martedì 8 giugno 2010

Il Fatto 8.6.10

“Israele deve parlare con Hamas e bloccare gli insediamenti”

Il “dopo Flottiglia” visto dallo scrittore Abraham Yehoshua

di Stefano Caselli e Davide Valentini


“Che cosa posso dire? Provengo da un paese complesso, con problemi e tensioni enormi”. Abraham Yehoshua, ospite del Festival “Collisioni” di Novello (Cn) vorrebbe parlare soltanto di letteratura, ma il massacro della Freedom Flottiglia è ancora sulle pagine di tutti i giornali del mondo. E poi le ultime notizie. Come l’annuncio della Mezzaluna Rossa iraniana che vorrebbe inviare due navi a Gaza con aiuti umanitari, una minaccia che per ora Israele minimizza (parlando di “provocazione”) ma che il ministro degli Esteri Frattini prende sul serio, tanto da dire che si tratta di un “chiaro segno dell’intenzione dell’Iran di assumere il controllo della Striscia”. E anche l’uccisione di quattro sub palestinesi, presunto commando terrorista, al largo di Gaza. Uno sguardo malinconico all’orizzonte delle Langhe e la letteratura, per un attimo, passa in secondo piano.

Yehoshua, lei pochi anni fa disse di Israele: ‘I nostri cuori stanno diventando di pietra’.

Oggi, dopo il blitz contro la Freedom Flottiglia, com’è il cuore degli Israeliani? Non lo so, ma la situazione si fa sempre più complessa anche se, come sempre, non tutto è bianco o nero. Uccidere a casaccio sulla nave è stato completamente stupido. Mandare i soldati all’assalto in quel modo è stato un folle errore militare. Ma io imputo a Israele soprattutto di non essere stato capace di dialogare con Abu Mazen nel West Bank. Lì si può fare qualcosa, perché la situazione è calma, le forze di sicurezza dei Palestinesi hanno la situazione sotto controllo, non ci sono attacchi terroristici. Dobbiamo andare avanti sulla via dei due Stati, con Abu Mazen. E se le richieste dei palestinesi sono talvolta inaccettabili, Israele deve comunque bloccare immediatamente gli insediamenti e trovare una soluzione per i coloni. Il governo, in questo momento, non sta facendo nulla.

Al di là del dramma delle vittime, tutto il mondo parla di clamoroso autogol politico. Ci saranno ricadute internazionali?

Certo, ovviamente è stato un errore deplorabile; delle persone sono state uccise. Sono necessarie indagini accurate, bisogna capire chi e perché ha sbagliato. Il ministro della difesa e il comandante della marina devono spiegare tutto. Ce lo chiede la gente. Quello che dobbiamo fare, ora, è consentire che nel porto di Gaza attracchino le navi sotto il controllo di ispettori internazionali che verifichino i carichi per impedire l’introduzione di armi pesanti.

Poco fa parlava di Abu Mazen. Ma a Gaza governa Hamas. È davvero impossibile trovare un dialogo? Bisogna parlare con Hamas. Non con chi si ostina a non riconoscere il diritto di Israele ad esistere, semmai con quelle frange che chiedono un ritorno ai confini del 1967. Tuttavia penso che la soluzione migliore sia ritrovare un’intesa concreta tra Hamas e Fatah: sono lo stesso popolo, noi non possiamo parlare con due entità diverse,

magariinconflitto.AbuMazen, in questi giorni, ha detto una cosa molto intelligente: “La questione di una condanna internazionale di Israele non è necessaria, ciò di cui abbiamo bisogno è una riconciliazione con Hamas per giungere ad una voce palestinese unitaria”. Pensa che il governo israeliano sia davvero rappresentativo del suo popolo?

Perché forse Berlusconi rappresenta tutto il popolo italiano? Certo, rappresenta una parte del Paese. La gente per strada, se interrogata sulla soluzione dei due Stati, è d’accordo; è l’ideologia ufficiale della destra. Ma se chiedi “è possibile, ci credi?” dicono di no. Questo è il problema, stiamo perdendo fiducia. Ci sono sempre più antiarabi e razzisti. L’unica soluzione che vedo è finirla con gli insediamenti, con gli edifici a Gerusalemme Est e trovare un accordo con i palestinesi sulla base dei confini del 1967. Ancora una volta la questione è: si può criticare Israele senza essere chiamati antisemiti?

Una cosa è l’antisemitismo, un’altra è la critica. Però, mi chiedo: quante manifestazioni

ci sono state contro la Russia per le atrocità in Cecenia, quante contro Belgrado per il Kosovo? Penso che in Europa ci sia un eccesso di critica nei confronti di Israele, anche se non penso sia legittimo parlare di antisemitismo. Ma l’energia antisemita rischia di spostarsi verso l’anti-israelismo. E questo accade soprattutto a sinistra e mi dispiace, perché anche io sono di sinistra.

Sulla facciata del Ministero della Verità in 1984 di Orwell, c’è una scritta: “La guerra è pace”. È questa la situazione nella quale ci troviamo ora?

Bisogna fare molta attenzione: non siamo in guerra, nel senso che non è la Seconda guerra mondiale. C’è naturalmente una contesa in atto tra Est e Ovest, ma le nazioni europee non sono più aggressive. L’idea che esista l’Unione europea è qualcosa di magnifico. Una delle mie soluzioni al conflitto israelo-palestinese, per esempio, è che l’Europa proponga a Israele e Palestina, in caso di pace, l’ingresso nel mercato comune. Penso che l’Unione europea debba essere tenuta ben salda anche per questo.


Repubblica 8.6.10

Stato vegetativo, critiche bipartisan

Dubbi anche nel governo. Ma Roccella insiste: "Nelle diagnosi il 40% di errori"

Presentato il rapporto degli esperti del ministero dopo il caso Eluana

Protestano le associazioni: si pensa all´etica ma si tagliano i fondi all´assistenza

di Alberto Custodero


ROMA - «Concentrarsi sulle questioni etiche sposta l´attenzione dal vero problema che riguarda i pazienti in stato vegetativo: la carenza assistenziale». Il documento redatto dal ministero della Salute dopo il caso Englaro - che denuncia oltre il 40 % di errori di diagnosi - suscita le proteste delle associazioni dei malati. E solleva polemiche bipartisan nel mondo politico. È Rita Formisano, fondatrice dell´associazione Arco e primario dell´unità post coma dell´Irccs Santa Lucia, a denunciare «la grande ipocrisia» sorta dopo il caso Englaro». «Da una parte - sostiene Formisano - il gruppo di lavoro presieduto dal sottosegretario Eugenia Roccella stabilisce che non si deve più parlare di persone in stato vegetativo, ma di pazienti in "gravissima disabilità". E definisce i protocolli per le loro cure. Dall´altra, le Regioni tagliano i fondi ai centri di eccellenza che li hanno in carico da anni e abbandonano a se stesse, psicologicamente, economicamente e socialmente le loro famiglie». È il caso, ad esempio, dell´Irccs Santa Lucia, centro di riferimento per le neuroscienze che, complice la crisi e il disavanzo regionale, rischia di dover licenziare il personale e di non erogare più le prestazioni a causa di un credito non pagato dalla Regione Lazio di 50 milioni. «Se sono in difficoltà finanziarie centri di eccellenza - ha aggiunto Formisano - figuriamoci come tutto il percorso sia in condizioni di criticità».

Sul fronte politico, non tutti, nella maggioranza, condividono la conclusione del documento-Roccella («Non si può escludere la presenza di coscienza in pazienti in stato vegetativo»). Ne prende le distanze la deputata del Pdl Melania Rizzoli, medico e componente della commissione parlamentare Errori sanitari. «Non sono d´accordo - sostiene l´onorevole Rizzoli - che ci sia "coscienza" in questi malati. Sono persone "create" da noi medici che, grazie al progresso tecnologico, ormai siamo in grado di rianimare i morti. Una volta riportati in "vita" questi pazienti, tuttavia, non siamo in grado di restituire loro la coscienza, ma non possiamo certo sopprimerli. L´errore, dunque, se così si può dire, sta a monte: non tutti dovrebbero essere rianimati. Una scelta medica difficilissima. Allora per me, anziché fare una legge per regolare l´eutanasia, bisognerebbe farne una per regolare la rianimazione».

La bocciatura del documento arriva dall´opposizione. «Roccella sbaglia dal punto di vista medico-scientifico perché i medici per primi indicano le incertezze nella definizione di stato vegetativo. E anche dal punto di vista politico». Livia Turco, l´ex ministro della Salute del Pd è durissima. I Democratici danno l´altolà alla proposta del governo che cancella per sempre la possibilità di "sospendere l´alimentazione" in casi come quello di Eluana Englaro. E anche se la sensibilità di alcuni cattolici del Pd - Beppe Fioroni, Andrea Sarubbi - è più ricca di distinguo, la presa di posizione della Roccella è considerata una chiusura che renderà ancora più aspro il muro contro muro in Parlamento sul testamento biologico. Turco sbotta: «Sarà stata imbeccata dal Vaticano. Il Pdl in commissione Affari sociali ha avuto un atteggiamento grottesco. E comunque questo irrigidimento provocherà più problemi al centrodestra che a noi».

E anche se non dà sponda alla Roccella, Fioroni, leader ex Ppi, rivendica libertà di coscienza all´interno del partito. Lui del caso Eluana pensa che non andassero sospese alimentazione e idratazione artificiale. Per Sarubbi, cattolico del Pd, «con le chiusure ideologiche non si dialoga, è caricaturale fare i cani da guardia dei valori cattolici».


Repubblica 8.6.10

Tempo pieno alle elementari, è caos "Non c´è posto per 150mila bambini"

Tagli alle prime classi, rivolta dei genitori. Proteste in tutta Italia

La scure del ministro Tremonti chiuderà le porte a migliaia di famiglie

di Salvo Intravaja


ROMA - Oltre 150 mila bambini di prima elementare restano fuori dal tempo pieno e fioccano le proteste dei genitori. Ma il ministro dell´Istruzione, Mariastella Gelmini, spiazza tutti. «Aumenta il tempo pieno nella scuola italiana: nel prossimo anno scolastico saranno attivate 782 classi a tempo pieno in più, per un totale di 37.275 classi. E per il secondo anno consecutivo aumentano gli alunni che potranno usufruire di questo quadro orario». In effetti, come sostiene la ministra, le classi a tempo pieno cresceranno, ma le prime (quelle condizionano le scelte anche per gli anni successivi) in moltissime realtà sono in netto calo.

Così le proteste non si placano, perché dopo il boom dell´anno scorso (1.505 prime classi a tempo lungo in più dell´anno precedente) quest´anno la scure del ministro dell´Economia, Giulio Tremonti, si è abbattuta sulle prime classi, chiudendo le porte a migliaia di famiglie. A Milano, per due giorni, insegnanti e famiglie hanno dato vita alla "protesta festosa anti-Gelmini": saranno almeno 3 mila i piccoli fuori dal tempo lungo. A Roma, le famiglie deluse saranno 4 mila. Nella Capitale, la protesta è partita dalle scuole che si sono viste tagliare le prime a tempo pieno: 4, anziché 6 al Principe di Piemonte e alla Leonardo da Vinci. Mentre una delegazione di genitori del circolo Iqbal Masih nei giorni scorsi si è incatenata davanti ai locali dell´Ufficio scolastico provinciale (l´ex provveditorato). A Firenze il comune pensa a un servizio di "custodia" post-scuola per i bambini a cui sarà negato il tempo prolungato, ma occorrono 300 mila euro. E a Bologna, i genitori hanno impacchettato le scuole con volantini e manifesti facendo partire la campagna "Tutti devono sapere" e il 10 giugno torneranno a protestare. Lo slogan è: "La scuola non è finita".

Dopo la comunicazione degli organici relativi al prossimo anno, la protesta si è allargata in quasi tutte le città italiane: Torino, Napoli, Bari, Palermo. Con l´occupazione simbolica degli uffici scolastici provinciali e degli uffici scolastici regionali ad opera della Flc Cgil, supportata da genitori e insegnanti. Ma, se il tempo pieno aumenta, come afferma la Gelmini, allora, perché i genitori protestano? A spiegarlo è Giuseppe Adernò, preside dell´istituto comprensivo Parini di Catania che ieri, dopo avere invitato la ministra a presiedere l´evento, ha sorteggiato i posti a tempo pieno. «Nel corrente anno scolastico - spiega Adernò - all´Istituto Parini sono state attivate due classi a tempo pieno, servizio molto apprezzato dai genitori dei 50 bambini frequentanti. Per il prossimo anno le richieste sono aumentate a 77. Pertanto - prosegue - sono state richieste tre prime classi a tempo pieno». Ma sugli organici della scuola elementare incombe come un macigno il taglio di 8.709 cattedre. «In prima battuta - prosegue Adernò - non sono state autorizzate prime a tempo pieno nel mio istituto e solo dopo tante richieste ne è "arrivata" soltanto una».

