l’Unità 7.5.10Oggi Roma, ore 15: la grande manifestazione per la cultura e la libera informazioneTutti insieme Sindacati, Articolo 21, Usigrai e altri: il disegno del governo è oscurare il paeseGiornalisti Domani sit-in della Fnsi davanti a Montecitorio con tutti i cdr d’ItaliaIn piazza contro i tagli e i bavagli alle coscienzeL’appuntamento è per le ore 15 in Piazza Navona. Ci saranno i lavoratori dei teatri di prosa e d’opera, i giornalisti, gli istituti culturali, gli archeologi, i ricercatori... contro lo scardinamento della cultura in Italia.di Luca Del FraDoveva essere la manifestazione dei lavoratori delle fondazioni lirico-sinfoniche contro il decreto Bondi ma l’iniziativa si è gonfiata fino a esondare trascinando con sé il mondo della cultura e dell’informazione. Oggi alle 15 a Piazza Navona, oltre ai lavoratori dei teatri d’opera ci saranno anche quelli di cinema, teatro di prosa, musica e danza in generale, insieme agli autori, gli istituti culturali, la Federazione nazionale stampa italiana, Articolo 21 e Usigrai. Lo slogan quindi si è ampliato «contro i tagli e contro i bavagli», e sempre oggi il Pd lancia una giornata di sensibilizzazione sui temi della cultura e dell’informazione in una decina di città italiane. Anche se le due iniziative sono diverse, che ci fanno teatranti, cinematografari, giornalisti, archeologi, musici, scrittori tutti assieme?
«Bisogna dire che purtroppo il governo ci ha dato una mano scoprendo le carte –spiega Silvano Conti della Slc-Cgil–: il disegno è scardinare tutta la cultura pubblica in Italia. Si colpiscono i teatri lirici, si chiudono o definanziano gli istituti di cultura, quelli di ricerca, i musei e nello stesso momento si tenta di oscurare i mezzi di informazione e si taglia scuola, università, ricerca». La Slc-Cgil, con gli altri sindacati di categoria, era stata tra le promotrici di questa manifestazione contro il decreto Bondi, che sta seguendo l’iter di conversione in legge e che vuole trasformare i grandi teatri lirici, come la Scala, il Maggio Fiorentino, il San Carlo di Napoli in teatri di provincia. Il decreto che dava la colpa dei deficit dei nostri teatri lirici ai lavoratori, paradossalmente ha evidenziato come a mettere in ginocchio non solo la lirica ma tutto il settore cultura siano proprio i tagli ai finanziamenti dello stato alle attività culturali, tra i più magri d’Europa: per il 2011 per tutto lo spettacolo, compresi circhi, spettacoli viaggianti, teatro, musica danza e cinema sono previsti 311 milioni, la Francia solo per l’Opéra de Paris stanzia oltre 100 milioni di euro.
Tuttavia la primavera è stata teatro di una offensiva governativa a tutto campo: pochi giorni dopo il decreto sulle fondazioni è arrivata la legge sulle intercettazioni telefoniche, che colpisce sia la libertà di stampa che quella di indagine. Infine con la manovra firmata dal ministro Giulio Tremonti la scure è calata sugli istituti di cultura, da quelli intitolati a Gramsci e De Gasperi fino a quello intitolato a Craxi, per non parlare della Stazione biologica di Napoli, l’Eti o la Quadriennale di Arte Contemporanea di Roma il cui presidente Gino Agnese, intellettuale di destra, ha chiesto le dimissioni del ministro Bondi.
I tagli alle attività culturali sono mascherati dietro l’emergenza della crisi, ma in realtà fin dalla prima vittoria elettorale del 1994, i governi di Berlusconi hanno sempre e incondizionatamente fatto tagli al settore di cultura, scuola, università e ricerca. E lo hanno fatto al di là della congiuntura economica. «C’è un filo nero che collega questi tagli e decreti contro la cultura alla legge sulle intercettazioni –spiega Giuseppe Giulietti portavoce di Articolo 21 del gruppo misto della Camera–: è il tentativo di oscurare la coscienza e la conoscenza. Un oscuramento etico e culturale prelude alla vera macelleria sociale. Domani la Fnsi ha indetto una manifestazione davanti a Montecitorio con i comitati di redazione di tutte le testate italiane. A questa reazione degli oscurati, siano giornalisti o esponenti della cultura, deve seguire il coinvolgimento degli oscurandi, cioè di tutti i cittadini». Nasce così la proposta di una manifestazione nazionale lanciata ieri dallo stesso Giulietti e da Vincenzo Vita del Pd.
l’Unità 7.5.10Cgil, verso lo sciopero e la nuova segreteriaIl direttivo della Cgil che inizia oggi proclamerà lo sciopero generale contro la manovra. All'ordine del giorno c’è anche il rinnovo della segreteria confederale. Tre dei segretari (Morena Piccinini, Paola Agnello Modica, e Nicoletta Rocchi) sono in uscita perché il loro mandato è scaduto. Piccinini potrebbe guidare l’Inca. Lascerà anche Agostino Megale, per andare a dirigere i bancari (Fisac) dopo le dimissioni di Mimmo Moccia e la guida transitoria di Carlo Ghezzi. Tra i nuovi ingressi, si fa il nome di Serenza Sorrentino, 32 anni, oggi alle Pari opportunità. Certa è anche l’entrata di Nicola Nicolosi, coordinatore di «Lavoro e società» e quelle dei segretari uscenti dell’Emilia, Danilo Barbi, e del Piemonte, Vincenzo Scudiere. Altre nomine, tra cui un o una rappresentante dei lavoratori migranti, sembrano slittare a settembre quando anche Guglielmo Epifani lascerà. Al suo posto viene data Susanna Camusso.
l’Unità 7.5.10Viaggio nell’Israele dei pacifisti minacciati dai falchiA Tel Aviv più di diecimila in piazza Rabin per dire no al blitz militare e chiedere giustizia per i palestinesi di Gaza. Il leader storico Ury Avnery circondato da un gruppo di ultrà. Sternhell: «È un campanello d’allarme»di Umberto De GIovannangeliL'altra Israele scende in piazza in nome della verità e della giustizia. Verità sugli attacchi alla «Freedom Flotilla». Giustizia per la popolazione di Gaza sfiancata da tre anni di embargo. Scende in piazza, l'altra Israele. E lo ha fatto in una piazza dedicata al generale, Yitzhak Rabin, che osò la pace con l'Olp di Yasser Arafat e per questo fu assassinato da un giovane zelota dell'ultradestra ebraica. Alza la testa, l'altra Israele. E per questo subisce l'aggressione dei fanatici di «Eretz Israel». È accaduto l'altra notte, a Tel Aviv. In migliaia, più di diecimila, si erano radunati in Piazza Rabin per protestare contro l'occupazione dei Territori palestinesi e contro il blitz israeliano sulla nave turca Mavi Marmara, mentre era diretta a Gaza con aiuti umanitari . Una bella manifestazione, una delle più significative tra quelle organizzate dal variegato arcipelago della sinistra pacifista israeliana, con una adesione di movimenti disparati, da Gush Shalom (Pace Adesso), fino al partito comunista arabo-ebraico Hadash.
