Il perché di una pagina bianca
di Ezio Mauro
Una prima pagina bianca, per testimoniare ai lettori e al Paese che ieri è intervenuta per legge una violenza nel circuito democratico attraverso il quale i giornali informano e i cittadini si rendono consapevoli, dunque giudicano e controllano. Una violenza consumata dal governo, che con il voto di fiducia per evitare sorprese ha approvato al Senato la legge sulle intercettazioni telefoniche, che è in realtà una legge sulla libertà: la libertà di cercare le prove dei reati secondo le procedure di tutti i Paesi civili – nel dovere dello Stato di garantire la legalità e di rendere giustizia – e la libertà dei cittadini di accedere alle informazioni necessarie per conoscere e per sapere, dunque per giudicare.
La violenza di maggioranza è qui: nel voler limitare fino all´ostruzionismo irragionevole l´attività della magistratura nel contrasto al crimine, restringendo la possibilità di usare le intercettazioni per la ricerca delle prove dei reati. E nel voler impedire che i cittadini vengano informati del contenuto delle intercettazioni, impedendo ai giornali la libera valutazione delle notizie, nell´interesse dei lettori. Tutto questo, mentre infuria lo scandalo della Protezione Civile, nato con le risate intercettate ai costruttori legati al "sistema" di governo, felici per le scosse di terremoto che squassavano L´Aquila.
Le piccole modifiche che sono state fatte alla legge (si voleva addirittura tenere il Paese al buio sulle inchieste per quattro anni) non cambiano affatto il carattere illiberale di una norma di salvaguardia della casta di governo, terrorizzata dal rischio che i magistrati indaghino, i giornali raccontino, i cittadini prendano coscienza. Anzi. La proroga dei termini per gli ascolti, di poche ore in poche ore, è proceduralmente più ridicola che macchinosa. E le multe altissime agli editori non sono sanzioni ma inviti espliciti ad espropriare la libertà delle redazioni dei giornali nel decidere ciò che si deve pubblicare.
Ciò che resta, finché potrà durare, è l´atto d´imperio del governo su un diritto fondamentale dei cittadini – quello di sapere – cui è collegato il dovere dei giornalisti di informare. Se questa legge passerà alla Camera, il governo deciderà attraverso di essa la quantità e la qualità delle notizie "sensibili" che potranno essere stampate dai giornali, e quindi conosciute dai lettori. Attenzione: la legge-bavaglio decide per noi, e decide secondo la volontà del governo ciò che noi dobbiamo sapere, ciò che noi possiamo scrivere.
Con ogni evidenza, tutto questo non è accettabile: non dai giornalisti soltanto, ma dai cittadini, dal sistema democratico. Ecco perché la prima pagina di "Repubblica" è bianca, per testimoniare ciò che sta accadendo. E per dire che non deve accadere, e non accadrà.
Repubblica 11.6.10
Se la norma infrange il diritto
di Gustavo Zagrebelsky
È adeguato alla serietà delle questioni sollevate dal disegno di legge del Governo sulle intercettazioni telefoniche e sulle limitazioni alla libertà di stampa il dibattito, anzi la rivolta, che ne è seguita. Siamo alle fasi finali della procedura parlamentare ma la procedura parlamentare non chiuderà la partita, anche se l´impostazione della legge è ormai definita. I poteri d´indagine penale risulteranno ridotti e, parallelamente, l´impunità della criminalità sarà allargata; i vincoli procedurali, organizzativi e disciplinari saranno moltiplicati a tal punto che i magistrati inquirenti ai quali venisse ancora in mente, pur nei casi ammessi, di ricorrere a intercettazioni saranno scoraggiati: a non fare non sbaglieranno; a fare correranno rischi a ogni piè sospinto. La libertà degli organi d´informazione d´attingere ai contenuti delle intercettazioni disposte nelle indagini penali sarà ridotta fortemente e la violazione dei divieti sarà sanzionata pesantemente.
Tutto in proposito è stato ormai detto. Nulla potrebbe ancora aggiungersi e nulla potrebbe togliersi.
Al di là delle valutazioni circa le singole disposizioni, è stato anche colto il significato che una legge di questo genere non può non assumere presso l´opinione pubblica avvertita, nel momento attuale della vita pubblica del nostro Paese, mai come ora intaccata dalla corruzione: l´auto-immunizzazione con forza di legge di "giri di potere" oligarchico che intendono governare i propri interessi al riparo dai controlli, siano quelli della legge o siano quelli dell´opinione pubblica.
Tutto è stato detto per ora, ma la partita non si chiuderà di certo in Parlamento, nella dialettica tra la maggioranza e l´opposizione. La prima potrà sconfiggere la seconda con gli strumenti parlamentari di cui può far uso e abuso (la questione di fiducia in materia di diritti fondamentali) e così mettere per iscritto la volontà di chi comanda e fare la legge. Ma al di là della legge c´è pur sempre il diritto, e col diritto la legge deve fare i conti. Forse mai come in questo caso legge e diritto, lex e ius, queste due componenti dell´esperienza giuridica, sono apparsi così nettamente distinti, anzi, contrapposti. Quando ciò accade, la forza della legge è debole perché è avvertita come arbitrio e, prima o poi, anche se con costi e sofferenze, l´equilibrio sarà ristabilito.
Che cosa sia la legge, basta guardarne il testo. Che cosa sia il diritto, è cosa meno semplice ma più profonda. Innanzitutto, la legge dovrà passare alla promulgazione del Presidente della Repubblica, il cui potere di rinvio alle Camere è un´espressione non del capriccio personale ma del diritto. Poi la legge sarà sottoposta all´interpretazione, entro le coordinate dei principi del diritto; poi sarà sottoposta al controllo della Corte costituzionale, nel nome del diritto più profondo, su cui ogni legge deve appoggiarsi; poi sarà forse sottoposta a una valutazione popolare, in nome di quel diritto legale di resistenza che è il referendum abrogativo. Questo, nell´insieme, è il diritto con il quale questa legge dovrà fare i conti e questi sono i suoi strumenti. A ciò oggi si aggiunge il diritto dell´Europa, da cui la validità della legislazione degli Stati che ne fanno parte è condizionata.
