluana ecco il rapporto ministeriale
"Lo stato vegetativo non esclude la coscienza"
di Alberto Custodero

"Anche chi è in stato vegetativo può essere cosciente"
Il rapporto degli esperti ministeriali dopo il caso Eluana. Roccella: ora via alla legge
Questi pazienti percepiscono il dolore: quindi vanno trattati con medicine adeguate
Nella maggior parte delle regioni non ci sono attrezzature per le cerebro-lesioni acquisite

ROMA - «Non si può escludere la presenza di elementi di coscienza» nei pazienti in stato vegetativo. Ma il «livello e la qualità di tali elementi di coscienza variano verosimilmente da paziente a paziente, anche in dipendenza dal contesto ambientale». Contrariamente a quanto finora sostenuto, («lo stato vegetativo è caratterizzato dalla mancata coscienza di sé e dell´ambiente»), è questa la conclusione destinata a fare discutere alla quale è giunto il "gruppo di lavoro sullo stato vegetativo e di minima coscienza" istituito dal ministero della Salute dopo il caso di Eluana Englaro. E presieduto dal sottosegretario Eugenia Rocella. All´indomani della morte di Eluana, Berlusconi - dopo aver espresso la sua contrarietà «all´eutanasia di Stato» - annunciò che «il vuoto normativo sul tema del fine vita» non sarebbe stato più lasciato «all´interpretazione della magistratura» ma sarebbe presto stato «colmato da una legge». Proprio mentre il nuovo testo della norma sul biotestamento è in dirittura d´arrivo alla Camera, il "documento finale" del "gruppo di lavoro Rocella" (insieme al "Libro bianco" redatto dalle Associazioni), arriva a fargli da corollario tecnico-etico-scientifico. E a denunciare una grave lacuna strutturale nel sistema sanitario nazionale: «Nella maggior parte delle regioni - sostengono gli esperti - non sono stati attivati veri percorsi regionali istituzionalizzati per la corretta gestione sanitaria delle gravi cerebrolesioni acquisite». Il trend dei malati in stato vegetativo dal 2002 ad oggi è in continuo aumento, anche se rimane ancora alto (fino al 42,3 per cento), la percentuale delle errate diagnosi. Per il futuro, dunque, si «raccomanda» l´istituzione di un «registro nazionale dei disturbi prolungati di coscienza con segnalazione obbligatoria dei casi».
Ma il punto nodale dello studio è quello che spiega come il medico, la società e l´opinione pubblica devono porsi nei confronti di questi particolari malati «con gli occhi aperti» la cui «sopravvivenza necessita di idratazione e nutrizione assistita». Ma che non sono in «coma alternando il sonno alla veglia».
Quando ci si avvicina ai loro letti per curarli e studiarli, dicono i "saggi" del ministero, «si compie una scelta etica fondata sia sul rispetto della persona, sia sul duplice rifiuto dell´abbandono assistenziale e dell´accanimento terapeutico». Il che, tradotto, significa: «per rispetto della persona» non va sospesa l´alimentazione assistita come avvenuto nel caso di Eluana («rifiuto dell´abbandono assistenziale»). Ma non bisogna ostinarsi in cure e trattamenti sproporzionati («rifiuto dell´accanimento terapeutico»), rispetto all´eventuale concreto risultato in termini di qualità ed aspettativa di vita. A tal proposito, il "gruppo di studio Rocella" è convinto che «il miglioramento dei modelli assistenziali e la ricerca scientifica possano offrire un importante contributo per far crescere l´efficienza in sanità, al fine di garantire maggiori livelli di giustizia per tutti i cittadini fondati su principi di equità e solidarietà all´interno del corpo sociale. E per far avanzare il livello complessivo di civiltà del Paese».
Per gli esperti della commissione ministeriale (Gianluigi Gigli, Antonio Carolei, Paolo Maria Rossini e Rachele Zylberman), infine, questi pazienti caratterizzati dalla «mancanza di coscienza del sé e dell´ambiente», in realtà, percepiscono il dolore. Nel loro stato di «incoscienza a occhi aperti» soffrono, pertanto il "gruppo di lavoro" raccomanda di «estendere la prescrizione di antidolorifici a tutti quelli in stato vegetativo ai quali siano diagnosticate verosimili fonti di dolore come ascessi e piaghe da decubito».

Repubblica 7.6.10
"Bella ciao", un pericolo per l´ordine costituito

Vorrei esprimere qualche riflessione scevra da indignazione o acredine di parte sull´episodio incorso al ministero della Pubblica Istruzione in seguito al canto di "Bella ciao", intonato da ragazzini e ragazzine, età media 12 anni, appartenenti ad un gruppo interclasse ad indirizzo musicale della scuola media inferiore "G. G. Belli" di Roma, invitati a prodursi con orchestrina e relativo accompagnamento corale, a viale Trastevere.
Era presente il sottosegretario Pizza e si è anche affacciata la ministra Gelmini. Al termine alcuni alunni, presto seguiti dagli altri, hanno intonato e suonato "Bella ciao". La canzone, pur non figurando nell´elenco di quel giorno, fa tuttavia parte del repertorio "musicale" del Belli ed era stata eseguita in molte altre occasioni. Si è trattato, comunque, di un fuori programma, difficile da confondere con un bis, in genere concesso altre volte ma con l´innocuo "tanto pe´ cantà". È lecito arguire che quegli adolescenti abbiano voluto in un certo senso mimare una forma di protesta mutuata dai cortei studenteschi, già visti tante volte direttamente o alla televisione. Nella forma e nella sostanza si è trattato di una manifestazione corretta, direi gentile, senza slogan e tanto meno espressioni di aggressività. Ciò detto la preside era nel suo diritto nel fare osservare ai ragazzi che quando si è chiamati a partecipare a una performance istituzionale è d´uopo attenersi al copione concordato, senza abbandonarsi a dissonanze che non sempre si concludono, come invece questa volta, in ordine e in allegria.
Quel che, invece, preoccupa è l´irato risvolto politico, fortemente polemico della lettera della preside a docenti, alunni e famiglie in cui stigmatizza lo «sconcertante episodio» che getterebbe «un´ombra di discredito difficile da dissipare, che ha messo in difficoltà la scuola Belli nel suo complesso», invita i genitori a scusarsi e a far capire che «se è giusto esprimere le proprie convinzioni anche se divergenti, è altrettanto giusto non assumere iniziative che travalicano i limiti dell´opportunità, del rispetto delle persone, della correttezza e del buon gusto». Frasi che si attaglierebbero ad un coro di sconcezze goliardiche e non a una spontanea, innocua disobbidienza adolescenziale. È seguito un fitto scambio di e-mail tra genitori, in grande maggioranza critici nei confronti della lettera. Alcuni hanno ricordato che fino a poco tempo fa "Bella Ciao" era quasi una canzone istituzionale, un canto di partigiani senza colore politico, in cui si possono riconoscere i democratici di ogni colore politico e le Istituzioni nate dalla Resistenza e dalla Costituzione.
Tutto vero, anche se non voglio pensare che la preside nutra sentimenti antidemocratici, ma piuttosto risenta, ed è forse più grave, di un clima generale di misconoscimento e snaturamento della storia d´Italia, con un ricasco polemico che svia il senso degli eventi. Questo può riguardare la Resistenza o, se visto in chiave leghista, il Risorgimento, il Tricolore, l´Unità d´Italia o, infine, per non pochi esponenti del Pdl, la stessa Costituzione. Le conseguenze, soprattutto, sul piano formativo possono essere devastanti. Credo che per evitare le asperità di un libero dibattito, molti insegnanti optino per una specie di agnosticismo che porta a considerare una turbativa della normalità scolastica l´intrusione di certe tematiche, gestibili al massimo nell´alveo dei corsi di studio stabiliti. Una pedagogia riduttiva, senza passione, impossibilitata a formare giovani cittadini. È un fenomeno che riguarda anche il mondo adulto, dove si può dissacrare ogni cosa senza imbarazzo. Mi vien da pensare quando a "Porta a porta", parlando della Resistenza dei militari deportati in Germania che avevano rifiutato di essere liberati a condizione di giurare per Salò, il ministro della Difesa, La Russa, spiegò il loro gesto come un atto di comoda prudenza: meglio nel lager che di nuovo in guerra. Nessuno gli ha ricordato le diecine di migliaia di soldati, tra cui 18 generali, morti in quei «comodi» lager.

Repubblica 7.6.10
Parla la Rahnavard, moglie del leader dell´opposizione Moussavi e cervello della Rivoluzione verde Ahmadinejad la minaccia ma lei non si lascia intimorire: "Torneremo in piazza e conquisteremo la democrazia"
Zahra, l´eroina che sfida il regime "Porteremo la libertà in Iran"
di Francesca Caferri

Da un anno gli iraniani sono sottoposti a varie forme di oppressione, solo perché hanno chiesto che fine avevano fatto i loro voti
Le donne chiedono uno stato di diritto, la scarcerazione dei detenuti politici e l´approvazione di leggi che stabiliscano la parità dei sessi

