giovedì 10 giugno 2010

l’Unità 10.6.10
Nuove ragioni per resistere
di Concita De Gregorio

Siccome diamo per scontato che il premier e i suoi consiglieri conoscano le date fondamentali della nostra storia (e diamo anche per scontato che il premier sia nel pieno possesso delle sue facoltà mentali), siamo obbligati a considerare non casuale la coincidenza tra il forsennato attacco alla Costituzione della Repubblica e il 70 ̊ anniversario della mussoliniana dichiarazione di guerra.
Anniversario a parte, le analogie sono tante. L’assoluta mancanza di rispetto per la Storia, la faciloneria nel liquidarne l’insegnamento. Il fastidio per le regole e l’illusione che un’ idea dissennata diventi sensata solo perché sostenuta da una maggioranza urlante. Il disprezzo per le giovani generazioni e per la loro formazione.
Grazie alla nostra Costituzione, che la guerra ripudia, non si possono più mandare i giovani al macello. Ma si possono distruggere le basi della loro formazione civile dileggiando la carta fondamentale. Che, come Silvio Berlusconi dovrebbe sapere, fu scritta facendo tesoro di quanto era accaduto dopo quel 10 giugno del 1940, perché non si ripetesse mai più.
Conosciamo troppo bene la dinamica servile che s’innesca in queste circostanze. Ci sarà chi dirà che il discorso di ieri del premier è stato “frainteso”. Ci sarà qualcuno dei suoi lautamente stipendiati intepreti autentici che irriderà il nostro disgusto. Lo sappiamo bene. Ma è un motivo in più per andare avanti. Togliere significato alle parole o, peggio, con-
ferire al leader una speciale immunità semantica (in aggiunta a quella giudiziaria) è un altro modo per fiaccare e avvilire una democrazia. Perché la democrazia si fonda sul confronto delle idee e sul rispetto. Altra categoria che il nostro premier ignora come dimostra l’incredibile notizia emersa ieri: fin dal 25 maggio il consiglio dei ministri aveva deciso di porre la fiducia sulla legge-bavaglio. È ora chiaro con qualche convinzione la maggioranza abbia in queste settimane dialogato con le opposizioni.
Ieri abbiamo dato notizia del boom di iscrizioni di giovanissimi all’Associazione nazionale partigiani. Prendono tutti la tessera da antifascista. L'aggettivo che il nostro premier non ha mai voluto pronunciare, ed è sempre più chiaro perché. Ecco un modo per rispondere e per cominciare a costruire un paese migliore. Con pacatezza, lucidità e coraggio cominciamo a pensarci tutti come moderni partigiani. La Resistenza non sia solo memoria del passato ma esercizio nel presente.

l’Unità 10.6.10
La Costituzione
Architrave della democrazia
di Marcella Ciarnelli

L'originale della Carta è custodito nell'archivio di Palazzo Sant'Andrea, di fronte al Quirinale, che quell'archivio ha voluto. A pochi passi c'è la sede della Consulta. Rassicura che i massimi garanti della Costituzione pur con funzioni diverse, l'abbiano così vicina, quasi ad accudirla. A difenderne la concezione e il testo che scaturì dal dibattito e il confronto di forze diverse. L'origine e il futuro. Le radici e la prospettiva. Con una capacità di accoglimento delle istanze e allo stesso tempo di anticipazione che ancora lascia sorpresi davanti all'incapacità di dialogo e di confronto che sembra caratterizzare l'attuale epoca politica nonostante sia evidente che per superare la crisi, lo ha ribadito ancora ieri il presidente Napolitano, sia più che mai necessaria “una comune progettualità sorretta da una coerente visione dell'interesse generale”. E, innanzitutto delle giovani generazioni. Un attacco non nuovo quello del premier. Già nel 2003, giusto per citare un episodio, si esibì, sempre davanti ad una platea di imprenditori, in una show smodato come quello di ieri sull'articolo 41. A quello per tutti gli altri che a suo parere lo imprigionano e lo condizionano. Ad un testo tutto che a seconda dei giorni definisce “cattocomunista” ma anche di “ispirazione sovietica”. Quindi “un inferno” per lui che per le regole non ha alcun rispetto. Ma altri vigilano. Parlano per il Capo dello Stato e per tutti i garanti della Carta le parole dette in tante occasione. In particolare nel sessantesimo. “La nostra come ogni altra Costituzione democratica è legge fondamentale, architrave dell'ordinamento giuridico e dell'assetto istituzionale. E in quanto tale essa va applicata e rispettata”. Il punto fermo è di Giorgio Napolitano nell'intervento alla Biennale della democrazia, Torino, aprile 2009.

l’Unità 10.6.10
Un problema europeo
Jean-Froncois Juillard Segretario Generale Reporters sans Frontières

I senatori italiani sono oggi l’ultimo baluardo democratico contro il progetto di legge sul divieto di pubblicazione delle intercettazioni telefoniche o delle informazioni relative a indagini in corso. Il testo prevede sanzioni penali ed economiche, multe che possono raggiungere più di 450mila euro per gli editori di giornali o per media audiovisivi che dovessero diffondere documenti o registrazioni audio e video realizzati nel corso di una indagine giudiziaria.
Se il testo fosse ratificato oggi, i senatori impedirebbero de facto qualunque indagine giornalistica nel campo giudiziario. Prigioni o multe sproporzionate, le pene in cui possono incorrere i contravventori rappresentano in effetti una vera censura, un ostacolo economico e penale inammissibile alla libertà di informare su uno degli aspetti principali di una società democratica.
Nessuno mette in discussione il principio dell’indipendenza dei magistrati italiani, unici titolari del compito di pronunciarsi sui dossier giudiziari. Ma la storia ci ha dimostrato che la stampa ha spesso, e molto largamente, contribuito con le sue inchieste a far progredire dei casi, se non addirittura impedito che essi cadessero nell’oblio o nell’impunità. E se è vero ed evidente che l’Italia non può essere ridotta ai suoi problemi di corruzione o alle attività mafiose, è anche certo che questi temi non possono essere “legalmente” seppelliti da un testo che legittima
il blackout mediatico. I giornalisti italiani possono sin da ora contare sulla solidarietà di Reporters sans frontières per pubblicare simbolicamente sul nostro sito i dati che dovessero cadere sotto il colpo di questa censura.
Una decina di giornalisti italiani vivono sempre sotto protezione della polizia per aver indagato su questi temi giudiziari e per averli pubblicamente denunciati. Questo unico fatto avrebbe dovuto convincere da molto tempo i parlamentari ad abbandonare questo progetto. Non mescoliamo d’altra parte i ruoli. I giornalisti non sono responsabili né del contenuto di queste intercettazioni né degli scandali che esse permettono di mettere in evidenza. La loro pubblicazione in extenso nei media non costituisce diffamazione ma è di interesse pubblico e costituisce, d’altra parte, uno dei principali vettori che permettono di rinforzare le indagini pubblicate. Allo stato, il progetto di legge metterebbe i giornalisti in una posizione schizofrenica, stretti tra l’esigenza di fornire la documentazione indispensabile per chiarire ciò che scrivono e la proibizione legale di fornirle ai propri lettori.
Noi facciamo appello a ogni senatore perchè non si renda complice di una legge liberticida e totalmente incompatibile con gli standard democratici europei che le assemblee parlamentari devono incarnare e garantire. La posta in gioco di questa legge supera d’altra parte l’ambito nazionale.
Se l’Italia, membro fondatore dell’Unione europea, dovesse approvare questo testo di legge, il segnale inviato ai paesi extra europei sarebbe catastrofico e incoraggerebbe un buon numero di dittature a “ispirarsi” opportunamente a questo testo per limitare la capacità investigativa della stampa locale. Secondaria agli occhi di alcuni, questa dimensione del problema non può, non deve, essere trascurata.
(traduzione di Marina Fortuna)

Repubblica 10.6.10
La sovranità privata
di Carlo Galli

«Fare leggi rispettando questa Costituzione è un inferno». Certamente, alle molte e anche contrastanti definizioni di "Costituzione" mancava ancora questa: ma c´è da sperare che d´ora in poi i manuali di diritto costituzionale tengano conto anche della Costituzione come inferno, ultima delle esternazioni di Berlusconi in questi giorni.
D´accordo. Si tratta del solito espediente grazie al quale una sostanziale vittoria (il provvedimento sulle intercettazioni) viene fatta passare, in perfetto stile democristiano, per un compromesso di cui non si è soddisfatti: a ciò Berlusconi è spinto anche dal timore di esser poi travolto nella sconfitta nel caso che dal Quirinale venga uno stop alla legge. La prova di forza della "blindatura" – e a maggior ragione il pugno sul tavolo del voto di fiducia – è venata da debolezza, come ha scritto ieri Ezio Mauro. Al tempo stesso si tratta di una mossa diversiva, per aprire una polemica che distolga l´opinione pubblica sia dalla legge-bavaglio sia dalla manovra economica, due provvedimenti fortemente impopolari. E per incolpare qualcuno o qualcosa – la Costituzione, chi l´ha voluta in passato, chi la difende ora – come responsabile delle debolezze e delle contraddizioni dell´azione di governo, che vanno imputate invece alle divisioni nella maggioranza e all´uso distorto delle istituzioni, che non sono state pensate per essere utilizzate come ora avviene.
Il discorso pubblico che proviene da Berlusconi – esplicitamente post-costituzionale, e ormai anti-costituzionale – è infatti consapevolmente centrato sul trasferimento nel campo politico delle logiche imprenditoriali del "comando efficace", libero da ogni contropotere costituito, anche da quello delle norme e delle procedure. La funzione pubblica è quindi concepita come qualcosa di discrezionale, che dipende dalla volontà del Capo: non a caso egli afferma che la Protezione Civile dovrebbe astenersi dal suo dovere, in Abruzzo; e che la Rai non dovrebbe vedersi rinnovare il contratto di concessione, se non si piega ai suoi voleri.
Questo prevalere del Privato sul Pubblico viene definito da Berlusconi "sovranità": quel Privato ha infatti vinto le elezioni, e ha quindi ricevuto un presunto mandato dal popolo sovrano a governare senza limiti né controlli. A questa aberrante conclusione egli giunge poiché concepisce la sovranità come la titolarità e l´esercizio di una volontà monolitica e irresistibile (in un certo senso, come facevano i giacobini, che concentravano nelle loro mani la sovranità del popolo). È questo modo di pensare che gli fa dire che i pm e la Corte Costituzionale, esercitando le loro funzioni giurisdizionali, attentano alla sovranità; che cioè lo colloca al di fuori della dimensione costituzionalistica che la nostra democrazia si è consapevolmente data nel secondo dopoguerra. Infatti, la nostra Costituzione (non senza suscitare a suo tempo qualche perplessità, anche a sinistra) ha impiantato sul corpo della sovranità popolare l´elemento – che proviene dalla civiltà politica e giuridica del costituzionalismo inglese e americano – del controllo di legalità, da parte della magistratura, sulle azioni dei membri del ceto politico in generale, e del controllo di legittimità, a opera della Corte Costituzionale, sugli atti del Legislativo (e sui decreti dell´Esecutivo). Nessuno, nemmeno la sovranità popolare, è onnipotente: la politica si manifesta attraverso il diritto che limita, con la legge, ogni potere; e garantisce così i diritti di tutti.
Se Berlusconi afferma che agire secondo la Costituzione è un inferno, evidentemente pensa che il paradiso sia il potere senza limiti: il potere privato di un padrone (in greco, despòtes), reso onnipotente dall´investitura popolare. Insomma, la sua idea di sovranità è privata e al tempo stesso assoluta: è, tecnicamente, un´autocrazia plebiscitaria. La quale oggi si manifesta con chiarezza programmatica, ma forse anche epigrammatica: come annuncio di linee d´azione "riformistiche" per l´avvenire (secondo le parole di commento di Bossi, e secondo le proposte recentissime di Tremonti sull´articolo 41), ma anche come commento conclusivo di un ciclo politico, reso "infernale" proprio dalla sopravvivenza ostinata della Costituzione.
In ogni caso, questo "discorso" – che, certamente, cela la concreta finalità di coprire specifiche persone rispetto a specifiche responsabilità in specifiche inchieste giudiziarie: una finalità parziale alla quale si sacrificano beni collettivi come l´efficacia delle indagini e la libertà dei cittadini – fa passare come ovvia la tesi che la politica consista in un comando senza controlli, purché efficace. Ed è questa tesi a distaccare gli italiani dalle radici del loro passato democratico e costituzionale (recente, ma anche ormai remoto: o almeno così pare), e a generare, proprio col suo apparente tono iperpolitico, uno specifico atteggiamento antipolitico, cioè quell´analfabetismo civile che afferma qualunquisticamente che solo i fatti contano, e che le regole sono soltanto pastoie che frenano l´agire dei governanti. Una tesi, quella espressa da Berlusconi, che ha almeno il merito della chiarezza; e che individua un fronte di conflitto politico dal quale sarà difficile sottrarsi, anche per chi lo volesse: il fronte che vede da una parte chi lotta apertamente contro la forma e la sostanza della Costituzione, e dall´altra chi la difende, consapevole che in questa difesa – si spera non rassegnata, né di maniera – consiste ormai la sostanza della nostra democrazia.

l’Unità 10.6.10
Se anche la sinistra mette i vecchi contro i giovani
Gira in Italia un pericoloso luogo comune che contrappone i figli ai padri: una trovata demagogica che non affronta né risolve i problemi. Come dimostra la questione dei “fuori ruolo” nelle Università
di Michele Ciliberto

Il vero problema
La questione generazionale esiste ma è in primo luogo una questione economica e sociale che attiene ai nuovi rapporti tra capitale e lavoro: un’analisi che oggi è del tutto assente

