domenica 13 giugno 2010

l’Unità 13.6.10
Roma, in giro per un quartiere (ex) popolare. Di intercettazioni la gente non si interessa
Tutti concordi però: «Il Paese ha altri problemi, era meglio intervenire su scuola e pensioni»
«Legge bavaglio? Boh, non so» Il Paese narcotizzato dalla tv
Distanza dalla politica, disaffezione, stanchezza e insofferenza. Morale: la legge bavaglio passa sulla testa del Paese ma alla gente del mercato della Garbatella, a Roma, non interessa. «Abbiamo altre grane».
di Gioia Salvatori

Ddl intercettazioni, chi è questo sconosciuto? Disinformazione, qualunquismo, proteste. Sabato mattina al mercato rionale romano della Garbatella, quartiere rosso ex popolare, oggi quasi-centro di ceto medio e luoghi trendy: trovarvi un passante che conosca il contenuto della legge che limita la possibilità di indagine per gli inquirenti e cancella da giornali e tv decine di servizi, è come cercare l’ago nel pagliaio. Soprattutto se si cerca tra gli anziani. «Io ho altri problemi, delle intercettazioni poco mi importa, sono altre le leggi che servono: sul lavoro, sull’immigrazione» è il coro dei più, cioè dei tanti che hanno chiuso il giornale da anni, guardano la tv il pomeriggio e considerano la politica “un teatrino salva-poltrona”. Inutile spiegare i risvolti pratici della legge-bavaglio. «Io non ho nulla da nascondere, possono pure intercettarmi» è il mantra unito alla convinzione, nata a furia di sentire “ddl intercettazioni”, che la nuova legge serva a autorizzare i controlli sui telefoni. E la cricca, le inchieste sui grandi eventi, sulla malasanità, non le è interessato sapere che qualcuno rideva mentre l’Aquila crollava? «Sì, vabbè ma che c’entra con questa legge?», è la risposta frequente.
POTERE CATODICO
Eleonora mentre sente i «signora mia io non arrivo a fine mese...» di una passante va su tutte le furie. E’ intorno ai 40, ha i siti web d’informazione sotto mano a lavoro, sa cosa c’è scritto nel ddl intercettazioni ed ha il dente avvelenato «contro certa televisione che non ti fa capire nulla, tanto che mia madre è di sinistra ma l’ho dovuta convincere io, che questa legge è una porcata». Si infiamma e, come tutti coloro che sanno del bavaglio, chiama la piazza, la disobbedienza civile e chiede a Napolitano di non firmare.
Su un punto tutti sono d’accordo, informati e disinformati, favorevoli e contrari, giovanissimi e anziani disinteressati: questa legge per il Paese non è una priorità: «Servono leggi per i precari, per creare lavoro, per i pensionati che non ce la fanno ad arrivare a fine mese», sono le istanze, ognuno la sua, a seconda della posizione sociale. Rosanna, 36 anni, programmatrice europea, è sconsolata: «Bisogna scendere in piazza numerosi, è l’unica cosa che possiamo fare ora. Se la legge passerà così com’è mi auguro che arrivi un referendum abrogativ», dice tra le buste di verdura, in mano un quotidiano. Eleonora, 38 anni, è della stessa opinione: «Mi auguro che Napolitano non firmi, nel frattempo dobbiamo organizzare una specie di rivoluzione da qui in autunno: scendere tutti in piazza, farci sentire. La legge sulle intercettazioni non era indispensabile: io ho due figli e a scuola non hanno la carta igienica: le priorità del Paese sono altre». Luciano che di primavere ne ha almeno 65 e lavora ad un banco del mercato, è uno dei pochi anziani contrari. Cita Zagrebelsky e non ha dubbi: «E’ una legge fatta per coprire la cricca, a me possono intercettarmi 25 ore su 24, non ho nulla da nascondere...».
E lei che sa del ddl intercettazioni? «Io ho due bimbe e un altro figlio in arrivo, non ho tempo per informarmi, mica ho chi me li guarda...» dice una ragazza senza vergognarsi. E poi ci sono Zelinda, 60 anni, che ammette che guarda Italia 1 e al tg solo i servizi di cronaca e della legge bavaglio non ne sa niente, e la verduraia più o meno coetanea col lamento sulla crisi e anche lei col suo “signora mia”: «So solo che se non mi alzo alle quattro ogni mattina, non mangio – dice L’unica cosa che serve è una legge per farci campare un po’ meglio». Istanza non meglio specificata, legge chissà su cosa. La politica, intanto, è sempre più lontana.

l’Unità 13.6.10
Gli italiani sono come le rane
di Beppe Sebaste

Sto parlando nella scuola Roberto Rossellini con un collega, il regista Valerio Jalongo, autore di un bel documentario narrativo sulla deriva del cinema italiano, Di me cosa ne sai, dove si vede tra l’altro la prima spudorata menzogna liftata del premier, allora padrone soltanto di tv, verso l’ultima battaglia culturale (politica) fatta in Italia: quella di Federico Fellini contro la pubblicità che interrompe i film. Jalongo e io abbiamo gli scrutini del corso serale, mentre le prime zanzare del vicino Tevere irrompono nelle aule. Siamo orgogliosi di insegnare in questo istituto professionale di cinema e televisione unico in Italia. Il suo futuro ̆è incerto, grazie alla distruttività del governo, anche se gran parte dei tecnici che lavorano nel cinema e nelle tv di Roma e del Lazio hanno preso qui il diploma. Nato nei primi anni ‘60 in un luogo mitico, gli studi Ponti-De Laurentiis, dove sono stati girati film come La Strada di ̆Fellini, fino a pochi anni fa Aurelio De Laurentiis ne condivideva ̆gli spazi. Di recente il Rossellini è finito sui giornali per il geniale scherzo ai giornalisti di Mario Monicelli, che con la scusa di annunciare il remake de L’armata Brancaleone ha perorato gli studenti a ribellarsi contro i tagli. È qui che ha l’ufficio e il teatro il ̆produttore sognatore de Il Caimano, interpretato da Silvio Orlando.
Ecco, il caimano. Non volevo parlarne, ma è un dovere pedagogico ricordare che, nella Storia, avviene come nel noto esperimento che i ricercatori fecero con le rane: lanciandole in una pentola di acqua bollente saltavano subito fuori per trarsi in salvo. Mettendole al contrario in una pentola d’acqua fredda e riscaldandola in modo lento e costante, le rane si abituano gradualmente alla temperatura senza turbarsi, finché è troppo alta per avere la forza di saltare, e muoiono bollite. Nelle dittature è la stessa cosa.

Repubblica 13.6.10
Privacy, trasparenza e diritto di sapere
di Stefano Rodotà

QUALE governo ha drasticamente ridotto la privacy dei dipendenti pubblici, modificando addirittura il primo articolo del Codice che regola questa materia?
Quale governo ha messo nelle mani delle società di marketing la privacy telefonica delle persone, capovolgendo le regole che proprio gli interessati avevano mostrato di gradire? Quale governo ha incentivato il diffondersi della sorveglianza capillare sulle persone? Quale governo ha abbandonato ogni iniziativa sulla tutela della libertà su Internet, che aveva dato all´Italia un significativo primato internazionale? Quale maggioranza ha sfornato e continua a sfornare proposte di legge e emendamenti volti a limitare la privacy di chi naviga in rete? Proprio governo e maggioranza che ora innalzano il vessillo della privacy, invocano l´art. 15 della Costituzione e ricorrono al voto di fiducia.
Questi fatti, incontestabili, non mettono soltanto in luce una contraddizione clamorosa. Consentono di cogliere quale sia l´obiettivo vero dell´improvviso entusiasmo per la riservatezza. Mentre viene sacrificata senza batter ciglio la privacy di milioni di persone, si fanno le barricate proprio là dove la riflessione culturale e l´evoluzione legislativa inducono a ritenere che, per alcune categorie di persone e in situazioni particolari, le "aspettative di privacy" debbano essere drasticamente ridotte. Si tratta delle "figure pubbliche", delle persone indagate, delle attività economiche.
Questi non sono argomenti inventati oggi per dare sostegno a chi polemizza contro "la legge bavaglio". Quando, nel 2003, con una significativa convergenza tra il Garante per la privacy e il Consiglio nazionale dell´ordine dei giornalisti, si misero a punto le regole sul diritto d´informare, l´articolo 6 del Codice di deontologia venne scritto così: «La sfera privata delle persone note o che esercitano funzioni pubbliche deve essere rispettata se le notizie o i dati non hanno alcun rilevo sul loro ruolo o sulla loro vita pubblica». Parole chiarissime, così come è chiara la ragione di questa ridotta "aspettativa di privacy" per tutti quelli che hanno ruoli pubblici. In democrazia non bastano i controlli istituzionali (parlamentari, giudiziari, burocratici), serve il controllo diffuso di tutti i cittadini, dunque la trasparenza.
Si era consapevoli della necessità di non far divenire la privacy uno strumento che, invece di tutelare le sacrosante ragioni dell´intimità, serva a coprire attività che devono essere sempre sottoposte al giudizio di una opinione pubblica adeguatamente informata. Si seguiva così il filone inaugurato nel 1964 da una celebre sentenza della Corte Suprema degli Stati Uniti nel caso New York Times contro Sullivan, quando si riconobbe il diritto della stampa di pubblicare addirittura notizie false e diffamatorie riguardanti "figure pubbliche", salvo nel caso in cui ciò fosse fatto con "actual malice". Questa linea è stata seguita in moltissimi paesi e, in un caso riguardante uno stretto collaboratore del Presidente Mitterrand, la Corte europea dei diritti dell´uomo è andata oltre, affermando che, in un sistema democratico, è legittima persino la pubblicazione di notizie coperte dal segreto, per consentire il controllo su come viene esercitato il potere. Diritto di sapere, esercizio del controllo democratico e trasparenza sono strettamente intrecciati, e neppure il segreto e l´eventuale falsità della notizia possono interrompere questo circuito virtuoso, impedire la circolazione delle informazioni.
Una pur minima cultura della privacy dovrebbe essere provvista di questo bagaglio, che ci avrebbe risparmiato quell´impasto di ignoranza e malafede che ci affligge in questi giorni. Ma la regressione culturale, con conseguente pessima politica, ci avvolge da ogni parte, sì che ogni volta si è costretti a ricominciare dall´abc. Ricordando, anzitutto, che è falso sostenere che la legge appena approvata dal Senato abbia come obiettivo quello di frenare il gossip, di impedire la pubblicità di informazioni irrilevanti o intime. Ripeto quello che è stato detto mille volte, scritto in disegni di legge: questo è un fine, sacrosanto, che si può agevolmente raggiungere, con il consenso di tutti, stabilendo la cancellazione di questi brani delle intercettazioni, irrilevanti per le indagini. Poiché non ci si è fermati a questo punto, ma si è voluto imporre il silenzio totale su notizie rivelatrici di malefatte politiche o amministrative e persino su ammissioni di mafiosi, allora è evidente che l´obiettivo è un altro, quello di mettere a punto una rete protettiva di un ceto che del disprezzo delle regole ha fatto la propria regola. La sintonia tra questo atteggiamento e l´assalto alla legalità costituzionale è del tutto evidente.
E diventa chiarissimo che cosa si avvia ad essere il sistema di tutela della privacy, in un totale stravolgimento del rapporto tra pubblico e privato. Trasparenza crescente per l´inerme persona "comune"; opacità crescente di un ceto per il quale l´esercizio del potere non è più fonte di responsabilità, ma di immunità. Si mette a disposizione di poteri politici, economici, tecnologici la vita quotidiana d´ogni persona, scrutata in ogni momento, "profilata", ridotta ad oggetto di cui si può impunemente disporre. Si sottrae alla democrazia, come "governo in pubblico" una delle sue ragion d´essere, allungando l´ombra dove la trasparenza dovrebbe essere massima. È questa la logica che dev´essere capovolta, restituendo alla privacy l´onore che le spetta come elemento essenziale della libertà dei contemporanei.

«La disobbedienza civile è necessaria quando le leggi sono contro la democrazia e la libertà. Se un vostro articolo dovesse violare la legge pubblicatelo pure con il mio nome»
l’Unità 13.6.10
Intervista a Margherita Hack
Questa legge uccide la libertà di informazione Sono pronta a trasgredire
di Cristiana Pulcinelli

In questo momento mi dispiace non essere una giornalista perché vorrei partecipare in prima persona a questa battaglia». L’astrofisica Margherita Hack ha appena festeggiato il suo ottantottesimo compleanno a Mercatale Val di Pesa. Ma né l’età, né il clima da vigilia della festa tolgono vigore all’indignazione di Margherita per la legge bavaglio e per i modi in cui è stata approvata.
Cosa ne pensa della legge sulle intercettazioni appena passata al Senato con il voto di fiducia? «E’una vera vergogna. Questa legge è un aiuto per i delinquenti e i mafiosi, perché è risaputo che molti crimini si scoprono proprio grazie alle intercettazioni. Ma, del resto, c’è poco da stupirsi se si guarda chi c’è al governo: i migliori sono ignoranti e deboli, i peggiori una banda di delinquenti».
Abbiamo deciso di chiamare i giornalisti alla disobbedienza civile e di violare la legge. Pensa che sia giusto? «La disobbedienza civile è necessaria quando le leggi sono contro la democrazia e la libertà. C’è il dovere di opporsi a una legge sbagliata. Io spero che tutti i giornalisti disobbediscano, anche quelli di destra che però considerano il loro lavoro un servizio per il pubblico e il loro dovere dare le notizie».
Se le chiedessimo di firmare un articolo sul nostro giornale la cui pubblicazione violi la legge, lo farebbe? «Certamente sì, anzi mi dispiace non essere giornalista perché non posso partecipare in prima persona a questa battaglia». Reporters sans frontieres ha offerto ai giornalisti italiani di pubblicare sul loro sito gli articoli che non potranno essere più pubblicati in Italia e altre testate straniere offrono ospitalità. Pensa sia una forma di lotta utile?
«Sì, però gli italiani non leggono i giornali nella loro lingua, figuriamoci gli stranieri. E’ un’iniziativa che avrebbe un’eco molto ridotta». Cosa direbbe ai giovani per convincerli a fare opposizione?
«I giovani devono essere persuasi che la libertà d’espressione è un diritto a cui non si deve rinunciare. Altrimenti ci si avvia verso una dittatura. Noi che ci siamo passati lo sappiamo: la libertà d’opinione si deve difendere anche a costo di violare la legge. Quando sotto il fascismo furono promulgate le leggi razziali, era doveroso opporsi e violarle. Ora, per fortuna, non siamo a quel punto, ma il principio alla base di questa legge è lo stesso che era alla base delle leggi razziali: violare la libertà. I giovani dovrebbero sentire il desiderio di battersi contro questo». Cos’altro si può fare per far sentire la propria voce?
«Oltre a disobbedire? Andare tutti in piazza, o fare la rivoluzione... »

l’Unità 13.6.10
In «100mila» alla manifestazione della Cgil a Roma. Epifani: «A pagare sempre gli stessi»
Un fiume di persone ha invaso le strade della Capitale: «Tutto sulle nostre spalle»
Statali e insegnanti in corteo I «soliti noti» contro la manovra
Centomila ieri alla manifestazione nazionale della Cgil. Pensionati, funzione pubblica, precari e studenti in piazza contro la manovra del governo. Epifani: «Noi dalla parte dei lavoratori e contro interventi iniqui»
di Maria Zegarelli