Foulard a fiori sul chador nero, sorriso forte, sempre a fianco del marito: un anno fa la presenza di Zahra Rahnavard accanto al candidato riformista Mir Hossein Moussavi, fu la prima delle novità delle elezioni presidenziali in Iran. Mai prima di allora una moglie aveva occupato un ruolo di primo piano. Mai prima di allora era apparsa come una consigliera tanto importante. Mai prima di allora un candidato, l´attuale presidente Mahmud Ahmadinejad, aveva attaccato pubblicamente la compagna del rivale, Moussavi appunto. Zahra Rahnavard è passata in mezzo a tutto ciò con una tenacia da combattente: 65 anni, pittrice, scultrice, primo rettore donna di un´università iraniana, sostenitrice della prima ora della rivoluzione khomeinista, da un anno condivide con il marito la sorveglianza costante a cui il governo di Teheran li sottopone. In questi mesi tramite Twitter e Facebook ha continuato a far sentire la voce dei riformisti iraniani. L´autorevole rivista Foreign Policy l´ha nominata terzo intellettuale più influente del mondo - preceduta dal presidente Usa Barack Obama e seguita dall´economista Nouriel Roubini - definendola «il cervello dietro alla Rivoluzione Verde». Per mesi la signora Rahnavard, come suo marito, ha rifiutato di rispondere alle domande dei giornalisti occidentali, per non essere accusata di essere strumento di potenze straniere. Rompe il silenzio, tramite un esule a lei vicino, alla vigilia del 12 giugno, anniversario delle elezioni contestate: data che gli esperti giudicano fondamentale per capire se il Movimento Verde avrà un futuro.
Signora Rahnavard, come avete vissuto lei e suo marito questi 12 mesi?
«Da un anno gli iraniani sono sottoposti a varie forme di oppressione, solo perché hanno chiesto che fine avevano fatto i loro voti. Le autorità avrebbero potuto rispondere in modo legale: hanno scelto invece di arrestare e sparare. In questa situazione io, mio marito, Karroubi (l´altro candidato riformista ndr.), Khatami (ex presidente, anch´egli riformista ndr.) e le nostre famiglie siamo stati fatti bersaglio di accuse, abbiamo subito choc (il fratello di Rahnavard è stato arrestato e tenuto in isolamento per sei mesi ndr.) e siamo stati fisicamente percossi. Questo tuttavia non ci ha spaventato: nella mia vita non ho mai avuto paura di nessuna persona o nessun regime. Anche Moussavi, rispetto al passato, parla e agisce con più coraggio: non rinuncerà mai ai suoi ideali. Lo stesso vale per il popolo iraniano: oggi non chiede solo dov´è finito il suo voto, ma libertà, democrazia, stato di diritto. Queste richieste vanno molto oltre le iniziali proteste».
Un anno fa, in questi giorni, eravate quasi certi della vittoria: che sentimento prova oggi guardando indietro?
«Rammarico. L´obiettivo del Movimento Verde è il benessere della gente, mentre l´attuale regime ogni giorno causa più miseria e minaccia le libertà basilari. Le elezioni sono state una grande occasione negata al popolo iraniano e non è possibile tornare indietro: l´attuale regime vuole rovesciare la Repubblica Islamica e fondamenti su cui è costruita. Né io, né Moussavi, né Karroubi vogliamo questo: dunque non ci può essere dialogo. Assistiamo a processi che si tengono in modo da portare alla pena capitale: assistiamo ad esecuzioni politiche, che non hanno giustificazione legale né giuridica. Torneremo in piazza nei giorni dell´anniversario e la presenza di milioni di manifestanti sarà il preannuncio della vittoria».
Il Movimento Verde è accusato di essere strumento delle potenze occidentali …
«Il Movimento Verde è assolutamente nazionale, iraniano, popolare e interno. Non è legato e non trae ispirazione da nessuno fuori dall´Iran. Quello che la comunità internazionale può fare per noi è sostenere il desiderio di libertà in qualunque parte del mondo. Ma è il popolo iraniano che deve risolvere i suoi problemi».
Quanto pesa la questione nucleare nelle relazioni fra l´Iran e il mondo?
«Il regime sfrutta questa questione. Tramite la minaccia nucleare cerca di acquistare all´estero la legittimità che non ha in patria: lo fa scandendo slogan durissimi, ma poi trattando e concedendo privilegi ad altri governi. Ma non può farlo, perché non è legittimo: fino a quando un governo non agisce in sintonia con il proprio popolo, non avrà la reputazione da nessuna parte del mondo».
Lei e suo marito vivete sotto costante minaccia: avete mai pensato di lasciare il paese?
«No. Il nostro destino, ora più che mai, è legato a quello del popolo iraniano».
In questi mesi la figura di suo marito è cambiata molto: si era presentato alle elezioni come un "tecnico" di tendenze riformiste. Oggi è il leader carismatico di quella parte di Iran che vuole che tutto cambi…
«Durante la campagna elettorale io, Moussavi e il popolo iraniano avevamo delle aspettative: volevamo il miglioramento della situazione nel nostro Paese. Chiedevamo il rispetto dei diritti individuali, la non interferenza del governo nella vita personale, la libertà, la democrazia, lo stato di diritto. Con quello che è successo dopo, le proteste e le azioni della gente e le nostre si sono influenzate e rafforzate reciprocamente. Oggi il popolo è più avanti di noi e ci sta trascinando verso i suoi obiettivi».
Lei è stata il simbolo che ha spinto migliaia di donne a votare per suo marito: le stesse che poi abbiamo visto in piazza. Che ruolo hanno le donne nell´Onda Verde?
«L´attuale regime iraniano, nell´ultimo anno, ha oppresso le donne in molti modi: ha cominciato con me, tentando di ridicolizzare la mia reputazione in campo scientifico e artistico. Poi lo ha fatto con tutte quelle che hanno protestato: ma questa oppressione non le ha scoraggiate. Le donne iraniane chiedono due cose: libertà, democrazia, stato di diritto, scarcerazione di tutti i detenuti politici. E l´approvazione di leggi che stabiliscano la parità tra i sessi. Senza una risposta positiva alle loro richieste la democrazia non potrà essere mai raggiunta».
Zahra Rahnavard, se dovesse fare una previsione oggi sul futuro del suo paese cosa direbbe?
«Vincerà il popolo, raggiungerà i suoi obiettivi. Accadrà grazie alla costanza e alla resistenza della gente. Alla fine trionfa sempre la giustizia, anche se richiede molto tempo. Nel mondo moderno non c´è posto per la dittatura e l´autocrazia. Il mondo dei media, di Internet, del digitale, delle opinioni e dei pensieri richiede democrazia, libertà nazionale e libertà individuale. L´Iran fa parte di questo mondo».
(ha collaborato Mostafa Khosravi)

l’Unità 7.5.10
Conversando con Simonetta Agnello Hornby

«Da Lewis Carroll a Jackson ecco i seduttori di bambini che la società non vuol vedere»

di Maria Serena Palieri

È un’indagine sull’autore di «Alice». E sulla società che gli regalò vittime e perdonò le sue malefatte
La pedofilia con internet oggi è in crescita, è diventata multinazionale Perciò è difficile batterla

Evelyn Hatch è una versione in chiave fotografica della Maya desnuda di Goya: distesa con le braccia a cingerle la testa, e a metterle in risalto il petto, una gamba morbidamente reclinata sull’altra. Evelyn Hatch però aveva 8 anni quando, negli ambienti del college Christ Church di Oxford, il 29 luglio 1879, la ritrasse il diacono Charles Lutwidge Dodgson, già famoso da un quattordicennio come Lewis Carroll per Alice nel paese delle meraviglie e Dietro lo specchio. Pedofilia? Ma in età vittoriana, sostengono i difensori di Dodgson, l’infanzia femminile senza veli era, non solo per lui, simbolo d’innocenza. Guardiamo allora Irene MacDonald, fotografata dallo stesso nel 1863 all’età di 6 anni: è vestita, calzette bianche e scarpe col cinturino, ma è riversa su un canapé d’epoca, con uno scialle da cui sbuca una spalla nuda, come chi esce dal sonno, o meglio da un amplesso, e ha uno sguardo per l’enigmatica sofferenza che manifesta impossibile da sostenere. Camera oscura, il volumetto che riporta queste due foto (Skira, pp. 127, euro 15), è il testo a metà tra documento e finzione in cui Simonetta Agnello Hornby si cimenta col mistero del celebrato padre del libro più citato della letteratura in lingua inglese, dopo le opere di Shakespeare. Non è la prima a farlo. Prima che l’archivio del reverendo Dodgson, secretato dagli eredi per 74 anni, diventasse pubblico, nel 1969, a esso aveva attinto un nipote, Stuart Dodgson Collinwood, per un’agiografia. Furono molte, a funerale svolto, le ex-«bambine-amiche» che scrissero testimonianze apologetiche. È del 1999, poi, un’opera ancora «riabilitante» di Karoline Leach, sempre in questo 2010 tradotta in italiano da Castelvecchi, La vera storia del papà di Alice. Simonetta Agnello Hornby non la pensa così. E lei è, oltre che l’autrice di una trilogia romanzesca siciliana edita da Feltrinelli, un’avvocata e giudice da un quarantennio a Londra impegnata nel terreno dell’abuso dei minori. Il suo ultimo romanzo, Vento scomposto, si ispirava appunto a uno dei casi da lei trattati nella sua carriera. Perciò Camera oscura è un libro in cui, con la bella penna della romanziera, è una specialista a indagare sul caso Carroll: nella prima parte la scrittrice immagina la storia di Ruth Matthews (nella realtà Mayhew), una delle bambine «kissable», «baciabili», secondo il requisito che l’autore di Alice imponeva alle famiglie; nell’intermezzo svolge le sue considerazioni; e in appendice, dopo le foto, riporta le lettere che Dodgson scrisse a un certo punto ai Mayhew. Ed è un libro, Camera oscura, che esplorando il terreno scivoloso su cui in età vittoriana si muoveva il reverendo Dodgson, sottotraccia interroga il fenomeno della pedofilia nel mondo d’oggi.
Com’è nato questo testo?
«Su commissione. E di questo ringrazio l’editor, Eileen Romano. Ma ad affascinarmi, nel suo orrore, è stato il carteggio che mi hanno fatto avere che il reverendo Dodgson tenne con i Mayhew. Mancano le lettere loro,come quelle di Ruth, così come non c’è traccia delle fotografie fatte a lei e alle sue sorelle. Però Dodgson dai 30 anni in poi teneva un riassunto di tutte le lettere che riceveva e conservava una copia delle sue. Di queste, ne aveva 98.000. Dunque, un vanesio. Quello che impressiona, leggendo, è la sua arroganza. Dodgson era un arrampicatore. A 24 anni comprò la macchina fotografica, all’epoca status symbol, e fu così che riuscì a entrare nella cerchia di Tennyson». Eccoci già oltre l’immagine che l’opinione pubblica inglese predilige di lui, il religioso timido e rimasto candidamente bambino, romanticamente innamorato della piccola Alice Liddell, ispiratrice del suo capolavoro. In questi mesi, immagino, lei si sarà chiesta: se me lo fossi trovata davanti in tribunale, come l’avrei giudicato? Che risposta si è data?
«Avrei chiesto investigazioni più approfondite. Non ho dubbi che, dagli incontri con le sue “amiche-bambine”, traesse un piacere sessuale. Le baciava sul lobo dell’orecchio. Io credo che si eccitasse, ma che rispettasse un limite con le figlie dei suoi amici, non le penetrasse. Però c’è quel mistero della gran quantità di denaro donata a un uomo che aveva delle figlie. E ci sono le modelle che, dal 1880, abbandonata la fotografia, gli procura per le sue tele Gertrude Thompson. Da avvocato qui avrei scavato. E perché non fece mai ritratti delle sue nipoti, né le invitò mai a stare a casa sua? Perché il suo archivio fu secretato fino al 1969, quando fu venduto alla British Library, e fratello e nipoti ne distrussero l’80%? Di nudi, ne rimangono quattro, ma quanti erano in realtà? Io, Lewis Carroll, lo chiamo un porco. Più di un pedofilo...».
Più di un pedofilo?
«Il pedofilo è convinto che ai bambini piaccia. Perciò non si cura mai. Il reverendo Dodgson aveva una sessualità estesa, frequentava teatri e attrici, donne adulte, ragazze, bambine. Sapeva quello che faceva».
Smontare l’immagine di Lewis Carroll, in Inghilterra, è l’equivalente di farlo da noi con Collodi. Ma la sua indagine è anche un atto d’accusa alla società vittoriana. Quei genitori conniventi... Oggi potrebbe succedere? «Il vittorianesimo, più lo conosco più lo detesto. C’era una prostituzione infantile violenta e organizzata. Il direttore della Pall Mall Gazette fece un’inchiesta fingendosi un cliente e gli portarono una bambina cloroformizzata. Lo stesso Dodgson reagì scrivendo al ministro, Lord Salisbury, che il reportage “contaminava le menti”... Però spostiamola all’oggi, immaginiamo che un famoso presentatore dica “Datemi vostra figlia, la metto in un programma di successo. Purché sia baciabile”. In quanti non gliela darebbero? I bambini che dormivano nel letto con Michael Jackson, non erano i genitori a darglieli? Ma l’opinione pubblica non vede».
Qual è il messaggio che ha voluto lanciare col suo libro? «Ho voluto mostrare l’abuso sul minore nella sua complessità. Non è solo quello fisico. Perciò ho immaginato che Ruth Mayhew si fosse innamorata del reverendo e avesse sofferto da bambina per il distacco. Il pedofilo seduce insegnando... Ed è la vittima a sentirsi in colpa. E quando l’abuso è in famiglia, e il genitore viene allontanato, è di nuovo la vittima a sentirsi colpevole».
Il fenomeno pedofilia è in crescita?
«Con internet si è strutturato su scala multinazionale e i governi faticano a combatterlo. È in crescita straordinaria perché è più facile praticarlo. Ma c’è un altro risvolto da sottolineare: la moda per bambine le vuole vamp a tre anni. E questo, nei pedofili, acuisce il desiderio. Inoltre è prassi, in Inghilterra come in Italia, radunare i pedofili in carcere nello stesso braccio per sottrarli al “castigo” degli altri reclusi. E così, quando escono, sono più esperti e organizzati».
A settembre per Feltrinelli uscirà il suo nuovo romanzo, «La monaca». Torna nella natìa Sicilia? «Sì. È la storia di una ragazza dell’800 costretta a farsi suora. Ma che nel 1848 si spoglia ed esce. Non è come la Gertrude di Manzoni, lei ama Dio, ma la vita l’attira troppo».
Ha lasciato il lavoro di giudice. Sta per lasciare quello di avvocato. Vede un futuro da scrittrice pura? «No, non è giusto. Sono sociale, mi piace fare. E ho sempre lavorato in un campo, quello della povera gente».

domenica 6 giugno 2010

l’Unità 6.6.10
Tremonti chiede sacrifici e intanto La Russa acquista 131 cacciabombardieri dagli americani
Tagliano gli stipendi e comprano armi
Tremonti taglia gli stipendi e la spesa dei comuni, ma intanto il governo spende senza freni negli armamenti. Il governo compra 131 cacciabombardieri dagli americani. Entro il 2026 serviranno ben 15 miliardi di euro.
di Mariagrazia Gerina

Ammodernamento. Armi sofisticate, strumenti di guerra spese senza limiti
Eurofighter. Ottanta sono già in Italia, ma alla fine saranno ben 121

