lunedì 14 giugno 2010

l’Unità 14.6.10
5 risposte da Laura Boldrini portavoce Unhcr in Italia
di Umberto DE Giovannangeli

1. Ufficio Unhcr chiuso. Stiamo trattando per la sua riapertura. Perché è importante che l’ufficio dell’Unhcr possa essere operativo in quanto è l’unico riferimento in Libia per migliaia e migliaia di richiedenti asilo e rifugiati.
2. Da cosa fuggono. I rifugiati in Libia fuggono da situazioni diverse: da guerre che continuano da anni nei loro Paesi, o da violazioni dei diritti umani, oppure da persecuzioni individuali.
3. Italia-Libia: e i diritti?. Gli Stati hanno tutto il diritto di concludere accordi bilaterali finalizzati al contenimento dell’immigrazione irregolare. Quello che è importante, per noi, è che nell’ambito di questi accordi vengano inserite tutele e garanzie per coloro che hanno bisogno di asilo.
4. Il Mediterraneo oggi. Se è vero che nelle coste italiane vi è stata una drastica diminuzione degli arrivi via mare, è altrettanto vero che vi è stata una netta diminuzione delle domande di asilo, a conferma che chi tentava con ogni mezzo di arrivare a Lampedusa era spesso perché aveva bisogno di protezione internazionale.
5. L’allarme. La politica dei respingimenti più che contrastare l’immigrazione irregolare sta mettendo a dura prova il riconoscere il diritto d’asilo in Italia.

l’Unità 14.6.10
Affari e oro nero dietro il silenzio sui diritti umani
Torture e violenze sui «sans papier», chiuso l’ufficio dell’Unhcr Ma Berlusconi tace per tutelare la rete dei grandi appalti
di Umberto De Giovannangeli

Non parlategli dei diritti umani negati. Non chiedetegli quando riaprirà l’ufficio dell’Unhcr (l’Alto commissariato Onu per i rifugiati). E non provateci nemmeno a sottoporgli un recente rapporto della Ong Human Rights Watch, nel quale si denuncia che tutti i «sans papier» nei centri libici hanno sofferto torture, maltrattamenti, detenzione senza limite di tempo e «condizioni inumane e degradanti». E se volete farlo uscire dai gangheri ricordategli quanto affermato da Amnesty International sull’accordo di «Amicizia, partenariato e cooperazione» firmato da Berlusconi e Gheddafi a Tripoli nell’agosto 2008 e «velocemente ratificato dal» Parlamento italiano a febbraio 2009: «Questo trattato non dedica spazio alla tutela concreta dei diritti umani...» . Non cercate di scalfire quello che il «Guardian» definì «un altamente discutibile comune interesse negli affari». Il comune interesse che lega indissolubilmente il Cavaliere e il Colonnello. Tripoli bel suol d'affari...Questo è per Silvio Berlusconi la Libia di Muammar Gheddafi. Non solo autostrade, cantieri, infrastrutture (in prima linea imprese come Impregilo e Finmeccanica). Ma anche petrolio e gas.
L’Eni ha rinegoziato nel giugno 2008 i sei cantieri di esplorazione ed estrazione con la compagnia nazionale libica, ottenendo un allungamento della concessione al 2042 per il petrolio ed al 2027 per il gas. Non solo oro nero. Ma anche cemento. E commesse per almeno 153 miliardi di dollari. L’Impregilo sta costruendo tre centri universitari, la Conicons sta modernizzando l'aeroporto di Ghat, la Trevi sta realizzando l'hotel-reggia al-Ghazala a Tripoli, per citare solo alcuni dei lavori in corso. Sempre l’Impregilo ha già realizzato diverse importanti opere pubbliche in Libia: gli aeroporti di Kufra, Benina e Misuratah, e il Parlamento a Sirte. Nel luglio 2009 è datato un accordo che ha permesso all’Ansaldo, società del gruppo Finmeccanica, di aggiudicarsi una commessa da 541 milioni di euro in Libia. Il contratto riguarda la realizzazione dei sistemi di segnalamento e connessi impianti di telecomunicazioni e di alimentazione relativi alla linea ferroviaria costiera Ras Ajdir-Sirte e quella verso l’interno Al-Hisha-Sabha, per un totale di circa 1.450 chilometri.
Fondi impegnati. Nell’ottobre 2008 la Banca centrale libica (che gestisce circa la metà delle riserve valutarie della Libia) ha aumentato la propria quota di partecipazione all’interno di Unicredit dallo 0.9% al 4,23%, diventando il secondo azionista della banca. Unicredit, e non solo. Il fondo sovrano libico «è pronto ad entrare in altre banche italiane» e a «salire in Eni». Lo affermava afferma il presidente del Lya (Libya Africa Investment) e ministro della Pianificazione di Tripoli Abdulhafid Zlitni in un’intervista (14 febbraio 2009) al Corriere della Sera. «'Abbiamo -spiegauna liquidità altissima, disponibilità per 80 miliardi di dollari. Siamo in Unicredit e c’è stato un piccolo aumento della nostra quota da quando siamo entrati. Ma abbiamo dato la nostra disponibilità all'ingresso anche in altre banche. In questo periodo le banche sono in sofferenza. E può darsi che in questo quadro sia anche desiderio delle banche italiane cercare la nostra collaborazione». Un «desiderio» ampiamente praticato.