Quella protesta suonava come una provocazione per i gruppi oltranzisti israeliani. Le invettive non bastano più. Occorre passare all'intimidazione fisica. Quei pacifisti vanno trattati come traditori. E i «giustizieri» provano a prendersela con un uomo di 87 anni. Il simbolo di un pacifismo irriducibile: Uri Avnery. I dimostranti di destra, racconta Avnery, hanno cercato di disturbare i comizi e qualcuno ha anche lanciato nella folla un candelotto fumogeno. «Forse quel qualcuno sperava di creare panico, ma la nostra reazione è stata compassata», aggiunge Avnery che si trovava, con la moglie, a due metri di distanza. «Al termine della manifestazione, mentre accompagnato da un paio di amici e da mia moglie attraversavo la centrale via Ibn Gvirol per salire in macchina – denuncia il leader pacifista siamo stati circondati da una decina di persone ben organizzate». «Hanno cercato a forza di impedirmi di entrare nella macchina, mentre ci gridavano: “Andate a Gaza, maniaci». Avnery ha avuto la sensazione che presto sarebbero passati anche alla violenza fisica, ma l'intervento tempestivo della polizia lo ha salvato.
«Quando alla Knesset si grida “vattene a Gaza” ad una parlamentare araba israeliana, quando lo stesso veleno dal Parlamento si sparge nelle piazze, allora vuol dire che qualcosa di molto grave sta avvenendo dentro la società israeliana e nelle sue istituzioni», dice a l'Unità Yossi Sarid, fondatore del Meretz (la sinistra sionista), più volte ministro e oggi editorialista di punta del quotidiano Haaretz.
«La cosa più grave è che questi fanatici trovano coperture e giustificazioni tra le forze che oggi governano il Paese. E sapere di essere protetti li rende ancora più aggressivi e pericolosi», aggiunge Yael Dayan, scrittrice, già deputata laburista, figlia dell'eroe della Guerra dei sei giorni: il generale Moshe Dayan. Il clima è pesante. Chi non si adegua viene tacciato di essere una quinta colonna di Hamas nello Stato ebraico. «Questa caccia al pacifista è un campanello d'allarme per tutti coloro, non importa se di sinistra, centro o destra, in Israele hanno a cuore la democrazia», ci dice Zeev Sternhell, lo storico che per aver denunciato la violenza dei coloni è rimasto vittima di un attentato (25 settembre 2008. In questo quadro, incalza Uri Avnery, «il compito della sinistra israeliana in questa fase è di lottare contro il lavaggio del cervello e la propaganda stolta ispirati dai falchi e i razzisti che siedono al Governo».
Il clima di intolleranza l'abbiamo respirato l'altro giorno ad Ashdod, tra una folla di oltranzisti che ha accolto con fischi, urla, invettive l'ingresso nel porto della «Rachel Carrie», la nave della Freedom Flotilla intercettata dalla Marina militare israeliana mentre tentava di raggiungere Gaza. Un clima da Paese in guerra. E chi si sente in guerra non ammette defezioni né accetta voci contrarie. Nella «hit» dell'odio, il premier turco Recep Tayyip Erdogan ha quasi raggiunto il presidente iraniano Mahmud Ahmadinejad. «I turchi sono esperti di genocidi, basta vedere cosa hanno fatto agli armeni», sentenzia David Wilder, uno dei capi dei coloni ultrà di Hebron (Cisgiordania). «La lista dei Nemici si allunga di giorno in gior-
no. Questa psicosi dell'accerchiamento si sta trasformando in paranoia. E questo non fa ben sperare per il futuro», osserva preoccupato Amram Mitzna, ex segretario generale e “colomba” laburista. Preoccupazioni condivise dal suo compagno di partito e attuale ministro (Affari sociali), Isaac Herzog : «È tempo di sollevare il blocco (di Gaza), ridurre le restrizioni alla popolazione e cercare altre alternative”, ha affermato ieri nel corso della seduta domenicale dell'esecutivo.
L'altra Israele chiede verità sull' attacco alla Mavi Marmara e sostiene la richiesta di una commissione d'inchiesta internazionale. Ma fa i conti con il no del governo. Benjamin Netanyahu ha bocciato la proposta avanzata dal segretario generale delle Nazioni Unite, Ban Ki-moon, per l'istituzione di una commissione d'inchiesta internazionale sul blitz compiuto dagli incursori della marina israeliana a bordo della Mavi Marmara. A capo della commissione, secondo Ban, sarebbe nominato l'ex premier neozelandese Geoffrey Palmer, e ne farebbero parte anche rappresentanti di Israele, della Turchia e degli Stati Uniti. Aprendo la riunione del Consiglio dei ministri, Netanyahu riferisce di averne parlato direttamente con Ban, al quale ha spiegato che «l'indagine sui fatti dovrà essere svolta in modo responsabile e obiettivo». «Abbiamo bisogno di considerare la questione attentamente, salvaguardando gli interessi di Israele e dell' esercito israeliano», aggiunge il premier che in serata ha riunito il Gabinetto di sicurezza.
Nella seduta di governo, Netanyahu ha detto anche che a bordo della nave turca c'era un gruppo omogeneo, salito a bordo da un porto diverso da quello degli altri passeggeri, senza sottoporsi a ispezioni, ben equipaggiato e «fermamente deciso» a ricorrere ad una violenza organizzata. A dar man forte al premier ci pensa il ministro degli Esteri, Avigdor Lieberman: Israele, afferma Lieberman, è uno Stato sovrano e dunque l'indagine deve essere condotta «con i nostri propri mezzi». E questi mezzi sono stati utilizzati dal Governo israeliano per ordinare in serata l'espulsione in aereo verso l'Irlanda di undici passeggeri della Rachel Corrie. Fra gli espulsi ci sono Mairead Maguire, Premio Nobel per la pace, e Denis Halliday, ex vice segretario generale dell' Onu. In precedenza erano stati espulsi verso la Giordania altri sette passeggeri, di nazionalità malese.
