mercoledì 9 giugno 2010

Repubblica 9.6.10
Il popolo e la libertà
di Ezio Mauro

Soltanto un potere impaurito poteva decidere di proteggere se stesso con una legge che ostacola la libertà delle inchieste contro la criminalità, riduce la libertà di stampa e limita soprattutto il diritto dei cittadini di essere informati. Tre principi dello Stato moderno e democratico il dovere di rendere giustizia cercando le prove per perseguire il crimine, il dovere della trasparenza e della circolazione delle informazioni nella sfera pubblica, il diritto di avere accesso alle notizie per capire, controllare e giudicare vengono messi in crisi, per il timore che i faldoni dell´inchiesta sulla Protezione Civile aprano nuovi vuoti nel governo, dopo le dimissioni del ministro Scajola.
È la vera legge della casta che ci governa e ha paura, come ha rivelato ieri Berlusconi, di «toghe e giornalisti». Per una volta, quello del Premier non è un anatema, ma una confessione: legalità e informazione sono i due incubi della destra berlusconiana, e nel paesaggio spettrale dei telegiornali di regime il governo con questa legge s´incarica infatti di bloccarli entrambi. L´obiettivo è che il Paese non sappia. E soprattutto, che non sapendo rimanga immerso nel senso comune dominante, senza più il pericolo che dall´intreccio tra scandali, inchieste e giornali nasca una pubblica opinione libera, autonoma e addirittura critica.
Questa è la vera posta in gioco: non la privacy, che può e deve essere tutelata se le parti giudiziarie decidono quali intercettazioni distruggere e quali rendere pubbliche, lasciando intatta la libertà d´indagine e quella d´informazione. Ma proprio questi sono i veri bersagli da colpire. Lo rivela lo stesso Berlusconi che ieri, in piena crisi d´incoscienza, si è astenuto sulla legge perché la vorrebbe ancora più dura.
La legge, così com´è, non piace a nessuno e fa male a tutti. Va fermata, nell´interesse del sistema democratico, che deve garantire il controllo di legalità, e che deve assicurare trasparenza d´informazione. Non c´è compromesso possibile su questioni di principio, che riguardano i diritti dei cittadini, i doveri dello Stato. La destra impari a fidarsi dei cittadini, a non temere la normale esigenza di giustizia, il bisogno di conoscere e rendersi consapevoli. Oppure smetta di chiamarsi popolo: e soprattutto, della libertà.

Bergonzoni
http://tv.repubblica.it/edizione/bologna/duse-il-messaggio-di-bergonzoni/48457?video=&pagefrom=1&ref=HRESS-9

l’Unità 9.6.10
Tendenze Crescono le adesioni all’associazione dei partigiani soprattutto da parte degli under 30
Motivazioni Reagire alla «nuova barbarie», dicono molti. E ad Ancona la Festa: italiani di Costituzione
«Mi iscrivo all’Anpi perché...» La carica dei giovani partigiani
«Per mio nonno, mio padre, per il mio futuro». «Perché sono migrante». «Per oppormi alla deriva destrorsa». Una valanaga di nuovi iscritti all’Anpi. Quasi tutti giovani. Da tutta Italia e pure dall’estero.
di Gabriella Gallozzi

La proposta. Ai nuovi iscritti il nome di un partigiano per conservarne la memoria

Antifascista. Che bella parola. E soprattutto non sa di «marmellata», come il pensiero unico che sta invischiando il nostro presente. Dice subito da che parte si sta. Quella giusta. Quella che scelsero in tanti, oltre sessant’anni fa, pagando anche con la vita, per fare di questo paese un luogo di libertà e democrazia. Ripartiamo da qui.
Sono tanti, tantissimi e soprattutto giovani, infatti, i nuovi «antifascisti» che hanno scelto di essere «volontari per la democrazia» iscrivendosi all’Anpi, la storica associazione dei partigiani che, negli ultimi anni, ha aperto le porte anche a chi la Resistenza non l’ha vissuta. Un modo per passare il testimone alle nuove generazioni. Per continuare a far vivere la memoria, messa a rischio dalla scomparsa degli stessi protagonisti, oltre che dal violento revisionismo di regime. Una nuova Resistenza, dunque, alla quale si sono iscritti in oltre 110mila, almeno 20mila in più dell’anno scorso col titolo di «antifascisti», appunto. E che avrà il suo momento clou nella seconda Festa Nazionale dell’Anpi, dal 24 al 27 giugno ad Ancona: Italiani di Costituzione. Sul sito (www.anpifesta.org) stanno arrivando adesioni da tutta Italia e non solo. Mentre è continuo il flusso di richieste d’iscrizione all’Anpi. Chiedono come si fa, dove possono trovare la sede dell’Associazione. Ma soprattutto spiegano il perché. Cose «pratiche» come organizzare un’assemblea all’università di Teramo, per esempio, che chiede un ventitreenne per rispondere «alla violenza di squadristi fascisti» che hanno accoltellato tre giovani, nell’indifferenza collettiva. Oppure indignazione e «vergogna» per questa classe politica come scrive un cittadino di Salerno dopo aver ricevuto la lettera della Provincia in cui si dice che «i partigiani non hanno fatto nulla per liberare l’Italia dal nazi-fascismo. Ma sono stati gli americani».
I PIÙ GIOVANI
Tanti sono i ragazzi. C’è pure un quattordinenne che chiede un modo per mettersi «in contatto con qualcuno che mi racconti la sua Resistenza». Una ventottenne che «confessa» di aver scoperto l’esistenza dell’Anpi «guardando Annozero» e che desidera «confrontarsi con persone LIBERE, che riconoscono il valore della nostra COSTITUZIONE e intendono difenderla». Un trentenne, di Frosinone, che vorrebbe aprire lui una sede dell’Anpi perché «qui i ragazzi hanno preso una deriva destrorsa e fascistoide». Anche dall’estero sono tantissime le richieste. C’ è chi scrive dal Belgio, dalla Germania, dalla Spagna, dalla Svizzera. «Sono un’italiana “migrante”, figlia di migranti italiani», scrive Chiara, che chiede l’iscrizione perché «vorrei almeno dire a mio figlio di 6 anni che la mamma d’ora in poi cerca di dare un segnale, associandomi con persone giuste visto che da sola si combina poco». C’è poi chi lancia delle proposte per il futuro: «Sarebbe bello che quando qualcuno si iscrive suggerisce Giorgio gli venga affidato il nome di un partigiano così da prendere in carico la storia e la testimonianza del compagno che ci ha lasciato. Avremmo così tramandato alle nuove generazioni il ricordo e la storia di un uomo o una donna che non abbiamo conosciuto ma che ci ha liberato dal fascismo». E c’è ancora chi vorrebbe diventare «partigiano simpatizzante», come scrive un 54enne che vive a Bari: «è inutile stare a dire i motivi di questa scelta. Lo potrei fare per mio nonno, per mio padre, per mio zio, ma sono troppo vecchio per fare il romantico. E allora io dico: mi voglio iscrivere per me. Voglio in questo modo testimoniare il bisogno di appartenenza. O se vogliamo di assenza di figure e/o organizzazioni capaci di rappresentarmi». Desiderio di appartenenza, dunque. Andata delusa dall’universo politico. È questa la richiesta più sentita dai nuovi «antifascisti» che si raccolgono intorno all’Anpi. «Io e mio marito scrive una coppia custodiamo la gratitudine per tante donne e uomini che con il loro sacrificio ci hanno regalato la democrazia che persone indegne stanno cercando di toglierci. Abbiamo deciso di iscriverci all’Anpi per darvi forza. Crediamo che sia ora di una nuova resistenza contro la barbarie più sottile, ma non per questo meno pericolosa che pervade il nostro paese. Grazie per quello che fate».

l’Unità 9.6.10
Una rete per far vivere i luoghi
dell’antifascismo
Da Casa Cervi alla Risiera di San Sabba nasce un collegamento di siti in cui si è svolta la Storia. Per viaggiare dal vivo dentro il ‘900
di Mirco Zanoni

Il coordinamento dei luoghi della memoria in Italia è una sfida a cui sta lavorando da quasi due anni l’Istituto Alcide Cervi. Una rete di musei, memoriali, percorsi, centri di sensibilizzazione che hanno al centro la storia dell’antifascismo, della Resistenza, della deportazione, della guerra.
Non si tratta di luoghi muti, o semplici «pietre dolenti», lapidi di una stagione di sofferenza che ha costellato soprattutto il biennio 1943-45. Al contrario, lo sforzo che si sta mettendo in atto, a partire dalla Casa dei sette fratelli Cervi, è quella di creare una grande sinergia tra luoghi attivi di cultura, didattica, ricerca, turismo consapevole. Un’esperienza non dissimile a quella che è già presente in Paesi come Germania e Francia sugli stessi temi.
Andare a memoria è il seminario che si è svolto proprio presso il Museo Cervi di Gattatico (Reggio Emilia) il 4 e 5 giugno, in cui si è sancito l’inizio di questa rete. Insieme alla Fondazione Villa Emma di Nonantola e al Coordinamento Associazioni per Monte Sole, l’Istituto Cervi ha ribadito la nascita di Paesaggi della Memoria, attorno ad un primo nucleo forte di luoghi in tutta Italia (23 ad oggi) e incarnato in un manifesto o carta d’intenti che è possibile conoscere attraverso il sito www.fratellicervi.it. Questa rete si sta già allargando ad altri attori, specialmente nel centro Italia, costellata di esempi dei Campi di concentramento fascisti per slavi e dissidenti: la loro presenza ad «andare a memoria» pochi giorni fa, è il segno di una necessità avvertita da più parti, fare «massa critica» di un patrimonio (i luoghi, appunto) dove i cittadini possano toccare con mano la storia, incontrare ancora la memoria dei testimoni, approfondire con strumenti al passo coi tempi la conoscenza storica in Italia. Nella consapevolezza che, sulla memoria, chi si ferma è perduto. Andare a memoria, nel gioco di parole evocato, è anche un invito di moto a luogo verso la conoscenza di quegli anni.
Certo, un cammino impervio nei siti autentici della storia. Vicende locali ma assolute, familiari e collettive (Casa Cervi, Villa Emma), di stragi e di deportazione (Monte Sole-Marzabotto, S. Anna di Stazzema, Fossoli, Borgo San Dalmazzo...), che viste nel loro insieme danno la geografia della memoria.
I prossimi passaggi saranno quelli di sollecitare un ampliamento di Paesaggi della memoria, mentre si costruiranno strutture in grado di essere interlocutori all’altezza della sfida. Sollecitando le istituzioni in ogni modo: l’assessore alla cultura dell’Emilia Romagna Massimo Mezzetti ha preso impegni sul tema di legislazione di tutela dei luoghi. Così come già presente in Piemonte, regione costellata di luoghi della memoria e di storie di partigiani.
Come qualcuno ha scritto in questi giorni, si tratta di un’azione in controtendenza rispetto alla concezione della cultura vigente in questo Paese. Fare rete serve oggi a difendersi meglio dalla scure dei tagli.
La prossima sfida sarà quella di coinvolgere i grandi monumenti nazionali, irrinunciabili per questa rete. Le fosse Ardeatine, La Risiera di San Sabba, La Foiba di Basovizza. Mentre cresce la consapevolezza che senza questa mappa sensibile di relazione tra territorio e storia, fra cittadinanza e paesaggio umano, la storia complessa della seconda Guerra Mondiale rischia di essere una macchia indistinta (e incolore) sui libri di storia. Casa Cervi continuerà per parte sua a metter gambe, cuore e pensiero ad un progetto di cui va l’identità storica italiana.

Repubblica 9.6.10
Gaza, sì all´inchiesta sul blitz Ki-moon: "Sia indipendente"
GERUSALEMME Israele incaricherà una commissione d´inchiesta di valutare se il blocco marittimo di Gaza e il blitz lanciato il 31 maggio contro la "Freedom Flotilla" siano «conformi al diritto internazionale», ha detto ieri il ministro israeliano senza portafoglio Benny Begin, membro del gabinetto di Sicurezza. Manca però un annuncio ufficiale in attesa che il governo trovi un compromesso in grado di convincere gli Usa a bloccare la creazione di una commissione indipendente in seno all´Onu chiesta dalla Turchia. Lo stesso segretario generale dell´Onu Ban Ki-moon ha ribadito la necessità di una «partecipazione internazionale credibile» nell´inchiesta, considerata «un elemento essenziale» anche dal portavoce del Dipartimento di Stato americano Philip Crowley.

l’Unità 9.6.10
Intervista a Mairead Corrigan-Maguire
«Macché sconfitti. Ora Gaza è sotto gli occhi del mondo»
Un «lento genocidio». Nulla può giustificare quel che avviene nella Striscia. Quanto a noi, siamo stati vittime di un «rapimento collettivo»
La premio Nobel: mi appello a Obama, faccia tutto quello che può per evitare la guerra. Noi non ci arrendiamo, ritorneremo con altre navi
di Umberto De Giovannangeli

L'avevamo vista a distanza. Con un binocolo. Mentre la Marina militare israeliana «scortava» la “Rachel Corrie” nel porto di Ashdod dopo averla abbordata a largo della Striscia di Gaza. Per qualche secondo eravamo riusciti a stabilire un contatto telefonico: «Stiamo bene, non ci siamo arresi, vogliono liberarsi di noi più in fretta possibile...», poi la linea era caduta. Ma non era «caduta» la determinazione che ha sempre caratterizzato la sua azione, la sua vita, da Belfast al Medio Oriente. Una sfida di libertà. Quella di Mairead Corrigan-Maguire, Premio Nobel per la Pace 1976, una delle animatrici del «Free Gaza Movement». Ora che ha fatto rientro forzato a Dublino, riusciamo a ristabilire quel contatto interrotto ad Ashdod. Mairead è stanca, provata, ma non rinuncia ai mille impegni in agenda, ai quali strappa qualche minuto per l'Unità. «Voi dice avevate continuato a denunciare quel criminale embargo quando Gaza sembrava non fare più notizia..». Quando le chiediamo come definirebbe ciò che è accaduto a lei e agli attivisti della «Freedom Flotilla», Maguire non ha un attimo di esitazione: «Siamo stati vittime di un rapimento collettivo in acque internazionali. Quello che sta avvenendo a Gaza denuncia è un lento genocidio del popolo palestinese».
Qual è il sentimento prevalente dopo ciò che ha vissuto e subito a largo di Gaza? «Rabbia. Dolore. Indignazione. Ma anche orgoglio e fierezza per ciò che tutti assieme abbiamo portato avanti. Come vede, è un insieme di sensazioni forti, e non poteva essere altrimenti. Ricordo la nostra ultima conversazione: avevamo parlato di Gaza, della sofferenza della sua gente, di una punizione collettiva atroce, contraria a ogni codice etico, oltre che ad ogni norma del Diritto umanitario e alla quarta Convenzione di Ginevra, articolo 33. Ma le parole non bastano più. Occorre dimostrare una solidarietà concreta verso quel popolo. Abbiamo cercato di passare dalle parole ai fatti. Pagandone un prezzo atroce. Ma l'abbiamo fatto e lo rivendichiamo a testa alta...». C'è chi parla di voi della “Freedom Flotilla” come di “sconfitti”...
«Solo chi è imbevuto di una cultura militarista rafforzata da un'altra non meno deleteria cultura, quella dell'impunità, ed è abituato a pensare in termini di rapporti di forza può rivendicare quel crimine. È vero, non siamo riusciti nel nostro obiettivo primario, che era quello di far arrivare alla gente di Gaza gli aiuti umanitari. Quando siamo stati rapiti, perché di ciò si è trattato, dalla Marina israeliana e condotti a forza ad Ashdod, eravamo tristi per non aver raggiunto il nostro obiettivo e pieni di dolore per chi aveva perso la vita. Avevamo generato speranza nella gente di Gaza, la loro delusione era anche la nostra delusione...Ma poi, ci siamo detti che qualcosa d'importante era avvenuto: Gaza e il suo assedio che dura da tre anni erano tornati al centro dell'attenzione mondiale. Su quella prigione a cielo aperto e sui suoi carcerieri erano tornati ad accendersi i riflettori. Nessuno poteva e può dire ancora: non sapevo, non ho visto. Tutti sono chiamati a prendere posizione. E alla gente di
Gaza che ci aspettava per festeggiare, dico una cosa sola: ci riproveremo. Presto». E ai Grandi della Terra cosa si sente di dire, quale appello lancia? «L'embargo non è solo un crimine contro l'umanità. È anche la via per trascinare l'intero Medio Oriente in una nuova, devastante guerra. È tempo di agire. In particolare mi sento di rivolgere un appello al presidente Obama, con cui ho l'onore di condividere un Premio che è anche un impegno di vita: il Nobel per la Pace. Al presidente Obama chiedo di di fare tutto quello che è in suo potere, ed e molto, perché sia posto fine all'assedio per terra, mare ed aria di Gaza. La forza non crea giustizia, non rende più sicuri, ma alimenta solo desiderio di vendetta. È ciò che Israele dovrebbe capire».
Israele continua ad opporsi ad una commissione d'inchiesta internazionale che faccia luce sul blitz sanguinoso contro la “Mava Marmaris”...
«Le autorità israeliane continuano a sentirsi al di sopra della legalità internazionale. Un atteggiamento che dura da troppo tempo. Se ciò è avvenuto è per le coperture internazionali su cui Israele ha potuto contare. Legalità e Giustizia sono parole che devono ritrovare un senso là dove sono state calpestate: a Gaza».
Israele giustifica il blocco di Gaza come difesa da Hamas... «Hamas ha vinto elezioni democratiche nel 2006 e da quel momento è iniziata la politica draconiana di Israele. Resta il fatto che non c'è diritto di difesa che possa minimamente giustificare il lento genocidio del popolo palestinese che si sta consumando a Gaza».
Sullo sfondo sentiamo le voci degli assistenti che richiamano Mairead Maguire ai suoi impegni. Il tempo di un saluto. E di una promessa: «La prossima volta dice la Nobel irlandese ci vedremo a Gaza. Per festeggiare la fine dell'embargo».