l’Unità 14.6.10
Oggi la Fiom si esprimerà sulla proposta della Fiat. Le tute blu: svolta nelle relazioni sindacali
Il progetto prevede, tra l’altro, provvedimenti disciplinari per chi aderisce a uno sciopero
E per i lavoratori meno diritti
Pomigliano la prova generale
Oggi il comitato centrale della Fiom ribadirà il suo no alla proposta Fiat per Pomigliano d’Arco, già accettata dagli altri sindacati. «Sarà la prova generale per eliminare il sindacato».
di Luigina Venturelli

Tutti gli occhi sono puntati sulla Fiom, che oggi si esprimerà in via definitiva sulla proposta della Fiat per Pomigliano d’Arco, già accettata dalle altre organizzazioni sindacali: 700 milioni d’investimenti e 5mila posti di lavoro al prezzo di un accordo che farebbe delllo stabilimento campano «una zona franca dal contratto nazionale, dalle leggi e perfino dalla Costituzione».
LA SVOLTA ATTESA
Il comitato centrale delle tute blu Cgil non dovrebbe riservare sorprese: ribadirà il suo giudizio negativo sul documento del Lingotto e sfiderà l’azienda a trattare dei reali problemi d’efficienza e produttività della fabbrica. Ma attirerà comunque l’attenzione di certo mondo politico ed economico che, archiviata la decisione della Fiom, preparano «una svolta nelle relazioni industriali italiane». Così l’aveva definita il ministro del Lavoro Maurizio Sacconi, presto superato in fantasia dal collega Giulio Tremonti che ieri, dal palco della festa nazionale della Cisl, l’ha ribattezzata «economia sociale di mercato», ovvero «la via giusta da seguire, quella di Pomigliano». Non a caso, racconta Enzo Masini, responsabile auto dei metalmeccanici Cgil, «decine di grandi gruppi industriali stanno aspettando di vedere che cosa succede e come si comporterà la Fiat, per poi fare altrettanto».
LE CLAUSOLE VESSATORIE
Per capirne meglio la sostanza, è necessario addentrarsi nei dettagli della proposta Fiat, tra le condizioni che il gruppo torinese ritiene irrinunciabili per produrre automobili sul suolo italiano e che il sindacato dei metalmeccanici Cgil giudica «inaccettabili». La più eclatante è quella che introduce provvedimenti disciplinari fino al licenziamento per il lavoratore che aderisce a uno sciopero che, in qualsiasi modo, metta in discussione l’accordo. Ad esempio perchè contesta i ritmi di lavoro o gli straordinari: «La valutazione è a totale discrezione dell’azienda, che in questo modo deroga all’articolo 40 della nostra Costituzione» spiega il responsabile auto della Fiom, Enzo Masini.
Una disposizione che va di pari passo con le sanzioni per i singoli sindacati e le singole Rsu che proclamino le suddette iniziative di lotta. Azzardo per il quale saranno puntite con il blocco dei versamenti dei contributi sindacali e la sospensione dei permessi sindacali previsti dalla legge 300 del 1970, anche detta Statuto dei lavoratori. Ed ancora: quando si verificheranno picchi di assenteismo anomalo, l’azienda non pagherà la quota di malattia che le impone il contratto nazionale, «come se già non avesse tutti gli strumenti per fare controlli e punire gli abusi». Né pagherà i tre giorni trascorsi al seggio elettorale dai rappresentanti di lista, come invece vorrebbe la legge elettorale. Infine, il testo Fiat deroga alla legge 66/03 che recepisce la direttiva Ue in materia di orari di lavoro, e richiede di lavorare anche otto ore consecutive senza la mezz’ora di pausa per la mensa, contata come straordinario. Ecco il nuovo corso sognato dalla Confindustria e dal governo. E di cui «Pomigliano sarà solo la prova generale».
L’INVITO DI EPIFANI
Per questo la Fiom oggi rinnoverà il suo no. Nonostante le parole più concilianti del segretario generale della Cgil: «Pomigliano non ha alternative. Napoli non ha alternative sul suo territorio. Servono occupazione, sviluppo e investimenti» ha rilevato ieri Guglielmo Epifani, dalla festa Cisl, ricordando anche la decisione del Lingotto di dismettere Termini Imerese. Ma Enzo Masini non ha dubbi: «Se qualcuno in Cgil non l’avesse capito, questa è la prova generale per ucciderci come sindacato, per annullare la presenza sindacale sui posti di lavoro».

