venerdì 11 giugno 2010

Repubblica 11.6.10
Il perché di una pagina bianca
di Ezio Mauro

Una prima pagina bianca, per testimoniare ai lettori e al Paese che ieri è intervenuta per legge una violenza nel circuito democratico attraverso il quale i giornali informano e i cittadini si rendono consapevoli, dunque giudicano e controllano. Una violenza consumata dal governo, che con il voto di fiducia per evitare sorprese ha approvato al Senato la legge sulle intercettazioni telefoniche, che è in realtà una legge sulla libertà: la libertà di cercare le prove dei reati secondo le procedure di tutti i Paesi civili – nel dovere dello Stato di garantire la legalità e di rendere giustizia – e la libertà dei cittadini di accedere alle informazioni necessarie per conoscere e per sapere, dunque per giudicare.
La violenza di maggioranza è qui: nel voler limitare fino all´ostruzionismo irragionevole l´attività della magistratura nel contrasto al crimine, restringendo la possibilità di usare le intercettazioni per la ricerca delle prove dei reati. E nel voler impedire che i cittadini vengano informati del contenuto delle intercettazioni, impedendo ai giornali la libera valutazione delle notizie, nell´interesse dei lettori. Tutto questo, mentre infuria lo scandalo della Protezione Civile, nato con le risate intercettate ai costruttori legati al "sistema" di governo, felici per le scosse di terremoto che squassavano L´Aquila.
Le piccole modifiche che sono state fatte alla legge (si voleva addirittura tenere il Paese al buio sulle inchieste per quattro anni) non cambiano affatto il carattere illiberale di una norma di salvaguardia della casta di governo, terrorizzata dal rischio che i magistrati indaghino, i giornali raccontino, i cittadini prendano coscienza. Anzi. La proroga dei termini per gli ascolti, di poche ore in poche ore, è proceduralmente più ridicola che macchinosa. E le multe altissime agli editori non sono sanzioni ma inviti espliciti ad espropriare la libertà delle redazioni dei giornali nel decidere ciò che si deve pubblicare.
Ciò che resta, finché potrà durare, è l´atto d´imperio del governo su un diritto fondamentale dei cittadini – quello di sapere – cui è collegato il dovere dei giornalisti di informare. Se questa legge passerà alla Camera, il governo deciderà attraverso di essa la quantità e la qualità delle notizie "sensibili" che potranno essere stampate dai giornali, e quindi conosciute dai lettori. Attenzione: la legge-bavaglio decide per noi, e decide secondo la volontà del governo ciò che noi dobbiamo sapere, ciò che noi possiamo scrivere.
Con ogni evidenza, tutto questo non è accettabile: non dai giornalisti soltanto, ma dai cittadini, dal sistema democratico. Ecco perché la prima pagina di "Repubblica" è bianca, per testimoniare ciò che sta accadendo. E per dire che non deve accadere, e non accadrà.

Repubblica 11.6.10
Se la norma infrange il diritto
di Gustavo Zagrebelsky

È adeguato alla serietà delle questioni sollevate dal disegno di legge del Governo sulle intercettazioni telefoniche e sulle limitazioni alla libertà di stampa il dibattito, anzi la rivolta, che ne è seguita. Siamo alle fasi finali della procedura parlamentare ma la procedura parlamentare non chiuderà la partita, anche se l´impostazione della legge è ormai definita. I poteri d´indagine penale risulteranno ridotti e, parallelamente, l´impunità della criminalità sarà allargata; i vincoli procedurali, organizzativi e disciplinari saranno moltiplicati a tal punto che i magistrati inquirenti ai quali venisse ancora in mente, pur nei casi ammessi, di ricorrere a intercettazioni saranno scoraggiati: a non fare non sbaglieranno; a fare correranno rischi a ogni piè sospinto. La libertà degli organi d´informazione d´attingere ai contenuti delle intercettazioni disposte nelle indagini penali sarà ridotta fortemente e la violazione dei divieti sarà sanzionata pesantemente.
Tutto in proposito è stato ormai detto. Nulla potrebbe ancora aggiungersi e nulla potrebbe togliersi.
Al di là delle valutazioni circa le singole disposizioni, è stato anche colto il significato che una legge di questo genere non può non assumere presso l´opinione pubblica avvertita, nel momento attuale della vita pubblica del nostro Paese, mai come ora intaccata dalla corruzione: l´auto-immunizzazione con forza di legge di "giri di potere" oligarchico che intendono governare i propri interessi al riparo dai controlli, siano quelli della legge o siano quelli dell´opinione pubblica.
Tutto è stato detto per ora, ma la partita non si chiuderà di certo in Parlamento, nella dialettica tra la maggioranza e l´opposizione. La prima potrà sconfiggere la seconda con gli strumenti parlamentari di cui può far uso e abuso (la questione di fiducia in materia di diritti fondamentali) e così mettere per iscritto la volontà di chi comanda e fare la legge. Ma al di là della legge c´è pur sempre il diritto, e col diritto la legge deve fare i conti. Forse mai come in questo caso legge e diritto, lex e ius, queste due componenti dell´esperienza giuridica, sono apparsi così nettamente distinti, anzi, contrapposti. Quando ciò accade, la forza della legge è debole perché è avvertita come arbitrio e, prima o poi, anche se con costi e sofferenze, l´equilibrio sarà ristabilito.
Che cosa sia la legge, basta guardarne il testo. Che cosa sia il diritto, è cosa meno semplice ma più profonda. Innanzitutto, la legge dovrà passare alla promulgazione del Presidente della Repubblica, il cui potere di rinvio alle Camere è un´espressione non del capriccio personale ma del diritto. Poi la legge sarà sottoposta all´interpretazione, entro le coordinate dei principi del diritto; poi sarà sottoposta al controllo della Corte costituzionale, nel nome del diritto più profondo, su cui ogni legge deve appoggiarsi; poi sarà forse sottoposta a una valutazione popolare, in nome di quel diritto legale di resistenza che è il referendum abrogativo. Questo, nell´insieme, è il diritto con il quale questa legge dovrà fare i conti e questi sono i suoi strumenti. A ciò oggi si aggiunge il diritto dell´Europa, da cui la validità della legislazione degli Stati che ne fanno parte è condizionata.
* * *
Alla luce di questo quadro complesso, la legge che il Parlamento s´accinge a varare non supera il vaglio del diritto, soprattutto per quanto riguarda quello che a me pare il vizio macroscopico, che macroscopicamente tradisce una mentalità illiberale, o meglio autoritaria, di chi l´ha impostata, presumibilmente senza nemmeno rendersene conto (poiché altrimenti, pronunciando ogni giorno parole di libertà, certamente avrebbe evitato…). In ogni regime libero, l´informazione è un delicatissimo sistema di diritti e di doveri, in cui l´interesse dei cittadini a essere informati e il connesso diritto-dovere dei giornalisti di fare cronaca, onesta e completa, dei fatti di rilevanza pubblica incontra i soli limiti che derivano dal rispetto dell´onore e della riservatezza delle persone. Sono le persone offese che, ricorrendo al giudice, in un rapporto per così dire, paritario con il giornalista o il giornale, possono chiedere la riparazione del loro diritto violato. Il potere politico, governo o parlamento, non c´entrano per niente. Non possono prendere provvedimenti o stabilire per legge quel che i giornali, gli organi d´informazione in genere, possono o non possono pubblicare. Possono certo stabilire casi di segretezza o di riservatezza, per proteggere l´interesse al buon andamento di funzioni pubbliche (ad esempio, trattative diplomatiche, operazioni dei servizi di sicurezza, svolgimento di indagini giudiziarie, ecc.) e, a questo fine, possono prevedere sanzioni a carico dei funzionari infedeli che violano il segreto e la riservatezza. Ma non possono estendere il divieto e la sanzione agli organi dell´informazione i quali, quale che sia stato il modo, siano venuti in possesso di informazioni rilevanti e le abbiano portate alla conoscenza della pubblica opinione. In breve: il potere politico può proteggersi, ma non può farlo imbavagliando un potere – il potere dell´informazione – che ha la sua ragion d´essere nel controllo del potere. Potrà sembrare un´anomalia che la lecita auto-tutela della politica non si estenda fino alle estreme conseguenze, non investa la stampa. Ma in ogni regime libero un´anomalia non è, perché l´informazione appartiene a un´altra sfera e non può diventare un´appendice, una funzione servente, un organo della politica e del governo (come avviene nei momenti eccezionali della guerra o del pericolo per la sicurezza nazionale). È la separazione dei poteri (e l´informazione è un potere) a richiederlo e a determinare la possibilità della contraddizione. Sono i regimi autoritari, quelli in cui non vi sono contraddizioni. Ma allora, lì, la stampa vive delle informazioni che il potere politico, caso per caso o per legge non fa differenza, l´autorizza a rendere pubbliche; vive degli ossi che il padrone le butta.
Da dove traiamo questo principio d´autonomia e libertà della stampa? Innanzitutto dalla cultura e dalla civiltà costituzionale, cioè dal quadro di sfondo che dà un senso alla democrazia. Poi dall´art. 21 della Costituzione, che proclama il diritto alla libertà d´informazione senza limiti diversi dal buon costume, vietando per sovrapprezzo, e come rafforzamento, le autorizzazioni e le censure, cioè gli strumenti di asservimento della stampa conosciuti sotto il fascismo. Oggi poi è la Convenzione europea dei diritti dell´uomo, da quando, nel 2001, è assurta a livello costituzionale e al medesimo livello si collocano le interpretazioni che ne dà la Corte di Strasburgo, altra base sicura del diritto alla libertà della stampa. L´art. 10 § 2 della Convenzione ammette bensì "formalità, condizioni, restrizioni o sanzioni", ma solo quando siano "misure necessarie in una società democratica" per tutelare certe esigenze di sicurezza, ordine pubblico, ecc., che nel caso della legge italiana certamente non ricorrono in generale. La Corte europea ha precisato che le limitazioni possono derivare solo da "bisogni sociali imperativi" (non esigenze di funzionamento di pubblici poteri), che le misure prese "non devono essere di natura tale da dissuadere la stampa dal partecipare alla discussione di problemi di legittimo interesse generale" e, nel celebre caso Dupuis contro Francia (7 giugno 2007), riguardante la pubblicazione di notizie coperte dal segreto processuale, che quando c´è di mezzo il diritto all´informazione, "il potere di apprezzamento degli Stati si arresta di fronte all´interesse delle società democratiche ad assicurare e mantenere la libertà di stampa". Si trattava, per l´appunto, di giornalisti che si erano documentati attraverso fughe di notizie o documenti e conversazioni confidenziali: tutte cose che le società libere non demonizzano affatto (pur cercando di impedirle da parte dei funzionari pubblici), quando vengono nelle mani di giornalisti.
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Il disegno di legge che sta per essere trasformato in legge non tiene conto di tutto questo, anzi lo contraddice. A carico dei giornalisti e degli editori sono stabiliti divieti tassativi di pubblicazione. Sanzioni penali, disciplinari e amministrative li collocano in una ragnatela di condizionamenti, esterni e interni alle imprese giornalistiche, certamente incompatibile con la libertà della stampa di fare il proprio dovere "in una società democratica". Questi condizionamenti, altrettanto certamente, sono tali (si pensi a che cosa rappresenta per le piccole imprese giornalistiche la sanzione in denaro che può raggiungere diverse centinaia di migliaia di euro) da "dissuadere la stampa dal partecipare alla discussione dei problemi di interesse generale" come, tanto per fare un esempio di fantasia, la pubblica corruzione. Ci sono tutte, e sono evidenti, le ragioni per le quali questa legge finirà col cozzare contro quel diritto.

Repubblica 11.6.10
Ciccone, l´inventrice del post it giallo: difendiamo il diritto di conoscere
"Dal web alla piazza continueremo a protestare"
Contatteremo poliziotti, magistrati, giornalisti. Chiederemo a tutti come cambierà il loro lavoro con questa legge
di Tiziana Testa

ROMA - «Stiamo cominciando a contattare magistrati, poliziotti, giornalisti. Chiederemo a tutti di spiegare come cambierà il loro lavoro con questa legge. E poi lo racconteremo su volantini da scaricare online e da distribuire a ogni occasione. Nei quartieri, ai vicini di casa, sugli autobus, alle stazioni della metro. Perché la rete è importante, ma bisogna anche uscire dal web". Arianna Ciccone, 39 anni, giornalista, è l´ideatrice di Valigia blu, il network di cittadini mobilitati da mesi sulla libertà d´informazione in Italia. Parla in un´intervista a Repubblica tv, durante il lungo speciale dedicato al voto di fiducia al Senato sulla legge-bavaglio. E, dopo il risultato, parte alla carica. «Questa legge – dice - è contro tutti i cittadini. Danneggia il loro diritto di conoscere e anche il loro diritto alla sicurezza, visto che ostacola il lavoro dei magistrati. Farlo capire ai frequentatori della rete non è stato difficile, abbiamo già 206 mila iscritti al nostro gruppo su Facebook. Più complicato è portare il popolo della rete in piazza. E convincere chi non naviga in Internet. Perché il sentimento prevalente, oggi, è la sfiducia».
Il viaggio di Valigia blu è iniziato il 26 febbraio quando il Tg1, riferendosi al caso Mills, parlò di assoluzione invece che di prescrizione. La Ciccone si presentò davanti alla Rai con le firme di 155 mila persone che chiedevano una rettifica al direttore Minzolini. Oggi, con la battaglia sulle intercettazioni, la sua agenda è fitta: «Saremo a manifestare davanti a Montecitorio quando la legge tornerà alla Camera; chiederemo di assistere alla seduta, come abbiamo già fatto al Senato col post-it giallo sulla giacca; listeremo a lutto il nostro blog; parteciperemo a tutte le iniziative della Federazione nazionale della stampa». E Napolitano? «Invieremo mail al presidente per chiedergli di non firmare la legge. L´hanno già fatto 7 mila persone. Il capo dello Stato resta l´ultimo baluardo». E se Napolitano dovesse firmare? "Non ci fermeremo. Ci resta la raccolta di firme per il referendum".