Come ci ha spiegato a suo tempo Flaubert il mondo è retto dai “luoghi comuni”, i quali nascono dalla realtà concreta, di cui sono, al tempo stesso, una interpretazione. Oggi, uno dei “luoghi comuni” più diffusi è costituito dai “giovani”. Ne parlano i giornali, le televisioni, esponenti del governo e dell’opposizione: tutti lamentano la situazione disgraziata in cui si trovano i “giovani” e sottolineano la necessità di prendere provvedimenti adeguati, e urgenti, per cercare di rimediare a questa situazione. È una “notte” in cui si celano populismo e demagogia, i quali servono a tutto, fuorché a porre in modi concreti e realistici il problema.
I “giovani”: intanto, quali giovani? Di chi stiamo parlando quando parliamo dei giovani? Certo, esiste una dimensione generazionale, quella serie complessa di elementi che fanno di una “generazione” una “generazione”. Ma nel suo ambito è necessario fare le indispensabili distinzioni: in Italia, i “giovani” del nord e quelli del sud; quelli provenienti da famiglie agiate e quelli che nascono in famiglie povere; i figli dei “nativi” e quelli degli “immigrati”: tutte differenze che dovrebbero essere elementari e che, invece, vengono dissolte in una melassa che serve solo a mantenere intatti gli equilibri dati e i privilegi attuali.
La specificità della “questione generazionale” non può, e non deve, essere cancellata; ma è sempre, e in primo luogo, una questione di carattere economico, una questione sociale. Senza interrogarsi sui problemi, e le forme, oggi del dominio sociale, sulle modalità che ha oggi assunto il rapporto tra “capitale” e “lavoro” e uso provocatoriamente una coppia tipicamente marxiana non si intendono i modi nuovi in cui si pone oggi la “questione generazionale”, le ragioni per le quali una intera “generazione” sta decadendo, con costi inauditi sia sul piano sociale che su quello personale, individuale, esistenziale.
Sarebbe il momento di avviare una seria analisi dei motivi strutturali che stanno alla base di questa crisi così acuta. Invece alle analisi concrete si sostituiscono i lamenti demagogici e alla critica di ordine sociale si sovrappone, artificiosamente, un conflitto di ordine generazionale. Piuttosto che individuare le ragioni reali di questa situazione si spingono i “giovani” contro i “vecchi”, secondo un modulo tipico delle ideologie conservatrici e reazionarie: come se “vecchi” e “giovani” fossero due categorie politiche ed economiche in grado di farci comprendere, affrontare e superare la “crisi” attuale.
Colpisce ad esempio – soprattutto per la parte politica da cui proviene il documento sulla Università approvato dall’ultima Assemblea del Partito Democratico; colpisce anzitutto per il linguaggio volutamente utilizzato, incentrato sull’apologia della “discontinuità”, della “innovazione”, della “rivoluzione”; un lessico, verrebbe da dire, di tipo futurista e , come tale, velleitario, inconcludente. La “rivoluzione” è una cosa seria, basata su analisi concrete, specifiche, documentate. Niente di tutto questo nel documento approvato quasi all’unanimità dall’Assemblea: serie, ma ovvie parole sull’autonomia dell’Università, sulla necessità di un saldo rapporto tra Stato e Regioni, sull’aumento dell’efficienza e delle risorse, sulla istituzione dell’Agenzia per la ricerca e l’innovazione, su una programmazione strategica per definire il futuro dell’Università, sulla valorizzazione del dottorato di ricerca... Intendiamoci: alcune proposte sono nuove (la tenure track); ma il clou del Documento è nello “shock generazionale” (così è scritto): cioè nel mandare forzosamente in pensione tutti i professori ora in servizio a 65 anni – cioè i “vecchi” per fare spazio ai “giovani” .
Forse è una proposta fatta per colpire e fare parlare del Pd e della sua “politica”: non per nulla il quindicinale CampusPro ha avviato un mini sondaggio per vedere il consenso che essa riscuote nell’Università, trasformandolo se favorevole in un’arma per licenziare i professori universitari troppo “vecchi”: una nuova forma della democrazia plebiscitaria oggi di moda in Italia.
Non è questa la strada da seguire: su queste colonne ho preso posizione contro il “fuori ruolo” dei professori che è stato opportunamente eliminato; nè ho alcun complesso di Erode. Anzi. Vorrei però ricordare che, come diceva Labriola, è la “tradizione” che ci tiene nella storia, e che questo vale anche e soprattutto per l’ Università. Con gli shock generazionali si va poco lontano, mentre si può facilmente precipitare nella barbarie. Con una perdita secca per tutti: tanto i “vecchi” quanto i “giovani”.

l’Unità 10.6.10
Intervista a Zeev Sternhell
«Sono pessimista sulla pace. Netanyahu non la vuole»
Lo storico israeliano: «Non c’è alcuna possibilità che il governo controllato dalla destra e dai coloni faccia progressi. Occorre il pressing di Usa e Ue»
di Umberto De Giovannangeli

L’ultima volta che l'avevamo incontrato nella sua casa a Gerusalemme, era pochi giorni dopo un evento che aveva scioccato Israele: una bomba piazzata all'ingresso della sua abitazione. Un attentato compiuto da chi non perdona a Zeev Sternhell le sue posizioni contro la deriva oltranzista della destra israeliana e la colonizzazione dei Territori palestinesi. «Come vede – dice sorridendo prendendo posto nel suo studio-biblioteca – non sono riusciti a zittirmi».
Fuori dal portone d'ingresso staziona una macchina della polizia: il segno tangibile di una ferita – di un pericolonon rimarginata. Sternhell guarda con preoccupazione al presente e non si fa illusioni sull'immediato futuro: «Non c'è alcuna possibilità – osserva che l'attuale governo israeliano, controllato dalla destra e fortemente influenzato dai coloni, compia un qualsiasi serio progresso».
Professor Sternhell, come esce Israele dalle vicende degli ultimi giorni? Questa crisi sembra lasciare un segno profondo sia politico che diplomatico ...
«Mi scusi, non vorrei né essere rude e ne sviare la domanda, ma continuare ad occuparsi della Freedom Flotilla o di qualunque altro evento – per grave che sia – significa continuare a fare il gioco di chi i problemi del conflitto israelo palestinese, in realtà, non li vuole risolvere. Si cura il sintomo e non l'origine del male, si spegne la fiamma facendo finta di non accorgersi del focolaio dell'incendio che è proprio qui, davanti a noi. Finché non verrà rimosso il vero problema – con la fine dell' occupazione e la restituzione dei Territori – non c'è alcuna possibilità che il conflitto giunga a termine. Invece, in tutti questi anni, si è deciso di puntare i riflettori su questo o l'altro evento facendo di tutto per non occuparsi del nucleo della questione. E in questo lungo lasso di tempo – oltre 40 anni – le cose non sono rimaste statiche. Quello che anni fa era realistico, oggi non lo è più. Per interi quartieri e piccole città che oggi sono una realtà, si dovrà pensare a soluzioni alternative, molto più complicate e dolorose anche se non impossibili. C'è veramente qualcuno che pensa che insediamenti trasformati in città come Maale Adumim, Ariel, Efrat, Ofra, Kiriat Arba possano essere evacuate delle centinaia di migliaia di loro abitanti? Oppure di abbattere e restituire quartieri di Gerusalemme come Ghilo, Pisgat Zeev, Har Homa? No, è chiaro che si dovrà procedere a scambi di territori. Ma dove sono oggi i leader – dalle due parti – in grado di prendere queste decisioni difficili e dolorose? E dove sono soprattutto i popoli, che dovrebbero spingere e spalleggiare i propri capi nel procedere sulla strada della pace? Personalmente, da parte israeliana, non identifico né la possibilità né la volontà di avviarsi su questa strada. La settimana scorsa c'è stata una "flottiglia della pace" la prossima settimana ne arriveranno forse altre o ci saranno altri eventi che occuperanno i media. Ideale per chi non vuole confrontarsi veramente con il problema e risolverlo». Comunque, è stato deciso, nonostante tutto, di non bloccare il processo di pace ...
«Si, ma non c'è alcuna possibilità che l'attuale governo israeliano, controllato dalla destra e fortemente influenzato dai coloni, compia un qualsiasi serio progresso. Per avere una pur remota possibilità di successo dei negoziati la spinta deve venire da fuori. Il modello dei colloqui diretti senza intermediari, oggi, fra israeliani e palestinesi, è inapplicabile, non può assolutamente funzionare. È per questo che il ministro degli Esteri, Avigdor Lieberman, li reclama così tanto; sa bene che è il modo più certo per perpetuare l'occupazione e dare ancora tempo all'ampliamento degli insediamenti nei Territori occupati. Invece, ciò che dovrebbe essere fatto è organizzare un massiccio coinvolgimento americano e europeo in cui vengano esercitate tutte le possibili pressioni sulle parti. Magari facendo una distinzione netta fra il sostegno a Israele come Stato legittimo e il sostegno al governo d'Israele, che non è cosa ovvia e vincolante per nessuno – neppure per il mondo ebraico. Questo triangolo – Usa, Europa e mondo ebraico, deve sostenere il diritto irrinunciabile all'esistenza d'Israele, ma deve al contempo spingerla e costringerla a fare tutto il necessario e il possibile per giungere ad una soluzione del conflitto».
E sul piano interno, c'è una possibilità che la crisi faccia da scossone? «E in che modo potrebbe farlo? Con il governo di coalizione di oggi, controllato dalla destra e in cui i laburisti fungono da foglia di fico? Forse potrebbe succedere qualcosa se ci fosse un governo di unità nazionale centro sinistra moderata e destra moderata – vale a dire Laburisti, Kadima e la parte moderata del Likud. Un governo che dovrebbe formarsi sulla base di una piattaforma che stabilisca come suo scopo di vita la soluzione del conflitto. Ma anche qui non sono sicuro che la lotta più cruenta non avverrà per le poltrone ministeriali».
Professor Sternhell, in un suo libro di successo, Lei ha rivisitato criticamente i “miti” che hanno caratterizzato la nascita d'Israele, soffermandosi sul sionismo. Un mito infranto dalla realtà? «Non sarei così drastico. Guardi, pur tenendo conto di tutte le ingiustizie inflitte agli arabi-palestinesi il sionismo salvò più di mezzo milione di ebrei che, se non avessero abbandonato l' Europa, non sarebbero sopravvissuti. Il sionismo però, a mio avviso, si fonda sui diritti naturali dei popoli all' autodeterminazione e all'autogoverno. Ne consegue che questi diritti sono anche propri dei palestinesi. Perciò il sionismo ha diritto di esistere solo se riconosce i diritti dei palestinesi. Chi vuole precludere ai palestinesi l'esercizio di tali diritti non può rivendicarli per se stesso soltanto. I diritti nazionali sono una estensione dei diritti individuali e per questo sono universali: i diritti degli israeliani non sono differenti da quelli dei palestinesi. Per questa ragione gli insediamenti devono fermarsi e l'unica soluzione logica sia per gli ebrei sia per gli arabi resta quella di due Stati per due popoli, con una ridefinizione concordata dei confini che tenga conto di una realtà diversa da quella del 1967. L' ipotesi di un unico Stato non solo porta all' eliminazione dello Stato ebraico ma apre la strada a conflitti sanguinosi per generazioni. Due Paesi, fianco a fianco, fondati su uguali diritti per entrambi i popoli, questa è la strada giusta e necessaria: ogni altra scelta condurrebbe o al colonialismo o alla eliminazione di Israele in uno Stato binazionale». Il Labour di oggi può riattivare ciò che di progressivo c'era nel sionismo?
«Direi proprio di no. Stiamo parlando di un partito che sembra voler mascherare la sua impotenza con un usurato esercizio del potere ministeriale; un partito “annebbiato” dal nazionalismo e in preda a un vuoto ideologico e progettuale che va dal sociale all' economia e naturalmente al processo di pace. E questo vuoto rende ancor più fragile non solo la ricerca di un'alternativa alle destre ma la stesse basi democratiche d'Israele».

l’Unità 10.6.10
Obama riceve Abu Mazen: «Nella Striscia di Gaza situazione insostenibile»
Il blocco israeliano strangola la Striscia di Gaza. La situazione è insostenibile dice il presidente degli Stati Uniti incontrando a Washington il capo dell’Anp, Abu Mazen. Ancora possibili progressi sulla strada della pace.
di Virginia Lori

Il presidente americano Barack Obama ha ricevuto ieri alla Casa Bianca il presidente palestinese Abu Mazen dichiarando «insostenibile» la situazione esistente a Gaza e offrendo aiuti per 400 milioni di dollari ai palestinesi. Obama ha espresso il suo sostegno per la richiesta dell'Onu di una inchiesta «credibile e trasparente» e «in linea con gli standard internazionali» sui fatti relativi al blitz israeliano contro una flottiglia filo-palestinese diretta a Gaza.
IL BLITZ IN MARE
«Tutti quanti, in Israele e in Turchia, in Palestina e sicuramente qui negli Stati Uniti, desiderano conoscere i fatti di questa tragedia: cosa l'ha causata e cosa si può fare per prevenirla in futuro», ha detto il presidente Usa parlando nello Studio Ovale con accanto Abu Mazen. «Penso che sia nell'interesse di Israele fare in modo che ognuno sappia esattamente cosa è successo», ha detto Obama che ha voloto sottolineare che è ancora possibile «trasformare in una opportunità per la pace» la «tragedia» della sanguinosa operazione e che è ancora possibile realizzare «progressi significativi» sulla strada della pace nel corso del 2010. Al colloquio ha partecipato anche l'inviato speciale Usa per il Medio Oriente George Mitchell. I tentativi della amministrazione Obama di sbloccare la situazione di stallo nel processo di pace sono deragliati dopo il sanguinoso raid israeliano contro la flottiglia filo-palestinese che ha avuto l'effetto di isolare Tel Aviv nella difesa delle sue azioni. L'incidente aveva fatto saltare un incontro alla Casa Bianca tra Obama e Benyamin Netanyahu, in programma la scorsa settimana, perchè il premier israeliano (già arrivato in Nord America) era dovuto tornare rapidamente in patria. L'incontro è stato riprogrammato per la fine di giugno. Il presidente palestinese Abu Mazen, che aveva incontrato Obama l'ultima volta nel settembre scorso, ha chiesto agli israeliani di «por fine all'assedio» del popolo palestinese. Obama ha affermato che la situazione a Gaza è diventata insostenibile e che «mentre è fondamentale considerare le necessità di sicurezza di Israele, devono anche essere salvaguardate le necessità dei palestinesi». «È evidente che non è possibile permettere che vi siano missili che da Gaza colpiscono il territorio israeliano ha detto Obama ma deve essere possibile avere un meccanismo che consenta di bloccare il traffico di armi verso Gaza senza dover bloccare tutti i rifornimenti ai palestinesi che vivono nell'area». Obama ha annunciato uno stanziamento di 400 milioni di dollari per dare assistenza ai palestinesi che vivono a Gaza e nella Cisgiordania da utilizzare nel campo della costruzione di abitazioni, nel settore scolastico nello sviluppo delle attività economiche.
«È importante sottolineare il nostro impegno al miglioramento delle condizioni di vita quotidiane della gente palestinese», ha affermato l'inquilino della Casa Bianca elogiando Abu Mazen per il suo «eccellente lavoro» nel migliorare la situazione del popolo palestinese. Abu Mazen ha detto di non avere pre-condizioni al passaggio dalla fase dei colloqui indiretti a quella dei colloqui diretti tra le due parti.