l’Unità 14.6.10
Durante il Ventennio scioperare era un crimine contro lo Stato
Indietro di 40 anni
tutto in nome della produttività
Nel 2010 la Costituzione e lo Statuto dei lavoratori sono diventate figure mitologiche. Con l’accordo Fiat si registra l’attacco all’articolo 40, quello che tutela il diritto di sciopero
di G. Civati e M. Ruffini

Sembra che l’Italia stia facendo di tutto per spostare le lancette dell’orologio indietro di una quarantina d’anni. E così ci troviamo di slancio in un’epoca precedente al 1970, quando un Parlamento incalzato dai sindacati fu portato ad approvare lo Statuto dei lavoratori. Ma non ci basta, no: rischiamo di scivolare ancora più indietro, quando durante un altro Ventennio, il codice penale considerava lo sciopero come un reato, come un crimine verso l’azienda e verso il Paese.
Con l’avvento della Repubblica democratica fondata sul lavoro, i Costituenti si resero conto che, «se è vero che lo Stato è chiamato a tutelare il lavoro, con ciò non si esclude che anche la classe lavoratrice possa tutelare essa pure direttamente il lavoro» (Ghidini). Tutti i Costituenti, e non solo quelli che militavano nel Pci, ritennero «urgente ed indispensabile che una legge» riconoscesse «il diritto di sciopero dei lavoratori, abrogando i divieti fascisti in materia» (Fanfani) e vollero affermare come diritto «quello che il fascismo definiva a torto delitto» (Merlin). Perché il diritto di sciopero «non è altro che la logica derivazione del diritto alla legittima difesa, non è che una triste necessaria conseguenza di un rapporto di forza (...) fra capitale e lavoro» (Taviani). Era questo il clima in cui fu approvato l’art. 40 della Costituzione.
Ora siamo nel 2010 e la Costituzione e lo Statuto dei lavoratori sono diventate figure mitologiche rimpiante con nostalgia da qualche romantico isolato. Annuncio dopo annuncio, proclama dopo proclama, di quelle conquiste rischiamo che non rimanga più neanche il ricordo. Così, assistiamo increduli alla nuova stagione ricostituente che si sta consumando a Pomigliano: dopo l’attacco (retorico) della scorsa settimana all’articolo 41 della Costituzione italiana, ora dobbiamo registrare l’attacco (effettivo) all’articolo 40. Un articolo al giorno leva la Costituzione di torno.
Un invito alla responsabilità è stato rivolto dall’azienda ai lavoratori. E i lavoratori della Fiat questo caloroso appello l’hanno raccolto e hanno accettato una profonda riorganizzazione e l’intensificazione dei turni di lavoro, compreso il sabato notte. Ma, anche in questo caso, non bastava: ci voleva anche la compressione del diritto di sciopero.
Tutto all’insegna della modernizzazione e della produttività, ovviamente. E di una riforma dello Statuto dei lavoratori, che forse in futuro non sarà nemmeno necessaria: perché dello Statuto e degli opportuni riferimenti costituzionali si può anche fare a meno. A Pomigliano e nel resto del Paese.

