Il popolo e la libertà
di Ezio Mauro
Soltanto un potere impaurito poteva decidere di proteggere se stesso con una legge che ostacola la libertà delle inchieste contro la criminalità, riduce la libertà di stampa e limita soprattutto il diritto dei cittadini di essere informati. Tre principi dello Stato moderno e democratico il dovere di rendere giustizia cercando le prove per perseguire il crimine, il dovere della trasparenza e della circolazione delle informazioni nella sfera pubblica, il diritto di avere accesso alle notizie per capire, controllare e giudicare vengono messi in crisi, per il timore che i faldoni dell´inchiesta sulla Protezione Civile aprano nuovi vuoti nel governo, dopo le dimissioni del ministro Scajola.
È la vera legge della casta che ci governa e ha paura, come ha rivelato ieri Berlusconi, di «toghe e giornalisti». Per una volta, quello del Premier non è un anatema, ma una confessione: legalità e informazione sono i due incubi della destra berlusconiana, e nel paesaggio spettrale dei telegiornali di regime il governo con questa legge s´incarica infatti di bloccarli entrambi. L´obiettivo è che il Paese non sappia. E soprattutto, che non sapendo rimanga immerso nel senso comune dominante, senza più il pericolo che dall´intreccio tra scandali, inchieste e giornali nasca una pubblica opinione libera, autonoma e addirittura critica.
Questa è la vera posta in gioco: non la privacy, che può e deve essere tutelata se le parti giudiziarie decidono quali intercettazioni distruggere e quali rendere pubbliche, lasciando intatta la libertà d´indagine e quella d´informazione. Ma proprio questi sono i veri bersagli da colpire. Lo rivela lo stesso Berlusconi che ieri, in piena crisi d´incoscienza, si è astenuto sulla legge perché la vorrebbe ancora più dura.
La legge, così com´è, non piace a nessuno e fa male a tutti. Va fermata, nell´interesse del sistema democratico, che deve garantire il controllo di legalità, e che deve assicurare trasparenza d´informazione. Non c´è compromesso possibile su questioni di principio, che riguardano i diritti dei cittadini, i doveri dello Stato. La destra impari a fidarsi dei cittadini, a non temere la normale esigenza di giustizia, il bisogno di conoscere e rendersi consapevoli. Oppure smetta di chiamarsi popolo: e soprattutto, della libertà.
Bergonzoni
http://tv.repubblica.it/edizione/bologna/duse-il-messaggio-di-bergonzoni/48457?video=&pagefrom=1&ref=HRESS-9
l’Unità 9.6.10
Tendenze Crescono le adesioni all’associazione dei partigiani soprattutto da parte degli under 30
Motivazioni Reagire alla «nuova barbarie», dicono molti. E ad Ancona la Festa: italiani di Costituzione
«Mi iscrivo all’Anpi perché...» La carica dei giovani partigiani
«Per mio nonno, mio padre, per il mio futuro». «Perché sono migrante». «Per oppormi alla deriva destrorsa». Una valanaga di nuovi iscritti all’Anpi. Quasi tutti giovani. Da tutta Italia e pure dall’estero.
di Gabriella Gallozzi
La proposta. Ai nuovi iscritti il nome di un partigiano per conservarne la memoria
Antifascista. Che bella parola. E soprattutto non sa di «marmellata», come il pensiero unico che sta invischiando il nostro presente. Dice subito da che parte si sta. Quella giusta. Quella che scelsero in tanti, oltre sessant’anni fa, pagando anche con la vita, per fare di questo paese un luogo di libertà e democrazia. Ripartiamo da qui.
Sono tanti, tantissimi e soprattutto giovani, infatti, i nuovi «antifascisti» che hanno scelto di essere «volontari per la democrazia» iscrivendosi all’Anpi, la storica associazione dei partigiani che, negli ultimi anni, ha aperto le porte anche a chi la Resistenza non l’ha vissuta. Un modo per passare il testimone alle nuove generazioni. Per continuare a far vivere la memoria, messa a rischio dalla scomparsa degli stessi protagonisti, oltre che dal violento revisionismo di regime. Una nuova Resistenza, dunque, alla quale si sono iscritti in oltre 110mila, almeno 20mila in più dell’anno scorso col titolo di «antifascisti», appunto. E che avrà il suo momento clou nella seconda Festa Nazionale dell’Anpi, dal 24 al 27 giugno ad Ancona: Italiani di Costituzione. Sul sito (www.anpifesta.org) stanno arrivando adesioni da tutta Italia e non solo. Mentre è continuo il flusso di richieste d’iscrizione all’Anpi. Chiedono come si fa, dove possono trovare la sede dell’Associazione. Ma soprattutto spiegano il perché. Cose «pratiche» come organizzare un’assemblea all’università di Teramo, per esempio, che chiede un ventitreenne per rispondere «alla violenza di squadristi fascisti» che hanno accoltellato tre giovani, nell’indifferenza collettiva. Oppure indignazione e «vergogna» per questa classe politica come scrive un cittadino di Salerno dopo aver ricevuto la lettera della Provincia in cui si dice che «i partigiani non hanno fatto nulla per liberare l’Italia dal nazi-fascismo. Ma sono stati gli americani».
I PIÙ GIOVANI
Tanti sono i ragazzi. C’è pure un quattordinenne che chiede un modo per mettersi «in contatto con qualcuno che mi racconti la sua Resistenza». Una ventottenne che «confessa» di aver scoperto l’esistenza dell’Anpi «guardando Annozero» e che desidera «confrontarsi con persone LIBERE, che riconoscono il valore della nostra COSTITUZIONE e intendono difenderla». Un trentenne, di Frosinone, che vorrebbe aprire lui una sede dell’Anpi perché «qui i ragazzi hanno preso una deriva destrorsa e fascistoide». Anche dall’estero sono tantissime le richieste. C’ è chi scrive dal Belgio, dalla Germania, dalla Spagna, dalla Svizzera. «Sono un’italiana “migrante”, figlia di migranti italiani», scrive Chiara, che chiede l’iscrizione perché «vorrei almeno dire a mio figlio di 6 anni che la mamma d’ora in poi cerca di dare un segnale, associandomi con persone giuste visto che da sola si combina poco». C’è poi chi lancia delle proposte per il futuro: «Sarebbe bello che quando qualcuno si iscrive suggerisce Giorgio gli venga affidato il nome di un partigiano così da prendere in carico la storia e la testimonianza del compagno che ci ha lasciato. Avremmo così tramandato alle nuove generazioni il ricordo e la storia di un uomo o una donna che non abbiamo conosciuto ma che ci ha liberato dal fascismo». E c’è ancora chi vorrebbe diventare «partigiano simpatizzante», come scrive un 54enne che vive a Bari: «è inutile stare a dire i motivi di questa scelta. Lo potrei fare per mio nonno, per mio padre, per mio zio, ma sono troppo vecchio per fare il romantico. E allora io dico: mi voglio iscrivere per me. Voglio in questo modo testimoniare il bisogno di appartenenza. O se vogliamo di assenza di figure e/o organizzazioni capaci di rappresentarmi». Desiderio di appartenenza, dunque. Andata delusa dall’universo politico. È questa la richiesta più sentita dai nuovi «antifascisti» che si raccolgono intorno all’Anpi. «Io e mio marito scrive una coppia custodiamo la gratitudine per tante donne e uomini che con il loro sacrificio ci hanno regalato la democrazia che persone indegne stanno cercando di toglierci. Abbiamo deciso di iscriverci all’Anpi per darvi forza. Crediamo che sia ora di una nuova resistenza contro la barbarie più sottile, ma non per questo meno pericolosa che pervade il nostro paese. Grazie per quello che fate».
l’Unità 9.6.10
Una rete per far vivere i luoghi
dell’antifascismo
Da Casa Cervi alla Risiera di San Sabba nasce un collegamento di siti in cui si è svolta la Storia. Per viaggiare dal vivo dentro il ‘900
di Mirco Zanoni
Il coordinamento dei luoghi della memoria in Italia è una sfida a cui sta lavorando da quasi due anni l’Istituto Alcide Cervi. Una rete di musei, memoriali, percorsi, centri di sensibilizzazione che hanno al centro la storia dell’antifascismo, della Resistenza, della deportazione, della guerra.