Fuori dai ministeri, tra gli statali che da qui ai prossimi tre anni dovranno sacrificare i loro stipendi per versare allo Stato 5 miliardi di euro contro la crisi, il grido pacifista si è già fatto largo: «Vendessero i cacciabombardieri di La Russa». In realtà più che di vendere si tratterebbe di non acquistarne di nuovi. Idea tutt’altro che peregrina. È quello che sta decidendo di fare la Germania in queste ore, per dire. Il Pd stima che si potrebbero risparmiare almeno 2 miliardi l’anno. Ovvero sei miliardi nei tre anni su cui opera la manovra. Una stima prudenziale, visto che la spesa in armamenti si aggira intorno ai 3,5 miliardi l’anno.
Nella manovra finanziaria di Tremonti, però, di tagli agli armamenti non ne troverete traccia. E sì che in programma il governo italiano non ha solo l’acquisto di nuovi cacciabombardieri. Sul bilancio dello stato, al momento, incombono ben 71 programmi di ammodernamento e riconfigurazione di sistemi d’arma, che ipotecano la spesa bellica da qui al 2026. Tutti passati inosservati sotto lo sguardo vigile del ministro dell’Economia.
CIFRE ASTRONOMICHE
Eppure parliamo di cifre astronomiche, che il governo si è impegnato a versare all’industria bellica per acquistare una varietà incredibile di nuove armi. La lista è lunga. Prendiamo solo qualche esempio. Partiamo proprio dai cacciabombardieri. Programma di ammodernamento numero 65. Un piano faraonico, che impegna l’Italia a comprare dagli Usa 131 cacciabombardieri F-35. Aerei progettati per essere invisibili ai radar (solo che nel frattempo i radar si sono evoluti). Roba da guerra fredda. Solo nel triennio interessato dalla manovra appena varata l’acquisto programmato sulle casse dello stato per circa 2,5 miliardi di euro. Totale della spesa prevista da qui al 2026: 15 miliardi. Che si sovrappone per altro alla spesa per l’acquisto, già programmato, di 121 Eurofighter (80 sono stati già comprati e c’è ancora un’ultima tranche). Ma andiamo oltre. Al programma numero 67, per esempio. Si chiama «Forza Nec»: serve a dotare le forze armate di terra e da sbarco di un sistema assai sofisticato di digitalizzazione. Roba da Vietnam, ovvero da conflitti ad
alta intensità la guerra in Iraq era considerata a media intensità. Per ora siamo alla fase di progettazione, che da sola costa circa 650 milioni di euro. L’esborso finale, non ancora formalizzato, si aggirerà intorno agli 11-12 miliardi. Ma andiamo oltre. Passiamo ai sommergibili. Difficile prevedere una battaglia navale nel Mediterraneo che li richieda, eppure nella lista dei futuri armamenti non mancano due sommergibili di nuova generazione. Costo stimato: circa 915 milioni. Più della metà da versare già nei tre anni della manovra. Una cifra minore ma non per questo più sensata sarà spesa invece per comprare nuovi sistemi di contracarro di terza generazione: 120 milioni di euro.
Cifre da capogiro. Tanto che lo stato italiano fa fatica a stare dietro agli impegni presi. E l’industria bellica è costretta a ricorrere alle banche. Con il risultato che l’indebitamento fa lievitare ulteriormente i costi. Negli ultimi tre anni, l’Italia ha speso in armamenti circa 3,5 miliardi di euro l’anno. Una cifra destinata a lievitare, tanto più che nemmeno la manovra prova a scalfirla.
Una cifra molto opaca, secondo il Pd, che domani in Commissione difesa del senato presenterà una risoluzione per chiedere che il governo iniziafareiconticonlearmieconi miliardi che i 71 fatidici programmi continuano a sottrarre al bilancio dello Stato. Sono tutti così indispensabili? Il Pd chiede di verificarne utilità, tempi d’attuazione e costi. E di adottare quella che definisce una «moratoria ragionata». Obiettivo: ottenere risparmi consistenti. E costringere il governo ad adeguare la spesa ai costi della crisi. E al modello di difesa adottato alla luce della Costituzione.
L’Italia ripudia la guerra, appunto. E però continua a buttare miliardi in armi, oltretutto (per fortuna) inutili. Negli ultimi 15 anni infatti le forze armate italiane sono state impegnate in 35 missioni di peacekeeping. «Ma se dobbiamo portare la pace, che ce ne facciamo dei bombardieri F-35?», osserva il capogruppo del Pd in Commissione Difesa, Gian Piero Scanu, primo firmatario della risoluzione, che illustrerà domani al senato: «Semmai aggiunge abbiamo bisogno di addestrare i militari, di provvedere alla manutenzione dei mezzi di trasporto che utilizzano».
Ecco appunto, di quelli invece la manovra si occupa: un taglio di quasi un miliardo in tre anni, che si aggiunge agli 1,5 miliardi di risparmi sul bilancio di esercizio già programmati dalla prima finanziaria del governo Berlusconi. Forse anche per questo quel grido d’allarme lanciato dal dipendente statale pacifista ormai comincia a diffondersi anche tra le forze armate. «Il rapporto difesa-industria va cambiato, ci sono costi e appetiti che lo rendono non ottimale, l’industria non può imporre ciò che vuole», ha denunciato pubblicamente lo stesso sottocapo di Stato maggiore dell’Aeronautica, Maurizio Ludovisi.
«Fin qui il governo non ha ancora risposto: quale è il modello di difesa a cui finalizza la spesa?», osserva Roberta Pinotti, appoggiando l’iniziativa del capogruppo. «Non è che da domani debbano rientrare gli uomini in missione spiega Achille Serra, vicepresidente della Commessioni -, ma spendiamo soldi per armi inutili ed è doveroso tagliare davanti alla crisi è doveroso».

Repubblica 6.6.10
La cantante israeliana Noa: "Artisti, uniamoci per la pace"
"Ho il cuore spezzato il premier si dimetta"
Vorrei che il mio popolo usasse il voto per eleggere un governo in grado di porre fine all’occupazione
di Carlo Moretti

È la cantante israeliana più famosa al mondo. Ebrea di origini yemenite, Noa crede da sempre nella musica come strumento di pace e di dialogo tra i popoli, e per questo ha spesso collaborato con artisti arabi, tra questi l´algerino Khaled, l´israeliana Mira Awad, il palestinese Nabil Salameh, nato e cresciuto in un campo profughi in Libano. Noa dice che l´attacco ai pacifisti della Flotilla l´ha gettata nella disperazione: «Ho il cuore spezzato, sono così arrabbiata che non trovo le parole giuste per esprimere come mi sento» ha scritto, poche ore dopo il tragico arrembaggio, nel suo blog. Ora accetta di parlarne.
Noa, lei vive in Israele: qual è l´atmosfera che si respira oggi nel paese rispetto a questo tragico evento e quali sono i sentimenti tra le persone che lei frequenta?
«Sono sentimenti terribili, c´è moltissima rabbia e frustrazione, e pesa molto il rimorso per la perdita di vite umane. Nessuno però qui pensa che il governo israeliano volesse uccidere qualcuno su quella nave, ma la situazione è stata gestita in maniera davvero disastrosa. La strage ha scatenato aspre critiche e la demonizzazione dello stato di Israele e del popolo ebraico: fossi al posto del premier o del ministro della difesa mi dimetterei immediatamente, assumendomi le responsabilità per le conseguenze delle mie decisioni, che hanno messo a rischio la sicurezza del mio paese e danneggiato la sua immagine».
Cosa pensa dell´occupazione dei territori palestinesi?
«È sbagliato continuare a vedere nell´occupazione della Cisgiordania una risorsa piuttosto che un obbligo. L´idea che sia una risorsa ha reso per troppo tempo "tollerabili" le implicazioni umane e morali dell´occupazione, mentre io le considero intollerabili. L´occupazione è immorale e inumana, dovrebbe avere termine; e per la nostra sicurezza dovremmo contare invece sull´aiuto di nazioni amiche. Personalmente vorrei correre il rischio di un tentativo in questo senso e spero che gente come me, dall´altra parte, voglia correre lo stesso rischio contrastando la paura e il pregiudizio che coltivano nei loro cuori».
Cosa possono fare gli artisti, e in particolare quelli israeliani, per manifestare questo desiderio di una soluzione pacifica della crisi?
«Vorrei che tutti gli israeliani facessero una campagna di opinione e usassero il loro voto democratico per eleggere un governo in grado di porre fine all´occupazione iniziata nel 1967 e di firmare subito un trattato di pace con il governo democraticamente eletto dai palestinesi. Entrambi i governi potrebbero farsi così interpreti del desiderio dei due popoli di vivere in pace uno accanto all´altro. Farò sempre sentire la mia voce in campagne di questo tipo ed esorto tutti gli artisti, israeliani e palestinesi, a fare lo stesso».

Repubblica 6.6.10
Il processo
Urss, la fabbrica delle condanne perfette
di Nicola Lombardozzi

L´arresto avvenne anni dopo Tra le sue carte, una poesia giovanile: "Perché mai così poca musica? Perché mai un tale silenzio?"
Una sera di maggio del ´34 il poeta Osip Mandelshtam recitò davanti al funzionario della polizia segreta queste parole: "Viviamo senza fiutare più sotto di noi il paese". Firmò così la sua fine: Stalin non lo perdonò e lo mandò a morire in un gulag. Ora dagli archivi emergono i documenti degli interrogatori Che mostrano come si costruisce una sentenza politica senza appello