Repubblica 10.6.10
Ricordando Neda
di Timothy Garton Ash

Non dimentichiamo l´Iran. Ricordiamoci di Neda. Se questo fine settimana a Teheran scenderanno in strada dimostranti in verde a commemorare il primo anniversario dell´elezione rubata da Mahmoud Ahmadinejad, senza dubbio saranno vittime della brutalità dei delinquenti della milizia basij, della polizia segreta e dei guardiani della rivoluzione.
Carcere, tortura, violenza sessuale sugli uomini e esecuzioni sono queste le offerte che gli scagnozzi della Repubblica Islamica portano in onore di Allah, il compassionevole, il misericordioso.
Di fronte alla violenza della repressione il movimento verde si è molto indebolito, ma non è sparito. L´Iran non sarà mai più come prima delle elezioni del 12 giugno 2009. Nella grande manifestazione svoltasi tre giorni dopo quella data, una delle maggiori che la storia riporti, tutto è cambiato, cambiato profondamente. Nella repressione che è seguita è nata una terribile bellezza. Il processo storico richiederà forse anni, ma un giorno, col deteriorarsi dell´economia e il diffondersi dello scontento a più ampie fette della società, il movimento tornerà in forze, seppur magari in forma diversa. Alla fine in Iran si erigeranno statue di Neda e monumenti ai martiri di questa lotta per la libertà, come oggi esistono monumenti ai martiri della guerra Iran-Iraq.
Non dovremmo dimenticare mai neppure che si tratta di un movimento nato spontaneamente in seno ad una società musulmana, con l´obiettivo di trasformare in qualcosa di diverso il regime islamista che è al potere da più lunga data e che resta tuttora il più forte.
Se volete avere un´idea dell´agonia e estasi dell´Iran nell´anno passato vi consiglio di leggere Death to the Dictator! (Morte al dittatore) di Afsaneh Moqadam. È la storia dell´elezione scippata e del tentativo di rivoluzione verde, narrata attraverso le vicissitudini di un giovane, Mohsen, preso dall´entusiasmo della protesta, ma poi detenuto, torturato e ripetutamente violentato dai suoi carcerieri. (Mohsen è troppo umiliato per ammetterlo, ma le orribili conseguenze fisiche vengono dettagliatamente illustrate alla madre da un medico, assieme alle adeguate terapie). La narrazione dei più ampi eventi politici si dipana vivida e ben documentata attorno a questo centrale elemento biografico. Quello che emerge chiaramente è il ruolo vitale delle donne, di cui ha scritto anche il premio Nobel per la pace, Shirin Ebadi. La madre di Mohsen ha partecipato ella stessa alla protesta, in forma autonoma dagli uomini della famiglia, e si capisce che per lei si è trattato di una doppia emancipazione. "Afsaneh Moqadam" è uno pseudonimo, e alcuni fatti e nomi sono stati modificati per proteggere gli interessati, ma ho parlato con l´autore e non ho dubbi che questo straziante racconto sia basato su una storia vera.
Poi guardate su YouTube il film americano For Neda, la storia di Neda Agha-Sultan, la giovane uccisa in una delle prime dimostrazioni di massa. Il film è un po´ troppo sdolcinato per i miei gusti, ma vale assolutamente la pena di vederlo, contiene alcuni servizi giornalistici coraggiosi, opera di Saeed Kamali Deghan, tornato in Iran per filmare interviste ai familiari di Neda. Nonostante gli sforzi del regime per bloccarlo risulta che il film sia già stato visto online da molti in Iran. Infine date un´occhiata all´ultimo rapporto di Amnesty International sull´Iran, un catalogo di arresti, torture e numerose esecuzioni.
Intanto gli Stati Uniti, la Gran Bretagna ed altre potenze occidentali ieri sono riusciti a far approvare dal Consiglio di sicurezza dell´Onu un nuovo pacchetto di sanzioni. Benché ammorbidite su richiesta di Russia e Cina esse aumentano la pressione sul regime e su alcuni dei leader e delle imprese dei guardiani della rivoluzione. Ma le sanzioni riguardano solo il nucleare, non i diritti umani.
Due sono gli interrogativi: qual è il modo migliore per impedire che l´Iran si procuri l´atomica? E in che modo le possibili strategie sul nucleare vanno ad interagire con la tormentata politica interna del paese? Dubito fortemente che delle sanzioni accettabili da parte cinese saranno mai abbastanza rigide da impedire all´Iran di fare il salto al nucleare. Però peggioreranno la situazione economica del paese e quindi potenzialmente faranno crescere lo scontento sociale che alimenta l´opposizione.
C´è chi sostiene che l´Occidente avrebbe dovuto reagire più positivamente alla recente proposta avanzata da Turchia e Brasile di portare fuori dal paese una grossa quantità dell´uranio iraniano a basso arricchimento. (Seccati, Turchia e Brasile hanno votato contro l´ultimo pacchetto di sanzioni). Non credo che questa iniziativa avrebbe impedito all´Iran di procedere in segreto verso l´armamento nucleare e molti oppositori del regime non avrebbero accolto con entusiasmo una simile disponibilità a stringere le mani insanguinate dei loro oppressori. Bombardare l´Iran, come richiesto dalle teste calde negli Usa e in Israele produrrebbe senza dubbio un´ondata di solidarietà patriottica con il regime. All´estremo opposto, sono sempre più numerosi gli esperti di politica estera a Washington che oggi affermano in privato (qualcuno anche in pubblico) che dobbiamo imparare a convivere con un Iran nucleare – e a "contenerlo". Ma il rischio di dare avvio ad una corsa agli armamenti tra sciiti e sunniti in Medio Oriente è molto serio, e un simile "successo" rafforzerebbe anche il regime di Ahmadinejad in patria. Quattro alternative e nessuna valida.
Resta la speranza di avere in Iran un governo più responsabile. Di certo i leader del movimento verde non hanno sul nucleare una posizione molto diversa dal regime, come noi auspicheremmo. Ma un governo più benvoluto e legittimo, che riprenda i rapporti con il resto del mondo, creerebbe dinamiche assai diverse e diverse connessioni sul tema del nucleare.
Come e quando si verificherà questo cambiamento politico interno è un interrogativo di carattere morale e pratico cui devono rispondere gli iraniani stessi. L´esperienza di altri paesi indica che dipenderà dall´abilità del movimento di formulare obiettivi più chiari e più strategici, conservare una disciplina non violenta ed essere creativo nell´individuare nuove tattiche di protesta; fare appello ad altri gruppi sociali colpiti dal declino dell´economia (operai, dipendenti pubblici, piccoli commercianti); e sfruttare le crescenti divisioni interne al regime.
L´Iran sarà liberato per mano degli iraniani, non per mano nostra. Ma c´è qualcosa che possiamo fare dall´esterno. In primo luogo non nuocere. In una versione politica del giuramento di Ippocrate, dobbiamo riflettere su ogni iniziativa che assumiamo sul nucleare per esser certi che non vada a scapito del movimento interno che lotta per il cambiamento. Secondo, tenere aperte le vie di comunicazione e di informazione, così che gli iraniani all´interno e all´esterno del paese possano raccontarsi cosa sta accadendo. I programmi in lingua persiana della Bbc non devono finire sotto la scure dei tagli alla spesa pubblica britannica. Bisogna raddoppiare gli sforzi finalizzati a tecnologie in grado di aggirare la censura in modo che tutti gli iraniani abbiano accesso online a film come For Neda nonché al giornalismo dei cittadini. Terzo, i nostri leader dovrebbero dire a più chiare lettere che la nostra politica è anche una risposta alla brutale repressione interna all´Iran. Che ci preoccupiamo dei diritti degli iraniani, non solo della nostra sicurezza.
Infine, ma non da ultimo, dobbiamo sempre tenere a mente gli avvenimenti dell´ultimo anno e aiutare gli iraniani a fare lo stesso. Quello che vogliono tutti i tiranni è che la loro gente e il mondo esterno dimentichino. Lo scrittore ceco Milan Kundera ha detto che «la lotta dell´uomo contro il potere è la lotta della memoria contro l´oblio». La lotta dell´uomo e della donna, di Mohsen e di sua madre.
www. timothygartonash. com
Traduzione di Emilia Benghi

Repubblica 10.6.10
Olanda, avanza la destra xenofoba Il partito di Wilders raddoppia i seggi. In testa laburisti e liberali, crolla il premier Difficile la formazione del governo: l´incarico dovrebbe andare al liberale Rutte
di Anais Ginori

L´AJA - Geert Wilders arriva di buonora al seggio, in un sobborgo dell´Aja. Circondato da sei guardie del corpo, è il primo politico a depositare il suo voto in una giornata che si annuncia grigia e piovosa. Per tutti ma non per lui, perché il leader della destra xenofoba già immagina che chiunque vinca le elezioni sarà costretto a chiamarlo. «Spero di poter entrare nel nuovo governo», dice al telefono quando ormai è sera e i risultati danno un testa a testa tra liberali conservatori e socialdemocratici, ciascuno con 31 deputati nel nuovo parlamento. L´Olanda chiude i seggi senza poter proclamare un vincitore. Secondo i primi exit poll, emergono due premier in pectore esattamente alla pari e agli antipodi. Il candidato dell´austerity e della chiusura all´immigrazione, l´ex manager Mark Rutte. E quello della tolleranza, il sindaco laburista di Amsterdam, ebreo aperto all´Islam, Job Cohen. Dietro a loro, il Pvv di Wilders è diventato il terzo partito, passando da 9 a 22 deputati. Nei risultati parziali di ieri sera i cristiano-democratici del premier uscente, Jan Peter Balkenende, sono crollati da 41 a 21 deputati.
Si apre così una nuova fase di incertezza, dopo la crisi di governo del febbraio scorso che ha provocato le elezioni anticipate. Nelle prossime ore, la regina Beatrice avvierà le consultazioni per formare un governo. Rutte appare ancora come il favorito, perché il suo partito ha realizzato una folgorante ascesa. Nel sistema olandese, proporzionale e senza premi di maggioranza, bisognerà comunque faticare per trovare una maggioranza: servono almeno 76 su 150 deputati.
«Il nostro obiettivo è costituire un governo che porti l´Olanda fuori dalla crisi», ha spiegato Rutte, 43 anni. Gli esperti parlano già di un possibile "governo viola", alleanza tra Vvd e laburisti, come durante gli anni Novanta. Ma un accordo tra le due prime forze politiche sembra oggi più difficile. Troppe le differenze di approccio per risolvere la crisi. I social-democratici vorrebbero combinare il rigore finanziario con il rilancio dell´economia. «Volete fare un elettroshock all´economia, ma così rischiate di paralizzare tutto», ha detto Cohen, alla guida dei laburisti da soli tre mesi. Per Rutte l´importante è invece «riportare ordine negli affari», dal titolo del suo programma economico che prevede di ridurre a zero il deficit pubblico entro il 2015 (oggi è al 6,3%, tra i più bassi d´Europa), dimezzando tra l´altro il numero dei ministri e innalzando l´età pensionabile dagli attuali 65 a 67 anni.
Per trovare una maggioranza, il Vvd potrebbe anche allearsi con cristiano-democratici, verdi e liberali di sinistra D66 che hanno conquistato rispettivamente 11 e 10 deputati. Ma Rutte non ha mai escluso di poter chiamare a sé il Pvv di Wilders. «Mi vedrei bene al posto di vice-premier» ha azzardato ieri il biondo platinato, che da anni vive sotto scorta per le minacce dei fondamentalisti. Wilders aveva vinto a marzo le elezioni municipali all´Aja e ad Almere, ma non è poi riuscito ad entrare nelle giunte locali. Prima di formare il suo partito nel 2006, era un deputato liberale conservatore. Conosce bene Rutte con il quale ha avuto contrasti pesanti. Ma da ieri sera, improvvisamente, i due hanno riscoperto la stima reciproca.

Repubblica 10.6.10
"La Franzoni non ricorda di aver ucciso il figlio"
Delitto di Cogne, i periti: pensare a ciò che ha fatto potrebbe portarla a togliersi la vita
di Sarah Martinenghi

La tesi supportata dai risultati di un test sulla sua memoria, messo a punto negli Usa
Il piccolo Samuele fu ucciso nel lettone matrimoniale il 30 gennaio 2002

TORINO - E´ a suo modo "sincera" la mamma di Cogne quando dice, giura e spergiura, di non essere lei l´assassina di suo figlio. Non mente sapendo di mentire, perché Annamaria Franzoni davvero non ricorda di aver ucciso il piccolo Samuele nel suo lettone matrimoniale il 30 gennaio 2002. La famosa amnesia, la "rimozione" di aver commesso un omicidio terribile, sarebbe davvero reale, anche se si tratterebbe di una sorta di paravento di una mente fragile: Annamaria sarebbe infatti schiava di un meccanismo psicologico che però le garantisce così di sopravvivere. Perché ricordare quello che ha fatto la porterebbe a correre un rischio troppo alto, quello di morire, togliendosi la vita. «Ma appena lo ricorderà saranno guai». Ne è convinto lo psichiatra Ugo Fornari, consulente dell´accusa, che aveva effettuato una perizia per la procura e che ieri ha testimoniato al processo "Cogne bis" in cui la Franzoni è imputata di calunnia dal pm Giuseppe Ferrando nei confronti del suo ex vicino di casa, Ulisse Guichardaz. E a supportare il fatto che Annamaria conserva una memoria di se stessa "da innocente" sono stati anche i risultati di un test scientifico sui suoi ricordi, messo a punto anni fa negli Stati Uniti, e applicato su di lei in carcere dai due periti della difesa, Giuseppe Sartori, docente all´università di Padova, esperto in neuroscienze cognitive e neurologia clinica, e Pietro Pietrini, che si occupa all´università di Pisa dello studio delle basi cerebrali delle funzioni mentali.
Secondo Ugo Fornari, Annamaria (difesa dall´avvocato Paola Savio) ha ricordato la realtà dei fatti, ovvero di essere stata lei a uccidere Samuele, solo fino al mese di febbraio 2002, quando disse al marito, in una sorta di proiezione, che a commettere l´omicidio poteva essere stata la vicina di casa Daniela Ferrod: «Per me quella telefonata è la sua unica confessione: lei in quel momento spezza in due la sua persona: prende la parte cattiva e la colloca in Daniela. La Ferrod è l´Annamaria cattiva che culmina nell´uccisione». Ma la denuncia nei confronti di Guichardaz è successiva, siamo nel 2004, quando lei avrebbe ormai rimosso il ricordo: l´amnesia potrebbe risultare fondamentale nel processo "Cogne bis" per stabilire se si sia resa conto di incolpare un innocente. Per Fornari all´epoca della denuncia, era già alla ricerca di "un capro espiatorio", proprio per non suicidarsi. La donna in carcere a Bologna è in stato di vigilanza altissima, senza oggetti pericolosi e in una cella sempre aperta. Anche per la difesa, Annamaria «è genuinamente convinta della bontà della propria ricostruzione dei fatti», in particolare sulla base dello "Iat" (Implicit association test) che riuscirebbe a dimostrare se un ricordo è reale o fittizio: la donna è stata posizionata davanti a un computer, durante cinque sedute, davanti a lei comparivano frasi reali o meno (ad esempio «ora sono seduta» oppure "sono in aereo") alternate ad altre estratte dagli atti processuali sulla responsabilità nell´omicidio, sull´aver indossato gli zoccoli, essersi rimessa il pigiama, aver lasciato la porta aperta o chiusa, e sulla presenza dell´altro figlio in casa al momento del fatto. Doveva rispondere con il dito sinistro se "vero", con quello destro se "falso". Sulla base della velocità di reazione, elaborata da un algoritmo matematico, gli esperti avrebbero appurato che "tutti i suoi ricordi sarebbero reali", che la versione da lei sempre fornita di essere innocente sarebbe "scientificamente" quella, e l´unica, che lei effettivamente si ricorda: un film ormai impresso nella sua memoria.