«Noi abbiamo il diritto di non essere ingannati. Il governo non dica cose false sul futuro del Paese. Noi non ci chiamiamo Alice e non viviamo nel paese delle meraviglie». Il segretario della Cgil Guglielmo Epifani parla in piazza del Popolo di fronte ad una marea rossa di bandiere e raccoglie lunghi e ripetuti applausi da questo popolo reale, in carne ed ossa, che è venuto a Roma da tutta Italia per dire no alla manovra del governo. Nessun riferimento a questa manifestazione nazionale nei titoli del Tg1 delle 13.30 di Augusto Minzolini, silenzio sul grido di allarme che migliaia di lavoratori e lavoratrici, precari, pensionati, ricercatori, giovani e vecchi lanciano sfilando per le vie della Capitale. Gli organizzatori annunciano dal palco 100mila persone, la Questura 25mila. Sminuire, come ha fatto il governo con la crisi, fino ad ora. Ma questo «fiume rosso», così lo definiscono gli organizzatori, si ingrossa via via, e la piazza diventa sempre più stretta: in fondo è come il dissenso a Silvio Berlusconi, cresce e anche se non tutti lo raccontano prima o poi si imporrà.
Questo non è il paese delle meraviglie: è il paese di Umberto Pugliese, per esempio, che dice, «prendiamo 1400 euro al mese, non evadiamo neanche un centesimo e siamo quelli che pagheranno ancora». Dieci passi più in là c’è una banda che suona l’Internazionale, «siamo qui per Pomigliano D’Arco, cuore del Sud che rischia di fermarsi». Si protesta, si balla, si canta, si marcia. «Peccato che il governo non capisca che investendo sull’energia pulita si creano posti di lavoro e anche da lì può ripartire il Paese. Avrebbero potuto farlo con questa manovra e invece tagliano “linearmente”», commenta Marco, ricercatore di Pisa. A Roma sfilano quelli «che ogni giorno tirano la carretta per dirla con e Epifani e non sanno come arrivare alla fine del mese». «Tremonti questa volta l’hai fatta grossa», urla dal megafono un impiegato con il berretto rosso e la maglietta slogan «Tutto sulle nostre spalle». La ministra Gelmini, invece, è stampata su quelle di studenti, ricercatori e insegnanti. C’è anche una ruota della Fortuna, con sopra i volti dei ministri e di Bonanni della Cisl, sindacato assente, come la Uil, d’altra parte. Il «fiume rosso» scorre lento e si ingrossa sempre di più, qua e là qualche bandiera di Rifondazione, dell’Idv, ma questo è il corteo della Cgil. Qui nessuno nega la necessità di una manovra, non è un popolo di ingenui, ma non è questa la manovra che chiedono. Se solo si fossero fatte prima le cose che si dovevano fare, «qui e in Europa dice Epifani stabilendo regole certe per la finanza internazionale», forse oggi i sacrifici sarebbero meno pesanti. Se solo paghessero tutti «sarebbe un paese più giusto».
CHI C’È E CHI NON C’È
A quelli che non ci sono, Cisl e Uil, la piazza regala un fischio, Epifani si limita a un punto interrogativo: «Dov’è l’equità in questa manovra?». Quanto al Pd: «Ha la sua manifestazione. Ha detto che aderiva a questa nostra iniziativa, ma il mio problema non è chi aderisce, ma chi condivide il cuore dei nostri ragionamenti». Ignazio Marino è meno diplomatico: «Mi aspettavo una delegazione, come annunciato dal segretario, qui oggi non vedo neanche una bandiera del Pd. Vorrà dire che la prossima volta me la porterò da solo». I politici presenti, Cesare Damiano, Vincenzo Vita, Filippo Penati, Stefano Fassina, David Sassoli, (Pd) Gennaro Migliore e Paolo Ferrero (Sel), e l’Idv di Di Pietro, si confondono tra la folla. Ci sono delegazioni sindacali arrivate da tutte le regioni: lavoro, Costituzione, diritto allo studio, alla salute, libertà d’informazione, tutto tenuto insieme nella Costituzione. Di questo senti parlare sfilando con loro. Sono quelli che alla fine si salutano cantando e ballando insieme sulle note di «Bella Ciao».

Repubblica 13.6.10
Berlino verso la stangata sui ricchi
Tassa già decisa da Spagna, Francia e Regno Unito. L´Italia non la prevede
Siamo anche uno dei pochissimi Paesi a non colpire le rendite di tipo finanziario
di Roberto Pietrini

ROMA - L´euroausterity non è fatta solo di tagli alla spesa pubblica e sacrifici per gli statali, ma arriva anche l´aumento delle tasse. Per ora solo l´Italia sembra smarcarsi dalla nuova tendenza continentale, che attraversa trasversalmente destra e sinistra, e che per recuperare risorse e per dare il senso dell´equità alle manovre di bilancio, non esita a ritoccare le aliquote per i redditi alti, ad elevare il prelievo su rendite finanziarie, stock option e superstipendi. A rompere il tabu anche il governo di centrodestra tedesco di Angela Merkel: proprio ieri il ministro delle Finanze Schaeuble non ha escluso un aumento dell´aliquota Irpef più alta oggi ferma al 42%. Gordon Brown, prima di cedere il passo al conservatore Cameron, nei mesi scorsi aveva già provveduto ad introdurre una nuova aliquota massima del 50% oltre le 150 mila sterline di reddito e il nuovo governo non sembra intenzionato a fare retromarcia. I due leader socialisti di Spagna e Portogallo, Zapatero e Socrates, hanno già applicato o stanno per varare nuove aliquote sui redditi alti. Sarkozy, in Francia, ha dovuto annunciare un prelievo straordinario sui più ricchi. Solo in Italia l´aliquota sopra i 75 mila euro resta inchiodata al 43%.
In un periodo in cui la finanza è nel mirino per il ruolo avuto nella recente crisi internazionale, le grandi banche e i manager dagli stipendi d´oro non potevano rimanere fuori. La Francia e il Regno Unito hanno annunciato tasse straordinarie sulle banche, il Portogallo ha già varato un´imposta del 2,5% sugli utili degli istituti di credito. La Germania ha tassato le società energetiche: anche in questo caso il nostro paese, spiegando che il nostro sistema bancario non ha avuto bisogno di aiuti durante il crac del 2007-2009, ha evitato nuove addizionali sul credito.
Quanto alle remunerazioni speciali di banchieri e uomini della finanza, l´Italia - come dimostra un rapporto dello Studio Maisto di Milano - ha agito: nella manovra è stata introdotta una addizionale del 10% su bonus e stock options che superino di tre volte lo stipendio base ma che molti giudicano un´arma destinata a colpire solo una manciata di manager. Più dura la mano della Francia (che ha varato un´imposta straordinaria del 50% per i bonus oltre il tetto di 27.500 euro), del Regno Unito (che ha deciso un tassa del 50% oltre 25 mila sterline per i dirigenti di banche) e della Germania (che ha imposto un tetto ai compensi manager di banche salvate dallo Stato).
Mentre in Italia ancora si discute se uniformare al 20% le tasse su titoli di Stato e rendite finanziarie, in Europa i governi sull´onda della crisi si sono già mossi: in Spagna è stato varato un aumento dell´aliquota sui redditi da capitale dal 18 al 19-21%. In Portogallo è stata introdotta una tassa del 20% sulle plusvalenze azionarie, e una stretta è in atto in Inghilterra. Mentre in Francia si è preferito adottare una ritenuta alla fonte del 50% per chi si stabilisce nei paradisi fiscali.
Infine i redditi dei pubblici funzionari. In Italia i funzionari dello Stato sono stati sottoposti ad un prelievo del 5-10% oltre i 90 mila euro di stipendio annui. In Spagna, in Portogallo e Francia sono state introdotte misure simili. Forse non è finita qui e i tempi della Thatcher oggi sembrano preistoria.


l’Unità 13.6.10
Le tute blu della Cgil si preparano a confermare il no al documento del Lingotto
Ma rilanciano: «Per investire in Italia non serve derogare ai contratti e alle leggi dello Stato»
Pomigliano, Marchionne attacca «La Fiom gioca con 5mila posti»
«Passaggio storico
Il contratto nazionale messo sotto scacco»
L’analisi «Il modello è Detroit. L’azienda punta a un sistema di relazioni industriali come quello americano» spiega il docente della Bocconi
di Luigina Venturelli

Non solo la salvaguardia dell’occupazione a Pomigliano e la garanzia dei diritti dei suoi lavoratori. La posta in gioco tra il Lingotto e i sindacati, anche nel lungo periodo, non potrebbe essere più alta: «Siamo ad un passaggio storico nelle relazioni industriali del nostro Paese, si va verso il superamento del contratto nazionale di categoria» spiega Giuseppe Berta, docente di Storia contemporanea all’Università Bocconi di Milano. Lei crede nell’offerta dell’azienda per il rilancio della fabbrica o teme, come la Fiom, che cerchi la rottura? «Io credo che si tratti di un’offerta reale. Dal piano industriale del gruppo Fiat, l’Italia potrebbe diventare la base produttiva per tutta l’Europa. Il Lingotto non ha altre basi europee, ma avendo diversi stabilimenti in patria, può permettersi di scegliere quelli più efficienti. E a Pomigliano vuole un accordo immediatamente operativo, altrimenti l’abbandono sarà nei fatti».
Solo di questo si tratta? Di efficienza?
«Di un forsennato recupero di efficienza aziendale. Entro la fine di quest’anno Marchionne vuole portare in Borsa la Chrysler e, per farlo, deve dimostrare di adottare la stessa politica di relazioni industriali in tutto il gruppo, senza trattare l’Italia come un soggetto privilegiato. Il modello è Detroit, dove l’azienda ha ottenuto dal sindacato Uaw condizioni molto favorevoli e tagli cospicui di personale. Chi ha ottenuto tutto questo negli Stati Uniti, in aggiunta ai finanziamenti di Washington, difficilmente accetterà di meno in Italia, dove il governo non ha nulla da scambiare, né aiuti né incentivi».
Nel testo Fiat non ci sono anche clausole ideologiche, che nulla hanno a che fare con la produttività? «La fabbrica di Pomigliano d’Arco ha sempre riscontrato problemi di assenteismo che non si verificano negli altri stabilimenti Fiat. Ma la questione è più ampia: la proposta dell’azienda è concepita per un sistema di relazioni industriali molto diverso da quello italiano, più all’americana, con un unico sindacato e con precise sanzioni in caso di violazioni agli accordi sottoscritti, anche per sciopero».
Che fine farebbe, in un simile contesto, il contratto nazionale di lavoro? «Da questo punto di vista ha ragione la Fiom: con la firma dell’accordo su Pomigliano d’Arco si aprirà una crepa profonda nella contrattazione nazionale che, nel tempo, potrebbe condurre al superamento del contratto di categoria. Vale a dire, ad una situazione in cui i grandi gruppi industriali negozieranno contratti diversi l’uno dall’altro, a seconda della loro forza, mentre le intese nazionali negoziate in Confindustria serviranno solo alle imprese medio-piccole». Una svolta epocale, dunque. «Siamo ad un passaggio storico, simile a quello dell’ottobre 1980, ma al contrario: stavolta è l’azienda ha fare rivendicazioni, non i lavoratori. Oggi la Fiat è un gruppo globale, potrebbe produrre all’estero senza difficoltà, e questo cambia completamente i termini della trattativa. Anche i tradizionali strumenti di lotta sindacale non funzionano più come una volta».

l’Unità 13.6.10
Secondo i Cobas il blocco è stato attuato in sette regioni. Domani e martedì in tutta Italia
LaFinanziaria prevede tagli del 10% sulle buste paga e il blocco dei contratti per tre anni
Scuola, sciopero contro i tagli
Bloccati oltre 4mila scrutini
In sette regioni d’Italia bloccati oltre 4mila scrutini. la protesta parte dal basso. Domani e martedì, secondo i Cobas, si estenderà anche nelle altre regioni. La Finanziaria prevede tagli sulle buste paga del 10%.
di Cosimo Cito

Lo definiscono «un massacro», attanagliati dall’ansia di un dopo che sta arrivando a suon di sforbiciate, «di decapitazioni», e non è una rivoluzione, ma una restaurazione. La scuola pubblica langue sotto la mannaia di una Finanziaria che prevede tagli del 10% circa sulle buste paga di insegnanti e ausiliari. Si stimano circa 40mila euro in meno nelle tasche di ogni lavoratore della scuola pubblica nell’arco di un’intera carriera. Tagli nel personale, blocco degli scatti automatici di carriera, blocco dei contratti per tre anni. La ricetta è semplice, ma gravida di conseguenze. Nell’ultimo anno circa 600mila euro di finanziamenti sono passati dalla scuola pubblica a quella privata, tagliati di netto.
La lotta è quindi spostata nella forma più estrema e definitiva: il blocco degli scrutini. Se ne contano già circa 4000 in scuole di Puglia, Veneto, Marche, Lazio. Lunedì e martedì il secondo tempo, nelle regioni più grandi. Il blocco è determinato dall’assenza di un insegnante per legge uno scrutinio per essere valido deve prevedere la presenza di tutto il corpo docente a turno. La protesta, dilagata dal basso, con Cobas e precari della scuola in prima linea, ha anche la piazza, adesso. Piazza del Popolo, che nel sole di giugno è un forno ed è infiammata di rosso Cigl. A centinaia, insegnanti e personale Ata portano le loro storie sotto il palco, raccontano, si commuovono, denunciano. Vengono dalla Brianza, come Emanuela Tavornina, insegnante di Cavenago, «incazzata, e lo scriva con tre z» incazzata al cubo, insomma -, che racconta, a voce alta: «La scuola pubblica in Brianza è sempre stata negli ultimi anni un modello di efficienza, di capacità, di oculatezza nella gestione, spesso difficilissima, delle risorse. Questa Finanziaria ci taglia l’erba sotto i piedi. Nella nostra scuola – la primaria “Ada Negri” -, due posti sono stati tagliati, ora i bambini hanno in media meno di due insegnanti per classe, e quindi non possiamo più garantire il tempo pieno, il sostegno, il recupero degli scolari in difficoltà». E poi, il paradosso: «Nella scuola delle tre I – continua Emanuela -, l’inglese, una delle supposte priorità, è affidata a incredibili stratagemmi: ci sono corsi di aggiornamento di 40 ore per insegnanti della primaria in cui si dà loro un’infarinatura d’inglese. Con questo pezzo di carta quindi si può insegnare la lingua ai bambini. E gente laureata in lingue, con esperienza, competenze, cultura e capacità didattiche resta fuori. Una situazione imbarazzante, deprimente». E una risposta al ministro Gelmini, che vorrebbe la scuola chiusa a settembre per motivi “turistici”: «Noi insegnanti siamo disposti ad andare anche a luglio a lavorare. Noi siamo professionisti della cultura e non abbiamo problemi di sorta. Le sparate non servono, a noi servono finanziamenti».
SPOSTAMENTO
Il blocco degli scrutini è una forma estrema di protesta. Anche loro, gli uomini, le donne che lottano, preferiscono la parola “spostamento”. Gli scrutini sono solo spostati di due giorni – oltre, per legge, c’è il precetta mento e il decurta mento degli stipendi -, e le ultime classi di medie e superiori non vengono toccate per non compromettere gli esami di maturità. Tuttavia la protesta è larga tutto un Paese. A Bari Sergio, «insegnante di italiano e latino, a tempo indeterminato, ma sono tra i pochissimi alla mia età – 39 anni – a poterlo dire» vede nuvole nere all’orizzonte, «un futuro in cui la scuola sarà relegata sempre più a un ruolo subalterno», del resto il presente è quello che è, con «i soldi della Comunità europea, e solo quelli, ad aiutarci ad alimentare le attività pomeridiane, così importanti e formative». Il fronte di lotta è largo, ed è una linea del Piave che deve necessariamente tenere.