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Alla luce di questo quadro complesso, la legge che il Parlamento s´accinge a varare non supera il vaglio del diritto, soprattutto per quanto riguarda quello che a me pare il vizio macroscopico, che macroscopicamente tradisce una mentalità illiberale, o meglio autoritaria, di chi l´ha impostata, presumibilmente senza nemmeno rendersene conto (poiché altrimenti, pronunciando ogni giorno parole di libertà, certamente avrebbe evitato…). In ogni regime libero, l´informazione è un delicatissimo sistema di diritti e di doveri, in cui l´interesse dei cittadini a essere informati e il connesso diritto-dovere dei giornalisti di fare cronaca, onesta e completa, dei fatti di rilevanza pubblica incontra i soli limiti che derivano dal rispetto dell´onore e della riservatezza delle persone. Sono le persone offese che, ricorrendo al giudice, in un rapporto per così dire, paritario con il giornalista o il giornale, possono chiedere la riparazione del loro diritto violato. Il potere politico, governo o parlamento, non c´entrano per niente. Non possono prendere provvedimenti o stabilire per legge quel che i giornali, gli organi d´informazione in genere, possono o non possono pubblicare. Possono certo stabilire casi di segretezza o di riservatezza, per proteggere l´interesse al buon andamento di funzioni pubbliche (ad esempio, trattative diplomatiche, operazioni dei servizi di sicurezza, svolgimento di indagini giudiziarie, ecc.) e, a questo fine, possono prevedere sanzioni a carico dei funzionari infedeli che violano il segreto e la riservatezza. Ma non possono estendere il divieto e la sanzione agli organi dell´informazione i quali, quale che sia stato il modo, siano venuti in possesso di informazioni rilevanti e le abbiano portate alla conoscenza della pubblica opinione. In breve: il potere politico può proteggersi, ma non può farlo imbavagliando un potere – il potere dell´informazione – che ha la sua ragion d´essere nel controllo del potere. Potrà sembrare un´anomalia che la lecita auto-tutela della politica non si estenda fino alle estreme conseguenze, non investa la stampa. Ma in ogni regime libero un´anomalia non è, perché l´informazione appartiene a un´altra sfera e non può diventare un´appendice, una funzione servente, un organo della politica e del governo (come avviene nei momenti eccezionali della guerra o del pericolo per la sicurezza nazionale). È la separazione dei poteri (e l´informazione è un potere) a richiederlo e a determinare la possibilità della contraddizione. Sono i regimi autoritari, quelli in cui non vi sono contraddizioni. Ma allora, lì, la stampa vive delle informazioni che il potere politico, caso per caso o per legge non fa differenza, l´autorizza a rendere pubbliche; vive degli ossi che il padrone le butta.Da dove traiamo questo principio d´autonomia e libertà della stampa? Innanzitutto dalla cultura e dalla civiltà costituzionale, cioè dal quadro di sfondo che dà un senso alla democrazia. Poi dall´art. 21 della Costituzione, che proclama il diritto alla libertà d´informazione senza limiti diversi dal buon costume, vietando per sovrapprezzo, e come rafforzamento, le autorizzazioni e le censure, cioè gli strumenti di asservimento della stampa conosciuti sotto il fascismo. Oggi poi è la Convenzione europea dei diritti dell´uomo, da quando, nel 2001, è assurta a livello costituzionale e al medesimo livello si collocano le interpretazioni che ne dà la Corte di Strasburgo, altra base sicura del diritto alla libertà della stampa. L´art. 10 § 2 della Convenzione ammette bensì "formalità, condizioni, restrizioni o sanzioni", ma solo quando siano "misure necessarie in una società democratica" per tutelare certe esigenze di sicurezza, ordine pubblico, ecc., che nel caso della legge italiana certamente non ricorrono in generale. La Corte europea ha precisato che le limitazioni possono derivare solo da "bisogni sociali imperativi" (non esigenze di funzionamento di pubblici poteri), che le misure prese "non devono essere di natura tale da dissuadere la stampa dal partecipare alla discussione di problemi di legittimo interesse generale" e, nel celebre caso Dupuis contro Francia (7 giugno 2007), riguardante la pubblicazione di notizie coperte dal segreto processuale, che quando c´è di mezzo il diritto all´informazione, "il potere di apprezzamento degli Stati si arresta di fronte all´interesse delle società democratiche ad assicurare e mantenere la libertà di stampa". Si trattava, per l´appunto, di giornalisti che si erano documentati attraverso fughe di notizie o documenti e conversazioni confidenziali: tutte cose che le società libere non demonizzano affatto (pur cercando di impedirle da parte dei funzionari pubblici), quando vengono nelle mani di giornalisti.