Repubblica 11.6.10
La vittoria della società opaca
di Alexander Stille

L´argomentazione principale a favore di queste norme è più o meno questa: «Si immagina il povero cittadino che si vede sbattuto sulle prime pagine dei giornali - con sue frasi prese fuori contesto - e poi magari prosciolto perché il fatto non sussiste?», mi disse una volta Niccolò Ghedini, l´avvocato di Silvio Berlusconi e uno dei promotori della legge.In primo luogo, in tutti gli anni che ho girato l´Italia non ho mai sentito dire da un cittadino normale: «Quello che ci vuole in questo paese è una bella legge sulle intercettazioni telefoniche perché sono stufo di vedermi sbattuto in prima pagina per reati che non ho commesso!». Da cittadini normali ho sentito invece esprimere migliaia di volte il desiderio di essere liberi da un sistema soffocante di corruzione, clientela, favoritismi e crimineorganizzato che rappresenta una minaccia seria allo sviluppo dell´Italia e ai diritti più elementari dei suoi cittadini.
Il desiderio di una legge sulle intercettazioni l´ho visto esprimere solamente dai politici, e solo da una minoranza di essi, in genere quelli attorno a Silvio Berlusconi, il quale si è proprio stufato di vedersi sbattuto in prima pagina con conversazioni davvero imbarazzanti che rivelano frequentazioni assai discutibili e giochi di potere al confine tra il lecito e l´illecito. Il numero di persone intercettate - a differenza del numero di apparecchi messi sotto controllo - è in realtà stimato intorno ai 20.000 all´anno. Il telefono del primo ministro non è mai stato messo sotto controllo: ha soltanto la strana abitudine di parlare con frequenza allarmante con alcuni di questi 20.000 sospettati.
È non solo giusto ma importante che i cittadini conoscano gli indizi di reato, soprattutto in casi che riguardano l´amministrazione pubblica, prima di un processo. Immaginiamo per un momento che l´attuale proposta di legge fosse stata in vigore durante l´anno passato. Non sapremmo nulla dello scandalo della Protezione Civile e della "cricca" di appaltatori che ne hanno beneficiato. Il pubblico italiano continuerebbe a pensare che Guido Bertolaso è l´uomo dei miracoli e che il sistema della Protezione Civile - che salta le normali procedure d´appalto - è il modo migliore per fare opere pubbliche in Italia. Non sapremmo nulla dei massaggi e dei festini offerti a Bertolaso dall´imprenditore Diego Anemone. Il ministro Scajola sarebbe ancora al suo posto nel bellissimo appartamento comprato in buona parte con i soldi di Anemone. Le intercettazioni telefoniche probabilmente non sarebbero concesse in questo caso - non trattandosi di reati di mafia o di terrorismo - e, se fatte, non sarebbero state rese pubbliche.
Nessuno di questi signori è stato processato ed è del tutto possibile che nessuno di loro sarà condannato. Ed è giusto che sia così: le prove devono essere molto consistenti e i magistrati devono seguire procedure giudiziarie molto precise per garantire i diritti degli imputati. Ma qualcuno davvero pensa che sarebbe meglio se non sapessimo nulla di tutta questa palude? I magistrati sono costretti dalla legge, durante un´inchiesta, a fornire prove prima di arrestare un sospetto criminale o al momento di chiedere il rinvio a giudizio. A questo punto, molte prove - comprese le intercettazioni - diventano di dominio pubblico. Anche se gli imputati possono essere eventualmente scagionati, è giusto che il pubblico abbia la possibilità di conoscere il loro contenuto.
In primo luogo questo dà la possibilità alla società di reagire al malcostume, di cambiare rotta, di sostituire ufficiali pubblici sospettati di reati o semplicemente colti in comportamenti poco etici ma forse non illegali. In secondo luogo, il fatto che certi passaggi importanti non avvengano nel buio è una garanzia del funzionamento del sistema giudiziario e politico. Siccome nessuno è perfetto, compresa la magistratura, è giusto che l´opinione pubblica serva come controllo sia alla magistratura sia al mondo politico. È la ragione per cui i processi avvengono in aule aperte al pubblico. In Italia, abbiamo visto tanti processi affossati e finiti nel nulla nonostante prove agghiaccianti.
Poi, lavorando senza malafede, la magistratura può archiviare un caso sulla base di considerazioni tecniche. Il lavoro del giudice non è di stabilire la verità; ha un compito molto più limitato: stabilire se le prove, raccolte e presentate secondo criteri molto precisi, sono sufficienti per portare a una condanna. Il tribunale - per proteggere lo stato di diritto e semplificare una realtà potenzialmente infinita - limita molto il tipo di prove che può esaminare. È costretto a scartare alcuni elementi di prova per ragioni puramente tecniche: prove raccolte illegalmente o la parola di testimoni che non si presentano in aula. E poi anche il semplice passare del tempo - specialmente in Italia con la sua legge sulla prescrizione - può vanificare un processo. Questo non ha niente a che fare con la ricerca della verità che è il compito dello storico ma anche un diritto dell´opinione pubblica e quindi un dovere del giornalista.Molte prove hanno una grande importanza anche se non costituiscono un reato. Per esempio, intercettazioni fatte su Giuseppe Mandalari, un commercialista di Corleone considerato dalla polizia italiana come il fiscalista del boss Totò Riina, poco dopo le elezioni del 1994 hanno prodotto rivelazioni sconvolgenti. «Bellissimo, tutti i candidati amici miei e tutti eletti!», ha detto Mandalari dopo che il "Polo del Buongoverno" capeggiato da Berlusconi aveva vinto 54 seggi su 61 seggi in Sicilia. Poi nei giorni successivi tre politici della nuova coalizione vincente - due senatori e un deputato - hanno telefonato a Mandalari per ringraziarlo e uno gli ha mandato un fax con il curriculum di suo figlio. I tre parlamentari in questione non sono stati incriminati perché, evidentemente, non c´erano altre prove per dimostrare piena collusione con la mafia. E quindi con la nuova legge non sarebbero mai venute alla luce. Ma è giusto che siano state rese pubbliche anche in tempi rapidi. Il cittadino ha tutto il diritto di sapere se i suoi rappresentanti parlano con mafiosi o furfanti anche se fare ciò può non essere un reato.
Ormai, è un fatto acquisito, tra economisti e politologi, che la trasparenza sia fondamentale per una democrazia sana e che la trasparenza vada di pari con altre cose positive: la crescita economica, la libertà di stampa e lo stato di diritto. Nel novembre del 1999, la Transparency International ha rilevato che i costi di costruzione della metropolitana di Milano sono scesi del 57 per cento dopo l´inchiesta di Mani Pulite. Ma l´Italia da un po´ di tempo sta andando nella direzione sbagliata. Dal 2004 al 2009, l´Italia è scesa dal 42esimo al 63esimo posto nella graduatoria di Transparency. La corruzione, invece, cresce nel buio. Secondo la Corte dei conti, i contribuenti italiani perdono tra 50 e 60 miliardi di euro all´anno a causa della corruzione. Questa legge introduce buio dove finora c´è stata un po´ di luce.

il Fatto 11.6.10
Legge criminale e per i cruminali ma con Internet si può aggirare
Potremo leggere le notizie vietate grazie al Web globale
di Peter Gomez

In Birmania il regime vieta le videocamere e tiene sotto controllo la Rete. In Cina 40 mila funzionari comunisti si occupano della censura sul Web. Ma, nonostante le molte persone finite in prigione, attraverso Internet riusciamo lo stesso a vedere e sapere ciò che accade. Ebbene, ieri in Italia un esecutivo retto da un premier sedicente liberale ha fatto votare una legge di stampo birmano. Una norma che non impedirà solo la pubblicazione, anche per riassunto, delle intercettazioni non più coperte da segreto. Ma che pure vieterà agli elettori di rivolgersi ai media per diffondere video e file audio da loro registrati. A legge approvata, se un cittadino vedrà un sindaco o un parlamentare a cena con un boss mafioso e lo immortalerà col telefonino, rischierà la galera. Per questo tipo di riprese, effettuate da non iscritti all’Ordine dei giornalisti, sono previste pene fino ai 4 anni di carcere. Dobbiamo preoccuparci? Sì, perché la maggioranza dei nominati in Parlamento, terrorizzata dalle indagini sulla corruzione, dimostra di voler togliere agli italiani non solo la libertà di sapere, ma anche quella di dire. Dobbiamo aver paura? No, perché a ulteriore prova di come la Casta viva ormai in una sorta di realtà parallela, il cosiddetto legislatore non ha fatto i conti con la tecnologia. Gli uomini di Berlusconi – unico leader al mondo incapace persino di accendere un computer – non hanno ben capito quale tipo di mostro sia stato da loro partorito. Già a cominciare dalle prossime ore migliaia di file verranno inviati dall’Italia a siti esteri disposti a pubblicarli. Quando e se scatterà l’ora del Bavaglio (la legge è adesso alla Camera) il Web diventerà così la nuova frontiera degli uomini liberi. Ma per orientarsi, spesso sarà necessaria una guida. Anche per questo il nuovo sito de Il Fatto Quotidiano verrà alla luce nelle prossime settimane. Fin da ora ci impegniamo non solo a violare la legge con atti di disobbedienza civile, ma anche a segnalare i link dove trovare quelle che noi consideriamo vere
notizie. È inevitabile infatti che, in questo clima da fine impero, sul Web finisca per arrivare di tutto. Pure documenti o immagini (magari in reale violazione della privacy) che mai sul nostro giornale troverebbero spazio. Quindi continueremo a fare il nostro mestiere. Racconteremo i fatti. E in base alla nostra capacità di selezionarli chiederemo di essere giudicati. Non dai tribunali costretti ad applicare le norme Bavaglio. Ma dai lettori.

il Fatto 11.6.10
“Daremo asilo alle vostre notizie”
Mora (El Pais): È l’ultima tappa del regime
di Silvia Truzzi

Anche al tempo del regime fascista gli italiani che volevano sapere la verità potevano cercarla sui giornali stranieri. Ma non ne erano affatto contenti. Lo scriveva Indro Montanelli nel 2001, rispondendo a un lettore del Corriere. La censura trova sempre i suoi antidoti e oggi il rimedio potrebbe arrivare proprio dai giornali stranieri. Miguel Mora, corrispondente del Paìs da Roma, è in Italia dal 2008: l’anno scorso fu protagonista di un indimenticabile duetto alla Maddalena con Berlusconi, notoriamente poco abituato alle domande dei giornalisti. Nel caso si trattava dell’affare D’Addario: Mora gli chiese se non aveva preso in considerazione l’ipotesi di dimettersi. I giornali degli altri Paesi daranno asilo politico alle notizie italiane, se questo bavaglio dovesse diventare legge? Io ho ancora delle speranze. Spero che qualcosa succeda: se l’Europa protestasse o se il presidente della Repubblica decidesse il rinvio alle Camere. Forse non tutto è perduto, anche se Berlusconi mi sembra molto determinato. È un problema europeo e internazionale, non italiano. L’Italia ha una legislazione antimafia molto efficace, che altri Stati non hanno: se dovesse essere toccata, le conseguenze saranno terribili anche per gli altri Paesi. Ci saranno comunque giornali europei, e non solo, disposti a ospitare le notizie che il regime berlusconiano ha censurato.
Ha detto “regime”.
L’Italia è in un regime mediatico da anni. L’uomo che controlla l’80 per cento delle televisioni e ha interessi ovunque – dal calcio alla pubblicità – è il presidente del Consiglio. Se non è una dittatura è un regime populista-aziendalista. Questa legge è una spinta ulteriore verso una società meno informata e una magistratura indebolita nella lotta alla criminalità. È inquietante, ma è la conseguenza logica della politica di questi anni.
Perché l’Europa non fa nulla?
E perché l’Italia ha permesso a Berlusconi di essere eleggibile? L’Europa è un’unione monetaria, non politica. In Spagna, ma anche in Francia, abbiamo avuto fenomeni simili a Berlusconi: ma sono stati arginati. Perché gli anticorpi democratici di questi Paesi li hanno rifiutati. La responsabilità è di chi non l’ha fermato. È vero che in quel momento – nel ‘94 – c’era un grande caos nella politica italiana, ma doveva essere stabilita una soglia democratica da non valicare. La responsabilità dell’Europa c’è, ma c’è anche quella della sinistra italiana. Che è entrata in questo gioco, o perché ha pensato che fosse strumentale o perché non era in grado di governare.
Come ha reagito Zapatero all’abbandono di Berlusconi in conferenza stampa? Era esterrefatto: è la seconda volta che gli fa uno show, dopo quello della Maddalena l’anno scorso.
Napolitano ha detto: “I professionisti della richiesta al presidente della Repubblica di non firmare spesso parlano a vanvera”. Crede che firmerà il bavaglio?
Non firmare creerebbe un conflitto tra le istituzioni. Io credo che lui sarà onesto: se troverà aspetti di incostituzionalità, rinvierà alle Camere. Non capisco però questa frase sul “parlare a vanvera”. Se esiste questa possibilità perché non utilizzarla? Forse voleva solo dire, lasciatemi fare il mio lavoro in pace.
Forse non è il momento di andare per il sottile: si è parlato anche di inserire la pena detentiva per gli editori.
È una cosa inaudita. C’è un abuso di intercettazioni inutili. Questo è un problema che però si risolve in due minuti. Dietro c’è la volontà di punire la stampa e i magistrati, i nemici giurati di Berlusconi. Ma giornalisti e magistrati sono anche due importanti protagonisti dei regimi democratici.
Il premier ha definito la stampa italiana anche troppo libera... C’è un grande coraggio in alcuni quotidiani e in alcuni programmi televisivi. Sono gli eroi del giornalismo italiano. Ma sono un’eccezione. Tutti gli altri temono per il loro stipendio.