Non si tratta di luoghi muti, o semplici «pietre dolenti», lapidi di una stagione di sofferenza che ha costellato soprattutto il biennio 1943-45. Al contrario, lo sforzo che si sta mettendo in atto, a partire dalla Casa dei sette fratelli Cervi, è quella di creare una grande sinergia tra luoghi attivi di cultura, didattica, ricerca, turismo consapevole. Un’esperienza non dissimile a quella che è già presente in Paesi come Germania e Francia sugli stessi temi.
Andare a memoria è il seminario che si è svolto proprio presso il Museo Cervi di Gattatico (Reggio Emilia) il 4 e 5 giugno, in cui si è sancito l’inizio di questa rete. Insieme alla Fondazione Villa Emma di Nonantola e al Coordinamento Associazioni per Monte Sole, l’Istituto Cervi ha ribadito la nascita di Paesaggi della Memoria, attorno ad un primo nucleo forte di luoghi in tutta Italia (23 ad oggi) e incarnato in un manifesto o carta d’intenti che è possibile conoscere attraverso il sito www.fratellicervi.it. Questa rete si sta già allargando ad altri attori, specialmente nel centro Italia, costellata di esempi dei Campi di concentramento fascisti per slavi e dissidenti: la loro presenza ad «andare a memoria» pochi giorni fa, è il segno di una necessità avvertita da più parti, fare «massa critica» di un patrimonio (i luoghi, appunto) dove i cittadini possano toccare con mano la storia, incontrare ancora la memoria dei testimoni, approfondire con strumenti al passo coi tempi la conoscenza storica in Italia. Nella consapevolezza che, sulla memoria, chi si ferma è perduto. Andare a memoria, nel gioco di parole evocato, è anche un invito di moto a luogo verso la conoscenza di quegli anni.
Certo, un cammino impervio nei siti autentici della storia. Vicende locali ma assolute, familiari e collettive (Casa Cervi, Villa Emma), di stragi e di deportazione (Monte Sole-Marzabotto, S. Anna di Stazzema, Fossoli, Borgo San Dalmazzo...), che viste nel loro insieme danno la geografia della memoria.
I prossimi passaggi saranno quelli di sollecitare un ampliamento di Paesaggi della memoria, mentre si costruiranno strutture in grado di essere interlocutori all’altezza della sfida. Sollecitando le istituzioni in ogni modo: l’assessore alla cultura dell’Emilia Romagna Massimo Mezzetti ha preso impegni sul tema di legislazione di tutela dei luoghi. Così come già presente in Piemonte, regione costellata di luoghi della memoria e di storie di partigiani.
Come qualcuno ha scritto in questi giorni, si tratta di un’azione in controtendenza rispetto alla concezione della cultura vigente in questo Paese. Fare rete serve oggi a difendersi meglio dalla scure dei tagli.
La prossima sfida sarà quella di coinvolgere i grandi monumenti nazionali, irrinunciabili per questa rete. Le fosse Ardeatine, La Risiera di San Sabba, La Foiba di Basovizza. Mentre cresce la consapevolezza che senza questa mappa sensibile di relazione tra territorio e storia, fra cittadinanza e paesaggio umano, la storia complessa della seconda Guerra Mondiale rischia di essere una macchia indistinta (e incolore) sui libri di storia. Casa Cervi continuerà per parte sua a metter gambe, cuore e pensiero ad un progetto di cui va l’identità storica italiana.
Repubblica 9.6.10
Gaza, sì all´inchiesta sul blitz Ki-moon: "Sia indipendente"
GERUSALEMME Israele incaricherà una commissione d´inchiesta di valutare se il blocco marittimo di Gaza e il blitz lanciato il 31 maggio contro la "Freedom Flotilla" siano «conformi al diritto internazionale», ha detto ieri il ministro israeliano senza portafoglio Benny Begin, membro del gabinetto di Sicurezza. Manca però un annuncio ufficiale in attesa che il governo trovi un compromesso in grado di convincere gli Usa a bloccare la creazione di una commissione indipendente in seno all´Onu chiesta dalla Turchia. Lo stesso segretario generale dell´Onu Ban Ki-moon ha ribadito la necessità di una «partecipazione internazionale credibile» nell´inchiesta, considerata «un elemento essenziale» anche dal portavoce del Dipartimento di Stato americano Philip Crowley.
l’Unità 9.6.10
Intervista a Mairead Corrigan-Maguire
«Macché sconfitti. Ora Gaza è sotto gli occhi del mondo»
Un «lento genocidio». Nulla può giustificare quel che avviene nella Striscia. Quanto a noi, siamo stati vittime di un «rapimento collettivo»
La premio Nobel: mi appello a Obama, faccia tutto quello che può per evitare la guerra. Noi non ci arrendiamo, ritorneremo con altre navi
di Umberto De Giovannangeli
L'avevamo vista a distanza. Con un binocolo. Mentre la Marina militare israeliana «scortava» la “Rachel Corrie” nel porto di Ashdod dopo averla abbordata a largo della Striscia di Gaza. Per qualche secondo eravamo riusciti a stabilire un contatto telefonico: «Stiamo bene, non ci siamo arresi, vogliono liberarsi di noi più in fretta possibile...», poi la linea era caduta. Ma non era «caduta» la determinazione che ha sempre caratterizzato la sua azione, la sua vita, da Belfast al Medio Oriente. Una sfida di libertà. Quella di Mairead Corrigan-Maguire, Premio Nobel per la Pace 1976, una delle animatrici del «Free Gaza Movement». Ora che ha fatto rientro forzato a Dublino, riusciamo a ristabilire quel contatto interrotto ad Ashdod. Mairead è stanca, provata, ma non rinuncia ai mille impegni in agenda, ai quali strappa qualche minuto per l'Unità. «Voi dice avevate continuato a denunciare quel criminale embargo quando Gaza sembrava non fare più notizia..». Quando le chiediamo come definirebbe ciò che è accaduto a lei e agli attivisti della «Freedom Flotilla», Maguire non ha un attimo di esitazione: «Siamo stati vittime di un rapimento collettivo in acque internazionali. Quello che sta avvenendo a Gaza denuncia è un lento genocidio del popolo palestinese».