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Il disegno di legge che sta per essere trasformato in legge non tiene conto di tutto questo, anzi lo contraddice. A carico dei giornalisti e degli editori sono stabiliti divieti tassativi di pubblicazione. Sanzioni penali, disciplinari e amministrative li collocano in una ragnatela di condizionamenti, esterni e interni alle imprese giornalistiche, certamente incompatibile con la libertà della stampa di fare il proprio dovere "in una società democratica". Questi condizionamenti, altrettanto certamente, sono tali (si pensi a che cosa rappresenta per le piccole imprese giornalistiche la sanzione in denaro che può raggiungere diverse centinaia di migliaia di euro) da "dissuadere la stampa dal partecipare alla discussione dei problemi di interesse generale" come, tanto per fare un esempio di fantasia, la pubblica corruzione. Ci sono tutte, e sono evidenti, le ragioni per le quali questa legge finirà col cozzare contro quel diritto.Repubblica 11.6.10
Ciccone, l´inventrice del post it giallo: difendiamo il diritto di conoscere
"Dal web alla piazza continueremo a protestare"
Contatteremo poliziotti, magistrati, giornalisti. Chiederemo a tutti come cambierà il loro lavoro con questa legge
di Tiziana Testa
ROMA - «Stiamo cominciando a contattare magistrati, poliziotti, giornalisti. Chiederemo a tutti di spiegare come cambierà il loro lavoro con questa legge. E poi lo racconteremo su volantini da scaricare online e da distribuire a ogni occasione. Nei quartieri, ai vicini di casa, sugli autobus, alle stazioni della metro. Perché la rete è importante, ma bisogna anche uscire dal web". Arianna Ciccone, 39 anni, giornalista, è l´ideatrice di Valigia blu, il network di cittadini mobilitati da mesi sulla libertà d´informazione in Italia. Parla in un´intervista a Repubblica tv, durante il lungo speciale dedicato al voto di fiducia al Senato sulla legge-bavaglio. E, dopo il risultato, parte alla carica. «Questa legge – dice - è contro tutti i cittadini. Danneggia il loro diritto di conoscere e anche il loro diritto alla sicurezza, visto che ostacola il lavoro dei magistrati. Farlo capire ai frequentatori della rete non è stato difficile, abbiamo già 206 mila iscritti al nostro gruppo su Facebook. Più complicato è portare il popolo della rete in piazza. E convincere chi non naviga in Internet. Perché il sentimento prevalente, oggi, è la sfiducia».
Il viaggio di Valigia blu è iniziato il 26 febbraio quando il Tg1, riferendosi al caso Mills, parlò di assoluzione invece che di prescrizione. La Ciccone si presentò davanti alla Rai con le firme di 155 mila persone che chiedevano una rettifica al direttore Minzolini. Oggi, con la battaglia sulle intercettazioni, la sua agenda è fitta: «Saremo a manifestare davanti a Montecitorio quando la legge tornerà alla Camera; chiederemo di assistere alla seduta, come abbiamo già fatto al Senato col post-it giallo sulla giacca; listeremo a lutto il nostro blog; parteciperemo a tutte le iniziative della Federazione nazionale della stampa». E Napolitano? «Invieremo mail al presidente per chiedergli di non firmare la legge. L´hanno già fatto 7 mila persone. Il capo dello Stato resta l´ultimo baluardo». E se Napolitano dovesse firmare? "Non ci fermeremo. Ci resta la raccolta di firme per il referendum".
Repubblica 11.6.10
La vittoria della società opaca
di Alexander Stille
L´argomentazione principale a favore di queste norme è più o meno questa: «Si immagina il povero cittadino che si vede sbattuto sulle prime pagine dei giornali - con sue frasi prese fuori contesto - e poi magari prosciolto perché il fatto non sussiste?», mi disse una volta Niccolò Ghedini, l´avvocato di Silvio Berlusconi e uno dei promotori della legge.In primo luogo, in tutti gli anni che ho girato l´Italia non ho mai sentito dire da un cittadino normale: «Quello che ci vuole in questo paese è una bella legge sulle intercettazioni telefoniche perché sono stufo di vedermi sbattuto in prima pagina per reati che non ho commesso!». Da cittadini normali ho sentito invece esprimere migliaia di volte il desiderio di essere liberi da un sistema soffocante di corruzione, clientela, favoritismi e crimineorganizzato che rappresenta una minaccia seria allo sviluppo dell´Italia e ai diritti più elementari dei suoi cittadini.
Il desiderio di una legge sulle intercettazioni l´ho visto esprimere solamente dai politici, e solo da una minoranza di essi, in genere quelli attorno a Silvio Berlusconi, il quale si è proprio stufato di vedersi sbattuto in prima pagina con conversazioni davvero imbarazzanti che rivelano frequentazioni assai discutibili e giochi di potere al confine tra il lecito e l´illecito. Il numero di persone intercettate - a differenza del numero di apparecchi messi sotto controllo - è in realtà stimato intorno ai 20.000 all´anno. Il telefono del primo ministro non è mai stato messo sotto controllo: ha soltanto la strana abitudine di parlare con frequenza allarmante con alcuni di questi 20.000 sospettati.
È non solo giusto ma importante che i cittadini conoscano gli indizi di reato, soprattutto in casi che riguardano l´amministrazione pubblica, prima di un processo. Immaginiamo per un momento che l´attuale proposta di legge fosse stata in vigore durante l´anno passato. Non sapremmo nulla dello scandalo della Protezione Civile e della "cricca" di appaltatori che ne hanno beneficiato. Il pubblico italiano continuerebbe a pensare che Guido Bertolaso è l´uomo dei miracoli e che il sistema della Protezione Civile - che salta le normali procedure d´appalto - è il modo migliore per fare opere pubbliche in Italia. Non sapremmo nulla dei massaggi e dei festini offerti a Bertolaso dall´imprenditore Diego Anemone. Il ministro Scajola sarebbe ancora al suo posto nel bellissimo appartamento comprato in buona parte con i soldi di Anemone. Le intercettazioni telefoniche probabilmente non sarebbero concesse in questo caso - non trattandosi di reati di mafia o di terrorismo - e, se fatte, non sarebbero state rese pubbliche.
Nessuno di questi signori è stato processato ed è del tutto possibile che nessuno di loro sarà condannato. Ed è giusto che sia così: le prove devono essere molto consistenti e i magistrati devono seguire procedure giudiziarie molto precise per garantire i diritti degli imputati. Ma qualcuno davvero pensa che sarebbe meglio se non sapessimo nulla di tutta questa palude? I magistrati sono costretti dalla legge, durante un´inchiesta, a fornire prove prima di arrestare un sospetto criminale o al momento di chiedere il rinvio a giudizio. A questo punto, molte prove - comprese le intercettazioni - diventano di dominio pubblico. Anche se gli imputati possono essere eventualmente scagionati, è giusto che il pubblico abbia la possibilità di conoscere il loro contenuto.