Repubblica 9.6.10
La supremazia del cupolone
di Salvatore Settis

Che cosa fare per salvare la campagna romana dalle colate di cemento, dall´assedio delle periferie (che l´etichetta ipocrita di «centralità» non salva dallo squallore e dal degrado)?
Il Sindaco Alemanno ha una sua ricetta: per «fermare la crescita a macchia d´olio» occorre «rompere i tabù», abolire l´antico vincolo per cui nulla nel territorio comunale può superare l´altezza della cupola di San Pietro. «Densificare la periferia», costruendo grattacieli «come l´Eurosky dell´Eur, che sarà l´edificio residenziale più alto d´Italia». Anzi, «demolire le periferie e ricostruirle», «densificando»: una Roma di grattacieli «accanto al centro storico più importante al mondo».
Diagnosi giusta, ricetta sbagliata. L´orrido urban sprawl che assedia non solo Roma, ma tutte le nostre città, va contrastato mediante nuove politiche dell´abitare, con una gestione del paesaggio conforme alla tradizione (e alla Costituzione), abbattendo e riqualificando. Rivoluzione che non si compie in una notte, ma presupporrebbe il diffondersi di una cultura urbanistica e architettonica meno sgangherata di quella che sta divorando un Bel Paese sempre meno meritevole di tal nome. Richiederebbe il rispetto delle regole, a cominciare da un Codice dei Beni Culturali che è quanto di più bipartisan si possa immaginare (portando le firme dei ministri Urbani, Buttiglione, Rutelli), ma che tutti s´industriano a dilazionare, modificare, aggirare con deroghe, o francamente a ignorare. Esigerebbe legioni di architetti meglio attrezzati, di assessori meno proni al volere d´ogni palazzinaro, di cittadini capaci d´indignarsi. Nell´orizzonte italiano (e non solo di Roma) io non vedo l´alba di questa nuova consapevolezza, né il tentativo di crearla, agendo (per esempio) nelle scuole, facendo di questi temi uno dei centri della discussione politica, coinvolgendo nella discussione i cittadini, le associazioni per la tutela e per l´ambiente.
Vi fu un tempo, specialmente in Italia, in cui la costruzione della città implicava, per scelta civile ma anche per tensione etica e politica, un atto consapevole di auto-limitazione. Il principio era uno e uno solo: il bene comune, con l´intesa (che non ebbe mai bisogno di argomenti, perché non aveva avversari che osassero fiatare) che esso doveva coincidere con la bellezza e l´ornamento della città. Il Costituto di Siena del 1309 dice espressamente che «intra li studii et solicitudini è quali procurare si debiano per coloro, che hanno ad intendere al governamento de la città, è quello massimamente che s´intenda a la bellezza della città», perchè la città --continua-dev´ essere «onorevolmente dotata et guernita», tanto «per cagione di diletto et allegrezza» ai forestieri quanto «per onore, prosperità et accrescimento de la città et de´ cittadini di Siena». Gli Statuti comunali (ma anche quelli delle città regie, per esempio di Sicilia) prescrissero per secoli gli stessi principi in tutta quella che oggi si chiama Italia, e con buona pace della Lega si chiamava così anche allora: bellezza, decoro, ornamento, dignità, onore pubblico sono le parole martellate dalle Alpi alla Sicilia, alla Sardegna. Per secoli. Al privato che rivendicava i propri diritti di proprietà, sempre si rispose che ogni interesse del singolo dev´esser sovrastato dal pubblico bene, e si ricorse alla nozione giuridica di publica utilitas fondandola sopra la tradizione del diritto romano. A Roma Gregorio XIII, nella costituzione apostolica Quae publice utilia et decora (1574), proclamò sin dalle prime righe l´assoluta priorità del bene e del decoro pubblico sulle cupiditates e sui commoda [interessi, profitti] dei privati, e sottopose a rigoroso controllo l´attività edilizia di tutti i privati (anche gli ecclesiastici, anche i cardinali).
Non vi fu, allora, un Berlusconi che al grido di «padroni in casa propria!» accusasse quel Pontefice di cripto-comunismo. Ma l´urban sprawl che ci affligge, e che giustamente Alemanno denuncia e vuole arrestare, è figlio del tramonto del pubblico bene, e del trionfo degli interessi del singolo. Le periferie-centralità che si sono insediate fra gli acquedotti dell´antica Roma, fra le tombe e le ville dei Cesari, da questo nacquero: dietro ogni orrore c´è un cedimento (per non dir complicità) delle amministrazioni capitoline, una genuflessione davanti ai vantati diritti del privato, un´offesa a due millenni di priorità del bene pubblico sulla cupiditas privata. Di quelle scelte Alemanno non ha colpa: ma i suoi grattacieli, che pretendono di essere l´opposto dell´urban sprawl, sono più probabilmente il rilancio e la legittimazione di una crescita periurbana tanto più disordinata quanto più «densificata».
In molte città d´Italia si scelse per secoli il monumento-simbolo che servisse da esaltazione dello skyline : a Siena fu la Torre del Mangia, a Modena la Ghirlandina, a Roma la cupola di San Pietro. Misure convenzionali, certo, ma altamente simboliche di un´etica del self-restraint, di un´idea della città unitaria, compatta, dotata di memoria, di un´anima. Capace di pensare se stessa. Quello che Alemanno chiama «tabù» fu in vrità proprio il contrario: una scelta meditata, misurata, consapevole, ricca non solo di storia o di memoria, ma di quella che potrebbe chiamarsi la modellazione del futuro. L´idea era semplice: conservare lo spirito della forma urbis imperniandola su moduli-base di crescita. Costringere l´architetto (anche il più grande) entro regole di rispetto della memoria storica, così come il poeta (anche il più grande) deve comporre i suoi versi secondo misure prestabilite. Creare per i nostri figli un´armonia che somigli a quella che abbiamo ricevuto dai nostri padri.
Vedremo a che cosa somiglieranno i grattacieli proposti da Alemanno, e in che cosa sapranno distinguersi dalle architetture in genere scellerate che infestano quello che fu l´agro romano. Vedremo se essi tracceranno una nuova forma urbana, o saranno una corona di spine che assedia, o crocifigge, il centro storico «più importante al mondo». Vedremo se sapranno rimediare a quella indeterminata e incessante espansione delle periferie ai danni dell´ambiente naturale e storico, sempre più marcatamente dissolto nella confusione di una disordinata megalopoli; o se, al contrario, ne aggraveranno i problemi proprio col «densificarla». Lo vedranno, prima di tutto, i romani, se –come Alemanno promette-saranno chiamati a una consultazione popolare. Ma con quali informazioni? Con quale cultura urbanistica e architettonica? Con quale senso del bene comune?



Repubblica 9.6.10
Parla l’architetto Franco Purini autore del progetto della torre Eurosky
"Meno spazio e più funzionalità è questa l´urbanistica del futuro"

«Ma cosa c´entra la cupola di San Pietro? È tempo che anche Roma sperimenti questo tipo di costruzioni che, del resto, esistono da decenni nel mondo intero». Franco Purini, classe 1941, allievo di Ludovico Quaroni e collaboratore di Vittorio Gregotti, è l´autore del progetto dell´Eurosky Tower, in costruzione a sud della Capitale che, con i suoi 120 metri, sarà l´edificio residenziale più alto d´Italia.
A che punto è il cantiere?
«Siamo alla posa delle fondamenta; fra un paio di mesi si comincerà a veder qualcosa. Ma fra due anni si potrà essere invitati a cena da qualcuno che abita lì».
Roma non è mai cresciuta "in verticale". Perché farlo ora?
«Anzitutto per le potenzialità di efficienza di questo nuovo tipo di edifici che consentono risparmio di spazio e funzionalità altrove impensabili, come pannelli fotovoltaici o riciclo delle acque piovane. E poi per dare un segno architettonico che offrirà una percezione diversa, in questo caso, degli edifici dell´Eur».
Qual è il valore simbolico di una crescita verso l´alto?
«Un valore immenso: quello dell´eterna aspirazione dell´uomo a ricongiungersi con qualcosa di alto. Considero lo slancio verso l´alto un segno di vitalità, di ottimismo e mi sembra che così facendo Roma possa guardare al futuro». (f. gi.)

Repubblica 9.6.10
L’amore malato
di Michela Marzano

L´attesa di un bambino può essere vissuta come una soluzione magica a ogni problema, capace di far ritrovare l´armonia a una coppia

ANNARITA Buonocore era stata incinta davvero. Ma non aveva avuto il coraggio di dire al padre del bambino che un aborto naturale aveva posto termine al suo sogno di diventare nuovamente madre. Il "coraggio" lo ha trovato più tardi, quando ha deciso di rapire il piccolo Luca Cioffi per simulare il parto.
Per illudersi, anche solo per pochi istanti, di aver messo al mondo un bimbo. Interrogata ieri mattina dagli inquirenti, confessa di aver agito per amore, per dimostrare al compagno di aver avuto un bambino. «Ama e fa´ ciò che vuoi» diceva Sant´Agostino. Ma di quale amore stiamo parlando? Si può veramente giustificare tutto nel nome dell´amore, anche quando si è pronti a sottrarre ad una madre il figlio appena nato?
L´amore è spesso cieco. Nel desiderio ardente di essere uniti anima e corpo all´essere amato, si è talvolta spinti ad agire in modo irrazionale, a compiere l´irreparabile. Si è tentati di pensare che la felicità consista nell´entrare in fusione con l´altra persona, a scomparire all´interno di un´unione indistinta in cui non si sa più bene chi è l´uno e chi è l´altro. Al punto di strumentalizzare anche una gravidanza, come se un bambino potesse essere la traccia indelebile di un amore eterno. Nel momento stesso in cui un bimbo viene mondo, però, non è più solo il frutto di un incontro, la prova che due persone, «prima di essere riunite non erano niente», come scrive il filosofo Gaston Bachelard, ma un´altra persona, una creatura che ha certo bisogno dell´affetto e dell´attenzione dei propri genitori per crescere in modo equilibrato, ma che deve anche poter essere riconosciuto come "altro" rispetto all´amore dei genitori, "altro" rispetto ad un semplice oggetto di cui ci si può impossessare. Non è forse quello che Annarita Buonocore ha dimenticato (più o meno consapevolmente, perché talvolta il nostro inconscio ci gioca dei brutti scherzi) quando ha rapito il piccolo Luca? Obnubilata dall´amore per il compagno e dalla tristezza di aver abortito, questa donna di 42 anni non si è forse illusa di poter ricorrere ad un "sostituto", di poter fare "come se" Luca fosse suo figlio?
Quando è incinta, una donna instaura spesso con la creatura che comincia a svilupparsi all´interno del proprio corpo un dialogo silenzioso. La gravidanza è sempre una forma di "irruzione" nella vita di una donna. Ma quando il bimbo che si porta in grembo viene caricato di aspettative, questa irruzione assume un significato molto particolare. L´attesa del futuro bambino può essere vissuta come una soluzione magica ad ogni problema. Il figlio che si aspetta può trasformarsi nella prova tangibile dell´amore tra due persone, può diventare un "oggetto immaginario" capace di permettere ad una coppia di trovare l´armonia, ad una madre di non sentirsi più "incompleta". Ma l´amore per un figlio non può mai essere egoista. A meno di non considerare un figlio come un semplice oggetto. Non è un caso che nella Bibbia, nel famoso passaggio che racconta il "giudizio di Salomone", e che sancisce definitivamente la capacità data al re di "distinguere il bene dal male", Salomone si trova proprio di fronte a due donne che rivendicano lo stesso bambino. Il bambino rappresenta per le due donne l´insegna della maternità. Tutte e due lo vogliono e chiedono al re di fare giustizia. Nessuna delle due sembra disposta a rinunciare al "possesso" di questo bene così prezioso. Ecco allora che Salomone ricorre ad uno stratagemma: facendosi portare una spada, propone di "tagliare a metà" il bimbo per darne una parte a ciascuna. Solo la vera madre, però, implora Salomone di affidare il figlio all´altra donna. Preferisce "perderlo" piuttosto che vederlo morire.
Quando Annalisa Fortunato, la vera madre del piccolo Luca, ha potuto riabbracciare suo figlio, le prime parole che ha pronunciato sono state per Annarita Buonocore. Felice di aver ritrovato Luca sano e salvo, dice di perdonare questa donna, di non odiarla e di capire la sua sofferenza. Un atto d´amore. Perché l´amore è anche (e forse soprattutto) questo: evitare di giudicare un´altra donna pronta a rapire un bambino per colmare il proprio vuoto. Anche se impossessarsi del figlio di un´altra persona, voler simulare il parto e mostrare all´amante il frutto del proprio amore resta un atto incomprensibile che non ha più niente a che vedere con l´amore.



Repubblica 9.6.10
Il falco comunista
Dashiell Hammett a Mccarthy "Non rispondo"
di Irene Bignardi

"Non permetto ai poliziotti o ai giudici di dirmi come deve essere il mio concetto di democrazia" disse alla moglie la scrittrice Lillian Hellman
"Non crede che l´opinione pubblica la condannerà se si rifiuta di rispondere?" "Non è l’opinione pubblica ad avermi messo sei mesi in prigione"