Qual è il sentimento prevalente dopo ciò che ha vissuto e subito a largo di Gaza? «Rabbia. Dolore. Indignazione. Ma anche orgoglio e fierezza per ciò che tutti assieme abbiamo portato avanti. Come vede, è un insieme di sensazioni forti, e non poteva essere altrimenti. Ricordo la nostra ultima conversazione: avevamo parlato di Gaza, della sofferenza della sua gente, di una punizione collettiva atroce, contraria a ogni codice etico, oltre che ad ogni norma del Diritto umanitario e alla quarta Convenzione di Ginevra, articolo 33. Ma le parole non bastano più. Occorre dimostrare una solidarietà concreta verso quel popolo. Abbiamo cercato di passare dalle parole ai fatti. Pagandone un prezzo atroce. Ma l'abbiamo fatto e lo rivendichiamo a testa alta...». C'è chi parla di voi della “Freedom Flotilla” come di “sconfitti”...
«Solo chi è imbevuto di una cultura militarista rafforzata da un'altra non meno deleteria cultura, quella dell'impunità, ed è abituato a pensare in termini di rapporti di forza può rivendicare quel crimine. È vero, non siamo riusciti nel nostro obiettivo primario, che era quello di far arrivare alla gente di Gaza gli aiuti umanitari. Quando siamo stati rapiti, perché di ciò si è trattato, dalla Marina israeliana e condotti a forza ad Ashdod, eravamo tristi per non aver raggiunto il nostro obiettivo e pieni di dolore per chi aveva perso la vita. Avevamo generato speranza nella gente di Gaza, la loro delusione era anche la nostra delusione...Ma poi, ci siamo detti che qualcosa d'importante era avvenuto: Gaza e il suo assedio che dura da tre anni erano tornati al centro dell'attenzione mondiale. Su quella prigione a cielo aperto e sui suoi carcerieri erano tornati ad accendersi i riflettori. Nessuno poteva e può dire ancora: non sapevo, non ho visto. Tutti sono chiamati a prendere posizione. E alla gente di
Gaza che ci aspettava per festeggiare, dico una cosa sola: ci riproveremo. Presto». E ai Grandi della Terra cosa si sente di dire, quale appello lancia? «L'embargo non è solo un crimine contro l'umanità. È anche la via per trascinare l'intero Medio Oriente in una nuova, devastante guerra. È tempo di agire. In particolare mi sento di rivolgere un appello al presidente Obama, con cui ho l'onore di condividere un Premio che è anche un impegno di vita: il Nobel per la Pace. Al presidente Obama chiedo di di fare tutto quello che è in suo potere, ed e molto, perché sia posto fine all'assedio per terra, mare ed aria di Gaza. La forza non crea giustizia, non rende più sicuri, ma alimenta solo desiderio di vendetta. È ciò che Israele dovrebbe capire».
Israele continua ad opporsi ad una commissione d'inchiesta internazionale che faccia luce sul blitz sanguinoso contro la “Mava Marmaris”...
«Le autorità israeliane continuano a sentirsi al di sopra della legalità internazionale. Un atteggiamento che dura da troppo tempo. Se ciò è avvenuto è per le coperture internazionali su cui Israele ha potuto contare. Legalità e Giustizia sono parole che devono ritrovare un senso là dove sono state calpestate: a Gaza».
Israele giustifica il blocco di Gaza come difesa da Hamas... «Hamas ha vinto elezioni democratiche nel 2006 e da quel momento è iniziata la politica draconiana di Israele. Resta il fatto che non c'è diritto di difesa che possa minimamente giustificare il lento genocidio del popolo palestinese che si sta consumando a Gaza».
Sullo sfondo sentiamo le voci degli assistenti che richiamano Mairead Maguire ai suoi impegni. Il tempo di un saluto. E di una promessa: «La prossima volta dice la Nobel irlandese ci vedremo a Gaza. Per festeggiare la fine dell'embargo».
Repubblica 9.6.10
La supremazia del cupolone
di Salvatore Settis
Che cosa fare per salvare la campagna romana dalle colate di cemento, dall´assedio delle periferie (che l´etichetta ipocrita di «centralità» non salva dallo squallore e dal degrado)?
Il Sindaco Alemanno ha una sua ricetta: per «fermare la crescita a macchia d´olio» occorre «rompere i tabù», abolire l´antico vincolo per cui nulla nel territorio comunale può superare l´altezza della cupola di San Pietro. «Densificare la periferia», costruendo grattacieli «come l´Eurosky dell´Eur, che sarà l´edificio residenziale più alto d´Italia». Anzi, «demolire le periferie e ricostruirle», «densificando»: una Roma di grattacieli «accanto al centro storico più importante al mondo».
Diagnosi giusta, ricetta sbagliata. L´orrido urban sprawl che assedia non solo Roma, ma tutte le nostre città, va contrastato mediante nuove politiche dell´abitare, con una gestione del paesaggio conforme alla tradizione (e alla Costituzione), abbattendo e riqualificando. Rivoluzione che non si compie in una notte, ma presupporrebbe il diffondersi di una cultura urbanistica e architettonica meno sgangherata di quella che sta divorando un Bel Paese sempre meno meritevole di tal nome. Richiederebbe il rispetto delle regole, a cominciare da un Codice dei Beni Culturali che è quanto di più bipartisan si possa immaginare (portando le firme dei ministri Urbani, Buttiglione, Rutelli), ma che tutti s´industriano a dilazionare, modificare, aggirare con deroghe, o francamente a ignorare. Esigerebbe legioni di architetti meglio attrezzati, di assessori meno proni al volere d´ogni palazzinaro, di cittadini capaci d´indignarsi. Nell´orizzonte italiano (e non solo di Roma) io non vedo l´alba di questa nuova consapevolezza, né il tentativo di crearla, agendo (per esempio) nelle scuole, facendo di questi temi uno dei centri della discussione politica, coinvolgendo nella discussione i cittadini, le associazioni per la tutela e per l´ambiente.
Vi fu un tempo, specialmente in Italia, in cui la costruzione della città implicava, per scelta civile ma anche per tensione etica e politica, un atto consapevole di auto-limitazione. Il principio era uno e uno solo: il bene comune, con l´intesa (che non ebbe mai bisogno di argomenti, perché non aveva avversari che osassero fiatare) che esso doveva coincidere con la bellezza e l´ornamento della città. Il Costituto di Siena del 1309 dice espressamente che «intra li studii et solicitudini è quali procurare si debiano per coloro, che hanno ad intendere al governamento de la città, è quello massimamente che s´intenda a la bellezza della città», perchè la città --continua-dev´ essere «onorevolmente dotata et guernita», tanto «per cagione di diletto et allegrezza» ai forestieri quanto «per onore, prosperità et accrescimento de la città et de´ cittadini di Siena». Gli Statuti comunali (ma anche quelli delle città regie, per esempio di Sicilia) prescrissero per secoli gli stessi principi in tutta quella che oggi si chiama Italia, e con buona pace della Lega si chiamava così anche allora: bellezza, decoro, ornamento, dignità, onore pubblico sono le parole martellate dalle Alpi alla Sicilia, alla Sardegna. Per secoli. Al privato che rivendicava i propri diritti di proprietà, sempre si rispose che ogni interesse del singolo dev´esser sovrastato dal pubblico bene, e si ricorse alla nozione giuridica di publica utilitas fondandola sopra la tradizione del diritto romano. A Roma Gregorio XIII, nella costituzione apostolica Quae publice utilia et decora (1574), proclamò sin dalle prime righe l´assoluta priorità del bene e del decoro pubblico sulle cupiditates e sui commoda [interessi, profitti] dei privati, e sottopose a rigoroso controllo l´attività edilizia di tutti i privati (anche gli ecclesiastici, anche i cardinali).