In provincia di Milano ne salteranno 154, tra Roma e provincia 97 e a Palermo trovare una prima a tempo pieno sarà una specie di lotteria: appena 9 classi in tutto. E coloro che non avranno il tempo pieno a settembre, non lo otterranno neppure nelle classi successive. Il calo delle prime a tempo pieno è solo la punta dell´iceberg di un servizio richiesto in massa soprattutto dai genitori che lavorano, ma che il governo lesina. Per comprenderlo basta confrontare due dati. Gli alunni della scuola materna (ora dell´Infanzia) che fruiscono del tempo lungo (Tempo normale) sono 90 su 100, ma quando si accede all´elementare la percentuale precipita al 27%. Il calcolo è abbastanza semplice e dice che circa 150 mila bambini ogni anno restano fuori dal tempo pieno. Ecco spiegate proteste e sorteggi.


Repubblica 8.6.10

Libro risponde ai dubbi sull’identità del grande drammaturgo

Shakespeare mistero risolto

L’ossessione per l’autore ha riguardato anche Omero: per alcuni era una donna

di Nadia Fusini


È o non è William Shakespeare di Stratford l´autore di quel corpus di opere che va sotto tale nome? Shakespeare è un vero nome, o un nome finto, uno pseudonimo? Della contestata attribuzione si occupa lo studioso James Shapiro in Contested Will (Faber, pp.367, £20), libro che potrebbe mettere fine all´ansia, perché chi legga sino alla fine non potrà avere dubbi: Shakespeare è Shakespeare, non è Francis Bacon, né Edward de Vere, conte di Oxford, né Christopher Marlowe, né la regina Elisabetta… Perché sì è detto di tutto, e alle ipotesi più stravaganti sono abboccati non solo dei creduloni – un nome per tutti, Sigmund Freud. Ma si aggiunga alla lista Mark Twain, Henry James… Con pazienza e senza disprezzo Shapiro ci accompagna nelle contorte peregrinazioni alla ricerca del "vero" Shakespeare, che nasce da una diffidenza, da un pregiudizio: nella sostanza, non si riesce a credere che un provinciale, un uomo qualunque possa essere stato capace di tanto. Troppo sembra conoscere l´autore di Amleto, di Lear, di Otello, troppo profondo è il suo pensiero, troppo vasto il suo intelletto, troppo raffinata la sua lingua: non può essere un uomo qualunque, di una qualunque città di provincia. Il quale, in più, alla fine abbandona baracca e burattini e vi torna, e compra case, stemmi, e pensa solo ai soldi, per soldi litiga, come se l´unica cosa che conti siano i possessi materiali. Vi pare una mentalità da grande scrittore, questa? (si può osservare che non sarebbe certo il primo Shakespeare a scrivere per soldi; anzi da che mondo è mondo pare che il denaro sia la grande molla dell´ispirazione.) Ma per certi idealisti che avevano assunto Shakespeare a Bibbia laica, non poteva essere così.

Delia Bacon, un´americana stravagante, forse anche perché si chiamava come si chiamava, decise che l´autore del corpus shakespeariano era Francis Bacon e venne in Inghilterra a cercare prove dentro la tomba del poeta, ed era pronta a scavare, se non le fosse stato impedito, convinta com´era che nella bara avrebbe trovato le prove. Un altro, che si chiamava Looney, nomen omen anche in questo caso (perché loony sfuma nell´idea di lunatico, eccentrico, fuori di testa) invece è convinto che sia il conte di Oxford, e non importa che il conte muoia ben prima che Shakespeare smetta di scrivere. Altri ancora ricorrono a sedute spiritiche, per farsi dire la verità proprio da lui, da Shakespeare.

All´inizio della quête, che Shapiro descrive con brio e pazienza, c´è un peccato originale. Risale al 1790, quando Edmond Malone lavora a una nuova edizione dei drammi shakespeariani, che vuole in ordine cronologico, e tale ordine crede di poter costruire in base ai rimandi personali, biografici, che cerca nei testi, quasi che si potesse scrivere solo di cose che si conoscono perché le abbiamo vissute. È il grande abbaglio che acceca Freud (secondo il quale Shakespeare non poteva scrivere l´Amleto se non dopo la morte del padre), e prima ancora giustifica chi dirà: come faceva Shakespeare a sapere tutto dell´arte della falconeria, se non era un aristocratico? Come faceva a sapere tutto di una nave, se non aveva mai navigato?

Il punto è che con l´epoca moderna, si cominciò a dubitare di tutto: ad esempio, chi aveva scritto l´Iliade? Chi l´Odissea? Lo stesso autore? Impossibile, decretò Samuel Butler: si capisce subito che l´Odissea l´ha scritta una donna, che sa come si tendono i panni al sole, si piegano le lenzuola e come si tesse al telaio. E difatti, è una principessa siciliana, di Trapani, l´autrice. Mentre è certamente un uomo che sa tutto della guerra ad aver scritto l´Iliade. E se per quello chi aveva scritto la Bibbia? Era davvero credibile che fossero dei pescatori ignoranti? Non erano analfabeti i discepoli?

Qui il libro si fa non solo interessante, ma cogente, dimostrando come il concetto di autorità e autorialità e identità e proprietà si stringano in nodo intrinseco e problematico, tanto da produrre nuove interpretazioni, succubi tutte dello Zeitgeist; dalle quali si evince che non la verità, ma il mito domina e guida la vicenda. E il mito trionfa proprio allontanando dalla cosa vera, evocando false ombre, sembianti. Basterebbe leggere, Shakespeare è lì; se non gli si vuol credere, se non si vuol credere alle testimonianze di chi l´ha incontrato, ai contemporanei che della sua esitenza testimoniano, è senz´altro perché un certo fanatismo occulteggiante è la strada che da che mondo è mondo prende la fantasia. Mentre per conoscere Shakespeare ci vuole intelligenza e immaginazione.


Repubblica 8.6.10

Lo scrittore francese e il libro, ora tradotto nel nostro Paese, da cui fu tratto il film di Beineix

Djian: "La mia Betty blue finalmente in Italia"

"Ho sempre detto che quando sto male mi serve di più andare in libreria piuttosto che dal medico: la letteratura è un´ottima terapia per molte cose"

di Daria Galateria


Filippe Djian ha ascoltato, adolescente, Kerouac. Un amico gli aveva prestato il nastro; il "poeta jazz" leggeva Mexico City Blues, un pianoforte di sottofondo – Djian fu affascinato da quella letteratura trasformata in mantra. Ancora oggi, si considera un erede della Beat Generation; in giacca di cuoio, ha praticato forti amicizie, molti viaggi e qualche eccesso da "Generazione perduta" – fumo, alcol, notti bianche, ragazze, sognando l´America; e continua a traslocare, oramai con moglie e figli, da Biarritz a un´isola, da Boston a Firenze, da Losanna a Parigi, dove è nato giusto sessant´anni fa; ora è a Bordeaux. E è così che i suoi romanzi magnifici sembrano romanzi americani.

Sono storie che filano a velocità siderale; ogni frase un mondo di sentimenti rovesciato in una formula inaudita e corta, tutta azione e oggetti, e lanciata con naturalezza verso accadimenti atroci («quel pugno se l´è portato alla bocca, come a dargli un bacio, e l´attimo dopo l´ha fatto passare attraverso il vetro della finestra»). Quando la rivelazione per il lettore è troppo crudele, Djian lascia uno spazio bianco, come il salto di un battito; subito il corso rock degli affetti riparte, senza il tempo di cicatrizzare. Ma "la tenerezza è una roba impossibile da smerciare"; così sono storie noir all´apparenza.

Dal 1986, Djian è in testa alle classifiche: è stata Béatrice Dalle, smagliante faccia della giovinezza e della follia, la Betty Blue del film di Jean-Jacques Beineix, a far conoscere 37°2 al mattino, che esce ora in Italia (pagg. 376, euro14) da Voland, dove sempre Daniele Petruccioli ha già tradotto Gli imperdonabili, splendido testo sul lutto impossibile.

Philippe Djian è a Roma, per Massenzio Letterature, stasera. Lei è l´unico scrittore francese a scrivere romanzi americani, gli dico. «Non so se è un complimento» – ride Djian – «il problema è essere contemporaneo alla propria lingua. Non so come va in Italia, ma in Francia il 95% degli scrittori scrive come se si fosse ancora nel XIX secolo. Il francese è una lingua bellissima, ma bisogna aggiornarla, se no muore, proprio perché è una cosa vivente. Occorre un nuovo modo di guardare le cose. Il regista giapponese Ozu ha preso la camera e la ha messa a livello del suolo; di colpo le cose che filmava hanno preso un´aria diversa. Erano cose semplici, una coppia, persone sedute a tavola – ma cambiando l´asse cambiava la rappresentazione del mondo. Le storie non sono importanti; certo non bisogna tradire un certo misto di grottesco, orrori e bellezza che è il moderno. Però Céline diceva: se volete delle storie, basta aprire un giornale. Mentre lo scrittore assomiglia al cineasta che si chiede: cosa inquadro? E con quali luci?».

Il ritmo dei romanzi di Djian è un prestissimo. La musica per lui deve essere molto importante. «Appartengo a una generazione che ha conosciuto tutto attraverso la musica», conferma. «Anche l´embrione di coscienza politica che si poteva avere all´epoca era Bob Dylan che cantava It´s a hard rain´s a-gonna fall, erano poeti e cantanti che ci conducevano alla scoperta della bellezza e forse della storia. Era chiaro per me, la letteratura come la musica è un´onda, qualcosa che si sente col corpo più che con lo spirito. Sono un musicista mancato» – aggiunge – «e solo perché sono sordo da un orecchio». Quale musica sente di preferenza? «In questo momento molte cose sperimentali italiane degli anni Settanta. E anche del field recording, registrato nella strada o nella natura. E il milanese Giuseppe Ielasi, con la sua musica minimale. Per le canzoni ho passato l´età. Ma amo gli Animal Collective, The Residents».

Djian ha fatto musica con Stephan Eicher; ha rapporti con la pittura (il recente La fin du monde, quasi un rap trascritto sulla tela da Horst Haack), col cinema e perfino con la tv. Gli domando se pensa che la serialità abbia qualcosa da insegnare a un romanziere. «Serie come Six Feet Under propongono un format interessantissimo. Non c´è più un centro, ci sono molti centri, nelle storie. Non si deve più descrivere ogni personaggio; si entra in azione subito. Nella competizione tra segno e immagine, mi sono divertito a fare una serie, Doggy Bag, finita in tv… Ma resto legato al segno, alla lingua». La fiducia di Djian nel ruolo della letteratura oggi è piuttosto straordinaria. «Una volta ho detto: quando non mi sentivo bene non andavo dal medico, andavo dal libraio. La frase è piaciuta tantissimo, ne hanno fatto una affiche. Ma era vero, semplicemente. Quando ero a disagio andavo a comperarmi magari Cendrars, il poeta, e poi cercavo come lui di imbarcarmi in un cargo verso la Colombia; l´ho fatto. Ho bisogno di una letteratura che mi sia utile. C´è un´espressione in Francia – Proust non mi aiuta a attraversare la strada. Carver e compagni erano capaci di prendere il mondo in cui vivevano e metterlo in una frase; era una frase-mondo. Diceva Hemingway che il vero scrittore, quando descrive la punta emersa di un iceberg, fa sentire la massa enorme che c´è sotto».