Cinque romanzi, cinquanta racconti, tre processi, sei mesi di carcere, un grande amore durato trent´anni, e un lungo silenzio durato quasi altrettanto. Sono le cifre della vita di Dashiell Hammett, l´ex detective della Pinkerton, l´autore di Il falco maltese, il creatore di Sam Spade, che tanto gli assomiglia, il papà di Nick e Nora de L´uomo ombra. Colui che, secondo l´altro dioscuro del noir, Raymond Chandler, «ha fatto uscire il delitto dal vaso di vetro e l´ha fatto cadere nella strada». Lo scrittore che, secondo il suo lettore André Gide, «aveva qualcosa da insegnare a Hemingway e allo stesso Faulkner». Lo "stylish drunk", l´ubriacone di classe che, secondo la sua compagna Lillian Hellman, era «la cosa più bella che io abbia mai visto, quella linea d´uomo, una lama per naso», «un santo peccatore di Dostoevskij». Colui che, simpatizzante comunista negli anni ´30, militante e attivista dalla campagna per i diritti civili dei neri alla lotta contro il franchismo e il nazismo, arruolatosi a quarantotto anni per combattere in guerra nonostante la sua malconcia salute, nel dopoguerra della caccia alle streghe maccartista fu preso di mira con ben tre processi, insieme ad altri amministratori del Fondo Cauzioni del Civil Rights Congress, che forniva assistenza legale per i processi di natura politica. E colui che, fedele al suo temperamento e alle sue scelte di lealtà («Non permetto a sbirri e a giudici di dirmi quale deve essere il mio concetto di democrazia», disse a Lillian Hellman, che il giorno del primo processo gli suggeriva di dire quello che sapeva e non sapeva) non parlò, pensando che la griglia del silenzio assoluto era la forma più dignitosa ed efficace per proteggere se stesso e gli altri dall´ondata dell´isteria maccartista.
Di questo silenzio ci parlano gli atti delle tre testimonianze rese da Dashiell Hammett. Quella del 9 luglio 1951 davanti al giudice Sylvester Ryan della Corte d´Appello del II distretto di New York. Quella, inedita, del 24 marzo 1953, a porte chiuse, davanti alla Sottocommissione permanente di indagine della Commissione senatoriale sulle operazioni governative. E quella del 26 marzo 1953, nell´udienza pubblica della medesima Sottocommissione, ma questa volta con in scena lo stesso McCarthy, che campeggia di spalle, mano alzata nell´atto del giuramento, incorniciando l´asciutta figura e i capelli bianchi di Dashiell Hammett, nella copertina del piccolo volume (Mi rifiuto di rispondere, Archinto, pagg. 88, euro 12) in cui sono raccolte le tre testimonianze.
«Mi rifiuto di rispondere, perché la mia risposta potrebbe essere usata contro di me», risponde pacato Dashiell Hammett alle domande del giudice che, chiedendogli del Fondo Cauzioni di cui Hammett è stato presidente, cerca di arrivare a una mappa dei nomi dei suoi incolpevoli compagni "comunisti". E, come osserva Gianrico Carofiglio nella prefazione del volumetto, il suo «Mi rifiuto di rispondere», così ritmato e lontano, sembra un´eco del «preferirei di no», della «cocciuta, incrollabile determinazione» di Bartleby lo scrivano. Con la non piccola differenza che quello del Bartleby di Melville è un rifiuto nevrotico, il cupio dissolvi di un inconciliabile. Il «Mi rifiuto di rispondere» di Hammett, con tutto il rispetto per il Quinto Emendamento continuamente invocato – quello che garantisce a ogni cittadino il diritto di rifiutarsi di testimoniare contro se stesso in un processo penale –, è una strategia rischiosa e coraggiosa, che non per nulla lo spedisce in carcere per sei mesi. Un rifiuto etico e politico. A vederli in scena, questi testi, con i giudici e i vari senatori della Commissione d´inchiesta che si affannano a tessere la loro tela di accuse attraverso domande che circoscrivono il terreno a cui vogliono arrivare. E la freddezza pacata ma martellante dei «Mi rifiuto di rispondere» di Hammett.
Sempre la stessa risposta. Salvo alcune sue battute fulminanti.
«A questo so rispondere. Sono due lettere», concede Hammett quando gli chiedono che cosa siano quei due caratteri, D. H., su un documento che proverebbe il suo coinvolgimento, tramite la sua sigla (che sua infatti è), nelle operazioni del Civil Rights Congress. La risposta gli costa una condanna a sei mesi per oltraggio alla corte. O, due anni dopo, la sua risposta al Senatore McClellan, quando questi gli chiede se non ritiene che il suo rifiuto di parlare sia un atto di volontaria autoincriminazione davanti al tribunale della pubblica opinione. «Non è stato il tribunale della pubblica opinione a condannarmi a sei mesi di carcere». Anche per questa battuta sarà punito: lo perseguitano con 100.000 dollari di tasse arretrate, i suoi libri vengono tolti dalle biblioteche.
Siamo nel 1953. L´ultimo libro pubblicato da Hammett in vita è del ´34. In ritiro tra la sua casa di Katonah, N. Y., e quella dell´amata Lillian a Martha´s Vineyard, legge Dracula e Engels davanti alla tre macchine per scrivere che conserva in ricordo dei tempi in cui era uno scrittore. Il silenzio, anche quello creativo, è diventato parte della sua esistenza e del suo stile, e continuerà a farne parte fino al 10 gennaio del ´61, quando "Dash", a sessantasette anni, se ne andrà per sempre. E a poco a poco la sua vita diventa una leggenda americana, e "Dash" un personaggio di culto. Da autore di genere diventa Grande Scrittore, e condivide gli scaffali con i classici americani. Joe Gores ne fa un personaggio di romanzo. Wenders ne fa un personaggio cinematografico. Lillian Hellman ne fa il ritratto in piedi di un uomo unico e straordinario, fedele a chi ama, fedele alle cose in cui crede.

Repubblica 9.6.10
Lo sguardo di Galileo
di Laura Montanari

Rinnovando gli spazi abbiamo reinventato i percorsi, valorizzato gli oggetti, mostrandoli da diverse prospettive, cercando di stimolare la curiosità di chi guarda
Il museo di Storia della Scienza diFirenze riapre dopo un lungo restauro e prende il nome del grande genio. Nuovo anche l´allestimento che esalta un modo più moderno per vedere (e raccontare) gli strumenti e il sapere scientifico

È una trasformazione radicale quella che comincia dal nome: non più museo di Storia della scienza, ma dall´11 giugno, museo Galileo. Una dedica che riconosce la centralità dello scienziato pisano nel cammino della conoscenza e nel quattrocentesimo anniversario del Sidereus Nuncius. Del resto qui, a palazzo Castellani, a Firenze, sono custoditi i gioielli di quel sapere che ha segnato la sfida galileiana, gli unici arrivati fino a noi: due cannocchiali e la lente che ha rivelato al mondo i satelliti di Giove.
Sono stati necessari due anni di lavori per riconsegnare diciotto sale, nuovi allestimenti e un museo di respiro internazionale, completamente ripensato nella geografia interna, moderno e capace di offrire anche videoguide multimediali profilate a seconda degli interessi, dell´età (bambino o adulto) e del tempo a disposizione del visitatore. Questa sorta di tutor interattivo (si affitta all´ingresso a 5 euro), è un apparecchio portatile utilizzato per la prima volta nei musei europei, capace di leggere il luogo in cui si trova il visitatore e in grado di resettarsi sulla vetrina e sugli oggetti in esposizione per offrire un menù di informazioni, filmati e animazioni calibrate sugli interessi di chi guarda.
La collezione degli strumenti scientifici, spina dorsale del museo Galileo, rilegge un pezzo di storia di quella Toscana che, ai tempi dei Medici e dei Lorena, era stata non solo capitale dell´arte ma anche centro di eccellenza nelle scienze. Ogni macchina è un lampo nel buio, la conquista di un frammento del sapere: il cannocchiale, il telescopio, il barometro, l´igrometro, l´astrolabio, il primo termometro da polso, i primi orologi. In ogni stanza di palazzo Castellani grandi affacci sull´Arno si capisce la fatica di chi nei secoli ha camminato a tentoni, ma anche l´entusiasmo e lo stupore di quelli che con la matematica, la chimica e la fisica, la medicina hanno cercato di leggere meglio il posto dove siamo e le leggi complesse che lo regolano. è stata necessaria la parziale chiusura del museo anche se le attività espositive e quelle di ricerca dell´istituto sono andate avanti, e un investimento di otto milioni di euro, per rigenerare questa straordinaria collezione, unica al mondo, composta da mille fra strumenti e apparati scientifici. Si può vedere ripulita e coi colori vivi delle sue pitture la celebre sfera armillare di Antonio Santucci (XVI secolo) che illustra il cosmo tolemaico. O i restaurati e finalmente leggibili in tutte le loro sfumature globi celesti e terrestri di Vincenzo Coronelli. In occasione della nuova apertura che cade fra l´altro a 80 anni dalla fondazione vengono esposti anche i resti di Galileo (due dita e un dente), scomparsi da oltre un secolo e ritrovati da due collezionisti fiorentini. Si trovano nella sala (VII) al primo piano, assieme al terzo dito dello scienziato già conservato nel museo. I reperti erano stati prelevati nel 1737 quando la salma di Galileo fu riesumata per essere trasferita nel sepolcro monumentale della chiesa di Santa Croce. «Abbiamo reinventato i percorsi per stimolare al massimo la curiosità di chi guarda spiega l´architetto Marco Magni -, cercato di valorizzare gli oggetti e mostrarli da diverse prospettive». Si può, per esempio, girare intorno al banco di chimica del granduca Pietro Leopoldo o osservare gli astrolabi che ruotano di 360 gradi. Diverse sale inoltre sono attrezzate con schermi piatti su cui passano video e dimostrazioni che aiutano a capire il tempo di quegli strumenti che hanno segnato le tappe di un cammino arrivato fino a noi e mai finito.

Avvenire 9.6.10
Neuroscienze/1
Un saggio indaga i paradossi, che già si fanno strada nelle aule giudiziarie, nati dal voler ridurre ogni scelta a combinazioni chimiche del cervello
Ma nel Dna la mente non c’è
di Gabriella Sartori

«I geni determinano solo le linee generali delle strutture cerebrali: ma poi cellule e collegamenti nervose si plasmano secondo gli impulsi ricevuti dall’ambiente Anche prima della nascita» Parla lo studioso Filippo Tempia

«Noi siamo il nostro D­na ». O anche: «Oggi l’uomo non può più considerarsi capace di libere deci­sioni ». Sono affermazioni di uso cor­rente che qualcuno vorrebbe far passare per “scientifiche”. Invece so­no veri e propri “miti” secondo Fi­lippo Tempia, neuroscienziato, do­cente all’Università di Torino, mem­bro dell’istituto scientifico della fon­dazione Cavalieri-Ottolenghi e del­­l’Istituto nazionale di Neuroscienze in Italia che ne ha parlato di recen­te in una seguitissima lezione tenu­ta al Centro Studi biblici di Sacile (Pordenone), all’interno del ciclo “Scienza e Bibbia”.

Si sente spesso dire che noi siamo il nostro Dna, che il cervello è “co­struito” a partire dalle istruzioni contenute nel Dna e quindi non può essere un soggetto libero. Che cosa ci può essere di vero?

«Affermare che 'noi siamo il nostro Dna' equivale a identificare l’intero essere umano con le informazioni genetiche che sono alla base del suo sviluppo e del suo funzionamento. Dato che il cervello viene “costruito” a partire dalle istruzioni contenute nel Dna, si dice, esso sarebbe pre­determinato dalle informazioni ge­netiche e quindi non potrebbe es­sere considerato un soggetto libero. Non è così. Innanzitutto il genoma umano comprende circa veniquat­tromila geni. Questo numero sem­bra abbastanza grande, anche se è molto simile a quello del topo ed è poco più di quello del moscerino e del vermetto caenorhabditis elegans ,

che è stato il primo animale a cui è stato sequenziato tutto il Dna. In o­gni caso, per capire quante informazio­ni i geni posso­no contene­re, biso­gna co­me minimo paragonare il loro nu­mero con l’organismo che essi de­vono codificare. Il solo encefalo u­mano è costituito da circa ottanta­sei miliardi di cellule nervose, i neu­roni: è chiaro che con ventiquattro­mila geni è impossibile codificare le proprietà di ottantasei miliardi di neuroni: per ogni gene abbiamo tre milioni e mezzo di neuroni. Non ba­sta. La realtà del sistema nervoso u­mano è ancora più complessa, per­ché la vera unità funzionale è il con­tatto, detto sinapsi, che permette la trasmissione di segnali tra una cel­lula nervosa e l’altra. I neuroni rice­vono e trasmettono segnali da mol­ti contatti sinaptici. Ognuno dei neuroni principali della corteccia cerebrale riceve circa diecimila si­napsi. Quindi, l’intera rete di con­nessioni consta di un numero enor­me di sinapsi, stimato in poco me­no di un milione di miliardi. Di con­seguenza, i geni possono solamen­te specificare le linee generali che guidano lo sviluppo delle strutture nervose e delle loro connessioni. Lo stesso identico Dna non potrà per­mettere la costruzione due encefali perfettamente identici. Nello svi­luppo del sistema nervoso entrano in gioco molti altri fattori, come l’in­terazione di ogni cellula con il mi­croambiente in cui si trova e so­prattutto come i segnali elettrici e chimici ricevuti da altre cellule. I se­gnali nervosi importanti per la for­mazione delle strutture encefaliche provengono in gran parte dall’am­biente esterno. Quindi, si può con­siderare che la propria storia perso­nale, unica e irripetibile, inizi molto prima che il soggetto acquisti la co­scienza di esistere. Si potrebbe af­fermare che il nostro stesso corpo è plasmato dall’insieme delle espe­rienze sensoriali che agiscono sul si­stema nervoso da prima della na­scita ».

Si dice anche che quando decidia­mo “liberamente” in realtà è il no­stro cervello che decide, la libertà non esiste ma è solo una illusione...

«Chi sostiene questa posizione ne­ga qualunque efficacia all’attività mentale. La mente sarebbe un pro­dotto del cervello, come una secre­zione è il prodotto di una ghiando­la. L’assurdità di questa posizione è evidente se consideriamo che noi possiamo coscientemente dirigere non solo le nostre azioni, ma anche i nostri pensieri. Addirittura sogget­ti che erano diagnosticati come in stato vegetativo sono riusciti a diri­gere i propri pensieri secondo le ri­chieste del medico. Le diverse atti­vazioni cerebrali correlate con tali pensieri sono state registrate me­diante la risonanza magnetica nucleare funzionale, nono­stante l’impossibilità dei soggetti di comunicare in qualsiasi modo».

E come si comporta quando siamo chia­mati ad esprimerci su ciò che è bel­lo o brutto, buono o cattivo? È il cer­vello che, con la sua attività, formula i giudizi estetici e i giudizi morali?

«I giudizi estetici e morali sono con­siderati esclusivi dell’uomo. Anche in questo campo le neuroscienze stanno mostrando quali aree cerebrali si attivano in modo specifico per o­gni determinato tipo di giudizio. Una lettu­ra superficiale porta alla concezione che, ancora una volta, sia il cervello l’unico vero autore anche di questi pensieri e del­le conseguenti decisioni. Tuttavia, anche in questo caso si può dimo­strare che i giudizi estetici e morali necessitano della coscienza del sog­getto e che sono di natura intenzio­nale e non spontanea. L’attività mentale, che non è misurabile né vi­sualizzabile con strumenti anche so­fisticati, è sempre associata all’atti­vità cerebrale: ma non c’è alcuna di­mostrazione che il cervello da solo, sen­za l’attività mentale, possa eseguire gli stes­si compiti che sono re­si possibili dall’attività cosciente. Natural­mente, il cervello può svolgere molte funzio­ni in modo non-con­scio o non accessibile alla coscienza. Ma, quando que­st’ultima è presente, i pensieri, i sen­timenti, le decisioni sono chiara­mente diretti dall’insieme del cer­vello e dell’attività mentale coscien­te.

L’affermazione che quest’ultima non ha efficacia nel guidare i nostri pensieri, sentimenti e decisioni è un dogma del tutto arbitrario e scienti­ficamente infondato. Rimane quin­di aperta la questione della libertà dell’uomo nelle scelte estetiche e morali. Tuttavia, credo che qualco­sa in più si possa e si debba affer­mare, partendo dalla constatazione dell’esistenza dell’attività mentale in ogni decisione cosciente. Infatti, è innegabile che in ogni scelta co­sciente, la coscienza stessa sia uno degli attori in gioco, perché non è possibile negare un’efficacia dell’at­tività mentale cosciente nel dirige­re i pensieri e i ragionamenti. Dato che il soggetto può coscientemente dirigere il ragionamento e decidere il risultato finale, tale risultato non può essere una conseguenza obbli­gata dell’elaborazione delle infor­mazioni acquisite. Infine, assumen­do un ruolo attivo della mente, ci si può chiedere chi sia il soggetto che ragiona e formula i giudizi. Certa­mente non il solo cervello, perché è presente anche l’attività mentale. Ma ugualmente non la sola mente, perché ogni aspetto dell’attività mentale ha un correlato cerebrale. Il soggetto che ragiona e formula i giu­dizi estetici e morali non può quin­di essere altro che il cervello co­sciente, con aspetti fisici e men­tali inseparabili. Dato che l’a­spetto materiale dell’uomo non è limitato al solo cervello, ma comprende l’intero corpo, la de­finizione più appropriata del sog­getto degli atti liberi è l’ “io coscien­te” ».

Avvenire 9.6.10
Neuroscienze/2
Nei tribunali il determinismo rende tutti irresponsabili
di Andrea Galli

Herbert Weinstein, un manager americano, fu accusato di aver strangolato la moglie e di averla gettata dal dodicesimo piano del loro appartamento di Manhattan, simulando un suicidio. Nel processo che si svolse nel 1992, il suo avvocato sostenne che una cisti che premeva sulla membrana aracnoide del suo assistito gli provocava una menomazione mentale, rendendolo non responsabile della propria condotta. Il giudice permise che si portasse in aula l’esito di un esame di neuro-immagine.
Il procuratore, nella paura che ciò potesse compromettere l’impianto accusatorio, accettò di patteggiare.