Il Piccolo 10.6.10
Bonino: "Il premier? Prodotto avariato del disfacimento istituzionale italiano"
di Roberta Giani

Silvio Berlusconi «non gradisce nessun contrappeso», né il Quirinale, né l’opposizione, né la stampa, e nemmeno la Costituzione. Rappresenta un pericolo perché, nel suo «crescendo di populismo, incultura e insofferenza», sta accelerando il disfacimento istituzionale dell’Italia. Ma il Cavaliere, di quel disfacimento, non è la causa: e "solo" un «prodotto avariato». Emma Bonino, la paladina di tante, tantissime battaglie radicali in nome della legalità e del diritto, condanna l’ultima sortita del premier. Come condanna la legge bavaglio sulle intercettazioni. Ma, al contempo, la vicepresidente del Senato avverte: la Carta viene calpestata tutti i giorni, ormai da anni, e non solo da un premier che si sente "all’inferno".
Vicepresidente Bonino, Berlusconi dichiara che è un inferno governare tenendo conto della Costituzione. Come valuta questa uscita?
Tutte le volte che si trova in difficoltà - e ormai capita molto molto spesso - il presidente cerca colpi ad effetto spesso con risultati per lo meno controproducenti.
Quali?
Indimenticabile, tra le altre, l’offerta del ministero dello Sviluppo economico alla presidente Marcegaglia in piena assemblea di Confindustria accolta da gelo ed imbarazzo. Altro evergreen per uscire dalle difficoltà: il complotto magari internazionale. Oppure: la denuncia di regole, di leggi ed oggi persino della Costituzione che gli rendono la vita "un inferno" nel senso che gli impedirebbero di governare, in un crescendo senza fine.
Un crescendo davvero senza fine?
Un crescendo davvero infelice in un misto di populismo, incultura istituzionale, e insofferenza ai contropoteri e ai limiti che appunto sono l’essenza di un sistema democratico.
Il leader del Pd Pierluigi Bersani afferma che Berlusconi, se la Costituzione su cui ha giurato non gli piace, deve andarsene a casa. Esagera?
Trae le conseguenze di una dichiarazione assolutamente sopra le righe e fuori posto. Cui non crede, spero, neppure Berlusconi. Ma forse domani qualcuno dirà che il presidente «è stato frainteso».
Quando il premier dice che l’Italia è governata dai giudici e aggiunge che lui non ha potere, lei che pensa?
Penso che una maggioranza così schiacciante sia alla Camera che al Senato gli avrebbe permesso di governare nell’interesse del Paese, anzi in qualche modo glielo impone: perché, appunto, con il potere viene la responsabilità. Le leggi sono passate come lettere alla posta quando si è trattato di difendere i suoi interessi personali. Non metto in dubbio che si possano modificare alcuni meccanismi per quanto riguarda un certa fluidità nel governare da parte dell’esecutivo ma quello a cui stiamo assistendo, per esempio sul disegno di legge sulle intercettazioni, io non ho scrupoli a definirlo una maniera "demenziale" di legiferare. La verità è che Berlusconi non gradisce contrappesi, siano essi opposizione, Quirinale, Consulta, stampa...
Ma la legge sulle intercettazioni, nella sua ultima versione, è più accettabile? O rimane un "bavaglio"?
No, non è accettabile e le resistenze interne alla stessa maggioranza stanno a dimostrare che le contraddizioni erano forti. Per questo il governo ha imposto il voto di fiducia: per "controllare" la sua maggioranza, non per altro.
L’attacco alla Costituzione è l’ennesimo attacco al sistema di pesi e contrappesi italiani. Un sistema già compromesso?
Che il sistema sia compromesso da decenni noi radicali lo diciamo inascoltati da tempo. I danni arrecati
alla democrazia e allo stato di diritto da parte del sistema partitocratico non nascono con Berlusconi. Anzi, Berlusconi non è la causa di quello che noi abbiamo chiamato "la peste italiana" ma contestualmente uno dei tanti prodotti avariati e un acceleratore del disfacimento istituzionale.
Ma le libertà di questo Paese oggi sono in pericolo piu di ieri?
Come dicevo prima, c’è un filo conduttore che parte da lontano. Se non fermiamo la deriva, però, il rischio è che ogni giorno che passa lo spazio di libertà si comprima ulteriormente: persino la registrazione dei processi che Radio Radicale fa da anni sembra essere divenuta insopportabile al presidente del Consiglio. Per cui, di fatto, il ddl sulle intercettazioni - che non ha nulla a che vedere con i processi che sono "pubblici" per costituzione - le rende praticamente impossibili.
Si dibatte molto su Costituzione materiale e formale. Quella formale, a suo avviso, è già stravolta? E gli italiani ne sono consapevoli?
La Costituzione viene calpestata tutti i giorni, ma non solo da Berlusconi. Credo che gli italiani ne siano
consapevoli ma temo che in fondo la cosa interessi poco. Stiamo attraversando una lunga fase di ripiegamento o assuefazione dove la mancanza di regole sembra far comodo a moltissimi.

Europa 10.6.10
Luigi Einaudi è uno dei punti di riferimento imprescindibili dei Radicali di Marco Pannella
Il liberismo di Einaudi può parlare anche al Pd
di Pier Paolo Segneri

Luigi Einaudi è uno dei punti di riferimento imprescindibili dei Radicali di Marco Pannella. Speriamo che lo possa diventare presto anche per tutto il Partito democratico e non solo per la cosiddetta area liberal. Sarebbe un segnale positivo, di visione politica, di cultura politica da parte dell’attuale classe dirigente del Pd. Purtroppo, però, la filosofia e il metodo liberale, finora, non hanno avuto diritto di cittadinanza dentro l’amalgama tra gli ex-popolari e gli ex-diessini. Le idee liberali sono rimaste marginali all’interno del Pd e, invece, avrebbero dovuto rappresentare l’essenza e il cuore pulsante di un soggetto politico che volesse essere degno del nome che orgogliosamente e giustamente porta. Certo, abbiamo avuto l’eccezione della candidatura di Emma Bonino che, non a caso, durante la campagna elettorale per le regionali, ha più volte fatto cenno al suo essere liberista, "nel senso einaudiano". Ma nessuno l’ha seguita su quel terreno di libertà. Qualcuno è rimasto indifferente, altri hanno storto la bocca, la maggior parte ha scelto il silenzio.
Un giorno o l’altro, però, bisognerà pur spiegare che il vocabolo "liberista", come ci hanno insegnato Luigi Einaudi ed Ernesto Rossi, non è un’offesa, non è una parolaccia e non ha alcuna accezione negativa. Parliamoci chiaramente: anche su questo fronte, il Pd si è fatto schiacciare sulle posizioni della sinistra massimalista e post-comunista, che ha saputo imporre all’opinione pubblica e ai "democratici" una tale distorsione della parola "liberista". Nel liberismo di Einaudi, è ora che qualcuno lo scriva, sono già insiti tutti quei correttivi sociali necessari alla realizzazione della libertà economica dell’uomo e dell’individuo. Lo stesso Einaudi ha sempre ripetuto che il liberismo vive di regole e di rispetto delle regole, cioè l’esatto contrario di quanto si è soliti credere a causa delle continue distorsioni che vengono fatte a discapito del concetto einaudiano di libertà economica, quindi di quella responsabilità che connota ogni liberale e di cui il liberismo vive. Le distorsioni e le manipolazioni, insomma, sono usate a danno della parola "liberista" così da reiterare, nel tempo e nel dibattito politico, un’idea sbagliata del termine, così da falsarne il significato e impedire che nella società possa affermarsi quel principio di libertà e di responsabilità espresso e promosso dal liberismo. Einaudi, a tal proposito, ricordava spesso che «la scienza economica è subordinata alla legge morale»: questo è il liberismo. Il liberismo, dunque, è l’esatto opposto della corruzione, del malaffare e delle speculazioni oggi dominanti. Il liberismo è tutta un’altra cosa rispetto alle ingiustizie sociali che gli vengono artificiosamente attribuite e non ha niente a che vedere con la falsa cornice costruita intorno al vocabolo. Infatti, alcuni mistificatori hanno dovuto aggettivare il liberismo definendolo "selvaggio" oppure ribattezzandolo "neo-liberismo" o "ultra-liberismo". Ma il problema, ora, è capire se il Pd ha la forza di essere consequenziale con il lascito politico di Einaudi e se riuscirà a porre al centro del dibattito sulla "crisi" anche l’attualità e l’urgenza del progetto degli Stati Uniti d’Europa. Partendo proprio da come lo aveva descritto Einaudi già subito dopo la prima guerra mondiale e al cui modello si ispirarono anche Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi per scrivere il Manifesto di Ventotene. Diciamola tutta: il problema non è scegliere fra il ritorno all’indipendenza delle nazioni o se costruire l’Unione europea come soggetto politico, non è scegliere tra la sovranità degli stati nazionali e l’Europa politica che ancora non c’è, ma decidere se vogliamo esistere uniti e federati o se vogliamo condannarci a scomparire.
La scelta è, come direbbe Pannella, tra «la patria europea e l’Europa delle patrie». Quindi, tra il dare vita al federalismo europeo o il perire sotto i nazionalismi, i secessionismi, i razzismi, i fanatismi ideologici e religiosi, gli integralismi di ogni genere, le miserie umane ed altre probabili guerre. Infatti, il progetto politico per gli Stati Uniti d’Europa, di cui parlava Luigi Einaudi, si compone di due aspetti, tesi ad impedire ingestibili catastrofi e distruzioni di popoli: mi riferisco alla federazione europea, che è uno strumento, e all’approccio politico liberale, che è la base su cui il progetto degli Stati Uniti d’Europa necessariamente deve poggiare. Mi riferisco al metodo liberale, alla forma liberaldemocratica, all’abito liberale che dobbiamo dare all’Europa e di cui il federalismo europeo è un imprescindibile accessorio. Insomma, il federalismo europeo sognato e descritto da Spinelli e Rossi, essendo basato su una piattaforma liberale, è l’opposto di un dogma, casomai è un mezzo o uno strumento e, in quanto tale, si batte «contro il mito dello stato sovrano» rifiutando il pericoloso «dogma della sovranità».
Il federalismo europeo è una macchina. L’orizzonte liberale è, invece, la strada su cui la macchina del federalismo europeo può camminare, anzi: senza la strada liberale, è ovvio che la macchina non può procedere.

il Fatto 10.6.10
Nichi Vendola
“Io alle primarie sfido il Pd”
Il leader di Sinistra e Libertà riparte dalle fabbriche
“Berlusconi vince perché offre un grande racconto epico, mentre il mito della concretezza amministrativa non è una visione del mondo”
di Luca Telese

Nichi Vendola scenderà in campo per le primarie del centrosinistra. Non lo dice ancora in maniera esplicita. Ma non si tira nemmeno indietro con le circonlocuzioni ipotetiche della vecchia politica: “Sono disponibile a partecipare al cantiere della nuova sinistra”, ti risponde se glielo chiedi. Oppure: “I processi di rinnovamento matureranno da sé”. Oppure: “Mi piacerebbe contribuire a fare la differenza fra un rito di sepoltura e uno di battesimo della nuova coalizione”. Senza troppo clamore, il presidente della Puglia ha ripreso a battere l’Italia. A metà luglio il grande esordio, con la convention delle sue “Fabbriche di Nichi”, a Bari. Domani, a Roma, il primo passo nella nuova stagione politica, un comizio annunciato da un’imponente affissione: nei manifesti c’è una giraffa presa al collo dalla Finanziaria.
Vendola, che c’entra la giraffa?
Perché sopravvive nella Savana senza uccidere. Vede lontano, si nutre dove gli altri non arrivano... eh eh.
Quante volte si grida contro “la macelleria sociale”...
Non lo so. Ma mai come questa volta lo slogan è appropriato. Sta finendo l’Europa che è nata nel 1945, un’intera epoca.
Quale?
Quella dei diritti umani e delle garanzie sociali. L’Europa del patto Capitale-lavoro. In una parola il welfare.
Colpa della crisi, dicono.
Le ultime statistiche parlano di 80 milioni di poveri, nel Vecchio continente, 20 milioni di bambini. L’avremmo creduto possibile solo un anno fa?.
Ripeto, di chi è la colpa?
Di chi presenta questa crisi come uno tsunami, una catastrofe naturale senza responsabilità: eppure per anni si è permesso tutto, qualsiasi gioco di finanziarizzazione.
E in Italia?
Siamo il paese che ha detassato più di tutti i reati finanziari!
Ma perché la sinistra non guadagna consensi?
I suoi leader non spiegano perché Berlusconi vince.
E secondo lei perché?
Perché lui continua ad offrire un grande racconto. Anche nella decadenza, per ora, è più epico di quello dell’opposizione.
Qual è il racconto del centrosinistra oggi?
È tutto qui, il problema. Da un lato il crepuscolo degli Dei, dall’altro una promessa di concretezza amministrativa. Ma questa non è una visione del mondo! È un respiro corto che non porta da nessuna parte.
E Tremonti?
Il più abile gattopardo che conosca Perché nel 1994 è stato eletto nel Ppi? Non occorre andare così lontano. Negli ultimi tre anni ne ricordo almeno tre...
Di Tremonti?
(Ride). Bè, il primo, ormai archiviato, è l’uomo dell’ottimismo, della finanza creativa...
E il secondo?
Quello liberista e no global, antimercatista spinto! Poi l’ex antagonista delle banche, il Che Guevara dei risparmiatori. Troppi ruoli per un attore.
La crisi impone scelte.
Per la prima volta, invece che allontanarsi dagli affreschi sociali ottocenteschi dai Miserabili e Oliver Twist, torna lo spettro della povertà. Ma la politica non ha il coraggio di parlarne, né a destra né a sinistra. Solo la Caritas lo fa. Dobbiamo farlo, subito.
C’è la crisi greca.
Dove è nata la democrazia si sperimentano sospensione di diritti e autoritarismo.
Ci sono i conti da far quadrare, dicono.
Quando il Fondo monetario commissariava i Paesi latinoamericani storcevamo il naso. Se impone la macelleria in Europa si dice: è ineluttabile.
E non lo è?
Non capisco perché diamo carta bianca alla stessa tecnocrazia che ha legittimato la finanziarizzazione delle risorse e occultato le rapine degli speculatori.
Governano l’economia del mondo?
Senza avere nessun mandato democratico, però. Papandreou è stato commissariato. Zapatero si è autocommissariato. Tremonti, invece – eh, eh – ha commissariato Berlusconi...
Non è il contrario?
Davvero? Sta di fatto che il premier oggi è la più grande forma di opposizione al suo ministro: il premier di lotta e di governo.
Che però continua a decidere tutto.
La sua reazione alla stretta è non nascondere più i suoi sentimenti eversivi. Ormai parla come un caudillo.
Cosa va cambiato a sinistra?
Non capiscono che l’opposizione tattica non porta da nessuna parte? C’è sempre un Enricoletta che prova a moderare ciò che è già moderatissimo...
Cosa manca?
Ad esempio: il coraggio di ripartire dal lavoro. Possiamo assistere alle guerre fra poveri senza dir nulla? La sinistra è diventata una retorica della cittadinanza. È rimasta a proclamare i suoi valori mentre la società smottava altrove. Mi pare che combattano con le baionette del ‘15-‘18 la guerra del ‘45.
Serve il coraggio di proporre idee alternative...
Possiamo accettare il taglio dei fondi ai disabili, se poi si spendono 20 miliardi per i cacciabombardieri senza dir nulla?. Bisogna difendersi, dicono.
E allora facciamo un esercito europeo e risparmiamo
Attento, la attaccheranno da sinistra...
Ma si taglierebbero i costi.
Altro esempio?
Possiamo accettare senza dire una sola parola la rateizzazione delle liquidazioni? Al sud, e non solo, il tfr è simbolo di un rituale di solidarietà fra generazioni.
In che senso?
Con quei soldi i padri comprano casa ai figli. Si produce un effetto-cascata. Vogliono colpire i dipendenti, finiscono per affondare l’edilizia!.
Bersani e Letta dicono: niente primarie.
Invece servono. Se si pensa di salvarsi eludendo i problemi o serrando ranghi non si va da nessuna parte.
Si rischia di indebolirsi con una nuova conta, dicono.
Al contrario: ci si riaprirebbe alla società. Bisogna gettare il cuore oltre l’ostacolo.
Perché?
Le primarie sono come il gesto del bambino che ascolta la conchiglia e sente il rumore del mare: è il rumore della vita.
Ci vuole l’orecchio di un leader, però. Il suo?
Io sono il leader di Sinistra e libertà. E delle fabbriche. Se posso aiutare lo faccio.