l’Unità 14.6.10
Pomigliano, così muore il contratto
di Bruno Ugolini

È in atto l’agonia del contratto nazionale. Stanno infatti addensandosi, per iniziativa del centrodestra, una serie di “deroghe” che lentamente svuotano quel sistema che univa il mondo del lavoro. Per la felicità di quanti (vedi la Lega) perseguono condizioni di lavoro differenziate tra Nord e Sud.
Ora, col caso Pomigliano, c’è qualcosa di più e ministri e commentatori esultano per la svolta storica. Non consiste solo nelle “deroghe” al contratto nazionale per rendere quella Fiat competitiva. Stavolta c’è la deroga a un diritto costituzionale, quello riferito al diritto di sciopero. Un diritto non in mano al sindacato ma all’individuo. Un’abolizione richiesta non per qualche mese ma per sempre. Un precedente. Poi magari sarà la volta di un’azienda chimica o di un’azienda editoriale, quella dove magari lavorano tanti solerti commentatori. Un atto motivato dalla crisi perché le ristrutturazioni comporterebbero l’assoluta pace sociale, non trattative o confronti. Non ci state? Portiamo la fabbrica in Polonia. La Fiom sembra la più ostinata nel rifiuto e cerca un’alternativa, una via d’uscita. Non intende essere additata alla pubblica gogna. Un semplice, netto rifiuto cambierebbe lo stato delle cose? Forse la Fiat procederebbe comunque nei suoi intenti accontentandosi di un accordo separato oppure dirotterebbe i promessi investimenti all’Est. L’annunciato referendum potrebbe poi far prevalere tra i lavoratori, intimoriti, una disponibilità ad accettare il ricatto.
Una morsa infernale. La posta in gioco è altissima. L’attacco alla Costituzione parte da Palazzo Chigi, arriva ai convegni dei giovani industriali, arriva alle imprese che annaspano e cercano ricette facili. Come se l’assenza del conflitto coincidesse con l’efficienza (non siamo certo all’epoca della conflittualità permanente o dell’assenteismo esasperato). E come se davvero si potesse impedire il conflitto (sta esplodendo persino in Cina). Forse i sindacati metalmeccanici avrebbero potuto proporre un periodo di tregua garantita, limitata nel tempo (la Fim aveva fatto un passo in tal senso, subito evitato dalla Fiat) e attestarsi su quella indicazione. L’iniziativa sarebbe apparsa forte e autorevole, se sostenuta unitariamente, con la capacità di uscire dalla forbice tra acquiescenza e rifiuto.
C’è anche chi pensa che quella in corso sia una sceneggiata. Il destino di Pomigliano sarebbe già stato segnato e non resterebbe che trovare un capro espiatorio, ovverosia la maledetta Fiom. Una ragione di più per non concedere alcun alibi in tal senso. Che Marchionne scopra le sue carte. Con la consapevolezza che, del resto, nessuna intesa aziendale può seppellire il diritto di sciopero. Non lo fu nemmeno nel 1943.