Sempre negli Usa, nel verdetto del 2005 con cui la Corte suprema giudicò incostituzionale la pena di morte per i minorenni, nel parere scientifico sottoposto ai nove giudici da Raquel Gur, neuropsichiatra dell’Università della Pennsylvania, sia faceva notare come gli adolescenti non fossero in grado di controllare pienamente i propri impulsi perché i neuroni della corteccia prefrontale raggiungono solo verso i vent’anni il loro pieno sviluppo. Parere che probabilmente pesò sulla decisione della Corte. Ancora e più recentemente, ossia nove mesi fa, è stata una sentenza della Corte d’assise di Trieste ad accordare, prima in Europa, una riduzione di pena ad un condannato per omicidio, anche perché la perizia disposta dalla difesa aveva dimostrato un profilo cromosomico alterato e suscettibile di indurre alla violenza sotto specifiche circostanze esistenziali. Questi esempi, citati da Andrea Lavazza, studioso di scienza cognitive e giornalista di 'Avvenire', e Luca Sammicheli, psicologo forense, sono un buono spunto per riflettere sull’impatto – sempre più attuale, non solo potenziale – delle neuroscienze su un pilastro dell’ordinamento sociale: il diritto. Diritto che, per come ci è stato consegnato nella plurisecolare elaborazione che ne ha fatto l’Occidente, fonda la necessità della pena del reo su un postulato: l’uomo 'sano' conserva per lo meno un nucleo di libertà, e quindi di responsabilità per le proprie azioni, che può far sì che venga riconosciuto colpevole e sia proporzionalmente punito. Al contrario di un pitbull o di una tigre, che, nel caso sbrani il proprio incauto guardiano, non viene processata o giudicata colpevole: semplicemente viene abbattuta o, come preferisce un certo animalismo, rilasciata intatta al suo stato di natura. Ma il diritto è solo un capitolo di uno scenario ben più ampio e con cui è necessario confrontarsi a viso aperto, anche perché non è più relegabile solo a qualche distopia letteraria: nel momento in cui si affermasse una visione deterministica 'dura', quella per cui – come scrive un nome di punta delle scienze cognitive attuali, l’americana Martha Farah – «tutto il nostro comportamento è determinato al cento per cento dal funzionamento del cervello, che a sua volta è determinato dall’interazione tra geni ed esperienza», quale spazio rimarrebbe per la specificità umana, ossia la libertà orientata dalla volontà?
Un approccio al problema è dato da Siamo davvero liberi? Le neuroscienze e il mistero del libero arbitrio (Codice edizioni, pagine 210, euro 14,00) a cura di Mario De Caro, Andrea Lavazza e Giuseppe Sartori. Un libro importante, un tentativo riuscito di divulgazione alta che riunisce competenze varie e di primo livello – da quelle di Neuroimaging di John Dylan Haynes, a quelle di psicologia sperimentale di Marcel Brass, di filosofia morale di Roberta Monticelli o di neuroetica di Adina L. Roskies, per citare alcuni dei contributi. E che aiuta a comprendere i termini di quel nodo ontologico ed epistemologico dato dal rapporto tra corpo e mente, o tra fisico e 'spirituale', che, se è venuto al pettine e ha riacceso negli ultimi anni il dibattito sull’evoluzione della vita e la visione neodarwiniana dell’uomo, tutto lascia supporre che troverà sempre più nello studio del cervello il suo banco di prova.

Repubblica 9.6.10
Chi dimentica le famiglie dei pazienti psichiatrici
di Elena Canali
Alla fine di maggio si è svolto a Roma una convegno nazionale dell'Unione Nazionale Associazioni Salute Mentale. È passato sotto silenzio, anche se affrontava temi che riguardano molti. L'Istituto Superiore di Sanità sostiene che il 20% della popolazione è affetto da patologie psichiatriche. Tanti di noi hanno a che vedere con questo dramma e con l'assenza di risposte da parte delle strutture. Paradossalmente, mentre siamo accusati dagli operatori di volerci sbarazzare del problema e di non "amarli", se chiediamo di inviare il malato in una comunità e attivare un reale progetto terapeutico, le nostre richieste di informazioni sullo stato clinico del paziente sono spesso disattese per presunti "motivi di privacy". Destra e sinistra si sono premurate, in questi 30 anni, di non dotare di strumenti attuativi la legge "180". A noi rimane la solitudine e la disperazione dell'obbligo ipocrita di "amarli" per legge.

l’Unità 9.6.10
Le famiglie dei pazienti psichiatrici
di Elena Canali
Il 27 maggio si è svolto a Roma una convegno nazionale dell’Unasam (Unione Nazionale Associazioni Salute Mentale) nell’assoluto silenzio dei mezzi di informazione. Eppure non eravamo pochi, anzi! L’Istituto Superiore di Sanità sostiene che il 20% della popolazione è affetto da patologie psichiatriche. Un parente, un amico, un vicino di casa, tanti di noi hanno a che vedere con questo dramma e con l' assenza di risposte
da parte delle strutture, siamo migliaia. Confusi e paralizzati sotto il ricatto di un possibile balzo indietro verso la ri-manicomializzazione ma vittime e prigionieri, nello steso tempo, di servizi territoriali inadeguati e insufficienti, a parte le rare e preziose eccezioni. Il problema ricade sulle nostre spalle e siamo costretti ad affrontare situazioni più grandi di noi: obbligati a farci carico di persone deliranti con le quali la convivenza è un inferno. Paradossalmente, intanto, siamo accusati dagli operatori di volerci sbarazzare del problema e di non “amarli”, se chiediamo di inviare il malato in una comunità attivando un reale progetto terapeutico, mentre le nostre richieste di informazioni sullo stato clinico del paziente spesso non hanno risposte per presunti motivi di privacy. Non è questa una follia? E non è una follia pensare che un genitore 80enne, o un fratello che deve anche lavorare e attendere agli impegni della propria vita, pur non ricevendo chiarimenti rispetto alla situazione clinica, debbano e possano essere in grado di fronteggiare un inferno simile?

La versione originale della lettera di Elena Canali della quale Repubblica e l'Unità hanno pubblicato stralci
Il 27 maggio si è svolto a Roma una convegno nazionale dell'UNASAM (Unione Nazionale Associazioni Salute Mentale) nell'assoluto silenzio dei mezzi di informazione. Eppure non eravamo pochi, anzi! L'Istituto Superiore di Sanità sostiene che il 20% della popolazione è affetto da patologie psichiatriche. Un parente, un amico, un vicino di casa, tanti di noi hanno a che vedere con questo dramma e con l' assenza di risposte da parte delle strutture, siamo migliaia... Ma non si deve dire e, soprattutto, il tema non si deve affrontare. Noi famigliari rimaniamo confusi e paralizzati sotto il ricatto di un possibile balzo indietro verso la ri-manicomializzazione che certo non vogliamo, ma allo stesso tempo siamo vittime e prigionieri imbavagliati di una perversione del sistema che impone che il paziente sia assistito dai servizi territoriali spesso, però, inadeguati e insufficienti, se non assenti, (esistono rare e preziose eccezioni, per la fortuna di pochi). Il risultato è che tragicamente il problema ricade sulle nostre spalle e siamo costretti ad affrontare situazioni più grandi di noi: di fatto, senza alcuna preparazione, siamo obbligati a farci carico di persone deliranti con le quali la convivenza è un inferno. Paradossalmente, mentre siamo accusati dagli operatori di volerci sbarazzare del problema e di non "amarli", quando chiediamo di inviare il malato in una comunità e attivare un reale progetto terapeutico, allo
stesso tempo, le nostre richieste di informazioni sullo stato clinico del paziente non hanno risposte per presunti motivi di privacy. Non è questa
una follia? E non è una follia pensare che un genitore 80enne, o un fratello che deve anche lavorare e attendere agli impegni della propria vita, pur non ricevendo chiarimenti rispetto alla situazione clinica, debbano e possano essere in grado di fronteggiare un inferno simile?
L'argomento è "scabroso" perchè gli interessi in gioco hanno molti zeri: cliniche private, industrie farmaceutiche, cooperative di servizi, contesti
in cui, se a stento si riesce a usare la parola "assistenza", grande assente è però la parola "cura". Destra e sinistra si sono premurate, in questi 30
anni, di non dotare di strumenti attuativi la legge "180" e in nome della "libertà di delirare" si è evitato di dare risposte reali al problema. Ideologie e interessi, di fatto, impediscono ai pazienti la possibilità di uscire dalla malattia. A noi rimane la solitudine e disperazione dell'obbligo ipocrita di "amarli" per legge.
Elena Canali

martedì 8 giugno 2010

Il Fatto 8.6.10

“Israele deve parlare con Hamas e bloccare gli insediamenti”

Il “dopo Flottiglia” visto dallo scrittore Abraham Yehoshua

di Stefano Caselli e Davide Valentini


“Che cosa posso dire? Provengo da un paese complesso, con problemi e tensioni enormi”. Abraham Yehoshua, ospite del Festival “Collisioni” di Novello (Cn) vorrebbe parlare soltanto di letteratura, ma il massacro della Freedom Flottiglia è ancora sulle pagine di tutti i giornali del mondo. E poi le ultime notizie. Come l’annuncio della Mezzaluna Rossa iraniana che vorrebbe inviare due navi a Gaza con aiuti umanitari, una minaccia che per ora Israele minimizza (parlando di “provocazione”) ma che il ministro degli Esteri Frattini prende sul serio, tanto da dire che si tratta di un “chiaro segno dell’intenzione dell’Iran di assumere il controllo della Striscia”. E anche l’uccisione di quattro sub palestinesi, presunto commando terrorista, al largo di Gaza. Uno sguardo malinconico all’orizzonte delle Langhe e la letteratura, per un attimo, passa in secondo piano.

Yehoshua, lei pochi anni fa disse di Israele: ‘I nostri cuori stanno diventando di pietra’.

Oggi, dopo il blitz contro la Freedom Flottiglia, com’è il cuore degli Israeliani? Non lo so, ma la situazione si fa sempre più complessa anche se, come sempre, non tutto è bianco o nero. Uccidere a casaccio sulla nave è stato completamente stupido. Mandare i soldati all’assalto in quel modo è stato un folle errore militare. Ma io imputo a Israele soprattutto di non essere stato capace di dialogare con Abu Mazen nel West Bank. Lì si può fare qualcosa, perché la situazione è calma, le forze di sicurezza dei Palestinesi hanno la situazione sotto controllo, non ci sono attacchi terroristici. Dobbiamo andare avanti sulla via dei due Stati, con Abu Mazen. E se le richieste dei palestinesi sono talvolta inaccettabili, Israele deve comunque bloccare immediatamente gli insediamenti e trovare una soluzione per i coloni. Il governo, in questo momento, non sta facendo nulla.

Al di là del dramma delle vittime, tutto il mondo parla di clamoroso autogol politico. Ci saranno ricadute internazionali?

Certo, ovviamente è stato un errore deplorabile; delle persone sono state uccise. Sono necessarie indagini accurate, bisogna capire chi e perché ha sbagliato. Il ministro della difesa e il comandante della marina devono spiegare tutto. Ce lo chiede la gente. Quello che dobbiamo fare, ora, è consentire che nel porto di Gaza attracchino le navi sotto il controllo di ispettori internazionali che verifichino i carichi per impedire l’introduzione di armi pesanti.

Poco fa parlava di Abu Mazen. Ma a Gaza governa Hamas. È davvero impossibile trovare un dialogo? Bisogna parlare con Hamas. Non con chi si ostina a non riconoscere il diritto di Israele ad esistere, semmai con quelle frange che chiedono un ritorno ai confini del 1967. Tuttavia penso che la soluzione migliore sia ritrovare un’intesa concreta tra Hamas e Fatah: sono lo stesso popolo, noi non possiamo parlare con due entità diverse,

magariinconflitto.AbuMazen, in questi giorni, ha detto una cosa molto intelligente: “La questione di una condanna internazionale di Israele non è necessaria, ciò di cui abbiamo bisogno è una riconciliazione con Hamas per giungere ad una voce palestinese unitaria”. Pensa che il governo israeliano sia davvero rappresentativo del suo popolo?

Perché forse Berlusconi rappresenta tutto il popolo italiano? Certo, rappresenta una parte del Paese. La gente per strada, se interrogata sulla soluzione dei due Stati, è d’accordo; è l’ideologia ufficiale della destra. Ma se chiedi “è possibile, ci credi?” dicono di no. Questo è il problema, stiamo perdendo fiducia. Ci sono sempre più antiarabi e razzisti. L’unica soluzione che vedo è finirla con gli insediamenti, con gli edifici a Gerusalemme Est e trovare un accordo con i palestinesi sulla base dei confini del 1967. Ancora una volta la questione è: si può criticare Israele senza essere chiamati antisemiti?

Una cosa è l’antisemitismo, un’altra è la critica. Però, mi chiedo: quante manifestazioni

ci sono state contro la Russia per le atrocità in Cecenia, quante contro Belgrado per il Kosovo? Penso che in Europa ci sia un eccesso di critica nei confronti di Israele, anche se non penso sia legittimo parlare di antisemitismo. Ma l’energia antisemita rischia di spostarsi verso l’anti-israelismo. E questo accade soprattutto a sinistra e mi dispiace, perché anche io sono di sinistra.

Sulla facciata del Ministero della Verità in 1984 di Orwell, c’è una scritta: “La guerra è pace”. È questa la situazione nella quale ci troviamo ora?

Bisogna fare molta attenzione: non siamo in guerra, nel senso che non è la Seconda guerra mondiale. C’è naturalmente una contesa in atto tra Est e Ovest, ma le nazioni europee non sono più aggressive. L’idea che esista l’Unione europea è qualcosa di magnifico. Una delle mie soluzioni al conflitto israelo-palestinese, per esempio, è che l’Europa proponga a Israele e Palestina, in caso di pace, l’ingresso nel mercato comune. Penso che l’Unione europea debba essere tenuta ben salda anche per questo.


Repubblica 8.6.10

Stato vegetativo, critiche bipartisan

Dubbi anche nel governo. Ma Roccella insiste: "Nelle diagnosi il 40% di errori"

Presentato il rapporto degli esperti del ministero dopo il caso Eluana

Protestano le associazioni: si pensa all´etica ma si tagliano i fondi all´assistenza

di Alberto Custodero


ROMA - «Concentrarsi sulle questioni etiche sposta l´attenzione dal vero problema che riguarda i pazienti in stato vegetativo: la carenza assistenziale». Il documento redatto dal ministero della Salute dopo il caso Englaro - che denuncia oltre il 40 % di errori di diagnosi - suscita le proteste delle associazioni dei malati. E solleva polemiche bipartisan nel mondo politico. È Rita Formisano, fondatrice dell´associazione Arco e primario dell´unità post coma dell´Irccs Santa Lucia, a denunciare «la grande ipocrisia» sorta dopo il caso Englaro». «Da una parte - sostiene Formisano - il gruppo di lavoro presieduto dal sottosegretario Eugenia Roccella stabilisce che non si deve più parlare di persone in stato vegetativo, ma di pazienti in "gravissima disabilità". E definisce i protocolli per le loro cure. Dall´altra, le Regioni tagliano i fondi ai centri di eccellenza che li hanno in carico da anni e abbandonano a se stesse, psicologicamente, economicamente e socialmente le loro famiglie». È il caso, ad esempio, dell´Irccs Santa Lucia, centro di riferimento per le neuroscienze che, complice la crisi e il disavanzo regionale, rischia di dover licenziare il personale e di non erogare più le prestazioni a causa di un credito non pagato dalla Regione Lazio di 50 milioni. «Se sono in difficoltà finanziarie centri di eccellenza - ha aggiunto Formisano - figuriamoci come tutto il percorso sia in condizioni di criticità».

Sul fronte politico, non tutti, nella maggioranza, condividono la conclusione del documento-Roccella («Non si può escludere la presenza di coscienza in pazienti in stato vegetativo»). Ne prende le distanze la deputata del Pdl Melania Rizzoli, medico e componente della commissione parlamentare Errori sanitari. «Non sono d´accordo - sostiene l´onorevole Rizzoli - che ci sia "coscienza" in questi malati. Sono persone "create" da noi medici che, grazie al progresso tecnologico, ormai siamo in grado di rianimare i morti. Una volta riportati in "vita" questi pazienti, tuttavia, non siamo in grado di restituire loro la coscienza, ma non possiamo certo sopprimerli. L´errore, dunque, se così si può dire, sta a monte: non tutti dovrebbero essere rianimati. Una scelta medica difficilissima. Allora per me, anziché fare una legge per regolare l´eutanasia, bisognerebbe farne una per regolare la rianimazione».

La bocciatura del documento arriva dall´opposizione. «Roccella sbaglia dal punto di vista medico-scientifico perché i medici per primi indicano le incertezze nella definizione di stato vegetativo. E anche dal punto di vista politico». Livia Turco, l´ex ministro della Salute del Pd è durissima. I Democratici danno l´altolà alla proposta del governo che cancella per sempre la possibilità di "sospendere l´alimentazione" in casi come quello di Eluana Englaro. E anche se la sensibilità di alcuni cattolici del Pd - Beppe Fioroni, Andrea Sarubbi - è più ricca di distinguo, la presa di posizione della Roccella è considerata una chiusura che renderà ancora più aspro il muro contro muro in Parlamento sul testamento biologico. Turco sbotta: «Sarà stata imbeccata dal Vaticano. Il Pdl in commissione Affari sociali ha avuto un atteggiamento grottesco. E comunque questo irrigidimento provocherà più problemi al centrodestra che a noi».

E anche se non dà sponda alla Roccella, Fioroni, leader ex Ppi, rivendica libertà di coscienza all´interno del partito. Lui del caso Eluana pensa che non andassero sospese alimentazione e idratazione artificiale. Per Sarubbi, cattolico del Pd, «con le chiusure ideologiche non si dialoga, è caricaturale fare i cani da guardia dei valori cattolici».