l’Unità 13.6.10
Le sbarre della psichiatria
Risponde Luigi Cancrini

È alla discussione nei meandri delle commissioni parlamentari il disegno di legge Ciccioli, un “superamento” della legge Basaglia, con un punto “qualificante”: i trattamenti sanitari obbligatori della durata di sei mesi non in ospedale ma in “strutture residenziali”.
Aldo Lotta, Associazione il Gabbiano

RISPOSTA C’era una volta, tanti anni fa, una ragazza che credeva di essere un uccello e cinguettava guardando la finestra grande e gonfia di sbarre della Neuro. Sognava di volare via, come gli uccellini che si affaccendavano sui rami di un grande platano, ed io mi sono affannato per cinquantanni, credo, ad aiutare quelli come lei combattendo contro i colleghi che senza saperlo le rinforzano, le sbarre, perché hanno paura e non sanno come comportarsi con le persone che parlano il linguaggio dei sogni e dei desideri, la complessità dell’inconscio e la tortuosità delle comunicazioni travestite da sintomi dei loro pazienti. C’è un intero mondo, mi dico, di esseri normali (malati e ingombranti, spaventati e aggressivi) che si pone di nuovo tra sbarre e libertà ora che sembra così lontano il tempo in cui Basaglia insegnava che i pazienti devono essere liberati proprio dalle sbarre: Basaglia di cui ci si è dimenticati nella legge all’esame oggi del Parlamento che evita (come il diavolo evita l’acqua santa) la parola psicoterapia e che ripropone, insieme ai manicomietti privati, una cultura solo medica del disturbo mentale.

l’Unità 13.6.10
Radio3, lunedì a colori Il direttore Sinibaldi: «Siamo tutti stranieri»

Lunedì 14 giugno per Radio3 sarà una giornata particolare: a condurre i programmi saranno cittadini stranieri. Alcuni di loro immigrati, altri nati in Italia. Ce ne parla il direttore di Radio3, Marino Sinibaldi: «L’idea nasce da molte suggestioni: partendo dai fatti di Rosarno fino ad arrivare al modo in cui quotidianamente viene rappresentato il fenomeno migratorio. Qualche giorno fa c’è stata una polemica sulla scelta di far dipingere il Drappo del Palio di Siena ad un pittore musulmano. Ecco, è da episodi come questo che abbiamo preso spunto, con un intento che vuole essere provocatorio e autoprovocatorio insieme. Provocatorio perché ci stupiamo della strumentalità con cui si affrontano certi argomenti e troviamo scandalosa la demonizzazione dello straniero, visto come simbolo del Male. Autoprovocatorio perché siamo curiosi di sapere come, per una volta, saranno gli altri a giudicare la nostra realtà, costringendoci ad accogliere il punto di vista di chi guarda con altri occhi. Può essere un buon modo per sconfiggere le nostre pigrizie e i nostri automatismi. Ecco, mettere questa radio in mano agli stranieri è per noi un modo di dimostrare in maniera non retorica quanto possano essere una risorsa. Parteciperanno scrittori, insegnanti, scienziati, manderemo in onda storie molto diverse tra loro, proprio perché vogliamo raccontare esperienze diverse, che siano altra cosa rispetto all’etichetta che così facilmente gli appiccichiamo sopra. Etichetta che è solo strumentale, insufficiente a definire la varietà delle differenze che gli stranieri rappresentano. Forse è piccola cosa, ma ascoltandole, queste persone, ci renderemo conto che, in realtà, stranieri lo siamo tutti».

l’Unità 13.6.10
Intervista a Li Qiang
«Operai-macchina. In Cina lo sfruttamento porta al suicidio»
Il direttore di China Labor Watch: «Nella fabbrica Foxconn di Shenzhen il salario è 130 dollari al mese e si lavora 12 ore al giorno E la minaccia di scioperi a catena ora allarma il governo di Pechino»
di Massimo Franchi

Da una parte le multinazionali Apple, Dell e Hewlett-Packard che sfruttano il bassissimo costo del lavoro. Dall’altra il governo cinese alle prese con la patata bollente del primo sciopero organizzato e della pressione internazionale. In mezzo, a prendere botte da entrambi, i 300 mila lavoratori della Foxconn, fabbrica taiwanese di Shenzhen, megalopoli cinese, distrutti dalle condizioni del lavoro al punto di suicidarsi (dieci nell’ultimo anno più altri tentati). A far scatenare tutto il putiferio
c’è il China Labor Watch, un’associazione con base a New York che ha dato le notizie sui suicidi e si batte per migliorare le condizioni di vita dei lavoratori cinesi.
Il fondatore è Li Qiang, combattivo attivista cinese del Sichuan che dal 2000 non può più entrare nel suo Paese, considerato “indesiderato” dal regime di Pechino. Per la prima volta parla con un giornale italiano. Signor Li Qiang, quando e perché ha iniziato ad occuparsi della Foxconn?
Quali sono le condizioni di lavoro a Shenzhen? Perché questa escalation di suicidi? «Il salario base è di meno di 130 dollari al mese. Non è sufficiente per vivere e allora gli operai sono tutti costretti a turni massacranti: 12 ore al giorno per 28 giorni al mese, con solo due giorni di riposo al mese». Steve Jobs qualche giorno fa ha detto che la Foxconn «non è così male, ci sono anche ristoranti e piscine»...
«È vero che ci sono piscine e ristoranti. Ma gli operai lavorano così tanto che non hanno certo il tempo per usarli. Mr. Jobs ha parlato così perché non conosce bene la situazione. Gli operai lavorano come delle macchine, si tratta senza ombra di dubbio di una sweatshop una fabbrica sfruttatrice in tutto e per tutto».
A questo proposito voi chiedete a consumatori occidentali di inviare una lettera alle multinazionali in cui denunciate le condizioni dei lavoratori di Shenzen. Proponete un boicottaggio degli I-Phone, il gioiello della Apple? «Un boicottaggio potrebbe essere controproducente. La lettera che chiediamo di mandare a tutti i clienti di Dell, Apple e Hewlett-Pacward, a chiunque abbia comprato un I-Phone invita queste aziende a farsi carico delle “condizioni di lavoro deplorevoli e dello stile militaresco del management della Foxconn” e a chiedere “al loro fornitore” di “cambiare drasticamente strada” ridando “dignità ai lavoratori” e “rispettando le norme di lavoro cinesi e internazionali”. Sottolineiamo che “la Foxconn è un’azienda è l’azienda più grande al mondo nella produzione di componenti elettronici” e che “ha tutte le possibilità economiche e di organizzazione per migliorare la situazione”. Specifichiamo che “la Foxconn ha bisogno del vostro aiuto”, “di piani di cooperazione con il suo management” e che “questa è l’unica strada” per “assicurare il rispetto delle norme di diritto del lavoro cinesi”. Niente boicottaggio, quindi. Solo la giusta denuncia e pressione nei confronti di questi giganti mondiali che rischiano di sfruttare una situazione gravissima facendo finta di non conoscerla».
Intanto però la situazione però sta peggiorando. Ad inizio settimana la Foxconn ha deciso, in caso di suicidio di un lavoratore, di non dare più alcun compensazione alle famiglie.
«È un’altra decisione incredibile. La cosa assurda è che l’azienda pensa che i lavoratori si suicidino perché vogliono finanziare le proprie famiglie con le compensazioni e, non pagandole più, pensa di prevenire i suicidi. Ma è una pazzia. È una forma di discriminazione perché non c’è nessuna relazione tra le due cose. Gli operai si tolgono la vita perché non riescono più ad andare avanti: hanno troppa pressione, problemi psicologici e non ricevono alcuna cura da parte dei medici dell’azienda. L’azienda arriva a dare la colpa dei suicidi agli stessi operai morti che non possono più parlare e spiegare le loro ragioni».
Ma l’azienda intanto sbandiera a tutto il mondo l’aumento del 70 per cento dei salari... «L’aumento dei salari è certamente positivo ed era una delle nostre richieste. Ma se non si riduce anche l’orario di lavoro e l’organizzazione del lavoro le cose non cambiano di molto. L’azienda però usa l’aumento in modo strumentale per mettere la sordina alle denunce che noi facciamo sui suicidi e sulla situazione nell’azienda».
I media cinesi però hanno parlato dei suicidi... «In realtà all’inizio sì. Poi la Foxconn ha fatto pressioni sul governo perché censurasse le notizie, ma il regime ha seguito l’indicazione solo in parte e la censura non è stata totale. Dal 26 maggio c’è stata una stretta ulteriore ma la ragione sta nel fatto che il governo ha paura delle possibili conseguenze dell’aumento dei salari concesso dalla Foxconn. Per il regime di Pechino il rischio che tutti i lavoratori cinesi scioperino per chiedere gli stessi aumenti è troppo grande».
Quindi si profila uno scontro fra Foxconn e governo cinese?
«L’azienda sta cercando di scaricare la colpa dei suicidi sul governo sostenendo che non faccia abbastanza per prevenirli. Ma poi ha cercato di risolvere la questione con l’aumento dei salati e, in un momento di crisi, solo la Foxconn e poche altre si possono permettere di farlo: le altre aziende sono molto spaventate per il rischio che anche i loro lavoratori chiedano lo stesso trattamento. E il governo cinese si trova in difficoltà allo stesso modo».
Secondo voi come evolverà lo scenario? Ora la Foxconn minaccia addirittura di chiudere gli stabilimenti e di spostarli a Taiwan.
«La vicenda Foxconn sarà cruciale per i futuro dei lavoratori cinesi. Siamo in un momento delicatissimo che potrebbe essere di svolta per la storia della Cina. La minaccia di chiusura degli stabilimenti è un ricatto nei confronti del governo cinese: il rischio di perdere investimenti esteri e fabbriche di questo livello fa breccia nel regime. Il governo cinese affronta questo dilemma: lasciare che i lavoratori scioperino e protestino con il rischio che le aziende estere lascino la Cina o risposta dura. Un possibile scenario è quello che tutte le aziende di Honk Kong e Taiwan che hanno concordato con il governo cinese situazioni di vantaggio sul costo del lavoro cinese facciano pressione sul regime e che il governo non difenda più anche quei pochi diritti conquistati dai lavoratori cinesi in questi anni: la repressione interna alle fabbriche sarà fortissima e il passo indietro molto grande».
E l’altro scenario?
«L’altro è quello che prevede aumenti di salario senza annunci, senza farlo sapere all’esterno. Il basso profilo porta direttamente alla censura totale per evitare conseguenze peggiori. Ma l’annuncio degli aumenti da parte della Foxconn rischia di renderla meno percorribile».
In questo contesto, quale futuro vede per il suo Paese? «Io lotto perché la ricchezza prodotta negli ultimi anni di crescita economica sia distribuita anche agli operai, che invece non hanno visto la loro vita migliorare. Se il regime collasserà è probabile che le condizioni dei lavoratori migliorino. Ma non è così sicuro».