l’Unità 11.6.10
Inaugurazione a Roma della struttura di formazione politica. Collaborazione con Fare Futuro
Nel cda Soru e Calearo. Fra gli ospiti Zingaretti, Franceschini, Leoluca Orlando e Melandri
A scuola di «Democratica» Veltroni con Udc e Vendola
Veltroni presenta «Democratica», scuola di formazione politica rivolta alle nuove generazioni «che hanno voglia di assumersi responsabilità verso il paese». «Un luogo aperto, non la corrente di Walter».
di Jolanda Bufalini

Tomacelli 46 scala B, dove era la vecchia sede del Manifesto, per i più grandi, sopra lo showroom della Ferrari, per i più giovani. È la sede di “Democratica”, scuola di formazione politica presieduta da Walter Veltroni. L’aula è attrezzata per le lezioni con proiettori e collegamenti internet. C’è un sito che serve per le iscrizioni e per l’insegnamento a distanza. Iscrizioni libere e a modico prezzo per fidelizzare più che per finanziarie. «Luogo apertissimo», insiste Veltroni: «È l’aggettivo a cui tengo di più».
Scuola vera, «non una finzione per spacciare altro» rivolta soprattutto ma non esclusivamente ai giovani «che vogliano mettere un po’ d’ordine nelle idee etiche e sociali che i grandi sconvolgimenti del primo decennio del secolo hanno scombinato, ancorandosi a valori come competenza, legalità, ascolto». Dunque non un «pezzetto della corrente veltroniana» precisa subito Michele Salvati, che guida il comitato scientifico, e alla quale «non mi sarei iscritto nemmeno io ribatte Veltroni la sola parola mi fa venire il mal di stomaco, non l’ho mai fatta e per questo qualcuno mi rimprovera».
Democratica ha il sostegno di 151 parlamentari che si sono impegnati anche a contribuire finanziariamente, del Pd, di Sel, Idv, Api, Udc. Ha un CdA nel quale siedono Renato Soru, Maria Paola Merloni, Raffaele Ranucci, Guido Ghisolfi, Massimo Calearo, un direttore Salvatore Vassallo. Due donne al controllo del funzionamento della struttura: Anna Maria Malato (imprenditrice) sarà la tesoriera, Giovanna Marinelli, che ha fino a poco tempo fa diretto il Teatro di Roma, sarà il segretario generale.
In sala fra i primi arriva Leoluca Orlando, c’è Giovanna Melandri, Walter Verini, c’è Piero Terracina, sopravvissuto alla deportazione degli ebrei romani del 16 ottobre 1943. «È, con la mia famiglia, la persona a cui voglio più bene», dice Veltroni che, con Terracina, ha accompagnato ad Auschwitz centinaia di ragazzi delle scuole romane. Arrivano per il brindisi di inaugurazione Nicola Zingaretti, Giorgio La Malfa, Angelo Guglielmi, Dario Franceschini, Paolo Gentiloni, Savino Pezzotta.
FARE FUTURO
Democratica guarda al centro sinistra nella accezione più larga del termine. Una delle prime iniziative, illustrata da Salvatore Vassallo, sarà dedicata ad Ustica, coinvolgerà i familiari delle vittime «che hanno trasformato il dolore privato in impegno pubblico» e avrà come tema, introdotto da Giovanni De luna “la democrazia e il segreto”. Vi parteciperanno anche Pier Ferdinando Casini e Giuseppe Pisanu.
Il seminario estivo, dedicato alla legalità, si svolgerà in Calabria e sarà in collaborazione con “Fare futuro”. Apertura ma con discriminanti, spiega Salvati. Con Fare futuro sulla legalità c’è un discorso comune. E Veltroni ne approfitta per fare l’unica battuta direttamente politica della presentazione: «Quella di oggi è una brutta giornata per il paese, spero che alla Camera sia possibile discutere sulle intercettazioni, come è diritto del Parlamento fare».
Fra i temi dei seminari: il federalismo fiscale, le politiche pubbliche, la comunicazione. Quanto alla storia e alle idee, si punta sulle biografie di personaggi che potevano apparire minoritari ai contemporanei ma che la storia ha dimostrato essere molto lucidi: Piero Gobetti (ne parlerà Piero Fassino), i fratelli Rosselli (Fabio Mussi), Piero Calamandrei (Giorgio La Malfa), Beniamino Andreatta (Arturo Parisi)

il Fatto 11.6.10
“Con questi tagli serve una ribellione sociale”
Vendola lancia l’allarme dopo l’incontro con Tremonti: la manovra è un colpo allo stato sociale
di Luca De Carolis

Del 2013 e di primarie non ha voluto parlare “perché è un discorso prematuro”. Ma ha usato toni da leader dell’opposizione, evocando “una ribellione sociale importante”, contro “un governo intollerante, che sta trascinando l’Italia in un buco nero”. Nichi Vendola non ha fretta di candidarsi come capo del centrosinistra. Per il leader di Sinistra Ecologia e Libertà, il presente è fatto dell’emergenza democratica e sociale creata dalla destra. E ieri a Roma lo ha detto ad alta voce, nella doppia veste di governatore regionale e leader politico.
Nel pomeriggio Vendola si è scontrato con l’intransigenza del teorico dei tagli, Giulio Tremonti, poi in serata è andato a riempire di entusiasmo la folla in piazza del Pantheon, per la manifestazione nazionale di Sel contro la manovra. Tra un appuntamento e l’altro, in tanti gli hanno chiesto se si presenterà alle primarie, per diventare il candidato premier del centrosinistra nel 2013. Vendola ha preso tempo: “Il discorso è prematuro, perché adesso il centrosinistra deve riaprire i propri cantieri, ritrovare un patto tra politica e popolo. Se ritrova un popolo, ritrova un leader. E magari sarà proprio il popolo a trovare il leader”. Come a dire che la base va riconquistata, e che in vista di benefiche primarie bisognerà seminare parecchio. Senza stancarsi di ricordare alla gente che il governo le sta togliendo il futuro.
“La manovra è un colpo allo stato sociale, un massacro che renderà le Regioni amministratori fallimentari delle proprie risorse” sibila il leader di Sel. Ieri, assieme ad altri presidenti regionali, Vendola ha incontrato Tremonti, il ministro per i Rapporti con le regioni, Fitto, e il ministro per la Semplificazione normativa, Calderoli. I governatori speravano in qualche apertura sulla manovra, ma il ministro dell’Economia ha chiuso la porta a doppia mandata, confermando i tagli da macelleria sociale per gli enti locali.
Ma Vendola non ci sta: “Da parte del governo c’è un atteggiamento intollerante, una saracinesca chiusa, nessuna disponibilità a trattare la questione. Tremonti ci ha detto che sono i numeri che fanno la politica, e non il contrario. Ma la sua è una formula esoterica, un abracadabra”. A cui il leader di Sel risponde con una verità ben diversa: “Con questa manovra modello ‘Briatore’ le regioni vengono uccise, il ceto medio e popolare viene emarginato, e non si vede alcun elemento di crescita. L’Italia, soprattutto il Sud, sta finendo in un buco nero”.
Bisogna rialzarsi, e Vendola chiama all’adunata democratica: “Credo che ci siano tutti gli ingredienti sociali per una ribellione sociale importante”. Un appello pesante, nel giorno in cui il Senato ha detto sì alla legge-bavaglio.
“Vogliono sopprimere le intercettazioni perché danno la possibilità di entrare nei salotti buoni, dove spesso bella vita e malavita si incontrano” attacca il governatore della Puglia. A occhio e croce, un tipo poco salottiero.

l’Unità 11.6.10
Quella partita per la giustizia nel mondo
La revisione della Corte penale internazionale
di Emma Bonino

In Uganda sta per concludersi la Conferenza di revisione della Corte Penale Internazionale. L’avvenimento è più o meno passato sotto silenzio, eppure è stata un’occasione importante, sia per le vittime di crimini di guerra, crimini contro l’umanità e genocidio, che per quanti si battono nel mondo per porre un limite all’impunità e affermare che può esserci pace senza giustizia. Ancor più importante è che la conferenza si sia tenuta in Africa. In effetti la Corte è spesso accusata di essere uno strumento “di stampo coloniale”, di Nord contro Sud. Non è così. Da Commissaria Ue, verso la fine degli anni Novanta, passavo più tempo su e giù per la regione dei Grandi Laghi che a Bruxelles, non solo per far fronte all’emergenza umanitaria, eredità di due genocidi che hanno sconquassato la regione in quel decennio, ma anche per battere a tappeto le capitali, alla ricerca di ratifiche. Il Partito radicale trasnazionale era attivo in Asia o in America Latina e alla fine, in soli quattro anni, nel 2002 la Corte ha preso a funzionare. La determinazione degli “Stati Parte” a dare corpo al principio del «No all’impunità, sì alla giustizia penale internazionale», emerge oggi rafforzata, anche in termini di opinione pubblica. Ancora una volta sono gli Stati africani a giocare il ruolo di punta. L’Uganda ha deferito alla Corte il caso del leader dei ribelli del Lord's Resistance Army, latitante nel Nord del Paese, lo stesso hanno fatto Congo e Repubblica centrafricana per altri criminali. Il Consiglio di Sicurezza ha deferito alla Corte il caso del presidente sudanese Bashir e la Corte, di propria iniziativa, ha aperto un’inchiesta sul Kenya. Troppo poco, diranno gli scettici, troppo lento, dicono gli impazienti, troppo politicizzata, dicono gli accusati, ma intanto la Corte esce rafforzata. Il Bangladesh ha appena ratificato e la Malesia ha annunciato la ratifica. Certo, mancano “grandi” potenze, ma in molti cominciano a riconoscere l’utilità della Corte. Kampala si è battuta per essere la sede di questo appuntamento, in segno di supporto alla Corte e al principio della giustizia internazionale, e per l’occasione ha chiesto a «Non c’è Pace Senza Giustizia» di preparare un evento che mettesse insieme vittime di guerra, delegati e protagonisti della Corte.
Così è stata organizzata una partita di calcio tra due squadre miste, capitanate dal Segretario Generale dell’Onu Ban Ki-moon e dal presidente ugandese Museveni. Nel ruolo di terzino, il ministro della Giustizia italiano Angelino Alfano. È stato un momento di condivisione emozionante, e quando ho fischiato la fine del match, con orgoglio ho visto vittime e ministri sedersi sul prato a discutere, come mai prima era avvenuto.

Repubblica 11.6.10
In tre anni 5 punti percentuali in meno, ma gli introiti aumentano per il maggior gettito fiscale In calo l´8 per mille alla Chiesa allarme Cei: perse 100mila adesioni
Monsignor Crociata "Nel 2010 un miliardo di euro ma la crisi si farà sentire presto"

CITTÀ DEL VATICANO - In fondo alla dichiarazione dei redditi sempre meno italiani scelgono di destinare l´8 per mille alla Chiesa. E i vertici del Vaticano si preoccupano. È il secondo anno che succede, e la tendenza - anche grazie a una possibile disaffezione dei fedeli per lo scandalo pedofilia - potrebbe aumentare nei prossimi anni. Nelle dichiarazioni fiscali del 2007 (introiti del 2006), le firme dell´8 per 1000 destinate alla Chiesa cattolica risultano infatti in sostanzioso calo. Lo attesta un documento uscito dall´Assemblea generale dei vescovi italiani, conclusasi due settimane fa a Roma, e diffuso ieri dall´agenzia Asca. Le firme a favore della Chiesa sono state l´85,01% del totale nel 2007, contro l´86,05% del 2006 e l´89,82% del 2005.
Il documento era stato presentato dal segretario generale della Conferenza episcopale italiana (Cei), monsignor Mariano Crociata. «Dobbiamo registrare con preoccupazione per il secondo anno consecutivo - scriveva Crociata - un calo percentuale delle firme dei contribuenti a favore della Chiesa cattolica». Sono infatti arrivate 14.839.143 adesioni, cioè ben 95.104 in meno rispetto all´anno precedente. «Le scelte favorevoli alla Chiesa cattolica - commenta il segretario generale della Cei - sono purtroppo diminuite sia in termini percentuali, sia in valore assoluto».
Ma nonostante l´evidente calo percentuale, la somma globale che dallo Stato arriva nelle casse vaticane risulta cresciuta. E ciò a causa della crescita generale del gettito fiscale avvenuta in quegli anni. La Chiesa ha percepito, nell´anno corrente 2010, 1.067 milioni di euro. Contro i 967 del 2009. Un aumento netto di quasi cento milioni. La Cei resta tuttavia preoccupata. «Per il meccanismo di posticipazione a tre anni del calcolo del gettito - spiega nella sua relazione monsignor Crociata - solo a partire dal 2013 sperimenteremo le conseguenze dell´attuale crisi economica sul gettito complessivo dell´Ire e quindi anche sulle somme dell´8 per mille». Per questo la Conferenza episcopale italiana ha deciso di destinare 30 milioni di euro dei fondi relativi all´anno in corso alla ricostituzione del cosiddetto "fondo di riserva", che lo scorso anno era stato svuotato per far fronte a un calo del gettito. Ribadisce il segretario generale Cei nel suo rapporto ai confratelli vescovi: «Un indirizzo fondamentale per la pianificazione e una prudente gestione delle risorse» dovrà essere «già a partire dal presente esercizio la ricostituzione del fondo di riserva».
Anche i dati restanti non paiono confortanti per la Cei. Calano nettamente (-9,9%) le offerte deducibili - volontarie - per il sostentamento del clero. E la somma raccolta nel 2009 risulta di 14,9 milioni di euro, contro i 16,5 del 2008. Monsignor Crociata a riguardo sostiene la necessità di un´attenta analisi interna: «Come ormai da diversi anni, con l´eccezione del 2007, anche questa volta ci troviamo di fronte a una riduzione di tale fonte di finanziamento, che impone un´approfondita riflessione sulle cause del fenomeno e sulle possibili strategie alternative di promozione e raccolta futura». Occorre «una proposta di rilancio» delle offerte volontarie, da prepararsi in autunno. Perché nonostante la cifra raccolta resti comunque cospicua, è però molto lontana dalle attese e dal fabbisogno di sostentamento del clero.
(m. ans.)