In primo luogo questo dà la possibilità alla società di reagire al malcostume, di cambiare rotta, di sostituire ufficiali pubblici sospettati di reati o semplicemente colti in comportamenti poco etici ma forse non illegali. In secondo luogo, il fatto che certi passaggi importanti non avvengano nel buio è una garanzia del funzionamento del sistema giudiziario e politico. Siccome nessuno è perfetto, compresa la magistratura, è giusto che l´opinione pubblica serva come controllo sia alla magistratura sia al mondo politico. È la ragione per cui i processi avvengono in aule aperte al pubblico. In Italia, abbiamo visto tanti processi affossati e finiti nel nulla nonostante prove agghiaccianti.
Poi, lavorando senza malafede, la magistratura può archiviare un caso sulla base di considerazioni tecniche. Il lavoro del giudice non è di stabilire la verità; ha un compito molto più limitato: stabilire se le prove, raccolte e presentate secondo criteri molto precisi, sono sufficienti per portare a una condanna. Il tribunale - per proteggere lo stato di diritto e semplificare una realtà potenzialmente infinita - limita molto il tipo di prove che può esaminare. È costretto a scartare alcuni elementi di prova per ragioni puramente tecniche: prove raccolte illegalmente o la parola di testimoni che non si presentano in aula. E poi anche il semplice passare del tempo - specialmente in Italia con la sua legge sulla prescrizione - può vanificare un processo. Questo non ha niente a che fare con la ricerca della verità che è il compito dello storico ma anche un diritto dell´opinione pubblica e quindi un dovere del giornalista.Molte prove hanno una grande importanza anche se non costituiscono un reato. Per esempio, intercettazioni fatte su Giuseppe Mandalari, un commercialista di Corleone considerato dalla polizia italiana come il fiscalista del boss Totò Riina, poco dopo le elezioni del 1994 hanno prodotto rivelazioni sconvolgenti. «Bellissimo, tutti i candidati amici miei e tutti eletti!», ha detto Mandalari dopo che il "Polo del Buongoverno" capeggiato da Berlusconi aveva vinto 54 seggi su 61 seggi in Sicilia. Poi nei giorni successivi tre politici della nuova coalizione vincente - due senatori e un deputato - hanno telefonato a Mandalari per ringraziarlo e uno gli ha mandato un fax con il curriculum di suo figlio. I tre parlamentari in questione non sono stati incriminati perché, evidentemente, non c´erano altre prove per dimostrare piena collusione con la mafia. E quindi con la nuova legge non sarebbero mai venute alla luce. Ma è giusto che siano state rese pubbliche anche in tempi rapidi. Il cittadino ha tutto il diritto di sapere se i suoi rappresentanti parlano con mafiosi o furfanti anche se fare ciò può non essere un reato.
Ormai, è un fatto acquisito, tra economisti e politologi, che la trasparenza sia fondamentale per una democrazia sana e che la trasparenza vada di pari con altre cose positive: la crescita economica, la libertà di stampa e lo stato di diritto. Nel novembre del 1999, la Transparency International ha rilevato che i costi di costruzione della metropolitana di Milano sono scesi del 57 per cento dopo l´inchiesta di Mani Pulite. Ma l´Italia da un po´ di tempo sta andando nella direzione sbagliata. Dal 2004 al 2009, l´Italia è scesa dal 42esimo al 63esimo posto nella graduatoria di Transparency. La corruzione, invece, cresce nel buio. Secondo la Corte dei conti, i contribuenti italiani perdono tra 50 e 60 miliardi di euro all´anno a causa della corruzione. Questa legge introduce buio dove finora c´è stata un po´ di luce.
il Fatto 11.6.10
Legge criminale e per i cruminali ma con Internet si può aggirare
Potremo leggere le notizie vietate grazie al Web globale
di Peter Gomez
In Birmania il regime vieta le videocamere e tiene sotto controllo la Rete. In Cina 40 mila funzionari comunisti si occupano della censura sul Web. Ma, nonostante le molte persone finite in prigione, attraverso Internet riusciamo lo stesso a vedere e sapere ciò che accade. Ebbene, ieri in Italia un esecutivo retto da un premier sedicente liberale ha fatto votare una legge di stampo birmano. Una norma che non impedirà solo la pubblicazione, anche per riassunto, delle intercettazioni non più coperte da segreto. Ma che pure vieterà agli elettori di rivolgersi ai media per diffondere video e file audio da loro registrati. A legge approvata, se un cittadino vedrà un sindaco o un parlamentare a cena con un boss mafioso e lo immortalerà col telefonino, rischierà la galera. Per questo tipo di riprese, effettuate da non iscritti all’Ordine dei giornalisti, sono previste pene fino ai 4 anni di carcere. Dobbiamo preoccuparci? Sì, perché la maggioranza dei nominati in Parlamento, terrorizzata dalle indagini sulla corruzione, dimostra di voler togliere agli italiani non solo la libertà di sapere, ma anche quella di dire. Dobbiamo aver paura? No, perché a ulteriore prova di come la Casta viva ormai in una sorta di realtà parallela, il cosiddetto legislatore non ha fatto i conti con la tecnologia. Gli uomini di Berlusconi – unico leader al mondo incapace persino di accendere un computer – non hanno ben capito quale tipo di mostro sia stato da loro partorito. Già a cominciare dalle prossime ore migliaia di file verranno inviati dall’Italia a siti esteri disposti a pubblicarli. Quando e se scatterà l’ora del Bavaglio (la legge è adesso alla Camera) il Web diventerà così la nuova frontiera degli uomini liberi. Ma per orientarsi, spesso sarà necessaria una guida. Anche per questo il nuovo sito de Il Fatto Quotidiano verrà alla luce nelle prossime settimane. Fin da ora ci impegniamo non solo a violare la legge con atti di disobbedienza civile, ma anche a segnalare i link dove trovare quelle che noi consideriamo vere
notizie. È inevitabile infatti che, in questo clima da fine impero, sul Web finisca per arrivare di tutto. Pure documenti o immagini (magari in reale violazione della privacy) che mai sul nostro giornale troverebbero spazio. Quindi continueremo a fare il nostro mestiere. Racconteremo i fatti. E in base alla nostra capacità di selezionarli chiederemo di essere giudicati. Non dai tribunali costretti ad applicare le norme Bavaglio. Ma dai lettori.