Mosca. Il poeta sapeva che il dittatore non l´avrebbe mai perdonato. Il poeta era stanco, rassegnato, sicuro che qualcuno tra i suoi amici più cari l´avesse tradito, consegnato alla macchina spietata del terrore staliniano. Mormorò un verso, il primo: «Noi viviamo senza più fiutare sotto di noi il paese». Dall´altra parte della scrivania, in quel tetro ufficio della Lubjanka, il funzionario addetto agli interrogatori cominciò a scrivere su un foglietto di carta da quaderno con la sua penna blu. Lentamente, burocraticamente, senza cambiare espressione del viso. Il poeta continuò tutto di un fiato la sua confessione in rima: «I nostri discorsi non si sentono a dieci passi di distanza…». Il funzionario annotava, e la voce del poeta si faceva sempre più sicura mentre il testo proibito che non aveva mai osato mettere per iscritto prendeva forma, tra tutte quelle informative e rapporti di polizia che servivano a dimostrare la sua pericolosità «per l´autorità dei Soviet» e segnare la sua fine. Il poeta lo firmò.
Quel testo, dettato in una sera di maggio del 1934, è l´unico manoscritto autografo del più famoso epigramma del poeta custodito per più di settant´anni negli archivi dell´allora Nkvd, la polizia segreta sovietica, in una cartellina beige con la scritta: "Fascicolo personale n.662 del detenuto Osip Emileevic Mandelshtam". Dentro c´è la storia della lotta senza speranza tra uno dei più grandi poeti di Russia e il potere. Un gioco di minacce, isolamento e repressione, che si concluse il 27 dicembre del 1938 con la morte di Mandelshtam nel gulag di Vtoraja Recka, alle porte di Vladivostok. Aveva quarantasette anni. La sua storia sta per apparire in un dossier della Fondazione Mandelshtam e dalla Novaja Gazeta, basato su documenti inediti.
Scomodo, Mandelshtam lo era stato da sempre e per tutti. I suoi primi arresti risalgono al 1920 e l´accusa è paradossalmente opposta a quella che lo avrebbe portato al gulag. La prima volta fu interrogato a lungo a Feodossia, nella Crimea che resisteva al comunismo. Fu torchiato dagli agenti del generale Vranghel, uno dei comandanti della Guardia Bianca, che lo sospettavano di collaborazione con i bolscevichi. «Spirito ribelle. Tendenze anticonformistiche», erano l´unica fonte di sospetto. Di sicuro turbava la sua biografia: ebreo nato a Varsavia, studente prima a Parigi, poi a Heidelberg e infine a San Pietroburgo. Scagionato in qualche modo dalle guardie bianche fu arrestato pochi mesi dopo a Batumi, in Georgia. Questa volta furono i menscevichi georgiani ad accusarlo di essere una spia bolscevica. Accuse che avrebbero dovuto valere in seguito come medaglie al merito nell´Unione Sovietica del dopo guerra civile. Ma non fu così.
Protagonista dei circoli letterari, amico della poetessa Akhmatova, fondatore con lei del Movimento Akmeista, Mandelshtam era comunque considerato un personaggio inaffidabile per il regime. L´inizio della fine fu un viaggio con la moglie in Ucraina nel 1933, nell´orrore dell´Holomodor, la spaventosa carestia programmata da Stalin nella furia della sua guerra contro i kulaki, che provocò milioni di morti. Della sua indignazione resta un altro verso segreto dettato all´inquisitore nell´interrogatorio del 1934: «Primavera fredda, la timida Crimea è senza pane…». Ma più di tutto vale il rapporto della polizia segreta custodito nel fascicolo 662: «Al rientro dall´Ucraina gli umori di Mandelshtam hanno preso sfumature antisovietiche. Si è isolato, tiene le tende sempre abbassate. È avvilito dalle scene di fame ma anche dai suoi fallimenti letterari. La casa editrice Gikhl (prontamente allineata agli umori del Partito, ndr) vuole togliere dai cataloghi le vecchie poesie. Delle nuove opere non se ne parla neanche».
Informatissima anche da persone molto vicine a Mandelshtam la polizia continuava a costruire il castello di prove. Ecco un´altra informativa: «Mandelshtam intende scrivere al compagno Stalin ma le sue intenzioni sono chiare. Ha detto che se solo potesse fare un viaggio all´estero sopporterebbe qualsiasi disagio pur di restare lì. Inoltre si è recentemente espresso così: da noi la letteratura non esiste più, lo scrittore è ormai un burocrate, registratore delle menzogne». Ma a far precipitare le cose fu una riunione con amici che credeva fidati. Mendelshtam recitò a memoria la sua poesia contro Stalin Noi viviamo senza…. La voce arrivò puntualmente a chi di dovere. L´arresto scattò la notte del 13 maggio 1934. Mandelshtam fu tenuto per quattro giorni a tormentarsi in una cella della Lubjanka prima di essere portato davanti al suo inquisitore, Nikolaj Shivarov, il funzionario dei servizi esperto di questioni letterarie. L´uomo che annoterà i suoi versi.
Per quella evenienza Mendelshtam si era preparato. Aveva passato lunghe serate con il suo amico Arkadij Furmanov, ex cekista, a giocare all´inquirente, per imparare come aggirare le domande. Ma servì a poco. Convinto che il testo fosse già noto alle autorità finì per autoaccusarsi ripetendolo ad alta voce. Fece anche i nomi degli amici presenti alla audizione privata. Tre di questi furono successivamente arrestati.
Per sua fortuna però i tempi non erano ancora maturi. Il direttore delle Izvestjia, Bukharin, intercedette presso Stalin ma facendo un´altra delazione, segnalandogli cioè che anche lo scrittore Boris Pasternak difendeva il suo collega e che cominciava a lamentarsi pubblicamente. Il dittatore amava queste situazioni e si esibì in una delle sue performance preferite. Telefonò a Pasternak e gli disse secco: «Il caso Mandelshtam è stato riesaminato. Andrà tutto a posto». E poi aggiunse bonario per tranquillizzare lo scrittore terrorizzato: «Anch´io avrei fatto di tutto per salvare un amico nei guai. Inoltre lui è un genio, no?». Confuso Pasternak chiese di essere ricevuto per chiarire. Stalin riattaccò il telefono.
Così nel ´34 Mandelshtam sfuggì alla pena di morte e se la cavò con tre anni di esilio forzato a Cerdyn, negli Urali, e poi a Voronez. Ma il soggiorno alla Lubjanka lo aveva ormai devastato. Soffriva di allucinazioni, improvvisi stati febbrili. Tentò il suicidio. Nel ´37 inviò a Stalin un´ode riparatrice che ebbe un effetto devastante. Al Cremlino i versi apparvero chiaramente irrisori e carichi di doppi sensi.
La fine arrivò il 15 ottobre del 1937. Per quella data Mandelshtam aveva organizzato una serata presso l´Unione scrittori. Una mossa pubblicitaria per rientrare nel giro e uscire dagli incubi. Nel fascicolo dei servizi segreti è conservato un messaggio della Lubjanka al segretario dell´Unione scrittori. Eccola: «Stimato compagno. Il giorno 15 alle sei di sera, si terrà la lettura delle poesie di Mandelshtam. Prego provvedere alla presenza in sala!». Firmato: il segretario del Bureau della sezione Poeti, Surkov. Ordine eseguito. Mandelshtam arrivò, carico di speranze, in una sala completamente vuota. L´arresto definitivo qualche mese dopo, il 2 maggio del ´38. Processato per «comportamenti antisovietici» fu condannato ai lavori forzati a vita in un gulag. Morì poco dopo. Tra le sue carte, una poesia giovanile. «E sopra il bosco quando si fa sera/si alza una luna di rame/perché mai così poca musica/perché mai un tale silenzio?».

Repubblica 6.6.10
In quei versi così russi l'arma del tirannicidio
di Viktor Erofeev

O sip Mandelshtam scrisse i versi politici più coraggiosi e più riusciti di tutta la storia della letteratura russa. È un record. Quel proiettile di poesia diretto contro Stalin, quale può essere considerato il suo componimento del 1933 Viviamo senza più fiutare sotto di noi il paese, è di una precisione micidiale. A tutt´oggi, benché siano centinaia i libri su Stalin, Mandelshtam rimane il nostro più grande tirannicida poetico. Il suo talento era pari al potere dispotico di Stalin. Era una lotta tra due giganti. Due giganti che appartenevano a due generi opposti di esseri umani. Mandelshtam era un meraviglioso strumento della cultura russa, che odiava il potere russo e anelava alla sua distruzione.
Il primo tiratore che prese di mira il potere fu Aleksandr Radishov, che con il suo racconto del Viaggio da Pietroburgo a Mosca (1790) suscitò le ire di Caterina II, che mandò l´autore in esilio. Radishov però era un letterato mediocre. Forse solo Pushkin era riuscito a scrivere degli straordinari versi d´amore per la libertà, ancora ben lontani però dall´audacia dell´epigramma di Mandelshtam che annientò il carisma politico di Stalin, lo mise a nudo e fece vedere il suo orribile corpo di mostro. Stalin apprezzò la forza del suo nemico e mostrò nei suoi confronti un´eccezionale indulgenza. Stalin incarnava e riassumeva in sé tutti gli aspetti più ripugnanti della storia del potere russo, e per giunta era determinato a riplasmare la natura umana con inaudito sadismo sul proprio modello politico. Avrebbe ucciso un uomo per peccati molto più lievi, aveva già sulla coscienza la più grave carestia dell´Urss, l´Holomodor; eppure la sfida lanciatagli dal poeta suscitò in lui, a quanto pare, un´involontaria ammirazione.
Stalin, che in gioventù era stato un poeta fallito, comprendeva la grandezza di Mandelshtam. Sentendosi sfidare per nome, egli capì che quanto più si fosse mostrato magnanimo, tanto minor forza avrebbe assunto la verità dell´avversario. Mandelshtam se la cavò con un esilio a Voronez. Vero è che quattro anni più tardi Stalin lo avrebbe schiacciato come una mosca. D´altronde, nel 1938, l´anno del grande terrore, Stalin punì Mandelshtam cancellandolo dalla lista dei tesori della cultura russa, e il poeta andò incontro alla morte certa nel gulag non più come un genio, ma come un coccio di una civiltà in frantumi.
Insomma, perché la cultura russa è così straordinaria e lo Stato russo è così ripugnante, praticamente lungo tutto il corso della storia? Vi svelerò un segreto, il motivo è questo: la cultura russa, la parola letteraria russa sono splendide proprio perché si contrappongono allo Stato russo, facendo passare tutti i loro temi, dall´amore alla morte, attraverso un fiero rifiuto della menzogna. Per parte sua, lo Stato russo è così orribile perché si oppone crudelmente alla cultura che si oppone a esso, nel tentativo di dimostrare la propria verità di supremo paternalismo. Lo Stato russo è fermamente convinto di essere nel giusto e odia la parola che sfugge alla censura. Da tempo ormai si è trasformato in un mostro che divora i poeti, e correggerlo è altrettanto difficile che costringere Mandelshtam, in preda a un terrore animale, a comporre un´ode per Stalin. Stalin e Mandelshtam sono una coppia perfetta di ballerini che in un valzer di sangue volano attraverso i secoli della nostra storia gloriosa, strangolandosi e uccidendosi a vicenda.
(Traduzione di Mirella Meringolo)

sabato 5 giugno 2010

Ansa 4.6.10
Libri: Letteratura italiana e cinese in volume double face
ROMA, 4 GIU - Un volo parallelo attraverso i millenni, tra culture e identita' molto diverse. Da Confucio a Shanghai Baby, dalle opere latine di epoca romana al Nobel Dario Fo. E' 'La rosa e la peonia' un libro ''double face'' con il fior fiore della letteratura italiana e di quella cinese, pubblicato da L'Asino d'oro edizioni. Testo bilingue, a cura della studiosa Valentina Pedone, docente di letteratura cinese all'Universita' di Firenze e di Urbino, il libro e' destinato alle nuove generazioni, gli insegnanti, gli studenti, i mediatori culturali, e inaugura una nuova collana 'Cina' della casa editrice di Matteo Fago e Lorenzo Fagioli. Dalle iscrizioni degli indovini sui gusci di tartaruga, tracciate all'epoca della arcaica dinastia Shang, ai romanzi erotici degli anni 2000 alle popolarissime eroine della narrativa web. La storia della cultura e letteratura cinese, da un lato, nei suoi passaggi piu' salienti e dall'altro, quella delle principali vicende letterarie italiane, sono ripercorse nel volume. Scritto in due lingue, questo libro, a cura di Valentina Pedone, e' curato per la parte cinese da Wei Yi, insegnante di letteratura italiana contemporanea presso l'Universita' di Lingue Straniere di Pechino. ''La rosa e la peonia - spiega nella postfazione Valentina Pedone - e' rivolto a tutti coloro che incontrano quotidianamente culture diverse dalla propria, a lettori curiosi ed entusiasti, a chiunque voglia conoscere, imparare e crescere nutrendosi di pluralita'''.

Agi 5.6.10
Libri: È uscito La rosa e la petunia, double face italia Cina
Roma, 5 giu. - Un libro bilingue e 'double face' che racchiude il fior fiore della letteratura italiana e di quella cinese: da Confucio a Shanghai Baby, dalle opere latine di epoca romana al Nobel Dario Fo. E' 'La rosa e la peonia' per le edizioni 'L'Asino d'oro', della studiosa Valentina Pedone in libreria in tutta Italia da venerdi' 4 giugno. Destinatari: le nuove generazioni, insegnanti, studenti e mediatori culturali. Scritto in due lingue, il libro della Pedone, ricercatrice e docente di letteratura cinese presso l'Universita' di Firenze e di Urbino, e' un'opera, dunque, "double face". E "inaugura una nuova collana della casa editrice di Matteo Fago e Lorenzo Fagioli - si legge in una nota - dedicata a letteratura, poesia e saggistica dell'immenso paese orientale dal titolo 'Cina'. La rosa, elegante e profumata, e la peonia, la rosa senza spine, fiore tradizionale della Cina (ne esistono oltre 600 specie), che puo' vivere anche trecento anni, si dividono il fronte e il retro dell'agile volumetto rosso, con due distinte copertine e testi in italiano e in cinese: un modo originale per mettere in comunicazione tra loro cultura e identita' di due Paesi molti diversi e lontanissimi uno dall'altro. I principali eventi letterari di oltre 4000 anni di civilta' cinese, in lingua italiana, si combinano quindi con i "caratteri" ideografici, che narrano invece le tappe fondamentali della storia della letteratura del nostro Paese. Da Confucio a Shanghai Baby, passando per la letteratura nell'epoca maoista, le fasi storiche e artistiche della "Terra di Mezzo" si ibridano in poche pagine, attraverso le epoche, con quelle italiane: una carrellata che va dalla letteratura in latino di epoca romana, fino al premio Nobel Dario Fo, la cui prima piu' evidente differenza si manifesta, per significato e suono, nelle immagini della scrittura". Il libro, spiega la Pedone, e' rivolto "a tutti coloro che incontrano quotidianamente culture diverse dalla propria, a lettori curiosi ed entusiasti, a chiunque voglia conoscere, imparare e crescere nutrendosi di pluralita'. Ai tanti piccoli cittadini cinesi che si incontrano nelle scuole e nelle piazze delle nostre citta', che parlano benissimo l'italiano, che si sentono italiani, che riescono a confrontarsi con tutti senza chiedersi nulla e che sarebbe bello sentire parlare anche in lingua cinese". (AGI) Pat