Repubblica 7.6.10Espulsi tutti gli attivisti della Rachel Corrie. Il governo: "Cinque passeggeri della Mavi Marmara vicini ai terroristi"Pacifisti, sfida al blocco navale "Pronti a una nuova missione"di Alessandra BaduelGli attivisti della "Rachel Corrie" pensano alla nuova Freedom Flotilla. Determinati a ripartire verso Gaza appena possibile, sono disposti a guardare al passato solo per tornare a denunciare l´assalto alla "Mavi Marmara", sul quale gli attivisti già tornati nei loro Paesi continuano a fornire nuovi elementi. I 19 a bordo dell´ultima nave della Flotilla, bloccata sabato dagli israeliani, sono in parte già ad Amman da ieri, in parte in arrivo a Dublino questa mattina, inclusa la premio Nobel Mairead Maguire.
«Siamo delusi, l´obiettivo era Gaza»: il primo a parlare, passato il ponte di Allenby che divide Israele dalla Giordania, è stato Matthias Chang, avvocato, politico e scrittore malese, attivista della Perdana Global Peace come Shamsul Kamal e Ahmed Faizal Bin Azumu. Il gruppo malese include anche il deputato Mhod Nizar Zakaria e due giornalisti dell´emittente TV3, Abdul Halim Bin Mohamed e Mohd Jufri Bin Mohd Judin. Con loro c´erano un marinaio cubano dell´equipaggio e un ottavo espulso, il giornalista indonesiano Surya Fachrizal della rivista Hidavatullah, colpito sulla "Mavi Marmara": ha una ferita da arma da fuoco al petto, fino a ieri non era trasportabile. Ora è ricoverato ad Amman.
«Siamo portatori di un messaggio di pace - ha detto ancora Matthias Chang - Siamo molto tristi per la perdita di vite umane che c´è stata sulla "Mavi Marmara", il messaggio che deve prevalere nel mondo è "non fatelo mai più, non usate le armi". Tenteremo un´altra missione il prima possibile». Quella nuova missione ha già seguaci fra attivisti come i quattro indonesiani che hanno omaggiato al grido di «Allah è grande» l´ambulanza del conterraneo arrivato in Giordania, mentre Hamas saluta «i simpatizzanti della "Rachel Corrie"» e accusa Israele di un nuovo «blitz sionista». Si è fatta sentire anche la voce dei Guardiani della Rivoluzione iraniani: «Siamo pronti a scortare le flottiglie degli aiuti», dice da Teheran la loro guida Ali Shirazi.
Nelle stesse ore, Israele dichiara che sulla Mavi Marmara c´erano cinque passeggeri legati al terrorismo, di cui due di Hamas e uno vicino ad Al Qaeda. Sui siti del Free Gaza, si accavallano altre denunce: «Quattro feriti gettati in mare dagli israeliani - dice Idris Simsek, attivista che era a bordo della Mavi Marmara, al giornale turco Today´s Zaman - e ho visto sparare a un uomo che sventolava una bandiera bianca». La cineasta Iara Lee, dal Brasile: «Un massacro, ma abbiamo filmato tutto». Sul suo blog "Intifada elettronica", Ali Abunimah pubblica le foto del giornale turco Hurriyet: dei passeggeri in giubbotto salvagente tamponano le ferite di giovani con indosso la divisa israeliana. «Loro i soldati li stavano aiutando», commenta. Per Israele, le stesse foto sono prova dell´aggressione subita.
Repubblica 7.6.10Nell´inferno di Gaza isolati dal mondo "Così ci fanno morire lentamente"La disperazione di chi aspettava cibo e medicine: quelle navi ci salvano la vitaReportage da Gaza senza cibo nè medicinedi Pietro Del ReAziz gestiva una fabbrica tessile Adesso ha chiuso per mancanza di materia prima
L´80% dei beni di consumo, dalla farina alle moto, entra a Gaza dai circa 1.600 tunnel
Taisir, 5 anni, è tetraplegico. Il padre: "Non mi danno il visto per farlo curare"
GAZA CITY - È un mare torbido e maleodorante quello da cui doveva arrivare la manna umanitaria fatta di medicinali, cemento, quaderni, giocattoli e tutti quei beni che nella Striscia scarseggiano dal 2006, da quando cioè Israele ha cominciato a soffocarla lentamente, chiudendone i valichi terrestri e isolandola con un impenetrabile blocco navale. «Nutrivamo tutti molte speranze nella nave turca, perché sapevamo che era piena di attivisti e che questi non si sarebbero arresi facilmente», dice Aziz, il quale prima dell´embargo gestiva una fabbrica tessile in cui lavoravano cinquanta persone, ma che un paio d´anni fa è stato costretto a chiudere per mancanza di materia prima. Aziz sperava che l´arrivo della Flottiglia Free Gaza avrebbe concentrato l´attenzione dei grandi network internazionali sulle sofferenze della sua gente. «Da questo punto di vista è andata benissimo: mai come in questi giorni si è parlato delle conseguenze del blocco israeliano. E questo lo dobbiamo ai martiri della "Mavi Marmara"».
Sulle case grigiastre che costeggiano la spiaggia, sventola qualche bandiera turca. L´aria è impestata dal fumo delle bancarelle dove vengono arrostiste pannocchie ancora acerbe. Dopo il cruento arrembaggio di lunedì scorso, quando due giorni fa s´è stagliata all´orizzonte la sagoma della "Raquel Corrie", gli abitanti di Gaza l´hanno appena degnata di uno sguardo. Sapevano che gli israeliani avrebbero intercettato anche il cargo irlandese. Dice Aziz: «Sarebbe stato umiliante accettare quei doni, ma siamo ridotti così male che non avremmo potuto rifiutarli».
Nel porticciolo dove dovevano attraccare le imbarcazioni dei pacifisti molti capannoni sono chiusi. Padre di dieci figli, Soher Bakir ci spiega che da quando c´è il blocco navale, ai pescatori non è consentito allontanarsi più di due miglia dalla costa, perciò oltre la metà della flotta di pescherecci è ormai in disarmo. «Il nostro mare non è più pescoso come una volta, quindi, per sfamare la mia famiglia, la notte sono costretto ad avventurarmi oltre il consentito, rischiando ogni volta la vita. Quando superi di poche decine di metri il limite stabilito, la marina israeliana ti spara addosso», dice Bakir che, suo malgrado, ha cominciato ad acquistare salmone surgelato importato a Gaza dai grossisti di Tel Aviv.