Repubblica 8.6.10

Tempo pieno alle elementari, è caos "Non c´è posto per 150mila bambini"

Tagli alle prime classi, rivolta dei genitori. Proteste in tutta Italia

La scure del ministro Tremonti chiuderà le porte a migliaia di famiglie

di Salvo Intravaja


ROMA - Oltre 150 mila bambini di prima elementare restano fuori dal tempo pieno e fioccano le proteste dei genitori. Ma il ministro dell´Istruzione, Mariastella Gelmini, spiazza tutti. «Aumenta il tempo pieno nella scuola italiana: nel prossimo anno scolastico saranno attivate 782 classi a tempo pieno in più, per un totale di 37.275 classi. E per il secondo anno consecutivo aumentano gli alunni che potranno usufruire di questo quadro orario». In effetti, come sostiene la ministra, le classi a tempo pieno cresceranno, ma le prime (quelle condizionano le scelte anche per gli anni successivi) in moltissime realtà sono in netto calo.

Così le proteste non si placano, perché dopo il boom dell´anno scorso (1.505 prime classi a tempo lungo in più dell´anno precedente) quest´anno la scure del ministro dell´Economia, Giulio Tremonti, si è abbattuta sulle prime classi, chiudendo le porte a migliaia di famiglie. A Milano, per due giorni, insegnanti e famiglie hanno dato vita alla "protesta festosa anti-Gelmini": saranno almeno 3 mila i piccoli fuori dal tempo lungo. A Roma, le famiglie deluse saranno 4 mila. Nella Capitale, la protesta è partita dalle scuole che si sono viste tagliare le prime a tempo pieno: 4, anziché 6 al Principe di Piemonte e alla Leonardo da Vinci. Mentre una delegazione di genitori del circolo Iqbal Masih nei giorni scorsi si è incatenata davanti ai locali dell´Ufficio scolastico provinciale (l´ex provveditorato). A Firenze il comune pensa a un servizio di "custodia" post-scuola per i bambini a cui sarà negato il tempo prolungato, ma occorrono 300 mila euro. E a Bologna, i genitori hanno impacchettato le scuole con volantini e manifesti facendo partire la campagna "Tutti devono sapere" e il 10 giugno torneranno a protestare. Lo slogan è: "La scuola non è finita".

Dopo la comunicazione degli organici relativi al prossimo anno, la protesta si è allargata in quasi tutte le città italiane: Torino, Napoli, Bari, Palermo. Con l´occupazione simbolica degli uffici scolastici provinciali e degli uffici scolastici regionali ad opera della Flc Cgil, supportata da genitori e insegnanti. Ma, se il tempo pieno aumenta, come afferma la Gelmini, allora, perché i genitori protestano? A spiegarlo è Giuseppe Adernò, preside dell´istituto comprensivo Parini di Catania che ieri, dopo avere invitato la ministra a presiedere l´evento, ha sorteggiato i posti a tempo pieno. «Nel corrente anno scolastico - spiega Adernò - all´Istituto Parini sono state attivate due classi a tempo pieno, servizio molto apprezzato dai genitori dei 50 bambini frequentanti. Per il prossimo anno le richieste sono aumentate a 77. Pertanto - prosegue - sono state richieste tre prime classi a tempo pieno». Ma sugli organici della scuola elementare incombe come un macigno il taglio di 8.709 cattedre. «In prima battuta - prosegue Adernò - non sono state autorizzate prime a tempo pieno nel mio istituto e solo dopo tante richieste ne è "arrivata" soltanto una».

In provincia di Milano ne salteranno 154, tra Roma e provincia 97 e a Palermo trovare una prima a tempo pieno sarà una specie di lotteria: appena 9 classi in tutto. E coloro che non avranno il tempo pieno a settembre, non lo otterranno neppure nelle classi successive. Il calo delle prime a tempo pieno è solo la punta dell´iceberg di un servizio richiesto in massa soprattutto dai genitori che lavorano, ma che il governo lesina. Per comprenderlo basta confrontare due dati. Gli alunni della scuola materna (ora dell´Infanzia) che fruiscono del tempo lungo (Tempo normale) sono 90 su 100, ma quando si accede all´elementare la percentuale precipita al 27%. Il calcolo è abbastanza semplice e dice che circa 150 mila bambini ogni anno restano fuori dal tempo pieno. Ecco spiegate proteste e sorteggi.


Repubblica 8.6.10

Libro risponde ai dubbi sull’identità del grande drammaturgo

Shakespeare mistero risolto

L’ossessione per l’autore ha riguardato anche Omero: per alcuni era una donna

di Nadia Fusini


È o non è William Shakespeare di Stratford l´autore di quel corpus di opere che va sotto tale nome? Shakespeare è un vero nome, o un nome finto, uno pseudonimo? Della contestata attribuzione si occupa lo studioso James Shapiro in Contested Will (Faber, pp.367, £20), libro che potrebbe mettere fine all´ansia, perché chi legga sino alla fine non potrà avere dubbi: Shakespeare è Shakespeare, non è Francis Bacon, né Edward de Vere, conte di Oxford, né Christopher Marlowe, né la regina Elisabetta… Perché sì è detto di tutto, e alle ipotesi più stravaganti sono abboccati non solo dei creduloni – un nome per tutti, Sigmund Freud. Ma si aggiunga alla lista Mark Twain, Henry James… Con pazienza e senza disprezzo Shapiro ci accompagna nelle contorte peregrinazioni alla ricerca del "vero" Shakespeare, che nasce da una diffidenza, da un pregiudizio: nella sostanza, non si riesce a credere che un provinciale, un uomo qualunque possa essere stato capace di tanto. Troppo sembra conoscere l´autore di Amleto, di Lear, di Otello, troppo profondo è il suo pensiero, troppo vasto il suo intelletto, troppo raffinata la sua lingua: non può essere un uomo qualunque, di una qualunque città di provincia. Il quale, in più, alla fine abbandona baracca e burattini e vi torna, e compra case, stemmi, e pensa solo ai soldi, per soldi litiga, come se l´unica cosa che conti siano i possessi materiali. Vi pare una mentalità da grande scrittore, questa? (si può osservare che non sarebbe certo il primo Shakespeare a scrivere per soldi; anzi da che mondo è mondo pare che il denaro sia la grande molla dell´ispirazione.) Ma per certi idealisti che avevano assunto Shakespeare a Bibbia laica, non poteva essere così.

Delia Bacon, un´americana stravagante, forse anche perché si chiamava come si chiamava, decise che l´autore del corpus shakespeariano era Francis Bacon e venne in Inghilterra a cercare prove dentro la tomba del poeta, ed era pronta a scavare, se non le fosse stato impedito, convinta com´era che nella bara avrebbe trovato le prove. Un altro, che si chiamava Looney, nomen omen anche in questo caso (perché loony sfuma nell´idea di lunatico, eccentrico, fuori di testa) invece è convinto che sia il conte di Oxford, e non importa che il conte muoia ben prima che Shakespeare smetta di scrivere. Altri ancora ricorrono a sedute spiritiche, per farsi dire la verità proprio da lui, da Shakespeare.

All´inizio della quête, che Shapiro descrive con brio e pazienza, c´è un peccato originale. Risale al 1790, quando Edmond Malone lavora a una nuova edizione dei drammi shakespeariani, che vuole in ordine cronologico, e tale ordine crede di poter costruire in base ai rimandi personali, biografici, che cerca nei testi, quasi che si potesse scrivere solo di cose che si conoscono perché le abbiamo vissute. È il grande abbaglio che acceca Freud (secondo il quale Shakespeare non poteva scrivere l´Amleto se non dopo la morte del padre), e prima ancora giustifica chi dirà: come faceva Shakespeare a sapere tutto dell´arte della falconeria, se non era un aristocratico? Come faceva a sapere tutto di una nave, se non aveva mai navigato?

Il punto è che con l´epoca moderna, si cominciò a dubitare di tutto: ad esempio, chi aveva scritto l´Iliade? Chi l´Odissea? Lo stesso autore? Impossibile, decretò Samuel Butler: si capisce subito che l´Odissea l´ha scritta una donna, che sa come si tendono i panni al sole, si piegano le lenzuola e come si tesse al telaio. E difatti, è una principessa siciliana, di Trapani, l´autrice. Mentre è certamente un uomo che sa tutto della guerra ad aver scritto l´Iliade. E se per quello chi aveva scritto la Bibbia? Era davvero credibile che fossero dei pescatori ignoranti? Non erano analfabeti i discepoli?

Qui il libro si fa non solo interessante, ma cogente, dimostrando come il concetto di autorità e autorialità e identità e proprietà si stringano in nodo intrinseco e problematico, tanto da produrre nuove interpretazioni, succubi tutte dello Zeitgeist; dalle quali si evince che non la verità, ma il mito domina e guida la vicenda. E il mito trionfa proprio allontanando dalla cosa vera, evocando false ombre, sembianti. Basterebbe leggere, Shakespeare è lì; se non gli si vuol credere, se non si vuol credere alle testimonianze di chi l´ha incontrato, ai contemporanei che della sua esitenza testimoniano, è senz´altro perché un certo fanatismo occulteggiante è la strada che da che mondo è mondo prende la fantasia. Mentre per conoscere Shakespeare ci vuole intelligenza e immaginazione.


Repubblica 8.6.10

Lo scrittore francese e il libro, ora tradotto nel nostro Paese, da cui fu tratto il film di Beineix

Djian: "La mia Betty blue finalmente in Italia"

"Ho sempre detto che quando sto male mi serve di più andare in libreria piuttosto che dal medico: la letteratura è un´ottima terapia per molte cose"

di Daria Galateria


Filippe Djian ha ascoltato, adolescente, Kerouac. Un amico gli aveva prestato il nastro; il "poeta jazz" leggeva Mexico City Blues, un pianoforte di sottofondo – Djian fu affascinato da quella letteratura trasformata in mantra. Ancora oggi, si considera un erede della Beat Generation; in giacca di cuoio, ha praticato forti amicizie, molti viaggi e qualche eccesso da "Generazione perduta" – fumo, alcol, notti bianche, ragazze, sognando l´America; e continua a traslocare, oramai con moglie e figli, da Biarritz a un´isola, da Boston a Firenze, da Losanna a Parigi, dove è nato giusto sessant´anni fa; ora è a Bordeaux. E è così che i suoi romanzi magnifici sembrano romanzi americani.

Sono storie che filano a velocità siderale; ogni frase un mondo di sentimenti rovesciato in una formula inaudita e corta, tutta azione e oggetti, e lanciata con naturalezza verso accadimenti atroci («quel pugno se l´è portato alla bocca, come a dargli un bacio, e l´attimo dopo l´ha fatto passare attraverso il vetro della finestra»). Quando la rivelazione per il lettore è troppo crudele, Djian lascia uno spazio bianco, come il salto di un battito; subito il corso rock degli affetti riparte, senza il tempo di cicatrizzare. Ma "la tenerezza è una roba impossibile da smerciare"; così sono storie noir all´apparenza.

Dal 1986, Djian è in testa alle classifiche: è stata Béatrice Dalle, smagliante faccia della giovinezza e della follia, la Betty Blue del film di Jean-Jacques Beineix, a far conoscere 37°2 al mattino, che esce ora in Italia (pagg. 376, euro14) da Voland, dove sempre Daniele Petruccioli ha già tradotto Gli imperdonabili, splendido testo sul lutto impossibile.

Philippe Djian è a Roma, per Massenzio Letterature, stasera. Lei è l´unico scrittore francese a scrivere romanzi americani, gli dico. «Non so se è un complimento» – ride Djian – «il problema è essere contemporaneo alla propria lingua. Non so come va in Italia, ma in Francia il 95% degli scrittori scrive come se si fosse ancora nel XIX secolo. Il francese è una lingua bellissima, ma bisogna aggiornarla, se no muore, proprio perché è una cosa vivente. Occorre un nuovo modo di guardare le cose. Il regista giapponese Ozu ha preso la camera e la ha messa a livello del suolo; di colpo le cose che filmava hanno preso un´aria diversa. Erano cose semplici, una coppia, persone sedute a tavola – ma cambiando l´asse cambiava la rappresentazione del mondo. Le storie non sono importanti; certo non bisogna tradire un certo misto di grottesco, orrori e bellezza che è il moderno. Però Céline diceva: se volete delle storie, basta aprire un giornale. Mentre lo scrittore assomiglia al cineasta che si chiede: cosa inquadro? E con quali luci?».

Il ritmo dei romanzi di Djian è un prestissimo. La musica per lui deve essere molto importante. «Appartengo a una generazione che ha conosciuto tutto attraverso la musica», conferma. «Anche l´embrione di coscienza politica che si poteva avere all´epoca era Bob Dylan che cantava It´s a hard rain´s a-gonna fall, erano poeti e cantanti che ci conducevano alla scoperta della bellezza e forse della storia. Era chiaro per me, la letteratura come la musica è un´onda, qualcosa che si sente col corpo più che con lo spirito. Sono un musicista mancato» – aggiunge – «e solo perché sono sordo da un orecchio». Quale musica sente di preferenza? «In questo momento molte cose sperimentali italiane degli anni Settanta. E anche del field recording, registrato nella strada o nella natura. E il milanese Giuseppe Ielasi, con la sua musica minimale. Per le canzoni ho passato l´età. Ma amo gli Animal Collective, The Residents».

Djian ha fatto musica con Stephan Eicher; ha rapporti con la pittura (il recente La fin du monde, quasi un rap trascritto sulla tela da Horst Haack), col cinema e perfino con la tv. Gli domando se pensa che la serialità abbia qualcosa da insegnare a un romanziere. «Serie come Six Feet Under propongono un format interessantissimo. Non c´è più un centro, ci sono molti centri, nelle storie. Non si deve più descrivere ogni personaggio; si entra in azione subito. Nella competizione tra segno e immagine, mi sono divertito a fare una serie, Doggy Bag, finita in tv… Ma resto legato al segno, alla lingua». La fiducia di Djian nel ruolo della letteratura oggi è piuttosto straordinaria. «Una volta ho detto: quando non mi sentivo bene non andavo dal medico, andavo dal libraio. La frase è piaciuta tantissimo, ne hanno fatto una affiche. Ma era vero, semplicemente. Quando ero a disagio andavo a comperarmi magari Cendrars, il poeta, e poi cercavo come lui di imbarcarmi in un cargo verso la Colombia; l´ho fatto. Ho bisogno di una letteratura che mi sia utile. C´è un´espressione in Francia – Proust non mi aiuta a attraversare la strada. Carver e compagni erano capaci di prendere il mondo in cui vivevano e metterlo in una frase; era una frase-mondo. Diceva Hemingway che il vero scrittore, quando descrive la punta emersa di un iceberg, fa sentire la massa enorme che c´è sotto».