André Téchiné, il regista della Deneuve, sta finendo Terminus des anges, tratto da Gli Imperdonabili. C´è Carole Bouquet, e un´imbronciata Mélanie Thierry; l´adolescente difficile è Lorenzo Balducci. E´ contento del film?, – chiedo a Djian. «Ah, certo. I fratelli Larrieu hanno comperato il mio ultimo lavoro, Incidences. Ma in questo momento sono preso dalla sceneggiatura di un altro mio romanzo, Impuretés. Lo dirigerà Julie Granier, quasi sconosciuta. Ma bisogna andare a cercare i Godard di domani, e cercarli oggi».

lunedì 7 giugno 2010

l’Unità 7.5.10
Oggi Roma, ore 15: la grande manifestazione per la cultura e la libera informazione
Tutti insieme Sindacati, Articolo 21, Usigrai e altri: il disegno del governo è oscurare il paese
Giornalisti Domani sit-in della Fnsi davanti a Montecitorio con tutti i cdr d’Italia
In piazza contro i tagli e i bavagli alle coscienze
L’appuntamento è per le ore 15 in Piazza Navona. Ci saranno i lavoratori dei teatri di prosa e d’opera, i giornalisti, gli istituti culturali, gli archeologi, i ricercatori... contro lo scardinamento della cultura in Italia.
di Luca Del Fra

Doveva essere la manifestazione dei lavoratori delle fondazioni lirico-sinfoniche contro il decreto Bondi ma l’iniziativa si è gonfiata fino a esondare trascinando con sé il mondo della cultura e dell’informazione. Oggi alle 15 a Piazza Navona, oltre ai lavoratori dei teatri d’opera ci saranno anche quelli di cinema, teatro di prosa, musica e danza in generale, insieme agli autori, gli istituti culturali, la Federazione nazionale stampa italiana, Articolo 21 e Usigrai. Lo slogan quindi si è ampliato «contro i tagli e contro i bavagli», e sempre oggi il Pd lancia una giornata di sensibilizzazione sui temi della cultura e dell’informazione in una decina di città italiane. Anche se le due iniziative sono diverse, che ci fanno teatranti, cinematografari, giornalisti, archeologi, musici, scrittori tutti assieme?
«Bisogna dire che purtroppo il governo ci ha dato una mano scoprendo le carte –spiega Silvano Conti della Slc-Cgil–: il disegno è scardinare tutta la cultura pubblica in Italia. Si colpiscono i teatri lirici, si chiudono o definanziano gli istituti di cultura, quelli di ricerca, i musei e nello stesso momento si tenta di oscurare i mezzi di informazione e si taglia scuola, università, ricerca». La Slc-Cgil, con gli altri sindacati di categoria, era stata tra le promotrici di questa manifestazione contro il decreto Bondi, che sta seguendo l’iter di conversione in legge e che vuole trasformare i grandi teatri lirici, come la Scala, il Maggio Fiorentino, il San Carlo di Napoli in teatri di provincia. Il decreto che dava la colpa dei deficit dei nostri teatri lirici ai lavoratori, paradossalmente ha evidenziato come a mettere in ginocchio non solo la lirica ma tutto il settore cultura siano proprio i tagli ai finanziamenti dello stato alle attività culturali, tra i più magri d’Europa: per il 2011 per tutto lo spettacolo, compresi circhi, spettacoli viaggianti, teatro, musica danza e cinema sono previsti 311 milioni, la Francia solo per l’Opéra de Paris stanzia oltre 100 milioni di euro.
Tuttavia la primavera è stata teatro di una offensiva governativa a tutto campo: pochi giorni dopo il decreto sulle fondazioni è arrivata la legge sulle intercettazioni telefoniche, che colpisce sia la libertà di stampa che quella di indagine. Infine con la manovra firmata dal ministro Giulio Tremonti la scure è calata sugli istituti di cultura, da quelli intitolati a Gramsci e De Gasperi fino a quello intitolato a Craxi, per non parlare della Stazione biologica di Napoli, l’Eti o la Quadriennale di Arte Contemporanea di Roma il cui presidente Gino Agnese, intellettuale di destra, ha chiesto le dimissioni del ministro Bondi.
I tagli alle attività culturali sono mascherati dietro l’emergenza della crisi, ma in realtà fin dalla prima vittoria elettorale del 1994, i governi di Berlusconi hanno sempre e incondizionatamente fatto tagli al settore di cultura, scuola, università e ricerca. E lo hanno fatto al di là della congiuntura economica. «C’è un filo nero che collega questi tagli e decreti contro la cultura alla legge sulle intercettazioni –spiega Giuseppe Giulietti portavoce di Articolo 21 del gruppo misto della Camera–: è il tentativo di oscurare la coscienza e la conoscenza. Un oscuramento etico e culturale prelude alla vera macelleria sociale. Domani la Fnsi ha indetto una manifestazione davanti a Montecitorio con i comitati di redazione di tutte le testate italiane. A questa reazione degli oscurati, siano giornalisti o esponenti della cultura, deve seguire il coinvolgimento degli oscurandi, cioè di tutti i cittadini». Nasce così la proposta di una manifestazione nazionale lanciata ieri dallo stesso Giulietti e da Vincenzo Vita del Pd.

l’Unità 7.5.10
Cgil, verso lo sciopero e la nuova segreteria

Il direttivo della Cgil che inizia oggi proclamerà lo sciopero generale contro la manovra. All'ordine del giorno c’è anche il rinnovo della segreteria confederale. Tre dei segretari (Morena Piccinini, Paola Agnello Modica, e Nicoletta Rocchi) sono in uscita perché il loro mandato è scaduto. Piccinini potrebbe guidare l’Inca. Lascerà anche Agostino Megale, per andare a dirigere i bancari (Fisac) dopo le dimissioni di Mimmo Moccia e la guida transitoria di Carlo Ghezzi. Tra i nuovi ingressi, si fa il nome di Serenza Sorrentino, 32 anni, oggi alle Pari opportunità. Certa è anche l’entrata di Nicola Nicolosi, coordinatore di «Lavoro e società» e quelle dei segretari uscenti dell’Emilia, Danilo Barbi, e del Piemonte, Vincenzo Scudiere. Altre nomine, tra cui un o una rappresentante dei lavoratori migranti, sembrano slittare a settembre quando anche Guglielmo Epifani lascerà. Al suo posto viene data Susanna Camusso.

l’Unità 7.5.10
Viaggio nell’Israele dei pacifisti minacciati dai falchi
A Tel Aviv più di diecimila in piazza Rabin per dire no al blitz militare e chiedere giustizia per i palestinesi di Gaza. Il leader storico Ury Avnery circondato da un gruppo di ultrà. Sternhell: «È un campanello d’allarme»
di Umberto De GIovannangeli

L'altra Israele scende in piazza in nome della verità e della giustizia. Verità sugli attacchi alla «Freedom Flotilla». Giustizia per la popolazione di Gaza sfiancata da tre anni di embargo. Scende in piazza, l'altra Israele. E lo ha fatto in una piazza dedicata al generale, Yitzhak Rabin, che osò la pace con l'Olp di Yasser Arafat e per questo fu assassinato da un giovane zelota dell'ultradestra ebraica. Alza la testa, l'altra Israele. E per questo subisce l'aggressione dei fanatici di «Eretz Israel». È accaduto l'altra notte, a Tel Aviv. In migliaia, più di diecimila, si erano radunati in Piazza Rabin per protestare contro l'occupazione dei Territori palestinesi e contro il blitz israeliano sulla nave turca Mavi Marmara, mentre era diretta a Gaza con aiuti umanitari . Una bella manifestazione, una delle più significative tra quelle organizzate dal variegato arcipelago della sinistra pacifista israeliana, con una adesione di movimenti disparati, da Gush Shalom (Pace Adesso), fino al partito comunista arabo-ebraico Hadash.
Quella protesta suonava come una provocazione per i gruppi oltranzisti israeliani. Le invettive non bastano più. Occorre passare all'intimidazione fisica. Quei pacifisti vanno trattati come traditori. E i «giustizieri» provano a prendersela con un uomo di 87 anni. Il simbolo di un pacifismo irriducibile: Uri Avnery. I dimostranti di destra, racconta Avnery, hanno cercato di disturbare i comizi e qualcuno ha anche lanciato nella folla un candelotto fumogeno. «Forse quel qualcuno sperava di creare panico, ma la nostra reazione è stata compassata», aggiunge Avnery che si trovava, con la moglie, a due metri di distanza. «Al termine della manifestazione, mentre accompagnato da un paio di amici e da mia moglie attraversavo la centrale via Ibn Gvirol per salire in macchina – denuncia il leader pacifista siamo stati circondati da una decina di persone ben organizzate». «Hanno cercato a forza di impedirmi di entrare nella macchina, mentre ci gridavano: “Andate a Gaza, maniaci». Avnery ha avuto la sensazione che presto sarebbero passati anche alla violenza fisica, ma l'intervento tempestivo della polizia lo ha salvato.
«Quando alla Knesset si grida “vattene a Gaza” ad una parlamentare araba israeliana, quando lo stesso veleno dal Parlamento si sparge nelle piazze, allora vuol dire che qualcosa di molto grave sta avvenendo dentro la società israeliana e nelle sue istituzioni», dice a l'Unità Yossi Sarid, fondatore del Meretz (la sinistra sionista), più volte ministro e oggi editorialista di punta del quotidiano Haaretz.
«La cosa più grave è che questi fanatici trovano coperture e giustificazioni tra le forze che oggi governano il Paese. E sapere di essere protetti li rende ancora più aggressivi e pericolosi», aggiunge Yael Dayan, scrittrice, già deputata laburista, figlia dell'eroe della Guerra dei sei giorni: il generale Moshe Dayan. Il clima è pesante. Chi non si adegua viene tacciato di essere una quinta colonna di Hamas nello Stato ebraico. «Questa caccia al pacifista è un campanello d'allarme per tutti coloro, non importa se di sinistra, centro o destra, in Israele hanno a cuore la democrazia», ci dice Zeev Sternhell, lo storico che per aver denunciato la violenza dei coloni è rimasto vittima di un attentato (25 settembre 2008. In questo quadro, incalza Uri Avnery, «il compito della sinistra israeliana in questa fase è di lottare contro il lavaggio del cervello e la propaganda stolta ispirati dai falchi e i razzisti che siedono al Governo».
Il clima di intolleranza l'abbiamo respirato l'altro giorno ad Ashdod, tra una folla di oltranzisti che ha accolto con fischi, urla, invettive l'ingresso nel porto della «Rachel Carrie», la nave della Freedom Flotilla intercettata dalla Marina militare israeliana mentre tentava di raggiungere Gaza. Un clima da Paese in guerra. E chi si sente in guerra non ammette defezioni né accetta voci contrarie. Nella «hit» dell'odio, il premier turco Recep Tayyip Erdogan ha quasi raggiunto il presidente iraniano Mahmud Ahmadinejad. «I turchi sono esperti di genocidi, basta vedere cosa hanno fatto agli armeni», sentenzia David Wilder, uno dei capi dei coloni ultrà di Hebron (Cisgiordania). «La lista dei Nemici si allunga di giorno in gior-
no. Questa psicosi dell'accerchiamento si sta trasformando in paranoia. E questo non fa ben sperare per il futuro», osserva preoccupato Amram Mitzna, ex segretario generale e “colomba” laburista. Preoccupazioni condivise dal suo compagno di partito e attuale ministro (Affari sociali), Isaac Herzog : «È tempo di sollevare il blocco (di Gaza), ridurre le restrizioni alla popolazione e cercare altre alternative”, ha affermato ieri nel corso della seduta domenicale dell'esecutivo.
L'altra Israele chiede verità sull' attacco alla Mavi Marmara e sostiene la richiesta di una commissione d'inchiesta internazionale. Ma fa i conti con il no del governo. Benjamin Netanyahu ha bocciato la proposta avanzata dal segretario generale delle Nazioni Unite, Ban Ki-moon, per l'istituzione di una commissione d'inchiesta internazionale sul blitz compiuto dagli incursori della marina israeliana a bordo della Mavi Marmara. A capo della commissione, secondo Ban, sarebbe nominato l'ex premier neozelandese Geoffrey Palmer, e ne farebbero parte anche rappresentanti di Israele, della Turchia e degli Stati Uniti. Aprendo la riunione del Consiglio dei ministri, Netanyahu riferisce di averne parlato direttamente con Ban, al quale ha spiegato che «l'indagine sui fatti dovrà essere svolta in modo responsabile e obiettivo». «Abbiamo bisogno di considerare la questione attentamente, salvaguardando gli interessi di Israele e dell' esercito israeliano», aggiunge il premier che in serata ha riunito il Gabinetto di sicurezza.
Nella seduta di governo, Netanyahu ha detto anche che a bordo della nave turca c'era un gruppo omogeneo, salito a bordo da un porto diverso da quello degli altri passeggeri, senza sottoporsi a ispezioni, ben equipaggiato e «fermamente deciso» a ricorrere ad una violenza organizzata. A dar man forte al premier ci pensa il ministro degli Esteri, Avigdor Lieberman: Israele, afferma Lieberman, è uno Stato sovrano e dunque l'indagine deve essere condotta «con i nostri propri mezzi». E questi mezzi sono stati utilizzati dal Governo israeliano per ordinare in serata l'espulsione in aereo verso l'Irlanda di undici passeggeri della Rachel Corrie. Fra gli espulsi ci sono Mairead Maguire, Premio Nobel per la pace, e Denis Halliday, ex vice segretario generale dell' Onu. In precedenza erano stati espulsi verso la Giordania altri sette passeggeri, di nazionalità malese.