Repubblica 13.6.10
Genova ’60
La lunga estate della rivolta
di Wanda Valli

Cinquant´anni fa la città si ribella al congresso del Msi. Ex partigiani, camalli, studenti si infiammano alle parole di Pertini: "Difendere la Resistenza, costi quel che costi". Il 30 giugno la Celere di Tambroni viene travolta dai "ragazzi con le magliette a strisce". È in quelle giornate che si disegnerà il futuro dell´Italia Tra aperture alla sinistra e tentazioni autoritarie

La macchia è ancora lì, rossastra, a due passi dal palazzo della Regione, in piazza De Ferrari, cuore di Genova. Hanno provato a ripulirla nel tempo, più e più volte, ma senza riuscirci. Quasi che la storia volesse lasciare un suo segno. La macchia è quel che rimane di una camionetta della Celere di Padova rovesciata e incendiata dai manifestanti, il 30 giugno del 1960. Il giorno in cui Genova brucia, si ribella, si rivolta contro il Msi, fresco alleato del governo Tambroni, che vuole tenere nella città medaglia d´oro della Resistenza il suo congresso il 2 luglio. E vuole che a presiederlo sia Carlo Emanuele Basile, l´uomo delle torture alla Casa dello studente, l´uomo che nel 1944 fece deportare milleseicento operai delle fabbriche e del porto.
Genova non ha dimenticato. È una calda giornata d´estate, il 30 giugno 1960, c´è maccaia, quel tempo umido con le nubi che velano il sole. «Scimmia di luce e di follia» la definirà molti anni dopo Paolo Conte, poeta della canzone. La città vive una calma apparente. Ma ci sono già stati cortei e scontri con la polizia: il 25 è il giorno della prima manifestazione, il 28 giugno Sandro Pertini, con il discorso del bricchettu (del fiammifero) dà il via all´incendio finale. Tutto è incominciato quasi un mese prima, il 2 giugno, festa della Repubblica. Gli ex partigiani si incontrano a Pannesi, sulle alture sopra Genova, lo stesso posto da dove sono partiti per andare a combattere in montagna. Giorgio Gimelli, ex partigiano, nel 1960 è presidente provinciale dell´Anpi. È lui a parlare con Umberto Terracini, amico di Gramsci, compagno di prigionia di Pertini a Ponza, poi deputato eletto in Liguria per il Pci. Terracini è stato il presidente dell´Assemblea costituente, è sua la firma, nel dicembre del 1947, sotto il testo della Costituzione. Quel giorno, a Pannesi, Terracini di fronte a tremila persone lancia la mobilitazione. Il resto dell´Italia ignora quanto sta per accadere, il governo minaccia di mandare l´esercito e spera che tutto finisca così. Il tam tam, invece, avvolge la città. A tenere i contatti tra Roma e Genova, sono la Cgil attraverso la Camera del lavoro, e soprattutto l´Anpi, l´associazione dei partigiani.
I protagonisti saranno i giovani, i ragazzi con le "magliette a strisce", operai, portuali, moltissimi studenti dell´università. Paride Batini, leader dei portuali scomparso un anno fa, nel giugno del 1960 ha venticinque anni, è uno di quelli con la maglietta a strisce: «Le portavamo tutti, perché costavano poco» spiegò l´unica volta in cui ruppe il silenzio su quei giorni. Raccontò, Batini, che il 30 giugno ´60 fu la rivolta dei giovani: «Il miracolo economico lo stavano costruendo sulla nostra pelle, noi volevamo giocarci il futuro». In prefettura tentano una mediazione. Fulvio Cerofolini, ex sindaco socialista di Genova, poi deputato, ora è presidente provinciale dell´Anpi: «Il prefetto propose di spostare il congresso del Msi a Nervi e a noi di manifestare al Righi, sulle alture, una specie di anticipazione della teoria degli opposti estremismi». Che non passa.
Per il 30 giugno la Camera del lavoro prevede uno sciopero di sole due ore, ma due giorni prima, il 28, sono la passione e la foga oratoria di Sandro Pertini di fronte a ventimila persone a scaldare gli animi. Il futuro presidente della Repubblica ricorda gli ideali che hanno unito l´Italia: «Libertà, giustizia sociale, amor di patria. Noi siamo decisi a difendere la Resistenza. Lo consideriamo un nostro preciso dovere: per la pace dei morti e per l´avvenire dei vivi, lo compiremo fino in fondo. Costi quel che costi». Così andrà.
Il 30, quei pochi delegati del Msi che si presentano negli alberghi vengono respinti, i tassisti li lasciano nei posti più impensati, sui tavoli dei ristoranti ci sono volantini antifascisti. Il corteo parte un po´ in anticipo. Raccoglie, via via che attraversa la città, una folla di centomila persone. In piazza della Vittoria arriva l´ordine di scioglimento. Molti ritornano in piazza De Ferrari, ma c´è anche chi non si muove da lì. Il nucleo di polizia della Celere di Padova è schierato con le jeep e prova a mandar via la gente, a partire da chi si è arrampicato sulla fontana al centro della piazza. Uno di questi è Giordano Bruschi, allora aveva trentacinque anni, era segretario dei marittimi della Cgil: «Dopo il primo carosello, io con molti altri, finisco nell´acqua, mentre le camionette vengono posteggiate sotto i portici», là dove oggi c´è la macchia. Le cariche si susseguono, si fugge lungo i vicoli, e lì la polizia si ritrova impotente. Bruschi: «La gente tirava vasi, acqua calda e olio dalle finestre», i poliziotti risalgono in piazza De Ferrari, proprio mentre almeno in cinquemila, soprattutto portuali e operai, vanno all´assalto delle jeep. Vengono sollevate di peso dai camalli, gli scaricatori del porto, e rovesciate. Il comandante della Celere finisce nella fontana, lo salvano i portuali e i partigiani, lo portano in un bar, a prendere un caffè.
Quando lo scontro sembra diventare sanguinoso, Giorgio Gimelli va in Questura a parlare con il commissario Costa. Insieme, il partigiano e il commissario, corrono in via XX Settembre dove la gente ha eretto barricate. Lì c´è anche Raimondo Ricci. Avvocato, oggi presidente nazionale Anpi, ricorda: «Le prime cariche, la gente che lanciava tavolini e seggiole. C´erano i lacrimogeni, ci coprivamo con i fazzoletti». Alla fine si riesce a convincere tutti ad andare a casa. In prefettura si tratta. Il centro della città resta presidiato. All´una di notte, il segretario della Cgil, Pigna, annuncia: «Il congresso del Msi è stato annullato». Genova ha vinto ancora.

Repubblica 13.6.10
Leoni in piazza volpi a Palazzo
di Filippo Ceccarelli

Fu questo dei moti di Genova e del luglio ´60, «a mio parere - come scrisse Aldo Moro nel suo memoriale dal carcere delle Br - il fatto più grave e minaccioso per le istituzioni intervenuto a quell´epoca». Tale il clima, dopo i tre morti di Melissa, Palermo, Catania e i cinque di Reggio Emilia; tanto angosciosi i boatos dopo la tregua proposta a sorpresa dal presidente del Senato Merzagora e il simultaneo sventolio di dossier tra potenti democristiani, specie da parte dello stesso presidente del Consiglio Tambroni, che per qualche giorno l´allora segretario della Dc preferì dormire fuori casa. Giulio Andreotti, del resto, che rispetto a Moro aveva meno ragioni di temere, più che l´aria di golpe si è poi divertito a descrivere la scena «da film americano» dei ministri della sinistra Dc che acrobaticamente cercavano di consegnare le loro lettere di dimissioni nelle mani di Tambroni, il quale a sua volta ingaggiò i più ingegnosi esercizi fisici per non accoglierle. Perché come spesso accade in Italia c´era il dramma, la rabbia e la paura, ma anche da ridere: così una sera, durante una riunione a piazza del Gesù, quando dalla strada risuonò un improvviso rumore di cavalli al galoppo, un anonimo notabile diede voce al comune sentimento: «Non saranno mica venuti ad arrestarci?».
E insomma: insorta Genova, e manganellati dalla Celere parecchi deputati comunisti a Porta San Paolo, lo scudo crociato non smetteva di traccheggiare di fronte alla scelta del centrosinistra, Tambroni lasciava maliziosamente capire di sapere tutto di tutti («Li conosco uno per uno e al momento giusto li metto a posto») e il presidente della Repubblica Gronchi, terrorizzato dal primigenio complotto comunista, con tale grottesca insistenza pretese un aumento della vigilanza da indicare i requisiti degli agenti di Ps da disporre a tutela della sua persona: «Di alta statura, complessione atletica e rotti - recitava la formula - a tutti gli sport».
Di queste strambe e turbinose manovre, di questo carosello che arrivò a lambire anche la Santa Sede e la Cei, che non mancarono di mettere in campo dispute pure di ordine dottrinale, fece alla fine tesoro l´altro cavallo di razza della Dc: Amintore Fanfani, il grande sconfitto di due anni prima, in tale frangente chiamato a una delle sue consuete, repentine e impetuose resurrezioni.
In realtà già prima della fatidica estate genovese, «il Rieccolo», come di lì a poco l´avrebbe designato Indro Montanelli, aveva cominciato in gran segreto a tessere la sua trama per aprire le porte al Psi con l´ovvia collaborazione di La Malfa e Saragat. Il dato rimarchevole, e se si vuole pure significativo degli usi e costumi della Prima Repubblica è che l´imminente governo Fanfani - poi detto «delle convergenze democratiche» o secondo la più metafisica lectio morotea «delle convergenze parallele» - venne comunque prefigurato in un pranzo tenutosi in una remota trattoria dell´Acqua Acetosa, "Da Giggetto il Pescatore"; dove quella piovosa domenica, insieme agli illustri cospiratori erano capitati almeno un paio di giornalisti, oltre all´incolpevole figliola del presidente Tambroni, che poi era la vittima designata di quella conviviale congiura.
Seguirne con gli occhi di oggi le logiche politiche e le tatticissime sottigliezze tattiche è praticamente impossibile, se non vano. Con ragionevole semplificazione, a mezzo secolo di distanza, è abbastanza evidente che a partire dalla sollevazione antifascista di Genova si giocò in Italia una partita di leoni e di volpi, un passaggio che combinava ruggiti di piazza e tagliole di palazzo. Di quel luglio anche sanguinoso scrissero a caldo Carlo Levi e Pier Paolo Pasolini, Antonio Delfini vi dedicò una poesia (Genova è in rivolta, Torino ascolta), mentre il giovane Fausto Amodei compose una canzone destinata a diventare celebre, Morti di Reggio Emilia. Ma nel cuore del potere e nel suo immaginario quella mezza insurrezione, proprio in quanto favorì l´affermarsi del centrosinistra, rimase inscritta anche come un potenziale pericolo: di qui probabilmente la redazione del controverso Piano Solo da parte dell´Arma dei carabinieri.
Dotatosi di un suo quasi personale servizio segreto, ma a sua volta spiato dal Sifar che riferiva a Moro, Tambroni non aveva né le intenzioni né la stoffa per portare alle estreme conseguenze l´avventura autoritaria. Allo stesso modo l´allora leader del Msi, Arturo Michelini, mancava di statura per inserirsi in quel gioco rischioso. La stessa storiografia di destra (a cominciare dal saggio di Adalberto Baldoni, Due volte Genova, Vallecchi, 2004) appare piuttosto tiepida, se non dubbiosa, rispetto all´ipotesi che se la sommossa di Genova non avesse impedito quel congresso, il Msi avrebbe anticipato il processo di costituzionalizzazione del neofascismo compiuto da Gianfranco Fini con An tra il 1993 e il 1995.
Vero è che la storia non si fa con i se. Fra gli angosciosi presentimenti di Moro, gli arguti ricordi andreottiani e la rapinosa abilità di Fanfani ce n´è abbastanza perché Genova resti nella memoria collettiva, con la sua energia anche gloriosa, ma anche, come succede, con le sue ambiguità.

sabato 12 giugno 2010

l’Unità 12.6.10
Cgil oggi in piazza a Roma I dipendenti pubblici diranno i loro no alla manovra che li colpisce
Sfila la rabbia di impiegati e insegnanti
I lavoratori pubblici oggi in piazza con la Cgil, contro la manovra economica che su di loro scarica molto del suo peso e in difesa della sanità, della scuola e degli altri servizi pubblici messi a rischio dai tagli
di Felicia Masocco

La manovra economica va modificata, così com’è non va, scarica gran parte del suo peso sui lavoratori e i pensionati. Quelli pubblici, in particolare. E il peso, lo ricordiamo, è di 24,9 miliardi di euro. A chiedere al governo e al Parlamento di fermarsi e rettificare le iniquità è la Cgil che oggi porta in piazza il lavoro pubblico, in tutte le sue declinazioni. Quelle della sanità, della scuola, dei servizi comunali, degli asili, dell’assistenza sociale, i vigili del fuoco, gli ispettori del lavoro, gli impiegati, i medici e gli altri. Donne e uomini che pagano direttamente i «sacrifici» chiesti al Paese perché avranno gli stipendi bloccati per tre anni, vedranno slittare la pensione di un anno, il Tfr gli verrà dato in tre rate.
CHI PAGA
Pagano perché il loro posto di lavoro viene cancellato: perché il loro ente o istituzione viene soppresso spazzando via anni di precariato che non avranno mai sbocco, oltre a centri che fanno ricerca e controllo. Sono lavoratori che pagano perché c’è il blocco del turn over, chi va via non viene rimpiazzato e chi resta prende in carico il lavoro degli altri. C’è poi chi non viene più messo in condizione di fare bene il suo lavoro: si pensi al divieto di usare per servizio l’auto propria e cosa può significare per un medico condotto che deve visitare un paziente o un ispettore del lavoro che deve raggiungere un cantiere fuori mano. Tutto questo ha interfaccia. Sono i servizi al cittadino utente, al cittadino paziente. Si chiama scuola e sanità pubbliche e sicurezza, visto che anche le forze di polizia sono penalizzate dai tagli. In piazza oggi ci saranno i lavoratori e i cittadini per dire semplicemente «Tutto sulle nostre spalle». Un corteo partirà alle 15 da piazza della Repubblica fino a piazza del Popolo dove dalle 17 parleranno i segretari di segretario della Flc (scuola e conoscenza) Domenico Pantaleo, la segretaria generale di Fp (pubblico impiego), Rossana Dettori e il leader Cgil Guglielmo Epifani. Dalla mattina, inoltre, in piazza del Popolo in cinque gazebo illustreranno ai cittadini gli effetti dei tagli sui servizi.
A fianco della Cgil saranno oggi delegazioni del Pd, di Sel, di Idv, di Pdci e Rifondazione comunista, il giudizio dato alla manovra è da tutti condiviso, è «è iniqua e sbagliata». «Lo è perché colpisce le fasce più in difficoltà nella società: gli statali, gli insegnanti, i ricercatori, i precari. Per questo motivo spiega il senatore Pd Ignazio Marino ho deciso di aderire alla manifestazione». «Il governo aggiunge punta tutto sul privato, abbandonando al degrado più totale il pubblico in tutti i suoi settori». Manifestano gli studenti universi-
tari (Ud) e la rete degli studenti medi. Ci saranno i consumatori e i pensionati dello Spi: è di ieri il dato eloquente sulle pensione degli italiani. il 72% non supera 1 mille euro; nel 45% dei casi non arriva ai 500. È facile immaginare cho cosa significa per loro avere meno servizi pubblici.

l’Unità 12.6.10
Guido Calvi: «Una legge a tempo. Serve ad arginare i danni per chi è sotto indagine»
L’obiettivo di governo è quello di bloccare altri scandali: non vuole danni d’immagine. Sarà bocciata al primo ricorso. Le notizie comunque sul web
di Maria Zegarelli