mercoledì 9 giugno 2010

Repubblica 9.6.10
Il popolo e la libertà
di Ezio Mauro

Soltanto un potere impaurito poteva decidere di proteggere se stesso con una legge che ostacola la libertà delle inchieste contro la criminalità, riduce la libertà di stampa e limita soprattutto il diritto dei cittadini di essere informati. Tre principi dello Stato moderno e democratico il dovere di rendere giustizia cercando le prove per perseguire il crimine, il dovere della trasparenza e della circolazione delle informazioni nella sfera pubblica, il diritto di avere accesso alle notizie per capire, controllare e giudicare vengono messi in crisi, per il timore che i faldoni dell´inchiesta sulla Protezione Civile aprano nuovi vuoti nel governo, dopo le dimissioni del ministro Scajola.
È la vera legge della casta che ci governa e ha paura, come ha rivelato ieri Berlusconi, di «toghe e giornalisti». Per una volta, quello del Premier non è un anatema, ma una confessione: legalità e informazione sono i due incubi della destra berlusconiana, e nel paesaggio spettrale dei telegiornali di regime il governo con questa legge s´incarica infatti di bloccarli entrambi. L´obiettivo è che il Paese non sappia. E soprattutto, che non sapendo rimanga immerso nel senso comune dominante, senza più il pericolo che dall´intreccio tra scandali, inchieste e giornali nasca una pubblica opinione libera, autonoma e addirittura critica.
Questa è la vera posta in gioco: non la privacy, che può e deve essere tutelata se le parti giudiziarie decidono quali intercettazioni distruggere e quali rendere pubbliche, lasciando intatta la libertà d´indagine e quella d´informazione. Ma proprio questi sono i veri bersagli da colpire. Lo rivela lo stesso Berlusconi che ieri, in piena crisi d´incoscienza, si è astenuto sulla legge perché la vorrebbe ancora più dura.
La legge, così com´è, non piace a nessuno e fa male a tutti. Va fermata, nell´interesse del sistema democratico, che deve garantire il controllo di legalità, e che deve assicurare trasparenza d´informazione. Non c´è compromesso possibile su questioni di principio, che riguardano i diritti dei cittadini, i doveri dello Stato. La destra impari a fidarsi dei cittadini, a non temere la normale esigenza di giustizia, il bisogno di conoscere e rendersi consapevoli. Oppure smetta di chiamarsi popolo: e soprattutto, della libertà.

Bergonzoni
http://tv.repubblica.it/edizione/bologna/duse-il-messaggio-di-bergonzoni/48457?video=&pagefrom=1&ref=HRESS-9

l’Unità 9.6.10
Tendenze Crescono le adesioni all’associazione dei partigiani soprattutto da parte degli under 30
Motivazioni Reagire alla «nuova barbarie», dicono molti. E ad Ancona la Festa: italiani di Costituzione
«Mi iscrivo all’Anpi perché...» La carica dei giovani partigiani
«Per mio nonno, mio padre, per il mio futuro». «Perché sono migrante». «Per oppormi alla deriva destrorsa». Una valanaga di nuovi iscritti all’Anpi. Quasi tutti giovani. Da tutta Italia e pure dall’estero.
di Gabriella Gallozzi

La proposta. Ai nuovi iscritti il nome di un partigiano per conservarne la memoria

Antifascista. Che bella parola. E soprattutto non sa di «marmellata», come il pensiero unico che sta invischiando il nostro presente. Dice subito da che parte si sta. Quella giusta. Quella che scelsero in tanti, oltre sessant’anni fa, pagando anche con la vita, per fare di questo paese un luogo di libertà e democrazia. Ripartiamo da qui.
Sono tanti, tantissimi e soprattutto giovani, infatti, i nuovi «antifascisti» che hanno scelto di essere «volontari per la democrazia» iscrivendosi all’Anpi, la storica associazione dei partigiani che, negli ultimi anni, ha aperto le porte anche a chi la Resistenza non l’ha vissuta. Un modo per passare il testimone alle nuove generazioni. Per continuare a far vivere la memoria, messa a rischio dalla scomparsa degli stessi protagonisti, oltre che dal violento revisionismo di regime. Una nuova Resistenza, dunque, alla quale si sono iscritti in oltre 110mila, almeno 20mila in più dell’anno scorso col titolo di «antifascisti», appunto. E che avrà il suo momento clou nella seconda Festa Nazionale dell’Anpi, dal 24 al 27 giugno ad Ancona: Italiani di Costituzione. Sul sito (www.anpifesta.org) stanno arrivando adesioni da tutta Italia e non solo. Mentre è continuo il flusso di richieste d’iscrizione all’Anpi. Chiedono come si fa, dove possono trovare la sede dell’Associazione. Ma soprattutto spiegano il perché. Cose «pratiche» come organizzare un’assemblea all’università di Teramo, per esempio, che chiede un ventitreenne per rispondere «alla violenza di squadristi fascisti» che hanno accoltellato tre giovani, nell’indifferenza collettiva. Oppure indignazione e «vergogna» per questa classe politica come scrive un cittadino di Salerno dopo aver ricevuto la lettera della Provincia in cui si dice che «i partigiani non hanno fatto nulla per liberare l’Italia dal nazi-fascismo. Ma sono stati gli americani».
I PIÙ GIOVANI
Tanti sono i ragazzi. C’è pure un quattordinenne che chiede un modo per mettersi «in contatto con qualcuno che mi racconti la sua Resistenza». Una ventottenne che «confessa» di aver scoperto l’esistenza dell’Anpi «guardando Annozero» e che desidera «confrontarsi con persone LIBERE, che riconoscono il valore della nostra COSTITUZIONE e intendono difenderla». Un trentenne, di Frosinone, che vorrebbe aprire lui una sede dell’Anpi perché «qui i ragazzi hanno preso una deriva destrorsa e fascistoide». Anche dall’estero sono tantissime le richieste. C’ è chi scrive dal Belgio, dalla Germania, dalla Spagna, dalla Svizzera. «Sono un’italiana “migrante”, figlia di migranti italiani», scrive Chiara, che chiede l’iscrizione perché «vorrei almeno dire a mio figlio di 6 anni che la mamma d’ora in poi cerca di dare un segnale, associandomi con persone giuste visto che da sola si combina poco». C’è poi chi lancia delle proposte per il futuro: «Sarebbe bello che quando qualcuno si iscrive suggerisce Giorgio gli venga affidato il nome di un partigiano così da prendere in carico la storia e la testimonianza del compagno che ci ha lasciato. Avremmo così tramandato alle nuove generazioni il ricordo e la storia di un uomo o una donna che non abbiamo conosciuto ma che ci ha liberato dal fascismo». E c’è ancora chi vorrebbe diventare «partigiano simpatizzante», come scrive un 54enne che vive a Bari: «è inutile stare a dire i motivi di questa scelta. Lo potrei fare per mio nonno, per mio padre, per mio zio, ma sono troppo vecchio per fare il romantico. E allora io dico: mi voglio iscrivere per me. Voglio in questo modo testimoniare il bisogno di appartenenza. O se vogliamo di assenza di figure e/o organizzazioni capaci di rappresentarmi». Desiderio di appartenenza, dunque. Andata delusa dall’universo politico. È questa la richiesta più sentita dai nuovi «antifascisti» che si raccolgono intorno all’Anpi. «Io e mio marito scrive una coppia custodiamo la gratitudine per tante donne e uomini che con il loro sacrificio ci hanno regalato la democrazia che persone indegne stanno cercando di toglierci. Abbiamo deciso di iscriverci all’Anpi per darvi forza. Crediamo che sia ora di una nuova resistenza contro la barbarie più sottile, ma non per questo meno pericolosa che pervade il nostro paese. Grazie per quello che fate».

l’Unità 9.6.10
Una rete per far vivere i luoghi
dell’antifascismo
Da Casa Cervi alla Risiera di San Sabba nasce un collegamento di siti in cui si è svolta la Storia. Per viaggiare dal vivo dentro il ‘900
di Mirco Zanoni

Il coordinamento dei luoghi della memoria in Italia è una sfida a cui sta lavorando da quasi due anni l’Istituto Alcide Cervi. Una rete di musei, memoriali, percorsi, centri di sensibilizzazione che hanno al centro la storia dell’antifascismo, della Resistenza, della deportazione, della guerra.
Non si tratta di luoghi muti, o semplici «pietre dolenti», lapidi di una stagione di sofferenza che ha costellato soprattutto il biennio 1943-45. Al contrario, lo sforzo che si sta mettendo in atto, a partire dalla Casa dei sette fratelli Cervi, è quella di creare una grande sinergia tra luoghi attivi di cultura, didattica, ricerca, turismo consapevole. Un’esperienza non dissimile a quella che è già presente in Paesi come Germania e Francia sugli stessi temi.
Andare a memoria è il seminario che si è svolto proprio presso il Museo Cervi di Gattatico (Reggio Emilia) il 4 e 5 giugno, in cui si è sancito l’inizio di questa rete. Insieme alla Fondazione Villa Emma di Nonantola e al Coordinamento Associazioni per Monte Sole, l’Istituto Cervi ha ribadito la nascita di Paesaggi della Memoria, attorno ad un primo nucleo forte di luoghi in tutta Italia (23 ad oggi) e incarnato in un manifesto o carta d’intenti che è possibile conoscere attraverso il sito www.fratellicervi.it. Questa rete si sta già allargando ad altri attori, specialmente nel centro Italia, costellata di esempi dei Campi di concentramento fascisti per slavi e dissidenti: la loro presenza ad «andare a memoria» pochi giorni fa, è il segno di una necessità avvertita da più parti, fare «massa critica» di un patrimonio (i luoghi, appunto) dove i cittadini possano toccare con mano la storia, incontrare ancora la memoria dei testimoni, approfondire con strumenti al passo coi tempi la conoscenza storica in Italia. Nella consapevolezza che, sulla memoria, chi si ferma è perduto. Andare a memoria, nel gioco di parole evocato, è anche un invito di moto a luogo verso la conoscenza di quegli anni.
Certo, un cammino impervio nei siti autentici della storia. Vicende locali ma assolute, familiari e collettive (Casa Cervi, Villa Emma), di stragi e di deportazione (Monte Sole-Marzabotto, S. Anna di Stazzema, Fossoli, Borgo San Dalmazzo...), che viste nel loro insieme danno la geografia della memoria.
I prossimi passaggi saranno quelli di sollecitare un ampliamento di Paesaggi della memoria, mentre si costruiranno strutture in grado di essere interlocutori all’altezza della sfida. Sollecitando le istituzioni in ogni modo: l’assessore alla cultura dell’Emilia Romagna Massimo Mezzetti ha preso impegni sul tema di legislazione di tutela dei luoghi. Così come già presente in Piemonte, regione costellata di luoghi della memoria e di storie di partigiani.
Come qualcuno ha scritto in questi giorni, si tratta di un’azione in controtendenza rispetto alla concezione della cultura vigente in questo Paese. Fare rete serve oggi a difendersi meglio dalla scure dei tagli.
La prossima sfida sarà quella di coinvolgere i grandi monumenti nazionali, irrinunciabili per questa rete. Le fosse Ardeatine, La Risiera di San Sabba, La Foiba di Basovizza. Mentre cresce la consapevolezza che senza questa mappa sensibile di relazione tra territorio e storia, fra cittadinanza e paesaggio umano, la storia complessa della seconda Guerra Mondiale rischia di essere una macchia indistinta (e incolore) sui libri di storia. Casa Cervi continuerà per parte sua a metter gambe, cuore e pensiero ad un progetto di cui va l’identità storica italiana.