Repubblica 7.6.10
Espulsi tutti gli attivisti della Rachel Corrie. Il governo: "Cinque passeggeri della Mavi Marmara vicini ai terroristi"
Pacifisti, sfida al blocco navale "Pronti a una nuova missione"
di Alessandra Baduel

Gli attivisti della "Rachel Corrie" pensano alla nuova Freedom Flotilla. Determinati a ripartire verso Gaza appena possibile, sono disposti a guardare al passato solo per tornare a denunciare l´assalto alla "Mavi Marmara", sul quale gli attivisti già tornati nei loro Paesi continuano a fornire nuovi elementi. I 19 a bordo dell´ultima nave della Flotilla, bloccata sabato dagli israeliani, sono in parte già ad Amman da ieri, in parte in arrivo a Dublino questa mattina, inclusa la premio Nobel Mairead Maguire.
«Siamo delusi, l´obiettivo era Gaza»: il primo a parlare, passato il ponte di Allenby che divide Israele dalla Giordania, è stato Matthias Chang, avvocato, politico e scrittore malese, attivista della Perdana Global Peace come Shamsul Kamal e Ahmed Faizal Bin Azumu. Il gruppo malese include anche il deputato Mhod Nizar Zakaria e due giornalisti dell´emittente TV3, Abdul Halim Bin Mohamed e Mohd Jufri Bin Mohd Judin. Con loro c´erano un marinaio cubano dell´equipaggio e un ottavo espulso, il giornalista indonesiano Surya Fachrizal della rivista Hidavatullah, colpito sulla "Mavi Marmara": ha una ferita da arma da fuoco al petto, fino a ieri non era trasportabile. Ora è ricoverato ad Amman.
«Siamo portatori di un messaggio di pace - ha detto ancora Matthias Chang - Siamo molto tristi per la perdita di vite umane che c´è stata sulla "Mavi Marmara", il messaggio che deve prevalere nel mondo è "non fatelo mai più, non usate le armi". Tenteremo un´altra missione il prima possibile». Quella nuova missione ha già seguaci fra attivisti come i quattro indonesiani che hanno omaggiato al grido di «Allah è grande» l´ambulanza del conterraneo arrivato in Giordania, mentre Hamas saluta «i simpatizzanti della "Rachel Corrie"» e accusa Israele di un nuovo «blitz sionista». Si è fatta sentire anche la voce dei Guardiani della Rivoluzione iraniani: «Siamo pronti a scortare le flottiglie degli aiuti», dice da Teheran la loro guida Ali Shirazi.
Nelle stesse ore, Israele dichiara che sulla Mavi Marmara c´erano cinque passeggeri legati al terrorismo, di cui due di Hamas e uno vicino ad Al Qaeda. Sui siti del Free Gaza, si accavallano altre denunce: «Quattro feriti gettati in mare dagli israeliani - dice Idris Simsek, attivista che era a bordo della Mavi Marmara, al giornale turco Today´s Zaman - e ho visto sparare a un uomo che sventolava una bandiera bianca». La cineasta Iara Lee, dal Brasile: «Un massacro, ma abbiamo filmato tutto». Sul suo blog "Intifada elettronica", Ali Abunimah pubblica le foto del giornale turco Hurriyet: dei passeggeri in giubbotto salvagente tamponano le ferite di giovani con indosso la divisa israeliana. «Loro i soldati li stavano aiutando», commenta. Per Israele, le stesse foto sono prova dell´aggressione subita.

Repubblica 7.6.10
Nell´inferno di Gaza isolati dal mondo "Così ci fanno morire lentamente"
La disperazione di chi aspettava cibo e medicine: quelle navi ci salvano la vita
Reportage da Gaza senza cibo nè medicine
di Pietro Del Re

Aziz gestiva una fabbrica tessile Adesso ha chiuso per mancanza di materia prima
L´80% dei beni di consumo, dalla farina alle moto, entra a Gaza dai circa 1.600 tunnel
Taisir, 5 anni, è tetraplegico. Il padre: "Non mi danno il visto per farlo curare"

GAZA CITY - È un mare torbido e maleodorante quello da cui doveva arrivare la manna umanitaria fatta di medicinali, cemento, quaderni, giocattoli e tutti quei beni che nella Striscia scarseggiano dal 2006, da quando cioè Israele ha cominciato a soffocarla lentamente, chiudendone i valichi terrestri e isolandola con un impenetrabile blocco navale. «Nutrivamo tutti molte speranze nella nave turca, perché sapevamo che era piena di attivisti e che questi non si sarebbero arresi facilmente», dice Aziz, il quale prima dell´embargo gestiva una fabbrica tessile in cui lavoravano cinquanta persone, ma che un paio d´anni fa è stato costretto a chiudere per mancanza di materia prima. Aziz sperava che l´arrivo della Flottiglia Free Gaza avrebbe concentrato l´attenzione dei grandi network internazionali sulle sofferenze della sua gente. «Da questo punto di vista è andata benissimo: mai come in questi giorni si è parlato delle conseguenze del blocco israeliano. E questo lo dobbiamo ai martiri della "Mavi Marmara"».
Sulle case grigiastre che costeggiano la spiaggia, sventola qualche bandiera turca. L´aria è impestata dal fumo delle bancarelle dove vengono arrostiste pannocchie ancora acerbe. Dopo il cruento arrembaggio di lunedì scorso, quando due giorni fa s´è stagliata all´orizzonte la sagoma della "Raquel Corrie", gli abitanti di Gaza l´hanno appena degnata di uno sguardo. Sapevano che gli israeliani avrebbero intercettato anche il cargo irlandese. Dice Aziz: «Sarebbe stato umiliante accettare quei doni, ma siamo ridotti così male che non avremmo potuto rifiutarli».
Nel porticciolo dove dovevano attraccare le imbarcazioni dei pacifisti molti capannoni sono chiusi. Padre di dieci figli, Soher Bakir ci spiega che da quando c´è il blocco navale, ai pescatori non è consentito allontanarsi più di due miglia dalla costa, perciò oltre la metà della flotta di pescherecci è ormai in disarmo. «Il nostro mare non è più pescoso come una volta, quindi, per sfamare la mia famiglia, la notte sono costretto ad avventurarmi oltre il consentito, rischiando ogni volta la vita. Quando superi di poche decine di metri il limite stabilito, la marina israeliana ti spara addosso», dice Bakir che, suo malgrado, ha cominciato ad acquistare salmone surgelato importato a Gaza dai grossisti di Tel Aviv.
Ex combattente delle milizie Azzadine el Qassam, il braccio armato di Hamas, Hamed Hassan è oggi uno dei leader dell´organizzazione estremista islamica. «Inizialmente i vertici di Hamas erano contrari all´arrivo della flotta umanitaria, perché sostenevano che sarebbe stato come chiedere l´elemosina. Poi, una volta capito il risvolto politico della faccenda, hanno cambiato parere. Ma attenzione: ricevere gli aiuti è anche un´ammissione della nostra incapacità a gestire l´embargo di Israele». Quando gli chiediamo se è per questo motivo che Hamas non lascia entrare a Gaza il carico della "Mavi Marmara" che gli israeliani vorrebbero adesso consegnare ai loro destinatari originari, così risponde Hassan: «Non vogliamo prestarci al gioco di Israele che con una mano accarezza i nostri figli mentre con l´altra cerca di sgozzarti. Netanyahu e i suoi ministri vorrebbero farsi passare per benefattori. Ma si sbagliano se credono di farci la carità».
Emblematica è la storia del piccolo e sorridente Taisir al Burai, cinque anni, da quattro tetraplegico per via di un farmaco sbagliato. Secondo i medici palestinesi e stranieri che l´hanno visitato, la sola opportunità per farlo guarire, o quanto meno migliorare, consiste nel portarlo in Israele o in Germania o addirittura in Giordania, comunque lontano dai decrepiti ospedali di Gaza. «Sono due anni e mezzo che chiedo all´esercito israeliano un visto per uscire da Gaza, ma da allora ho ricevuto soltanto rifiuti», dice suo padre Ramzi, secondo il quale lo Stato ebraico discrimina i più poveri, in particolare se musulmani, come appunto gli abitanti della Striscia. L´esercito di Israele ha tuttavia rilasciato un visto alla moglie di Ramzi, che le permetterebbe di accompagnare il figlio all´estero, in una struttura sanitaria adeguata. «Perché non ce la mando? Perché c´è il rischio che dopo il valico di Erez mia moglie venga stuprata da una banda di ebrei. Ma potrebbe anche finire in un carcere dei servizi segreti israeliani, dove le farebbero il lavaggio del cervello».
Taisir necessita di farmaci che a Gaza difettano. In mancanza di meglio, il bimbo assume una molecola a cui ormai è assuefatto. Ma è proprio vero che nella Striscia scarseggiano le medicine? «Sì, mancano soprattutto quelli per le malattie croniche, che si tratti di anti-diabetici o di anti-ipertensivi. Abbiamo solo quelli che arrivano dall´Egitto attraverso i tunnel», spiega la farmacista Ranya al Daouk. «E´ perciò vitale che i farmaci portati dalle imbarcazioni umanitarie arrivino al più presto, anche se come ho letto da qualche parte sono in parte scaduti e anche se una volta giunti nei nostri ospedali vengono distribuiti non in base al bisogno del paziente ma piuttosto all´identità del malato».
Come i farmaci, anche l´80 per cento dei beni di consumo, dalla farina alle motociclette, entra a Gaza dai tunnel, che seconda una stima della polizia egiziana sarebbero circa 1.600. Secondo Mohammed Hassouna, proprietario dell´omonimo supermercato, questo significa che otto commercianti su dieci sono dediti al contrabbando. «Quanto agli altri sono morti di fame che vivono, o meglio sopravvivono, sia con le tessere alimentari dell´Onu sia di debiti», dice Mohammed. Il quale, per avvalorare la sua tesi, tira fuori da un cassetto un quaderno spesso come un elenco telefonico su cui da quattro anni segna i nomi di tutti i suoi debitori.