Ex combattente delle milizie Azzadine el Qassam, il braccio armato di Hamas, Hamed Hassan è oggi uno dei leader dell´organizzazione estremista islamica. «Inizialmente i vertici di Hamas erano contrari all´arrivo della flotta umanitaria, perché sostenevano che sarebbe stato come chiedere l´elemosina. Poi, una volta capito il risvolto politico della faccenda, hanno cambiato parere. Ma attenzione: ricevere gli aiuti è anche un´ammissione della nostra incapacità a gestire l´embargo di Israele». Quando gli chiediamo se è per questo motivo che Hamas non lascia entrare a Gaza il carico della "Mavi Marmara" che gli israeliani vorrebbero adesso consegnare ai loro destinatari originari, così risponde Hassan: «Non vogliamo prestarci al gioco di Israele che con una mano accarezza i nostri figli mentre con l´altra cerca di sgozzarti. Netanyahu e i suoi ministri vorrebbero farsi passare per benefattori. Ma si sbagliano se credono di farci la carità».
Emblematica è la storia del piccolo e sorridente Taisir al Burai, cinque anni, da quattro tetraplegico per via di un farmaco sbagliato. Secondo i medici palestinesi e stranieri che l´hanno visitato, la sola opportunità per farlo guarire, o quanto meno migliorare, consiste nel portarlo in Israele o in Germania o addirittura in Giordania, comunque lontano dai decrepiti ospedali di Gaza. «Sono due anni e mezzo che chiedo all´esercito israeliano un visto per uscire da Gaza, ma da allora ho ricevuto soltanto rifiuti», dice suo padre Ramzi, secondo il quale lo Stato ebraico discrimina i più poveri, in particolare se musulmani, come appunto gli abitanti della Striscia. L´esercito di Israele ha tuttavia rilasciato un visto alla moglie di Ramzi, che le permetterebbe di accompagnare il figlio all´estero, in una struttura sanitaria adeguata. «Perché non ce la mando? Perché c´è il rischio che dopo il valico di Erez mia moglie venga stuprata da una banda di ebrei. Ma potrebbe anche finire in un carcere dei servizi segreti israeliani, dove le farebbero il lavaggio del cervello».
Taisir necessita di farmaci che a Gaza difettano. In mancanza di meglio, il bimbo assume una molecola a cui ormai è assuefatto. Ma è proprio vero che nella Striscia scarseggiano le medicine? «Sì, mancano soprattutto quelli per le malattie croniche, che si tratti di anti-diabetici o di anti-ipertensivi. Abbiamo solo quelli che arrivano dall´Egitto attraverso i tunnel», spiega la farmacista Ranya al Daouk. «E´ perciò vitale che i farmaci portati dalle imbarcazioni umanitarie arrivino al più presto, anche se come ho letto da qualche parte sono in parte scaduti e anche se una volta giunti nei nostri ospedali vengono distribuiti non in base al bisogno del paziente ma piuttosto all´identità del malato».
Come i farmaci, anche l´80 per cento dei beni di consumo, dalla farina alle motociclette, entra a Gaza dai tunnel, che seconda una stima della polizia egiziana sarebbero circa 1.600. Secondo Mohammed Hassouna, proprietario dell´omonimo supermercato, questo significa che otto commercianti su dieci sono dediti al contrabbando. «Quanto agli altri sono morti di fame che vivono, o meglio sopravvivono, sia con le tessere alimentari dell´Onu sia di debiti», dice Mohammed. Il quale, per avvalorare la sua tesi, tira fuori da un cassetto un quaderno spesso come un elenco telefonico su cui da quattro anni segna i nomi di tutti i suoi debitori.
l’Unità 7.5.10Intervista a Saeb Erekat
«La battaglia del mare un boomerang per Israele»Il capo negoziatore palestinese: «Il mondo ha visto dove può portare l’unilateralismo. Ma non cadremo nella trappola di fermare la trattativa»
di Umberto De GiovannangeliAvrà vinto la “battaglia del mare” ma ha perso quella della politica. Dopo gli attacchi alle navi della solidarietà, il mondo ha piena consapevolezza di dove può portare l'unilateralismo d'Israele». Incontriamo Saeb Erekat nel suo ufficio a Gerico (Cisgiordania). Il capo negoziatore dell'Anp, primo consigliere politico del presidente Mahmud Abbas (Abu Mazen) ha appena terminato un lungo giro di telefonate con «importanti interlocutori internazionali». «Tutti – dice Erekat a l'Unità – hanno condannato l'atteggiamento israeliano, dichiarandosi disposti a sostenere la richiesta di una fine immediata del blocco a Gaza». Dopo il sanguinoso blitz degli uomini rana israeliani contro la Mara Marmaris, il presidente Abu Mazen parlò di «crimine di guerra» e di «atto di terrorismo di Stato». Affermazioni gravi, che Erekat non rinnega: «Le navi della Freedom Flotilla – rimarca il dirigente palestinese – sono state abbordate in acque internazionali. Israele afferma di non avere nulla da temere. Ma se così è, perché non accetta che sia una commissione d'inchiesta internazionale a fare piena luce su una vicenda che, è bene non dimenticarlo, è costata la vita a nove persone?». La nostra conversazione è interrotta da un assistente di Erekat che comunica una telefonata importante: quella dell'inviato di Obama in Medio Oriente, George Mitchell. Il capo negoziatore del' Anp si assenta per una mezz'ora. Quando rientra appare più sollevato: «La Casa Bianca – ci dice – è consapevole che così non è possibile andare avanti e che prima che avvenga un disastro ancora più grande, è necessario agire per porre fine al blocco di Gaza, e in tempi rapidi».
Come leggere le drammatiche vicende di questi giorni? «Non posso che fare mie le parole della signora Pillay (l'Alto commissario dell'Onu per i Diritti umani, ndr): la legge umanitaria internazionale vieta di affamare un popolo come azione di guerra. Così come è contro il diritto internazionale imporre ai civili punizioni collettive. Hamas non può continuare ad essere l'alibi usato da Israele per giustificare l'ingiustificabile».
Ma questa denuncia non è in contraddizione con la decisione assunta dall' Autorità palestinese di riprendere i negoziati indiretti con Israele? Hamas vi ha attaccati per questo.
«Rinnegare la linea del negoziato è proprio quello che i falchi israeliani vorrebbero che noi facessimo. Ma non cadremo in questa trappola. E tanto meno lo faremo ora che il mondo ha più chiaro dove possa portare l'unilateralismo israeliano. Penso alla posizione assunta dall'Unione Europea, a quella americana, alle parole del Papa, del segretario generale delle Nazioni Unite. La prova di forza contro le navi della solidarietà ha indebolito politicamente Israele anche agli occhi di chi ne aveva sempre sostenuto a spada tratta le ragioni. Negoziare non significa cedere. Significa far valere le nostre ragioni anche in sede diplomatica. Ed è ciò che intendiamo fare. So bene che non è impresa facile e che ogni giorno siamo chiamati a fare i conti con iniziative delle autorità israeliane che contrastano palesemente con l'asserita volontà di dialogo. Penso alla colonizzazione in Cisgiordania e a Gerusalemme Est, penso al blocco di Gaza...Ma, lo ripeto, l'esibizione di potenza di cui ha dato prova Israele non è un segno di forza ma di debolezza».