André Téchiné, il regista della Deneuve, sta finendo Terminus des anges, tratto da Gli Imperdonabili. C´è Carole Bouquet, e un´imbronciata Mélanie Thierry; l´adolescente difficile è Lorenzo Balducci. E´ contento del film?, – chiedo a Djian. «Ah, certo. I fratelli Larrieu hanno comperato il mio ultimo lavoro, Incidences. Ma in questo momento sono preso dalla sceneggiatura di un altro mio romanzo, Impuretés. Lo dirigerà Julie Granier, quasi sconosciuta. Ma bisogna andare a cercare i Godard di domani, e cercarli oggi».

lunedì 7 giugno 2010

l’Unità 7.5.10
Oggi Roma, ore 15: la grande manifestazione per la cultura e la libera informazione
Tutti insieme Sindacati, Articolo 21, Usigrai e altri: il disegno del governo è oscurare il paese
Giornalisti Domani sit-in della Fnsi davanti a Montecitorio con tutti i cdr d’Italia
In piazza contro i tagli e i bavagli alle coscienze
L’appuntamento è per le ore 15 in Piazza Navona. Ci saranno i lavoratori dei teatri di prosa e d’opera, i giornalisti, gli istituti culturali, gli archeologi, i ricercatori... contro lo scardinamento della cultura in Italia.
di Luca Del Fra

Doveva essere la manifestazione dei lavoratori delle fondazioni lirico-sinfoniche contro il decreto Bondi ma l’iniziativa si è gonfiata fino a esondare trascinando con sé il mondo della cultura e dell’informazione. Oggi alle 15 a Piazza Navona, oltre ai lavoratori dei teatri d’opera ci saranno anche quelli di cinema, teatro di prosa, musica e danza in generale, insieme agli autori, gli istituti culturali, la Federazione nazionale stampa italiana, Articolo 21 e Usigrai. Lo slogan quindi si è ampliato «contro i tagli e contro i bavagli», e sempre oggi il Pd lancia una giornata di sensibilizzazione sui temi della cultura e dell’informazione in una decina di città italiane. Anche se le due iniziative sono diverse, che ci fanno teatranti, cinematografari, giornalisti, archeologi, musici, scrittori tutti assieme?
«Bisogna dire che purtroppo il governo ci ha dato una mano scoprendo le carte –spiega Silvano Conti della Slc-Cgil–: il disegno è scardinare tutta la cultura pubblica in Italia. Si colpiscono i teatri lirici, si chiudono o definanziano gli istituti di cultura, quelli di ricerca, i musei e nello stesso momento si tenta di oscurare i mezzi di informazione e si taglia scuola, università, ricerca». La Slc-Cgil, con gli altri sindacati di categoria, era stata tra le promotrici di questa manifestazione contro il decreto Bondi, che sta seguendo l’iter di conversione in legge e che vuole trasformare i grandi teatri lirici, come la Scala, il Maggio Fiorentino, il San Carlo di Napoli in teatri di provincia. Il decreto che dava la colpa dei deficit dei nostri teatri lirici ai lavoratori, paradossalmente ha evidenziato come a mettere in ginocchio non solo la lirica ma tutto il settore cultura siano proprio i tagli ai finanziamenti dello stato alle attività culturali, tra i più magri d’Europa: per il 2011 per tutto lo spettacolo, compresi circhi, spettacoli viaggianti, teatro, musica danza e cinema sono previsti 311 milioni, la Francia solo per l’Opéra de Paris stanzia oltre 100 milioni di euro.
Tuttavia la primavera è stata teatro di una offensiva governativa a tutto campo: pochi giorni dopo il decreto sulle fondazioni è arrivata la legge sulle intercettazioni telefoniche, che colpisce sia la libertà di stampa che quella di indagine. Infine con la manovra firmata dal ministro Giulio Tremonti la scure è calata sugli istituti di cultura, da quelli intitolati a Gramsci e De Gasperi fino a quello intitolato a Craxi, per non parlare della Stazione biologica di Napoli, l’Eti o la Quadriennale di Arte Contemporanea di Roma il cui presidente Gino Agnese, intellettuale di destra, ha chiesto le dimissioni del ministro Bondi.
I tagli alle attività culturali sono mascherati dietro l’emergenza della crisi, ma in realtà fin dalla prima vittoria elettorale del 1994, i governi di Berlusconi hanno sempre e incondizionatamente fatto tagli al settore di cultura, scuola, università e ricerca. E lo hanno fatto al di là della congiuntura economica. «C’è un filo nero che collega questi tagli e decreti contro la cultura alla legge sulle intercettazioni –spiega Giuseppe Giulietti portavoce di Articolo 21 del gruppo misto della Camera–: è il tentativo di oscurare la coscienza e la conoscenza. Un oscuramento etico e culturale prelude alla vera macelleria sociale. Domani la Fnsi ha indetto una manifestazione davanti a Montecitorio con i comitati di redazione di tutte le testate italiane. A questa reazione degli oscurati, siano giornalisti o esponenti della cultura, deve seguire il coinvolgimento degli oscurandi, cioè di tutti i cittadini». Nasce così la proposta di una manifestazione nazionale lanciata ieri dallo stesso Giulietti e da Vincenzo Vita del Pd.

l’Unità 7.5.10
Cgil, verso lo sciopero e la nuova segreteria

Il direttivo della Cgil che inizia oggi proclamerà lo sciopero generale contro la manovra. All'ordine del giorno c’è anche il rinnovo della segreteria confederale. Tre dei segretari (Morena Piccinini, Paola Agnello Modica, e Nicoletta Rocchi) sono in uscita perché il loro mandato è scaduto. Piccinini potrebbe guidare l’Inca. Lascerà anche Agostino Megale, per andare a dirigere i bancari (Fisac) dopo le dimissioni di Mimmo Moccia e la guida transitoria di Carlo Ghezzi. Tra i nuovi ingressi, si fa il nome di Serenza Sorrentino, 32 anni, oggi alle Pari opportunità. Certa è anche l’entrata di Nicola Nicolosi, coordinatore di «Lavoro e società» e quelle dei segretari uscenti dell’Emilia, Danilo Barbi, e del Piemonte, Vincenzo Scudiere. Altre nomine, tra cui un o una rappresentante dei lavoratori migranti, sembrano slittare a settembre quando anche Guglielmo Epifani lascerà. Al suo posto viene data Susanna Camusso.

l’Unità 7.5.10
Viaggio nell’Israele dei pacifisti minacciati dai falchi
A Tel Aviv più di diecimila in piazza Rabin per dire no al blitz militare e chiedere giustizia per i palestinesi di Gaza. Il leader storico Ury Avnery circondato da un gruppo di ultrà. Sternhell: «È un campanello d’allarme»
di Umberto De GIovannangeli

L'altra Israele scende in piazza in nome della verità e della giustizia. Verità sugli attacchi alla «Freedom Flotilla». Giustizia per la popolazione di Gaza sfiancata da tre anni di embargo. Scende in piazza, l'altra Israele. E lo ha fatto in una piazza dedicata al generale, Yitzhak Rabin, che osò la pace con l'Olp di Yasser Arafat e per questo fu assassinato da un giovane zelota dell'ultradestra ebraica. Alza la testa, l'altra Israele. E per questo subisce l'aggressione dei fanatici di «Eretz Israel». È accaduto l'altra notte, a Tel Aviv. In migliaia, più di diecimila, si erano radunati in Piazza Rabin per protestare contro l'occupazione dei Territori palestinesi e contro il blitz israeliano sulla nave turca Mavi Marmara, mentre era diretta a Gaza con aiuti umanitari . Una bella manifestazione, una delle più significative tra quelle organizzate dal variegato arcipelago della sinistra pacifista israeliana, con una adesione di movimenti disparati, da Gush Shalom (Pace Adesso), fino al partito comunista arabo-ebraico Hadash.
Quella protesta suonava come una provocazione per i gruppi oltranzisti israeliani. Le invettive non bastano più. Occorre passare all'intimidazione fisica. Quei pacifisti vanno trattati come traditori. E i «giustizieri» provano a prendersela con un uomo di 87 anni. Il simbolo di un pacifismo irriducibile: Uri Avnery. I dimostranti di destra, racconta Avnery, hanno cercato di disturbare i comizi e qualcuno ha anche lanciato nella folla un candelotto fumogeno. «Forse quel qualcuno sperava di creare panico, ma la nostra reazione è stata compassata», aggiunge Avnery che si trovava, con la moglie, a due metri di distanza. «Al termine della manifestazione, mentre accompagnato da un paio di amici e da mia moglie attraversavo la centrale via Ibn Gvirol per salire in macchina – denuncia il leader pacifista siamo stati circondati da una decina di persone ben organizzate». «Hanno cercato a forza di impedirmi di entrare nella macchina, mentre ci gridavano: “Andate a Gaza, maniaci». Avnery ha avuto la sensazione che presto sarebbero passati anche alla violenza fisica, ma l'intervento tempestivo della polizia lo ha salvato.
«Quando alla Knesset si grida “vattene a Gaza” ad una parlamentare araba israeliana, quando lo stesso veleno dal Parlamento si sparge nelle piazze, allora vuol dire che qualcosa di molto grave sta avvenendo dentro la società israeliana e nelle sue istituzioni», dice a l'Unità Yossi Sarid, fondatore del Meretz (la sinistra sionista), più volte ministro e oggi editorialista di punta del quotidiano Haaretz.
«La cosa più grave è che questi fanatici trovano coperture e giustificazioni tra le forze che oggi governano il Paese. E sapere di essere protetti li rende ancora più aggressivi e pericolosi», aggiunge Yael Dayan, scrittrice, già deputata laburista, figlia dell'eroe della Guerra dei sei giorni: il generale Moshe Dayan. Il clima è pesante. Chi non si adegua viene tacciato di essere una quinta colonna di Hamas nello Stato ebraico. «Questa caccia al pacifista è un campanello d'allarme per tutti coloro, non importa se di sinistra, centro o destra, in Israele hanno a cuore la democrazia», ci dice Zeev Sternhell, lo storico che per aver denunciato la violenza dei coloni è rimasto vittima di un attentato (25 settembre 2008. In questo quadro, incalza Uri Avnery, «il compito della sinistra israeliana in questa fase è di lottare contro il lavaggio del cervello e la propaganda stolta ispirati dai falchi e i razzisti che siedono al Governo».
Il clima di intolleranza l'abbiamo respirato l'altro giorno ad Ashdod, tra una folla di oltranzisti che ha accolto con fischi, urla, invettive l'ingresso nel porto della «Rachel Carrie», la nave della Freedom Flotilla intercettata dalla Marina militare israeliana mentre tentava di raggiungere Gaza. Un clima da Paese in guerra. E chi si sente in guerra non ammette defezioni né accetta voci contrarie. Nella «hit» dell'odio, il premier turco Recep Tayyip Erdogan ha quasi raggiunto il presidente iraniano Mahmud Ahmadinejad. «I turchi sono esperti di genocidi, basta vedere cosa hanno fatto agli armeni», sentenzia David Wilder, uno dei capi dei coloni ultrà di Hebron (Cisgiordania). «La lista dei Nemici si allunga di giorno in gior-
no. Questa psicosi dell'accerchiamento si sta trasformando in paranoia. E questo non fa ben sperare per il futuro», osserva preoccupato Amram Mitzna, ex segretario generale e “colomba” laburista. Preoccupazioni condivise dal suo compagno di partito e attuale ministro (Affari sociali), Isaac Herzog : «È tempo di sollevare il blocco (di Gaza), ridurre le restrizioni alla popolazione e cercare altre alternative”, ha affermato ieri nel corso della seduta domenicale dell'esecutivo.
L'altra Israele chiede verità sull' attacco alla Mavi Marmara e sostiene la richiesta di una commissione d'inchiesta internazionale. Ma fa i conti con il no del governo. Benjamin Netanyahu ha bocciato la proposta avanzata dal segretario generale delle Nazioni Unite, Ban Ki-moon, per l'istituzione di una commissione d'inchiesta internazionale sul blitz compiuto dagli incursori della marina israeliana a bordo della Mavi Marmara. A capo della commissione, secondo Ban, sarebbe nominato l'ex premier neozelandese Geoffrey Palmer, e ne farebbero parte anche rappresentanti di Israele, della Turchia e degli Stati Uniti. Aprendo la riunione del Consiglio dei ministri, Netanyahu riferisce di averne parlato direttamente con Ban, al quale ha spiegato che «l'indagine sui fatti dovrà essere svolta in modo responsabile e obiettivo». «Abbiamo bisogno di considerare la questione attentamente, salvaguardando gli interessi di Israele e dell' esercito israeliano», aggiunge il premier che in serata ha riunito il Gabinetto di sicurezza.
Nella seduta di governo, Netanyahu ha detto anche che a bordo della nave turca c'era un gruppo omogeneo, salito a bordo da un porto diverso da quello degli altri passeggeri, senza sottoporsi a ispezioni, ben equipaggiato e «fermamente deciso» a ricorrere ad una violenza organizzata. A dar man forte al premier ci pensa il ministro degli Esteri, Avigdor Lieberman: Israele, afferma Lieberman, è uno Stato sovrano e dunque l'indagine deve essere condotta «con i nostri propri mezzi». E questi mezzi sono stati utilizzati dal Governo israeliano per ordinare in serata l'espulsione in aereo verso l'Irlanda di undici passeggeri della Rachel Corrie. Fra gli espulsi ci sono Mairead Maguire, Premio Nobel per la pace, e Denis Halliday, ex vice segretario generale dell' Onu. In precedenza erano stati espulsi verso la Giordania altri sette passeggeri, di nazionalità malese.

Repubblica 7.6.10
Espulsi tutti gli attivisti della Rachel Corrie. Il governo: "Cinque passeggeri della Mavi Marmara vicini ai terroristi"
Pacifisti, sfida al blocco navale "Pronti a una nuova missione"
di Alessandra Baduel

Gli attivisti della "Rachel Corrie" pensano alla nuova Freedom Flotilla. Determinati a ripartire verso Gaza appena possibile, sono disposti a guardare al passato solo per tornare a denunciare l´assalto alla "Mavi Marmara", sul quale gli attivisti già tornati nei loro Paesi continuano a fornire nuovi elementi. I 19 a bordo dell´ultima nave della Flotilla, bloccata sabato dagli israeliani, sono in parte già ad Amman da ieri, in parte in arrivo a Dublino questa mattina, inclusa la premio Nobel Mairead Maguire.
«Siamo delusi, l´obiettivo era Gaza»: il primo a parlare, passato il ponte di Allenby che divide Israele dalla Giordania, è stato Matthias Chang, avvocato, politico e scrittore malese, attivista della Perdana Global Peace come Shamsul Kamal e Ahmed Faizal Bin Azumu. Il gruppo malese include anche il deputato Mhod Nizar Zakaria e due giornalisti dell´emittente TV3, Abdul Halim Bin Mohamed e Mohd Jufri Bin Mohd Judin. Con loro c´erano un marinaio cubano dell´equipaggio e un ottavo espulso, il giornalista indonesiano Surya Fachrizal della rivista Hidavatullah, colpito sulla "Mavi Marmara": ha una ferita da arma da fuoco al petto, fino a ieri non era trasportabile. Ora è ricoverato ad Amman.
«Siamo portatori di un messaggio di pace - ha detto ancora Matthias Chang - Siamo molto tristi per la perdita di vite umane che c´è stata sulla "Mavi Marmara", il messaggio che deve prevalere nel mondo è "non fatelo mai più, non usate le armi". Tenteremo un´altra missione il prima possibile». Quella nuova missione ha già seguaci fra attivisti come i quattro indonesiani che hanno omaggiato al grido di «Allah è grande» l´ambulanza del conterraneo arrivato in Giordania, mentre Hamas saluta «i simpatizzanti della "Rachel Corrie"» e accusa Israele di un nuovo «blitz sionista». Si è fatta sentire anche la voce dei Guardiani della Rivoluzione iraniani: «Siamo pronti a scortare le flottiglie degli aiuti», dice da Teheran la loro guida Ali Shirazi.
Nelle stesse ore, Israele dichiara che sulla Mavi Marmara c´erano cinque passeggeri legati al terrorismo, di cui due di Hamas e uno vicino ad Al Qaeda. Sui siti del Free Gaza, si accavallano altre denunce: «Quattro feriti gettati in mare dagli israeliani - dice Idris Simsek, attivista che era a bordo della Mavi Marmara, al giornale turco Today´s Zaman - e ho visto sparare a un uomo che sventolava una bandiera bianca». La cineasta Iara Lee, dal Brasile: «Un massacro, ma abbiamo filmato tutto». Sul suo blog "Intifada elettronica", Ali Abunimah pubblica le foto del giornale turco Hurriyet: dei passeggeri in giubbotto salvagente tamponano le ferite di giovani con indosso la divisa israeliana. «Loro i soldati li stavano aiutando», commenta. Per Israele, le stesse foto sono prova dell´aggressione subita.