l’Unità 7.5.10
Intervista a Saeb Erekat

«La battaglia del mare un boomerang per Israele»
Il capo negoziatore palestinese: «Il mondo ha visto dove può portare l’unilateralismo. Ma non cadremo nella trappola di fermare la trattativa»

di Umberto De Giovannangeli

Avrà vinto la “battaglia del mare” ma ha perso quella della politica. Dopo gli attacchi alle navi della solidarietà, il mondo ha piena consapevolezza di dove può portare l'unilateralismo d'Israele». Incontriamo Saeb Erekat nel suo ufficio a Gerico (Cisgiordania). Il capo negoziatore dell'Anp, primo consigliere politico del presidente Mahmud Abbas (Abu Mazen) ha appena terminato un lungo giro di telefonate con «importanti interlocutori internazionali». «Tutti – dice Erekat a l'Unità – hanno condannato l'atteggiamento israeliano, dichiarandosi disposti a sostenere la richiesta di una fine immediata del blocco a Gaza». Dopo il sanguinoso blitz degli uomini rana israeliani contro la Mara Marmaris, il presidente Abu Mazen parlò di «crimine di guerra» e di «atto di terrorismo di Stato». Affermazioni gravi, che Erekat non rinnega: «Le navi della Freedom Flotilla – rimarca il dirigente palestinese – sono state abbordate in acque internazionali. Israele afferma di non avere nulla da temere. Ma se così è, perché non accetta che sia una commissione d'inchiesta internazionale a fare piena luce su una vicenda che, è bene non dimenticarlo, è costata la vita a nove persone?». La nostra conversazione è interrotta da un assistente di Erekat che comunica una telefonata importante: quella dell'inviato di Obama in Medio Oriente, George Mitchell. Il capo negoziatore del' Anp si assenta per una mezz'ora. Quando rientra appare più sollevato: «La Casa Bianca – ci dice – è consapevole che così non è possibile andare avanti e che prima che avvenga un disastro ancora più grande, è necessario agire per porre fine al blocco di Gaza, e in tempi rapidi».
Come leggere le drammatiche vicende di questi giorni? «Non posso che fare mie le parole della signora Pillay (l'Alto commissario dell'Onu per i Diritti umani, ndr): la legge umanitaria internazionale vieta di affamare un popolo come azione di guerra. Così come è contro il diritto internazionale imporre ai civili punizioni collettive. Hamas non può continuare ad essere l'alibi usato da Israele per giustificare l'ingiustificabile».
Ma questa denuncia non è in contraddizione con la decisione assunta dall' Autorità palestinese di riprendere i negoziati indiretti con Israele? Hamas vi ha attaccati per questo.
«Rinnegare la linea del negoziato è proprio quello che i falchi israeliani vorrebbero che noi facessimo. Ma non cadremo in questa trappola. E tanto meno lo faremo ora che il mondo ha più chiaro dove possa portare l'unilateralismo israeliano. Penso alla posizione assunta dall'Unione Europea, a quella americana, alle parole del Papa, del segretario generale delle Nazioni Unite. La prova di forza contro le navi della solidarietà ha indebolito politicamente Israele anche agli occhi di chi ne aveva sempre sostenuto a spada tratta le ragioni. Negoziare non significa cedere. Significa far valere le nostre ragioni anche in sede diplomatica. Ed è ciò che intendiamo fare. So bene che non è impresa facile e che ogni giorno siamo chiamati a fare i conti con iniziative delle autorità israeliane che contrastano palesemente con l'asserita volontà di dialogo. Penso alla colonizzazione in Cisgiordania e a Gerusalemme Est, penso al blocco di Gaza...Ma, lo ripeto, l'esibizione di potenza di cui ha dato prova Israele non è un segno di forza ma di debolezza».
Debolezza?
«Sì, debolezza. Perché non è attaccando navi pacifiste che Israele garantirà la sua sicurezza. Così alimenterà ancor più la rabbia non solo fra i palestinesi ma nel mondo arabo e musulmano, e nella stessa opinione pubblica europea. Spero che in Israele cresca la consapevolezza di ciò».
In una recente intervista a l'Unità, il leader di Hamas nella Striscia, Ismail Haniyeh, non ha chiuso le porte ad una forza d'interposizione tra la Striscia e Israele.
«È una proposta che l'Anp fa sua. Una forza internazionale sotto egida Onu può accompagnare la fine del blocco a Gaza e garantire la sicurezza di ambedue le parti. Aggiungo che questo meccanismo di verifica potrebbe poi presiedere all'attuazione di altri punti di un accordo di pace. Questo è un punto essenziale, perché le intese non basta firmarle, poi vanno applicate e fatte rispettare. E questo non potrà avvenire senza un impegno sul campo della Comunità internazionale, e in particolare del “Quartetto” (Usa, Onu, Russia, Ue) che ha tracciato un percorso di pace senza però definire tempi e modi della sua attuazione».
Un accordo che ha bisogno di un'”assistenza” internazionale. In particolare degli Usa. Delusi da Barack Obama? «No, non siamo delusi, semmai esigenti. Il presidente Obama crede davvero in un “Nuovo Inizio” in Medio Oriente e in una pace fondata sulla soluzione “due popoli, due Stati”. Per questo è osteggiato dalla destra oltranzista israeliana. A Obama, come all'Europa, chiediamo di dare continuità e maggiore determinazione alla propria iniziativa. Ora più che mai, perché, come dimostrato da quanto accaduto in questi giorni, il tempo non lavora per la pace”.
Si è più forti se si è uniti. Ma in campo palestinese l'unità tra Fatah e Hamas è una metà irraggiungibile? «Sarebbe una sciagura se fosse così. Per quanto ci riguarda, perseguiamo l'unità. Una base già c'è: ed è quella mediata a suo tempo dall'Egitto. Se Hamas l'accetta, il più è fatto».



Repubblica 7.6.10
Bioetica, dopo il caso Eluana ecco il rapporto ministeriale
"Lo stato vegetativo non esclude la coscienza"
di Alberto Custodero

"Anche chi è in stato vegetativo può essere cosciente"
Il rapporto degli esperti ministeriali dopo il caso Eluana. Roccella: ora via alla legge
Questi pazienti percepiscono il dolore: quindi vanno trattati con medicine adeguate
Nella maggior parte delle regioni non ci sono attrezzature per le cerebro-lesioni acquisite

ROMA - «Non si può escludere la presenza di elementi di coscienza» nei pazienti in stato vegetativo. Ma il «livello e la qualità di tali elementi di coscienza variano verosimilmente da paziente a paziente, anche in dipendenza dal contesto ambientale». Contrariamente a quanto finora sostenuto, («lo stato vegetativo è caratterizzato dalla mancata coscienza di sé e dell´ambiente»), è questa la conclusione destinata a fare discutere alla quale è giunto il "gruppo di lavoro sullo stato vegetativo e di minima coscienza" istituito dal ministero della Salute dopo il caso di Eluana Englaro. E presieduto dal sottosegretario Eugenia Rocella. All´indomani della morte di Eluana, Berlusconi - dopo aver espresso la sua contrarietà «all´eutanasia di Stato» - annunciò che «il vuoto normativo sul tema del fine vita» non sarebbe stato più lasciato «all´interpretazione della magistratura» ma sarebbe presto stato «colmato da una legge». Proprio mentre il nuovo testo della norma sul biotestamento è in dirittura d´arrivo alla Camera, il "documento finale" del "gruppo di lavoro Rocella" (insieme al "Libro bianco" redatto dalle Associazioni), arriva a fargli da corollario tecnico-etico-scientifico. E a denunciare una grave lacuna strutturale nel sistema sanitario nazionale: «Nella maggior parte delle regioni - sostengono gli esperti - non sono stati attivati veri percorsi regionali istituzionalizzati per la corretta gestione sanitaria delle gravi cerebrolesioni acquisite». Il trend dei malati in stato vegetativo dal 2002 ad oggi è in continuo aumento, anche se rimane ancora alto (fino al 42,3 per cento), la percentuale delle errate diagnosi. Per il futuro, dunque, si «raccomanda» l´istituzione di un «registro nazionale dei disturbi prolungati di coscienza con segnalazione obbligatoria dei casi».
Ma il punto nodale dello studio è quello che spiega come il medico, la società e l´opinione pubblica devono porsi nei confronti di questi particolari malati «con gli occhi aperti» la cui «sopravvivenza necessita di idratazione e nutrizione assistita». Ma che non sono in «coma alternando il sonno alla veglia».
Quando ci si avvicina ai loro letti per curarli e studiarli, dicono i "saggi" del ministero, «si compie una scelta etica fondata sia sul rispetto della persona, sia sul duplice rifiuto dell´abbandono assistenziale e dell´accanimento terapeutico». Il che, tradotto, significa: «per rispetto della persona» non va sospesa l´alimentazione assistita come avvenuto nel caso di Eluana («rifiuto dell´abbandono assistenziale»). Ma non bisogna ostinarsi in cure e trattamenti sproporzionati («rifiuto dell´accanimento terapeutico»), rispetto all´eventuale concreto risultato in termini di qualità ed aspettativa di vita. A tal proposito, il "gruppo di studio Rocella" è convinto che «il miglioramento dei modelli assistenziali e la ricerca scientifica possano offrire un importante contributo per far crescere l´efficienza in sanità, al fine di garantire maggiori livelli di giustizia per tutti i cittadini fondati su principi di equità e solidarietà all´interno del corpo sociale. E per far avanzare il livello complessivo di civiltà del Paese».
Per gli esperti della commissione ministeriale (Gianluigi Gigli, Antonio Carolei, Paolo Maria Rossini e Rachele Zylberman), infine, questi pazienti caratterizzati dalla «mancanza di coscienza del sé e dell´ambiente», in realtà, percepiscono il dolore. Nel loro stato di «incoscienza a occhi aperti» soffrono, pertanto il "gruppo di lavoro" raccomanda di «estendere la prescrizione di antidolorifici a tutti quelli in stato vegetativo ai quali siano diagnosticate verosimili fonti di dolore come ascessi e piaghe da decubito».

Repubblica 7.6.10
"Bella ciao", un pericolo per l´ordine costituito

Vorrei esprimere qualche riflessione scevra da indignazione o acredine di parte sull´episodio incorso al ministero della Pubblica Istruzione in seguito al canto di "Bella ciao", intonato da ragazzini e ragazzine, età media 12 anni, appartenenti ad un gruppo interclasse ad indirizzo musicale della scuola media inferiore "G. G. Belli" di Roma, invitati a prodursi con orchestrina e relativo accompagnamento corale, a viale Trastevere.
Era presente il sottosegretario Pizza e si è anche affacciata la ministra Gelmini. Al termine alcuni alunni, presto seguiti dagli altri, hanno intonato e suonato "Bella ciao". La canzone, pur non figurando nell´elenco di quel giorno, fa tuttavia parte del repertorio "musicale" del Belli ed era stata eseguita in molte altre occasioni. Si è trattato, comunque, di un fuori programma, difficile da confondere con un bis, in genere concesso altre volte ma con l´innocuo "tanto pe´ cantà". È lecito arguire che quegli adolescenti abbiano voluto in un certo senso mimare una forma di protesta mutuata dai cortei studenteschi, già visti tante volte direttamente o alla televisione. Nella forma e nella sostanza si è trattato di una manifestazione corretta, direi gentile, senza slogan e tanto meno espressioni di aggressività. Ciò detto la preside era nel suo diritto nel fare osservare ai ragazzi che quando si è chiamati a partecipare a una performance istituzionale è d´uopo attenersi al copione concordato, senza abbandonarsi a dissonanze che non sempre si concludono, come invece questa volta, in ordine e in allegria.
Quel che, invece, preoccupa è l´irato risvolto politico, fortemente polemico della lettera della preside a docenti, alunni e famiglie in cui stigmatizza lo «sconcertante episodio» che getterebbe «un´ombra di discredito difficile da dissipare, che ha messo in difficoltà la scuola Belli nel suo complesso», invita i genitori a scusarsi e a far capire che «se è giusto esprimere le proprie convinzioni anche se divergenti, è altrettanto giusto non assumere iniziative che travalicano i limiti dell´opportunità, del rispetto delle persone, della correttezza e del buon gusto». Frasi che si attaglierebbero ad un coro di sconcezze goliardiche e non a una spontanea, innocua disobbidienza adolescenziale. È seguito un fitto scambio di e-mail tra genitori, in grande maggioranza critici nei confronti della lettera. Alcuni hanno ricordato che fino a poco tempo fa "Bella Ciao" era quasi una canzone istituzionale, un canto di partigiani senza colore politico, in cui si possono riconoscere i democratici di ogni colore politico e le Istituzioni nate dalla Resistenza e dalla Costituzione.
Tutto vero, anche se non voglio pensare che la preside nutra sentimenti antidemocratici, ma piuttosto risenta, ed è forse più grave, di un clima generale di misconoscimento e snaturamento della storia d´Italia, con un ricasco polemico che svia il senso degli eventi. Questo può riguardare la Resistenza o, se visto in chiave leghista, il Risorgimento, il Tricolore, l´Unità d´Italia o, infine, per non pochi esponenti del Pdl, la stessa Costituzione. Le conseguenze, soprattutto, sul piano formativo possono essere devastanti. Credo che per evitare le asperità di un libero dibattito, molti insegnanti optino per una specie di agnosticismo che porta a considerare una turbativa della normalità scolastica l´intrusione di certe tematiche, gestibili al massimo nell´alveo dei corsi di studio stabiliti. Una pedagogia riduttiva, senza passione, impossibilitata a formare giovani cittadini. È un fenomeno che riguarda anche il mondo adulto, dove si può dissacrare ogni cosa senza imbarazzo. Mi vien da pensare quando a "Porta a porta", parlando della Resistenza dei militari deportati in Germania che avevano rifiutato di essere liberati a condizione di giurare per Salò, il ministro della Difesa, La Russa, spiegò il loro gesto come un atto di comoda prudenza: meglio nel lager che di nuovo in guerra. Nessuno gli ha ricordato le diecine di migliaia di soldati, tra cui 18 generali, morti in quei «comodi» lager.