Non vi fu, allora, un Berlusconi che al grido di «padroni in casa propria!» accusasse quel Pontefice di cripto-comunismo. Ma l´urban sprawl che ci affligge, e che giustamente Alemanno denuncia e vuole arrestare, è figlio del tramonto del pubblico bene, e del trionfo degli interessi del singolo. Le periferie-centralità che si sono insediate fra gli acquedotti dell´antica Roma, fra le tombe e le ville dei Cesari, da questo nacquero: dietro ogni orrore c´è un cedimento (per non dir complicità) delle amministrazioni capitoline, una genuflessione davanti ai vantati diritti del privato, un´offesa a due millenni di priorità del bene pubblico sulla cupiditas privata. Di quelle scelte Alemanno non ha colpa: ma i suoi grattacieli, che pretendono di essere l´opposto dell´urban sprawl, sono più probabilmente il rilancio e la legittimazione di una crescita periurbana tanto più disordinata quanto più «densificata».
In molte città d´Italia si scelse per secoli il monumento-simbolo che servisse da esaltazione dello skyline : a Siena fu la Torre del Mangia, a Modena la Ghirlandina, a Roma la cupola di San Pietro. Misure convenzionali, certo, ma altamente simboliche di un´etica del self-restraint, di un´idea della città unitaria, compatta, dotata di memoria, di un´anima. Capace di pensare se stessa. Quello che Alemanno chiama «tabù» fu in vrità proprio il contrario: una scelta meditata, misurata, consapevole, ricca non solo di storia o di memoria, ma di quella che potrebbe chiamarsi la modellazione del futuro. L´idea era semplice: conservare lo spirito della forma urbis imperniandola su moduli-base di crescita. Costringere l´architetto (anche il più grande) entro regole di rispetto della memoria storica, così come il poeta (anche il più grande) deve comporre i suoi versi secondo misure prestabilite. Creare per i nostri figli un´armonia che somigli a quella che abbiamo ricevuto dai nostri padri.
Vedremo a che cosa somiglieranno i grattacieli proposti da Alemanno, e in che cosa sapranno distinguersi dalle architetture in genere scellerate che infestano quello che fu l´agro romano. Vedremo se essi tracceranno una nuova forma urbana, o saranno una corona di spine che assedia, o crocifigge, il centro storico «più importante al mondo». Vedremo se sapranno rimediare a quella indeterminata e incessante espansione delle periferie ai danni dell´ambiente naturale e storico, sempre più marcatamente dissolto nella confusione di una disordinata megalopoli; o se, al contrario, ne aggraveranno i problemi proprio col «densificarla». Lo vedranno, prima di tutto, i romani, se –come Alemanno promette-saranno chiamati a una consultazione popolare. Ma con quali informazioni? Con quale cultura urbanistica e architettonica? Con quale senso del bene comune?
Repubblica 9.6.10
Parla l’architetto Franco Purini autore del progetto della torre Eurosky
"Meno spazio e più funzionalità è questa l´urbanistica del futuro"
«Ma cosa c´entra la cupola di San Pietro? È tempo che anche Roma sperimenti questo tipo di costruzioni che, del resto, esistono da decenni nel mondo intero». Franco Purini, classe 1941, allievo di Ludovico Quaroni e collaboratore di Vittorio Gregotti, è l´autore del progetto dell´Eurosky Tower, in costruzione a sud della Capitale che, con i suoi 120 metri, sarà l´edificio residenziale più alto d´Italia.
A che punto è il cantiere?
«Siamo alla posa delle fondamenta; fra un paio di mesi si comincerà a veder qualcosa. Ma fra due anni si potrà essere invitati a cena da qualcuno che abita lì».
Roma non è mai cresciuta "in verticale". Perché farlo ora?
«Anzitutto per le potenzialità di efficienza di questo nuovo tipo di edifici che consentono risparmio di spazio e funzionalità altrove impensabili, come pannelli fotovoltaici o riciclo delle acque piovane. E poi per dare un segno architettonico che offrirà una percezione diversa, in questo caso, degli edifici dell´Eur».
Qual è il valore simbolico di una crescita verso l´alto?
«Un valore immenso: quello dell´eterna aspirazione dell´uomo a ricongiungersi con qualcosa di alto. Considero lo slancio verso l´alto un segno di vitalità, di ottimismo e mi sembra che così facendo Roma possa guardare al futuro». (f. gi.)
Repubblica 9.6.10
L’amore malato
di Michela Marzano
L´attesa di un bambino può essere vissuta come una soluzione magica a ogni problema, capace di far ritrovare l´armonia a una coppia
ANNARITA Buonocore era stata incinta davvero. Ma non aveva avuto il coraggio di dire al padre del bambino che un aborto naturale aveva posto termine al suo sogno di diventare nuovamente madre. Il "coraggio" lo ha trovato più tardi, quando ha deciso di rapire il piccolo Luca Cioffi per simulare il parto.
Per illudersi, anche solo per pochi istanti, di aver messo al mondo un bimbo. Interrogata ieri mattina dagli inquirenti, confessa di aver agito per amore, per dimostrare al compagno di aver avuto un bambino. «Ama e fa´ ciò che vuoi» diceva Sant´Agostino. Ma di quale amore stiamo parlando? Si può veramente giustificare tutto nel nome dell´amore, anche quando si è pronti a sottrarre ad una madre il figlio appena nato?
L´amore è spesso cieco. Nel desiderio ardente di essere uniti anima e corpo all´essere amato, si è talvolta spinti ad agire in modo irrazionale, a compiere l´irreparabile. Si è tentati di pensare che la felicità consista nell´entrare in fusione con l´altra persona, a scomparire all´interno di un´unione indistinta in cui non si sa più bene chi è l´uno e chi è l´altro. Al punto di strumentalizzare anche una gravidanza, come se un bambino potesse essere la traccia indelebile di un amore eterno. Nel momento stesso in cui un bimbo viene mondo, però, non è più solo il frutto di un incontro, la prova che due persone, «prima di essere riunite non erano niente», come scrive il filosofo Gaston Bachelard, ma un´altra persona, una creatura che ha certo bisogno dell´affetto e dell´attenzione dei propri genitori per crescere in modo equilibrato, ma che deve anche poter essere riconosciuto come "altro" rispetto all´amore dei genitori, "altro" rispetto ad un semplice oggetto di cui ci si può impossessare. Non è forse quello che Annarita Buonocore ha dimenticato (più o meno consapevolmente, perché talvolta il nostro inconscio ci gioca dei brutti scherzi) quando ha rapito il piccolo Luca? Obnubilata dall´amore per il compagno e dalla tristezza di aver abortito, questa donna di 42 anni non si è forse illusa di poter ricorrere ad un "sostituto", di poter fare "come se" Luca fosse suo figlio?