Repubblica 9.6.10
Gaza, sì all´inchiesta sul blitz Ki-moon: "Sia indipendente"
GERUSALEMME Israele incaricherà una commissione d´inchiesta di valutare se il blocco marittimo di Gaza e il blitz lanciato il 31 maggio contro la "Freedom Flotilla" siano «conformi al diritto internazionale», ha detto ieri il ministro israeliano senza portafoglio Benny Begin, membro del gabinetto di Sicurezza. Manca però un annuncio ufficiale in attesa che il governo trovi un compromesso in grado di convincere gli Usa a bloccare la creazione di una commissione indipendente in seno all´Onu chiesta dalla Turchia. Lo stesso segretario generale dell´Onu Ban Ki-moon ha ribadito la necessità di una «partecipazione internazionale credibile» nell´inchiesta, considerata «un elemento essenziale» anche dal portavoce del Dipartimento di Stato americano Philip Crowley.

l’Unità 9.6.10
Intervista a Mairead Corrigan-Maguire
«Macché sconfitti. Ora Gaza è sotto gli occhi del mondo»
Un «lento genocidio». Nulla può giustificare quel che avviene nella Striscia. Quanto a noi, siamo stati vittime di un «rapimento collettivo»
La premio Nobel: mi appello a Obama, faccia tutto quello che può per evitare la guerra. Noi non ci arrendiamo, ritorneremo con altre navi
di Umberto De Giovannangeli

L'avevamo vista a distanza. Con un binocolo. Mentre la Marina militare israeliana «scortava» la “Rachel Corrie” nel porto di Ashdod dopo averla abbordata a largo della Striscia di Gaza. Per qualche secondo eravamo riusciti a stabilire un contatto telefonico: «Stiamo bene, non ci siamo arresi, vogliono liberarsi di noi più in fretta possibile...», poi la linea era caduta. Ma non era «caduta» la determinazione che ha sempre caratterizzato la sua azione, la sua vita, da Belfast al Medio Oriente. Una sfida di libertà. Quella di Mairead Corrigan-Maguire, Premio Nobel per la Pace 1976, una delle animatrici del «Free Gaza Movement». Ora che ha fatto rientro forzato a Dublino, riusciamo a ristabilire quel contatto interrotto ad Ashdod. Mairead è stanca, provata, ma non rinuncia ai mille impegni in agenda, ai quali strappa qualche minuto per l'Unità. «Voi dice avevate continuato a denunciare quel criminale embargo quando Gaza sembrava non fare più notizia..». Quando le chiediamo come definirebbe ciò che è accaduto a lei e agli attivisti della «Freedom Flotilla», Maguire non ha un attimo di esitazione: «Siamo stati vittime di un rapimento collettivo in acque internazionali. Quello che sta avvenendo a Gaza denuncia è un lento genocidio del popolo palestinese».
Qual è il sentimento prevalente dopo ciò che ha vissuto e subito a largo di Gaza? «Rabbia. Dolore. Indignazione. Ma anche orgoglio e fierezza per ciò che tutti assieme abbiamo portato avanti. Come vede, è un insieme di sensazioni forti, e non poteva essere altrimenti. Ricordo la nostra ultima conversazione: avevamo parlato di Gaza, della sofferenza della sua gente, di una punizione collettiva atroce, contraria a ogni codice etico, oltre che ad ogni norma del Diritto umanitario e alla quarta Convenzione di Ginevra, articolo 33. Ma le parole non bastano più. Occorre dimostrare una solidarietà concreta verso quel popolo. Abbiamo cercato di passare dalle parole ai fatti. Pagandone un prezzo atroce. Ma l'abbiamo fatto e lo rivendichiamo a testa alta...». C'è chi parla di voi della “Freedom Flotilla” come di “sconfitti”...
«Solo chi è imbevuto di una cultura militarista rafforzata da un'altra non meno deleteria cultura, quella dell'impunità, ed è abituato a pensare in termini di rapporti di forza può rivendicare quel crimine. È vero, non siamo riusciti nel nostro obiettivo primario, che era quello di far arrivare alla gente di Gaza gli aiuti umanitari. Quando siamo stati rapiti, perché di ciò si è trattato, dalla Marina israeliana e condotti a forza ad Ashdod, eravamo tristi per non aver raggiunto il nostro obiettivo e pieni di dolore per chi aveva perso la vita. Avevamo generato speranza nella gente di Gaza, la loro delusione era anche la nostra delusione...Ma poi, ci siamo detti che qualcosa d'importante era avvenuto: Gaza e il suo assedio che dura da tre anni erano tornati al centro dell'attenzione mondiale. Su quella prigione a cielo aperto e sui suoi carcerieri erano tornati ad accendersi i riflettori. Nessuno poteva e può dire ancora: non sapevo, non ho visto. Tutti sono chiamati a prendere posizione. E alla gente di
Gaza che ci aspettava per festeggiare, dico una cosa sola: ci riproveremo. Presto». E ai Grandi della Terra cosa si sente di dire, quale appello lancia? «L'embargo non è solo un crimine contro l'umanità. È anche la via per trascinare l'intero Medio Oriente in una nuova, devastante guerra. È tempo di agire. In particolare mi sento di rivolgere un appello al presidente Obama, con cui ho l'onore di condividere un Premio che è anche un impegno di vita: il Nobel per la Pace. Al presidente Obama chiedo di di fare tutto quello che è in suo potere, ed e molto, perché sia posto fine all'assedio per terra, mare ed aria di Gaza. La forza non crea giustizia, non rende più sicuri, ma alimenta solo desiderio di vendetta. È ciò che Israele dovrebbe capire».
Israele continua ad opporsi ad una commissione d'inchiesta internazionale che faccia luce sul blitz sanguinoso contro la “Mava Marmaris”...
«Le autorità israeliane continuano a sentirsi al di sopra della legalità internazionale. Un atteggiamento che dura da troppo tempo. Se ciò è avvenuto è per le coperture internazionali su cui Israele ha potuto contare. Legalità e Giustizia sono parole che devono ritrovare un senso là dove sono state calpestate: a Gaza».
Israele giustifica il blocco di Gaza come difesa da Hamas... «Hamas ha vinto elezioni democratiche nel 2006 e da quel momento è iniziata la politica draconiana di Israele. Resta il fatto che non c'è diritto di difesa che possa minimamente giustificare il lento genocidio del popolo palestinese che si sta consumando a Gaza».
Sullo sfondo sentiamo le voci degli assistenti che richiamano Mairead Maguire ai suoi impegni. Il tempo di un saluto. E di una promessa: «La prossima volta dice la Nobel irlandese ci vedremo a Gaza. Per festeggiare la fine dell'embargo».

Repubblica 9.6.10
La supremazia del cupolone
di Salvatore Settis

Che cosa fare per salvare la campagna romana dalle colate di cemento, dall´assedio delle periferie (che l´etichetta ipocrita di «centralità» non salva dallo squallore e dal degrado)?
Il Sindaco Alemanno ha una sua ricetta: per «fermare la crescita a macchia d´olio» occorre «rompere i tabù», abolire l´antico vincolo per cui nulla nel territorio comunale può superare l´altezza della cupola di San Pietro. «Densificare la periferia», costruendo grattacieli «come l´Eurosky dell´Eur, che sarà l´edificio residenziale più alto d´Italia». Anzi, «demolire le periferie e ricostruirle», «densificando»: una Roma di grattacieli «accanto al centro storico più importante al mondo».
Diagnosi giusta, ricetta sbagliata. L´orrido urban sprawl che assedia non solo Roma, ma tutte le nostre città, va contrastato mediante nuove politiche dell´abitare, con una gestione del paesaggio conforme alla tradizione (e alla Costituzione), abbattendo e riqualificando. Rivoluzione che non si compie in una notte, ma presupporrebbe il diffondersi di una cultura urbanistica e architettonica meno sgangherata di quella che sta divorando un Bel Paese sempre meno meritevole di tal nome. Richiederebbe il rispetto delle regole, a cominciare da un Codice dei Beni Culturali che è quanto di più bipartisan si possa immaginare (portando le firme dei ministri Urbani, Buttiglione, Rutelli), ma che tutti s´industriano a dilazionare, modificare, aggirare con deroghe, o francamente a ignorare. Esigerebbe legioni di architetti meglio attrezzati, di assessori meno proni al volere d´ogni palazzinaro, di cittadini capaci d´indignarsi. Nell´orizzonte italiano (e non solo di Roma) io non vedo l´alba di questa nuova consapevolezza, né il tentativo di crearla, agendo (per esempio) nelle scuole, facendo di questi temi uno dei centri della discussione politica, coinvolgendo nella discussione i cittadini, le associazioni per la tutela e per l´ambiente.
Vi fu un tempo, specialmente in Italia, in cui la costruzione della città implicava, per scelta civile ma anche per tensione etica e politica, un atto consapevole di auto-limitazione. Il principio era uno e uno solo: il bene comune, con l´intesa (che non ebbe mai bisogno di argomenti, perché non aveva avversari che osassero fiatare) che esso doveva coincidere con la bellezza e l´ornamento della città. Il Costituto di Siena del 1309 dice espressamente che «intra li studii et solicitudini è quali procurare si debiano per coloro, che hanno ad intendere al governamento de la città, è quello massimamente che s´intenda a la bellezza della città», perchè la città --continua-dev´ essere «onorevolmente dotata et guernita», tanto «per cagione di diletto et allegrezza» ai forestieri quanto «per onore, prosperità et accrescimento de la città et de´ cittadini di Siena». Gli Statuti comunali (ma anche quelli delle città regie, per esempio di Sicilia) prescrissero per secoli gli stessi principi in tutta quella che oggi si chiama Italia, e con buona pace della Lega si chiamava così anche allora: bellezza, decoro, ornamento, dignità, onore pubblico sono le parole martellate dalle Alpi alla Sicilia, alla Sardegna. Per secoli. Al privato che rivendicava i propri diritti di proprietà, sempre si rispose che ogni interesse del singolo dev´esser sovrastato dal pubblico bene, e si ricorse alla nozione giuridica di publica utilitas fondandola sopra la tradizione del diritto romano. A Roma Gregorio XIII, nella costituzione apostolica Quae publice utilia et decora (1574), proclamò sin dalle prime righe l´assoluta priorità del bene e del decoro pubblico sulle cupiditates e sui commoda [interessi, profitti] dei privati, e sottopose a rigoroso controllo l´attività edilizia di tutti i privati (anche gli ecclesiastici, anche i cardinali).
Non vi fu, allora, un Berlusconi che al grido di «padroni in casa propria!» accusasse quel Pontefice di cripto-comunismo. Ma l´urban sprawl che ci affligge, e che giustamente Alemanno denuncia e vuole arrestare, è figlio del tramonto del pubblico bene, e del trionfo degli interessi del singolo. Le periferie-centralità che si sono insediate fra gli acquedotti dell´antica Roma, fra le tombe e le ville dei Cesari, da questo nacquero: dietro ogni orrore c´è un cedimento (per non dir complicità) delle amministrazioni capitoline, una genuflessione davanti ai vantati diritti del privato, un´offesa a due millenni di priorità del bene pubblico sulla cupiditas privata. Di quelle scelte Alemanno non ha colpa: ma i suoi grattacieli, che pretendono di essere l´opposto dell´urban sprawl, sono più probabilmente il rilancio e la legittimazione di una crescita periurbana tanto più disordinata quanto più «densificata».
In molte città d´Italia si scelse per secoli il monumento-simbolo che servisse da esaltazione dello skyline : a Siena fu la Torre del Mangia, a Modena la Ghirlandina, a Roma la cupola di San Pietro. Misure convenzionali, certo, ma altamente simboliche di un´etica del self-restraint, di un´idea della città unitaria, compatta, dotata di memoria, di un´anima. Capace di pensare se stessa. Quello che Alemanno chiama «tabù» fu in vrità proprio il contrario: una scelta meditata, misurata, consapevole, ricca non solo di storia o di memoria, ma di quella che potrebbe chiamarsi la modellazione del futuro. L´idea era semplice: conservare lo spirito della forma urbis imperniandola su moduli-base di crescita. Costringere l´architetto (anche il più grande) entro regole di rispetto della memoria storica, così come il poeta (anche il più grande) deve comporre i suoi versi secondo misure prestabilite. Creare per i nostri figli un´armonia che somigli a quella che abbiamo ricevuto dai nostri padri.
Vedremo a che cosa somiglieranno i grattacieli proposti da Alemanno, e in che cosa sapranno distinguersi dalle architetture in genere scellerate che infestano quello che fu l´agro romano. Vedremo se essi tracceranno una nuova forma urbana, o saranno una corona di spine che assedia, o crocifigge, il centro storico «più importante al mondo». Vedremo se sapranno rimediare a quella indeterminata e incessante espansione delle periferie ai danni dell´ambiente naturale e storico, sempre più marcatamente dissolto nella confusione di una disordinata megalopoli; o se, al contrario, ne aggraveranno i problemi proprio col «densificarla». Lo vedranno, prima di tutto, i romani, se –come Alemanno promette-saranno chiamati a una consultazione popolare. Ma con quali informazioni? Con quale cultura urbanistica e architettonica? Con quale senso del bene comune?



Repubblica 9.6.10
Parla l’architetto Franco Purini autore del progetto della torre Eurosky
"Meno spazio e più funzionalità è questa l´urbanistica del futuro"

«Ma cosa c´entra la cupola di San Pietro? È tempo che anche Roma sperimenti questo tipo di costruzioni che, del resto, esistono da decenni nel mondo intero». Franco Purini, classe 1941, allievo di Ludovico Quaroni e collaboratore di Vittorio Gregotti, è l´autore del progetto dell´Eurosky Tower, in costruzione a sud della Capitale che, con i suoi 120 metri, sarà l´edificio residenziale più alto d´Italia.
A che punto è il cantiere?
«Siamo alla posa delle fondamenta; fra un paio di mesi si comincerà a veder qualcosa. Ma fra due anni si potrà essere invitati a cena da qualcuno che abita lì».
Roma non è mai cresciuta "in verticale". Perché farlo ora?
«Anzitutto per le potenzialità di efficienza di questo nuovo tipo di edifici che consentono risparmio di spazio e funzionalità altrove impensabili, come pannelli fotovoltaici o riciclo delle acque piovane. E poi per dare un segno architettonico che offrirà una percezione diversa, in questo caso, degli edifici dell´Eur».
Qual è il valore simbolico di una crescita verso l´alto?
«Un valore immenso: quello dell´eterna aspirazione dell´uomo a ricongiungersi con qualcosa di alto. Considero lo slancio verso l´alto un segno di vitalità, di ottimismo e mi sembra che così facendo Roma possa guardare al futuro». (f. gi.)