Sarebbe stato impensabile per i partiti della Prima Repubblica permettere quello che sta accadendo oggi. In questi sessanta anni di storia repubblica mai e poi mai c’è stata la possibilità di costruire un progetto legislativo così scardinante sia per l’intelligence investigativa sia per la stessa informazione democratica». Guido Calvi, docente di Filosofia del diritto, nonché senatore per tre legislature, guarda con grande allarme a quanto sta avvenendo. «Con questo ddl non si mina soltanto la possibilità di indagare, ma si tocca l’impianto democratico del Paese e parte di questa responsabilità è anche di chi in passato, davanti ad un uso dissennato dell’informazione, che a volte ha violato sia la privacy sia talune indagini, non è intervenuto nei tempi giusti con una legge giusta». Allarme, ma anche amarezza, «il problema che doveva essere affrontato è l’uso delle intercettazione. I Ds presentarono un ddl nel 1996 e Mastella ne presentò uno nella scorsa legislatura che fu approvato all’unanimità alla Camera, perché si distingueva tra intercettabilità e uso delle intercettazioni, ma non è mai diventato legge». Professor Calvi, perché formulare una legge che se resta così come è si fermerà davanti alla Corte Costituzionale?«Perché l’obiettivo del governo è quello di bloccare altri possibili scandali proprio in un momento in cui il governo sta chiedendo al paese enormi sacrifici economici. Le ultime inchieste grazie anche alle intercettazioni dal G8, all’Aquila, al caso Scajola, hanno scoperchiato un pentolone da cui escono ogni giorno notizie sconvolgenti: questo ddl serve ad arginare i danni all’immagine di un governo che è già in grande difficoltà e a tutelare molti malfattori che d’ora in poi sapranno come regolarsi. Ma questa maggioranza non tiene in conto un aspetto: sarà impossibile arginare l’informazione sul web e impedire la circolazione delle notizie». Quanto resisterà una legge così prima di arrivare davanti alla Consulta? «Saranno tempi brevissimi perché ci saranno una valanga di ricorsi davanti alla Corte Costituzionale da parte di molti magistrati. Basterà un processo per diffamazione per sollevare la questione di legittimità. Credo di poter dire che se entrasse in vigore a fine luglio, già nei primi mesi del 2011 potrebbe esserci un pronunciamento della Consulta».
La Corte costituzionale, altra spina nel fianco del premier.
«È evidente che uno dei prossimi obiettivi di Berlusconi sarà proprio la Consulta perché è l’ultimo baluardo che rimane alla tutela della legalità. Questa sarà la sua prossima battaglia: abbattere l’ultima frontiera, dopo che, stando al governo, ha paralizzato il Parlamento e la magistratura, imbavagliato la stampa, bloccato l’investigazione. A quel punto non resterebbe che il referendum, uno strumento difficile e dai tempi molto lunghi».
Una legge salva casta in piena regola che però deve fare i conti con l’articolo 21 della Costituzione e la Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Supererà l’esame? «I punti fortemente critici sono tre: l’articolo 21 della Costituzione, sulla libertà d’informazione; l’articolo 10 della Convenzione dei diritti dell’uomo che ha ormai valore di legge costituzionale e il principio di ragionevolezza applicabile dalla Consulta. Le norme di questo ddl, un vero pasticcio dal punto di vista giuridico, che incidono sull’intercettabilità e sull’uso delle intercettazioni, non potranno superare l’esame della Consulta. L’intercettabilità non avrebbe dovuto essere toccata in quanto uno degli strumenti principe dell’investigazione sulla criminalità organizzata e economica. Inoltre, aver stabilito un termine temporale così ristretto e la proroga ogni tre giorni per poter proseguire le intercettazioni è un’offesa all’attività investigativa dei magistrati e alla tutela dei cittadini davanti alla criminalità organizzata».
Come si organizzeranno i criminali?
«Le organizzazioni criminali di fronte alla limitazione della intercettabilità saranno caute nelle prime fasi delle trattative: chiunque si sia occupato di indagini sul traffico internazionale di droga sa quanto lunghe e complesse siano. Penso alle trattative tra ndrangheta calabrese e narcotrafficanti colombiani: per intercettarli occorre seguire un percorso lungo e complesso, tenuto conto che questi criminali cambiano continuamente schede telefoniche. La limitazione del tempo di intercettabilità andrà tutta a loro vantaggio. Questa legge produrrà effetti devastanti per la sicurezza».

il Fatto 12.6.10
Si può non firmare
Onida: nel ddl limiti incostituzionali
Il Presidente emerito della Consulta: «Ma il capo dello Stato non ha l’ultima parola»
di Silvia Truzzi

Il bavaglio dice: niente foto e dichiarazioni dei magistrati. La funzione è più importante della persona che la esercita. Principio valido per tutte le istituzioni chiamate in causa dalla legge “sulle intercettazioni”: ne abbiamo parlato con Valerio Onida, presidente emerito della Corte costituzionale.
Professore, ravvisa profili di incostituzionalità nel testo licenziato dal Senato?
Si stabiliscono limiti per la pubblicazione di atti non coperti da segreto, che abbiano pubblico interesse e siano verificati: è una limitazione indebita – e secondo me incostituzionale – alla libertà di informazione. Io sono d’accordo sul fatto di contenere le fughe di notizie su persone estranee e su fatti irrilevanti. E anche sul divieto di pubblicazione di foto e dichiarazioni dei magistrati. Ma queste sono questioni se-
condarie. Il punto chiave ovviamente è un altro. Se la legge sarà approvata ci sarà certamente un ricorso alla Consulta.
In casi del genere l’inconveniente è che per il ricorso alla Corte è necessario che si instauri un contenzioso. Cioè che ci sia una violazione della legge. Il nostro sistema non consente un immediato ricorso, come accade per esempio in Francia. Il che secondo me non è solo un difetto, perché il nostro sistema consente di valutare la legge al momento della sua applicazione, mentre l’altro favorisce una maggiore “politicizzazione” del giudizio della Corte costituzionale. Così mentre aspettiamo il giudizio di legittimità restiamo al buio. Che ne pensa?
L’applicazione anche per qualche mese di una legge che appaia restrittiva della libertà di informazione è un vulnus. “Appare” o “è” restrittiva?
In questo punto secondo me lo è. Poi giudicherà la Corte. Il presidente della Repubblica giovedì ha criticato “I professionisti della richiesta di non firma”.
Ha ragione. La firma del capo dello Stato non è la sanzione regia. Il re aveva una volontà deliberativa, il presidente della Repubblica è chiamato esclusivamente alla promulgazione.
Allora perché è stata prevista nella Carta la possibilità del rinvio? La potestà legislativa spetta esclusivamente alle Camere, non è in coabitazione con il Quirinale. E tuttavia è stato pensato per il capo dello Stato – che è collocato super partes e quindi in qualche modo chiamato a esercitare un’influenza su chi decide – questo potere di rinvio. Ma è un veto sospensivo, non l’ultima parola. Il capo dello Stato non può rischiare una riapprovazione che, se diventasse sistematica, si tradurrebbe in una sua delegittimazione. È un potere non un dovere: il presidente della Repubblica non è un giudice costituzionale e nemmeno il capo dell’opposizione.
C’è stata una reazione molto energica da parte dell’opinione pubblica. Sì, una sollevazione che raramente si è vista. Sarebbe auspicabile che accadesse più spesso di fronte a episodi legislativi gravi.
Forse di tutto questo il presidente della Repubblica potrebbe tener conto: non è alla sua persona che ci si rivolge, ma alla sua figura. Certamente, non si deve alterare però il ruolo del capo dello Stato. La sistematica richiesta di “non firmare” trascura questo ruolo. Probabilmente accade perché le leggi o i decreti di cui si occupa il governo mettono in discussione principi fondamentali: l’eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge o la libertà di stampa.
Sì, ma bisogna avere riguardo ai caratteri di fondo del nostro ordinamento. Il capo dello Stato, ribadisco, non è un co-decisore. Che effetto le ha fatto sentire il presidente del Consiglio dire che governare con questa Costituzione è un inferno? Queste dichiarazioni, fatte da un rappresentante delle istituzioni sono ridicole. Espongono al ridicolo chi le fa.
I tentativi di strappo ai valori della Carta sono stati tanti: forse per questo le persone non ridono.
Le parole sono spesso dei diversivi, soprattutto in politica. Mi spaventano molto di più i fatti, come questo progetto di legge.

l’Unità 12.6.10
Colloquio con Eric Jozsef
SCOOP a Berlusconia
Il reporter disperato chiede aiuto alla Francia
L’immaginario cronista incontra Eric Jozsef, corrispondente da Roma del quotidiano Libération. E si ricorda di certe sue esperienze birmane...
di Giovanni Maria Bellu

Una notizia censurata vale il doppio o il triplo
Eric Jozsef, classe 1964, è il corrispondente da Roma del quotidiano Libération. Vive in Italia dal 1992 e ha dedicato al nostro paese un saggio che s’intitola “Main basse sur l'Italie, la résistible ascension de Silvio Berlusconi” (A mani basse sull' Italia, la resistibile ascesa di Silvio Berlusconi).

Ha accettato di immaginare questo incontro col disperato reporter di Berlusconia e gli ha fatto capire come uno scoop può diventare doppio e triplo se, oltre alla notizia principale, ne contiene anche un’altra: la sua impubblicabilità nel paese dove la notizia è avvenuta.
Ieri abbiamo lasciato il nostro disperato reporter di Berlusconia nello studio dell’avvocato Paolo Mazzà il quale gli ha detto a chiare lettere che non deve assolutamente pubblicare il suo scoop. Un grosso scoop: un atto giudiziario che contiene la prova della corruzione di un ministro da parte di un imprenditore. Dopo il colloquio col legale, il reporter di Berlusconia ha deciso di far uscire la notizia attraverso un collega francese, Eric Jozsef, corrispondente da Roma di Libération. Lo incontra poco dopo e subito avverte un senso di imbarazzato disagio. Nella sua carriera ha girato il mondo e gli è capitato di incontrare colleghi validissimi che gli passavano notizie che loro non potevano pubblicare. Non aveva mai immaginato di potersi trovare in quella condizione.
Era da un anno che il reporter di Berlusconia ed Eric Jozsef non si vedevano. Più o meno dal tempo del caso delle escort a Palazzo Grazioli. Una vicenda rispetto alla quale Eric non ha condiviso tutte le scelte della stampa italiana. Per esempio non gli è piaciuta la pubblicazione delle “registrazioni rubate” della D’Addario. Ancora oggi ha il dubbio che abbia dato qualche pretesto in più per arrivare a questa legge, che definisce senza mezzi termini “infame”. Insomma, Eric non è un estremista della notizia e questo rassicura il reporter di Berlusconia. Metterà il suo scoop in buone mani, e ciò allevierà almeno in parte il dolore di averne perduto la titolarità.
Dopo un saluto malinconico, viene al sodo. Apre l’atto giudiziario, ne spiega in poche parole il contenuto. Eric Jozsef non ha un attimo di esitazione: «Lo pubblico senz’altro. Anzi di più. Questa per me non è una notizia, ma due...»
Il reporter di Berlusconia in questi giorni è un po’ frastornato. Ha il dubbio di non aver colto qualche passaggio fondamentale dell’atto giudiziario: «Qual è l’altra notizia?», domanda.
«L’altra notizia è che tu non puoi scrivere l'articolo. Che, insomma, questa notizia non può essere pubblicata in Italia».
Al reporter di Berlusconia qualcosa di simile, ma a parti invertite, era successo tempo prima in Birmania.
Però non aveva riflettuto su questo aspetto della “notizia doppia”. Ha un sussulto d’orgoglio.
«Caro Eric, l’avvocato mi ha spiegato che anche tu e il tuo editore potreste correre dei rischi. Se scrivi l’articolo per il sito del tuo giornale non ci sono problemi. Non chiedermi perché, è una complicata questione giuridica che si sostanzia nell’applicazione per analogia di una sentenza della Cassazione su un caso di diffamazione. Ma se lo scrivi per il giornale di carta allora... è diverso».
Il reporter di Berlusconia s’interrompe in attesa di una reazione. Ma Eric Jozsef resta assolutamente imperturbabile.
«Anche voi correte voi dei pericoli riprende il reporter di Berlusconia accalorandosi perché un po’ di copie di Libération arrivano anche da noi, vengono distribuite nelle principali edicole delle grandi città e questo potrebbe essere equiparato alla pubblicazione illegale e quindi sia tua, sia il tuo editore potreste essere chiamati a risponderne... Ma c’è una soluzione...»
«Quale?».
«Semplicissima: il giorno in cui esce il tuo articolo, dite alla distribuzione di non far arrivare il giornale in Italia!»
Ecco, finalmente l’imperturbabile collega ha una reazione. Il reporter di Berlusconia riconosce quella luce che si accende negli occhi di un giornalista quando la notizia che ha tra la mani diventa ancora più grande.
«Sarebbe clamoroso esclama Eric Jozsef Una cosa del genere oggi può succedere solo in certi paesi dove la libertà di stampa e anche di opinione sono controllate dai governi. Ci sarebbe sicuramente un ricorso alla Corte europea. In Francia abbiamo qualche esperienza: a volte succede che Libération, o anche le Monde, non vengano distribuiti perché il contenuto di qualche articolo non piace a chi governa».
«Dove?», domanda il reporter di Berlusconia temendo la risposta.
«Per esempio in Tunisia, in Algeria, in Marocco...».
«Ecco il documento, Eric», sibila il reporter di Berlusconia. E, avvilito e a mani vuote, si avvia verso la sua redazione.