Quando è incinta, una donna instaura spesso con la creatura che comincia a svilupparsi all´interno del proprio corpo un dialogo silenzioso. La gravidanza è sempre una forma di "irruzione" nella vita di una donna. Ma quando il bimbo che si porta in grembo viene caricato di aspettative, questa irruzione assume un significato molto particolare. L´attesa del futuro bambino può essere vissuta come una soluzione magica ad ogni problema. Il figlio che si aspetta può trasformarsi nella prova tangibile dell´amore tra due persone, può diventare un "oggetto immaginario" capace di permettere ad una coppia di trovare l´armonia, ad una madre di non sentirsi più "incompleta". Ma l´amore per un figlio non può mai essere egoista. A meno di non considerare un figlio come un semplice oggetto. Non è un caso che nella Bibbia, nel famoso passaggio che racconta il "giudizio di Salomone", e che sancisce definitivamente la capacità data al re di "distinguere il bene dal male", Salomone si trova proprio di fronte a due donne che rivendicano lo stesso bambino. Il bambino rappresenta per le due donne l´insegna della maternità. Tutte e due lo vogliono e chiedono al re di fare giustizia. Nessuna delle due sembra disposta a rinunciare al "possesso" di questo bene così prezioso. Ecco allora che Salomone ricorre ad uno stratagemma: facendosi portare una spada, propone di "tagliare a metà" il bimbo per darne una parte a ciascuna. Solo la vera madre, però, implora Salomone di affidare il figlio all´altra donna. Preferisce "perderlo" piuttosto che vederlo morire.
Quando Annalisa Fortunato, la vera madre del piccolo Luca, ha potuto riabbracciare suo figlio, le prime parole che ha pronunciato sono state per Annarita Buonocore. Felice di aver ritrovato Luca sano e salvo, dice di perdonare questa donna, di non odiarla e di capire la sua sofferenza. Un atto d´amore. Perché l´amore è anche (e forse soprattutto) questo: evitare di giudicare un´altra donna pronta a rapire un bambino per colmare il proprio vuoto. Anche se impossessarsi del figlio di un´altra persona, voler simulare il parto e mostrare all´amante il frutto del proprio amore resta un atto incomprensibile che non ha più niente a che vedere con l´amore.
Repubblica 9.6.10
Il falco comunista
Dashiell Hammett a Mccarthy "Non rispondo"
di Irene Bignardi
"Non permetto ai poliziotti o ai giudici di dirmi come deve essere il mio concetto di democrazia" disse alla moglie la scrittrice Lillian Hellman
"Non crede che l´opinione pubblica la condannerà se si rifiuta di rispondere?" "Non è l’opinione pubblica ad avermi messo sei mesi in prigione"
Cinque romanzi, cinquanta racconti, tre processi, sei mesi di carcere, un grande amore durato trent´anni, e un lungo silenzio durato quasi altrettanto. Sono le cifre della vita di Dashiell Hammett, l´ex detective della Pinkerton, l´autore di Il falco maltese, il creatore di Sam Spade, che tanto gli assomiglia, il papà di Nick e Nora de L´uomo ombra. Colui che, secondo l´altro dioscuro del noir, Raymond Chandler, «ha fatto uscire il delitto dal vaso di vetro e l´ha fatto cadere nella strada». Lo scrittore che, secondo il suo lettore André Gide, «aveva qualcosa da insegnare a Hemingway e allo stesso Faulkner». Lo "stylish drunk", l´ubriacone di classe che, secondo la sua compagna Lillian Hellman, era «la cosa più bella che io abbia mai visto, quella linea d´uomo, una lama per naso», «un santo peccatore di Dostoevskij». Colui che, simpatizzante comunista negli anni ´30, militante e attivista dalla campagna per i diritti civili dei neri alla lotta contro il franchismo e il nazismo, arruolatosi a quarantotto anni per combattere in guerra nonostante la sua malconcia salute, nel dopoguerra della caccia alle streghe maccartista fu preso di mira con ben tre processi, insieme ad altri amministratori del Fondo Cauzioni del Civil Rights Congress, che forniva assistenza legale per i processi di natura politica. E colui che, fedele al suo temperamento e alle sue scelte di lealtà («Non permetto a sbirri e a giudici di dirmi quale deve essere il mio concetto di democrazia», disse a Lillian Hellman, che il giorno del primo processo gli suggeriva di dire quello che sapeva e non sapeva) non parlò, pensando che la griglia del silenzio assoluto era la forma più dignitosa ed efficace per proteggere se stesso e gli altri dall´ondata dell´isteria maccartista.
Di questo silenzio ci parlano gli atti delle tre testimonianze rese da Dashiell Hammett. Quella del 9 luglio 1951 davanti al giudice Sylvester Ryan della Corte d´Appello del II distretto di New York. Quella, inedita, del 24 marzo 1953, a porte chiuse, davanti alla Sottocommissione permanente di indagine della Commissione senatoriale sulle operazioni governative. E quella del 26 marzo 1953, nell´udienza pubblica della medesima Sottocommissione, ma questa volta con in scena lo stesso McCarthy, che campeggia di spalle, mano alzata nell´atto del giuramento, incorniciando l´asciutta figura e i capelli bianchi di Dashiell Hammett, nella copertina del piccolo volume (Mi rifiuto di rispondere, Archinto, pagg. 88, euro 12) in cui sono raccolte le tre testimonianze.
«Mi rifiuto di rispondere, perché la mia risposta potrebbe essere usata contro di me», risponde pacato Dashiell Hammett alle domande del giudice che, chiedendogli del Fondo Cauzioni di cui Hammett è stato presidente, cerca di arrivare a una mappa dei nomi dei suoi incolpevoli compagni "comunisti". E, come osserva Gianrico Carofiglio nella prefazione del volumetto, il suo «Mi rifiuto di rispondere», così ritmato e lontano, sembra un´eco del «preferirei di no», della «cocciuta, incrollabile determinazione» di Bartleby lo scrivano. Con la non piccola differenza che quello del Bartleby di Melville è un rifiuto nevrotico, il cupio dissolvi di un inconciliabile. Il «Mi rifiuto di rispondere» di Hammett, con tutto il rispetto per il Quinto Emendamento continuamente invocato – quello che garantisce a ogni cittadino il diritto di rifiutarsi di testimoniare contro se stesso in un processo penale –, è una strategia rischiosa e coraggiosa, che non per nulla lo spedisce in carcere per sei mesi. Un rifiuto etico e politico. A vederli in scena, questi testi, con i giudici e i vari senatori della Commissione d´inchiesta che si affannano a tessere la loro tela di accuse attraverso domande che circoscrivono il terreno a cui vogliono arrivare. E la freddezza pacata ma martellante dei «Mi rifiuto di rispondere» di Hammett.
Sempre la stessa risposta. Salvo alcune sue battute fulminanti.
«A questo so rispondere. Sono due lettere», concede Hammett quando gli chiedono che cosa siano quei due caratteri, D. H., su un documento che proverebbe il suo coinvolgimento, tramite la sua sigla (che sua infatti è), nelle operazioni del Civil Rights Congress. La risposta gli costa una condanna a sei mesi per oltraggio alla corte. O, due anni dopo, la sua risposta al Senatore McClellan, quando questi gli chiede se non ritiene che il suo rifiuto di parlare sia un atto di volontaria autoincriminazione davanti al tribunale della pubblica opinione. «Non è stato il tribunale della pubblica opinione a condannarmi a sei mesi di carcere». Anche per questa battuta sarà punito: lo perseguitano con 100.000 dollari di tasse arretrate, i suoi libri vengono tolti dalle biblioteche.