Repubblica 7.6.10
Parla la Rahnavard, moglie del leader dell´opposizione Moussavi e cervello della Rivoluzione verde Ahmadinejad la minaccia ma lei non si lascia intimorire: "Torneremo in piazza e conquisteremo la democrazia"
Zahra, l´eroina che sfida il regime "Porteremo la libertà in Iran"
di Francesca Caferri

Da un anno gli iraniani sono sottoposti a varie forme di oppressione, solo perché hanno chiesto che fine avevano fatto i loro voti
Le donne chiedono uno stato di diritto, la scarcerazione dei detenuti politici e l´approvazione di leggi che stabiliscano la parità dei sessi

Foulard a fiori sul chador nero, sorriso forte, sempre a fianco del marito: un anno fa la presenza di Zahra Rahnavard accanto al candidato riformista Mir Hossein Moussavi, fu la prima delle novità delle elezioni presidenziali in Iran. Mai prima di allora una moglie aveva occupato un ruolo di primo piano. Mai prima di allora era apparsa come una consigliera tanto importante. Mai prima di allora un candidato, l´attuale presidente Mahmud Ahmadinejad, aveva attaccato pubblicamente la compagna del rivale, Moussavi appunto. Zahra Rahnavard è passata in mezzo a tutto ciò con una tenacia da combattente: 65 anni, pittrice, scultrice, primo rettore donna di un´università iraniana, sostenitrice della prima ora della rivoluzione khomeinista, da un anno condivide con il marito la sorveglianza costante a cui il governo di Teheran li sottopone. In questi mesi tramite Twitter e Facebook ha continuato a far sentire la voce dei riformisti iraniani. L´autorevole rivista Foreign Policy l´ha nominata terzo intellettuale più influente del mondo - preceduta dal presidente Usa Barack Obama e seguita dall´economista Nouriel Roubini - definendola «il cervello dietro alla Rivoluzione Verde». Per mesi la signora Rahnavard, come suo marito, ha rifiutato di rispondere alle domande dei giornalisti occidentali, per non essere accusata di essere strumento di potenze straniere. Rompe il silenzio, tramite un esule a lei vicino, alla vigilia del 12 giugno, anniversario delle elezioni contestate: data che gli esperti giudicano fondamentale per capire se il Movimento Verde avrà un futuro.
Signora Rahnavard, come avete vissuto lei e suo marito questi 12 mesi?
«Da un anno gli iraniani sono sottoposti a varie forme di oppressione, solo perché hanno chiesto che fine avevano fatto i loro voti. Le autorità avrebbero potuto rispondere in modo legale: hanno scelto invece di arrestare e sparare. In questa situazione io, mio marito, Karroubi (l´altro candidato riformista ndr.), Khatami (ex presidente, anch´egli riformista ndr.) e le nostre famiglie siamo stati fatti bersaglio di accuse, abbiamo subito choc (il fratello di Rahnavard è stato arrestato e tenuto in isolamento per sei mesi ndr.) e siamo stati fisicamente percossi. Questo tuttavia non ci ha spaventato: nella mia vita non ho mai avuto paura di nessuna persona o nessun regime. Anche Moussavi, rispetto al passato, parla e agisce con più coraggio: non rinuncerà mai ai suoi ideali. Lo stesso vale per il popolo iraniano: oggi non chiede solo dov´è finito il suo voto, ma libertà, democrazia, stato di diritto. Queste richieste vanno molto oltre le iniziali proteste».
Un anno fa, in questi giorni, eravate quasi certi della vittoria: che sentimento prova oggi guardando indietro?
«Rammarico. L´obiettivo del Movimento Verde è il benessere della gente, mentre l´attuale regime ogni giorno causa più miseria e minaccia le libertà basilari. Le elezioni sono state una grande occasione negata al popolo iraniano e non è possibile tornare indietro: l´attuale regime vuole rovesciare la Repubblica Islamica e fondamenti su cui è costruita. Né io, né Moussavi, né Karroubi vogliamo questo: dunque non ci può essere dialogo. Assistiamo a processi che si tengono in modo da portare alla pena capitale: assistiamo ad esecuzioni politiche, che non hanno giustificazione legale né giuridica. Torneremo in piazza nei giorni dell´anniversario e la presenza di milioni di manifestanti sarà il preannuncio della vittoria».
Il Movimento Verde è accusato di essere strumento delle potenze occidentali …
«Il Movimento Verde è assolutamente nazionale, iraniano, popolare e interno. Non è legato e non trae ispirazione da nessuno fuori dall´Iran. Quello che la comunità internazionale può fare per noi è sostenere il desiderio di libertà in qualunque parte del mondo. Ma è il popolo iraniano che deve risolvere i suoi problemi».
Quanto pesa la questione nucleare nelle relazioni fra l´Iran e il mondo?
«Il regime sfrutta questa questione. Tramite la minaccia nucleare cerca di acquistare all´estero la legittimità che non ha in patria: lo fa scandendo slogan durissimi, ma poi trattando e concedendo privilegi ad altri governi. Ma non può farlo, perché non è legittimo: fino a quando un governo non agisce in sintonia con il proprio popolo, non avrà la reputazione da nessuna parte del mondo».
Lei e suo marito vivete sotto costante minaccia: avete mai pensato di lasciare il paese?
«No. Il nostro destino, ora più che mai, è legato a quello del popolo iraniano».
In questi mesi la figura di suo marito è cambiata molto: si era presentato alle elezioni come un "tecnico" di tendenze riformiste. Oggi è il leader carismatico di quella parte di Iran che vuole che tutto cambi…
«Durante la campagna elettorale io, Moussavi e il popolo iraniano avevamo delle aspettative: volevamo il miglioramento della situazione nel nostro Paese. Chiedevamo il rispetto dei diritti individuali, la non interferenza del governo nella vita personale, la libertà, la democrazia, lo stato di diritto. Con quello che è successo dopo, le proteste e le azioni della gente e le nostre si sono influenzate e rafforzate reciprocamente. Oggi il popolo è più avanti di noi e ci sta trascinando verso i suoi obiettivi».
Lei è stata il simbolo che ha spinto migliaia di donne a votare per suo marito: le stesse che poi abbiamo visto in piazza. Che ruolo hanno le donne nell´Onda Verde?
«L´attuale regime iraniano, nell´ultimo anno, ha oppresso le donne in molti modi: ha cominciato con me, tentando di ridicolizzare la mia reputazione in campo scientifico e artistico. Poi lo ha fatto con tutte quelle che hanno protestato: ma questa oppressione non le ha scoraggiate. Le donne iraniane chiedono due cose: libertà, democrazia, stato di diritto, scarcerazione di tutti i detenuti politici. E l´approvazione di leggi che stabiliscano la parità tra i sessi. Senza una risposta positiva alle loro richieste la democrazia non potrà essere mai raggiunta».
Zahra Rahnavard, se dovesse fare una previsione oggi sul futuro del suo paese cosa direbbe?
«Vincerà il popolo, raggiungerà i suoi obiettivi. Accadrà grazie alla costanza e alla resistenza della gente. Alla fine trionfa sempre la giustizia, anche se richiede molto tempo. Nel mondo moderno non c´è posto per la dittatura e l´autocrazia. Il mondo dei media, di Internet, del digitale, delle opinioni e dei pensieri richiede democrazia, libertà nazionale e libertà individuale. L´Iran fa parte di questo mondo».
(ha collaborato Mostafa Khosravi)

l’Unità 7.5.10
Conversando con Simonetta Agnello Hornby

«Da Lewis Carroll a Jackson ecco i seduttori di bambini che la società non vuol vedere»

di Maria Serena Palieri

È un’indagine sull’autore di «Alice». E sulla società che gli regalò vittime e perdonò le sue malefatte
La pedofilia con internet oggi è in crescita, è diventata multinazionale Perciò è difficile batterla

Evelyn Hatch è una versione in chiave fotografica della Maya desnuda di Goya: distesa con le braccia a cingerle la testa, e a metterle in risalto il petto, una gamba morbidamente reclinata sull’altra. Evelyn Hatch però aveva 8 anni quando, negli ambienti del college Christ Church di Oxford, il 29 luglio 1879, la ritrasse il diacono Charles Lutwidge Dodgson, già famoso da un quattordicennio come Lewis Carroll per Alice nel paese delle meraviglie e Dietro lo specchio. Pedofilia? Ma in età vittoriana, sostengono i difensori di Dodgson, l’infanzia femminile senza veli era, non solo per lui, simbolo d’innocenza. Guardiamo allora Irene MacDonald, fotografata dallo stesso nel 1863 all’età di 6 anni: è vestita, calzette bianche e scarpe col cinturino, ma è riversa su un canapé d’epoca, con uno scialle da cui sbuca una spalla nuda, come chi esce dal sonno, o meglio da un amplesso, e ha uno sguardo per l’enigmatica sofferenza che manifesta impossibile da sostenere. Camera oscura, il volumetto che riporta queste due foto (Skira, pp. 127, euro 15), è il testo a metà tra documento e finzione in cui Simonetta Agnello Hornby si cimenta col mistero del celebrato padre del libro più citato della letteratura in lingua inglese, dopo le opere di Shakespeare. Non è la prima a farlo. Prima che l’archivio del reverendo Dodgson, secretato dagli eredi per 74 anni, diventasse pubblico, nel 1969, a esso aveva attinto un nipote, Stuart Dodgson Collinwood, per un’agiografia. Furono molte, a funerale svolto, le ex-«bambine-amiche» che scrissero testimonianze apologetiche. È del 1999, poi, un’opera ancora «riabilitante» di Karoline Leach, sempre in questo 2010 tradotta in italiano da Castelvecchi, La vera storia del papà di Alice. Simonetta Agnello Hornby non la pensa così. E lei è, oltre che l’autrice di una trilogia romanzesca siciliana edita da Feltrinelli, un’avvocata e giudice da un quarantennio a Londra impegnata nel terreno dell’abuso dei minori. Il suo ultimo romanzo, Vento scomposto, si ispirava appunto a uno dei casi da lei trattati nella sua carriera. Perciò Camera oscura è un libro in cui, con la bella penna della romanziera, è una specialista a indagare sul caso Carroll: nella prima parte la scrittrice immagina la storia di Ruth Matthews (nella realtà Mayhew), una delle bambine «kissable», «baciabili», secondo il requisito che l’autore di Alice imponeva alle famiglie; nell’intermezzo svolge le sue considerazioni; e in appendice, dopo le foto, riporta le lettere che Dodgson scrisse a un certo punto ai Mayhew. Ed è un libro, Camera oscura, che esplorando il terreno scivoloso su cui in età vittoriana si muoveva il reverendo Dodgson, sottotraccia interroga il fenomeno della pedofilia nel mondo d’oggi.
Com’è nato questo testo?
«Su commissione. E di questo ringrazio l’editor, Eileen Romano. Ma ad affascinarmi, nel suo orrore, è stato il carteggio che mi hanno fatto avere che il reverendo Dodgson tenne con i Mayhew. Mancano le lettere loro,come quelle di Ruth, così come non c’è traccia delle fotografie fatte a lei e alle sue sorelle. Però Dodgson dai 30 anni in poi teneva un riassunto di tutte le lettere che riceveva e conservava una copia delle sue. Di queste, ne aveva 98.000. Dunque, un vanesio. Quello che impressiona, leggendo, è la sua arroganza. Dodgson era un arrampicatore. A 24 anni comprò la macchina fotografica, all’epoca status symbol, e fu così che riuscì a entrare nella cerchia di Tennyson». Eccoci già oltre l’immagine che l’opinione pubblica inglese predilige di lui, il religioso timido e rimasto candidamente bambino, romanticamente innamorato della piccola Alice Liddell, ispiratrice del suo capolavoro. In questi mesi, immagino, lei si sarà chiesta: se me lo fossi trovata davanti in tribunale, come l’avrei giudicato? Che risposta si è data?
«Avrei chiesto investigazioni più approfondite. Non ho dubbi che, dagli incontri con le sue “amiche-bambine”, traesse un piacere sessuale. Le baciava sul lobo dell’orecchio. Io credo che si eccitasse, ma che rispettasse un limite con le figlie dei suoi amici, non le penetrasse. Però c’è quel mistero della gran quantità di denaro donata a un uomo che aveva delle figlie. E ci sono le modelle che, dal 1880, abbandonata la fotografia, gli procura per le sue tele Gertrude Thompson. Da avvocato qui avrei scavato. E perché non fece mai ritratti delle sue nipoti, né le invitò mai a stare a casa sua? Perché il suo archivio fu secretato fino al 1969, quando fu venduto alla British Library, e fratello e nipoti ne distrussero l’80%? Di nudi, ne rimangono quattro, ma quanti erano in realtà? Io, Lewis Carroll, lo chiamo un porco. Più di un pedofilo...».
Più di un pedofilo?
«Il pedofilo è convinto che ai bambini piaccia. Perciò non si cura mai. Il reverendo Dodgson aveva una sessualità estesa, frequentava teatri e attrici, donne adulte, ragazze, bambine. Sapeva quello che faceva».
Smontare l’immagine di Lewis Carroll, in Inghilterra, è l’equivalente di farlo da noi con Collodi. Ma la sua indagine è anche un atto d’accusa alla società vittoriana. Quei genitori conniventi... Oggi potrebbe succedere? «Il vittorianesimo, più lo conosco più lo detesto. C’era una prostituzione infantile violenta e organizzata. Il direttore della Pall Mall Gazette fece un’inchiesta fingendosi un cliente e gli portarono una bambina cloroformizzata. Lo stesso Dodgson reagì scrivendo al ministro, Lord Salisbury, che il reportage “contaminava le menti”... Però spostiamola all’oggi, immaginiamo che un famoso presentatore dica “Datemi vostra figlia, la metto in un programma di successo. Purché sia baciabile”. In quanti non gliela darebbero? I bambini che dormivano nel letto con Michael Jackson, non erano i genitori a darglieli? Ma l’opinione pubblica non vede».
Qual è il messaggio che ha voluto lanciare col suo libro? «Ho voluto mostrare l’abuso sul minore nella sua complessità. Non è solo quello fisico. Perciò ho immaginato che Ruth Mayhew si fosse innamorata del reverendo e avesse sofferto da bambina per il distacco. Il pedofilo seduce insegnando... Ed è la vittima a sentirsi in colpa. E quando l’abuso è in famiglia, e il genitore viene allontanato, è di nuovo la vittima a sentirsi colpevole».
Il fenomeno pedofilia è in crescita?
«Con internet si è strutturato su scala multinazionale e i governi faticano a combatterlo. È in crescita straordinaria perché è più facile praticarlo. Ma c’è un altro risvolto da sottolineare: la moda per bambine le vuole vamp a tre anni. E questo, nei pedofili, acuisce il desiderio. Inoltre è prassi, in Inghilterra come in Italia, radunare i pedofili in carcere nello stesso braccio per sottrarli al “castigo” degli altri reclusi. E così, quando escono, sono più esperti e organizzati».
A settembre per Feltrinelli uscirà il suo nuovo romanzo, «La monaca». Torna nella natìa Sicilia? «Sì. È la storia di una ragazza dell’800 costretta a farsi suora. Ma che nel 1848 si spoglia ed esce. Non è come la Gertrude di Manzoni, lei ama Dio, ma la vita l’attira troppo».
Ha lasciato il lavoro di giudice. Sta per lasciare quello di avvocato. Vede un futuro da scrittrice pura? «No, non è giusto. Sono sociale, mi piace fare. E ho sempre lavorato in un campo, quello della povera gente».