Agi 5.6.10
Cultura: Bonino, riconoscere identità umana della donna
Impegnata da sempre, 'solitaria e testarda', nelle battaglie sociali e civili per elevare la condizione della donna considerata al piu' un oggetto, Emma Bonino, oggi alza la posta: e' il momento di riconoscere 'l'identita' umana' della donna. Ed ecco che "l'equiparazione dell'eta' pensionabile nel pubblico impiego e' una manovra che l'Europa ci chiede da tempo per ripristinare equita' sociale e per evitare che con risarcimenti pelosi si perpetrino danni nei confronti delle donne che non hanno alcun vantaggio da una uscita anticipata dal mercato del lavoro", si integra con "la difesa" della RU486 quale "scelta insindacabile" della donna e dell'aborto terapeutico contro l'aborto clandestino. "Non e' l'aborto il diritto ma la scelta - precisa - di una maternita' consapevole". Lunedì 7 giugno la Bonino, insieme ad esponenti del Pd di Roma, Giulio Pelonzi e Gianluca Santilli, discutera' sul libro 'L'identita' umana' e la nuova politica di Livia Profeti per le edizioni 'L'asino d'oro'. Ci tiene pero' a precisare che dalla equiparazione dell'eta' pensionabile, una delle battaglie dei Radicali portate avanti in 'solitudine', non verra', "nessun vantaggio se non quello di dover continuare a fare le funambole per ovviare a servizi di assistenza e cura totalmente insufficienti e per giunta avere, per via di una norma anacronistica, qualcosa che sancisce di diritto una discriminazione pecuniaria tra uomini e donne". Ed aggiunge, "sono anni che ci battiamo per l'equiparazione ma l'urgenza di questa misura, in questo preciso momento di crisi e di necessita' di reperire risorse, e' ancor piu' lungimirante e opportuna". Emma la laica non ci sta a ridurre la donna al ruolo di "moglie fedele, madre di famiglia sempre contenta" o di "belle signorine bizzarramente vestite accanto a uomini vestiti di tutto punto" o "manager, che vuole fare carriera, odiosa antipatica e respingente". Insopportabile dunque l'idea della donna relegata a custode del focolare domestico. Ci sono in questo paese, che "si muove guardando lo specchietto retrovisore - ricorda - i teocretini che pare abbiano solo loro valori da difendere". Ma lei la 'fluoriclasse' di Pier Luigi Bersani che ha battuto a Roma con il 54,18% di voti Renata Polverini, non cede di un millimetro, "dico quel penso e faccio quel che dico", ripete. Si' proprio come quella "nobile onesta intelligente 'razza' azionista e giellista", cui appartengono i Radicali. I 'solitari e cocciuti', di ieri erano persone come Piero Calamandrei, Ernesto Rossi, Emilio Lussu, Altiero Spinelli e l'Ingegenere 'acomunista', Riccardo Lombardi che fa parte della "nostra comunita' capitiniana", conclude, quella della non-violenza. (AGI) Pat

l’Unità 5.6.10
A Gaza, dove s’impara
a sopravvivere senza cibo né acqua
Cresce l’attesa mentre si avvicina la nave Rachel Corrie, ultima della Flottilla L’embargo è sempre più stretto. Ora sono vietati anche sapone, cemento persino carta igienica, spazzolini da denti e ceci. Il dramma dei bambini
di Umberto De Giovannangeli

Ragazzini. Un milione e mezzo di abitanti, il 54% ha meno di 18 anni
La sete. Il 90% dei pozzi è contaminato, si compra da bere dai privati
La fame. Tra le merci proibite anche pasta, riso datteri e marmellata
Hamas. È ovunque, controlla l’economia dei tunnel e le opere «caritatevoli»
La Flottilla. «Quei morti per noi sono degli eroi sono shahid, martiri»
Shayma, 13 anni: «Prima della guerra ero davvero brava a scuola, ora non posso studiare»
Muhammad, 7 mesi: «È morto perché con l’embargo non abbiamo strumenti per operare»

Nemmeno al tuo peggior nemico puoi augurare di «vivere» in questa prigione sventrata, con le fogne a cielo aperto, con i bambini che giocano a scalare montagne di rifiuti in una gabbia ridotta ad un cumulo di macerie, isolata dal mondo. Il caldo soffocante moltiplica il bisogno di acqua. Quasi un miraggio, un bene divenuto di lusso dopo tre anni di embargo. Perché nella Striscia il 90% dei pozzi è chimicamente contaminato e l'acqua di casa non è potabile, per cui la gente è costretta a comprare acqua da privati. Neanche al tuo peggior nemico puoi augurare di «vivere» a Gaza. Di vivere in un paesaggio lunare, fatto di crateri che si susseguono per chilometri. Tra quelle macerie, dentro quei crateri si muove una umanità sofferente che scruta il mare perché dal mare può arrivare la Speranza, sotto forma di navi della libertà, come quelle assaltate dagli uomini rana israeliani l’altra notte.
La realtà di Gaza supera ogni metafora – prigione, gabbia, inferno utilizzata per raccontare di una striscia di terra popolata da un milione e mezzo di persone – 1.527.069 secondo l'ultimo censimento in maggioranza (il 54%) sotto i diciotto anni. Gaza dove –secondo una recente ricerca dell'Agenzia Onu per i rifugiati palestinesi)il numero delle persone che non hanno alcuna sicurezza per l'accesso al cibo e che non dispongono dei mezzi per procurarsi i beni più essenziali come il sapone o l'acqua pulita, è triplicato dall'imposizione del blocco nel giugno 2007. Gaza, dove 300mila rifugiati vivono in condizioni di povertà degradante contro 100mila all'inizio del 2007, con un tasso di disoccupazione tra i più alti al mondo: 41,8%. Gaza, dove il blocco –denuncia la Croce Rossa«continua ad ostacolare gravemente» il trasferimento nella Striscia di attrezzature mediche essenziali, ponendo a rischio le cure immediate e le terapie a più lungo termine di migliaia di pazienti. Gaza, dove il 90% della popolazione dipende dagli aiuti alimentari distribuiti dalle agenzie dell'Onu.
Per entrare all’inferno devi superare a piedi –dopo un meticoloso controllo con fantascientifiche apparecchiature elettroniche da parte israelianail valico di Erez. Sono trecento metri in una terra di nessuno. Lo sguardo abbraccia un orizzonte fatto di macerie. E di bambini. Che camminano tra le rovine degli oltre 4mila edifici distrutti dall’aviazione e dall’artiglieria d’Israele nei 22 giorni dell’operazione «Piombo Fuso»: di quei 4000mila edifici, solo una minima parte sono stati ricostruiti. A Gaza manca il cemento per farlo. Israele ne proibisce l'entrata per timore che serva a ricostruire le infrastrutture di Hamas. Il cemento come mille altre cose: dalla fine di gennaio ci sono restrizioni su carburante, gas per cucinare, materiali per costruire. Poi a febbraio qualcuno ha denunciato che Israele bloccava anche i datteri, le bustine da tè, i puzzle per bambini, la carta per stampare i testi scolastici e la pasta (per Israele non è considerato bene umanitario, solo il riso lo è). Ora nella lista dei materiali proibiti sono entrati anche carta igienica, sapone, spazzolini e dentifricio, marmellata, alcuni tipi di formaggio e i ceci per fare l’hummus. Mancano a Beit Hanoun, a Rafah, Khan Yunis. E ancora: Jabaliya, Bureli, Al Nusayrat, Mughazi, Dayr al Balah, fatiscenti campi profughi trasformatisi in asfissianti centri urbani. Sono trascorsi quasi diciotto mesi da quel 27 dicembre 2008 (inizio dell'offensiva israeliana); 18 mesi dopo, Hamas continua a restare padrone di Gaza. Padrone di una «prigione», ma pur sempre padrone incontrastato.
L'embargo non ha indebolito il movimento islamico. Hamas è ovunque. Nelle organizzazioni «caritatevoli» che dispensano un acconto di cento dollari -un’enormità per chi (oltre 950mila persone) vive sotto la soglia di sopravvivenza– ad ogni famiglia colpita dal fuoco israeliano. Hamas presiede all'«economia dei tunnel», quella che si dipana sottoterra, nella miriade di gallerie che dalla frontiera con l'Egitto (il valico di Rafah riaperto da Mubarak dopo l'assalto alle navi della Freedom Flotilla), fanno arrivare a Gaza merce di ogni tipo. Hamas si è appropriato politicamente delle «Navi della libertà». Almeno diecimila persone hanno partecipato alle manifestazioni organizzate ieri nella Striscia dal movimento islamico contro il blocco israeliano e a sostegno della Freedom Flotilla: a sventolare, per ordine di Hamas, sono bandiere palestinesi e turche. Affianco ai ritratti di sheikh Ahmed Yassin –fondatore di Hamas ucciso dagli israelianicompaiono quelli del «nuovo amico del popolo palestinese», il premier turco Erdogan.
Quello a Hamas è un consenso impastato di rabbia, paura, dolore. Alimentato da una rivendicazione di libertà repressa nel sangue. Per anni Ahmed Al-Jaru aveva sognato il mare, pur vivendo a poche centinaia di metri dalla distesa azzurra. Ma Ahmed e i suoi 9 bambini non potevano arrivarci perché a separarli dal mare c'erano i soldati israeliani che presidiavano uno degli undici insediamenti ebraici nella Striscia. Ora Ahmed e i suoi bambini li incontriamo al vecchio porto di Gaza City. Lui era lì la notte che la festa si è trasformata in tragedia. Era lì assieme a Faisal, Mahmud, Abdel, Zaira, e ad altre migliaia che attendevano la Freedom Flotilla. C'era anche una banda musicale per far festa... Ma a Gaza festeggiare è un sogno irrealizzabile. «Quei pacifisti sono eroi, shahid (martiri), e gli israeliani degli assassini», dice Faisal, 14 anni, il padre ucciso nella seconda Intifada. C'è chi affida il suo pensiero a Internet. È Ola, blogger di Gaza. «Per coloro che pensavano che l'era dei pirati fosse finita... o che rimanesse confinata alla fantasia dei film di Hollywood... Ripensateci. Voi, i martiri della Flotta della Libertà...Gaza voleva accogliervi come vincitori...ma il paradiso vi riceverà come martiri...Le onde del mare e i gabbiani e il tramonto piangono tutti per voi...». «Allah li accolga nel Paradiso degli shahid», le fa eco Yousef, che per sfamare la sua famiglia di undici persone ha ingrossato le fila dell'«esercito» di uomini-talpa che lavorano sottoterra al confine con l'Egitto. Un collega della Tv francese prova a dirgli: non dovete perdere la speranza. La risposta di Yousef è un pugno allo stomaco: «Non possiamo perdere una cosa che non abbiamo».
C'è animazione al porto. Si è sparsa la voce che un’altra nave di Freedom Flotilla la «Rachel Corrie», con a bordo la Premio Nobel per la pace, l'irlandese Mairead Maguire, e il suo connazionale Denis Halliday, ex vice segretario generale delle Nazioni Unite è in avvicinamento alle coste di Gaza. «Siamo partiti per consegnare questo carico alla popolazione di Gaza e quello intendiamo fare è forzare il blocco di Gaza... Non abbiamo paura», fa sapere dalla nave, Mairead Maguire. La nave è carica di materiale da ricostruzione, 20 tonnellate di carta e molti altri prodotti che Israele rifiuta alla popolazione della Striscia. «Di navi ne dovrebbero arrivare cento al giorno per portarci via di qua», sussurra Zaira, dieci anni che tiene per mano il fratellino Yasser, tre anni. A Gaza le prime vittime sono i bambini. Bambini come Shayma, 13 anni, la cui casa è stata distrutta 18 mesi fa dai bombardamenti israeliani e ancora oggi vive con sei fratelli in una baracca di lamiere. Fredda d'inverno, torrida d'estate. «Ho smesso di fare le cose che mi piacevano, disegnare, giocare – dice Shayma -. Non mi piace neanche più guardare la televisione». Shayma ha solo tredici anni, ma il suo sguardo, la sua voce raccontano di una infanzia sfiorita nell'inferno di Gaza. «Prima della guerra ero davvero brava a scuola, avevo buoni voti, adesso non lo sono per niente e ho paura che non riuscirò più a diventare dottore...». Anche Mahmud, 15 anni, ha perso la casa e ora vive in una tenda: «Non ho più sogni. Vorrei sentirmi come se avessi di nuovo una casa». Dalla prigione non si esce. Nella prigione si può solo morire. Anche se non hai alcuna colpa. Anche se hai solo sette mesi. Con le lacrime agli occhi, Yasmeen mi mostra una foto di Muhammad, il suo bambino. Due occhioni neri, un sorriso che apre il cuore. Ma il cuore di Muhammad Akram Khader non batte più. La sua morte – spiega Mu'awiya Hassanein, direttore generale dei servizi di Pronto soccorso nella Striscia è avvenuta a causa di un rigonfiamento del cervello, che richiedeva cure disponibili solo fuori Gaza a causa dell'embargo.
Muhammad è morto dopo che alla sua famiglia non è stato permesso di ricoverarlo in ospedali israeliani.
«Noi bambini diversi» Cosa sia crescere a Gaza, lo racconta Sani Yahya: un missile sparato da un F16 israeliano fece saltare per aria la festa del suo quindicesimo compleanno, uccidendo alcune delle sue sorelle e cugine. A Sany quell'attacco è costato il suo braccio sinistro: «Noi, bambini di Gaza, non siamo come gli altri –dice Sany che incontriamo a casa dei suoi nonni, alla periferia di Gaza City-. Da sempre dormiamo tutti insieme, abbracciati gli uni gli altri nello stesso letto per paura degli F16 che sorvolano di continuo le nostre case. Non parlo solo di adesso, di questa guerra. Noi siamo cresciuti così: senza luce e senz’acqua ogni volta che gli israeliani decidono di tagliarci l’energia; con l’eterna paura degli attacchi di punizione per i missili di Hamas e delle incursioni nelle nostre case. La mia scuola è stata bombardata tre volte in due anni. Non abbiamo diritto ad imparare né a sognare un futuro migliore. Nemmeno alla mia festa di compleanno avevo diritto...”. Il 31 luglio 2009, sulla spiaggia di Gaza, tremila bambini fecero volare in cielo gli aquiloni. Avevano sognato di volare con loro. Superando l'assedio, rompendo l'embargo. Volare via da quell'inferno chiamato Gaza.