il Fatto 11.6.10
“Daremo asilo alle vostre notizie”
Mora (El Pais): È l’ultima tappa del regime
di Silvia Truzzi
Anche al tempo del regime fascista gli italiani che volevano sapere la verità potevano cercarla sui giornali stranieri. Ma non ne erano affatto contenti. Lo scriveva Indro Montanelli nel 2001, rispondendo a un lettore del Corriere. La censura trova sempre i suoi antidoti e oggi il rimedio potrebbe arrivare proprio dai giornali stranieri. Miguel Mora, corrispondente del Paìs da Roma, è in Italia dal 2008: l’anno scorso fu protagonista di un indimenticabile duetto alla Maddalena con Berlusconi, notoriamente poco abituato alle domande dei giornalisti. Nel caso si trattava dell’affare D’Addario: Mora gli chiese se non aveva preso in considerazione l’ipotesi di dimettersi. I giornali degli altri Paesi daranno asilo politico alle notizie italiane, se questo bavaglio dovesse diventare legge? Io ho ancora delle speranze. Spero che qualcosa succeda: se l’Europa protestasse o se il presidente della Repubblica decidesse il rinvio alle Camere. Forse non tutto è perduto, anche se Berlusconi mi sembra molto determinato. È un problema europeo e internazionale, non italiano. L’Italia ha una legislazione antimafia molto efficace, che altri Stati non hanno: se dovesse essere toccata, le conseguenze saranno terribili anche per gli altri Paesi. Ci saranno comunque giornali europei, e non solo, disposti a ospitare le notizie che il regime berlusconiano ha censurato.
Ha detto “regime”.
L’Italia è in un regime mediatico da anni. L’uomo che controlla l’80 per cento delle televisioni e ha interessi ovunque – dal calcio alla pubblicità – è il presidente del Consiglio. Se non è una dittatura è un regime populista-aziendalista. Questa legge è una spinta ulteriore verso una società meno informata e una magistratura indebolita nella lotta alla criminalità. È inquietante, ma è la conseguenza logica della politica di questi anni.
Perché l’Europa non fa nulla?
E perché l’Italia ha permesso a Berlusconi di essere eleggibile? L’Europa è un’unione monetaria, non politica. In Spagna, ma anche in Francia, abbiamo avuto fenomeni simili a Berlusconi: ma sono stati arginati. Perché gli anticorpi democratici di questi Paesi li hanno rifiutati. La responsabilità è di chi non l’ha fermato. È vero che in quel momento – nel ‘94 – c’era un grande caos nella politica italiana, ma doveva essere stabilita una soglia democratica da non valicare. La responsabilità dell’Europa c’è, ma c’è anche quella della sinistra italiana. Che è entrata in questo gioco, o perché ha pensato che fosse strumentale o perché non era in grado di governare.
Come ha reagito Zapatero all’abbandono di Berlusconi in conferenza stampa? Era esterrefatto: è la seconda volta che gli fa uno show, dopo quello della Maddalena l’anno scorso.
Napolitano ha detto: “I professionisti della richiesta al presidente della Repubblica di non firmare spesso parlano a vanvera”. Crede che firmerà il bavaglio?
Non firmare creerebbe un conflitto tra le istituzioni. Io credo che lui sarà onesto: se troverà aspetti di incostituzionalità, rinvierà alle Camere. Non capisco però questa frase sul “parlare a vanvera”. Se esiste questa possibilità perché non utilizzarla? Forse voleva solo dire, lasciatemi fare il mio lavoro in pace.
Forse non è il momento di andare per il sottile: si è parlato anche di inserire la pena detentiva per gli editori.
È una cosa inaudita. C’è un abuso di intercettazioni inutili. Questo è un problema che però si risolve in due minuti. Dietro c’è la volontà di punire la stampa e i magistrati, i nemici giurati di Berlusconi. Ma giornalisti e magistrati sono anche due importanti protagonisti dei regimi democratici.
Il premier ha definito la stampa italiana anche troppo libera... C’è un grande coraggio in alcuni quotidiani e in alcuni programmi televisivi. Sono gli eroi del giornalismo italiano. Ma sono un’eccezione. Tutti gli altri temono per il loro stipendio.
l’Unità 11.6.10
Inaugurazione a Roma della struttura di formazione politica. Collaborazione con Fare Futuro
Nel cda Soru e Calearo. Fra gli ospiti Zingaretti, Franceschini, Leoluca Orlando e Melandri
A scuola di «Democratica» Veltroni con Udc e Vendola
Veltroni presenta «Democratica», scuola di formazione politica rivolta alle nuove generazioni «che hanno voglia di assumersi responsabilità verso il paese». «Un luogo aperto, non la corrente di Walter».
di Jolanda Bufalini
Tomacelli 46 scala B, dove era la vecchia sede del Manifesto, per i più grandi, sopra lo showroom della Ferrari, per i più giovani. È la sede di “Democratica”, scuola di formazione politica presieduta da Walter Veltroni. L’aula è attrezzata per le lezioni con proiettori e collegamenti internet. C’è un sito che serve per le iscrizioni e per l’insegnamento a distanza. Iscrizioni libere e a modico prezzo per fidelizzare più che per finanziarie. «Luogo apertissimo», insiste Veltroni: «È l’aggettivo a cui tengo di più».