l’Unità 14.6.10
Dopo la manifestazione di sabato
Ora lo sciopero generale

Ed ora lo sciopero generale. Dopo il grande successo della manifestazione nazionale di sabato scorso, la CGIL prosegue nella mobilitazione contro la cosiddetta manovra “correttiva” che nei prossimi giorni sarà discussa in Parlamento e sulla quale è assai probabile che l’esecutivo ponga la fiducia, blindando così un complesso di misure sbagliato e iniquo. Lo sciopero generale (per l’intera giornata per i lavoratori pubblici, quattro ore per i privati) è stato proclamato dalla CGIL per venerdì 25 giugno, ma si svolgerà venerdì 2 luglio in Liguria, Toscana e Piemonte. Nel recente Comitato direttivo della confederazione, il segretario generale Guglielmo Epifani ha sottolineato come il sindacato sia convinto che i conti pubblici debbano tornare in equilibrio, ma il dl n. 78, e anche i contenuti annunciati del maxiemendamento che il governo si accinge a presentare in aula, sono del tutto insufficienti. Le critiche di Epifani sono chiare, di merito: non vi sono i provvedimenti chiesti dalla CGIL a sostegno dell’occupazione, della crescita e dello sviluppo. Non si accetta il dialogo su un’ipotesi di manovra alternativa. Al contrario, i costi della crisi vengono tutti scaricati sui lavoratori dipendenti, pubblici e privati, sulle regioni, sugli enti locali (con pesanti conseguenze sui servizi e sui trasporti), sulla ricerca e la cultura, sulla formazione e la scuola, sulle pensioni, sugli invalidi, in buona sostanza sui cittadini più esposti. La manovra – afferma la CGIL – è iniqua al Nord come nel Mezzogiorno; colpisce tanto i giovani quanto i pensionati; sottrae risorse alla parte più debole del paese. Una scelta di campo, quella del governo, che non tocca in alcun modo quel dieci per cento di italiani che detengono il 45 per cento della ricchezza nazionale e non riguarda i top manager pubblici e privati. Tutti costoro, compreso il sistema delle imprese, non pagheranno un euro in più. La verità, come afferma il documento approvato dal Direttivo della CGIL, è che la condizione deficita-
ria dei conti pubblici italiani non è stata dettata solo dalla crisi e dalla congiuntura internazionale, ma principalmente dagli errori commessi nella gestione della finanza pubblica e dalla scelte di politica economica compiute dall’attuale governo, in un contesto di subalternità della stessa Confindustria. Non è con i tagli “lineari” alla spesa pubblica – rileva la CGIL – che si esce dalla crisi. Senza una politica per la crescita e per l’occupazione, il rischio è di dovere decidere a breve una nuova manovra “correttiva”. La CGIL rilancia le sue proposte di rifinanziamento degli ammortizzatori in deroga, di riforma del sistema di sostegno al lavoro e alla piena occupazione. Il sindacato ricorda anche come in molti paesi euro-
pei i sindacati stiano programmando iniziative di protesta e di lotta unitarie. “Se nel nostro paese Cisl e Uil si rendessero disponibili ad una mobilitazione unitaria – afferma il documento del Direttivo – tutto il sindacato sarebbe più forte nel contrastare e cambiare una manovra tanto ingiusta e iniqua”.
La CGIL ha ribadito anche la propria contrarietà alla controriforma del diritto del lavoro e al disegno di legge sulle intercettazioni manifestando la disponibilità ad organizzare iniziative unitarie di mobilitazione in accordo con gli operatori della sicurezza, con i magistrati e i giornalisti e con le associazioni e i movimenti della società civile.