Repubblica 12.6.10
Disobbedire, per la democrazia
di Nadia Urbinati

Questa legge va fermata «nell´interesse della democrazia, che deve garantire il controllo di legalità, e che deve assicurare trasparenza di informazione. Non c´è compromesso possibile su questioni di principio, che riguardano i diritti dei cittadini, i doveri dello Stato». Le parole di Ezio Mauro su Repubblica ripropongono il tema della disobbedienza civile, ovvero il limite oltre il quale obbedire può contribuire a riconoscere una legge ingiusta.
E lo ripropongono in un momento nel quale la democrazia costituzionale è a rischio poiché chi ha ottenuto la maggioranza per governare sta accampando pretesti per cambiare le regole: per governare secondo le proprie regole, per i propri desideri e interessi. L´Italia si trova di fronte a un bivio e la proposta di legge bavaglio è una tappa decisiva verso una pericolosissima fase anticostituzionale. Che cosa fare per impedire una nuova stagione liberticida? E prima ancora, come comportarsi di fronte a questa legge, se venisse approvata dal Parlamento?
Se questa legge passasse, molti cittadini si troverebbero fatalmente a dover decidere se rispettare la legge o rispettare la verità, se obbedire alla maggioranza o alla costituzione, poiché chiaramente la contraddizione tra le due è ormai aperta. Come ci ha fatto comprendere il presidente del Consiglio, la costituzione è un impaccio del quale lui vuole liberarsi; un impaccio come la libertà di stampa e l´autonomia della magistratura. Ma quando una decisione politica mette legge e verità, legge e Costituzione in contraddizione tra di loro, è la libertà di tutti a rischio. È su questo semplice ragionamento che si basa la disobbedienza civile, un´azione che è possibile solo dove la politica è sotto lo scrutinio permanente e pubblico dei cittadini e condotta nei limiti della costituzione.
È negli Stati Uniti che si è sviluppata la più ricca e completa teoria della disobbedienza civile: prima contro la schiavitù, poi contro la coscrizione obbligatoria per la guerra del Vietnam. La cornice ideale l´hanno tracciata David Henry Thoreau e Martin Luther King, i quali presero la strada della disobbedienza civile consapevoli che la loro scelta avrebbe comportato la repressione, ma senza per questo desistere. La disobbedienza è «civile» appunto perché fatta rispettando le leggi, perché chi disobbedisce accetta le conseguenze punitive previste. Non è dunque la legge che la disobbedienza civile rifiuta e contesta, ma una specifica decisione di una specifica maggioranza. La quale, quando provoca una reazione così radicale da parte dei cittadini, è davvero contro la legge, fuori della legge.
Thoreau nel 1846 rifiutò di pagare le tasse al governo federale per non contribuire a finanziare una guerra ingiustificata, quella contro il Messico, e una legislazione che sosteneva la schiavitù degli stati del Sud. Spiegò il suo gesto in una lezione al locale liceo pubblico di Concord, nel Massachusetts, che divenne il testo canonico della disobbedienza civile: se la coscienza del cittadino onesto è il sovrano ultimo della democrazia, quando la legge votata da una maggioranza la viola gravemente, la disobbedienza è un atto dovuto a se stessi, un dovere di onestà. Più politica ma non meno radicale la posizione che tenne Luther King, un secolo dopo, questa volta contro la segregazione razziale imposta da decisioni ingiuste. Il leader del movimento americano per i diritti civili scrisse dalla prigione di Birmingham, Alabama, un memorabile discorso-sermone nel quale, affidandosi ad autori religiosi e laici, da San Tommaso a Thomas Jefferson, giustificò la disobbedienza ad una decisione ingiusta con l´argomento che quest´ultima viola il patto fondamentale che tiene insieme la società civile e si mette, lei non i disobbedienti, fuori della legge. Anche per Luther King come per Thoreau, disobbedire era un dovere del cittadino se obbedire significava lasciare che la legge fondamentale venisse calpestata.
Disobbedire voleva dire non solo conservare la propria dignità di cittadini ma anche difendere lo spirito e la lettera della Costituzione. Al dispotismo della maggioranza si risponde riconoscendo obbedienza alla norma fondamentale. Questo principio fu ribadito da John Rawls negli anni della guerra in Vietnam. Rawls, in un saggio memorabile nel quale dettò una specie di statuto della disobbedienza civile, spiegò che questa è l´ultima ratio, una scelta che è fatta dai cittadini singoli e che viene dopo che tutti i passi politici per impedire l´approvazione di una legge sono andati a vuoto: dall´opposizione parlamentare, alle manifestazioni dell´opinione pubblica, al controllo di costituzionalità degli organi competenti. Alla fine, se tutto ció non ha sortito effetto, non resta che la responsabilità di chi individualmente si trova nella condizione di dover decidere se obbedire o no a quella legge.
La disobbedienza civile è per questo un segnale fortissimo di emergenza democratica perché con essa i cittadini si mettono individualmente nelle mani della legge proprio quando la disobbediscono: facendosi disobbedienti restano soli davanti al potere coercitivo dello Stato. Questa estrema ratio, quando necessaria, è una denuncia della situazione di incostituzionalità nella quale si trova a operare la maggioranza con la sua smania dispotica di liberarsi dalle regole. «Vogliamo arrivare a un nuovo sistema in cui non si debbano chiedere più permessi, autorizzazioni, concessioni o licenze», ha detto il Premier, definendo i controlli previsti dalla Carta «una pratica da Stato totalitario, da Stato padrone che percepisce i cittadini come sudditi».
Ma è lui, è una maggioranza che si vuole incoronare sovrana che ci farebbe sudditi e servi se passasse questa pericolosa politica anticostituzionale, se passasse questa legge bavaglio: la madre di tutte le leggi liberticide. Silenziare le opinioni, spegnere la mente dei cittadini rendendoli bambini idioti davanti a una televisione che commercia il nulla: è questa l´Italia che il nostro Premier ha costruito in questi anni, un serraglio di docili sudditi che egli chiama popolo della libertà. Dove si fermerà questo incalzante assalto alle nostre libertà fondamentali?

Repubblica 12.6.10
Il cavaliere impunito e la regola del silenzio
di Giorgio Bocca

Giù la maschera. Quello che vuole, che pretende la maggioranza al potere è l´impunità totale, il silenzio sui suoi furti e malversazioni. Ai tempi di tangentopoli la maggioranza al potere si accontentava di far passare i suoi furti per legittima pubblica amministrazione.
Ricordate la tesi del craxiano Biffi Gentili? Se i politici sono chiamati ad amministrare grandi città, grandi problemi con competenze da tecnocrati perché non devono essere pagati come tali? E se non lo sono perché si vuole impedire che si autofinanzino? Oggi la maggioranza al potere non ha più bisogno di questi sofismi. Rivendica il diritto di rubare attraverso la politica come un normale, dovuto diritto di preda. Al tempo di tangentopoli i socialisti craxiani ma anche quelli di altri partiti avevano nascosto i furti per mezzo della politica nei conti «protetti» cioè segreti in Svizzera a Singapore a Hong Kong. E avendo messo il bottino al sicuro si erano tolti anche il gusto di prendere per i fondelli i loro concittadini con la tesi assurda che l´autofinanziamento dei partiti non era solo una necessità ma un dovere di chi si faceva carico di amministrare lo Stato e la democrazia.
Oggi nella Italia berlusconiana il furto attraverso la politica è scoperto, normale. Appena si può si ruba e viene il sospetto che sia avvenuta una mutazione antropologica, che la maggioranza al potere sia convinta che l´uso della politica per rubare sia non solo normale ma lodevole e che le istituzioni abbiano il dovere di proteggerlo. L´Italia un tempo paese dei misteri, delle società segrete, delle congiure massoniche sotto l´egida del cavaliere di Arcore sta diventando una democrazia autoritaria dichiarata e compatta a difesa dei suoi vizi e dei suoi furti. Perché opporsi al bavaglio che viene imposto all´informazione? Non aveva ragione Mussolini ad abolire la cronaca nera e a coprire gli scandali del regime? Esiste un modo più efficace di lavare i panni sporchi in gran segreto senza che le gazzette li mettano in piazza? L´imprenditore Anemone che si rifiuta di rispondere ai magistrati che indagano sui suoi affari non è la pecora nera, l´eccezione ma la norma della società berlusconiana del fare tutto ciò che comoda ai padroni, senza pagare dazio.
La conferma della mutazione antropologica viene dal fatto che i politici presi con la mano nella marmellata mostrano più stupore che vergogna. La loro corruzione era normalissima, candida, da buon padre ladro di famiglia. A uno era bastato pagare una garconnière al centro di Roma, un altro aveva lasciato mano libera agli impresari edili dopo il terremoto in cambio di una revisione in casa sua dei servizi igienici, diciamo del funzionamento del cesso e del bagno. Ad altri ancora la possibilità di avere a spese dello Stato qualche mignotta, insomma la grande crisi della politica italiana, il grande rischio di una democrazia autoritaria, di una dittatura mascherata, morbida starebbe nella banalità del male, nei piccoli vizi nelle piccole tentazioni della cosiddetta classe dirigente.
Un´Italia senza misteri con un capo del governo schietto, schiettissimo. Che vuole? Che pretende? Il minimo di un uomo del fare più che del pensare: di non avere controlli, di non avere intralci e se gli viene in testa di allevare un cavallo nessuno si permetta di obbligarlo a tirar su una mucca. Che cosa ha scoperto il Cavaliere? Quello che avevano scoperto prima di lui tutti gli uomini autoritari del fare, che i controlli sono fastidiosi e a volte insopportabili. In una parola: che la democrazia è più complicata e faticosa della dittatura.

Repubblica 12.6.10
Ecco perché bisogna fermarla
di Roberto Saviano

La Legge bavaglio non è una legge che difende la privacy del cittadino, al contrario, è una legge che difende la privacy del potere. Non intesa come privacy degli uomini di potere, ma dei loro affari, anzi malaffari. Quando si discute di intercettazioni bisogna sempre affidarsi ad una premessa naturale quanto necessaria. La privacy è sacra, è uno dei pilastri del diritto e della convivenza civile.
Ma qui non siamo di fronte a una legge che difende la riservatezza delle persone, i loro dialoghi, il loro intimo comunicare. Questa legge risponde al meccanismo mediatico che conosce come funziona l´informazione e soprattutto l´informazione in Italia. Pubblicare le intercettazioni soltanto quando c´è il rinvio a giudizio genera un enorme vuoto che riguarda proprio quel segmento di informazioni che non può essere reso di dominio pubblico. Questo sembra essere il vero obiettivo: impedire alla stampa, nell´immediato, di usare quei dati che poi, a distanza di tempo, non avrebbe più senso pubblicare. In questo modo le informazioni veicolate rimarranno sempre monche, smozzicate, incomprensibili. L´obiettivo è impedire il racconto di ciò che accade, mascherando questo con l´interesse di tutelare la privacy dei cittadini. Chiunque ha una esperienza anche minima nei meccanismi di intercettazione nel mondo della criminalità organizzata sa che vengono registrati centinaia di dettagli, storie di tradimenti, inutili al fine dell´inchiesta e nulle per la pubblicazione. Il terrore che ha il potere politico e imprenditoriale è quello di vedere pubblicati invece elementi che in poche battute permettono di dimostrare come si costruisce il meccanismo del potere. Non solo come si configura un reato. Per esempio l´inchiesta del dicembre 2007 che portò alla famosa intercettazione di Berlusconi con Saccà ha visto una quantità infinita di intercettazioni di dettagli privati, di cui in molti erano a conoscenza ma nessuna di queste è stata pubblicata oltre quelle necessarie per definire il contesto di uno scambio di favori tra politica e Rai.
La stessa maggioranza che approva un decreto che tronca la libertà di informazione in nome della difesa della privacy decide attraverso la Vigilanza Rai di pubblicare nei titoli di coda il compenso degli ospiti e dei conduttori. Sembra un gesto cristallino. E´ il contrario. E non solo perchè in una economia di mercato il compenso è determinato dal mercato e non da un calcolo etico. In questo modo i concorrenti della Rai sapranno quanto la Rai paga, quindi il meccanismo avvantaggerà le tv non di Stato. Mediaset potrà conoscere i compensi e regolarsi di conseguenza. Ma la straordinaria notizia che viene a controbilanciare quella assai tragica dell´approvazione della legge sulle intercettazioni è che il lettore, lo spettatore, quando comprende cosa sta accadendo diviene cittadino, ossia pretende di essere informato. Migliaia di persone sono indignate e impegnate a mostrare il loro dissenso, la volontà e la speranza di poter impedire che questa legge mutili per sempre il rapporto che c´è tra i giornali e i suoi lettori: la voglia di capire, conoscere, farsi un´opinione. Non vogliamo essere privati di ciò. Mandare messaggi ai giornali, mostrarsi imbavagliati, non sono gesti facili, scontati. Non sono gesti che permettono di sentirsi impegnati. Sono la premessa dell´impegno. L´intento d´azione è spesso l´azione stessa. Il dichiararsi non solo contrari in nome della possibilità di critica ma preoccupati che quello che sta accadendo distrugga uno strumento fondamentale per conoscere i fatti. La legge che imbavaglia, viene contrastata da migliaia di voci. Voci che dimostrano che non tutto è concluso, non tutto è determinabile dal palinsesto che viene dato agli italiani quotidianamente. Ogni persona che in questo momento prende parte a questa battaglia civile, sta permettendo di salvare il racconto del paese, di dare possibilità al giornalismo - e non agli sciacalli del ricatto - di resistere. In una parola sta difendendo la democrazia.
©2010 Roberto Saviano/ Agenzia Santachiara

l’Unità 12.6.10
De Benedetti show: «Berlusconi è il Sordi della politica italiana»
Partito Democratico: «Pensavamo fosse un gatto selvatico è una balena spiaggiata»
L’Ingegnere ne ha per tutti: dal Pd che l’ha «molto deluso» ai sindacati «che a volte non fanno gli interessi dei lavoratori» Il successo del Premier? «La gente è disperata e l’opposizione...»
di S.C.

Premette che è qui a “Nord Camp” per parlare del tema delle tasse, sul perché puntare a ridurle e inserire una patrimoniale è di sinistra, ma fa sapere che è anche pronto a una chiacchierata più “light”. E però poi Carlo De Benedetti assesta fendenti a destra e manca, infierendo su Silvio Berlusconi «leader ex carismatico», «l’Alberto Sordi della politica italiana», uno che «è bugiardo ma è talmente fuori di testa da convincersi davvero in qualche momento di fare il bene del paese» ma non risparmiando batoste anche al Pd, partito che l’ha «profondamente deluso». Lui che fino al 2008 ha votato «quel che c’era, Pds, Ds» e poi dopo aver aspettato «finalmente questa innovazione nella politica italiana» si è ritrovato a pensare quello che Churchill disse dello sbarco degli alleati ad Anzio, che per il timore di imboscate da parte dei tedeschi commisero un grave errore e rimasero due mesi fermi prima di avanzare verso Roma: «Credevamo di aver sbarcato un gatto selvaggio, ci siamo trovati una balena spiaggiata».
L'editore del Gruppo l'Espresso è a Pacengo di Lazise per spiegare la sua ricetta sul fisco: «Bisogna abbassare le tasse alle imprese e ai lavoratori, e per tenere in equilibrio il sistema tassare le rendite e i patrimoni in modo di verso da oggi». Ad invitarlo è stato Enrico Letta, e l’Ingegnere vuole subito spazzare il campo da “dietrologie”, perché sa già che qualcuno dirà che è qui perché vuole «sostenere Letta come prossimo leader del Pd», per il quale confessa comunque «stima e amicizia». E poi, con Antonello Piroso che lo intervista, si lascia andare senza trattenere battute al vetriolo su Carlo Caracciolo («era molto tirchio»), Giampaolo Pansa («voleva diventare direttore dell’Espresso e invecchiando è andato in aceto»), i sindacati che «sono troppo legati alla politica e non sempre hanno fatto gli interessi dei lavoratori» e in particolare le organizzazioni (leggasi Cgil) che decidono di scioperare: «Gli scioperi ormai non servono a nulla, sono dei modi per penalizzare il lavoratore. L'unica certezza è la riduzione della busta paga, che già non è ricca».
In platea, tante persone rimaste tutta la mattina a lavorare su proposte riguardanti il fisco, l’immigrazione, il federalismo che ora ridono o applaudono, con Letta in prima fila e accanto a lui il ministro leghista Maroni che prima aveva detto di voler ascoltare un po’ De Benedetti prima di ripartire e poi decide di rimanere fino alla fine a godersi lo spettacolo. Che ha comunque nell’antiberlusconismo l’ingrediente principale. «Io ho sempre avuto una ritrosia personale ad essere cooptato», risponde l’Ingegnere a Piroso che gli domanda se nel capitalismo italiano si abbia successo solo per questa vira. Questo la accomuna a Berlusconi? E lui, secco: «Bè, no, lui è della P2». Poi racconta dell’ultima volta che ha incontrato il premier, invitato a colazione a casa di Gianni Letta. «Berlusconi mi accoglie e mi fa: “perché non mi vuoi bene?”. Ma come cazzo vuoi che ti voglio bene? Mi hai fregato sulla Sme, mi hai fregato sulla Mondadori e vuoi anche che ti voglia bene?». E se ha ancora tanto consenso tra gli italiani, la ragione non può essere che una: «Sono disperati». Perché l'opposizione è quella che è e Bersani «persona che stimo, ottimi ministro, persona perbene e caro amico, però, andiamo, qualche volta vorrei vederlo con un po’ più di entusiasmo».