l’Unità 5.6.10
La fortezza della paranoia
di Moni Ovadia

L’assetto psicologico che caratterizza i leader dell’attuale governo israeliano è ben rappresentato da una sola frase che il suo ministro della difesa Ehud Barak, il soldato più decorato della storia di Israele, ha pronunciato in occasione del discorso di congratulazione agli uomini del commando che hanno bloccato la Freedom Flottilla con un massacro:«...qui [in Medio Oriente] non c’è pietà per i deboli e non si da una seconda chance a chi non si difende». Eccola qui la Israele-fortezza delle vittime che ha in mente un politico con questa terribile visione. Andando di questo passo forse potrebbe proporre di istituire una Rupe Tarpea per i deboli come i refusnik, i soldati e gli ufficiali renitenti che sono pronti a dare la vita per il loro paese ma non sono disposti a massacrare civili a casa d’altri, o come lo scrittore Amos Oz perché sostiene che l’uso della forza è lecito solo a scopi puramente difensivi e non per colonizzare e schiacciare militarmente un intero popolo, o come Manuela Dviri scrittrice israeliana che ha perso un figlio in Libano per queste parole:« dopo tutto quell’assedio (della striscia di Gaza) figlio dell’ossessione militare e politica al dio della sicurezza, ci costringe a vivere, noi stessi, in un infinito stato d’assedio, chiusi in un invisibile fortino, isolati e condannati dai popoli. Adesso dicono che bisogna spiegare al mondo le nostre ragioni...non c’è nulla da spiegare. C’è solo da fare. C’è da ritirarsi finalmente, e per sempre, dai territori. E da Gaza!» Purtroppo queste parole non toccheranno né i cuori né le menti di questi ottusi governanti e dei loro fan acritici in Israele e nel mondo che vedono in Israele la vittima anche quando il suo esercito occupa e opprime e suoi cittadini colonizzano e rubano terre e vita ai palestinesi. A noi gente di pace e dialogo per rispondere a questa paranoia basta un nome: Itzkhak Rabin.

l’Unità 5.6.10
«Privato è peggio per gli operai della Cina»
La scrittrice: «Ritmi massacranti, molti divieti e straordinari non pagati, meglio le aziende di Stato. Ma oggi i lavoratori cominciano a chiedere»
Intervista a Lijia Zhang
di Marina Mastroluca

Suicidi. «Su internet ho letto commenti di questo tipo: “Perché uccidersi in fabbrica? Meglio organizzare una protesta”»

Per essere una fabbrica non è male. C’è anche la piscina e l’ospedale». Steve Jobs, boss della Apple, cancella con qualche battuta la pubblicità negativa che insudicia l’immagine asetticamente avveniristica del suo ultimo gioiello. Alla fabbrica dei suicidi, quella Foxconn di Shenzhen dove nascono gli I-pad, hanno steso delle reti protettive e assoldato una trentina di monaci buddisti e psicologi per prevenire nuovi tentativi. L’impresa taiwanese che prima aveva imposto ai lavoratori un impegno scritto a non suicidarsi e alle famiglie la rinuncia preventiva a rivalersi sull’azienda ha fatto un passo indietro e ha concesso un aumento salariale. Più soldi e migliori condizioni in fabbrica dovrebbero bastare, questa è anche la speranza del boss della Apple.
Per due volte in pochi giorni la vita nelle fabbriche cinesi è finita sotto la lente dei media. Dopo la Foxconn, in un impianto della Honda i 1900 operai tutti giovani hanno scioperato bloccando la produzione in 4 stabilimenti: paghe troppo basse, chiedevano il doppio dei loro 150 dollari al mese. Per Lijia Zhang, scrittrice e giornalista cinese, operaia ai tempi di Mao, come ha raccontato nel suo libro «Socialismo è grande» (Cooper), è il segno di una maggiore consapevolezza dei lavoratori. Operai che scioperano, non è all’ordine del giorno in Cina.
«In effetti è così, anche se è sicuramente più frequente di quanto non fosse nel passato. Molto dipende dal fatto che i sindacati non funzionano, non difendono i diritti dei lavoratori. Quanto alle proteste alla Honda va detto che i salari nelle fabbriche giapponesi in Cina sono particolarmente bassi, più di quanto non siano in aziende britanniche, o italiane. Ora lo sciopero è finito e sono stati concessi degli aumenti. Ma c’è un’altra cosa interessante...»
E cioé?
«La coincidenza di queste proteste con la serie di suicidi alla Foxconn. Mi è capitato di leggere su internet commenti di questo tenore: “Se non sei contento di come vanno le cose, perché uccidersi? Meglio organizzare una lotta”. Ed è esattamente quello che è successo, con gli scioperi e la richiesta di aumenti salariali. C’è stata poi anche una pressione da parte delle autorità centrali cinesi, perché si prestasse maggiore attenzione ai diritti dei lavoratori. Si è creata una serie di circostanze favorevoli». Solo un problema salariale dietro ai suicidi?
«No, certo. Per esempio alla Foxconn gli operai sono costretti a sottoscrivere la disponibilità “volontaria” a fare straordinari. Ci sono ritmi di lavoro estremamente intensi 12 o più ore di lavoro al giorno davvero un rischio per la salute mentale. In particolare per i lavoratori emigrati, che sono molto soli e si trovano in città dove non si sentono accettati. Guardando ai singoli casi, le ragioni dei suicidi sembrano spesso insignificanti: soldi persi, la rottura con un fidanzato. Ma la ragione vera è la profonda infelicità: sono giovani che speravano di avere in cambio dei loro sacrifici almeno i soldi da mandare a casa ma neanche il denaro è abbastanza». Che cosa è cambiato da quando lei era operaia in una fabbrica? Nel suo libro lei parla di una «polizia mestruale»: un controllo ossessivo nella vita privata degli operai. «Devo dire che io lavoravo per un’impresa statale. Anche oggi le condizioni di lavoro in questo tipo di fabbriche sono spesso migliori che nel settore privato, dove non sempre vengono rispettate le regole. Per esempio non vengono pagati gli straordinari. E ci sono regolamenti interni molto rigidi: non si può parlare, si viene sgridati. Per certi versi si può dire che le condizioni di lavoro siano persino peggiorate rispetto al passato. Ma anche che i lavoratori cominciano a chiedere. E a differenza che nel passato hanno maggiori opportunità di lasciare la fabbrica: io mi sentivo in fondo ad un pozzo. Ora è diverso».
C’è una maggiore consapevolezza dei propri diritti? «Politici non direi. Alla fine degli anni ‘80 c’era l’idea di poter arrivare a riforme politiche. Dopo l’89, dopo Tianamen, non è più così, non c’è questa speranza. Ma c’è sicuramente più consapevolezza dei diritti individuali».
Anche quest’anno ci sono stati arresti in occasione dell’anniversario di Tienanmen. Lei stessa aveva partecipato alle proteste dell’89. È ancora una ferita aperta?
«Non se ne parla. È in qualche modo tabù. I giovani non ne sanno un granché e non solo perché è accaduto 21 anni fa. È perché nessuno glielo ha insegnato».
E per quello che la riguarda, quale è il suo grado di libertà? «Non bisogna immaginare la Cina come un Grande fratello che controlla tutto. È una realtà confusa. Io non mi definisco una dissidente, non appartengo a nessuna organizzazione. Mi limito a scrivere in inglese. E il mio libro non è stato tradotto in cinese. Si può comprare su Amazone, certo, ma la pubblicazione non è mai stata autorizzata».

l’Unità 5.6.10
Vittorio Foa dal carcere all’Europa
La politica intesa come azione, le radici dell’europeismo, la vibrante polemica antirazzista: ecco le lettere di un gigante della sinistra italiana scritte negli otto anni passati dietro le sbarre durante il regime fascista
di Federica Montevecchi