Debolezza?
«Sì, debolezza. Perché non è attaccando navi pacifiste che Israele garantirà la sua sicurezza. Così alimenterà ancor più la rabbia non solo fra i palestinesi ma nel mondo arabo e musulmano, e nella stessa opinione pubblica europea. Spero che in Israele cresca la consapevolezza di ciò».
In una recente intervista a l'Unità, il leader di Hamas nella Striscia, Ismail Haniyeh, non ha chiuso le porte ad una forza d'interposizione tra la Striscia e Israele.
«È una proposta che l'Anp fa sua. Una forza internazionale sotto egida Onu può accompagnare la fine del blocco a Gaza e garantire la sicurezza di ambedue le parti. Aggiungo che questo meccanismo di verifica potrebbe poi presiedere all'attuazione di altri punti di un accordo di pace. Questo è un punto essenziale, perché le intese non basta firmarle, poi vanno applicate e fatte rispettare. E questo non potrà avvenire senza un impegno sul campo della Comunità internazionale, e in particolare del “Quartetto” (Usa, Onu, Russia, Ue) che ha tracciato un percorso di pace senza però definire tempi e modi della sua attuazione».
Un accordo che ha bisogno di un'”assistenza” internazionale. In particolare degli Usa. Delusi da Barack Obama? «No, non siamo delusi, semmai esigenti. Il presidente Obama crede davvero in un “Nuovo Inizio” in Medio Oriente e in una pace fondata sulla soluzione “due popoli, due Stati”. Per questo è osteggiato dalla destra oltranzista israeliana. A Obama, come all'Europa, chiediamo di dare continuità e maggiore determinazione alla propria iniziativa. Ora più che mai, perché, come dimostrato da quanto accaduto in questi giorni, il tempo non lavora per la pace”.
Si è più forti se si è uniti. Ma in campo palestinese l'unità tra Fatah e Hamas è una metà irraggiungibile? «Sarebbe una sciagura se fosse così. Per quanto ci riguarda, perseguiamo l'unità. Una base già c'è: ed è quella mediata a suo tempo dall'Egitto. Se Hamas l'accetta, il più è fatto».
Repubblica 7.6.10Bioetica, dopo il caso Eluana ecco il rapporto ministeriale"Lo stato vegetativo non esclude la coscienza"di Alberto Custodero"Anche chi è in stato vegetativo può essere cosciente"
Il rapporto degli esperti ministeriali dopo il caso Eluana. Roccella: ora via alla legge
Questi pazienti percepiscono il dolore: quindi vanno trattati con medicine adeguate
Nella maggior parte delle regioni non ci sono attrezzature per le cerebro-lesioni acquisite
ROMA - «Non si può escludere la presenza di elementi di coscienza» nei pazienti in stato vegetativo. Ma il «livello e la qualità di tali elementi di coscienza variano verosimilmente da paziente a paziente, anche in dipendenza dal contesto ambientale». Contrariamente a quanto finora sostenuto, («lo stato vegetativo è caratterizzato dalla mancata coscienza di sé e dell´ambiente»), è questa la conclusione destinata a fare discutere alla quale è giunto il "gruppo di lavoro sullo stato vegetativo e di minima coscienza" istituito dal ministero della Salute dopo il caso di Eluana Englaro. E presieduto dal sottosegretario Eugenia Rocella. All´indomani della morte di Eluana, Berlusconi - dopo aver espresso la sua contrarietà «all´eutanasia di Stato» - annunciò che «il vuoto normativo sul tema del fine vita» non sarebbe stato più lasciato «all´interpretazione della magistratura» ma sarebbe presto stato «colmato da una legge». Proprio mentre il nuovo testo della norma sul biotestamento è in dirittura d´arrivo alla Camera, il "documento finale" del "gruppo di lavoro Rocella" (insieme al "Libro bianco" redatto dalle Associazioni), arriva a fargli da corollario tecnico-etico-scientifico. E a denunciare una grave lacuna strutturale nel sistema sanitario nazionale: «Nella maggior parte delle regioni - sostengono gli esperti - non sono stati attivati veri percorsi regionali istituzionalizzati per la corretta gestione sanitaria delle gravi cerebrolesioni acquisite». Il trend dei malati in stato vegetativo dal 2002 ad oggi è in continuo aumento, anche se rimane ancora alto (fino al 42,3 per cento), la percentuale delle errate diagnosi. Per il futuro, dunque, si «raccomanda» l´istituzione di un «registro nazionale dei disturbi prolungati di coscienza con segnalazione obbligatoria dei casi».
Ma il punto nodale dello studio è quello che spiega come il medico, la società e l´opinione pubblica devono porsi nei confronti di questi particolari malati «con gli occhi aperti» la cui «sopravvivenza necessita di idratazione e nutrizione assistita». Ma che non sono in «coma alternando il sonno alla veglia».
Quando ci si avvicina ai loro letti per curarli e studiarli, dicono i "saggi" del ministero, «si compie una scelta etica fondata sia sul rispetto della persona, sia sul duplice rifiuto dell´abbandono assistenziale e dell´accanimento terapeutico». Il che, tradotto, significa: «per rispetto della persona» non va sospesa l´alimentazione assistita come avvenuto nel caso di Eluana («rifiuto dell´abbandono assistenziale»). Ma non bisogna ostinarsi in cure e trattamenti sproporzionati («rifiuto dell´accanimento terapeutico»), rispetto all´eventuale concreto risultato in termini di qualità ed aspettativa di vita. A tal proposito, il "gruppo di studio Rocella" è convinto che «il miglioramento dei modelli assistenziali e la ricerca scientifica possano offrire un importante contributo per far crescere l´efficienza in sanità, al fine di garantire maggiori livelli di giustizia per tutti i cittadini fondati su principi di equità e solidarietà all´interno del corpo sociale. E per far avanzare il livello complessivo di civiltà del Paese».
Per gli esperti della commissione ministeriale (Gianluigi Gigli, Antonio Carolei, Paolo Maria Rossini e Rachele Zylberman), infine, questi pazienti caratterizzati dalla «mancanza di coscienza del sé e dell´ambiente», in realtà, percepiscono il dolore. Nel loro stato di «incoscienza a occhi aperti» soffrono, pertanto il "gruppo di lavoro" raccomanda di «estendere la prescrizione di antidolorifici a tutti quelli in stato vegetativo ai quali siano diagnosticate verosimili fonti di dolore come ascessi e piaghe da decubito».