Repubblica 11.6.10
I difetti di una riforma universitaria che aggrava i problemi
La riforma Gelmini mette a rischio la cultura italiana
di Alberto Asor Rosa

Spariscono i Dipartimenti di Italianistica e di Filologia Cioè le cellule elementari della nostra vita letteraria e linguistica

L´intervento di Ivano Dionigi, Rettore dell´Università di Bologna, sul progetto di riforma universitaria in discussione alle Camere in queste settimane, è prezioso da molti punti di vista ma innanzitutto perché uno degli attori istituzionali più importanti di questa vicenda accetta di discutere in pubblico (come sarebbe stato giusto fin dall´inizio) le "segrete cose". Nel merito non sono però d´accordo con lui (quasi) su niente, e cercherò di dirlo sinteticamente.
1)Dal DPR 382 sono passati esattamente trent´anni. Nulla di più ragionevole che affrontarne la revisione. La legge Gelmini pone però in capo a tutto un fattore quantitativo: e cioè che ai Dipartimenti afferiscano un numero di professori non inferiore a trentacinque, che sale a quarantacinque in quegli Atenei in cui il numero dei professori superi le mille unità. Questa misura, di mero risparmio economico e che prescinde dal merito, e dunque iugulatoria dell´autonomia universitaria, non è stata minimamente contestata dai Rettori, i quali se mai ("Sapienza" di Roma), con singolare estremismo, portano il limite minimo consentito a cinquantacinque-sessanta. Queste misure colpiscono soprattutto (ma non solo) l´area umanistica; non vedo però perché proprio in Italia non si possa tener conto del fatto che un solo modello organizzativo-scientifico non vale per tutte le situazioni.
2)Ben prima della discussione della legge, è partita una frenetica corsa agli accorpamenti. Faccio qualche esempio (dai quali Dionigi si astiene). In negativo: penso che in tutte le nostre Università spariscano i Dipartimenti di Italianistica e, quasi dovunque, i Dipartimenti di Filologia classica e Filologia romanza: spariscono cioè le cellule elementari della nostra storia e identità, culturale, letteraria e linguistica.
3)Per andare al "positivo", bisogna prendere in considerazione un altro elemento della riforma: l´attribuzione ai Dipartimenti, oltre che delle funzioni di ricerca, anche di quelle didattiche. Ricerca e didattica sono congiunte, come osserva Dionigi: si tratta di vedere come. Quando le dimensioni degli accorpamenti superano il perimetro di una ragionevole specificità disciplinare o interdisciplinare, – e ciò avviene assai spesso, – essi producono organismi che non sono Dipartimenti più grandi, ma Corsi di studio, ovvero di Laurea. Le specificità disciplinari o interdisciplinari spariscono nel mucchio, o si inabissano (almeno si spera) nelle scelte individuali dei singoli docenti. Resta il riaccorpamento organizzativo di unità diverse, che possono dar luogo, alla fine e in un modo qualsiasi, a un titolo di studio (Storia, Filosofia, Lingue, Lettere moderne, Lettere antiche, talvolta Lettere antiche e moderne, ecc.). Quando non c´è neanche questo è persino peggio: gli accorpamenti appaiono puramente pretestuosi, e spesso persino risibili. Insomma: semplificare, concentrare, abolire, unificare, soprattutto risparmiare.
4)Si tratta di una tendenza drammatica, di cui neanche il centrosinistra mostra di essersi accorto. Forse perché, se la legge Berlinguer del tre più due ha aperto la strada alla licealizzazione dell´Università italiana, quella Gelmini ne scuote le fondamenta, mettendone in discussione il ruolo di sede privilegiata della ricerca.
5)Cosa c´è sull´altro piatto della bilancia secondo Dionigi? I fondi per avviare negli Atenei un processo di "meritocrazia". Per dire che la riforma Gelmini è davvero "buona", i Rettori aspettano di vedere se il Fondo di Finanziamento Ordinario sarà "almeno" quello degli anni precedenti e se verrà attribuito agli Atenei il promesso incremento meritocratico del 7% (!). Facile aspettarsi, nelle attuali condizioni economiche del Paese, che né l´una né l´altra aspettativa verrà soddisfatta. Ma anche se lo fosse, cosa fare di quei fondi se, non, semplicemente, tirare avanti in un deserto di rovine?

giovedì 10 giugno 2010

l’Unità 10.6.10
Nuove ragioni per resistere
di Concita De Gregorio

Siccome diamo per scontato che il premier e i suoi consiglieri conoscano le date fondamentali della nostra storia (e diamo anche per scontato che il premier sia nel pieno possesso delle sue facoltà mentali), siamo obbligati a considerare non casuale la coincidenza tra il forsennato attacco alla Costituzione della Repubblica e il 70 ̊ anniversario della mussoliniana dichiarazione di guerra.
Anniversario a parte, le analogie sono tante. L’assoluta mancanza di rispetto per la Storia, la faciloneria nel liquidarne l’insegnamento. Il fastidio per le regole e l’illusione che un’ idea dissennata diventi sensata solo perché sostenuta da una maggioranza urlante. Il disprezzo per le giovani generazioni e per la loro formazione.
Grazie alla nostra Costituzione, che la guerra ripudia, non si possono più mandare i giovani al macello. Ma si possono distruggere le basi della loro formazione civile dileggiando la carta fondamentale. Che, come Silvio Berlusconi dovrebbe sapere, fu scritta facendo tesoro di quanto era accaduto dopo quel 10 giugno del 1940, perché non si ripetesse mai più.
Conosciamo troppo bene la dinamica servile che s’innesca in queste circostanze. Ci sarà chi dirà che il discorso di ieri del premier è stato “frainteso”. Ci sarà qualcuno dei suoi lautamente stipendiati intepreti autentici che irriderà il nostro disgusto. Lo sappiamo bene. Ma è un motivo in più per andare avanti. Togliere significato alle parole o, peggio, con-
ferire al leader una speciale immunità semantica (in aggiunta a quella giudiziaria) è un altro modo per fiaccare e avvilire una democrazia. Perché la democrazia si fonda sul confronto delle idee e sul rispetto. Altra categoria che il nostro premier ignora come dimostra l’incredibile notizia emersa ieri: fin dal 25 maggio il consiglio dei ministri aveva deciso di porre la fiducia sulla legge-bavaglio. È ora chiaro con qualche convinzione la maggioranza abbia in queste settimane dialogato con le opposizioni.
Ieri abbiamo dato notizia del boom di iscrizioni di giovanissimi all’Associazione nazionale partigiani. Prendono tutti la tessera da antifascista. L'aggettivo che il nostro premier non ha mai voluto pronunciare, ed è sempre più chiaro perché. Ecco un modo per rispondere e per cominciare a costruire un paese migliore. Con pacatezza, lucidità e coraggio cominciamo a pensarci tutti come moderni partigiani. La Resistenza non sia solo memoria del passato ma esercizio nel presente.

l’Unità 10.6.10
La Costituzione
Architrave della democrazia
di Marcella Ciarnelli

L'originale della Carta è custodito nell'archivio di Palazzo Sant'Andrea, di fronte al Quirinale, che quell'archivio ha voluto. A pochi passi c'è la sede della Consulta. Rassicura che i massimi garanti della Costituzione pur con funzioni diverse, l'abbiano così vicina, quasi ad accudirla. A difenderne la concezione e il testo che scaturì dal dibattito e il confronto di forze diverse. L'origine e il futuro. Le radici e la prospettiva. Con una capacità di accoglimento delle istanze e allo stesso tempo di anticipazione che ancora lascia sorpresi davanti all'incapacità di dialogo e di confronto che sembra caratterizzare l'attuale epoca politica nonostante sia evidente che per superare la crisi, lo ha ribadito ancora ieri il presidente Napolitano, sia più che mai necessaria “una comune progettualità sorretta da una coerente visione dell'interesse generale”. E, innanzitutto delle giovani generazioni. Un attacco non nuovo quello del premier. Già nel 2003, giusto per citare un episodio, si esibì, sempre davanti ad una platea di imprenditori, in una show smodato come quello di ieri sull'articolo 41. A quello per tutti gli altri che a suo parere lo imprigionano e lo condizionano. Ad un testo tutto che a seconda dei giorni definisce “cattocomunista” ma anche di “ispirazione sovietica”. Quindi “un inferno” per lui che per le regole non ha alcun rispetto. Ma altri vigilano. Parlano per il Capo dello Stato e per tutti i garanti della Carta le parole dette in tante occasione. In particolare nel sessantesimo. “La nostra come ogni altra Costituzione democratica è legge fondamentale, architrave dell'ordinamento giuridico e dell'assetto istituzionale. E in quanto tale essa va applicata e rispettata”. Il punto fermo è di Giorgio Napolitano nell'intervento alla Biennale della democrazia, Torino, aprile 2009.

l’Unità 10.6.10
Un problema europeo
Jean-Froncois Juillard Segretario Generale Reporters sans Frontières

I senatori italiani sono oggi l’ultimo baluardo democratico contro il progetto di legge sul divieto di pubblicazione delle intercettazioni telefoniche o delle informazioni relative a indagini in corso. Il testo prevede sanzioni penali ed economiche, multe che possono raggiungere più di 450mila euro per gli editori di giornali o per media audiovisivi che dovessero diffondere documenti o registrazioni audio e video realizzati nel corso di una indagine giudiziaria.
Se il testo fosse ratificato oggi, i senatori impedirebbero de facto qualunque indagine giornalistica nel campo giudiziario. Prigioni o multe sproporzionate, le pene in cui possono incorrere i contravventori rappresentano in effetti una vera censura, un ostacolo economico e penale inammissibile alla libertà di informare su uno degli aspetti principali di una società democratica.
Nessuno mette in discussione il principio dell’indipendenza dei magistrati italiani, unici titolari del compito di pronunciarsi sui dossier giudiziari. Ma la storia ci ha dimostrato che la stampa ha spesso, e molto largamente, contribuito con le sue inchieste a far progredire dei casi, se non addirittura impedito che essi cadessero nell’oblio o nell’impunità. E se è vero ed evidente che l’Italia non può essere ridotta ai suoi problemi di corruzione o alle attività mafiose, è anche certo che questi temi non possono essere “legalmente” seppelliti da un testo che legittima
il blackout mediatico. I giornalisti italiani possono sin da ora contare sulla solidarietà di Reporters sans frontières per pubblicare simbolicamente sul nostro sito i dati che dovessero cadere sotto il colpo di questa censura.
Una decina di giornalisti italiani vivono sempre sotto protezione della polizia per aver indagato su questi temi giudiziari e per averli pubblicamente denunciati. Questo unico fatto avrebbe dovuto convincere da molto tempo i parlamentari ad abbandonare questo progetto. Non mescoliamo d’altra parte i ruoli. I giornalisti non sono responsabili né del contenuto di queste intercettazioni né degli scandali che esse permettono di mettere in evidenza. La loro pubblicazione in extenso nei media non costituisce diffamazione ma è di interesse pubblico e costituisce, d’altra parte, uno dei principali vettori che permettono di rinforzare le indagini pubblicate. Allo stato, il progetto di legge metterebbe i giornalisti in una posizione schizofrenica, stretti tra l’esigenza di fornire la documentazione indispensabile per chiarire ciò che scrivono e la proibizione legale di fornirle ai propri lettori.
Noi facciamo appello a ogni senatore perchè non si renda complice di una legge liberticida e totalmente incompatibile con gli standard democratici europei che le assemblee parlamentari devono incarnare e garantire. La posta in gioco di questa legge supera d’altra parte l’ambito nazionale.
Se l’Italia, membro fondatore dell’Unione europea, dovesse approvare questo testo di legge, il segnale inviato ai paesi extra europei sarebbe catastrofico e incoraggerebbe un buon numero di dittature a “ispirarsi” opportunamente a questo testo per limitare la capacità investigativa della stampa locale. Secondaria agli occhi di alcuni, questa dimensione del problema non può, non deve, essere trascurata.
(traduzione di Marina Fortuna)