Scuola vera, «non una finzione per spacciare altro» rivolta soprattutto ma non esclusivamente ai giovani «che vogliano mettere un po’ d’ordine nelle idee etiche e sociali che i grandi sconvolgimenti del primo decennio del secolo hanno scombinato, ancorandosi a valori come competenza, legalità, ascolto». Dunque non un «pezzetto della corrente veltroniana» precisa subito Michele Salvati, che guida il comitato scientifico, e alla quale «non mi sarei iscritto nemmeno io ribatte Veltroni la sola parola mi fa venire il mal di stomaco, non l’ho mai fatta e per questo qualcuno mi rimprovera».
Democratica ha il sostegno di 151 parlamentari che si sono impegnati anche a contribuire finanziariamente, del Pd, di Sel, Idv, Api, Udc. Ha un CdA nel quale siedono Renato Soru, Maria Paola Merloni, Raffaele Ranucci, Guido Ghisolfi, Massimo Calearo, un direttore Salvatore Vassallo. Due donne al controllo del funzionamento della struttura: Anna Maria Malato (imprenditrice) sarà la tesoriera, Giovanna Marinelli, che ha fino a poco tempo fa diretto il Teatro di Roma, sarà il segretario generale.
In sala fra i primi arriva Leoluca Orlando, c’è Giovanna Melandri, Walter Verini, c’è Piero Terracina, sopravvissuto alla deportazione degli ebrei romani del 16 ottobre 1943. «È, con la mia famiglia, la persona a cui voglio più bene», dice Veltroni che, con Terracina, ha accompagnato ad Auschwitz centinaia di ragazzi delle scuole romane. Arrivano per il brindisi di inaugurazione Nicola Zingaretti, Giorgio La Malfa, Angelo Guglielmi, Dario Franceschini, Paolo Gentiloni, Savino Pezzotta.
FARE FUTURO
Democratica guarda al centro sinistra nella accezione più larga del termine. Una delle prime iniziative, illustrata da Salvatore Vassallo, sarà dedicata ad Ustica, coinvolgerà i familiari delle vittime «che hanno trasformato il dolore privato in impegno pubblico» e avrà come tema, introdotto da Giovanni De luna “la democrazia e il segreto”. Vi parteciperanno anche Pier Ferdinando Casini e Giuseppe Pisanu.
Il seminario estivo, dedicato alla legalità, si svolgerà in Calabria e sarà in collaborazione con “Fare futuro”. Apertura ma con discriminanti, spiega Salvati. Con Fare futuro sulla legalità c’è un discorso comune. E Veltroni ne approfitta per fare l’unica battuta direttamente politica della presentazione: «Quella di oggi è una brutta giornata per il paese, spero che alla Camera sia possibile discutere sulle intercettazioni, come è diritto del Parlamento fare».
Fra i temi dei seminari: il federalismo fiscale, le politiche pubbliche, la comunicazione. Quanto alla storia e alle idee, si punta sulle biografie di personaggi che potevano apparire minoritari ai contemporanei ma che la storia ha dimostrato essere molto lucidi: Piero Gobetti (ne parlerà Piero Fassino), i fratelli Rosselli (Fabio Mussi), Piero Calamandrei (Giorgio La Malfa), Beniamino Andreatta (Arturo Parisi)
il Fatto 11.6.10
“Con questi tagli serve una ribellione sociale”
Vendola lancia l’allarme dopo l’incontro con Tremonti: la manovra è un colpo allo stato sociale
di Luca De Carolis
Del 2013 e di primarie non ha voluto parlare “perché è un discorso prematuro”. Ma ha usato toni da leader dell’opposizione, evocando “una ribellione sociale importante”, contro “un governo intollerante, che sta trascinando l’Italia in un buco nero”. Nichi Vendola non ha fretta di candidarsi come capo del centrosinistra. Per il leader di Sinistra Ecologia e Libertà, il presente è fatto dell’emergenza democratica e sociale creata dalla destra. E ieri a Roma lo ha detto ad alta voce, nella doppia veste di governatore regionale e leader politico.
Nel pomeriggio Vendola si è scontrato con l’intransigenza del teorico dei tagli, Giulio Tremonti, poi in serata è andato a riempire di entusiasmo la folla in piazza del Pantheon, per la manifestazione nazionale di Sel contro la manovra. Tra un appuntamento e l’altro, in tanti gli hanno chiesto se si presenterà alle primarie, per diventare il candidato premier del centrosinistra nel 2013. Vendola ha preso tempo: “Il discorso è prematuro, perché adesso il centrosinistra deve riaprire i propri cantieri, ritrovare un patto tra politica e popolo. Se ritrova un popolo, ritrova un leader. E magari sarà proprio il popolo a trovare il leader”. Come a dire che la base va riconquistata, e che in vista di benefiche primarie bisognerà seminare parecchio. Senza stancarsi di ricordare alla gente che il governo le sta togliendo il futuro.
“La manovra è un colpo allo stato sociale, un massacro che renderà le Regioni amministratori fallimentari delle proprie risorse” sibila il leader di Sel. Ieri, assieme ad altri presidenti regionali, Vendola ha incontrato Tremonti, il ministro per i Rapporti con le regioni, Fitto, e il ministro per la Semplificazione normativa, Calderoli. I governatori speravano in qualche apertura sulla manovra, ma il ministro dell’Economia ha chiuso la porta a doppia mandata, confermando i tagli da macelleria sociale per gli enti locali.
Ma Vendola non ci sta: “Da parte del governo c’è un atteggiamento intollerante, una saracinesca chiusa, nessuna disponibilità a trattare la questione. Tremonti ci ha detto che sono i numeri che fanno la politica, e non il contrario. Ma la sua è una formula esoterica, un abracadabra”. A cui il leader di Sel risponde con una verità ben diversa: “Con questa manovra modello ‘Briatore’ le regioni vengono uccise, il ceto medio e popolare viene emarginato, e non si vede alcun elemento di crescita. L’Italia, soprattutto il Sud, sta finendo in un buco nero”.