L’epistolario. In otto anni poté comunicare solo con i familiari più stretti

Vittorio Foa riteneva le lettere che aveva scritto dal carcere fascista la memoria di riferimento della sua lunga vita: ne parlava spesso, ne ricordava con precisione brani, che poi voleva rileggere e verificare, e tutte le volte ogni lettura, lungi dal risolversi in un omaggio al passato, apriva inesauribili possibilità di riflessione e di discussione. Questo accadeva non soltanto perché Vittorio viveva la vecchiaia in maniera progettuale, con rare concessioni alla malinconia, ma anche perché il suo epistolario si presta a interpretazioni molteplici. Esso è a un tempo il documento di un'esperienza storicamente fonda-
mentale, la testimonianza indiretta di un mondo, quello della Torino antifascista degli anni ’30 del Novecento, e il resoconto di una educazione politico-intellettuale. L’intreccio di questi aspetti si riflette naturalmente anche nella scelta di lettere (o di parti di lettere) che Vittorio preparò, nell'estate del 2008, per questa edizione: il criterio adottato per tale scelta era riconducibile in primo luogo al bisogno di mettere in risalto quello che egli riteneva essere il suo carattere prevalente, vale a dire quell'identità profonda e invariabile che permane in ogni età e nelle mutevoli espressioni dell’esistenza. Le comunicazioni ai genitori e alla famiglia, le riflessioni, le analisi di libri contenute in questa scelta di lettere mostrano come il carattere prevalente di Vittorio fosse intellettuale: questo era il continuum che costituiva il suo modo di essere e che, per il legame inscindibile di intellettualità e politica, ha trovato necessariamente e coerentemente espressione nei diversi ruoli che egli ha ricoperto nella vita pubblica italiana. Prova di tutto ciò è dunque la vita stessa di Vittorio a partire proprio dall'esperienza del carcere, luogo dove egli trascorse gran pate della giovinezza, dai 25 ai 33 anni. (...)
Negli otto anni, tre mesi e otto giorni di reclusione a Vittorio Foa fu concesso di comunicare soltanto con i famigliari più stretti per mezzo di lettere che inizialmente avevano cadenza bisettimanale e poi, dopo il processo, cadenza settimanale: alcune lettere straordinarie erano permesse in occasione delle festività o per comunicare alla famiglia eventuali trasferimenti. Della corrispondenza di questi anni ossia delle 525 lettere, cinque cartoline postali e un telegramma conservate dai genitori di Vittorio restano 498 lettere e quattro cartoline postali.
Nel carcere fascista per scrivere la lettera era concesso un solo foglio quasi sempre di carta assorbente e a spese del detenuto che con lo scoppio della guerra venne ridotto alla metà; ogni lettera era poi sottoposta al controllo della censura presso la direzione centrale della polizia politica (OVRA) al ministero dell’Interno e lì in alcuni casi archiviata, in altri censurata parzialmente, a volte con inchiostro spennellato, altre volte con i tratti minuti di un pennino. Nell’epistolario sono presenti 103 lettere censurate parzialmente e solo tre di queste più alcune righe di altre due furono lette, all’epoca dell’edizione integrale, nella parte coperta grazie all’impegno dell’Istituto di patologia del libro e della Polizia scientifica; per quanto riguarda le lettere trattenute dalla censura, infine, resta tuttora valida l’ipotesi che si possano ancora trovare negli archivi del ministero dell’Interno. (...) Nelle lettere selezionate per questa edizione le riflessioni di Vittorio su se stesso e sulla sua esperienza carceraria si intrecciano con analisi storiche, economiche e letterarie che mostrano il suo modo di pensare e, al tempo stesso, anticipano alcuni dei temi che resteranno per lui essenziali. (...) È sempre attraverso il richiamo all’azione, alla necessità di una politica che sia tale, e cioè capace di comprendere il proprio tempo e di agirlo, che Vittorio risponde anche alla campagna razziale e al dolore di assistere dal carcere alla dispersione della propria famiglia. (...) Anche in questo momento drammatico Vittorio cerca di capire, di trovare il senso degli accadimenti: interessante a tal proposito è, ad esempio, la lettera del 7 luglio 1938 si afferma l’inutilità delle frequenti conversioni di ebrei al cattolicesimo poiché appariva chiaro che la persecuzione antisemita non aveva carattere religioso ma razzista. (...) Rivendicare l’appartenenza al proprio tempo significa anche condividerne le responsabilità riconoscendo, soprattutto nel caso della campagna razziale, che è solo «la diretta esperienza del male che può dare a noi uomini comuni la piena coscienza del male e della necessità di combatterlo; fuori di quella esperienza si dicono delle belle parole e si dorme».(...)
L’EUROPEISTA RESPONSABILE
Va da sé che la Resistenza e la storia successiva alla seconda mondiale avrebbero mostrato come la lotta contro il nazi-fascismo «richiedeva anche il recupero di quelle identità nazionali che il nazismo aveva tentato di annullare e che erano le precondizioni per avviarsi a disegni più alti». Il fatto stesso che, già all’epoca del carcere, Vittorio fosse un convinto europeista e, al tempo stesso, orgoglioso della sua identità italiana formata sulla memoria risorgimentale (...) è l’esempio più chiaro della duplicità dell’idea di nazione, del fatto cioè che anche le forme politiche più nobili sono soggette a rischi di degenerazione risultando così tanto positive quanto potenzialmente negative. Questa ambiguità, che si riflette inevitabilmente nel linguaggio politico, costituisce un richiamo indiretto alla responsabilità, che per Vittorio Foa era il criterio primo dell’azione politica e punto di vista privilegiato da cui guardare alla storia del Novecento.

Repubblica 5.6.10
La battaglia non è finita
di Stefano Rodotà

Ora che sembra profilarsi una qualche marcia indietro, varrebbe la pena di stilare un impietoso catalogo delle dichiarazioni tracotanti che, nei giorni scorsi e nei luoghi più disparati, erano venute da "autorevoli" esponenti di governo e maggioranza per difendere le norme contenute nel disegno di legge sulle intercettazioni.
Norme di cui si proclamavano l´assoluta necessità e immodificabilità per tutelare i diritti delle persone, l´intangibilità dello Stato di diritto, e via imbrogliando. Sarebbe un buon servizio per i cittadini, almeno per quelli che vogliono mantenere una attitudine critica verso chi li rappresenta e governa. Ma non credo che avrebbe alcun effetto su un ceto politico ormai abituato ad una disinvoltura che sconfina in una sfrontatezza che fa negare l´evidenza, dimenticare le dichiarazioni del giorno prima, dire tutto e il suo contrario. Per questo bisogna mantenere un giusto distacco, essere massimamente cauti di fronte all´annuncio di emendamenti che dovrebbero migliorare quel testo sciagurato.
Costretti a rimettere le mani su norme di cui al Senato si erano addirittura induriti gli aspetti più aggressivi, Berlusconi e i suoi hanno conosciuto una sconfitta politica, resa possibile dal congiungersi di diversi fattori. Una opposizione parlamentare finalmente determinata. Una attenzione vigile di quegli organi istituzionali ai quali spetta sempre il compito di vegliare sul rispetto della legalità repubblicana, questa volta il presidente della Repubblica e il presidente dalla Camera. Un movimento che ha coinvolto direttamente centinaia di migliaia di persone, che si è manifestato nelle piazze virtuali e in quelle reali, che si è progressivamente allargato con una benefica "discesa in campo" dei più diversi gruppi e associazioni, di editori d´ogni parte, del sistema dell´informazione con quasi tutte le sue componenti più significative. Non dirò che proprio da qui, da questa reazione diffusa e determinata, sia venuto l´impulso maggiore. Ma è certo che questa sorta di mobilitazione generale e quotidiana ha dato il senso di una urgenza, di un confine non valicabile, che ha messo le istituzione di fronte a tutta la loro responsabilità, all´impossibilità di girare la testa dall´altra parte.
Vinta una battaglia, però, bisogna sempre ricordarsi che si può perdere la guerra. Per questo occorre mantenere la tensione, essere rigorosissimi nella valutazione delle novità o presunte tali, non correre frettolosamente alla conclusione che comunque qualcosa si è ottenuto e che non è il caso di cadere nel peccato dell´intransigenza. Non è tempo di sconti, non si può finire nella trappola vecchissima di chi chiede mille, finge poi di negoziare, scende a novecento, convince il compratore che questo è "un buon punto di equilibrio" e così porta a casa quasi tutto quello che si era prefisso, illudendo la controparte d´aver fatto un affare. Non si è alzata la voce oltre il giusto, e oggi non è venuto il momento di abbassarla. Si è detto a chiare lettere che si stava consumando un attentato alla democrazia, che vanificare aspetti essenziali del controllo di legalità e imbavagliare l´informazione determinava un cambiamento di regime. È questo il metro che dobbiamo continuare ad adoperare, anche a costo di scontentare quelli che non vedono l´ora di trovare un pretesto per dire che non è più il caso di agitarsi.
Tre sono le istruzioni che debbono guidarci in questa nuova fase. La prima impone di non dare giudizi definitivi prima d´aver letto le proposte della maggioranza: qui, davvero, il diavolo si annida nei dettagli, soprattutto quando si tratta di disciplinare uno strumento importante e delicatissimo qual è quello delle intercettazioni. La seconda riguarda la necessità di guardare all´intero circuito informativo: la limitazione delle possibilità d´indagare porta con sé l´impossibilità di conoscere e rendere pubbliche vicende rilevanti, così come il ritorno a norme più ragionevoli sulle intercettazioni non può compensare il mantenimento di limiti gravi al diritto d´informare e essere informati. La terza suggerisce di non abbandonare la messa a punto di una strategia capace di contrastare efficacemente il permanere di limitazioni alla libertà di manifestazione del pensiero: disobbedienza civile, ricorsi alla Corte costituzionale, lettura in Parlamento dei documenti "vietati".
Da quel che si apprende, l´emendamento della maggioranza conterrebbe alcune aperture per quanto riguarda la durata delle intercettazioni, ma questa possibilità sarebbe accompagnata da una macchinosa procedura che, per i reati ordinari, prevede una richiesta di proroga ogni 48 ore, con evidentissime complicazioni organizzative e con le difficoltà derivanti dall´obbligo di indicare ogni volta ragioni per la prosecuzione dell´intercettazione diverse da quelle prodotte in precedenza. Rimarrebbe immutata la norma riguardante la prima autorizzazione ad intercettare, che dovrebbe essere rivolta al tribunale distrettuale: una procedura motivata con l´argomento che una valutazione collegiale garantisce meglio dal rischio di abusi, ma di cui è stata da più parti sottolineata la irrazionalità. Tre giudici al posto di uno, quando un solo magistrato può addirittura condannare all´ergastolo in caso di rito abbreviato; lungaggini e problemi di sicurezza legati al trasferimento dell´intero fascicolo processuale (anche molti "faldoni") in una sede diversa e lontana da quella delle indagini; difficoltà per le sedi con organico ridotto, perché i magistrati partecipanti all´autorizzazione diverrebbero poi "incompatibili" per la celebrazione dei relativi processi. La necessità di evitare abusi, e di responsabilizzare maggiormente i magistrati, rischia così di produrre derive analoghe a quelle determinate in passato da norme, che, introdotte con l´intento di garantire meglio i diritti dell´indagato e dell´imputato, hanno contribuito grandemente ad accrescere i tempi processuali.
Si presentano come emendamenti migliorativi quelli riguardanti la possibilità di effettuare intercettazioni ambientali e di registrare e trasmettere le udienze. Di nuovo, però, il giudizio è sospeso in attesa di leggere i testi relativi. E lo stralcio della norma riguardante le conversazioni degli appartenenti ai servizi di sicurezza, accolta con favore da maggioranza e opposizione, richiederà molta attenzione in futuro, per evitare che una nuova disciplina venga orientata verso ampliamenti ulteriori del segreto di Stato, seguendo una discutibile sentenza della Corte costituzionale e creando una situazione che contrasta assai con le esigenze, riemerse proprio in questi giorni, di uscire dall´oscurità tutte le volte che vi siano situazioni pericolose per le istituzioni.
Sul versante dell´informazione, la novità sarebbe rappresentata dal ritorno alla norma del testo a suo tempo approvato dalla Camera, e poi cancellato dal Senato, secondo il quale è lecita la pubblicazione "per riassunto" degli atti giudiziari. Ma questo passo in avanti non scioglie una grave contraddizione. Rimane, infatti, il divieto di pubblicare in qualsiasi forma, dunque anche per riassunto, il contenuto delle intercettazioni, anche quando queste non siano più segrete. Poiché, per giustificare questo divieto si ricordano indubbi abusi del passato, è bene ripetere per l´ennesima volta che gli abusi e le violazioni della privacy si evitano con divieti mirati, riguardanti le conversazioni di chi sia estraneo alle indagini o le parti non rilevanti delle conversazioni degli stessi indagati. Il resto non ha nulla a che fare con la privacy, ma riguarda la trasparenza del potere, il diritto dei cittadini di controllare chiunque abbia ruoli pubblici, com´è chiaramente stabilito fin dal 1998 dal Codice di deontologia dell´attività giornalistica. E che dire della sanzione a carico degli editori che, pure dopo lo sconto da 465.000 a 309.000 euro, legittima un potere di controllo dei proprietari, aprendo così la strada ad una censura di mercato?
No, non siamo ancora entrati in una zona di bonaccia.