l’Unità 12.6.10
Il potere politico attacca informazione e giudici perché garanti della legalità
Il procuratore di Milano: gli attacchi di Berlusconi hanno passato il segno, meriterebbero forse una risposta istituzionale. I magistrati sono sottoposti solo alla legge, non al governo
Intervista ad Armando Spataro

La magistratura e l’informazione sono sotto il tiro del potere politico perchè rappresentano la tutela della legalità e la trasparenza, sono i poteri di bilanciamento di una democrazia. È un brutto periodo per chi ha a cuore la democrazia in Italia, ma sono fiducioso: passerà anche questo».
L’appuntamento con Armando Spataro, procuratore aggiunto a Milano, è a casa sua. Prepara il caffè. Bisognerebbe parlare del suo libro, «Ne valeva la pena» editore Laterza, bisognerebbe chiedere a Spataro, protagonista di 34 anni di vita della Procura di Milano, di svelare se ancora ci sono dei buchi oscuri nella storia del terrorismo rosso o perchè governi di sinistra e di destra si sono comportati allo stesso modo quando si è trattato di bloccare l’inchiesta sul rapimento di Abu Omar. Ma si finisce per parlare dell’aggressione di Berlusconi alla giustizia, all’informazione, alla Carta costituzionale.
Spataro, i rapporti tra potere politico e magistratura sono mai scesi così in basso? «No, mai. Lo testimoniano anche i fatti di questi giorni. Francesco Saverio Borrelli diceva che il controllo della legalità esercitato dalla magistratura in modo autonomo non può essere gradito al potere politico, qualunque sia il colore della maggioranza di turno. Il potere della magistratura è infatti eccentrico rispetto ai programmi ed agli interessi di chi governa, ed è la Costituzione che ha scelto questo modello di magistratura: noi siamo sottoposti solo alla legge ».
Quando è iniziato questo processo di deterioramento? «Edmondo Bruti Liberati, nuovo procuratore capo a Milano, ha ben ricostruito la storia di questa crisi. Il peggioramento dei rapporti è iniziato negli anni Novanta con le inchieste della magistratura sulla corruzione, sulla commistione indebita tra politica ed economia, con Mani Pulite. In quegli anni è emersa l’estraneità della magistratura rispetto agli interessi della politica, quello è stato il punto di svolta. Da almeno 15-16 anni il potere politico si è messo di traverso, cercando di ostacolare o condizionare l’attività della magistratura».
Le parole di Berlusconi?
«Lo ha detto anche il CSM. Non si tratta di esercizio del diritto di critica, ma di “espressioni denigratorie che incidono sull’indipendente esercizio delle funzioni dei magistrati e ne delegittimano l’operato”. Avevo pensato di rinviare la pubblicazione del libro e di aggiornarlo con le aggressioni sistematiche alla magistratura, ma attacco dopo attacco non avrei mai finito».
Cosa si aspetta, ora?
«Gli attacchi hanno passato il segno da tempo e messo in crisi il principio della separazione dei poteri. Meriterebbero, forse, una risposta istituzionale adeguata al più alto livello». Perchè si è messo a scrivere, perchè ci consegna questo “verbale” da 600 pagine?
«Ho iniziato a scrivere di slancio, all’improvviso, spinto dall’amarezza e dalla delusione provate dopo che due governi, di diverso orientamento politico, avevano dato la stessa risposta su un caso importante come l’inchiesta Abu Omar. Opporre il segreto di stato in un caso drammatico di violazione dei diritti umani è stata una decisione politica che mi ha ferito. Ho scritto perchè avevo voglia di buttare fuori tutto quello che avevo dentro, una scelta forse autoterapeutica. E, forse con presunzione, ho pensato che il racconto di quanto ho visto nei miei oltre trent’anni di lavoro in magistratura potesse essere utile anche ad altri».
Quello del magistrato è un lavoro o una missione? «Il mio è un lavoro non una missione. Ma ho sempre ben presente la lettera che il mio collega e amico Guido Galli, assassinato dai terroristi, scrisse al padre per spiegare la sua scelta della magistratura, per fare qualche cosa per gli altri, per il paese, per le istituzioni. Ho sempre fatto il magistrato cercando di svolgere il mio lavoro al meglio delle mie capacità e competenze. Non mi è mai piaciuto, invece, l’approccio del magistrato come moralizzatore della società». Perchè è stato grave usare il segreto di stato nell’inchiesta Abu Omar? «Perchè con questa inchiesta l’Italia avrebbe potuto dare l’esempio, assumere un ruolo trainante in campo internazionale nella tutela dei diritti umani. Avrebbe potuto guidare quel cambiamento che solo oggi, grazie a Obama, inizia faticosamente a prendere corpo. Il caso Abu Omar ha invece segnato uno spartiacque: da quel momento il segreto di stato, la cui opposizione non può che essere un fatto eccezionale, è entrato in tanti altri processi. Opposto nel processo Telecom di Milano dall’imputato Mancini, nel processo di Perugia da Pollari e Pompa accusati di peculato, è comparso persino in un processo per diffamazione a carico di Magdi Allam. E sempre il Presidente del Consiglio ne ha confermato la sussistenza».
Lei ha fatto tutta la sua carriera a Milano, cos’è la Procura di Milano? «È casa mia. La Procura di Milano ha un’anima, forte e radicata nei magistrati che ci lavorano. Qui hanno lavorato e hanno lasciato il segno dell’impegno per la difesa della democrazia e delle istituzioni i miei amici Emilio Alessandrini e Guido Galli. Quando il potere politico attacca la Procura di Milano, ogni cittadino dovrebbe ricordarsi di questi uomini. Mi considero fortunato di aver fatto questa esperienza, di aver incontrato tanti valorosi colleghi. Milano, per me, è stata fondamentale, mi accolse che non avevo nemmeno trent’anni. C’era il terrorismo, ma era una città vivacissima piena di fermenti culturali e politici. A 28 anni mi trovai immerso nelle inchieste sulle Brigate rosse, gli omicidi. Sono cose che non si dimenticano». Lei è un personaggio pubblico, un magistrato molto noto, per i suoi critici “troppo potente”. Qual è la giusta dimensione della presenza pubblica di un magistrato, nel suo rapporto con i media? Non le pare che alcuni suoi colleghi esagerino?
«Il giudice vive e lavora da solo. Questa è la condizione generale. L’esposizione mediatica del giudice, la sua presenza pubblica, secondo un politico sensibile come Virginio Rognoni, è spesso la conseguenza del rilievo sociale del suo lavoro. Ovviamente diversa, e non la condivido, è la ricerca narcisistica dell’esposizione mediatica per la creazione del personaggio, una strada che porta alla demagogia e al populismo».
Cos’è la riforma della giustizia?
«E chi lo sa? Una cosa che trovo insopportabile è la retorica delle riforme condivise. Questa formula, molto usata negli ultimi tempi nel mondo politico, nasconde solo la debolezza e la frammentazione di quella politica che nelle riforme condivise trova la mediazione delle proprie divisioni a scapito dei principi. Dal 1989 ad oggi sono state approvate 83 riforme del codice, e oggi siamo ancora qui a discutere di riforme condivise. E quali sarebbero? Il processo breve, la separazione delle carriere o la separazione della sezione disciplinare dal Csm dallo stesso consiglio come chiede Luciano Violante? Volete ridurre il numero delle sedi giudiziarie come dicono da decenni a destra e a sinistra? Bene fatelo. In Piemonte ci sono 16 tribunali, eredità del passato sabaudo. Tagliate questi sprechi. E invece non succede nulla, salvo voler condizionare, per non dire di peggio, le inchieste della magistratura».
Anche il pd chiede la riforma della giustizia. Cosa ne dice? «Ho letto le proposte di Andrea Orlando, responsabile giustizia del pd: sono una serie di enunciazioni perfette in nome proprio delle “riforme condivise”, anche se non capisco cosa ci guadagnerà la giustizia».
In conclusione, valeva la pena scegliere la magistratura? «Sì, ne valeva la pena. Anche se viviamo anni difficili, le cose cambieranno, non possono non cambiare.Dobbiamo avere fiducia».

l’Unità 12.6.10
La Costituzione secondo Berlusconi
L’inferno del demagogo
di Nicola Tranfaglia

Sapevamo da tempo che il presidente del Consiglio non ama la Costituzione repubblicana. Negli ultimi vent’anni o quasi, a partire dal marzo 1994 in cui ha vinto per la prima volta le elezioni politiche nazionali, l’imprenditore milanese ha sempre parlato il peggio possibile della carta costituzionale. Gli italiani ricorderanno che anni fa la definì una “costituzione sovietica” perché troppo attenta alle esigenze delle masse lavoratrici italiane e, giorni fa, ha sottolineato che in essa si parla di lavoro ma non di imprese e tanto meno di mercato: cioè delle due parole che hanno fino a ieri contrassegnato la sua vita. Avrebbe forse potuto aggiungere che la costituzione non parla neppure di “amici degli amici”: espressione particolarmente cara a chi si iscrive negli anni Settanta alla Loggia massonica coperta P2 di Licio Gelli e a chi ha come amico particolarmente caro un uomo come il senatore Marcello Dell’Utri che di amici siciliani si intende molto,a leggere gli atti che lo riguardano nei processi di Palermo.
Ma oggi non è il caso di polemizzare con le strane amicizie di Silvio Berlusconi quanto di constatare che la sua concezione dello Stato e della democrazia è del tutto incompatibile con i principi e i valori della Costituzione repubblicana come altrettanto incompatibili appaiono i comportamenti dei suoi ministri leghisti che non festeggiano l’anniversario della Repubblica. Peccato che Berlusconi,come del resto i ministri Maroni e Calderoli,abbiano giurato fedeltà al testo costituzionale e dovrebbero comportarsi in maniera coerente: se se ne ha un giudizio negativo o non si riesce ad osservarne i dettami,l’unica soluzione è lasciare il proprio incarico e presentare le dimissioni al Capo dello Stato.
Ma non ci troviamo,a quanto pare,di fronte a persone coerenti e preoccupate della tenuta democratica del paese. Siamo al contrario di fronte a un demagogo populista che da tempo vuole svuotare gli articoli fondamentali della Costituzione e trasformare il nostro Paese in una sorta di regime autoritario dominato dalle televisioni e dai giornali asserviti al governo e alla sua ampia maggioranza parlamentare.
Sicchè gli attacchi alla Costituzione fanno parte della campagna di propaganda che dovrebbe servire a convincere sempre di più la maggioranza degli italiani che la Carta è inutile o peggio dannosa e che Berlusconi ha ragione a lamentarsi sempre di più per i lacci e i lacciuoli che il testo contiene impedendogli di fare tutto quello che vuole come “unto del popolo”. Basterebbe in fondo eliminare dalla Costituzione che all’articolo 1 recita «La sovranità appartiene al popolo che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione» quell’affermazione pignola sui limiti e le forme.

il Fatto 12.6.10
Dati del 2007. E non c’era lo scandalo pedofilia
L’Otto per mille in caduta libera
Punizione terrena per la Chiesa
Il fisco sfiducia di fatto le politiche del Vaticano
di Marco Politi

Il 62 per cento degli italiani è convinto che le autorità ecclesiastiche nascondano gli abusi sessuali