domenica 6 giugno 2010

l’Unità 6.6.10
Tremonti chiede sacrifici e intanto La Russa acquista 131 cacciabombardieri dagli americani
Tagliano gli stipendi e comprano armi
Tremonti taglia gli stipendi e la spesa dei comuni, ma intanto il governo spende senza freni negli armamenti. Il governo compra 131 cacciabombardieri dagli americani. Entro il 2026 serviranno ben 15 miliardi di euro.
di Mariagrazia Gerina

Ammodernamento. Armi sofisticate, strumenti di guerra spese senza limiti
Eurofighter. Ottanta sono già in Italia, ma alla fine saranno ben 121

Fuori dai ministeri, tra gli statali che da qui ai prossimi tre anni dovranno sacrificare i loro stipendi per versare allo Stato 5 miliardi di euro contro la crisi, il grido pacifista si è già fatto largo: «Vendessero i cacciabombardieri di La Russa». In realtà più che di vendere si tratterebbe di non acquistarne di nuovi. Idea tutt’altro che peregrina. È quello che sta decidendo di fare la Germania in queste ore, per dire. Il Pd stima che si potrebbero risparmiare almeno 2 miliardi l’anno. Ovvero sei miliardi nei tre anni su cui opera la manovra. Una stima prudenziale, visto che la spesa in armamenti si aggira intorno ai 3,5 miliardi l’anno.
Nella manovra finanziaria di Tremonti, però, di tagli agli armamenti non ne troverete traccia. E sì che in programma il governo italiano non ha solo l’acquisto di nuovi cacciabombardieri. Sul bilancio dello stato, al momento, incombono ben 71 programmi di ammodernamento e riconfigurazione di sistemi d’arma, che ipotecano la spesa bellica da qui al 2026. Tutti passati inosservati sotto lo sguardo vigile del ministro dell’Economia.
CIFRE ASTRONOMICHE
Eppure parliamo di cifre astronomiche, che il governo si è impegnato a versare all’industria bellica per acquistare una varietà incredibile di nuove armi. La lista è lunga. Prendiamo solo qualche esempio. Partiamo proprio dai cacciabombardieri. Programma di ammodernamento numero 65. Un piano faraonico, che impegna l’Italia a comprare dagli Usa 131 cacciabombardieri F-35. Aerei progettati per essere invisibili ai radar (solo che nel frattempo i radar si sono evoluti). Roba da guerra fredda. Solo nel triennio interessato dalla manovra appena varata l’acquisto programmato sulle casse dello stato per circa 2,5 miliardi di euro. Totale della spesa prevista da qui al 2026: 15 miliardi. Che si sovrappone per altro alla spesa per l’acquisto, già programmato, di 121 Eurofighter (80 sono stati già comprati e c’è ancora un’ultima tranche). Ma andiamo oltre. Al programma numero 67, per esempio. Si chiama «Forza Nec»: serve a dotare le forze armate di terra e da sbarco di un sistema assai sofisticato di digitalizzazione. Roba da Vietnam, ovvero da conflitti ad
alta intensità la guerra in Iraq era considerata a media intensità. Per ora siamo alla fase di progettazione, che da sola costa circa 650 milioni di euro. L’esborso finale, non ancora formalizzato, si aggirerà intorno agli 11-12 miliardi. Ma andiamo oltre. Passiamo ai sommergibili. Difficile prevedere una battaglia navale nel Mediterraneo che li richieda, eppure nella lista dei futuri armamenti non mancano due sommergibili di nuova generazione. Costo stimato: circa 915 milioni. Più della metà da versare già nei tre anni della manovra. Una cifra minore ma non per questo più sensata sarà spesa invece per comprare nuovi sistemi di contracarro di terza generazione: 120 milioni di euro.
Cifre da capogiro. Tanto che lo stato italiano fa fatica a stare dietro agli impegni presi. E l’industria bellica è costretta a ricorrere alle banche. Con il risultato che l’indebitamento fa lievitare ulteriormente i costi. Negli ultimi tre anni, l’Italia ha speso in armamenti circa 3,5 miliardi di euro l’anno. Una cifra destinata a lievitare, tanto più che nemmeno la manovra prova a scalfirla.
Una cifra molto opaca, secondo il Pd, che domani in Commissione difesa del senato presenterà una risoluzione per chiedere che il governo iniziafareiconticonlearmieconi miliardi che i 71 fatidici programmi continuano a sottrarre al bilancio dello Stato. Sono tutti così indispensabili? Il Pd chiede di verificarne utilità, tempi d’attuazione e costi. E di adottare quella che definisce una «moratoria ragionata». Obiettivo: ottenere risparmi consistenti. E costringere il governo ad adeguare la spesa ai costi della crisi. E al modello di difesa adottato alla luce della Costituzione.
L’Italia ripudia la guerra, appunto. E però continua a buttare miliardi in armi, oltretutto (per fortuna) inutili. Negli ultimi 15 anni infatti le forze armate italiane sono state impegnate in 35 missioni di peacekeeping. «Ma se dobbiamo portare la pace, che ce ne facciamo dei bombardieri F-35?», osserva il capogruppo del Pd in Commissione Difesa, Gian Piero Scanu, primo firmatario della risoluzione, che illustrerà domani al senato: «Semmai aggiunge abbiamo bisogno di addestrare i militari, di provvedere alla manutenzione dei mezzi di trasporto che utilizzano».
Ecco appunto, di quelli invece la manovra si occupa: un taglio di quasi un miliardo in tre anni, che si aggiunge agli 1,5 miliardi di risparmi sul bilancio di esercizio già programmati dalla prima finanziaria del governo Berlusconi. Forse anche per questo quel grido d’allarme lanciato dal dipendente statale pacifista ormai comincia a diffondersi anche tra le forze armate. «Il rapporto difesa-industria va cambiato, ci sono costi e appetiti che lo rendono non ottimale, l’industria non può imporre ciò che vuole», ha denunciato pubblicamente lo stesso sottocapo di Stato maggiore dell’Aeronautica, Maurizio Ludovisi.
«Fin qui il governo non ha ancora risposto: quale è il modello di difesa a cui finalizza la spesa?», osserva Roberta Pinotti, appoggiando l’iniziativa del capogruppo. «Non è che da domani debbano rientrare gli uomini in missione spiega Achille Serra, vicepresidente della Commessioni -, ma spendiamo soldi per armi inutili ed è doveroso tagliare davanti alla crisi è doveroso».

Repubblica 6.6.10
La cantante israeliana Noa: "Artisti, uniamoci per la pace"
"Ho il cuore spezzato il premier si dimetta"
Vorrei che il mio popolo usasse il voto per eleggere un governo in grado di porre fine all’occupazione
di Carlo Moretti

È la cantante israeliana più famosa al mondo. Ebrea di origini yemenite, Noa crede da sempre nella musica come strumento di pace e di dialogo tra i popoli, e per questo ha spesso collaborato con artisti arabi, tra questi l´algerino Khaled, l´israeliana Mira Awad, il palestinese Nabil Salameh, nato e cresciuto in un campo profughi in Libano. Noa dice che l´attacco ai pacifisti della Flotilla l´ha gettata nella disperazione: «Ho il cuore spezzato, sono così arrabbiata che non trovo le parole giuste per esprimere come mi sento» ha scritto, poche ore dopo il tragico arrembaggio, nel suo blog. Ora accetta di parlarne.
Noa, lei vive in Israele: qual è l´atmosfera che si respira oggi nel paese rispetto a questo tragico evento e quali sono i sentimenti tra le persone che lei frequenta?
«Sono sentimenti terribili, c´è moltissima rabbia e frustrazione, e pesa molto il rimorso per la perdita di vite umane. Nessuno però qui pensa che il governo israeliano volesse uccidere qualcuno su quella nave, ma la situazione è stata gestita in maniera davvero disastrosa. La strage ha scatenato aspre critiche e la demonizzazione dello stato di Israele e del popolo ebraico: fossi al posto del premier o del ministro della difesa mi dimetterei immediatamente, assumendomi le responsabilità per le conseguenze delle mie decisioni, che hanno messo a rischio la sicurezza del mio paese e danneggiato la sua immagine».
Cosa pensa dell´occupazione dei territori palestinesi?
«È sbagliato continuare a vedere nell´occupazione della Cisgiordania una risorsa piuttosto che un obbligo. L´idea che sia una risorsa ha reso per troppo tempo "tollerabili" le implicazioni umane e morali dell´occupazione, mentre io le considero intollerabili. L´occupazione è immorale e inumana, dovrebbe avere termine; e per la nostra sicurezza dovremmo contare invece sull´aiuto di nazioni amiche. Personalmente vorrei correre il rischio di un tentativo in questo senso e spero che gente come me, dall´altra parte, voglia correre lo stesso rischio contrastando la paura e il pregiudizio che coltivano nei loro cuori».
Cosa possono fare gli artisti, e in particolare quelli israeliani, per manifestare questo desiderio di una soluzione pacifica della crisi?
«Vorrei che tutti gli israeliani facessero una campagna di opinione e usassero il loro voto democratico per eleggere un governo in grado di porre fine all´occupazione iniziata nel 1967 e di firmare subito un trattato di pace con il governo democraticamente eletto dai palestinesi. Entrambi i governi potrebbero farsi così interpreti del desiderio dei due popoli di vivere in pace uno accanto all´altro. Farò sempre sentire la mia voce in campagne di questo tipo ed esorto tutti gli artisti, israeliani e palestinesi, a fare lo stesso».