Repubblica 5.6.10
Ecologia e ambiente
Per Heidegger su questa parola si basano tutte le lingue Aristotele, Kant e Chomsky però la ridimensionano
La meravigliosa debolezza del verbo essere
a cura di Antonio Cianciullo

L´ontologia è la disciplina filosofica che si occupa dell´essere, ed è stata battezzata molto tardi (per i tempi quasi biblici della filosofia), all´inizio del Seicento, partendo da ontos, il genitivo del participio presente di einai, "essere" in greco. La sua domanda fondamentale, d´accordo con il filosofo americano Willard Van Orman Quine (1908-2000) è "Che cosa c´è?". In un certo senso Andrea Moro, professore di Linguistica generale presso il San Raffaele di Milano si mette a indagare il seguito della frase, non in Quine, ma in Ornella Vanoni e Gino Paoli: «C´è che mi sono innamorato di te», e si chiede che cosa esattamente significhi questo "C´è". La sua scienza non riguarda gli enti, ma il verbo essere, e Moro propone ironicamente di chiamarla "einaiologia", da einai. Diciamo subito che, al di là della linguistica, l´einaiologia è utilissima per l´ontologia, e aiuta a liberarla da tante fisime, in particolare quella secondo cui il verbo essere sarebbe un verbo fortissimo, che, come una specie di Atlante, regge il mondo sulle proprie spalle.
La formula canonica del giudizio, S è p, un certo soggetto è un certo predicato, "il tavolo è nero", "Socrate è musico", porta in sé qualcosa del "fiat lux", della creazione del mondo. Heidegger scriveva con una certa ebbrezza che se nella lingua mancasse la parola "essere" non è che avremmo una parola in meno, non avremmo nessuna lingua. All´iperbole soggiaceva anche il solitamente sobrio Quine, perché alla domanda "Che cosa c´è?" rispondeva "C´è tutto", lasciando intendere che il verbo essere conferiva una esistenza, sia pure umbratile, a tutto quanto, compresi i ferri lignei e i rotondiquadrati. In questo titanismo si cela un retrogusto di prova ontologica, quasi che la copula è facesse esistere le cose, o quantomeno che nella terza persona dell´indicativo presente del verbo essere si nascondesse il segreto dell´esistenza.
Ed è qui che, a svegliare l´ontologia dal suo sonno dogmatico, interviene l´einaiologia. Prendiamo la frase "Vietato attraversare i binari". Se io metto "È vietato attraversare i binari" cambia qualcosa? No, il concetto resta tale e quale. Kant, nel dire che "essere" non è un predicato reale, bensì una posizione assoluta, ha messo tutti sull´avviso. Pretendere che l´essere aggiunga qualcosa a un concetto è un po´ come andare al bar e ordinare una birra piccola, chiara e reale: quell´ultima specificazione apparirebbe bizzarra e lascerebbe di stucco il barista. Che cosa cambia allora? È il tempo. Potrei mettere «era vietato attraversare i binari» (e ora non lo è più) o «sarà vietato attraversare i binari» (e non lo è ancora). Essere e tempo? Sì, proprio così, in Aristotele molto prima e molto meglio che in Heidegger: la copula "è" in S è p, non serve per far esistere le cose (al punto che se dicessi "Beato lui!" dovrei necessariamente supporre che il giudizio implichi "Lui è beato"), ma serve essenzialmente per marcare il tempo, nella fattispecie il presente.
Questo è il primo degli indebolimenti dell´essere a cui si impegna Moro, che però non si limita al recupero di Aristotele e Kant, ma ne propone un secondo sulla scia della linguistica di Noam Chomsky: il verbo essere è flessibilissimo, cioè, appunto, più debole di altri verbi. In italiano, osserva Moro con una scoperta originale, in una sequenza sintagma nominale / verbo / sintagma nominale (in parole più imprecise nome / verbo / nome), il verbo si accorda sempre con il sintagma nominale di sinistra: si dice "Caino uccise Abele e Pinocchio", e non "Caino uccisero Abele e Pinocchio". Quando però il verbo è l´essere, le cose vanno diversamente. Posso dire sia "Due foto del muro furono la causa della rivolta", sia "La causa della rivolta furono due foto del muro", dove il verbo si accorda con "due foto sul muro", il sintagma nominale di destra. Abbiamo dunque sia la frase copulare canonica, sia la frase copulare inversa, e questo appunto perché il verbo essere è molto più arrendevole degli altri.
Questa breve storia del verbo essere non è una storia, ma una teoria, però siamo contenti lo stesso. L´asimmetria tra il ruolo centrale degli enti (naturali, ideali, sociali) nella nostra vita e l´evanescenza del verbo essere ci fa toccare con mano, ancora una volta, la differenza tra ontologia, quello che c´è, e l´epistemologia, quello che pensiamo e diciamo a proposito di quello che c´è. Hanno sbagliato i filosofi a pretendere che l´essere costituisse il linguaggio o che il linguaggio costituisse l´essere. Niente di grave. Proprio perché quello che c´è ha in una grande quantità di casi una bellissima autonomia rispetto a tutti i linguaggi e a tutte le teorie, ci può essere ontologia, che si chiede "Che cosa c´è?", e indaga gli enti (cioè in parole povere gli oggetti) in quanto possono anche rivelarsi indipendenti dalle nostre cogitazioni e formulazioni linguistiche. E ci può essere einaiologia (da intendersi come una branca dell´epistemologia), che studia frasi tutt´altro che trasparenti – anche dal punto di vista linguistico – come «C´è che mi sono innamorato di te».

il Riformista 5.6.10
Prodi vede un «Vis-conti»
Vendola vuole la piazza
e il Pd fa contro-proposte
di Ettore Colombo
qui
http://www.scribd.com/doc/32558309/il-Riformista-5-6-10-p6


Repubblica 5.6.10
Nessuna pietà per chi chiede asilo

Il senso del libro di Laura Boldrini sta tutto nel titolo: Tutti indietro. Dove "tutti" sono i richiedenti asilo, i profughi e i rifugiati che l´autrice, portavoce dell´Alto commissariato Onu per i rifugiati (Unhcr), ha incontrato in anni di lavoro dai Balcani all´Afghanistan, passando per l´Africa e il Medio Oriente, fino ad arrivare in Italia. Spinta dall´attualità – ovvero la decisione dell´estate 2009 del governo Berlusconi di respingere in mare tutti coloro che tentano di raggiungere il paese in barca – Boldrini racconta chi sono e da dove arrivano quelli che l´Italia manda via senza neanche guardarli in faccia: somali, afgani, sudanesi, ghanesi, iracheni. «Se sei in mezzo al mare perché nel tuo paese c´è la guerra poco importa. Se sei su un gommone perché a casa rischi la tortura è lo stesso», scrive. Eppure, a guardarli da vicino, questi «sono soltanto esseri umani che non hanno il privilegio di vivere a casa loro e cercano altrove pace e sicurezza». Laura Boldrini dà voce alle loro storie: e all´Italia "che c´è ma non si vede", fa di tutto per aiutare e in questo modo salva la coscienza del paese.

Repubblica 5.6.10
Una grande mostra al Santa Maria della Scala, al Battistero e al Duomo In prestito opere preziose ottenute grazie a sei anni di preparazione
Da Jacopo a Donatello Siena celebra il suo ‘400

SIENA. Ricordate il divertente spot pubblicitario che magnificava un pennello da imbianchini, giocando argutamente sulla inversione «pennello grande, grande pennello»? Ebbene, di fronte a tante maxirassegne dalla millantata grandezza viene spontaneo chiedersi se è ancora possibile allestire «grandi mostre» e non solo «mostre grandi».
Una squillante risposta affermativa al nostro quesito giunge in questi giorni da Siena, dove in quello straordinario palinsesto di storia artistica e sociale cittadina che è lo Spedale di Santa Maria della Scala, e nei due vicini ambienti del Battistero e della Cripta del Duomo, si può visitare una mostra che non esito a definire la più importante e anche spettacolare dell´odierna stagione: «Da Jacopo della Quercia a Donatello. Le Arti a Siena nel primo Rinascimento», a cura di Max Seidel, fino all´11 luglio).
Si tratta di una rassegna di ampio respiro, che allinea un numero imponente di sculture, dipinti, disegni, oreficerie e tessuti, a testimonianza di una stagione artistica vivacissima durata oltre mezzo secolo, dal 1400 al 1460. Ma questi dati quantitativi, come ho anticipato, non sarebbero di per sé sufficienti a farne una «grande mostra». Altri infatti sono i fattori che rendono questa esposizione memorabile, dalla progettazione in ogni minimo dettaglio all´affidamento di ogni singola sezione ad alcuni tra i migliori esperti in materia. O ancora, l´aver saputo sfruttare al meglio le eccezionali opportunità offerte dai luoghi in cui è allestita, integrando le opere convenute dai musei di ogni parte del mondo con quegli straordinari complessi scolpiti o dipinti che lo Spedale e il Battistero offrono in pianta stabile.
Ma tutte queste, a ben vedere, sono solo concause della buona riuscita della rassegna: la causa prima, il fattore-chiave all´origine di tutto è un altro, e Max Seidel lo rivendica orgogliosamente fin dall´insolito titolo, «Sei anni di preparazione», della sua introduzione al catalogo. In paesi di maggior civiltà espositiva del nostro (che da tempo sembra aver rinunciato al ruolo guida conquistato in questo campo negli anni ´50 e ‘60), un´incubazione di parecchi anni per una grande mostra non è l´eccezione, ma la norma. Ma nel trafelato fast food espositivo che impazza oggi da noi, una simile richiesta suona come un´insensata e snobistica pretesa. Ha pertanto ragione Seidel a dichiarare tutta la sua gratitudine agli sponsor, prima fra tutti la Fondazione del Monte dei Paschi, che hanno accettato senza fiatare questa sua «precondizione». D´altra parte è solo grazie all´autorevolezza dei richiedenti e ai tempi lunghi di una preparazione certosina che si deve il dato quantitativo, questo sì determinante nel qualificare la mostra, di cui Seidel giustamente si compiace: delle tante richieste di opere in prestito da lui avanzate alle raccolte, pubbliche e private, di tutto il mondo, ben l´87% sono state esaudite. Una percentuale eccezionale, specie se si tien conto che si è trattato quasi sempre di sculture o di opere su tavola delicatissime. Grazie a questi prestiti è stato possibile ricostruire in mostra, recuperandone le disiecta membra sparse ai quattro angoli del mondo, la Pala di San Pietro a Ovile di Matteo di Giovanni, alcuni polittici cruciali di Giovanni di Paolo, il famoso Trittico dell´Arte della Lana del Sassetta e la stupefacente Pala di S. Antonio Abate del Maestro dell´Osservanza. E si è potuto esporre le sculture originali della Fonte Gaia, accanto ai due frammenti di pergamena(uno proveniente da New York, l´altro da Londra) in cui Jacopo della Quercia vergò il progetto per quel suo capolavoro destinato alla Piazza del Campo.
Sono queste le differenze tra una bella mostra e una mostra che fa epoca. Differenze che sono perfettamente percepite tanto dal grande pubblico che dagli studiosi. Studiosi che nel vedere l´una accanto all´altro tutte le opere principali del Maestro dell´Osservanza e di Sano di Pietro potranno dire una parola definitiva sull´eterna querelle che divide chi li considera due maestri diversi da chi invece sostiene che il primo altri non è che Sano da giovane.
Ma queste sono solo alcune delle tante leccornie imbandite da una mostra che offre in apertura una vera e propria rassegna monografica dell´eroe del primo Rinascimento senese, Jacopo della Quercia, che con la sua scultura, elegante e al contempo vigorosa, si mantiene in bilico tra squisitezze gotiche e prorompente plasticità rinascimentale, incarnando alla perfezione la riluttante e un po´ trasognata ambiguità di questa stagione dell´arte senese, incerta tra nostalgia di un illustre passato e aperture sul futuro. Un dilemma che è plasticamente sintetizzato in mostra anche dal confronto ravvicinato tra una Madonna con il Bambino in terracotta di Jacopo e una folgorante interpretazione dello stesso tema proposta da Donatello.
Uno degli snodi più spettacolari della rassegna è la sala in cui si affollano varie coppie di statue lignee con l´Annunciazione, intagliate da Jacopo della Quercia e dai suoi due seguaci, il raffinatissimo Francesco di Valdambrino e il più arcaizzante Niccolò dei Cori. Ma non meno riuscito è il fitto dialogo che si è riusciti a intrecciare, alternando sezioni cronologiche a sezioni tematiche e mettendo a confronto dipinti e sculture con oreficerie, tessuti, manoscritti miniati, altaroli portatili, cofanetti e tanti altri deliziosi «oggetti da maneggiare» di devozione privata o di prezioso arredo tra il sacro e il profano.
Ma a elencare le cose mirabili non basterebbe un´intera pagina. Mi limito perciò a segnalarne solo una ancora: la parete di una sala, in cui è perfettamente messa a fuoco, con tre esempi scelti in modo esemplare, la stretta, quasi palpabile contiguità stilistica che si venne a stabilire in una certa fase tra la pittura del senese Domenico di Bartolo, e l´arte di due suoi colleghi fiorentini, il pittore Filippo Lippi e lo scultore Luca della Robbia.