Bisogna rialzarsi, e Vendola chiama all’adunata democratica: “Credo che ci siano tutti gli ingredienti sociali per una ribellione sociale importante”. Un appello pesante, nel giorno in cui il Senato ha detto sì alla legge-bavaglio.
“Vogliono sopprimere le intercettazioni perché danno la possibilità di entrare nei salotti buoni, dove spesso bella vita e malavita si incontrano” attacca il governatore della Puglia. A occhio e croce, un tipo poco salottiero.
l’Unità 11.6.10
Quella partita per la giustizia nel mondo
La revisione della Corte penale internazionale
di Emma Bonino
In Uganda sta per concludersi la Conferenza di revisione della Corte Penale Internazionale. L’avvenimento è più o meno passato sotto silenzio, eppure è stata un’occasione importante, sia per le vittime di crimini di guerra, crimini contro l’umanità e genocidio, che per quanti si battono nel mondo per porre un limite all’impunità e affermare che può esserci pace senza giustizia. Ancor più importante è che la conferenza si sia tenuta in Africa. In effetti la Corte è spesso accusata di essere uno strumento “di stampo coloniale”, di Nord contro Sud. Non è così. Da Commissaria Ue, verso la fine degli anni Novanta, passavo più tempo su e giù per la regione dei Grandi Laghi che a Bruxelles, non solo per far fronte all’emergenza umanitaria, eredità di due genocidi che hanno sconquassato la regione in quel decennio, ma anche per battere a tappeto le capitali, alla ricerca di ratifiche. Il Partito radicale trasnazionale era attivo in Asia o in America Latina e alla fine, in soli quattro anni, nel 2002 la Corte ha preso a funzionare. La determinazione degli “Stati Parte” a dare corpo al principio del «No all’impunità, sì alla giustizia penale internazionale», emerge oggi rafforzata, anche in termini di opinione pubblica. Ancora una volta sono gli Stati africani a giocare il ruolo di punta. L’Uganda ha deferito alla Corte il caso del leader dei ribelli del Lord's Resistance Army, latitante nel Nord del Paese, lo stesso hanno fatto Congo e Repubblica centrafricana per altri criminali. Il Consiglio di Sicurezza ha deferito alla Corte il caso del presidente sudanese Bashir e la Corte, di propria iniziativa, ha aperto un’inchiesta sul Kenya. Troppo poco, diranno gli scettici, troppo lento, dicono gli impazienti, troppo politicizzata, dicono gli accusati, ma intanto la Corte esce rafforzata. Il Bangladesh ha appena ratificato e la Malesia ha annunciato la ratifica. Certo, mancano “grandi” potenze, ma in molti cominciano a riconoscere l’utilità della Corte. Kampala si è battuta per essere la sede di questo appuntamento, in segno di supporto alla Corte e al principio della giustizia internazionale, e per l’occasione ha chiesto a «Non c’è Pace Senza Giustizia» di preparare un evento che mettesse insieme vittime di guerra, delegati e protagonisti della Corte.
Così è stata organizzata una partita di calcio tra due squadre miste, capitanate dal Segretario Generale dell’Onu Ban Ki-moon e dal presidente ugandese Museveni. Nel ruolo di terzino, il ministro della Giustizia italiano Angelino Alfano. È stato un momento di condivisione emozionante, e quando ho fischiato la fine del match, con orgoglio ho visto vittime e ministri sedersi sul prato a discutere, come mai prima era avvenuto.
Repubblica 11.6.10
In tre anni 5 punti percentuali in meno, ma gli introiti aumentano per il maggior gettito fiscale In calo l´8 per mille alla Chiesa allarme Cei: perse 100mila adesioni
Monsignor Crociata "Nel 2010 un miliardo di euro ma la crisi si farà sentire presto"
CITTÀ DEL VATICANO - In fondo alla dichiarazione dei redditi sempre meno italiani scelgono di destinare l´8 per mille alla Chiesa. E i vertici del Vaticano si preoccupano. È il secondo anno che succede, e la tendenza - anche grazie a una possibile disaffezione dei fedeli per lo scandalo pedofilia - potrebbe aumentare nei prossimi anni. Nelle dichiarazioni fiscali del 2007 (introiti del 2006), le firme dell´8 per 1000 destinate alla Chiesa cattolica risultano infatti in sostanzioso calo. Lo attesta un documento uscito dall´Assemblea generale dei vescovi italiani, conclusasi due settimane fa a Roma, e diffuso ieri dall´agenzia Asca. Le firme a favore della Chiesa sono state l´85,01% del totale nel 2007, contro l´86,05% del 2006 e l´89,82% del 2005.
Il documento era stato presentato dal segretario generale della Conferenza episcopale italiana (Cei), monsignor Mariano Crociata. «Dobbiamo registrare con preoccupazione per il secondo anno consecutivo - scriveva Crociata - un calo percentuale delle firme dei contribuenti a favore della Chiesa cattolica». Sono infatti arrivate 14.839.143 adesioni, cioè ben 95.104 in meno rispetto all´anno precedente. «Le scelte favorevoli alla Chiesa cattolica - commenta il segretario generale della Cei - sono purtroppo diminuite sia in termini percentuali, sia in valore assoluto».