Gli italiani bocciano la politica della Chiesa con l’arma fiscale. Per il secondo anno di seguito calano le adesioni all’8 per mille destinato alla Chiesa cattolica.
L'ultimo censimento registra quasi centomila “firme” in meno. E diminuiscono di un dieci per cento anche le offerte deducibili dalle tasse, passando da 16 milioni e mezzo di euro a 14,9. E’ il segno del malumore verso le scelte politiche della gerarchia ecclesiastica: dal sabotaggio del referendum sulla fecondazione assistita fino al veto contro una legge sulle coppie di fatto. In base al sistema di computo del ministero delle Finanze sono dati che si riferiscono a tre anni fa. Cioè alle dichiarazioni fiscali del 2007 (per i redditi del 2006). Ora negli ambienti ecclesiastici si diffonde la paura che quando arriveranno i dati del 2010 – l'anno dei grandi scandali sugli abusi sessuali del clero – crescerà il rifiuto dell'8 per mille alla Chiesa. D'altronde (sondaggio Demos&Pi-Repubblica) il 62 per cento degli italiani si dice convinto che le autorità ecclesiastiche “nascondono e minimizzano” gli abusi sessuali. In Germania già da tempo i fedeli usano il fisco per punire i vertici ecclesiastici, in Italia stanno imparando. Ieri, chiudendo l'Anno sacerdotale, papa Ratzinger è tornato sull'argomento. Dinanzi a quindicimila preti riuniti in piazza San Pietro ha evocato i “peccati di sacerdoti: soprattutto l'abuso nei confronti dei piccoli”. Nell'omelia Benedetto XVI ha esclamato: “Chiediamo insistentemente perdono a Dio e alle persone coinvolte”. Poi ha soggiunto: “Intendiamo promettere di voler fare tutto il possibile affinchè un tale abuso non possa succedere mai più”, anche vigilando sulla selezione dei candidati al sacerdozio. Il pontefice ha persino evocato il “bastone” del pastore contro i “comportamenti indegni” del clero. Ancora una volta, però, si è parlato di peccati e non di crimini. Chi si aspettava che Benedetto XVI desse solennemente indicazioni precise, riassumendo pronunciamenti dei mesi scorsi (necessità di assicurare giustizia alle vittime e impegno a deferire ai tribunali i preti colpevoli) è rimasto deluso. Ma – come vanno ripetendo da tempo le associazioni di vittime in vari Paesi – ormai “non bastano più le dichiarazioni di pentimento, contano solo i fatti concreti”.
Ed è qui che si vanno profilando, specie in Italia, nuovi scandali. Per l'occasione sono giunti a Roma rappresentanti della più grande organizzazione americana di “Sopravvissuti agli abusi del clero”: lo Snap. Peter Isley, uno dei dirigenti, ha affermato alla vigilia della cerimonia: “Chiediamo un'opzione chiara per la tolleranza zero, cioè l'annuncio che i preti-predatori saranno rimossi. Chiediamo la rimozione di ogni copertura e insabbiamento. Chiediamo piena trasparenza sui dossier degli ultimi trent'anni”. Nessuno dei tre punti è stato toccato dal discorso di Benedetto XVI. Gli archivi vaticani restano chiusi, impedendo che si faccia luce sui gravi insabbiamenti dei decenni trascorsi. E soprattutto la Conferenza episcopale italiana, che dipende praticamente dalle indicazioni papali, è clamorosamente alla retroguardia rispetto ad altri episcopati americani ed europei nelle misure concrete per scoprire gli abusi e punire i colpevoli. La diocesi di Roma, di cui è vescovo il Papa, non ha annunciato nessun numero verde, nessun referente ufficiale a cui possano rivolgersi le vittime. In Italia, di cui il Papa è direttamente la più alta autorità religiosa in quanto “Primate”, l'episcopato non ha voluto aprire nessuna inchiesta nazionale. E nemmeno sono stati creati centri di monitoraggio nelle varie diocesi. Ieri l'associazione di vittime “Caramella buona” ha ricordato pubblicamente che il “cardinale Bagnasco non ha mai risposto alla richiesta di un appuntamento”. E’ chiaro che l'istituzione ecclesiastica sta seguendo la politica del quaeta non movere, cioè non agitare le acque. In altre parole, se emergono abusi si interverrà. Ma non c'è nessuna direttiva perché le vittime – e ve ne sono tantissime che vivono in silenzio il trauma e la vergogna – si vadano a cercare e a scoprire.
Non meraviglia che l'indice di gradimento degli italiani nei confronti della Chiesa cattolica sia drasticamente calato. L'inchiesta Demos&Pi-Repubblica l'ha mostrata scesa al 47 per cento. Di pari passo, negli ultimi anni, è calata la fiducia al momento di compilare la dichiarazione dei redditi. Sul totale delle crocette, che ciascuno mette sulla sua dichiarazione, l’ultimo triennio calcolato dal ministero delle Finanze registra un calo costante delle adesioni cattoliche. Erano l'89 per cento nel 2005, sono scese all'86 nel 2006 e sono ulteriormente calate all'85 per cento nel 2007. Ma – sia ben chiaro – le firme espresse si riferiscono soltanto ad un terzo del numero totale dei contribuenti. Dunque quando si parla di un 80 per cento di “crocette” alla Chiesa cattolica ci si riferisce in realtà soltanto ad un trenta per cento circa delle dichiarazioni Irpef. E’ solo grazie al meccanismo truffaldino escogitato nel 1984 (meccanismo che ignora la volontà di fatto di due terzi dei contribuenti di lasciare i restanti soldi Irpef nel bilancio dello Stato) che nelle casse della Cei affluisce un ottanta per cento dell'8 per mille del gettito Irpef. Con il risultato che, stante la crescita del gettito fiscale, la Chiesa cattolica incassa sempre di più anche quando diminuiscono i “votanti” a suo favore. In concreto quest'anno va alla Cei ben un miliardo e 67 milioni di euro. Cento milioni più del 2009.

Repubblica 12.6.10
Scuole, scrutini bloccati così i prof contestano i tagli
Stop alle valutazioni finali in 4mila classi delle superiori
di Salvo Intravaia

Oggi ultimo giorno di lezione. Ma la protesta dei docenti prosegue anche lunedì e martedì
A rischio le prove d´esame: quella nazionale per gli alunni delle medie e la maturità

ROMA - Centinaia di scrutini deserti anche ieri in Puglia, Marche, Veneto, Umbria e Sardegna. E oggi si replica. Per fare saltare una riunione basta l´assenza di un solo professore e lo sciopero di Cobas e precari per denunciare i tagli a stipendi e organici scolastici sta avendo un successo inaspettato. Oltre 40 mila posti di lavoro in meno e una pesante decurtazione salariale hanno indotto molti docenti, amministrativi, tecnici e personale ausiliario a incrociare le braccia. «È andata molto bene e siamo soltanto al primo tempo: la maggior parte sciopererà lunedì e martedì», spiega Piero Bernocchi, leader dei Cobas. Secondo le rilevazioni del sindacato, lunedì e martedì in Emilia-Romagna sono stati bloccati gli scrutini in più di una classe su cinque. Buona anche l´adesione ieri in Veneto (12 per cento) e in Sardegna (26 per cento). «Complessivamente sono almeno 4 mila - afferma Bernocchi - le classi delle superiori dove non è stato possibile tenere gli scrutini».
L´iniziativa proseguirà lunedì e martedì in Abruzzo, Basilicata, Campania, Lazio. Liguria, Lombardia, Molise, Friuli Venezia-Giulia, Piemonte, Sicilia, Toscana, Valle d´Aosta e provincia di Bolzano. E, a questo punto, che possa essere intralciata la prova nazionale Invalsi del 17 giugno per gli allievi di terza media o l´esame di maturità, al via il 22 giugno con il compito di Italiano, è un´ipotesi tutt´altro che remota. «Dopo le nostre diffide - spiega il leader del sindacato di base - la maggior parte dei presidi, per non ostacolare l´effetto della protesta, ha convocato le riunioni dopo la fine delle lezioni, e non prima. Nelle classi dove non si sono potuti svolgere gli scrutini occorrerà ripeterli»,. In 12 regioni italiane le lezioni si chiudono oggi e solo dopo sarà possibile iniziare gli scrutini: lo sciopero potrebbe far slittare tutto in avanti. Complessivamente - tra elementari, medie e superiori - le classi da scrutinare quest´anno sono oltre 207 mila.
Intanto, con un fronte sindacale spaccato e con i leader che litigano, nel Paese la protesta contro i tagli prende anche altre forme. A Milano duecento tra insegnanti, genitori e studenti hanno improvvisato un "flash mob" in piazza Duomo. A Firenze, piazza Santissima Annunziata è stata trasformata in un´aula con tanto di banchi, cattedra e lavagna. A Torino, l´altro ieri è cominciata l´occupazione dell´ex istituto magistrale Regina Margherita da parte dei docenti. Mentre ieri a Cagliari si è svolto un sit-in di protesta davanti i locali dell´Ufficio scolastico regionale. I più colpiti dai tagli imposti da Tremonti saranno i soggetti più deboli, i docenti non di ruolo. Con la scomparsa di 40 mila posti già dal mese di settembre si troveranno in difficoltà 15 mila precari: i pensionamenti, appena 30 mila, indorano soltanto la pillola. E con la manovra da 25 miliardi varata pochi giorni fa il governo «mette le mani nelle tasche degli insegnanti», dicono i sindacati.
Tre gli effetti sugli stipendi di prof, maestri e personale non docente: niente rinnovo del contratto, blocco degli automatismi stipendiali e pesanti ripercussioni sulle pensioni. È la stessa relazione tecnica allegata alla legge di conversione del decreto che chiarisce i termini della questione. Il blocco degli scatti automatici (ogni 6 anni) peserà per quasi 19 miliardi di euro e produrrà effetti fino al 2048. Ogni addetto alla scuola, docente e no, perderà dal 2011 a fine carriera dai 29 mila ai 42 mila euro che non potrà più recuperare e avrà una pensione più "leggera". Oggi, supportata dagli studenti, sarà in piazza a Roma con due cortei la Flc Cgil. Lunedì 15, Cisl scuola, Uil Scuola, Snals Confsal e Gilda degli insegnanti manifesteranno sempre nella capitale e il 25 giugno sarà la volta dello sciopero generale indetto dalla Cgil.

l’Unità 12.6.10
Gramsci e Machiavelli profeti d’oggi
L’anticipazione Un’indagine insolita, un viaggio nelle viscere del pensiero dell’autore del «Principe», la metafora del «prigioniero disarmato»: un duello a distanza tra due giganti in cui leggere le radici e le sconfitte del presente
di Giulio Ferroni

Oggi siamo in grado di guardare al pensiero di Gramsci oggi non tanto e non soltanto per l’elaborazione di modelli politici direttamente applicabili, ma per seguirne il movimento drammatico, il processo di una scrittura che fa i conti con le più varie sollecitazioni dell’esperienza, mettendo continuamente in causa i propri orizzonti: segno eccezionale di resistenza entro la condizione carceraria e di risposta alla sconfitta della lotta politica e rivoluzionaria; interrogazione delle possibili strade di uscita dalla situazione storica, con ipotesi e svolgimenti che non possono non modificare e correggere linee di condotta e programmi energicamente prospettati negli anni precedenti.
Quella dei Quaderni del carcere è allora una originalissima dimensione saggistica, dialogo intellettuale ed esistenziale con la realtà contemporanea, vista attraverso la riflessione sulla precedente esperienza, le letture e gli studi che il prigioniero riesce ora a fare, il filtro e la distanza che il carcere impone: in questa scrittura vediamo così svolgersi un pensiero sempre «in situazione», che oggi non possiamo valutare come un funzionale strumento politico, ma piuttosto sollecita, come i grandi classici, atti di interpretazione, agendo dinamicamente con una forza di mediazione, di sollecitazione problematica. Questo pensiero non offre insomma (e comunque non ci può offrire ancora oggi, dopo i crolli finali del XX secolo) regole e modelli diretti di comportamento, indicazioni per l’azione: ma si impone con la sua lucidissima sfida alle difficoltà che il carcere poneva all’esercizio di un giudizio sul mondo, alla riflessione sulla realtà.
Questa ottica, e non certo quella del prontuario politico che cedettero di ricavarne i machiavellici nostrani, si rivela tanto più essenziale nel caso del rapporto con Machiavelli. Del resto nella storia del pensiero e nella pratica politica l’opera del segretario fiorentino è stata spesso recepita (e continua ad essere da molti recepita) come modello e suggerimento di comportamenti politici, di presunte regole ‘scientifiche’ della politica: io credo invece che la sua forza più autentica sta proprio nella sua spinta di mediazione, di sollecitazione problematica, addirittura di suggestione mitica (...); e proprio in questa chiave essa agisce nella riflessione di Gramsci.
Scendere nel cuore concreto della scrittura di Machiavelli porta a verificare che, più che elaborare norme per la gestione del potere, egli viene a registrare una situazione si sconfitta e di perdita, si scontra con una serie di difficoltà a cui risponde cercando rimedi adeguati o superandole con dei veri e propri ‘salti’ teorici, con appassionate diversioni verso l’immaginazione mitica. Io credo che proprio questo Machiavelli agisca più in profondità nel pensiero e nella scrittura di Gramsci. (...) Gramsci tende con forza a ricavare dalle distinzioni delle diverse prospettive in atto nell’opera di Machiavelli una linea di sintesi, di integrazione organica; egli vede in atto degli opposti necessari che devono convergere in un nesso tanto più produttivo, in quanto fulmineo, segnato da guizzante vitalità. (...)
Nella condizione dell’ex segretario fiorentino, nella concentrazione del suo impegno individuale, senza nessun esercito da condurre, Gramsci vede specchiata la propria stessa condizione di prigioniero, escluso dalla diretta lotta politica, dalla conduzione delle lotte in cui è impegnato il partito «moderno Principe».
REALTÀ & AZIONE
La nota già citata sul rapporto tra essere e dover essere ha uno svolgimento significativamente diverso nel Quaderno 8, 84, e nel Quaderno13, 16. Così essa prosegue (...) insistendo sull’opposizione Machiavelli-Savonarola, nel Quaderno 8, 84: «L'opposizione Savonarola-Machiavelli non è l'opposizione tra essere e dover essere, ma tra due “dover essere”, quello astratto e fumoso del Savonarola e quello realistico del Machiavelli, realistico anche se non diventato realtà immediata, ché non si può attendere che un individuo e un libro mutino la realtà, ma solo la interpretino e indichino la linea dell'azione. Né il Machiavelli pensava o si proponeva di mutare la realtà ma solo e concretamente di mostrare come avrebbero dovuto operare le forze storiche concrete per mutare la realtà esistente in modo concreto e di portata storica. (Il Russo ha accumulato molte parole a questo proposito nei Prolegomeni ma il limite e l'angustia del Machiavelli consiste poi solo nell'essere il Machiavelli un singolo individuo, uno scrittore e non il capo di uno Stato o di un esercito, che è pure un singolo individuo, ma avente a sua disposizione le forze di uno Stato o di un esercito e non solo eserciti di parole)» (Q 990-991). (...)
Nelle battute aggiunte con la difesa di Machiavelli dalla qualifica di «profeta disarmato» e nel reciso rifiuto di Gramsci verso quello «spirito a buon mercato» possiamo leggere un drammatico scatto difensivo nei confronti della propria stessa condizione e dello svolgimento del proprio pensiero: respingere i limiti del pensiero di Machiavelli significa respingere anche il pericolo di veder vanificato il proprio così determinato impegno teorico e politico, la sovrumana tensione del prigioniero solo e “disarmato”, senza Principe e senza esercito.

l’Unità 12.6.10
Così lo Stato e la Chiesa “sterilizzano” la scienza
di Antonio Gramsci

Le correnti filosofiche idealistiche (Croce e Gentile) hanno determinato un primo processo di isolamento degli scienziati (scienze naturali o esatte) dal mondo della cultura. La filosofia e la scienza si sono staccate e gli scienziati hanno perduto molto del loro prestigio.
Un altro processo di isolamento si è avuto per il nuovo prestigio dato al cattolicesimo e per il formarsi del centro neoscolastico. Così gli scienziati «laici» hanno contro la religione e la filosofia più diffusa; non può non avvenire un loro imbozzolamento e una «denutrizione» dell'attività scientifica che non può svilupparsi isolata dal mondo della cultura generale.
D'altronde: poiché l'attività scientifica è in Italia strettamente legata al bilancio dello Stato, che non è lauto, all'atrofizzarsi di uno sviluppo del «pensiero» scientifico, della teoria, non può per compenso neanche aversi uno sviluppo della «tecnica» strumentale sperimentale, che domanda larghezza di mezzi e di dotazioni.
SACRIFICI INAUDITI
Questo disgregarsi dell'unità scientifica, del pensiero generale, è sentito: si è cercato di rimediare elaborando, anche in questo campo, un «nazionalismo» scientifico, cioè sostenendo la tesi della «nazionalità» della scienza. Ma è evidente che si tratta di costruzioni esteriori estrinseche, buone per i Congressi e le celebrazioni oratorie, ma senza efficacia pratica.
E tuttavia gli scienziati italiani sono valorosi e fanno, con pochi mezzi, sacrifici inauditi e ottengono risultati mirabili. Il pericolo più grande pare essere rappresentato dal gruppo neoscolastico, che minaccia di assorbire molta attività scientifica sterilizzandola per reazione all'idealismo gentiliano.
da «Note di cultura italiana. 1) La scienza e la cultura»