Repubblica 6.6.10
Il processo
Urss, la fabbrica delle condanne perfette
di Nicola Lombardozzi

L´arresto avvenne anni dopo Tra le sue carte, una poesia giovanile: "Perché mai così poca musica? Perché mai un tale silenzio?"
Una sera di maggio del ´34 il poeta Osip Mandelshtam recitò davanti al funzionario della polizia segreta queste parole: "Viviamo senza fiutare più sotto di noi il paese". Firmò così la sua fine: Stalin non lo perdonò e lo mandò a morire in un gulag. Ora dagli archivi emergono i documenti degli interrogatori Che mostrano come si costruisce una sentenza politica senza appello

Mosca. Il poeta sapeva che il dittatore non l´avrebbe mai perdonato. Il poeta era stanco, rassegnato, sicuro che qualcuno tra i suoi amici più cari l´avesse tradito, consegnato alla macchina spietata del terrore staliniano. Mormorò un verso, il primo: «Noi viviamo senza più fiutare sotto di noi il paese». Dall´altra parte della scrivania, in quel tetro ufficio della Lubjanka, il funzionario addetto agli interrogatori cominciò a scrivere su un foglietto di carta da quaderno con la sua penna blu. Lentamente, burocraticamente, senza cambiare espressione del viso. Il poeta continuò tutto di un fiato la sua confessione in rima: «I nostri discorsi non si sentono a dieci passi di distanza…». Il funzionario annotava, e la voce del poeta si faceva sempre più sicura mentre il testo proibito che non aveva mai osato mettere per iscritto prendeva forma, tra tutte quelle informative e rapporti di polizia che servivano a dimostrare la sua pericolosità «per l´autorità dei Soviet» e segnare la sua fine. Il poeta lo firmò.
Quel testo, dettato in una sera di maggio del 1934, è l´unico manoscritto autografo del più famoso epigramma del poeta custodito per più di settant´anni negli archivi dell´allora Nkvd, la polizia segreta sovietica, in una cartellina beige con la scritta: "Fascicolo personale n.662 del detenuto Osip Emileevic Mandelshtam". Dentro c´è la storia della lotta senza speranza tra uno dei più grandi poeti di Russia e il potere. Un gioco di minacce, isolamento e repressione, che si concluse il 27 dicembre del 1938 con la morte di Mandelshtam nel gulag di Vtoraja Recka, alle porte di Vladivostok. Aveva quarantasette anni. La sua storia sta per apparire in un dossier della Fondazione Mandelshtam e dalla Novaja Gazeta, basato su documenti inediti.
Scomodo, Mandelshtam lo era stato da sempre e per tutti. I suoi primi arresti risalgono al 1920 e l´accusa è paradossalmente opposta a quella che lo avrebbe portato al gulag. La prima volta fu interrogato a lungo a Feodossia, nella Crimea che resisteva al comunismo. Fu torchiato dagli agenti del generale Vranghel, uno dei comandanti della Guardia Bianca, che lo sospettavano di collaborazione con i bolscevichi. «Spirito ribelle. Tendenze anticonformistiche», erano l´unica fonte di sospetto. Di sicuro turbava la sua biografia: ebreo nato a Varsavia, studente prima a Parigi, poi a Heidelberg e infine a San Pietroburgo. Scagionato in qualche modo dalle guardie bianche fu arrestato pochi mesi dopo a Batumi, in Georgia. Questa volta furono i menscevichi georgiani ad accusarlo di essere una spia bolscevica. Accuse che avrebbero dovuto valere in seguito come medaglie al merito nell´Unione Sovietica del dopo guerra civile. Ma non fu così.
Protagonista dei circoli letterari, amico della poetessa Akhmatova, fondatore con lei del Movimento Akmeista, Mandelshtam era comunque considerato un personaggio inaffidabile per il regime. L´inizio della fine fu un viaggio con la moglie in Ucraina nel 1933, nell´orrore dell´Holomodor, la spaventosa carestia programmata da Stalin nella furia della sua guerra contro i kulaki, che provocò milioni di morti. Della sua indignazione resta un altro verso segreto dettato all´inquisitore nell´interrogatorio del 1934: «Primavera fredda, la timida Crimea è senza pane…». Ma più di tutto vale il rapporto della polizia segreta custodito nel fascicolo 662: «Al rientro dall´Ucraina gli umori di Mandelshtam hanno preso sfumature antisovietiche. Si è isolato, tiene le tende sempre abbassate. È avvilito dalle scene di fame ma anche dai suoi fallimenti letterari. La casa editrice Gikhl (prontamente allineata agli umori del Partito, ndr) vuole togliere dai cataloghi le vecchie poesie. Delle nuove opere non se ne parla neanche».
Informatissima anche da persone molto vicine a Mandelshtam la polizia continuava a costruire il castello di prove. Ecco un´altra informativa: «Mandelshtam intende scrivere al compagno Stalin ma le sue intenzioni sono chiare. Ha detto che se solo potesse fare un viaggio all´estero sopporterebbe qualsiasi disagio pur di restare lì. Inoltre si è recentemente espresso così: da noi la letteratura non esiste più, lo scrittore è ormai un burocrate, registratore delle menzogne». Ma a far precipitare le cose fu una riunione con amici che credeva fidati. Mendelshtam recitò a memoria la sua poesia contro Stalin Noi viviamo senza…. La voce arrivò puntualmente a chi di dovere. L´arresto scattò la notte del 13 maggio 1934. Mandelshtam fu tenuto per quattro giorni a tormentarsi in una cella della Lubjanka prima di essere portato davanti al suo inquisitore, Nikolaj Shivarov, il funzionario dei servizi esperto di questioni letterarie. L´uomo che annoterà i suoi versi.
Per quella evenienza Mendelshtam si era preparato. Aveva passato lunghe serate con il suo amico Arkadij Furmanov, ex cekista, a giocare all´inquirente, per imparare come aggirare le domande. Ma servì a poco. Convinto che il testo fosse già noto alle autorità finì per autoaccusarsi ripetendolo ad alta voce. Fece anche i nomi degli amici presenti alla audizione privata. Tre di questi furono successivamente arrestati.
Per sua fortuna però i tempi non erano ancora maturi. Il direttore delle Izvestjia, Bukharin, intercedette presso Stalin ma facendo un´altra delazione, segnalandogli cioè che anche lo scrittore Boris Pasternak difendeva il suo collega e che cominciava a lamentarsi pubblicamente. Il dittatore amava queste situazioni e si esibì in una delle sue performance preferite. Telefonò a Pasternak e gli disse secco: «Il caso Mandelshtam è stato riesaminato. Andrà tutto a posto». E poi aggiunse bonario per tranquillizzare lo scrittore terrorizzato: «Anch´io avrei fatto di tutto per salvare un amico nei guai. Inoltre lui è un genio, no?». Confuso Pasternak chiese di essere ricevuto per chiarire. Stalin riattaccò il telefono.
Così nel ´34 Mandelshtam sfuggì alla pena di morte e se la cavò con tre anni di esilio forzato a Cerdyn, negli Urali, e poi a Voronez. Ma il soggiorno alla Lubjanka lo aveva ormai devastato. Soffriva di allucinazioni, improvvisi stati febbrili. Tentò il suicidio. Nel ´37 inviò a Stalin un´ode riparatrice che ebbe un effetto devastante. Al Cremlino i versi apparvero chiaramente irrisori e carichi di doppi sensi.
La fine arrivò il 15 ottobre del 1937. Per quella data Mandelshtam aveva organizzato una serata presso l´Unione scrittori. Una mossa pubblicitaria per rientrare nel giro e uscire dagli incubi. Nel fascicolo dei servizi segreti è conservato un messaggio della Lubjanka al segretario dell´Unione scrittori. Eccola: «Stimato compagno. Il giorno 15 alle sei di sera, si terrà la lettura delle poesie di Mandelshtam. Prego provvedere alla presenza in sala!». Firmato: il segretario del Bureau della sezione Poeti, Surkov. Ordine eseguito. Mandelshtam arrivò, carico di speranze, in una sala completamente vuota. L´arresto definitivo qualche mese dopo, il 2 maggio del ´38. Processato per «comportamenti antisovietici» fu condannato ai lavori forzati a vita in un gulag. Morì poco dopo. Tra le sue carte, una poesia giovanile. «E sopra il bosco quando si fa sera/si alza una luna di rame/perché mai così poca musica/perché mai un tale silenzio?».

Repubblica 6.6.10
In quei versi così russi l'arma del tirannicidio
di Viktor Erofeev

O sip Mandelshtam scrisse i versi politici più coraggiosi e più riusciti di tutta la storia della letteratura russa. È un record. Quel proiettile di poesia diretto contro Stalin, quale può essere considerato il suo componimento del 1933 Viviamo senza più fiutare sotto di noi il paese, è di una precisione micidiale. A tutt´oggi, benché siano centinaia i libri su Stalin, Mandelshtam rimane il nostro più grande tirannicida poetico. Il suo talento era pari al potere dispotico di Stalin. Era una lotta tra due giganti. Due giganti che appartenevano a due generi opposti di esseri umani. Mandelshtam era un meraviglioso strumento della cultura russa, che odiava il potere russo e anelava alla sua distruzione.
Il primo tiratore che prese di mira il potere fu Aleksandr Radishov, che con il suo racconto del Viaggio da Pietroburgo a Mosca (1790) suscitò le ire di Caterina II, che mandò l´autore in esilio. Radishov però era un letterato mediocre. Forse solo Pushkin era riuscito a scrivere degli straordinari versi d´amore per la libertà, ancora ben lontani però dall´audacia dell´epigramma di Mandelshtam che annientò il carisma politico di Stalin, lo mise a nudo e fece vedere il suo orribile corpo di mostro. Stalin apprezzò la forza del suo nemico e mostrò nei suoi confronti un´eccezionale indulgenza. Stalin incarnava e riassumeva in sé tutti gli aspetti più ripugnanti della storia del potere russo, e per giunta era determinato a riplasmare la natura umana con inaudito sadismo sul proprio modello politico. Avrebbe ucciso un uomo per peccati molto più lievi, aveva già sulla coscienza la più grave carestia dell´Urss, l´Holomodor; eppure la sfida lanciatagli dal poeta suscitò in lui, a quanto pare, un´involontaria ammirazione.
Stalin, che in gioventù era stato un poeta fallito, comprendeva la grandezza di Mandelshtam. Sentendosi sfidare per nome, egli capì che quanto più si fosse mostrato magnanimo, tanto minor forza avrebbe assunto la verità dell´avversario. Mandelshtam se la cavò con un esilio a Voronez. Vero è che quattro anni più tardi Stalin lo avrebbe schiacciato come una mosca. D´altronde, nel 1938, l´anno del grande terrore, Stalin punì Mandelshtam cancellandolo dalla lista dei tesori della cultura russa, e il poeta andò incontro alla morte certa nel gulag non più come un genio, ma come un coccio di una civiltà in frantumi.
Insomma, perché la cultura russa è così straordinaria e lo Stato russo è così ripugnante, praticamente lungo tutto il corso della storia? Vi svelerò un segreto, il motivo è questo: la cultura russa, la parola letteraria russa sono splendide proprio perché si contrappongono allo Stato russo, facendo passare tutti i loro temi, dall´amore alla morte, attraverso un fiero rifiuto della menzogna. Per parte sua, lo Stato russo è così orribile perché si oppone crudelmente alla cultura che si oppone a esso, nel tentativo di dimostrare la propria verità di supremo paternalismo. Lo Stato russo è fermamente convinto di essere nel giusto e odia la parola che sfugge alla censura. Da tempo ormai si è trasformato in un mostro che divora i poeti, e correggerlo è altrettanto difficile che costringere Mandelshtam, in preda a un terrore animale, a comporre un´ode per Stalin. Stalin e Mandelshtam sono una coppia perfetta di ballerini che in un valzer di sangue volano attraverso i secoli della nostra storia gloriosa, strangolandosi e uccidendosi a vicenda.
(Traduzione di Mirella Meringolo)