Repubblica 7.6.10"Bella ciao", un pericolo per l´ordine costituitoVorrei esprimere qualche riflessione scevra da indignazione o acredine di parte sull´episodio incorso al ministero della Pubblica Istruzione in seguito al canto di "Bella ciao", intonato da ragazzini e ragazzine, età media 12 anni, appartenenti ad un gruppo interclasse ad indirizzo musicale della scuola media inferiore "G. G. Belli" di Roma, invitati a prodursi con orchestrina e relativo accompagnamento corale, a viale Trastevere.
Era presente il sottosegretario Pizza e si è anche affacciata la ministra Gelmini. Al termine alcuni alunni, presto seguiti dagli altri, hanno intonato e suonato "Bella ciao". La canzone, pur non figurando nell´elenco di quel giorno, fa tuttavia parte del repertorio "musicale" del Belli ed era stata eseguita in molte altre occasioni. Si è trattato, comunque, di un fuori programma, difficile da confondere con un bis, in genere concesso altre volte ma con l´innocuo "tanto pe´ cantà". È lecito arguire che quegli adolescenti abbiano voluto in un certo senso mimare una forma di protesta mutuata dai cortei studenteschi, già visti tante volte direttamente o alla televisione. Nella forma e nella sostanza si è trattato di una manifestazione corretta, direi gentile, senza slogan e tanto meno espressioni di aggressività. Ciò detto la preside era nel suo diritto nel fare osservare ai ragazzi che quando si è chiamati a partecipare a una performance istituzionale è d´uopo attenersi al copione concordato, senza abbandonarsi a dissonanze che non sempre si concludono, come invece questa volta, in ordine e in allegria.
Quel che, invece, preoccupa è l´irato risvolto politico, fortemente polemico della lettera della preside a docenti, alunni e famiglie in cui stigmatizza lo «sconcertante episodio» che getterebbe «un´ombra di discredito difficile da dissipare, che ha messo in difficoltà la scuola Belli nel suo complesso», invita i genitori a scusarsi e a far capire che «se è giusto esprimere le proprie convinzioni anche se divergenti, è altrettanto giusto non assumere iniziative che travalicano i limiti dell´opportunità, del rispetto delle persone, della correttezza e del buon gusto». Frasi che si attaglierebbero ad un coro di sconcezze goliardiche e non a una spontanea, innocua disobbidienza adolescenziale. È seguito un fitto scambio di e-mail tra genitori, in grande maggioranza critici nei confronti della lettera. Alcuni hanno ricordato che fino a poco tempo fa "Bella Ciao" era quasi una canzone istituzionale, un canto di partigiani senza colore politico, in cui si possono riconoscere i democratici di ogni colore politico e le Istituzioni nate dalla Resistenza e dalla Costituzione.
Tutto vero, anche se non voglio pensare che la preside nutra sentimenti antidemocratici, ma piuttosto risenta, ed è forse più grave, di un clima generale di misconoscimento e snaturamento della storia d´Italia, con un ricasco polemico che svia il senso degli eventi. Questo può riguardare la Resistenza o, se visto in chiave leghista, il Risorgimento, il Tricolore, l´Unità d´Italia o, infine, per non pochi esponenti del Pdl, la stessa Costituzione. Le conseguenze, soprattutto, sul piano formativo possono essere devastanti. Credo che per evitare le asperità di un libero dibattito, molti insegnanti optino per una specie di agnosticismo che porta a considerare una turbativa della normalità scolastica l´intrusione di certe tematiche, gestibili al massimo nell´alveo dei corsi di studio stabiliti. Una pedagogia riduttiva, senza passione, impossibilitata a formare giovani cittadini. È un fenomeno che riguarda anche il mondo adulto, dove si può dissacrare ogni cosa senza imbarazzo. Mi vien da pensare quando a "Porta a porta", parlando della Resistenza dei militari deportati in Germania che avevano rifiutato di essere liberati a condizione di giurare per Salò, il ministro della Difesa, La Russa, spiegò il loro gesto come un atto di comoda prudenza: meglio nel lager che di nuovo in guerra. Nessuno gli ha ricordato le diecine di migliaia di soldati, tra cui 18 generali, morti in quei «comodi» lager.
Repubblica 7.6.10Parla la Rahnavard, moglie del leader dell´opposizione Moussavi e cervello della Rivoluzione verde Ahmadinejad la minaccia ma lei non si lascia intimorire: "Torneremo in piazza e conquisteremo la democrazia"Zahra, l´eroina che sfida il regime "Porteremo la libertà in Iran"di Francesca CaferriDa un anno gli iraniani sono sottoposti a varie forme di oppressione, solo perché hanno chiesto che fine avevano fatto i loro voti
Le donne chiedono uno stato di diritto, la scarcerazione dei detenuti politici e l´approvazione di leggi che stabiliscano la parità dei sessi
Foulard a fiori sul chador nero, sorriso forte, sempre a fianco del marito: un anno fa la presenza di Zahra Rahnavard accanto al candidato riformista Mir Hossein Moussavi, fu la prima delle novità delle elezioni presidenziali in Iran. Mai prima di allora una moglie aveva occupato un ruolo di primo piano. Mai prima di allora era apparsa come una consigliera tanto importante. Mai prima di allora un candidato, l´attuale presidente Mahmud Ahmadinejad, aveva attaccato pubblicamente la compagna del rivale, Moussavi appunto. Zahra Rahnavard è passata in mezzo a tutto ciò con una tenacia da combattente: 65 anni, pittrice, scultrice, primo rettore donna di un´università iraniana, sostenitrice della prima ora della rivoluzione khomeinista, da un anno condivide con il marito la sorveglianza costante a cui il governo di Teheran li sottopone. In questi mesi tramite Twitter e Facebook ha continuato a far sentire la voce dei riformisti iraniani. L´autorevole rivista Foreign Policy l´ha nominata terzo intellettuale più influente del mondo - preceduta dal presidente Usa Barack Obama e seguita dall´economista Nouriel Roubini - definendola «il cervello dietro alla Rivoluzione Verde». Per mesi la signora Rahnavard, come suo marito, ha rifiutato di rispondere alle domande dei giornalisti occidentali, per non essere accusata di essere strumento di potenze straniere. Rompe il silenzio, tramite un esule a lei vicino, alla vigilia del 12 giugno, anniversario delle elezioni contestate: data che gli esperti giudicano fondamentale per capire se il Movimento Verde avrà un futuro.
Signora Rahnavard, come avete vissuto lei e suo marito questi 12 mesi?