Repubblica 10.6.10
La sovranità privata
di Carlo Galli

«Fare leggi rispettando questa Costituzione è un inferno». Certamente, alle molte e anche contrastanti definizioni di "Costituzione" mancava ancora questa: ma c´è da sperare che d´ora in poi i manuali di diritto costituzionale tengano conto anche della Costituzione come inferno, ultima delle esternazioni di Berlusconi in questi giorni.
D´accordo. Si tratta del solito espediente grazie al quale una sostanziale vittoria (il provvedimento sulle intercettazioni) viene fatta passare, in perfetto stile democristiano, per un compromesso di cui non si è soddisfatti: a ciò Berlusconi è spinto anche dal timore di esser poi travolto nella sconfitta nel caso che dal Quirinale venga uno stop alla legge. La prova di forza della "blindatura" – e a maggior ragione il pugno sul tavolo del voto di fiducia – è venata da debolezza, come ha scritto ieri Ezio Mauro. Al tempo stesso si tratta di una mossa diversiva, per aprire una polemica che distolga l´opinione pubblica sia dalla legge-bavaglio sia dalla manovra economica, due provvedimenti fortemente impopolari. E per incolpare qualcuno o qualcosa – la Costituzione, chi l´ha voluta in passato, chi la difende ora – come responsabile delle debolezze e delle contraddizioni dell´azione di governo, che vanno imputate invece alle divisioni nella maggioranza e all´uso distorto delle istituzioni, che non sono state pensate per essere utilizzate come ora avviene.
Il discorso pubblico che proviene da Berlusconi – esplicitamente post-costituzionale, e ormai anti-costituzionale – è infatti consapevolmente centrato sul trasferimento nel campo politico delle logiche imprenditoriali del "comando efficace", libero da ogni contropotere costituito, anche da quello delle norme e delle procedure. La funzione pubblica è quindi concepita come qualcosa di discrezionale, che dipende dalla volontà del Capo: non a caso egli afferma che la Protezione Civile dovrebbe astenersi dal suo dovere, in Abruzzo; e che la Rai non dovrebbe vedersi rinnovare il contratto di concessione, se non si piega ai suoi voleri.
Questo prevalere del Privato sul Pubblico viene definito da Berlusconi "sovranità": quel Privato ha infatti vinto le elezioni, e ha quindi ricevuto un presunto mandato dal popolo sovrano a governare senza limiti né controlli. A questa aberrante conclusione egli giunge poiché concepisce la sovranità come la titolarità e l´esercizio di una volontà monolitica e irresistibile (in un certo senso, come facevano i giacobini, che concentravano nelle loro mani la sovranità del popolo). È questo modo di pensare che gli fa dire che i pm e la Corte Costituzionale, esercitando le loro funzioni giurisdizionali, attentano alla sovranità; che cioè lo colloca al di fuori della dimensione costituzionalistica che la nostra democrazia si è consapevolmente data nel secondo dopoguerra. Infatti, la nostra Costituzione (non senza suscitare a suo tempo qualche perplessità, anche a sinistra) ha impiantato sul corpo della sovranità popolare l´elemento – che proviene dalla civiltà politica e giuridica del costituzionalismo inglese e americano – del controllo di legalità, da parte della magistratura, sulle azioni dei membri del ceto politico in generale, e del controllo di legittimità, a opera della Corte Costituzionale, sugli atti del Legislativo (e sui decreti dell´Esecutivo). Nessuno, nemmeno la sovranità popolare, è onnipotente: la politica si manifesta attraverso il diritto che limita, con la legge, ogni potere; e garantisce così i diritti di tutti.
Se Berlusconi afferma che agire secondo la Costituzione è un inferno, evidentemente pensa che il paradiso sia il potere senza limiti: il potere privato di un padrone (in greco, despòtes), reso onnipotente dall´investitura popolare. Insomma, la sua idea di sovranità è privata e al tempo stesso assoluta: è, tecnicamente, un´autocrazia plebiscitaria. La quale oggi si manifesta con chiarezza programmatica, ma forse anche epigrammatica: come annuncio di linee d´azione "riformistiche" per l´avvenire (secondo le parole di commento di Bossi, e secondo le proposte recentissime di Tremonti sull´articolo 41), ma anche come commento conclusivo di un ciclo politico, reso "infernale" proprio dalla sopravvivenza ostinata della Costituzione.
In ogni caso, questo "discorso" – che, certamente, cela la concreta finalità di coprire specifiche persone rispetto a specifiche responsabilità in specifiche inchieste giudiziarie: una finalità parziale alla quale si sacrificano beni collettivi come l´efficacia delle indagini e la libertà dei cittadini – fa passare come ovvia la tesi che la politica consista in un comando senza controlli, purché efficace. Ed è questa tesi a distaccare gli italiani dalle radici del loro passato democratico e costituzionale (recente, ma anche ormai remoto: o almeno così pare), e a generare, proprio col suo apparente tono iperpolitico, uno specifico atteggiamento antipolitico, cioè quell´analfabetismo civile che afferma qualunquisticamente che solo i fatti contano, e che le regole sono soltanto pastoie che frenano l´agire dei governanti. Una tesi, quella espressa da Berlusconi, che ha almeno il merito della chiarezza; e che individua un fronte di conflitto politico dal quale sarà difficile sottrarsi, anche per chi lo volesse: il fronte che vede da una parte chi lotta apertamente contro la forma e la sostanza della Costituzione, e dall´altra chi la difende, consapevole che in questa difesa – si spera non rassegnata, né di maniera – consiste ormai la sostanza della nostra democrazia.

l’Unità 10.6.10
Se anche la sinistra mette i vecchi contro i giovani
Gira in Italia un pericoloso luogo comune che contrappone i figli ai padri: una trovata demagogica che non affronta né risolve i problemi. Come dimostra la questione dei “fuori ruolo” nelle Università
di Michele Ciliberto

Il vero problema
La questione generazionale esiste ma è in primo luogo una questione economica e sociale che attiene ai nuovi rapporti tra capitale e lavoro: un’analisi che oggi è del tutto assente

Come ci ha spiegato a suo tempo Flaubert il mondo è retto dai “luoghi comuni”, i quali nascono dalla realtà concreta, di cui sono, al tempo stesso, una interpretazione. Oggi, uno dei “luoghi comuni” più diffusi è costituito dai “giovani”. Ne parlano i giornali, le televisioni, esponenti del governo e dell’opposizione: tutti lamentano la situazione disgraziata in cui si trovano i “giovani” e sottolineano la necessità di prendere provvedimenti adeguati, e urgenti, per cercare di rimediare a questa situazione. È una “notte” in cui si celano populismo e demagogia, i quali servono a tutto, fuorché a porre in modi concreti e realistici il problema.
I “giovani”: intanto, quali giovani? Di chi stiamo parlando quando parliamo dei giovani? Certo, esiste una dimensione generazionale, quella serie complessa di elementi che fanno di una “generazione” una “generazione”. Ma nel suo ambito è necessario fare le indispensabili distinzioni: in Italia, i “giovani” del nord e quelli del sud; quelli provenienti da famiglie agiate e quelli che nascono in famiglie povere; i figli dei “nativi” e quelli degli “immigrati”: tutte differenze che dovrebbero essere elementari e che, invece, vengono dissolte in una melassa che serve solo a mantenere intatti gli equilibri dati e i privilegi attuali.
La specificità della “questione generazionale” non può, e non deve, essere cancellata; ma è sempre, e in primo luogo, una questione di carattere economico, una questione sociale. Senza interrogarsi sui problemi, e le forme, oggi del dominio sociale, sulle modalità che ha oggi assunto il rapporto tra “capitale” e “lavoro” e uso provocatoriamente una coppia tipicamente marxiana non si intendono i modi nuovi in cui si pone oggi la “questione generazionale”, le ragioni per le quali una intera “generazione” sta decadendo, con costi inauditi sia sul piano sociale che su quello personale, individuale, esistenziale.
Sarebbe il momento di avviare una seria analisi dei motivi strutturali che stanno alla base di questa crisi così acuta. Invece alle analisi concrete si sostituiscono i lamenti demagogici e alla critica di ordine sociale si sovrappone, artificiosamente, un conflitto di ordine generazionale. Piuttosto che individuare le ragioni reali di questa situazione si spingono i “giovani” contro i “vecchi”, secondo un modulo tipico delle ideologie conservatrici e reazionarie: come se “vecchi” e “giovani” fossero due categorie politiche ed economiche in grado di farci comprendere, affrontare e superare la “crisi” attuale.
Colpisce ad esempio – soprattutto per la parte politica da cui proviene il documento sulla Università approvato dall’ultima Assemblea del Partito Democratico; colpisce anzitutto per il linguaggio volutamente utilizzato, incentrato sull’apologia della “discontinuità”, della “innovazione”, della “rivoluzione”; un lessico, verrebbe da dire, di tipo futurista e , come tale, velleitario, inconcludente. La “rivoluzione” è una cosa seria, basata su analisi concrete, specifiche, documentate. Niente di tutto questo nel documento approvato quasi all’unanimità dall’Assemblea: serie, ma ovvie parole sull’autonomia dell’Università, sulla necessità di un saldo rapporto tra Stato e Regioni, sull’aumento dell’efficienza e delle risorse, sulla istituzione dell’Agenzia per la ricerca e l’innovazione, su una programmazione strategica per definire il futuro dell’Università, sulla valorizzazione del dottorato di ricerca... Intendiamoci: alcune proposte sono nuove (la tenure track); ma il clou del Documento è nello “shock generazionale” (così è scritto): cioè nel mandare forzosamente in pensione tutti i professori ora in servizio a 65 anni – cioè i “vecchi” per fare spazio ai “giovani” .
Forse è una proposta fatta per colpire e fare parlare del Pd e della sua “politica”: non per nulla il quindicinale CampusPro ha avviato un mini sondaggio per vedere il consenso che essa riscuote nell’Università, trasformandolo se favorevole in un’arma per licenziare i professori universitari troppo “vecchi”: una nuova forma della democrazia plebiscitaria oggi di moda in Italia.
Non è questa la strada da seguire: su queste colonne ho preso posizione contro il “fuori ruolo” dei professori che è stato opportunamente eliminato; nè ho alcun complesso di Erode. Anzi. Vorrei però ricordare che, come diceva Labriola, è la “tradizione” che ci tiene nella storia, e che questo vale anche e soprattutto per l’ Università. Con gli shock generazionali si va poco lontano, mentre si può facilmente precipitare nella barbarie. Con una perdita secca per tutti: tanto i “vecchi” quanto i “giovani”.

l’Unità 10.6.10
Intervista a Zeev Sternhell
«Sono pessimista sulla pace. Netanyahu non la vuole»
Lo storico israeliano: «Non c’è alcuna possibilità che il governo controllato dalla destra e dai coloni faccia progressi. Occorre il pressing di Usa e Ue»
di Umberto De Giovannangeli