Siamo nel 1953. L´ultimo libro pubblicato da Hammett in vita è del ´34. In ritiro tra la sua casa di Katonah, N. Y., e quella dell´amata Lillian a Martha´s Vineyard, legge Dracula e Engels davanti alla tre macchine per scrivere che conserva in ricordo dei tempi in cui era uno scrittore. Il silenzio, anche quello creativo, è diventato parte della sua esistenza e del suo stile, e continuerà a farne parte fino al 10 gennaio del ´61, quando "Dash", a sessantasette anni, se ne andrà per sempre. E a poco a poco la sua vita diventa una leggenda americana, e "Dash" un personaggio di culto. Da autore di genere diventa Grande Scrittore, e condivide gli scaffali con i classici americani. Joe Gores ne fa un personaggio di romanzo. Wenders ne fa un personaggio cinematografico. Lillian Hellman ne fa il ritratto in piedi di un uomo unico e straordinario, fedele a chi ama, fedele alle cose in cui crede.
Repubblica 9.6.10
Lo sguardo di Galileo
di Laura Montanari
Rinnovando gli spazi abbiamo reinventato i percorsi, valorizzato gli oggetti, mostrandoli da diverse prospettive, cercando di stimolare la curiosità di chi guarda
Il museo di Storia della Scienza diFirenze riapre dopo un lungo restauro e prende il nome del grande genio. Nuovo anche l´allestimento che esalta un modo più moderno per vedere (e raccontare) gli strumenti e il sapere scientifico
È una trasformazione radicale quella che comincia dal nome: non più museo di Storia della scienza, ma dall´11 giugno, museo Galileo. Una dedica che riconosce la centralità dello scienziato pisano nel cammino della conoscenza e nel quattrocentesimo anniversario del Sidereus Nuncius. Del resto qui, a palazzo Castellani, a Firenze, sono custoditi i gioielli di quel sapere che ha segnato la sfida galileiana, gli unici arrivati fino a noi: due cannocchiali e la lente che ha rivelato al mondo i satelliti di Giove.
Sono stati necessari due anni di lavori per riconsegnare diciotto sale, nuovi allestimenti e un museo di respiro internazionale, completamente ripensato nella geografia interna, moderno e capace di offrire anche videoguide multimediali profilate a seconda degli interessi, dell´età (bambino o adulto) e del tempo a disposizione del visitatore. Questa sorta di tutor interattivo (si affitta all´ingresso a 5 euro), è un apparecchio portatile utilizzato per la prima volta nei musei europei, capace di leggere il luogo in cui si trova il visitatore e in grado di resettarsi sulla vetrina e sugli oggetti in esposizione per offrire un menù di informazioni, filmati e animazioni calibrate sugli interessi di chi guarda.
La collezione degli strumenti scientifici, spina dorsale del museo Galileo, rilegge un pezzo di storia di quella Toscana che, ai tempi dei Medici e dei Lorena, era stata non solo capitale dell´arte ma anche centro di eccellenza nelle scienze. Ogni macchina è un lampo nel buio, la conquista di un frammento del sapere: il cannocchiale, il telescopio, il barometro, l´igrometro, l´astrolabio, il primo termometro da polso, i primi orologi. In ogni stanza di palazzo Castellani grandi affacci sull´Arno si capisce la fatica di chi nei secoli ha camminato a tentoni, ma anche l´entusiasmo e lo stupore di quelli che con la matematica, la chimica e la fisica, la medicina hanno cercato di leggere meglio il posto dove siamo e le leggi complesse che lo regolano. è stata necessaria la parziale chiusura del museo anche se le attività espositive e quelle di ricerca dell´istituto sono andate avanti, e un investimento di otto milioni di euro, per rigenerare questa straordinaria collezione, unica al mondo, composta da mille fra strumenti e apparati scientifici. Si può vedere ripulita e coi colori vivi delle sue pitture la celebre sfera armillare di Antonio Santucci (XVI secolo) che illustra il cosmo tolemaico. O i restaurati e finalmente leggibili in tutte le loro sfumature globi celesti e terrestri di Vincenzo Coronelli. In occasione della nuova apertura che cade fra l´altro a 80 anni dalla fondazione vengono esposti anche i resti di Galileo (due dita e un dente), scomparsi da oltre un secolo e ritrovati da due collezionisti fiorentini. Si trovano nella sala (VII) al primo piano, assieme al terzo dito dello scienziato già conservato nel museo. I reperti erano stati prelevati nel 1737 quando la salma di Galileo fu riesumata per essere trasferita nel sepolcro monumentale della chiesa di Santa Croce. «Abbiamo reinventato i percorsi per stimolare al massimo la curiosità di chi guarda spiega l´architetto Marco Magni -, cercato di valorizzare gli oggetti e mostrarli da diverse prospettive». Si può, per esempio, girare intorno al banco di chimica del granduca Pietro Leopoldo o osservare gli astrolabi che ruotano di 360 gradi. Diverse sale inoltre sono attrezzate con schermi piatti su cui passano video e dimostrazioni che aiutano a capire il tempo di quegli strumenti che hanno segnato le tappe di un cammino arrivato fino a noi e mai finito.
Avvenire 9.6.10
Neuroscienze/1
Un saggio indaga i paradossi, che già si fanno strada nelle aule giudiziarie, nati dal voler ridurre ogni scelta a combinazioni chimiche del cervello
Ma nel Dna la mente non c’è
di Gabriella Sartori
«I geni determinano solo le linee generali delle strutture cerebrali: ma poi cellule e collegamenti nervose si plasmano secondo gli impulsi ricevuti dall’ambiente Anche prima della nascita» Parla lo studioso Filippo Tempia
«Noi siamo il nostro Dna ». O anche: «Oggi l’uomo non può più considerarsi capace di libere decisioni ». Sono affermazioni di uso corrente che qualcuno vorrebbe far passare per “scientifiche”. Invece sono veri e propri “miti” secondo Filippo Tempia, neuroscienziato, docente all’Università di Torino, membro dell’istituto scientifico della fondazione Cavalieri-Ottolenghi e dell’Istituto nazionale di Neuroscienze in Italia che ne ha parlato di recente in una seguitissima lezione tenuta al Centro Studi biblici di Sacile (Pordenone), all’interno del ciclo “Scienza e Bibbia”.
Si sente spesso dire che noi siamo il nostro Dna, che il cervello è “costruito” a partire dalle istruzioni contenute nel Dna e quindi non può essere un soggetto libero. Che cosa ci può essere di vero?