Repubblica 7.6.10
Nell´inferno di Gaza isolati dal mondo "Così ci fanno morire lentamente"
La disperazione di chi aspettava cibo e medicine: quelle navi ci salvano la vita
Reportage da Gaza senza cibo nè medicine
di Pietro Del Re

Aziz gestiva una fabbrica tessile Adesso ha chiuso per mancanza di materia prima
L´80% dei beni di consumo, dalla farina alle moto, entra a Gaza dai circa 1.600 tunnel
Taisir, 5 anni, è tetraplegico. Il padre: "Non mi danno il visto per farlo curare"

GAZA CITY - È un mare torbido e maleodorante quello da cui doveva arrivare la manna umanitaria fatta di medicinali, cemento, quaderni, giocattoli e tutti quei beni che nella Striscia scarseggiano dal 2006, da quando cioè Israele ha cominciato a soffocarla lentamente, chiudendone i valichi terrestri e isolandola con un impenetrabile blocco navale. «Nutrivamo tutti molte speranze nella nave turca, perché sapevamo che era piena di attivisti e che questi non si sarebbero arresi facilmente», dice Aziz, il quale prima dell´embargo gestiva una fabbrica tessile in cui lavoravano cinquanta persone, ma che un paio d´anni fa è stato costretto a chiudere per mancanza di materia prima. Aziz sperava che l´arrivo della Flottiglia Free Gaza avrebbe concentrato l´attenzione dei grandi network internazionali sulle sofferenze della sua gente. «Da questo punto di vista è andata benissimo: mai come in questi giorni si è parlato delle conseguenze del blocco israeliano. E questo lo dobbiamo ai martiri della "Mavi Marmara"».
Sulle case grigiastre che costeggiano la spiaggia, sventola qualche bandiera turca. L´aria è impestata dal fumo delle bancarelle dove vengono arrostiste pannocchie ancora acerbe. Dopo il cruento arrembaggio di lunedì scorso, quando due giorni fa s´è stagliata all´orizzonte la sagoma della "Raquel Corrie", gli abitanti di Gaza l´hanno appena degnata di uno sguardo. Sapevano che gli israeliani avrebbero intercettato anche il cargo irlandese. Dice Aziz: «Sarebbe stato umiliante accettare quei doni, ma siamo ridotti così male che non avremmo potuto rifiutarli».
Nel porticciolo dove dovevano attraccare le imbarcazioni dei pacifisti molti capannoni sono chiusi. Padre di dieci figli, Soher Bakir ci spiega che da quando c´è il blocco navale, ai pescatori non è consentito allontanarsi più di due miglia dalla costa, perciò oltre la metà della flotta di pescherecci è ormai in disarmo. «Il nostro mare non è più pescoso come una volta, quindi, per sfamare la mia famiglia, la notte sono costretto ad avventurarmi oltre il consentito, rischiando ogni volta la vita. Quando superi di poche decine di metri il limite stabilito, la marina israeliana ti spara addosso», dice Bakir che, suo malgrado, ha cominciato ad acquistare salmone surgelato importato a Gaza dai grossisti di Tel Aviv.
Ex combattente delle milizie Azzadine el Qassam, il braccio armato di Hamas, Hamed Hassan è oggi uno dei leader dell´organizzazione estremista islamica. «Inizialmente i vertici di Hamas erano contrari all´arrivo della flotta umanitaria, perché sostenevano che sarebbe stato come chiedere l´elemosina. Poi, una volta capito il risvolto politico della faccenda, hanno cambiato parere. Ma attenzione: ricevere gli aiuti è anche un´ammissione della nostra incapacità a gestire l´embargo di Israele». Quando gli chiediamo se è per questo motivo che Hamas non lascia entrare a Gaza il carico della "Mavi Marmara" che gli israeliani vorrebbero adesso consegnare ai loro destinatari originari, così risponde Hassan: «Non vogliamo prestarci al gioco di Israele che con una mano accarezza i nostri figli mentre con l´altra cerca di sgozzarti. Netanyahu e i suoi ministri vorrebbero farsi passare per benefattori. Ma si sbagliano se credono di farci la carità».
Emblematica è la storia del piccolo e sorridente Taisir al Burai, cinque anni, da quattro tetraplegico per via di un farmaco sbagliato. Secondo i medici palestinesi e stranieri che l´hanno visitato, la sola opportunità per farlo guarire, o quanto meno migliorare, consiste nel portarlo in Israele o in Germania o addirittura in Giordania, comunque lontano dai decrepiti ospedali di Gaza. «Sono due anni e mezzo che chiedo all´esercito israeliano un visto per uscire da Gaza, ma da allora ho ricevuto soltanto rifiuti», dice suo padre Ramzi, secondo il quale lo Stato ebraico discrimina i più poveri, in particolare se musulmani, come appunto gli abitanti della Striscia. L´esercito di Israele ha tuttavia rilasciato un visto alla moglie di Ramzi, che le permetterebbe di accompagnare il figlio all´estero, in una struttura sanitaria adeguata. «Perché non ce la mando? Perché c´è il rischio che dopo il valico di Erez mia moglie venga stuprata da una banda di ebrei. Ma potrebbe anche finire in un carcere dei servizi segreti israeliani, dove le farebbero il lavaggio del cervello».
Taisir necessita di farmaci che a Gaza difettano. In mancanza di meglio, il bimbo assume una molecola a cui ormai è assuefatto. Ma è proprio vero che nella Striscia scarseggiano le medicine? «Sì, mancano soprattutto quelli per le malattie croniche, che si tratti di anti-diabetici o di anti-ipertensivi. Abbiamo solo quelli che arrivano dall´Egitto attraverso i tunnel», spiega la farmacista Ranya al Daouk. «E´ perciò vitale che i farmaci portati dalle imbarcazioni umanitarie arrivino al più presto, anche se come ho letto da qualche parte sono in parte scaduti e anche se una volta giunti nei nostri ospedali vengono distribuiti non in base al bisogno del paziente ma piuttosto all´identità del malato».
Come i farmaci, anche l´80 per cento dei beni di consumo, dalla farina alle motociclette, entra a Gaza dai tunnel, che seconda una stima della polizia egiziana sarebbero circa 1.600. Secondo Mohammed Hassouna, proprietario dell´omonimo supermercato, questo significa che otto commercianti su dieci sono dediti al contrabbando. «Quanto agli altri sono morti di fame che vivono, o meglio sopravvivono, sia con le tessere alimentari dell´Onu sia di debiti», dice Mohammed. Il quale, per avvalorare la sua tesi, tira fuori da un cassetto un quaderno spesso come un elenco telefonico su cui da quattro anni segna i nomi di tutti i suoi debitori.

l’Unità 7.5.10
Intervista a Saeb Erekat

«La battaglia del mare un boomerang per Israele»
Il capo negoziatore palestinese: «Il mondo ha visto dove può portare l’unilateralismo. Ma non cadremo nella trappola di fermare la trattativa»

di Umberto De Giovannangeli

Avrà vinto la “battaglia del mare” ma ha perso quella della politica. Dopo gli attacchi alle navi della solidarietà, il mondo ha piena consapevolezza di dove può portare l'unilateralismo d'Israele». Incontriamo Saeb Erekat nel suo ufficio a Gerico (Cisgiordania). Il capo negoziatore dell'Anp, primo consigliere politico del presidente Mahmud Abbas (Abu Mazen) ha appena terminato un lungo giro di telefonate con «importanti interlocutori internazionali». «Tutti – dice Erekat a l'Unità – hanno condannato l'atteggiamento israeliano, dichiarandosi disposti a sostenere la richiesta di una fine immediata del blocco a Gaza». Dopo il sanguinoso blitz degli uomini rana israeliani contro la Mara Marmaris, il presidente Abu Mazen parlò di «crimine di guerra» e di «atto di terrorismo di Stato». Affermazioni gravi, che Erekat non rinnega: «Le navi della Freedom Flotilla – rimarca il dirigente palestinese – sono state abbordate in acque internazionali. Israele afferma di non avere nulla da temere. Ma se così è, perché non accetta che sia una commissione d'inchiesta internazionale a fare piena luce su una vicenda che, è bene non dimenticarlo, è costata la vita a nove persone?». La nostra conversazione è interrotta da un assistente di Erekat che comunica una telefonata importante: quella dell'inviato di Obama in Medio Oriente, George Mitchell. Il capo negoziatore del' Anp si assenta per una mezz'ora. Quando rientra appare più sollevato: «La Casa Bianca – ci dice – è consapevole che così non è possibile andare avanti e che prima che avvenga un disastro ancora più grande, è necessario agire per porre fine al blocco di Gaza, e in tempi rapidi».
Come leggere le drammatiche vicende di questi giorni? «Non posso che fare mie le parole della signora Pillay (l'Alto commissario dell'Onu per i Diritti umani, ndr): la legge umanitaria internazionale vieta di affamare un popolo come azione di guerra. Così come è contro il diritto internazionale imporre ai civili punizioni collettive. Hamas non può continuare ad essere l'alibi usato da Israele per giustificare l'ingiustificabile».
Ma questa denuncia non è in contraddizione con la decisione assunta dall' Autorità palestinese di riprendere i negoziati indiretti con Israele? Hamas vi ha attaccati per questo.
«Rinnegare la linea del negoziato è proprio quello che i falchi israeliani vorrebbero che noi facessimo. Ma non cadremo in questa trappola. E tanto meno lo faremo ora che il mondo ha più chiaro dove possa portare l'unilateralismo israeliano. Penso alla posizione assunta dall'Unione Europea, a quella americana, alle parole del Papa, del segretario generale delle Nazioni Unite. La prova di forza contro le navi della solidarietà ha indebolito politicamente Israele anche agli occhi di chi ne aveva sempre sostenuto a spada tratta le ragioni. Negoziare non significa cedere. Significa far valere le nostre ragioni anche in sede diplomatica. Ed è ciò che intendiamo fare. So bene che non è impresa facile e che ogni giorno siamo chiamati a fare i conti con iniziative delle autorità israeliane che contrastano palesemente con l'asserita volontà di dialogo. Penso alla colonizzazione in Cisgiordania e a Gerusalemme Est, penso al blocco di Gaza...Ma, lo ripeto, l'esibizione di potenza di cui ha dato prova Israele non è un segno di forza ma di debolezza».
Debolezza?
«Sì, debolezza. Perché non è attaccando navi pacifiste che Israele garantirà la sua sicurezza. Così alimenterà ancor più la rabbia non solo fra i palestinesi ma nel mondo arabo e musulmano, e nella stessa opinione pubblica europea. Spero che in Israele cresca la consapevolezza di ciò».
In una recente intervista a l'Unità, il leader di Hamas nella Striscia, Ismail Haniyeh, non ha chiuso le porte ad una forza d'interposizione tra la Striscia e Israele.
«È una proposta che l'Anp fa sua. Una forza internazionale sotto egida Onu può accompagnare la fine del blocco a Gaza e garantire la sicurezza di ambedue le parti. Aggiungo che questo meccanismo di verifica potrebbe poi presiedere all'attuazione di altri punti di un accordo di pace. Questo è un punto essenziale, perché le intese non basta firmarle, poi vanno applicate e fatte rispettare. E questo non potrà avvenire senza un impegno sul campo della Comunità internazionale, e in particolare del “Quartetto” (Usa, Onu, Russia, Ue) che ha tracciato un percorso di pace senza però definire tempi e modi della sua attuazione».
Un accordo che ha bisogno di un'”assistenza” internazionale. In particolare degli Usa. Delusi da Barack Obama? «No, non siamo delusi, semmai esigenti. Il presidente Obama crede davvero in un “Nuovo Inizio” in Medio Oriente e in una pace fondata sulla soluzione “due popoli, due Stati”. Per questo è osteggiato dalla destra oltranzista israeliana. A Obama, come all'Europa, chiediamo di dare continuità e maggiore determinazione alla propria iniziativa. Ora più che mai, perché, come dimostrato da quanto accaduto in questi giorni, il tempo non lavora per la pace”.
Si è più forti se si è uniti. Ma in campo palestinese l'unità tra Fatah e Hamas è una metà irraggiungibile? «Sarebbe una sciagura se fosse così. Per quanto ci riguarda, perseguiamo l'unità. Una base già c'è: ed è quella mediata a suo tempo dall'Egitto. Se Hamas l'accetta, il più è fatto».



Repubblica 7.6.10
Bioetica, dopo il caso Eluana ecco il rapporto ministeriale
"Lo stato vegetativo non esclude la coscienza"
di Alberto Custodero

"Anche chi è in stato vegetativo può essere cosciente"
Il rapporto degli esperti ministeriali dopo il caso Eluana. Roccella: ora via alla legge
Questi pazienti percepiscono il dolore: quindi vanno trattati con medicine adeguate
Nella maggior parte delle regioni non ci sono attrezzature per le cerebro-lesioni acquisite

ROMA - «Non si può escludere la presenza di elementi di coscienza» nei pazienti in stato vegetativo. Ma il «livello e la qualità di tali elementi di coscienza variano verosimilmente da paziente a paziente, anche in dipendenza dal contesto ambientale». Contrariamente a quanto finora sostenuto, («lo stato vegetativo è caratterizzato dalla mancata coscienza di sé e dell´ambiente»), è questa la conclusione destinata a fare discutere alla quale è giunto il "gruppo di lavoro sullo stato vegetativo e di minima coscienza" istituito dal ministero della Salute dopo il caso di Eluana Englaro. E presieduto dal sottosegretario Eugenia Rocella. All´indomani della morte di Eluana, Berlusconi - dopo aver espresso la sua contrarietà «all´eutanasia di Stato» - annunciò che «il vuoto normativo sul tema del fine vita» non sarebbe stato più lasciato «all´interpretazione della magistratura» ma sarebbe presto stato «colmato da una legge». Proprio mentre il nuovo testo della norma sul biotestamento è in dirittura d´arrivo alla Camera, il "documento finale" del "gruppo di lavoro Rocella" (insieme al "Libro bianco" redatto dalle Associazioni), arriva a fargli da corollario tecnico-etico-scientifico. E a denunciare una grave lacuna strutturale nel sistema sanitario nazionale: «Nella maggior parte delle regioni - sostengono gli esperti - non sono stati attivati veri percorsi regionali istituzionalizzati per la corretta gestione sanitaria delle gravi cerebrolesioni acquisite». Il trend dei malati in stato vegetativo dal 2002 ad oggi è in continuo aumento, anche se rimane ancora alto (fino al 42,3 per cento), la percentuale delle errate diagnosi. Per il futuro, dunque, si «raccomanda» l´istituzione di un «registro nazionale dei disturbi prolungati di coscienza con segnalazione obbligatoria dei casi».
Ma il punto nodale dello studio è quello che spiega come il medico, la società e l´opinione pubblica devono porsi nei confronti di questi particolari malati «con gli occhi aperti» la cui «sopravvivenza necessita di idratazione e nutrizione assistita». Ma che non sono in «coma alternando il sonno alla veglia».
Quando ci si avvicina ai loro letti per curarli e studiarli, dicono i "saggi" del ministero, «si compie una scelta etica fondata sia sul rispetto della persona, sia sul duplice rifiuto dell´abbandono assistenziale e dell´accanimento terapeutico». Il che, tradotto, significa: «per rispetto della persona» non va sospesa l´alimentazione assistita come avvenuto nel caso di Eluana («rifiuto dell´abbandono assistenziale»). Ma non bisogna ostinarsi in cure e trattamenti sproporzionati («rifiuto dell´accanimento terapeutico»), rispetto all´eventuale concreto risultato in termini di qualità ed aspettativa di vita. A tal proposito, il "gruppo di studio Rocella" è convinto che «il miglioramento dei modelli assistenziali e la ricerca scientifica possano offrire un importante contributo per far crescere l´efficienza in sanità, al fine di garantire maggiori livelli di giustizia per tutti i cittadini fondati su principi di equità e solidarietà all´interno del corpo sociale. E per far avanzare il livello complessivo di civiltà del Paese».
Per gli esperti della commissione ministeriale (Gianluigi Gigli, Antonio Carolei, Paolo Maria Rossini e Rachele Zylberman), infine, questi pazienti caratterizzati dalla «mancanza di coscienza del sé e dell´ambiente», in realtà, percepiscono il dolore. Nel loro stato di «incoscienza a occhi aperti» soffrono, pertanto il "gruppo di lavoro" raccomanda di «estendere la prescrizione di antidolorifici a tutti quelli in stato vegetativo ai quali siano diagnosticate verosimili fonti di dolore come ascessi e piaghe da decubito».

Repubblica 7.6.10
"Bella ciao", un pericolo per l´ordine costituito

Vorrei esprimere qualche riflessione scevra da indignazione o acredine di parte sull´episodio incorso al ministero della Pubblica Istruzione in seguito al canto di "Bella ciao", intonato da ragazzini e ragazzine, età media 12 anni, appartenenti ad un gruppo interclasse ad indirizzo musicale della scuola media inferiore "G. G. Belli" di Roma, invitati a prodursi con orchestrina e relativo accompagnamento corale, a viale Trastevere.
Era presente il sottosegretario Pizza e si è anche affacciata la ministra Gelmini. Al termine alcuni alunni, presto seguiti dagli altri, hanno intonato e suonato "Bella ciao". La canzone, pur non figurando nell´elenco di quel giorno, fa tuttavia parte del repertorio "musicale" del Belli ed era stata eseguita in molte altre occasioni. Si è trattato, comunque, di un fuori programma, difficile da confondere con un bis, in genere concesso altre volte ma con l´innocuo "tanto pe´ cantà". È lecito arguire che quegli adolescenti abbiano voluto in un certo senso mimare una forma di protesta mutuata dai cortei studenteschi, già visti tante volte direttamente o alla televisione. Nella forma e nella sostanza si è trattato di una manifestazione corretta, direi gentile, senza slogan e tanto meno espressioni di aggressività. Ciò detto la preside era nel suo diritto nel fare osservare ai ragazzi che quando si è chiamati a partecipare a una performance istituzionale è d´uopo attenersi al copione concordato, senza abbandonarsi a dissonanze che non sempre si concludono, come invece questa volta, in ordine e in allegria.
Quel che, invece, preoccupa è l´irato risvolto politico, fortemente polemico della lettera della preside a docenti, alunni e famiglie in cui stigmatizza lo «sconcertante episodio» che getterebbe «un´ombra di discredito difficile da dissipare, che ha messo in difficoltà la scuola Belli nel suo complesso», invita i genitori a scusarsi e a far capire che «se è giusto esprimere le proprie convinzioni anche se divergenti, è altrettanto giusto non assumere iniziative che travalicano i limiti dell´opportunità, del rispetto delle persone, della correttezza e del buon gusto». Frasi che si attaglierebbero ad un coro di sconcezze goliardiche e non a una spontanea, innocua disobbidienza adolescenziale. È seguito un fitto scambio di e-mail tra genitori, in grande maggioranza critici nei confronti della lettera. Alcuni hanno ricordato che fino a poco tempo fa "Bella Ciao" era quasi una canzone istituzionale, un canto di partigiani senza colore politico, in cui si possono riconoscere i democratici di ogni colore politico e le Istituzioni nate dalla Resistenza e dalla Costituzione.
Tutto vero, anche se non voglio pensare che la preside nutra sentimenti antidemocratici, ma piuttosto risenta, ed è forse più grave, di un clima generale di misconoscimento e snaturamento della storia d´Italia, con un ricasco polemico che svia il senso degli eventi. Questo può riguardare la Resistenza o, se visto in chiave leghista, il Risorgimento, il Tricolore, l´Unità d´Italia o, infine, per non pochi esponenti del Pdl, la stessa Costituzione. Le conseguenze, soprattutto, sul piano formativo possono essere devastanti. Credo che per evitare le asperità di un libero dibattito, molti insegnanti optino per una specie di agnosticismo che porta a considerare una turbativa della normalità scolastica l´intrusione di certe tematiche, gestibili al massimo nell´alveo dei corsi di studio stabiliti. Una pedagogia riduttiva, senza passione, impossibilitata a formare giovani cittadini. È un fenomeno che riguarda anche il mondo adulto, dove si può dissacrare ogni cosa senza imbarazzo. Mi vien da pensare quando a "Porta a porta", parlando della Resistenza dei militari deportati in Germania che avevano rifiutato di essere liberati a condizione di giurare per Salò, il ministro della Difesa, La Russa, spiegò il loro gesto come un atto di comoda prudenza: meglio nel lager che di nuovo in guerra. Nessuno gli ha ricordato le diecine di migliaia di soldati, tra cui 18 generali, morti in quei «comodi» lager.