L’ultima volta che l'avevamo incontrato nella sua casa a Gerusalemme, era pochi giorni dopo un evento che aveva scioccato Israele: una bomba piazzata all'ingresso della sua abitazione. Un attentato compiuto da chi non perdona a Zeev Sternhell le sue posizioni contro la deriva oltranzista della destra israeliana e la colonizzazione dei Territori palestinesi. «Come vede – dice sorridendo prendendo posto nel suo studio-biblioteca – non sono riusciti a zittirmi».
Fuori dal portone d'ingresso staziona una macchina della polizia: il segno tangibile di una ferita – di un pericolonon rimarginata. Sternhell guarda con preoccupazione al presente e non si fa illusioni sull'immediato futuro: «Non c'è alcuna possibilità – osserva che l'attuale governo israeliano, controllato dalla destra e fortemente influenzato dai coloni, compia un qualsiasi serio progresso».
Professor Sternhell, come esce Israele dalle vicende degli ultimi giorni? Questa crisi sembra lasciare un segno profondo sia politico che diplomatico ...
«Mi scusi, non vorrei né essere rude e ne sviare la domanda, ma continuare ad occuparsi della Freedom Flotilla o di qualunque altro evento – per grave che sia – significa continuare a fare il gioco di chi i problemi del conflitto israelo palestinese, in realtà, non li vuole risolvere. Si cura il sintomo e non l'origine del male, si spegne la fiamma facendo finta di non accorgersi del focolaio dell'incendio che è proprio qui, davanti a noi. Finché non verrà rimosso il vero problema – con la fine dell' occupazione e la restituzione dei Territori – non c'è alcuna possibilità che il conflitto giunga a termine. Invece, in tutti questi anni, si è deciso di puntare i riflettori su questo o l'altro evento facendo di tutto per non occuparsi del nucleo della questione. E in questo lungo lasso di tempo – oltre 40 anni – le cose non sono rimaste statiche. Quello che anni fa era realistico, oggi non lo è più. Per interi quartieri e piccole città che oggi sono una realtà, si dovrà pensare a soluzioni alternative, molto più complicate e dolorose anche se non impossibili. C'è veramente qualcuno che pensa che insediamenti trasformati in città come Maale Adumim, Ariel, Efrat, Ofra, Kiriat Arba possano essere evacuate delle centinaia di migliaia di loro abitanti? Oppure di abbattere e restituire quartieri di Gerusalemme come Ghilo, Pisgat Zeev, Har Homa? No, è chiaro che si dovrà procedere a scambi di territori. Ma dove sono oggi i leader – dalle due parti – in grado di prendere queste decisioni difficili e dolorose? E dove sono soprattutto i popoli, che dovrebbero spingere e spalleggiare i propri capi nel procedere sulla strada della pace? Personalmente, da parte israeliana, non identifico né la possibilità né la volontà di avviarsi su questa strada. La settimana scorsa c'è stata una "flottiglia della pace" la prossima settimana ne arriveranno forse altre o ci saranno altri eventi che occuperanno i media. Ideale per chi non vuole confrontarsi veramente con il problema e risolverlo». Comunque, è stato deciso, nonostante tutto, di non bloccare il processo di pace ...
«Si, ma non c'è alcuna possibilità che l'attuale governo israeliano, controllato dalla destra e fortemente influenzato dai coloni, compia un qualsiasi serio progresso. Per avere una pur remota possibilità di successo dei negoziati la spinta deve venire da fuori. Il modello dei colloqui diretti senza intermediari, oggi, fra israeliani e palestinesi, è inapplicabile, non può assolutamente funzionare. È per questo che il ministro degli Esteri, Avigdor Lieberman, li reclama così tanto; sa bene che è il modo più certo per perpetuare l'occupazione e dare ancora tempo all'ampliamento degli insediamenti nei Territori occupati. Invece, ciò che dovrebbe essere fatto è organizzare un massiccio coinvolgimento americano e europeo in cui vengano esercitate tutte le possibili pressioni sulle parti. Magari facendo una distinzione netta fra il sostegno a Israele come Stato legittimo e il sostegno al governo d'Israele, che non è cosa ovvia e vincolante per nessuno – neppure per il mondo ebraico. Questo triangolo – Usa, Europa e mondo ebraico, deve sostenere il diritto irrinunciabile all'esistenza d'Israele, ma deve al contempo spingerla e costringerla a fare tutto il necessario e il possibile per giungere ad una soluzione del conflitto».
E sul piano interno, c'è una possibilità che la crisi faccia da scossone? «E in che modo potrebbe farlo? Con il governo di coalizione di oggi, controllato dalla destra e in cui i laburisti fungono da foglia di fico? Forse potrebbe succedere qualcosa se ci fosse un governo di unità nazionale centro sinistra moderata e destra moderata – vale a dire Laburisti, Kadima e la parte moderata del Likud. Un governo che dovrebbe formarsi sulla base di una piattaforma che stabilisca come suo scopo di vita la soluzione del conflitto. Ma anche qui non sono sicuro che la lotta più cruenta non avverrà per le poltrone ministeriali».
Professor Sternhell, in un suo libro di successo, Lei ha rivisitato criticamente i “miti” che hanno caratterizzato la nascita d'Israele, soffermandosi sul sionismo. Un mito infranto dalla realtà? «Non sarei così drastico. Guardi, pur tenendo conto di tutte le ingiustizie inflitte agli arabi-palestinesi il sionismo salvò più di mezzo milione di ebrei che, se non avessero abbandonato l' Europa, non sarebbero sopravvissuti. Il sionismo però, a mio avviso, si fonda sui diritti naturali dei popoli all' autodeterminazione e all'autogoverno. Ne consegue che questi diritti sono anche propri dei palestinesi. Perciò il sionismo ha diritto di esistere solo se riconosce i diritti dei palestinesi. Chi vuole precludere ai palestinesi l'esercizio di tali diritti non può rivendicarli per se stesso soltanto. I diritti nazionali sono una estensione dei diritti individuali e per questo sono universali: i diritti degli israeliani non sono differenti da quelli dei palestinesi. Per questa ragione gli insediamenti devono fermarsi e l'unica soluzione logica sia per gli ebrei sia per gli arabi resta quella di due Stati per due popoli, con una ridefinizione concordata dei confini che tenga conto di una realtà diversa da quella del 1967. L' ipotesi di un unico Stato non solo porta all' eliminazione dello Stato ebraico ma apre la strada a conflitti sanguinosi per generazioni. Due Paesi, fianco a fianco, fondati su uguali diritti per entrambi i popoli, questa è la strada giusta e necessaria: ogni altra scelta condurrebbe o al colonialismo o alla eliminazione di Israele in uno Stato binazionale». Il Labour di oggi può riattivare ciò che di progressivo c'era nel sionismo?
«Direi proprio di no. Stiamo parlando di un partito che sembra voler mascherare la sua impotenza con un usurato esercizio del potere ministeriale; un partito “annebbiato” dal nazionalismo e in preda a un vuoto ideologico e progettuale che va dal sociale all' economia e naturalmente al processo di pace. E questo vuoto rende ancor più fragile non solo la ricerca di un'alternativa alle destre ma la stesse basi democratiche d'Israele».

l’Unità 10.6.10
Obama riceve Abu Mazen: «Nella Striscia di Gaza situazione insostenibile»
Il blocco israeliano strangola la Striscia di Gaza. La situazione è insostenibile dice il presidente degli Stati Uniti incontrando a Washington il capo dell’Anp, Abu Mazen. Ancora possibili progressi sulla strada della pace.
di Virginia Lori

Il presidente americano Barack Obama ha ricevuto ieri alla Casa Bianca il presidente palestinese Abu Mazen dichiarando «insostenibile» la situazione esistente a Gaza e offrendo aiuti per 400 milioni di dollari ai palestinesi. Obama ha espresso il suo sostegno per la richiesta dell'Onu di una inchiesta «credibile e trasparente» e «in linea con gli standard internazionali» sui fatti relativi al blitz israeliano contro una flottiglia filo-palestinese diretta a Gaza.
IL BLITZ IN MARE
«Tutti quanti, in Israele e in Turchia, in Palestina e sicuramente qui negli Stati Uniti, desiderano conoscere i fatti di questa tragedia: cosa l'ha causata e cosa si può fare per prevenirla in futuro», ha detto il presidente Usa parlando nello Studio Ovale con accanto Abu Mazen. «Penso che sia nell'interesse di Israele fare in modo che ognuno sappia esattamente cosa è successo», ha detto Obama che ha voloto sottolineare che è ancora possibile «trasformare in una opportunità per la pace» la «tragedia» della sanguinosa operazione e che è ancora possibile realizzare «progressi significativi» sulla strada della pace nel corso del 2010. Al colloquio ha partecipato anche l'inviato speciale Usa per il Medio Oriente George Mitchell. I tentativi della amministrazione Obama di sbloccare la situazione di stallo nel processo di pace sono deragliati dopo il sanguinoso raid israeliano contro la flottiglia filo-palestinese che ha avuto l'effetto di isolare Tel Aviv nella difesa delle sue azioni. L'incidente aveva fatto saltare un incontro alla Casa Bianca tra Obama e Benyamin Netanyahu, in programma la scorsa settimana, perchè il premier israeliano (già arrivato in Nord America) era dovuto tornare rapidamente in patria. L'incontro è stato riprogrammato per la fine di giugno. Il presidente palestinese Abu Mazen, che aveva incontrato Obama l'ultima volta nel settembre scorso, ha chiesto agli israeliani di «por fine all'assedio» del popolo palestinese. Obama ha affermato che la situazione a Gaza è diventata insostenibile e che «mentre è fondamentale considerare le necessità di sicurezza di Israele, devono anche essere salvaguardate le necessità dei palestinesi». «È evidente che non è possibile permettere che vi siano missili che da Gaza colpiscono il territorio israeliano ha detto Obama ma deve essere possibile avere un meccanismo che consenta di bloccare il traffico di armi verso Gaza senza dover bloccare tutti i rifornimenti ai palestinesi che vivono nell'area». Obama ha annunciato uno stanziamento di 400 milioni di dollari per dare assistenza ai palestinesi che vivono a Gaza e nella Cisgiordania da utilizzare nel campo della costruzione di abitazioni, nel settore scolastico nello sviluppo delle attività economiche.
«È importante sottolineare il nostro impegno al miglioramento delle condizioni di vita quotidiane della gente palestinese», ha affermato l'inquilino della Casa Bianca elogiando Abu Mazen per il suo «eccellente lavoro» nel migliorare la situazione del popolo palestinese. Abu Mazen ha detto di non avere pre-condizioni al passaggio dalla fase dei colloqui indiretti a quella dei colloqui diretti tra le due parti.

Repubblica 10.6.10
Ricordando Neda
di Timothy Garton Ash

Non dimentichiamo l´Iran. Ricordiamoci di Neda. Se questo fine settimana a Teheran scenderanno in strada dimostranti in verde a commemorare il primo anniversario dell´elezione rubata da Mahmoud Ahmadinejad, senza dubbio saranno vittime della brutalità dei delinquenti della milizia basij, della polizia segreta e dei guardiani della rivoluzione.
Carcere, tortura, violenza sessuale sugli uomini e esecuzioni sono queste le offerte che gli scagnozzi della Repubblica Islamica portano in onore di Allah, il compassionevole, il misericordioso.
Di fronte alla violenza della repressione il movimento verde si è molto indebolito, ma non è sparito. L´Iran non sarà mai più come prima delle elezioni del 12 giugno 2009. Nella grande manifestazione svoltasi tre giorni dopo quella data, una delle maggiori che la storia riporti, tutto è cambiato, cambiato profondamente. Nella repressione che è seguita è nata una terribile bellezza. Il processo storico richiederà forse anni, ma un giorno, col deteriorarsi dell´economia e il diffondersi dello scontento a più ampie fette della società, il movimento tornerà in forze, seppur magari in forma diversa. Alla fine in Iran si erigeranno statue di Neda e monumenti ai martiri di questa lotta per la libertà, come oggi esistono monumenti ai martiri della guerra Iran-Iraq.
Non dovremmo dimenticare mai neppure che si tratta di un movimento nato spontaneamente in seno ad una società musulmana, con l´obiettivo di trasformare in qualcosa di diverso il regime islamista che è al potere da più lunga data e che resta tuttora il più forte.
Se volete avere un´idea dell´agonia e estasi dell´Iran nell´anno passato vi consiglio di leggere Death to the Dictator! (Morte al dittatore) di Afsaneh Moqadam. È la storia dell´elezione scippata e del tentativo di rivoluzione verde, narrata attraverso le vicissitudini di un giovane, Mohsen, preso dall´entusiasmo della protesta, ma poi detenuto, torturato e ripetutamente violentato dai suoi carcerieri. (Mohsen è troppo umiliato per ammetterlo, ma le orribili conseguenze fisiche vengono dettagliatamente illustrate alla madre da un medico, assieme alle adeguate terapie). La narrazione dei più ampi eventi politici si dipana vivida e ben documentata attorno a questo centrale elemento biografico. Quello che emerge chiaramente è il ruolo vitale delle donne, di cui ha scritto anche il premio Nobel per la pace, Shirin Ebadi. La madre di Mohsen ha partecipato ella stessa alla protesta, in forma autonoma dagli uomini della famiglia, e si capisce che per lei si è trattato di una doppia emancipazione. "Afsaneh Moqadam" è uno pseudonimo, e alcuni fatti e nomi sono stati modificati per proteggere gli interessati, ma ho parlato con l´autore e non ho dubbi che questo straziante racconto sia basato su una storia vera.
Poi guardate su YouTube il film americano For Neda, la storia di Neda Agha-Sultan, la giovane uccisa in una delle prime dimostrazioni di massa. Il film è un po´ troppo sdolcinato per i miei gusti, ma vale assolutamente la pena di vederlo, contiene alcuni servizi giornalistici coraggiosi, opera di Saeed Kamali Deghan, tornato in Iran per filmare interviste ai familiari di Neda. Nonostante gli sforzi del regime per bloccarlo risulta che il film sia già stato visto online da molti in Iran. Infine date un´occhiata all´ultimo rapporto di Amnesty International sull´Iran, un catalogo di arresti, torture e numerose esecuzioni.
Intanto gli Stati Uniti, la Gran Bretagna ed altre potenze occidentali ieri sono riusciti a far approvare dal Consiglio di sicurezza dell´Onu un nuovo pacchetto di sanzioni. Benché ammorbidite su richiesta di Russia e Cina esse aumentano la pressione sul regime e su alcuni dei leader e delle imprese dei guardiani della rivoluzione. Ma le sanzioni riguardano solo il nucleare, non i diritti umani.
Due sono gli interrogativi: qual è il modo migliore per impedire che l´Iran si procuri l´atomica? E in che modo le possibili strategie sul nucleare vanno ad interagire con la tormentata politica interna del paese? Dubito fortemente che delle sanzioni accettabili da parte cinese saranno mai abbastanza rigide da impedire all´Iran di fare il salto al nucleare. Però peggioreranno la situazione economica del paese e quindi potenzialmente faranno crescere lo scontento sociale che alimenta l´opposizione.
C´è chi sostiene che l´Occidente avrebbe dovuto reagire più positivamente alla recente proposta avanzata da Turchia e Brasile di portare fuori dal paese una grossa quantità dell´uranio iraniano a basso arricchimento. (Seccati, Turchia e Brasile hanno votato contro l´ultimo pacchetto di sanzioni). Non credo che questa iniziativa avrebbe impedito all´Iran di procedere in segreto verso l´armamento nucleare e molti oppositori del regime non avrebbero accolto con entusiasmo una simile disponibilità a stringere le mani insanguinate dei loro oppressori. Bombardare l´Iran, come richiesto dalle teste calde negli Usa e in Israele produrrebbe senza dubbio un´ondata di solidarietà patriottica con il regime. All´estremo opposto, sono sempre più numerosi gli esperti di politica estera a Washington che oggi affermano in privato (qualcuno anche in pubblico) che dobbiamo imparare a convivere con un Iran nucleare – e a "contenerlo". Ma il rischio di dare avvio ad una corsa agli armamenti tra sciiti e sunniti in Medio Oriente è molto serio, e un simile "successo" rafforzerebbe anche il regime di Ahmadinejad in patria. Quattro alternative e nessuna valida.
Resta la speranza di avere in Iran un governo più responsabile. Di certo i leader del movimento verde non hanno sul nucleare una posizione molto diversa dal regime, come noi auspicheremmo. Ma un governo più benvoluto e legittimo, che riprenda i rapporti con il resto del mondo, creerebbe dinamiche assai diverse e diverse connessioni sul tema del nucleare.
Come e quando si verificherà questo cambiamento politico interno è un interrogativo di carattere morale e pratico cui devono rispondere gli iraniani stessi. L´esperienza di altri paesi indica che dipenderà dall´abilità del movimento di formulare obiettivi più chiari e più strategici, conservare una disciplina non violenta ed essere creativo nell´individuare nuove tattiche di protesta; fare appello ad altri gruppi sociali colpiti dal declino dell´economia (operai, dipendenti pubblici, piccoli commercianti); e sfruttare le crescenti divisioni interne al regime.
L´Iran sarà liberato per mano degli iraniani, non per mano nostra. Ma c´è qualcosa che possiamo fare dall´esterno. In primo luogo non nuocere. In una versione politica del giuramento di Ippocrate, dobbiamo riflettere su ogni iniziativa che assumiamo sul nucleare per esser certi che non vada a scapito del movimento interno che lotta per il cambiamento. Secondo, tenere aperte le vie di comunicazione e di informazione, così che gli iraniani all´interno e all´esterno del paese possano raccontarsi cosa sta accadendo. I programmi in lingua persiana della Bbc non devono finire sotto la scure dei tagli alla spesa pubblica britannica. Bisogna raddoppiare gli sforzi finalizzati a tecnologie in grado di aggirare la censura in modo che tutti gli iraniani abbiano accesso online a film come For Neda nonché al giornalismo dei cittadini. Terzo, i nostri leader dovrebbero dire a più chiare lettere che la nostra politica è anche una risposta alla brutale repressione interna all´Iran. Che ci preoccupiamo dei diritti degli iraniani, non solo della nostra sicurezza.
Infine, ma non da ultimo, dobbiamo sempre tenere a mente gli avvenimenti dell´ultimo anno e aiutare gli iraniani a fare lo stesso. Quello che vogliono tutti i tiranni è che la loro gente e il mondo esterno dimentichino. Lo scrittore ceco Milan Kundera ha detto che «la lotta dell´uomo contro il potere è la lotta della memoria contro l´oblio». La lotta dell´uomo e della donna, di Mohsen e di sua madre.
www. timothygartonash. com
Traduzione di Emilia Benghi