«Affermare che 'noi siamo il nostro Dna' equivale a identificare l’intero essere umano con le informazioni genetiche che sono alla base del suo sviluppo e del suo funzionamento. Dato che il cervello viene “costruito” a partire dalle istruzioni contenute nel Dna, si dice, esso sarebbe predeterminato dalle informazioni genetiche e quindi non potrebbe essere considerato un soggetto libero. Non è così. Innanzitutto il genoma umano comprende circa veniquattromila geni. Questo numero sembra abbastanza grande, anche se è molto simile a quello del topo ed è poco più di quello del moscerino e del vermetto caenorhabditis elegans ,
che è stato il primo animale a cui è stato sequenziato tutto il Dna. In ogni caso, per capire quante informazioni i geni possono contenere, bisogna come minimo paragonare il loro numero con l’organismo che essi devono codificare. Il solo encefalo umano è costituito da circa ottantasei miliardi di cellule nervose, i neuroni: è chiaro che con ventiquattromila geni è impossibile codificare le proprietà di ottantasei miliardi di neuroni: per ogni gene abbiamo tre milioni e mezzo di neuroni. Non basta. La realtà del sistema nervoso umano è ancora più complessa, perché la vera unità funzionale è il contatto, detto sinapsi, che permette la trasmissione di segnali tra una cellula nervosa e l’altra. I neuroni ricevono e trasmettono segnali da molti contatti sinaptici. Ognuno dei neuroni principali della corteccia cerebrale riceve circa diecimila sinapsi. Quindi, l’intera rete di connessioni consta di un numero enorme di sinapsi, stimato in poco meno di un milione di miliardi. Di conseguenza, i geni possono solamente specificare le linee generali che guidano lo sviluppo delle strutture nervose e delle loro connessioni. Lo stesso identico Dna non potrà permettere la costruzione due encefali perfettamente identici. Nello sviluppo del sistema nervoso entrano in gioco molti altri fattori, come l’interazione di ogni cellula con il microambiente in cui si trova e soprattutto come i segnali elettrici e chimici ricevuti da altre cellule. I segnali nervosi importanti per la formazione delle strutture encefaliche provengono in gran parte dall’ambiente esterno. Quindi, si può considerare che la propria storia personale, unica e irripetibile, inizi molto prima che il soggetto acquisti la coscienza di esistere. Si potrebbe affermare che il nostro stesso corpo è plasmato dall’insieme delle esperienze sensoriali che agiscono sul sistema nervoso da prima della nascita ».
Si dice anche che quando decidiamo “liberamente” in realtà è il nostro cervello che decide, la libertà non esiste ma è solo una illusione...
«Chi sostiene questa posizione nega qualunque efficacia all’attività mentale. La mente sarebbe un prodotto del cervello, come una secrezione è il prodotto di una ghiandola. L’assurdità di questa posizione è evidente se consideriamo che noi possiamo coscientemente dirigere non solo le nostre azioni, ma anche i nostri pensieri. Addirittura soggetti che erano diagnosticati come in stato vegetativo sono riusciti a dirigere i propri pensieri secondo le richieste del medico. Le diverse attivazioni cerebrali correlate con tali pensieri sono state registrate mediante la risonanza magnetica nucleare funzionale, nonostante l’impossibilità dei soggetti di comunicare in qualsiasi modo».
E come si comporta quando siamo chiamati ad esprimerci su ciò che è bello o brutto, buono o cattivo? È il cervello che, con la sua attività, formula i giudizi estetici e i giudizi morali?
«I giudizi estetici e morali sono considerati esclusivi dell’uomo. Anche in questo campo le neuroscienze stanno mostrando quali aree cerebrali si attivano in modo specifico per ogni determinato tipo di giudizio. Una lettura superficiale porta alla concezione che, ancora una volta, sia il cervello l’unico vero autore anche di questi pensieri e delle conseguenti decisioni. Tuttavia, anche in questo caso si può dimostrare che i giudizi estetici e morali necessitano della coscienza del soggetto e che sono di natura intenzionale e non spontanea. L’attività mentale, che non è misurabile né visualizzabile con strumenti anche sofisticati, è sempre associata all’attività cerebrale: ma non c’è alcuna dimostrazione che il cervello da solo, senza l’attività mentale, possa eseguire gli stessi compiti che sono resi possibili dall’attività cosciente. Naturalmente, il cervello può svolgere molte funzioni in modo non-conscio o non accessibile alla coscienza. Ma, quando quest’ultima è presente, i pensieri, i sentimenti, le decisioni sono chiaramente diretti dall’insieme del cervello e dell’attività mentale cosciente.
L’affermazione che quest’ultima non ha efficacia nel guidare i nostri pensieri, sentimenti e decisioni è un dogma del tutto arbitrario e scientificamente infondato. Rimane quindi aperta la questione della libertà dell’uomo nelle scelte estetiche e morali. Tuttavia, credo che qualcosa in più si possa e si debba affermare, partendo dalla constatazione dell’esistenza dell’attività mentale in ogni decisione cosciente. Infatti, è innegabile che in ogni scelta cosciente, la coscienza stessa sia uno degli attori in gioco, perché non è possibile negare un’efficacia dell’attività mentale cosciente nel dirigere i pensieri e i ragionamenti. Dato che il soggetto può coscientemente dirigere il ragionamento e decidere il risultato finale, tale risultato non può essere una conseguenza obbligata dell’elaborazione delle informazioni acquisite. Infine, assumendo un ruolo attivo della mente, ci si può chiedere chi sia il soggetto che ragiona e formula i giudizi. Certamente non il solo cervello, perché è presente anche l’attività mentale. Ma ugualmente non la sola mente, perché ogni aspetto dell’attività mentale ha un correlato cerebrale. Il soggetto che ragiona e formula i giudizi estetici e morali non può quindi essere altro che il cervello cosciente, con aspetti fisici e mentali inseparabili. Dato che l’aspetto materiale dell’uomo non è limitato al solo cervello, ma comprende l’intero corpo, la definizione più appropriata del soggetto degli atti liberi è l’ “io cosciente” ».
Avvenire 9.6.10
Neuroscienze/2
Nei tribunali il determinismo rende tutti irresponsabili
di Andrea Galli
Herbert Weinstein, un manager americano, fu accusato di aver strangolato la moglie e di averla gettata dal dodicesimo piano del loro appartamento di Manhattan, simulando un suicidio. Nel processo che si svolse nel 1992, il suo avvocato sostenne che una cisti che premeva sulla membrana aracnoide del suo assistito gli provocava una menomazione mentale, rendendolo non responsabile della propria condotta. Il giudice permise che si portasse in aula l’esito di un esame di neuro-immagine.
Il procuratore, nella paura che ciò potesse compromettere l’impianto accusatorio, accettò di patteggiare.
Sempre negli Usa, nel verdetto del 2005 con cui la Corte suprema giudicò incostituzionale la pena di morte per i minorenni, nel parere scientifico sottoposto ai nove giudici da Raquel Gur, neuropsichiatra dell’Università della Pennsylvania, sia faceva notare come gli adolescenti non fossero in grado di controllare pienamente i propri impulsi perché i neuroni della corteccia prefrontale raggiungono solo verso i vent’anni il loro pieno sviluppo. Parere che probabilmente pesò sulla decisione della Corte. Ancora e più recentemente, ossia nove mesi fa, è stata una sentenza della Corte d’assise di Trieste ad accordare, prima in Europa, una riduzione di pena ad un condannato per omicidio, anche perché la perizia disposta dalla difesa aveva dimostrato un profilo cromosomico alterato e suscettibile di indurre alla violenza sotto specifiche circostanze esistenziali. Questi esempi, citati da Andrea Lavazza, studioso di scienza cognitive e giornalista di 'Avvenire', e Luca Sammicheli, psicologo forense, sono un buono spunto per riflettere sull’impatto – sempre più attuale, non solo potenziale – delle neuroscienze su un pilastro dell’ordinamento sociale: il diritto. Diritto che, per come ci è stato consegnato nella plurisecolare elaborazione che ne ha fatto l’Occidente, fonda la necessità della pena del reo su un postulato: l’uomo 'sano' conserva per lo meno un nucleo di libertà, e quindi di responsabilità per le proprie azioni, che può far sì che venga riconosciuto colpevole e sia proporzionalmente punito. Al contrario di un pitbull o di una tigre, che, nel caso sbrani il proprio incauto guardiano, non viene processata o giudicata colpevole: semplicemente viene abbattuta o, come preferisce un certo animalismo, rilasciata intatta al suo stato di natura. Ma il diritto è solo un capitolo di uno scenario ben più ampio e con cui è necessario confrontarsi a viso aperto, anche perché non è più relegabile solo a qualche distopia letteraria: nel momento in cui si affermasse una visione deterministica 'dura', quella per cui – come scrive un nome di punta delle scienze cognitive attuali, l’americana Martha Farah – «tutto il nostro comportamento è determinato al cento per cento dal funzionamento del cervello, che a sua volta è determinato dall’interazione tra geni ed esperienza», quale spazio rimarrebbe per la specificità umana, ossia la libertà orientata dalla volontà?