«Da un anno gli iraniani sono sottoposti a varie forme di oppressione, solo perché hanno chiesto che fine avevano fatto i loro voti. Le autorità avrebbero potuto rispondere in modo legale: hanno scelto invece di arrestare e sparare. In questa situazione io, mio marito, Karroubi (l´altro candidato riformista ndr.), Khatami (ex presidente, anch´egli riformista ndr.) e le nostre famiglie siamo stati fatti bersaglio di accuse, abbiamo subito choc (il fratello di Rahnavard è stato arrestato e tenuto in isolamento per sei mesi ndr.) e siamo stati fisicamente percossi. Questo tuttavia non ci ha spaventato: nella mia vita non ho mai avuto paura di nessuna persona o nessun regime. Anche Moussavi, rispetto al passato, parla e agisce con più coraggio: non rinuncerà mai ai suoi ideali. Lo stesso vale per il popolo iraniano: oggi non chiede solo dov´è finito il suo voto, ma libertà, democrazia, stato di diritto. Queste richieste vanno molto oltre le iniziali proteste».
Un anno fa, in questi giorni, eravate quasi certi della vittoria: che sentimento prova oggi guardando indietro?
«Rammarico. L´obiettivo del Movimento Verde è il benessere della gente, mentre l´attuale regime ogni giorno causa più miseria e minaccia le libertà basilari. Le elezioni sono state una grande occasione negata al popolo iraniano e non è possibile tornare indietro: l´attuale regime vuole rovesciare la Repubblica Islamica e fondamenti su cui è costruita. Né io, né Moussavi, né Karroubi vogliamo questo: dunque non ci può essere dialogo. Assistiamo a processi che si tengono in modo da portare alla pena capitale: assistiamo ad esecuzioni politiche, che non hanno giustificazione legale né giuridica. Torneremo in piazza nei giorni dell´anniversario e la presenza di milioni di manifestanti sarà il preannuncio della vittoria».
Il Movimento Verde è accusato di essere strumento delle potenze occidentali …
«Il Movimento Verde è assolutamente nazionale, iraniano, popolare e interno. Non è legato e non trae ispirazione da nessuno fuori dall´Iran. Quello che la comunità internazionale può fare per noi è sostenere il desiderio di libertà in qualunque parte del mondo. Ma è il popolo iraniano che deve risolvere i suoi problemi».
Quanto pesa la questione nucleare nelle relazioni fra l´Iran e il mondo?
«Il regime sfrutta questa questione. Tramite la minaccia nucleare cerca di acquistare all´estero la legittimità che non ha in patria: lo fa scandendo slogan durissimi, ma poi trattando e concedendo privilegi ad altri governi. Ma non può farlo, perché non è legittimo: fino a quando un governo non agisce in sintonia con il proprio popolo, non avrà la reputazione da nessuna parte del mondo».
Lei e suo marito vivete sotto costante minaccia: avete mai pensato di lasciare il paese?
«No. Il nostro destino, ora più che mai, è legato a quello del popolo iraniano».
In questi mesi la figura di suo marito è cambiata molto: si era presentato alle elezioni come un "tecnico" di tendenze riformiste. Oggi è il leader carismatico di quella parte di Iran che vuole che tutto cambi…
«Durante la campagna elettorale io, Moussavi e il popolo iraniano avevamo delle aspettative: volevamo il miglioramento della situazione nel nostro Paese. Chiedevamo il rispetto dei diritti individuali, la non interferenza del governo nella vita personale, la libertà, la democrazia, lo stato di diritto. Con quello che è successo dopo, le proteste e le azioni della gente e le nostre si sono influenzate e rafforzate reciprocamente. Oggi il popolo è più avanti di noi e ci sta trascinando verso i suoi obiettivi».
Lei è stata il simbolo che ha spinto migliaia di donne a votare per suo marito: le stesse che poi abbiamo visto in piazza. Che ruolo hanno le donne nell´Onda Verde?
«L´attuale regime iraniano, nell´ultimo anno, ha oppresso le donne in molti modi: ha cominciato con me, tentando di ridicolizzare la mia reputazione in campo scientifico e artistico. Poi lo ha fatto con tutte quelle che hanno protestato: ma questa oppressione non le ha scoraggiate. Le donne iraniane chiedono due cose: libertà, democrazia, stato di diritto, scarcerazione di tutti i detenuti politici. E l´approvazione di leggi che stabiliscano la parità tra i sessi. Senza una risposta positiva alle loro richieste la democrazia non potrà essere mai raggiunta».
Zahra Rahnavard, se dovesse fare una previsione oggi sul futuro del suo paese cosa direbbe?
«Vincerà il popolo, raggiungerà i suoi obiettivi. Accadrà grazie alla costanza e alla resistenza della gente. Alla fine trionfa sempre la giustizia, anche se richiede molto tempo. Nel mondo moderno non c´è posto per la dittatura e l´autocrazia. Il mondo dei media, di Internet, del digitale, delle opinioni e dei pensieri richiede democrazia, libertà nazionale e libertà individuale. L´Iran fa parte di questo mondo».