Ma nonostante l´evidente calo percentuale, la somma globale che dallo Stato arriva nelle casse vaticane risulta cresciuta. E ciò a causa della crescita generale del gettito fiscale avvenuta in quegli anni. La Chiesa ha percepito, nell´anno corrente 2010, 1.067 milioni di euro. Contro i 967 del 2009. Un aumento netto di quasi cento milioni. La Cei resta tuttavia preoccupata. «Per il meccanismo di posticipazione a tre anni del calcolo del gettito - spiega nella sua relazione monsignor Crociata - solo a partire dal 2013 sperimenteremo le conseguenze dell´attuale crisi economica sul gettito complessivo dell´Ire e quindi anche sulle somme dell´8 per mille». Per questo la Conferenza episcopale italiana ha deciso di destinare 30 milioni di euro dei fondi relativi all´anno in corso alla ricostituzione del cosiddetto "fondo di riserva", che lo scorso anno era stato svuotato per far fronte a un calo del gettito. Ribadisce il segretario generale Cei nel suo rapporto ai confratelli vescovi: «Un indirizzo fondamentale per la pianificazione e una prudente gestione delle risorse» dovrà essere «già a partire dal presente esercizio la ricostituzione del fondo di riserva».
Anche i dati restanti non paiono confortanti per la Cei. Calano nettamente (-9,9%) le offerte deducibili - volontarie - per il sostentamento del clero. E la somma raccolta nel 2009 risulta di 14,9 milioni di euro, contro i 16,5 del 2008. Monsignor Crociata a riguardo sostiene la necessità di un´attenta analisi interna: «Come ormai da diversi anni, con l´eccezione del 2007, anche questa volta ci troviamo di fronte a una riduzione di tale fonte di finanziamento, che impone un´approfondita riflessione sulle cause del fenomeno e sulle possibili strategie alternative di promozione e raccolta futura». Occorre «una proposta di rilancio» delle offerte volontarie, da prepararsi in autunno. Perché nonostante la cifra raccolta resti comunque cospicua, è però molto lontana dalle attese e dal fabbisogno di sostentamento del clero.
(m. ans.)
Repubblica 11.6.10
I difetti di una riforma universitaria che aggrava i problemi
La riforma Gelmini mette a rischio la cultura italiana
di Alberto Asor Rosa
Spariscono i Dipartimenti di Italianistica e di Filologia Cioè le cellule elementari della nostra vita letteraria e linguistica
L´intervento di Ivano Dionigi, Rettore dell´Università di Bologna, sul progetto di riforma universitaria in discussione alle Camere in queste settimane, è prezioso da molti punti di vista ma innanzitutto perché uno degli attori istituzionali più importanti di questa vicenda accetta di discutere in pubblico (come sarebbe stato giusto fin dall´inizio) le "segrete cose". Nel merito non sono però d´accordo con lui (quasi) su niente, e cercherò di dirlo sinteticamente.
1)Dal DPR 382 sono passati esattamente trent´anni. Nulla di più ragionevole che affrontarne la revisione. La legge Gelmini pone però in capo a tutto un fattore quantitativo: e cioè che ai Dipartimenti afferiscano un numero di professori non inferiore a trentacinque, che sale a quarantacinque in quegli Atenei in cui il numero dei professori superi le mille unità. Questa misura, di mero risparmio economico e che prescinde dal merito, e dunque iugulatoria dell´autonomia universitaria, non è stata minimamente contestata dai Rettori, i quali se mai ("Sapienza" di Roma), con singolare estremismo, portano il limite minimo consentito a cinquantacinque-sessanta. Queste misure colpiscono soprattutto (ma non solo) l´area umanistica; non vedo però perché proprio in Italia non si possa tener conto del fatto che un solo modello organizzativo-scientifico non vale per tutte le situazioni.
2)Ben prima della discussione della legge, è partita una frenetica corsa agli accorpamenti. Faccio qualche esempio (dai quali Dionigi si astiene). In negativo: penso che in tutte le nostre Università spariscano i Dipartimenti di Italianistica e, quasi dovunque, i Dipartimenti di Filologia classica e Filologia romanza: spariscono cioè le cellule elementari della nostra storia e identità, culturale, letteraria e linguistica.
3)Per andare al "positivo", bisogna prendere in considerazione un altro elemento della riforma: l´attribuzione ai Dipartimenti, oltre che delle funzioni di ricerca, anche di quelle didattiche. Ricerca e didattica sono congiunte, come osserva Dionigi: si tratta di vedere come. Quando le dimensioni degli accorpamenti superano il perimetro di una ragionevole specificità disciplinare o interdisciplinare, – e ciò avviene assai spesso, – essi producono organismi che non sono Dipartimenti più grandi, ma Corsi di studio, ovvero di Laurea. Le specificità disciplinari o interdisciplinari spariscono nel mucchio, o si inabissano (almeno si spera) nelle scelte individuali dei singoli docenti. Resta il riaccorpamento organizzativo di unità diverse, che possono dar luogo, alla fine e in un modo qualsiasi, a un titolo di studio (Storia, Filosofia, Lingue, Lettere moderne, Lettere antiche, talvolta Lettere antiche e moderne, ecc.). Quando non c´è neanche questo è persino peggio: gli accorpamenti appaiono puramente pretestuosi, e spesso persino risibili. Insomma: semplificare, concentrare, abolire, unificare, soprattutto risparmiare.
4)Si tratta di una tendenza drammatica, di cui neanche il centrosinistra mostra di essersi accorto. Forse perché, se la legge Berlinguer del tre più due ha aperto la strada alla licealizzazione dell´Università italiana, quella Gelmini ne scuote le fondamenta, mettendone in discussione il ruolo di sede privilegiata della ricerca.
5)Cosa c´è sull´altro piatto della bilancia secondo Dionigi? I fondi per avviare negli Atenei un processo di "meritocrazia". Per dire che la riforma Gelmini è davvero "buona", i Rettori aspettano di vedere se il Fondo di Finanziamento Ordinario sarà "almeno" quello degli anni precedenti e se verrà attribuito agli Atenei il promesso incremento meritocratico del 7% (!). Facile aspettarsi, nelle attuali condizioni economiche del Paese, che né l´una né l´altra aspettativa verrà soddisfatta. Ma anche se lo fosse, cosa fare di quei fondi se, non, semplicemente, tirare avanti in un deserto di rovine?