Repubblica 10.6.10
Olanda, avanza la destra xenofoba Il partito di Wilders raddoppia i seggi. In testa laburisti e liberali, crolla il premier Difficile la formazione del governo: l´incarico dovrebbe andare al liberale Rutte
di Anais Ginori

L´AJA - Geert Wilders arriva di buonora al seggio, in un sobborgo dell´Aja. Circondato da sei guardie del corpo, è il primo politico a depositare il suo voto in una giornata che si annuncia grigia e piovosa. Per tutti ma non per lui, perché il leader della destra xenofoba già immagina che chiunque vinca le elezioni sarà costretto a chiamarlo. «Spero di poter entrare nel nuovo governo», dice al telefono quando ormai è sera e i risultati danno un testa a testa tra liberali conservatori e socialdemocratici, ciascuno con 31 deputati nel nuovo parlamento. L´Olanda chiude i seggi senza poter proclamare un vincitore. Secondo i primi exit poll, emergono due premier in pectore esattamente alla pari e agli antipodi. Il candidato dell´austerity e della chiusura all´immigrazione, l´ex manager Mark Rutte. E quello della tolleranza, il sindaco laburista di Amsterdam, ebreo aperto all´Islam, Job Cohen. Dietro a loro, il Pvv di Wilders è diventato il terzo partito, passando da 9 a 22 deputati. Nei risultati parziali di ieri sera i cristiano-democratici del premier uscente, Jan Peter Balkenende, sono crollati da 41 a 21 deputati.
Si apre così una nuova fase di incertezza, dopo la crisi di governo del febbraio scorso che ha provocato le elezioni anticipate. Nelle prossime ore, la regina Beatrice avvierà le consultazioni per formare un governo. Rutte appare ancora come il favorito, perché il suo partito ha realizzato una folgorante ascesa. Nel sistema olandese, proporzionale e senza premi di maggioranza, bisognerà comunque faticare per trovare una maggioranza: servono almeno 76 su 150 deputati.
«Il nostro obiettivo è costituire un governo che porti l´Olanda fuori dalla crisi», ha spiegato Rutte, 43 anni. Gli esperti parlano già di un possibile "governo viola", alleanza tra Vvd e laburisti, come durante gli anni Novanta. Ma un accordo tra le due prime forze politiche sembra oggi più difficile. Troppe le differenze di approccio per risolvere la crisi. I social-democratici vorrebbero combinare il rigore finanziario con il rilancio dell´economia. «Volete fare un elettroshock all´economia, ma così rischiate di paralizzare tutto», ha detto Cohen, alla guida dei laburisti da soli tre mesi. Per Rutte l´importante è invece «riportare ordine negli affari», dal titolo del suo programma economico che prevede di ridurre a zero il deficit pubblico entro il 2015 (oggi è al 6,3%, tra i più bassi d´Europa), dimezzando tra l´altro il numero dei ministri e innalzando l´età pensionabile dagli attuali 65 a 67 anni.
Per trovare una maggioranza, il Vvd potrebbe anche allearsi con cristiano-democratici, verdi e liberali di sinistra D66 che hanno conquistato rispettivamente 11 e 10 deputati. Ma Rutte non ha mai escluso di poter chiamare a sé il Pvv di Wilders. «Mi vedrei bene al posto di vice-premier» ha azzardato ieri il biondo platinato, che da anni vive sotto scorta per le minacce dei fondamentalisti. Wilders aveva vinto a marzo le elezioni municipali all´Aja e ad Almere, ma non è poi riuscito ad entrare nelle giunte locali. Prima di formare il suo partito nel 2006, era un deputato liberale conservatore. Conosce bene Rutte con il quale ha avuto contrasti pesanti. Ma da ieri sera, improvvisamente, i due hanno riscoperto la stima reciproca.

Repubblica 10.6.10
"La Franzoni non ricorda di aver ucciso il figlio"
Delitto di Cogne, i periti: pensare a ciò che ha fatto potrebbe portarla a togliersi la vita
di Sarah Martinenghi

La tesi supportata dai risultati di un test sulla sua memoria, messo a punto negli Usa
Il piccolo Samuele fu ucciso nel lettone matrimoniale il 30 gennaio 2002

TORINO - E´ a suo modo "sincera" la mamma di Cogne quando dice, giura e spergiura, di non essere lei l´assassina di suo figlio. Non mente sapendo di mentire, perché Annamaria Franzoni davvero non ricorda di aver ucciso il piccolo Samuele nel suo lettone matrimoniale il 30 gennaio 2002. La famosa amnesia, la "rimozione" di aver commesso un omicidio terribile, sarebbe davvero reale, anche se si tratterebbe di una sorta di paravento di una mente fragile: Annamaria sarebbe infatti schiava di un meccanismo psicologico che però le garantisce così di sopravvivere. Perché ricordare quello che ha fatto la porterebbe a correre un rischio troppo alto, quello di morire, togliendosi la vita. «Ma appena lo ricorderà saranno guai». Ne è convinto lo psichiatra Ugo Fornari, consulente dell´accusa, che aveva effettuato una perizia per la procura e che ieri ha testimoniato al processo "Cogne bis" in cui la Franzoni è imputata di calunnia dal pm Giuseppe Ferrando nei confronti del suo ex vicino di casa, Ulisse Guichardaz. E a supportare il fatto che Annamaria conserva una memoria di se stessa "da innocente" sono stati anche i risultati di un test scientifico sui suoi ricordi, messo a punto anni fa negli Stati Uniti, e applicato su di lei in carcere dai due periti della difesa, Giuseppe Sartori, docente all´università di Padova, esperto in neuroscienze cognitive e neurologia clinica, e Pietro Pietrini, che si occupa all´università di Pisa dello studio delle basi cerebrali delle funzioni mentali.
Secondo Ugo Fornari, Annamaria (difesa dall´avvocato Paola Savio) ha ricordato la realtà dei fatti, ovvero di essere stata lei a uccidere Samuele, solo fino al mese di febbraio 2002, quando disse al marito, in una sorta di proiezione, che a commettere l´omicidio poteva essere stata la vicina di casa Daniela Ferrod: «Per me quella telefonata è la sua unica confessione: lei in quel momento spezza in due la sua persona: prende la parte cattiva e la colloca in Daniela. La Ferrod è l´Annamaria cattiva che culmina nell´uccisione». Ma la denuncia nei confronti di Guichardaz è successiva, siamo nel 2004, quando lei avrebbe ormai rimosso il ricordo: l´amnesia potrebbe risultare fondamentale nel processo "Cogne bis" per stabilire se si sia resa conto di incolpare un innocente. Per Fornari all´epoca della denuncia, era già alla ricerca di "un capro espiatorio", proprio per non suicidarsi. La donna in carcere a Bologna è in stato di vigilanza altissima, senza oggetti pericolosi e in una cella sempre aperta. Anche per la difesa, Annamaria «è genuinamente convinta della bontà della propria ricostruzione dei fatti», in particolare sulla base dello "Iat" (Implicit association test) che riuscirebbe a dimostrare se un ricordo è reale o fittizio: la donna è stata posizionata davanti a un computer, durante cinque sedute, davanti a lei comparivano frasi reali o meno (ad esempio «ora sono seduta» oppure "sono in aereo") alternate ad altre estratte dagli atti processuali sulla responsabilità nell´omicidio, sull´aver indossato gli zoccoli, essersi rimessa il pigiama, aver lasciato la porta aperta o chiusa, e sulla presenza dell´altro figlio in casa al momento del fatto. Doveva rispondere con il dito sinistro se "vero", con quello destro se "falso". Sulla base della velocità di reazione, elaborata da un algoritmo matematico, gli esperti avrebbero appurato che "tutti i suoi ricordi sarebbero reali", che la versione da lei sempre fornita di essere innocente sarebbe "scientificamente" quella, e l´unica, che lei effettivamente si ricorda: un film ormai impresso nella sua memoria.

Il Piccolo 10.6.10
Bonino: "Il premier? Prodotto avariato del disfacimento istituzionale italiano"
di Roberta Giani

Silvio Berlusconi «non gradisce nessun contrappeso», né il Quirinale, né l’opposizione, né la stampa, e nemmeno la Costituzione. Rappresenta un pericolo perché, nel suo «crescendo di populismo, incultura e insofferenza», sta accelerando il disfacimento istituzionale dell’Italia. Ma il Cavaliere, di quel disfacimento, non è la causa: e "solo" un «prodotto avariato». Emma Bonino, la paladina di tante, tantissime battaglie radicali in nome della legalità e del diritto, condanna l’ultima sortita del premier. Come condanna la legge bavaglio sulle intercettazioni. Ma, al contempo, la vicepresidente del Senato avverte: la Carta viene calpestata tutti i giorni, ormai da anni, e non solo da un premier che si sente "all’inferno".
Vicepresidente Bonino, Berlusconi dichiara che è un inferno governare tenendo conto della Costituzione. Come valuta questa uscita?
Tutte le volte che si trova in difficoltà - e ormai capita molto molto spesso - il presidente cerca colpi ad effetto spesso con risultati per lo meno controproducenti.
Quali?
Indimenticabile, tra le altre, l’offerta del ministero dello Sviluppo economico alla presidente Marcegaglia in piena assemblea di Confindustria accolta da gelo ed imbarazzo. Altro evergreen per uscire dalle difficoltà: il complotto magari internazionale. Oppure: la denuncia di regole, di leggi ed oggi persino della Costituzione che gli rendono la vita "un inferno" nel senso che gli impedirebbero di governare, in un crescendo senza fine.
Un crescendo davvero senza fine?
Un crescendo davvero infelice in un misto di populismo, incultura istituzionale, e insofferenza ai contropoteri e ai limiti che appunto sono l’essenza di un sistema democratico.
Il leader del Pd Pierluigi Bersani afferma che Berlusconi, se la Costituzione su cui ha giurato non gli piace, deve andarsene a casa. Esagera?
Trae le conseguenze di una dichiarazione assolutamente sopra le righe e fuori posto. Cui non crede, spero, neppure Berlusconi. Ma forse domani qualcuno dirà che il presidente «è stato frainteso».
Quando il premier dice che l’Italia è governata dai giudici e aggiunge che lui non ha potere, lei che pensa?
Penso che una maggioranza così schiacciante sia alla Camera che al Senato gli avrebbe permesso di governare nell’interesse del Paese, anzi in qualche modo glielo impone: perché, appunto, con il potere viene la responsabilità. Le leggi sono passate come lettere alla posta quando si è trattato di difendere i suoi interessi personali. Non metto in dubbio che si possano modificare alcuni meccanismi per quanto riguarda un certa fluidità nel governare da parte dell’esecutivo ma quello a cui stiamo assistendo, per esempio sul disegno di legge sulle intercettazioni, io non ho scrupoli a definirlo una maniera "demenziale" di legiferare. La verità è che Berlusconi non gradisce contrappesi, siano essi opposizione, Quirinale, Consulta, stampa...
Ma la legge sulle intercettazioni, nella sua ultima versione, è più accettabile? O rimane un "bavaglio"?
No, non è accettabile e le resistenze interne alla stessa maggioranza stanno a dimostrare che le contraddizioni erano forti. Per questo il governo ha imposto il voto di fiducia: per "controllare" la sua maggioranza, non per altro.
L’attacco alla Costituzione è l’ennesimo attacco al sistema di pesi e contrappesi italiani. Un sistema già compromesso?
Che il sistema sia compromesso da decenni noi radicali lo diciamo inascoltati da tempo. I danni arrecati
alla democrazia e allo stato di diritto da parte del sistema partitocratico non nascono con Berlusconi. Anzi, Berlusconi non è la causa di quello che noi abbiamo chiamato "la peste italiana" ma contestualmente uno dei tanti prodotti avariati e un acceleratore del disfacimento istituzionale.
Ma le libertà di questo Paese oggi sono in pericolo piu di ieri?
Come dicevo prima, c’è un filo conduttore che parte da lontano. Se non fermiamo la deriva, però, il rischio è che ogni giorno che passa lo spazio di libertà si comprima ulteriormente: persino la registrazione dei processi che Radio Radicale fa da anni sembra essere divenuta insopportabile al presidente del Consiglio. Per cui, di fatto, il ddl sulle intercettazioni - che non ha nulla a che vedere con i processi che sono "pubblici" per costituzione - le rende praticamente impossibili.
Si dibatte molto su Costituzione materiale e formale. Quella formale, a suo avviso, è già stravolta? E gli italiani ne sono consapevoli?
La Costituzione viene calpestata tutti i giorni, ma non solo da Berlusconi. Credo che gli italiani ne siano
consapevoli ma temo che in fondo la cosa interessi poco. Stiamo attraversando una lunga fase di ripiegamento o assuefazione dove la mancanza di regole sembra far comodo a moltissimi.