Repubblica 7.6.10
Parla la Rahnavard, moglie del leader dell´opposizione Moussavi e cervello della Rivoluzione verde Ahmadinejad la minaccia ma lei non si lascia intimorire: "Torneremo in piazza e conquisteremo la democrazia"
Zahra, l´eroina che sfida il regime "Porteremo la libertà in Iran"
di Francesca Caferri

Da un anno gli iraniani sono sottoposti a varie forme di oppressione, solo perché hanno chiesto che fine avevano fatto i loro voti
Le donne chiedono uno stato di diritto, la scarcerazione dei detenuti politici e l´approvazione di leggi che stabiliscano la parità dei sessi

Foulard a fiori sul chador nero, sorriso forte, sempre a fianco del marito: un anno fa la presenza di Zahra Rahnavard accanto al candidato riformista Mir Hossein Moussavi, fu la prima delle novità delle elezioni presidenziali in Iran. Mai prima di allora una moglie aveva occupato un ruolo di primo piano. Mai prima di allora era apparsa come una consigliera tanto importante. Mai prima di allora un candidato, l´attuale presidente Mahmud Ahmadinejad, aveva attaccato pubblicamente la compagna del rivale, Moussavi appunto. Zahra Rahnavard è passata in mezzo a tutto ciò con una tenacia da combattente: 65 anni, pittrice, scultrice, primo rettore donna di un´università iraniana, sostenitrice della prima ora della rivoluzione khomeinista, da un anno condivide con il marito la sorveglianza costante a cui il governo di Teheran li sottopone. In questi mesi tramite Twitter e Facebook ha continuato a far sentire la voce dei riformisti iraniani. L´autorevole rivista Foreign Policy l´ha nominata terzo intellettuale più influente del mondo - preceduta dal presidente Usa Barack Obama e seguita dall´economista Nouriel Roubini - definendola «il cervello dietro alla Rivoluzione Verde». Per mesi la signora Rahnavard, come suo marito, ha rifiutato di rispondere alle domande dei giornalisti occidentali, per non essere accusata di essere strumento di potenze straniere. Rompe il silenzio, tramite un esule a lei vicino, alla vigilia del 12 giugno, anniversario delle elezioni contestate: data che gli esperti giudicano fondamentale per capire se il Movimento Verde avrà un futuro.
Signora Rahnavard, come avete vissuto lei e suo marito questi 12 mesi?
«Da un anno gli iraniani sono sottoposti a varie forme di oppressione, solo perché hanno chiesto che fine avevano fatto i loro voti. Le autorità avrebbero potuto rispondere in modo legale: hanno scelto invece di arrestare e sparare. In questa situazione io, mio marito, Karroubi (l´altro candidato riformista ndr.), Khatami (ex presidente, anch´egli riformista ndr.) e le nostre famiglie siamo stati fatti bersaglio di accuse, abbiamo subito choc (il fratello di Rahnavard è stato arrestato e tenuto in isolamento per sei mesi ndr.) e siamo stati fisicamente percossi. Questo tuttavia non ci ha spaventato: nella mia vita non ho mai avuto paura di nessuna persona o nessun regime. Anche Moussavi, rispetto al passato, parla e agisce con più coraggio: non rinuncerà mai ai suoi ideali. Lo stesso vale per il popolo iraniano: oggi non chiede solo dov´è finito il suo voto, ma libertà, democrazia, stato di diritto. Queste richieste vanno molto oltre le iniziali proteste».
Un anno fa, in questi giorni, eravate quasi certi della vittoria: che sentimento prova oggi guardando indietro?
«Rammarico. L´obiettivo del Movimento Verde è il benessere della gente, mentre l´attuale regime ogni giorno causa più miseria e minaccia le libertà basilari. Le elezioni sono state una grande occasione negata al popolo iraniano e non è possibile tornare indietro: l´attuale regime vuole rovesciare la Repubblica Islamica e fondamenti su cui è costruita. Né io, né Moussavi, né Karroubi vogliamo questo: dunque non ci può essere dialogo. Assistiamo a processi che si tengono in modo da portare alla pena capitale: assistiamo ad esecuzioni politiche, che non hanno giustificazione legale né giuridica. Torneremo in piazza nei giorni dell´anniversario e la presenza di milioni di manifestanti sarà il preannuncio della vittoria».
Il Movimento Verde è accusato di essere strumento delle potenze occidentali …
«Il Movimento Verde è assolutamente nazionale, iraniano, popolare e interno. Non è legato e non trae ispirazione da nessuno fuori dall´Iran. Quello che la comunità internazionale può fare per noi è sostenere il desiderio di libertà in qualunque parte del mondo. Ma è il popolo iraniano che deve risolvere i suoi problemi».
Quanto pesa la questione nucleare nelle relazioni fra l´Iran e il mondo?
«Il regime sfrutta questa questione. Tramite la minaccia nucleare cerca di acquistare all´estero la legittimità che non ha in patria: lo fa scandendo slogan durissimi, ma poi trattando e concedendo privilegi ad altri governi. Ma non può farlo, perché non è legittimo: fino a quando un governo non agisce in sintonia con il proprio popolo, non avrà la reputazione da nessuna parte del mondo».
Lei e suo marito vivete sotto costante minaccia: avete mai pensato di lasciare il paese?
«No. Il nostro destino, ora più che mai, è legato a quello del popolo iraniano».
In questi mesi la figura di suo marito è cambiata molto: si era presentato alle elezioni come un "tecnico" di tendenze riformiste. Oggi è il leader carismatico di quella parte di Iran che vuole che tutto cambi…
«Durante la campagna elettorale io, Moussavi e il popolo iraniano avevamo delle aspettative: volevamo il miglioramento della situazione nel nostro Paese. Chiedevamo il rispetto dei diritti individuali, la non interferenza del governo nella vita personale, la libertà, la democrazia, lo stato di diritto. Con quello che è successo dopo, le proteste e le azioni della gente e le nostre si sono influenzate e rafforzate reciprocamente. Oggi il popolo è più avanti di noi e ci sta trascinando verso i suoi obiettivi».
Lei è stata il simbolo che ha spinto migliaia di donne a votare per suo marito: le stesse che poi abbiamo visto in piazza. Che ruolo hanno le donne nell´Onda Verde?
«L´attuale regime iraniano, nell´ultimo anno, ha oppresso le donne in molti modi: ha cominciato con me, tentando di ridicolizzare la mia reputazione in campo scientifico e artistico. Poi lo ha fatto con tutte quelle che hanno protestato: ma questa oppressione non le ha scoraggiate. Le donne iraniane chiedono due cose: libertà, democrazia, stato di diritto, scarcerazione di tutti i detenuti politici. E l´approvazione di leggi che stabiliscano la parità tra i sessi. Senza una risposta positiva alle loro richieste la democrazia non potrà essere mai raggiunta».
Zahra Rahnavard, se dovesse fare una previsione oggi sul futuro del suo paese cosa direbbe?
«Vincerà il popolo, raggiungerà i suoi obiettivi. Accadrà grazie alla costanza e alla resistenza della gente. Alla fine trionfa sempre la giustizia, anche se richiede molto tempo. Nel mondo moderno non c´è posto per la dittatura e l´autocrazia. Il mondo dei media, di Internet, del digitale, delle opinioni e dei pensieri richiede democrazia, libertà nazionale e libertà individuale. L´Iran fa parte di questo mondo».
(ha collaborato Mostafa Khosravi)

l’Unità 7.5.10
Conversando con Simonetta Agnello Hornby

«Da Lewis Carroll a Jackson ecco i seduttori di bambini che la società non vuol vedere»

di Maria Serena Palieri

È un’indagine sull’autore di «Alice». E sulla società che gli regalò vittime e perdonò le sue malefatte
La pedofilia con internet oggi è in crescita, è diventata multinazionale Perciò è difficile batterla

Evelyn Hatch è una versione in chiave fotografica della Maya desnuda di Goya: distesa con le braccia a cingerle la testa, e a metterle in risalto il petto, una gamba morbidamente reclinata sull’altra. Evelyn Hatch però aveva 8 anni quando, negli ambienti del college Christ Church di Oxford, il 29 luglio 1879, la ritrasse il diacono Charles Lutwidge Dodgson, già famoso da un quattordicennio come Lewis Carroll per Alice nel paese delle meraviglie e Dietro lo specchio. Pedofilia? Ma in età vittoriana, sostengono i difensori di Dodgson, l’infanzia femminile senza veli era, non solo per lui, simbolo d’innocenza. Guardiamo allora Irene MacDonald, fotografata dallo stesso nel 1863 all’età di 6 anni: è vestita, calzette bianche e scarpe col cinturino, ma è riversa su un canapé d’epoca, con uno scialle da cui sbuca una spalla nuda, come chi esce dal sonno, o meglio da un amplesso, e ha uno sguardo per l’enigmatica sofferenza che manifesta impossibile da sostenere. Camera oscura, il volumetto che riporta queste due foto (Skira, pp. 127, euro 15), è il testo a metà tra documento e finzione in cui Simonetta Agnello Hornby si cimenta col mistero del celebrato padre del libro più citato della letteratura in lingua inglese, dopo le opere di Shakespeare. Non è la prima a farlo. Prima che l’archivio del reverendo Dodgson, secretato dagli eredi per 74 anni, diventasse pubblico, nel 1969, a esso aveva attinto un nipote, Stuart Dodgson Collinwood, per un’agiografia. Furono molte, a funerale svolto, le ex-«bambine-amiche» che scrissero testimonianze apologetiche. È del 1999, poi, un’opera ancora «riabilitante» di Karoline Leach, sempre in questo 2010 tradotta in italiano da Castelvecchi, La vera storia del papà di Alice. Simonetta Agnello Hornby non la pensa così. E lei è, oltre che l’autrice di una trilogia romanzesca siciliana edita da Feltrinelli, un’avvocata e giudice da un quarantennio a Londra impegnata nel terreno dell’abuso dei minori. Il suo ultimo romanzo, Vento scomposto, si ispirava appunto a uno dei casi da lei trattati nella sua carriera. Perciò Camera oscura è un libro in cui, con la bella penna della romanziera, è una specialista a indagare sul caso Carroll: nella prima parte la scrittrice immagina la storia di Ruth Matthews (nella realtà Mayhew), una delle bambine «kissable», «baciabili», secondo il requisito che l’autore di Alice imponeva alle famiglie; nell’intermezzo svolge le sue considerazioni; e in appendice, dopo le foto, riporta le lettere che Dodgson scrisse a un certo punto ai Mayhew. Ed è un libro, Camera oscura, che esplorando il terreno scivoloso su cui in età vittoriana si muoveva il reverendo Dodgson, sottotraccia interroga il fenomeno della pedofilia nel mondo d’oggi.
Com’è nato questo testo?
«Su commissione. E di questo ringrazio l’editor, Eileen Romano. Ma ad affascinarmi, nel suo orrore, è stato il carteggio che mi hanno fatto avere che il reverendo Dodgson tenne con i Mayhew. Mancano le lettere loro,come quelle di Ruth, così come non c’è traccia delle fotografie fatte a lei e alle sue sorelle. Però Dodgson dai 30 anni in poi teneva un riassunto di tutte le lettere che riceveva e conservava una copia delle sue. Di queste, ne aveva 98.000. Dunque, un vanesio. Quello che impressiona, leggendo, è la sua arroganza. Dodgson era un arrampicatore. A 24 anni comprò la macchina fotografica, all’epoca status symbol, e fu così che riuscì a entrare nella cerchia di Tennyson». Eccoci già oltre l’immagine che l’opinione pubblica inglese predilige di lui, il religioso timido e rimasto candidamente bambino, romanticamente innamorato della piccola Alice Liddell, ispiratrice del suo capolavoro. In questi mesi, immagino, lei si sarà chiesta: se me lo fossi trovata davanti in tribunale, come l’avrei giudicato? Che risposta si è data?
«Avrei chiesto investigazioni più approfondite. Non ho dubbi che, dagli incontri con le sue “amiche-bambine”, traesse un piacere sessuale. Le baciava sul lobo dell’orecchio. Io credo che si eccitasse, ma che rispettasse un limite con le figlie dei suoi amici, non le penetrasse. Però c’è quel mistero della gran quantità di denaro donata a un uomo che aveva delle figlie. E ci sono le modelle che, dal 1880, abbandonata la fotografia, gli procura per le sue tele Gertrude Thompson. Da avvocato qui avrei scavato. E perché non fece mai ritratti delle sue nipoti, né le invitò mai a stare a casa sua? Perché il suo archivio fu secretato fino al 1969, quando fu venduto alla British Library, e fratello e nipoti ne distrussero l’80%? Di nudi, ne rimangono quattro, ma quanti erano in realtà? Io, Lewis Carroll, lo chiamo un porco. Più di un pedofilo...».
Più di un pedofilo?
«Il pedofilo è convinto che ai bambini piaccia. Perciò non si cura mai. Il reverendo Dodgson aveva una sessualità estesa, frequentava teatri e attrici, donne adulte, ragazze, bambine. Sapeva quello che faceva».
Smontare l’immagine di Lewis Carroll, in Inghilterra, è l’equivalente di farlo da noi con Collodi. Ma la sua indagine è anche un atto d’accusa alla società vittoriana. Quei genitori conniventi... Oggi potrebbe succedere? «Il vittorianesimo, più lo conosco più lo detesto. C’era una prostituzione infantile violenta e organizzata. Il direttore della Pall Mall Gazette fece un’inchiesta fingendosi un cliente e gli portarono una bambina cloroformizzata. Lo stesso Dodgson reagì scrivendo al ministro, Lord Salisbury, che il reportage “contaminava le menti”... Però spostiamola all’oggi, immaginiamo che un famoso presentatore dica “Datemi vostra figlia, la metto in un programma di successo. Purché sia baciabile”. In quanti non gliela darebbero? I bambini che dormivano nel letto con Michael Jackson, non erano i genitori a darglieli? Ma l’opinione pubblica non vede».
Qual è il messaggio che ha voluto lanciare col suo libro? «Ho voluto mostrare l’abuso sul minore nella sua complessità. Non è solo quello fisico. Perciò ho immaginato che Ruth Mayhew si fosse innamorata del reverendo e avesse sofferto da bambina per il distacco. Il pedofilo seduce insegnando... Ed è la vittima a sentirsi in colpa. E quando l’abuso è in famiglia, e il genitore viene allontanato, è di nuovo la vittima a sentirsi colpevole».
Il fenomeno pedofilia è in crescita?
«Con internet si è strutturato su scala multinazionale e i governi faticano a combatterlo. È in crescita straordinaria perché è più facile praticarlo. Ma c’è un altro risvolto da sottolineare: la moda per bambine le vuole vamp a tre anni. E questo, nei pedofili, acuisce il desiderio. Inoltre è prassi, in Inghilterra come in Italia, radunare i pedofili in carcere nello stesso braccio per sottrarli al “castigo” degli altri reclusi. E così, quando escono, sono più esperti e organizzati».
A settembre per Feltrinelli uscirà il suo nuovo romanzo, «La monaca». Torna nella natìa Sicilia? «Sì. È la storia di una ragazza dell’800 costretta a farsi suora. Ma che nel 1848 si spoglia ed esce. Non è come la Gertrude di Manzoni, lei ama Dio, ma la vita l’attira troppo».
Ha lasciato il lavoro di giudice. Sta per lasciare quello di avvocato. Vede un futuro da scrittrice pura? «No, non è giusto. Sono sociale, mi piace fare. E ho sempre lavorato in un campo, quello della povera gente».