Repubblica 9.6.10
L’amore malato
di Michela Marzano

L´attesa di un bambino può essere vissuta come una soluzione magica a ogni problema, capace di far ritrovare l´armonia a una coppia

ANNARITA Buonocore era stata incinta davvero. Ma non aveva avuto il coraggio di dire al padre del bambino che un aborto naturale aveva posto termine al suo sogno di diventare nuovamente madre. Il "coraggio" lo ha trovato più tardi, quando ha deciso di rapire il piccolo Luca Cioffi per simulare il parto.
Per illudersi, anche solo per pochi istanti, di aver messo al mondo un bimbo. Interrogata ieri mattina dagli inquirenti, confessa di aver agito per amore, per dimostrare al compagno di aver avuto un bambino. «Ama e fa´ ciò che vuoi» diceva Sant´Agostino. Ma di quale amore stiamo parlando? Si può veramente giustificare tutto nel nome dell´amore, anche quando si è pronti a sottrarre ad una madre il figlio appena nato?
L´amore è spesso cieco. Nel desiderio ardente di essere uniti anima e corpo all´essere amato, si è talvolta spinti ad agire in modo irrazionale, a compiere l´irreparabile. Si è tentati di pensare che la felicità consista nell´entrare in fusione con l´altra persona, a scomparire all´interno di un´unione indistinta in cui non si sa più bene chi è l´uno e chi è l´altro. Al punto di strumentalizzare anche una gravidanza, come se un bambino potesse essere la traccia indelebile di un amore eterno. Nel momento stesso in cui un bimbo viene mondo, però, non è più solo il frutto di un incontro, la prova che due persone, «prima di essere riunite non erano niente», come scrive il filosofo Gaston Bachelard, ma un´altra persona, una creatura che ha certo bisogno dell´affetto e dell´attenzione dei propri genitori per crescere in modo equilibrato, ma che deve anche poter essere riconosciuto come "altro" rispetto all´amore dei genitori, "altro" rispetto ad un semplice oggetto di cui ci si può impossessare. Non è forse quello che Annarita Buonocore ha dimenticato (più o meno consapevolmente, perché talvolta il nostro inconscio ci gioca dei brutti scherzi) quando ha rapito il piccolo Luca? Obnubilata dall´amore per il compagno e dalla tristezza di aver abortito, questa donna di 42 anni non si è forse illusa di poter ricorrere ad un "sostituto", di poter fare "come se" Luca fosse suo figlio?
Quando è incinta, una donna instaura spesso con la creatura che comincia a svilupparsi all´interno del proprio corpo un dialogo silenzioso. La gravidanza è sempre una forma di "irruzione" nella vita di una donna. Ma quando il bimbo che si porta in grembo viene caricato di aspettative, questa irruzione assume un significato molto particolare. L´attesa del futuro bambino può essere vissuta come una soluzione magica ad ogni problema. Il figlio che si aspetta può trasformarsi nella prova tangibile dell´amore tra due persone, può diventare un "oggetto immaginario" capace di permettere ad una coppia di trovare l´armonia, ad una madre di non sentirsi più "incompleta". Ma l´amore per un figlio non può mai essere egoista. A meno di non considerare un figlio come un semplice oggetto. Non è un caso che nella Bibbia, nel famoso passaggio che racconta il "giudizio di Salomone", e che sancisce definitivamente la capacità data al re di "distinguere il bene dal male", Salomone si trova proprio di fronte a due donne che rivendicano lo stesso bambino. Il bambino rappresenta per le due donne l´insegna della maternità. Tutte e due lo vogliono e chiedono al re di fare giustizia. Nessuna delle due sembra disposta a rinunciare al "possesso" di questo bene così prezioso. Ecco allora che Salomone ricorre ad uno stratagemma: facendosi portare una spada, propone di "tagliare a metà" il bimbo per darne una parte a ciascuna. Solo la vera madre, però, implora Salomone di affidare il figlio all´altra donna. Preferisce "perderlo" piuttosto che vederlo morire.
Quando Annalisa Fortunato, la vera madre del piccolo Luca, ha potuto riabbracciare suo figlio, le prime parole che ha pronunciato sono state per Annarita Buonocore. Felice di aver ritrovato Luca sano e salvo, dice di perdonare questa donna, di non odiarla e di capire la sua sofferenza. Un atto d´amore. Perché l´amore è anche (e forse soprattutto) questo: evitare di giudicare un´altra donna pronta a rapire un bambino per colmare il proprio vuoto. Anche se impossessarsi del figlio di un´altra persona, voler simulare il parto e mostrare all´amante il frutto del proprio amore resta un atto incomprensibile che non ha più niente a che vedere con l´amore.



Repubblica 9.6.10
Il falco comunista
Dashiell Hammett a Mccarthy "Non rispondo"
di Irene Bignardi

"Non permetto ai poliziotti o ai giudici di dirmi come deve essere il mio concetto di democrazia" disse alla moglie la scrittrice Lillian Hellman
"Non crede che l´opinione pubblica la condannerà se si rifiuta di rispondere?" "Non è l’opinione pubblica ad avermi messo sei mesi in prigione"

Cinque romanzi, cinquanta racconti, tre processi, sei mesi di carcere, un grande amore durato trent´anni, e un lungo silenzio durato quasi altrettanto. Sono le cifre della vita di Dashiell Hammett, l´ex detective della Pinkerton, l´autore di Il falco maltese, il creatore di Sam Spade, che tanto gli assomiglia, il papà di Nick e Nora de L´uomo ombra. Colui che, secondo l´altro dioscuro del noir, Raymond Chandler, «ha fatto uscire il delitto dal vaso di vetro e l´ha fatto cadere nella strada». Lo scrittore che, secondo il suo lettore André Gide, «aveva qualcosa da insegnare a Hemingway e allo stesso Faulkner». Lo "stylish drunk", l´ubriacone di classe che, secondo la sua compagna Lillian Hellman, era «la cosa più bella che io abbia mai visto, quella linea d´uomo, una lama per naso», «un santo peccatore di Dostoevskij». Colui che, simpatizzante comunista negli anni ´30, militante e attivista dalla campagna per i diritti civili dei neri alla lotta contro il franchismo e il nazismo, arruolatosi a quarantotto anni per combattere in guerra nonostante la sua malconcia salute, nel dopoguerra della caccia alle streghe maccartista fu preso di mira con ben tre processi, insieme ad altri amministratori del Fondo Cauzioni del Civil Rights Congress, che forniva assistenza legale per i processi di natura politica. E colui che, fedele al suo temperamento e alle sue scelte di lealtà («Non permetto a sbirri e a giudici di dirmi quale deve essere il mio concetto di democrazia», disse a Lillian Hellman, che il giorno del primo processo gli suggeriva di dire quello che sapeva e non sapeva) non parlò, pensando che la griglia del silenzio assoluto era la forma più dignitosa ed efficace per proteggere se stesso e gli altri dall´ondata dell´isteria maccartista.
Di questo silenzio ci parlano gli atti delle tre testimonianze rese da Dashiell Hammett. Quella del 9 luglio 1951 davanti al giudice Sylvester Ryan della Corte d´Appello del II distretto di New York. Quella, inedita, del 24 marzo 1953, a porte chiuse, davanti alla Sottocommissione permanente di indagine della Commissione senatoriale sulle operazioni governative. E quella del 26 marzo 1953, nell´udienza pubblica della medesima Sottocommissione, ma questa volta con in scena lo stesso McCarthy, che campeggia di spalle, mano alzata nell´atto del giuramento, incorniciando l´asciutta figura e i capelli bianchi di Dashiell Hammett, nella copertina del piccolo volume (Mi rifiuto di rispondere, Archinto, pagg. 88, euro 12) in cui sono raccolte le tre testimonianze.
«Mi rifiuto di rispondere, perché la mia risposta potrebbe essere usata contro di me», risponde pacato Dashiell Hammett alle domande del giudice che, chiedendogli del Fondo Cauzioni di cui Hammett è stato presidente, cerca di arrivare a una mappa dei nomi dei suoi incolpevoli compagni "comunisti". E, come osserva Gianrico Carofiglio nella prefazione del volumetto, il suo «Mi rifiuto di rispondere», così ritmato e lontano, sembra un´eco del «preferirei di no», della «cocciuta, incrollabile determinazione» di Bartleby lo scrivano. Con la non piccola differenza che quello del Bartleby di Melville è un rifiuto nevrotico, il cupio dissolvi di un inconciliabile. Il «Mi rifiuto di rispondere» di Hammett, con tutto il rispetto per il Quinto Emendamento continuamente invocato – quello che garantisce a ogni cittadino il diritto di rifiutarsi di testimoniare contro se stesso in un processo penale –, è una strategia rischiosa e coraggiosa, che non per nulla lo spedisce in carcere per sei mesi. Un rifiuto etico e politico. A vederli in scena, questi testi, con i giudici e i vari senatori della Commissione d´inchiesta che si affannano a tessere la loro tela di accuse attraverso domande che circoscrivono il terreno a cui vogliono arrivare. E la freddezza pacata ma martellante dei «Mi rifiuto di rispondere» di Hammett.
Sempre la stessa risposta. Salvo alcune sue battute fulminanti.
«A questo so rispondere. Sono due lettere», concede Hammett quando gli chiedono che cosa siano quei due caratteri, D. H., su un documento che proverebbe il suo coinvolgimento, tramite la sua sigla (che sua infatti è), nelle operazioni del Civil Rights Congress. La risposta gli costa una condanna a sei mesi per oltraggio alla corte. O, due anni dopo, la sua risposta al Senatore McClellan, quando questi gli chiede se non ritiene che il suo rifiuto di parlare sia un atto di volontaria autoincriminazione davanti al tribunale della pubblica opinione. «Non è stato il tribunale della pubblica opinione a condannarmi a sei mesi di carcere». Anche per questa battuta sarà punito: lo perseguitano con 100.000 dollari di tasse arretrate, i suoi libri vengono tolti dalle biblioteche.
Siamo nel 1953. L´ultimo libro pubblicato da Hammett in vita è del ´34. In ritiro tra la sua casa di Katonah, N. Y., e quella dell´amata Lillian a Martha´s Vineyard, legge Dracula e Engels davanti alla tre macchine per scrivere che conserva in ricordo dei tempi in cui era uno scrittore. Il silenzio, anche quello creativo, è diventato parte della sua esistenza e del suo stile, e continuerà a farne parte fino al 10 gennaio del ´61, quando "Dash", a sessantasette anni, se ne andrà per sempre. E a poco a poco la sua vita diventa una leggenda americana, e "Dash" un personaggio di culto. Da autore di genere diventa Grande Scrittore, e condivide gli scaffali con i classici americani. Joe Gores ne fa un personaggio di romanzo. Wenders ne fa un personaggio cinematografico. Lillian Hellman ne fa il ritratto in piedi di un uomo unico e straordinario, fedele a chi ama, fedele alle cose in cui crede.

Repubblica 9.6.10
Lo sguardo di Galileo
di Laura Montanari

Rinnovando gli spazi abbiamo reinventato i percorsi, valorizzato gli oggetti, mostrandoli da diverse prospettive, cercando di stimolare la curiosità di chi guarda
Il museo di Storia della Scienza diFirenze riapre dopo un lungo restauro e prende il nome del grande genio. Nuovo anche l´allestimento che esalta un modo più moderno per vedere (e raccontare) gli strumenti e il sapere scientifico

È una trasformazione radicale quella che comincia dal nome: non più museo di Storia della scienza, ma dall´11 giugno, museo Galileo. Una dedica che riconosce la centralità dello scienziato pisano nel cammino della conoscenza e nel quattrocentesimo anniversario del Sidereus Nuncius. Del resto qui, a palazzo Castellani, a Firenze, sono custoditi i gioielli di quel sapere che ha segnato la sfida galileiana, gli unici arrivati fino a noi: due cannocchiali e la lente che ha rivelato al mondo i satelliti di Giove.
Sono stati necessari due anni di lavori per riconsegnare diciotto sale, nuovi allestimenti e un museo di respiro internazionale, completamente ripensato nella geografia interna, moderno e capace di offrire anche videoguide multimediali profilate a seconda degli interessi, dell´età (bambino o adulto) e del tempo a disposizione del visitatore. Questa sorta di tutor interattivo (si affitta all´ingresso a 5 euro), è un apparecchio portatile utilizzato per la prima volta nei musei europei, capace di leggere il luogo in cui si trova il visitatore e in grado di resettarsi sulla vetrina e sugli oggetti in esposizione per offrire un menù di informazioni, filmati e animazioni calibrate sugli interessi di chi guarda.
La collezione degli strumenti scientifici, spina dorsale del museo Galileo, rilegge un pezzo di storia di quella Toscana che, ai tempi dei Medici e dei Lorena, era stata non solo capitale dell´arte ma anche centro di eccellenza nelle scienze. Ogni macchina è un lampo nel buio, la conquista di un frammento del sapere: il cannocchiale, il telescopio, il barometro, l´igrometro, l´astrolabio, il primo termometro da polso, i primi orologi. In ogni stanza di palazzo Castellani grandi affacci sull´Arno si capisce la fatica di chi nei secoli ha camminato a tentoni, ma anche l´entusiasmo e lo stupore di quelli che con la matematica, la chimica e la fisica, la medicina hanno cercato di leggere meglio il posto dove siamo e le leggi complesse che lo regolano. è stata necessaria la parziale chiusura del museo anche se le attività espositive e quelle di ricerca dell´istituto sono andate avanti, e un investimento di otto milioni di euro, per rigenerare questa straordinaria collezione, unica al mondo, composta da mille fra strumenti e apparati scientifici. Si può vedere ripulita e coi colori vivi delle sue pitture la celebre sfera armillare di Antonio Santucci (XVI secolo) che illustra il cosmo tolemaico. O i restaurati e finalmente leggibili in tutte le loro sfumature globi celesti e terrestri di Vincenzo Coronelli. In occasione della nuova apertura che cade fra l´altro a 80 anni dalla fondazione vengono esposti anche i resti di Galileo (due dita e un dente), scomparsi da oltre un secolo e ritrovati da due collezionisti fiorentini. Si trovano nella sala (VII) al primo piano, assieme al terzo dito dello scienziato già conservato nel museo. I reperti erano stati prelevati nel 1737 quando la salma di Galileo fu riesumata per essere trasferita nel sepolcro monumentale della chiesa di Santa Croce. «Abbiamo reinventato i percorsi per stimolare al massimo la curiosità di chi guarda spiega l´architetto Marco Magni -, cercato di valorizzare gli oggetti e mostrarli da diverse prospettive». Si può, per esempio, girare intorno al banco di chimica del granduca Pietro Leopoldo o osservare gli astrolabi che ruotano di 360 gradi. Diverse sale inoltre sono attrezzate con schermi piatti su cui passano video e dimostrazioni che aiutano a capire il tempo di quegli strumenti che hanno segnato le tappe di un cammino arrivato fino a noi e mai finito.

Avvenire 9.6.10
Neuroscienze/1
Un saggio indaga i paradossi, che già si fanno strada nelle aule giudiziarie, nati dal voler ridurre ogni scelta a combinazioni chimiche del cervello
Ma nel Dna la mente non c’è
di Gabriella Sartori

«I geni determinano solo le linee generali delle strutture cerebrali: ma poi cellule e collegamenti nervose si plasmano secondo gli impulsi ricevuti dall’ambiente Anche prima della nascita» Parla lo studioso Filippo Tempia

«Noi siamo il nostro D­na ». O anche: «Oggi l’uomo non può più considerarsi capace di libere deci­sioni ». Sono affermazioni di uso cor­rente che qualcuno vorrebbe far passare per “scientifiche”. Invece so­no veri e propri “miti” secondo Fi­lippo Tempia, neuroscienziato, do­cente all’Università di Torino, mem­bro dell’istituto scientifico della fon­dazione Cavalieri-Ottolenghi e del­­l’Istituto nazionale di Neuroscienze in Italia che ne ha parlato di recen­te in una seguitissima lezione tenu­ta al Centro Studi biblici di Sacile (Pordenone), all’interno del ciclo “Scienza e Bibbia”.

Si sente spesso dire che noi siamo il nostro Dna, che il cervello è “co­struito” a partire dalle istruzioni contenute nel Dna e quindi non può essere un soggetto libero. Che cosa ci può essere di vero?