Europa 10.6.10
Luigi Einaudi è uno dei punti di riferimento imprescindibili dei Radicali di Marco Pannella
Il liberismo di Einaudi può parlare anche al Pd
di Pier Paolo Segneri

Luigi Einaudi è uno dei punti di riferimento imprescindibili dei Radicali di Marco Pannella. Speriamo che lo possa diventare presto anche per tutto il Partito democratico e non solo per la cosiddetta area liberal. Sarebbe un segnale positivo, di visione politica, di cultura politica da parte dell’attuale classe dirigente del Pd. Purtroppo, però, la filosofia e il metodo liberale, finora, non hanno avuto diritto di cittadinanza dentro l’amalgama tra gli ex-popolari e gli ex-diessini. Le idee liberali sono rimaste marginali all’interno del Pd e, invece, avrebbero dovuto rappresentare l’essenza e il cuore pulsante di un soggetto politico che volesse essere degno del nome che orgogliosamente e giustamente porta. Certo, abbiamo avuto l’eccezione della candidatura di Emma Bonino che, non a caso, durante la campagna elettorale per le regionali, ha più volte fatto cenno al suo essere liberista, "nel senso einaudiano". Ma nessuno l’ha seguita su quel terreno di libertà. Qualcuno è rimasto indifferente, altri hanno storto la bocca, la maggior parte ha scelto il silenzio.
Un giorno o l’altro, però, bisognerà pur spiegare che il vocabolo "liberista", come ci hanno insegnato Luigi Einaudi ed Ernesto Rossi, non è un’offesa, non è una parolaccia e non ha alcuna accezione negativa. Parliamoci chiaramente: anche su questo fronte, il Pd si è fatto schiacciare sulle posizioni della sinistra massimalista e post-comunista, che ha saputo imporre all’opinione pubblica e ai "democratici" una tale distorsione della parola "liberista". Nel liberismo di Einaudi, è ora che qualcuno lo scriva, sono già insiti tutti quei correttivi sociali necessari alla realizzazione della libertà economica dell’uomo e dell’individuo. Lo stesso Einaudi ha sempre ripetuto che il liberismo vive di regole e di rispetto delle regole, cioè l’esatto contrario di quanto si è soliti credere a causa delle continue distorsioni che vengono fatte a discapito del concetto einaudiano di libertà economica, quindi di quella responsabilità che connota ogni liberale e di cui il liberismo vive. Le distorsioni e le manipolazioni, insomma, sono usate a danno della parola "liberista" così da reiterare, nel tempo e nel dibattito politico, un’idea sbagliata del termine, così da falsarne il significato e impedire che nella società possa affermarsi quel principio di libertà e di responsabilità espresso e promosso dal liberismo. Einaudi, a tal proposito, ricordava spesso che «la scienza economica è subordinata alla legge morale»: questo è il liberismo. Il liberismo, dunque, è l’esatto opposto della corruzione, del malaffare e delle speculazioni oggi dominanti. Il liberismo è tutta un’altra cosa rispetto alle ingiustizie sociali che gli vengono artificiosamente attribuite e non ha niente a che vedere con la falsa cornice costruita intorno al vocabolo. Infatti, alcuni mistificatori hanno dovuto aggettivare il liberismo definendolo "selvaggio" oppure ribattezzandolo "neo-liberismo" o "ultra-liberismo". Ma il problema, ora, è capire se il Pd ha la forza di essere consequenziale con il lascito politico di Einaudi e se riuscirà a porre al centro del dibattito sulla "crisi" anche l’attualità e l’urgenza del progetto degli Stati Uniti d’Europa. Partendo proprio da come lo aveva descritto Einaudi già subito dopo la prima guerra mondiale e al cui modello si ispirarono anche Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi per scrivere il Manifesto di Ventotene. Diciamola tutta: il problema non è scegliere fra il ritorno all’indipendenza delle nazioni o se costruire l’Unione europea come soggetto politico, non è scegliere tra la sovranità degli stati nazionali e l’Europa politica che ancora non c’è, ma decidere se vogliamo esistere uniti e federati o se vogliamo condannarci a scomparire.
La scelta è, come direbbe Pannella, tra «la patria europea e l’Europa delle patrie». Quindi, tra il dare vita al federalismo europeo o il perire sotto i nazionalismi, i secessionismi, i razzismi, i fanatismi ideologici e religiosi, gli integralismi di ogni genere, le miserie umane ed altre probabili guerre. Infatti, il progetto politico per gli Stati Uniti d’Europa, di cui parlava Luigi Einaudi, si compone di due aspetti, tesi ad impedire ingestibili catastrofi e distruzioni di popoli: mi riferisco alla federazione europea, che è uno strumento, e all’approccio politico liberale, che è la base su cui il progetto degli Stati Uniti d’Europa necessariamente deve poggiare. Mi riferisco al metodo liberale, alla forma liberaldemocratica, all’abito liberale che dobbiamo dare all’Europa e di cui il federalismo europeo è un imprescindibile accessorio. Insomma, il federalismo europeo sognato e descritto da Spinelli e Rossi, essendo basato su una piattaforma liberale, è l’opposto di un dogma, casomai è un mezzo o uno strumento e, in quanto tale, si batte «contro il mito dello stato sovrano» rifiutando il pericoloso «dogma della sovranità».
Il federalismo europeo è una macchina. L’orizzonte liberale è, invece, la strada su cui la macchina del federalismo europeo può camminare, anzi: senza la strada liberale, è ovvio che la macchina non può procedere.

il Fatto 10.6.10
Nichi Vendola
“Io alle primarie sfido il Pd”
Il leader di Sinistra e Libertà riparte dalle fabbriche
“Berlusconi vince perché offre un grande racconto epico, mentre il mito della concretezza amministrativa non è una visione del mondo”
di Luca Telese

Nichi Vendola scenderà in campo per le primarie del centrosinistra. Non lo dice ancora in maniera esplicita. Ma non si tira nemmeno indietro con le circonlocuzioni ipotetiche della vecchia politica: “Sono disponibile a partecipare al cantiere della nuova sinistra”, ti risponde se glielo chiedi. Oppure: “I processi di rinnovamento matureranno da sé”. Oppure: “Mi piacerebbe contribuire a fare la differenza fra un rito di sepoltura e uno di battesimo della nuova coalizione”. Senza troppo clamore, il presidente della Puglia ha ripreso a battere l’Italia. A metà luglio il grande esordio, con la convention delle sue “Fabbriche di Nichi”, a Bari. Domani, a Roma, il primo passo nella nuova stagione politica, un comizio annunciato da un’imponente affissione: nei manifesti c’è una giraffa presa al collo dalla Finanziaria.
Vendola, che c’entra la giraffa?
Perché sopravvive nella Savana senza uccidere. Vede lontano, si nutre dove gli altri non arrivano... eh eh.
Quante volte si grida contro “la macelleria sociale”...
Non lo so. Ma mai come questa volta lo slogan è appropriato. Sta finendo l’Europa che è nata nel 1945, un’intera epoca.
Quale?
Quella dei diritti umani e delle garanzie sociali. L’Europa del patto Capitale-lavoro. In una parola il welfare.
Colpa della crisi, dicono.
Le ultime statistiche parlano di 80 milioni di poveri, nel Vecchio continente, 20 milioni di bambini. L’avremmo creduto possibile solo un anno fa?.
Ripeto, di chi è la colpa?
Di chi presenta questa crisi come uno tsunami, una catastrofe naturale senza responsabilità: eppure per anni si è permesso tutto, qualsiasi gioco di finanziarizzazione.
E in Italia?
Siamo il paese che ha detassato più di tutti i reati finanziari!
Ma perché la sinistra non guadagna consensi?
I suoi leader non spiegano perché Berlusconi vince.
E secondo lei perché?
Perché lui continua ad offrire un grande racconto. Anche nella decadenza, per ora, è più epico di quello dell’opposizione.
Qual è il racconto del centrosinistra oggi?
È tutto qui, il problema. Da un lato il crepuscolo degli Dei, dall’altro una promessa di concretezza amministrativa. Ma questa non è una visione del mondo! È un respiro corto che non porta da nessuna parte.
E Tremonti?
Il più abile gattopardo che conosca Perché nel 1994 è stato eletto nel Ppi? Non occorre andare così lontano. Negli ultimi tre anni ne ricordo almeno tre...
Di Tremonti?
(Ride). Bè, il primo, ormai archiviato, è l’uomo dell’ottimismo, della finanza creativa...
E il secondo?
Quello liberista e no global, antimercatista spinto! Poi l’ex antagonista delle banche, il Che Guevara dei risparmiatori. Troppi ruoli per un attore.
La crisi impone scelte.
Per la prima volta, invece che allontanarsi dagli affreschi sociali ottocenteschi dai Miserabili e Oliver Twist, torna lo spettro della povertà. Ma la politica non ha il coraggio di parlarne, né a destra né a sinistra. Solo la Caritas lo fa. Dobbiamo farlo, subito.
C’è la crisi greca.
Dove è nata la democrazia si sperimentano sospensione di diritti e autoritarismo.
Ci sono i conti da far quadrare, dicono.
Quando il Fondo monetario commissariava i Paesi latinoamericani storcevamo il naso. Se impone la macelleria in Europa si dice: è ineluttabile.
E non lo è?
Non capisco perché diamo carta bianca alla stessa tecnocrazia che ha legittimato la finanziarizzazione delle risorse e occultato le rapine degli speculatori.
Governano l’economia del mondo?
Senza avere nessun mandato democratico, però. Papandreou è stato commissariato. Zapatero si è autocommissariato. Tremonti, invece – eh, eh – ha commissariato Berlusconi...
Non è il contrario?
Davvero? Sta di fatto che il premier oggi è la più grande forma di opposizione al suo ministro: il premier di lotta e di governo.
Che però continua a decidere tutto.
La sua reazione alla stretta è non nascondere più i suoi sentimenti eversivi. Ormai parla come un caudillo.
Cosa va cambiato a sinistra?
Non capiscono che l’opposizione tattica non porta da nessuna parte? C’è sempre un Enricoletta che prova a moderare ciò che è già moderatissimo...
Cosa manca?
Ad esempio: il coraggio di ripartire dal lavoro. Possiamo assistere alle guerre fra poveri senza dir nulla? La sinistra è diventata una retorica della cittadinanza. È rimasta a proclamare i suoi valori mentre la società smottava altrove. Mi pare che combattano con le baionette del ‘15-‘18 la guerra del ‘45.
Serve il coraggio di proporre idee alternative...
Possiamo accettare il taglio dei fondi ai disabili, se poi si spendono 20 miliardi per i cacciabombardieri senza dir nulla?. Bisogna difendersi, dicono.
E allora facciamo un esercito europeo e risparmiamo
Attento, la attaccheranno da sinistra...
Ma si taglierebbero i costi.
Altro esempio?
Possiamo accettare senza dire una sola parola la rateizzazione delle liquidazioni? Al sud, e non solo, il tfr è simbolo di un rituale di solidarietà fra generazioni.
In che senso?
Con quei soldi i padri comprano casa ai figli. Si produce un effetto-cascata. Vogliono colpire i dipendenti, finiscono per affondare l’edilizia!.
Bersani e Letta dicono: niente primarie.
Invece servono. Se si pensa di salvarsi eludendo i problemi o serrando ranghi non si va da nessuna parte.
Si rischia di indebolirsi con una nuova conta, dicono.
Al contrario: ci si riaprirebbe alla società. Bisogna gettare il cuore oltre l’ostacolo.
Perché?
Le primarie sono come il gesto del bambino che ascolta la conchiglia e sente il rumore del mare: è il rumore della vita.
Ci vuole l’orecchio di un leader, però. Il suo?
Io sono il leader di Sinistra e libertà. E delle fabbriche. Se posso aiutare lo faccio.