Un approccio al problema è dato da Siamo davvero liberi? Le neuroscienze e il mistero del libero arbitrio (Codice edizioni, pagine 210, euro 14,00) a cura di Mario De Caro, Andrea Lavazza e Giuseppe Sartori. Un libro importante, un tentativo riuscito di divulgazione alta che riunisce competenze varie e di primo livello – da quelle di Neuroimaging di John Dylan Haynes, a quelle di psicologia sperimentale di Marcel Brass, di filosofia morale di Roberta Monticelli o di neuroetica di Adina L. Roskies, per citare alcuni dei contributi. E che aiuta a comprendere i termini di quel nodo ontologico ed epistemologico dato dal rapporto tra corpo e mente, o tra fisico e 'spirituale', che, se è venuto al pettine e ha riacceso negli ultimi anni il dibattito sull’evoluzione della vita e la visione neodarwiniana dell’uomo, tutto lascia supporre che troverà sempre più nello studio del cervello il suo banco di prova.
Repubblica 9.6.10
Chi dimentica le famiglie dei pazienti psichiatrici
di Elena Canali
Alla fine di maggio si è svolto a Roma una convegno nazionale dell'Unione Nazionale Associazioni Salute Mentale. È passato sotto silenzio, anche se affrontava temi che riguardano molti. L'Istituto Superiore di Sanità sostiene che il 20% della popolazione è affetto da patologie psichiatriche. Tanti di noi hanno a che vedere con questo dramma e con l'assenza di risposte da parte delle strutture. Paradossalmente, mentre siamo accusati dagli operatori di volerci sbarazzare del problema e di non "amarli", se chiediamo di inviare il malato in una comunità e attivare un reale progetto terapeutico, le nostre richieste di informazioni sullo stato clinico del paziente sono spesso disattese per presunti "motivi di privacy". Destra e sinistra si sono premurate, in questi 30 anni, di non dotare di strumenti attuativi la legge "180". A noi rimane la solitudine e la disperazione dell'obbligo ipocrita di "amarli" per legge.
l’Unità 9.6.10
Le famiglie dei pazienti psichiatrici
di Elena Canali
Il 27 maggio si è svolto a Roma una convegno nazionale dell’Unasam (Unione Nazionale Associazioni Salute Mentale) nell’assoluto silenzio dei mezzi di informazione. Eppure non eravamo pochi, anzi! L’Istituto Superiore di Sanità sostiene che il 20% della popolazione è affetto da patologie psichiatriche. Un parente, un amico, un vicino di casa, tanti di noi hanno a che vedere con questo dramma e con l' assenza di risposte
da parte delle strutture, siamo migliaia. Confusi e paralizzati sotto il ricatto di un possibile balzo indietro verso la ri-manicomializzazione ma vittime e prigionieri, nello steso tempo, di servizi territoriali inadeguati e insufficienti, a parte le rare e preziose eccezioni. Il problema ricade sulle nostre spalle e siamo costretti ad affrontare situazioni più grandi di noi: obbligati a farci carico di persone deliranti con le quali la convivenza è un inferno. Paradossalmente, intanto, siamo accusati dagli operatori di volerci sbarazzare del problema e di non “amarli”, se chiediamo di inviare il malato in una comunità attivando un reale progetto terapeutico, mentre le nostre richieste di informazioni sullo stato clinico del paziente spesso non hanno risposte per presunti motivi di privacy. Non è questa una follia? E non è una follia pensare che un genitore 80enne, o un fratello che deve anche lavorare e attendere agli impegni della propria vita, pur non ricevendo chiarimenti rispetto alla situazione clinica, debbano e possano essere in grado di fronteggiare un inferno simile?
La versione originale della lettera di Elena Canali della quale Repubblica e l'Unità hanno pubblicato stralci
Il 27 maggio si è svolto a Roma una convegno nazionale dell'UNASAM (Unione Nazionale Associazioni Salute Mentale) nell'assoluto silenzio dei mezzi di informazione. Eppure non eravamo pochi, anzi! L'Istituto Superiore di Sanità sostiene che il 20% della popolazione è affetto da patologie psichiatriche. Un parente, un amico, un vicino di casa, tanti di noi hanno a che vedere con questo dramma e con l' assenza di risposte da parte delle strutture, siamo migliaia... Ma non si deve dire e, soprattutto, il tema non si deve affrontare. Noi famigliari rimaniamo confusi e paralizzati sotto il ricatto di un possibile balzo indietro verso la ri-manicomializzazione che certo non vogliamo, ma allo stesso tempo siamo vittime e prigionieri imbavagliati di una perversione del sistema che impone che il paziente sia assistito dai servizi territoriali spesso, però, inadeguati e insufficienti, se non assenti, (esistono rare e preziose eccezioni, per la fortuna di pochi). Il risultato è che tragicamente il problema ricade sulle nostre spalle e siamo costretti ad affrontare situazioni più grandi di noi: di fatto, senza alcuna preparazione, siamo obbligati a farci carico di persone deliranti con le quali la convivenza è un inferno. Paradossalmente, mentre siamo accusati dagli operatori di volerci sbarazzare del problema e di non "amarli", quando chiediamo di inviare il malato in una comunità e attivare un reale progetto terapeutico, allo
stesso tempo, le nostre richieste di informazioni sullo stato clinico del paziente non hanno risposte per presunti motivi di privacy. Non è questa
una follia? E non è una follia pensare che un genitore 80enne, o un fratello che deve anche lavorare e attendere agli impegni della propria vita, pur non ricevendo chiarimenti rispetto alla situazione clinica, debbano e possano essere in grado di fronteggiare un inferno simile?
L'argomento è "scabroso" perchè gli interessi in gioco hanno molti zeri: cliniche private, industrie farmaceutiche, cooperative di servizi, contesti
in cui, se a stento si riesce a usare la parola "assistenza", grande assente è però la parola "cura". Destra e sinistra si sono premurate, in questi 30
anni, di non dotare di strumenti attuativi la legge "180" e in nome della "libertà di delirare" si è evitato di dare risposte reali al problema. Ideologie e interessi, di fatto, impediscono ai pazienti la possibilità di uscire dalla malattia. A noi rimane la solitudine e disperazione dell'obbligo ipocrita di "amarli" per legge.