(ha collaborato Mostafa Khosravi)
l’Unità 7.5.10Conversando con Simonetta Agnello Hornby
«Da Lewis Carroll a Jackson ecco i seduttori di bambini che la società non vuol vedere»
di Maria Serena PalieriÈ un’indagine sull’autore di «Alice». E sulla società che gli regalò vittime e perdonò le sue malefatte
La pedofilia con internet oggi è in crescita, è diventata multinazionale Perciò è difficile batterla
Evelyn Hatch è una versione in chiave fotografica della Maya desnuda di Goya: distesa con le braccia a cingerle la testa, e a metterle in risalto il petto, una gamba morbidamente reclinata sull’altra. Evelyn Hatch però aveva 8 anni quando, negli ambienti del college Christ Church di Oxford, il 29 luglio 1879, la ritrasse il diacono Charles Lutwidge Dodgson, già famoso da un quattordicennio come Lewis Carroll per Alice nel paese delle meraviglie e Dietro lo specchio. Pedofilia? Ma in età vittoriana, sostengono i difensori di Dodgson, l’infanzia femminile senza veli era, non solo per lui, simbolo d’innocenza. Guardiamo allora Irene MacDonald, fotografata dallo stesso nel 1863 all’età di 6 anni: è vestita, calzette bianche e scarpe col cinturino, ma è riversa su un canapé d’epoca, con uno scialle da cui sbuca una spalla nuda, come chi esce dal sonno, o meglio da un amplesso, e ha uno sguardo per l’enigmatica sofferenza che manifesta impossibile da sostenere. Camera oscura, il volumetto che riporta queste due foto (Skira, pp. 127, euro 15), è il testo a metà tra documento e finzione in cui Simonetta Agnello Hornby si cimenta col mistero del celebrato padre del libro più citato della letteratura in lingua inglese, dopo le opere di Shakespeare. Non è la prima a farlo. Prima che l’archivio del reverendo Dodgson, secretato dagli eredi per 74 anni, diventasse pubblico, nel 1969, a esso aveva attinto un nipote, Stuart Dodgson Collinwood, per un’agiografia. Furono molte, a funerale svolto, le ex-«bambine-amiche» che scrissero testimonianze apologetiche. È del 1999, poi, un’opera ancora «riabilitante» di Karoline Leach, sempre in questo 2010 tradotta in italiano da Castelvecchi, La vera storia del papà di Alice. Simonetta Agnello Hornby non la pensa così. E lei è, oltre che l’autrice di una trilogia romanzesca siciliana edita da Feltrinelli, un’avvocata e giudice da un quarantennio a Londra impegnata nel terreno dell’abuso dei minori. Il suo ultimo romanzo, Vento scomposto, si ispirava appunto a uno dei casi da lei trattati nella sua carriera. Perciò Camera oscura è un libro in cui, con la bella penna della romanziera, è una specialista a indagare sul caso Carroll: nella prima parte la scrittrice immagina la storia di Ruth Matthews (nella realtà Mayhew), una delle bambine «kissable», «baciabili», secondo il requisito che l’autore di Alice imponeva alle famiglie; nell’intermezzo svolge le sue considerazioni; e in appendice, dopo le foto, riporta le lettere che Dodgson scrisse a un certo punto ai Mayhew. Ed è un libro, Camera oscura, che esplorando il terreno scivoloso su cui in età vittoriana si muoveva il reverendo Dodgson, sottotraccia interroga il fenomeno della pedofilia nel mondo d’oggi.
Com’è nato questo testo?
«Su commissione. E di questo ringrazio l’editor, Eileen Romano. Ma ad affascinarmi, nel suo orrore, è stato il carteggio che mi hanno fatto avere che il reverendo Dodgson tenne con i Mayhew. Mancano le lettere loro,come quelle di Ruth, così come non c’è traccia delle fotografie fatte a lei e alle sue sorelle. Però Dodgson dai 30 anni in poi teneva un riassunto di tutte le lettere che riceveva e conservava una copia delle sue. Di queste, ne aveva 98.000. Dunque, un vanesio. Quello che impressiona, leggendo, è la sua arroganza. Dodgson era un arrampicatore. A 24 anni comprò la macchina fotografica, all’epoca status symbol, e fu così che riuscì a entrare nella cerchia di Tennyson». Eccoci già oltre l’immagine che l’opinione pubblica inglese predilige di lui, il religioso timido e rimasto candidamente bambino, romanticamente innamorato della piccola Alice Liddell, ispiratrice del suo capolavoro. In questi mesi, immagino, lei si sarà chiesta: se me lo fossi trovata davanti in tribunale, come l’avrei giudicato? Che risposta si è data?
«Avrei chiesto investigazioni più approfondite. Non ho dubbi che, dagli incontri con le sue “amiche-bambine”, traesse un piacere sessuale. Le baciava sul lobo dell’orecchio. Io credo che si eccitasse, ma che rispettasse un limite con le figlie dei suoi amici, non le penetrasse. Però c’è quel mistero della gran quantità di denaro donata a un uomo che aveva delle figlie. E ci sono le modelle che, dal 1880, abbandonata la fotografia, gli procura per le sue tele Gertrude Thompson. Da avvocato qui avrei scavato. E perché non fece mai ritratti delle sue nipoti, né le invitò mai a stare a casa sua? Perché il suo archivio fu secretato fino al 1969, quando fu venduto alla British Library, e fratello e nipoti ne distrussero l’80%? Di nudi, ne rimangono quattro, ma quanti erano in realtà? Io, Lewis Carroll, lo chiamo un porco. Più di un pedofilo...».
Più di un pedofilo?
«Il pedofilo è convinto che ai bambini piaccia. Perciò non si cura mai. Il reverendo Dodgson aveva una sessualità estesa, frequentava teatri e attrici, donne adulte, ragazze, bambine. Sapeva quello che faceva».
Smontare l’immagine di Lewis Carroll, in Inghilterra, è l’equivalente di farlo da noi con Collodi. Ma la sua indagine è anche un atto d’accusa alla società vittoriana. Quei genitori conniventi... Oggi potrebbe succedere? «Il vittorianesimo, più lo conosco più lo detesto. C’era una prostituzione infantile violenta e organizzata. Il direttore della Pall Mall Gazette fece un’inchiesta fingendosi un cliente e gli portarono una bambina cloroformizzata. Lo stesso Dodgson reagì scrivendo al ministro, Lord Salisbury, che il reportage “contaminava le menti”... Però spostiamola all’oggi, immaginiamo che un famoso presentatore dica “Datemi vostra figlia, la metto in un programma di successo. Purché sia baciabile”. In quanti non gliela darebbero? I bambini che dormivano nel letto con Michael Jackson, non erano i genitori a darglieli? Ma l’opinione pubblica non vede».
Qual è il messaggio che ha voluto lanciare col suo libro? «Ho voluto mostrare l’abuso sul minore nella sua complessità. Non è solo quello fisico. Perciò ho immaginato che Ruth Mayhew si fosse innamorata del reverendo e avesse sofferto da bambina per il distacco. Il pedofilo seduce insegnando... Ed è la vittima a sentirsi in colpa. E quando l’abuso è in famiglia, e il genitore viene allontanato, è di nuovo la vittima a sentirsi colpevole».
Il fenomeno pedofilia è in crescita?
«Con internet si è strutturato su scala multinazionale e i governi faticano a combatterlo. È in crescita straordinaria perché è più facile praticarlo. Ma c’è un altro risvolto da sottolineare: la moda per bambine le vuole vamp a tre anni. E questo, nei pedofili, acuisce il desiderio. Inoltre è prassi, in Inghilterra come in Italia, radunare i pedofili in carcere nello stesso braccio per sottrarli al “castigo” degli altri reclusi. E così, quando escono, sono più esperti e organizzati».
A settembre per Feltrinelli uscirà il suo nuovo romanzo, «La monaca». Torna nella natìa Sicilia? «Sì. È la storia di una ragazza dell’800 costretta a farsi suora. Ma che nel 1848 si spoglia ed esce. Non è come la Gertrude di Manzoni, lei ama Dio, ma la vita l’attira troppo».
Ha lasciato il lavoro di giudice. Sta per lasciare quello di avvocato. Vede un futuro da scrittrice pura? «No, non è giusto. Sono sociale, mi piace fare. E ho sempre lavorato in un campo, quello della povera gente».