«Affermare che 'noi siamo il nostro Dna' equivale a identificare l’intero essere umano con le informazioni genetiche che sono alla base del suo sviluppo e del suo funzionamento. Dato che il cervello viene “costruito” a partire dalle istruzioni contenute nel Dna, si dice, esso sarebbe pre­determinato dalle informazioni ge­netiche e quindi non potrebbe es­sere considerato un soggetto libero. Non è così. Innanzitutto il genoma umano comprende circa veniquat­tromila geni. Questo numero sem­bra abbastanza grande, anche se è molto simile a quello del topo ed è poco più di quello del moscerino e del vermetto caenorhabditis elegans ,

che è stato il primo animale a cui è stato sequenziato tutto il Dna. In o­gni caso, per capire quante informazio­ni i geni posso­no contene­re, biso­gna co­me minimo paragonare il loro nu­mero con l’organismo che essi de­vono codificare. Il solo encefalo u­mano è costituito da circa ottanta­sei miliardi di cellule nervose, i neu­roni: è chiaro che con ventiquattro­mila geni è impossibile codificare le proprietà di ottantasei miliardi di neuroni: per ogni gene abbiamo tre milioni e mezzo di neuroni. Non ba­sta. La realtà del sistema nervoso u­mano è ancora più complessa, per­ché la vera unità funzionale è il con­tatto, detto sinapsi, che permette la trasmissione di segnali tra una cel­lula nervosa e l’altra. I neuroni rice­vono e trasmettono segnali da mol­ti contatti sinaptici. Ognuno dei neuroni principali della corteccia cerebrale riceve circa diecimila si­napsi. Quindi, l’intera rete di con­nessioni consta di un numero enor­me di sinapsi, stimato in poco me­no di un milione di miliardi. Di con­seguenza, i geni possono solamen­te specificare le linee generali che guidano lo sviluppo delle strutture nervose e delle loro connessioni. Lo stesso identico Dna non potrà per­mettere la costruzione due encefali perfettamente identici. Nello svi­luppo del sistema nervoso entrano in gioco molti altri fattori, come l’in­terazione di ogni cellula con il mi­croambiente in cui si trova e so­prattutto come i segnali elettrici e chimici ricevuti da altre cellule. I se­gnali nervosi importanti per la for­mazione delle strutture encefaliche provengono in gran parte dall’am­biente esterno. Quindi, si può con­siderare che la propria storia perso­nale, unica e irripetibile, inizi molto prima che il soggetto acquisti la co­scienza di esistere. Si potrebbe af­fermare che il nostro stesso corpo è plasmato dall’insieme delle espe­rienze sensoriali che agiscono sul si­stema nervoso da prima della na­scita ».

Si dice anche che quando decidia­mo “liberamente” in realtà è il no­stro cervello che decide, la libertà non esiste ma è solo una illusione...

«Chi sostiene questa posizione ne­ga qualunque efficacia all’attività mentale. La mente sarebbe un pro­dotto del cervello, come una secre­zione è il prodotto di una ghiando­la. L’assurdità di questa posizione è evidente se consideriamo che noi possiamo coscientemente dirigere non solo le nostre azioni, ma anche i nostri pensieri. Addirittura sogget­ti che erano diagnosticati come in stato vegetativo sono riusciti a diri­gere i propri pensieri secondo le ri­chieste del medico. Le diverse atti­vazioni cerebrali correlate con tali pensieri sono state registrate me­diante la risonanza magnetica nucleare funzionale, nono­stante l’impossibilità dei soggetti di comunicare in qualsiasi modo».

E come si comporta quando siamo chia­mati ad esprimerci su ciò che è bel­lo o brutto, buono o cattivo? È il cer­vello che, con la sua attività, formula i giudizi estetici e i giudizi morali?

«I giudizi estetici e morali sono con­siderati esclusivi dell’uomo. Anche in questo campo le neuroscienze stanno mostrando quali aree cerebrali si attivano in modo specifico per o­gni determinato tipo di giudizio. Una lettu­ra superficiale porta alla concezione che, ancora una volta, sia il cervello l’unico vero autore anche di questi pensieri e del­le conseguenti decisioni. Tuttavia, anche in questo caso si può dimo­strare che i giudizi estetici e morali necessitano della coscienza del sog­getto e che sono di natura intenzio­nale e non spontanea. L’attività mentale, che non è misurabile né vi­sualizzabile con strumenti anche so­fisticati, è sempre associata all’atti­vità cerebrale: ma non c’è alcuna di­mostrazione che il cervello da solo, sen­za l’attività mentale, possa eseguire gli stes­si compiti che sono re­si possibili dall’attività cosciente. Natural­mente, il cervello può svolgere molte funzio­ni in modo non-con­scio o non accessibile alla coscienza. Ma, quando que­st’ultima è presente, i pensieri, i sen­timenti, le decisioni sono chiara­mente diretti dall’insieme del cer­vello e dell’attività mentale coscien­te.

L’affermazione che quest’ultima non ha efficacia nel guidare i nostri pensieri, sentimenti e decisioni è un dogma del tutto arbitrario e scienti­ficamente infondato. Rimane quin­di aperta la questione della libertà dell’uomo nelle scelte estetiche e morali. Tuttavia, credo che qualco­sa in più si possa e si debba affer­mare, partendo dalla constatazione dell’esistenza dell’attività mentale in ogni decisione cosciente. Infatti, è innegabile che in ogni scelta co­sciente, la coscienza stessa sia uno degli attori in gioco, perché non è possibile negare un’efficacia dell’at­tività mentale cosciente nel dirige­re i pensieri e i ragionamenti. Dato che il soggetto può coscientemente dirigere il ragionamento e decidere il risultato finale, tale risultato non può essere una conseguenza obbli­gata dell’elaborazione delle infor­mazioni acquisite. Infine, assumen­do un ruolo attivo della mente, ci si può chiedere chi sia il soggetto che ragiona e formula i giudizi. Certa­mente non il solo cervello, perché è presente anche l’attività mentale. Ma ugualmente non la sola mente, perché ogni aspetto dell’attività mentale ha un correlato cerebrale. Il soggetto che ragiona e formula i giu­dizi estetici e morali non può quin­di essere altro che il cervello co­sciente, con aspetti fisici e men­tali inseparabili. Dato che l’a­spetto materiale dell’uomo non è limitato al solo cervello, ma comprende l’intero corpo, la de­finizione più appropriata del sog­getto degli atti liberi è l’ “io coscien­te” ».

Avvenire 9.6.10
Neuroscienze/2
Nei tribunali il determinismo rende tutti irresponsabili
di Andrea Galli

Herbert Weinstein, un manager americano, fu accusato di aver strangolato la moglie e di averla gettata dal dodicesimo piano del loro appartamento di Manhattan, simulando un suicidio. Nel processo che si svolse nel 1992, il suo avvocato sostenne che una cisti che premeva sulla membrana aracnoide del suo assistito gli provocava una menomazione mentale, rendendolo non responsabile della propria condotta. Il giudice permise che si portasse in aula l’esito di un esame di neuro-immagine.
Il procuratore, nella paura che ciò potesse compromettere l’impianto accusatorio, accettò di patteggiare.

Sempre negli Usa, nel verdetto del 2005 con cui la Corte suprema giudicò incostituzionale la pena di morte per i minorenni, nel parere scientifico sottoposto ai nove giudici da Raquel Gur, neuropsichiatra dell’Università della Pennsylvania, sia faceva notare come gli adolescenti non fossero in grado di controllare pienamente i propri impulsi perché i neuroni della corteccia prefrontale raggiungono solo verso i vent’anni il loro pieno sviluppo. Parere che probabilmente pesò sulla decisione della Corte. Ancora e più recentemente, ossia nove mesi fa, è stata una sentenza della Corte d’assise di Trieste ad accordare, prima in Europa, una riduzione di pena ad un condannato per omicidio, anche perché la perizia disposta dalla difesa aveva dimostrato un profilo cromosomico alterato e suscettibile di indurre alla violenza sotto specifiche circostanze esistenziali. Questi esempi, citati da Andrea Lavazza, studioso di scienza cognitive e giornalista di 'Avvenire', e Luca Sammicheli, psicologo forense, sono un buono spunto per riflettere sull’impatto – sempre più attuale, non solo potenziale – delle neuroscienze su un pilastro dell’ordinamento sociale: il diritto. Diritto che, per come ci è stato consegnato nella plurisecolare elaborazione che ne ha fatto l’Occidente, fonda la necessità della pena del reo su un postulato: l’uomo 'sano' conserva per lo meno un nucleo di libertà, e quindi di responsabilità per le proprie azioni, che può far sì che venga riconosciuto colpevole e sia proporzionalmente punito. Al contrario di un pitbull o di una tigre, che, nel caso sbrani il proprio incauto guardiano, non viene processata o giudicata colpevole: semplicemente viene abbattuta o, come preferisce un certo animalismo, rilasciata intatta al suo stato di natura. Ma il diritto è solo un capitolo di uno scenario ben più ampio e con cui è necessario confrontarsi a viso aperto, anche perché non è più relegabile solo a qualche distopia letteraria: nel momento in cui si affermasse una visione deterministica 'dura', quella per cui – come scrive un nome di punta delle scienze cognitive attuali, l’americana Martha Farah – «tutto il nostro comportamento è determinato al cento per cento dal funzionamento del cervello, che a sua volta è determinato dall’interazione tra geni ed esperienza», quale spazio rimarrebbe per la specificità umana, ossia la libertà orientata dalla volontà?
Un approccio al problema è dato da Siamo davvero liberi? Le neuroscienze e il mistero del libero arbitrio (Codice edizioni, pagine 210, euro 14,00) a cura di Mario De Caro, Andrea Lavazza e Giuseppe Sartori. Un libro importante, un tentativo riuscito di divulgazione alta che riunisce competenze varie e di primo livello – da quelle di Neuroimaging di John Dylan Haynes, a quelle di psicologia sperimentale di Marcel Brass, di filosofia morale di Roberta Monticelli o di neuroetica di Adina L. Roskies, per citare alcuni dei contributi. E che aiuta a comprendere i termini di quel nodo ontologico ed epistemologico dato dal rapporto tra corpo e mente, o tra fisico e 'spirituale', che, se è venuto al pettine e ha riacceso negli ultimi anni il dibattito sull’evoluzione della vita e la visione neodarwiniana dell’uomo, tutto lascia supporre che troverà sempre più nello studio del cervello il suo banco di prova.

Repubblica 9.6.10
Chi dimentica le famiglie dei pazienti psichiatrici
di Elena Canali
Alla fine di maggio si è svolto a Roma una convegno nazionale dell'Unione Nazionale Associazioni Salute Mentale. È passato sotto silenzio, anche se affrontava temi che riguardano molti. L'Istituto Superiore di Sanità sostiene che il 20% della popolazione è affetto da patologie psichiatriche. Tanti di noi hanno a che vedere con questo dramma e con l'assenza di risposte da parte delle strutture. Paradossalmente, mentre siamo accusati dagli operatori di volerci sbarazzare del problema e di non "amarli", se chiediamo di inviare il malato in una comunità e attivare un reale progetto terapeutico, le nostre richieste di informazioni sullo stato clinico del paziente sono spesso disattese per presunti "motivi di privacy". Destra e sinistra si sono premurate, in questi 30 anni, di non dotare di strumenti attuativi la legge "180". A noi rimane la solitudine e la disperazione dell'obbligo ipocrita di "amarli" per legge.

l’Unità 9.6.10
Le famiglie dei pazienti psichiatrici
di Elena Canali
Il 27 maggio si è svolto a Roma una convegno nazionale dell’Unasam (Unione Nazionale Associazioni Salute Mentale) nell’assoluto silenzio dei mezzi di informazione. Eppure non eravamo pochi, anzi! L’Istituto Superiore di Sanità sostiene che il 20% della popolazione è affetto da patologie psichiatriche. Un parente, un amico, un vicino di casa, tanti di noi hanno a che vedere con questo dramma e con l' assenza di risposte
da parte delle strutture, siamo migliaia. Confusi e paralizzati sotto il ricatto di un possibile balzo indietro verso la ri-manicomializzazione ma vittime e prigionieri, nello steso tempo, di servizi territoriali inadeguati e insufficienti, a parte le rare e preziose eccezioni. Il problema ricade sulle nostre spalle e siamo costretti ad affrontare situazioni più grandi di noi: obbligati a farci carico di persone deliranti con le quali la convivenza è un inferno. Paradossalmente, intanto, siamo accusati dagli operatori di volerci sbarazzare del problema e di non “amarli”, se chiediamo di inviare il malato in una comunità attivando un reale progetto terapeutico, mentre le nostre richieste di informazioni sullo stato clinico del paziente spesso non hanno risposte per presunti motivi di privacy. Non è questa una follia? E non è una follia pensare che un genitore 80enne, o un fratello che deve anche lavorare e attendere agli impegni della propria vita, pur non ricevendo chiarimenti rispetto alla situazione clinica, debbano e possano essere in grado di fronteggiare un inferno simile?

La versione originale della lettera di Elena Canali della quale Repubblica e l'Unità hanno pubblicato stralci
Il 27 maggio si è svolto a Roma una convegno nazionale dell'UNASAM (Unione Nazionale Associazioni Salute Mentale) nell'assoluto silenzio dei mezzi di informazione. Eppure non eravamo pochi, anzi! L'Istituto Superiore di Sanità sostiene che il 20% della popolazione è affetto da patologie psichiatriche. Un parente, un amico, un vicino di casa, tanti di noi hanno a che vedere con questo dramma e con l' assenza di risposte da parte delle strutture, siamo migliaia... Ma non si deve dire e, soprattutto, il tema non si deve affrontare. Noi famigliari rimaniamo confusi e paralizzati sotto il ricatto di un possibile balzo indietro verso la ri-manicomializzazione che certo non vogliamo, ma allo stesso tempo siamo vittime e prigionieri imbavagliati di una perversione del sistema che impone che il paziente sia assistito dai servizi territoriali spesso, però, inadeguati e insufficienti, se non assenti, (esistono rare e preziose eccezioni, per la fortuna di pochi). Il risultato è che tragicamente il problema ricade sulle nostre spalle e siamo costretti ad affrontare situazioni più grandi di noi: di fatto, senza alcuna preparazione, siamo obbligati a farci carico di persone deliranti con le quali la convivenza è un inferno. Paradossalmente, mentre siamo accusati dagli operatori di volerci sbarazzare del problema e di non "amarli", quando chiediamo di inviare il malato in una comunità e attivare un reale progetto terapeutico, allo
stesso tempo, le nostre richieste di informazioni sullo stato clinico del paziente non hanno risposte per presunti motivi di privacy. Non è questa
una follia? E non è una follia pensare che un genitore 80enne, o un fratello che deve anche lavorare e attendere agli impegni della propria vita, pur non ricevendo chiarimenti rispetto alla situazione clinica, debbano e possano essere in grado di fronteggiare un inferno simile?
L'argomento è "scabroso" perchè gli interessi in gioco hanno molti zeri: cliniche private, industrie farmaceutiche, cooperative di servizi, contesti
in cui, se a stento si riesce a usare la parola "assistenza", grande assente è però la parola "cura". Destra e sinistra si sono premurate, in questi 30
anni, di non dotare di strumenti attuativi la legge "180" e in nome della "libertà di delirare" si è evitato di dare risposte reali al problema. Ideologie e interessi, di fatto, impediscono ai pazienti la possibilità di uscire dalla malattia. A noi rimane la solitudine e disperazione dell'obbligo ipocrita di "amarli" per legge.
Elena Canali