Repubblica 14.6.10
Tremonti: addio conflitti sul lavoro Pomigliano sarà un modello per tutti
Turni duri e scioperi limitati. Epifani: Napoli senza alternative
"Via all´economia sociale di mercato" Oggi si pronuncia la Fiom. Cambia lo Statuto lavoratori
di Adriano Bonafede

ROMA - Tremonti benedice l´accordo tra Fiat e sindacati sullo stabilimento di Pomigliano già firmato da Cisl e Uil. «Con la globalizzazione - ha detto ieri il ministro dell´Economia alla festa della Cisl - è finito il conflitto tra capitale e lavoro. Io, tra la dialettica continua di questo conflitto e l´economia sociale di mercato, non ho dubbi: la via giusta è quella dell´economia sociale di mercato, quella di Pomigliano». Questa intesa è stata dunque additata come esempio di quelle che dovrebbero essere in futuro le relazioni tra le imprese e i lavoratori: pochi regole comuni nei contratti nazionali e tutto il resto demandato a contratti locali, settoriali e aziendali, come dirà lo Statuto dei lavori che sostituirà lo Statuto dei lavoratori.
Sulla vicenda di Pomigliano è poi intervenuto Guglielmo Epifani, anche lui invitato alla festa della Cisl. In attesa che oggi si pronunci il Comitato centrale della Fiom - che venerdì sera non ha firmato il documento proposto dal Lingotto respingendolo come un "diktat" - il segretario generale della Cgil non si è sottratto al confronto. E ha riconosciuto che «Pomigliano non ha alternative. Napoli non ha alternative sul suo territorio. Servono occupazione, sviluppo e investimenti». Perché, ha spiegato, «se non dicessimo questo saremmo in contrasto con tutto ciò che abbiamo fatto in passato, con gli scioperi, le mobilitazioni con i giovani, con la Chiesa. Già altre volte la Fiat aveva ipotizzato la chiusura, ma siamo sempre riusciti a far restare la produzione». Epifani ha anche chiesto di «non dimenticare neppure Termini Imerese. Nemmeno qui c´è altro».
L´intervento di Epifani sembra aprire la strada a un atteggiamento possibilista da parte della Cgil verso un accordo che per molti versi rappresenta una svolta nella storia delle relazioni industriali. Vediamolo da vicino. Secondo il piano della Fiat tutti dovranno lavorare a rotazione su tre turni giornalieri di otto ore, e solo l´ultima mezz´ora sarà dedicata alla refezione. Inoltre, la settimana lavorativa sarà alternativamente di sei e di quattro giorni, mentre l´azienda potrà richiedere 80 ore di straordinario annuale a persona senza bisogno di preventivo accordo sindacale e con un minimo preavviso. Capisaldi di questa intesa sono anche la contrazione della pausa da 40 a 30 minuti e il possibile recupero di perdite di produzione dovute a qualsiasi motivo anche nella mezz´ora di fine turno o nei giorni di riposo. L´altro elemento qualificante dell´accordo è un minuzioso controllo tramite computer per calcolare e verificare i movimenti che un operaio deve compiere.
Se Pomigliano viene salutato da Tremonti come un nuovo e positivo modello di relazioni industriali, dal Pd segnali di preoccupazione. «La discussione in cui è impegnata una parte del sindacato - ha detto Stefano Fassina, responsabile economico del Pd - è una discussione seria, perché la soluzione Fiat a Pomigliano mette in primo piano un´acuta contraddizione tra occupazione e diritti dei lavoratori. La competitività delle imprese è importante, ma i diritti e la dignità del lavoro non possono essere la variabile compensativa delle rendite e degli interessi corporativi difesi dalla destra di Sacconi, Tremonti e Berlusconi». Fassina auspica comunque «che il senso di responsabilità prevalga e l´investimento Fiat vada avanti come previsto. Tuttavia il governo rischia di dare una pericolosa dimensione politica alla richiesta di deroghe sul diritto di sciopero incluse nel documento conclusivo della casa automobilistica».

Repubblica 14.6.10
Un dilemma storico per la Cgil salvare i posti rinunciando ai diritti
Ma il vertice promuove i tempi di produzione giapponesi
Attesi il giudizio sul piano Fiat, la decisione sul referendum e la indicazione di voto
di Roberto Mania

ROMA - I loro nomi ai più non dicono nulla. Ma Michele Gravano e Peppe Errico potrebbero diventare i sindacalisti chiave nella delicatissima vicenda per la sopravvivenza dello stabilimento della Fiat a Pomigliano d´Arco. Il primo è il segretario della Cgil Campania, il secondo di quella di Napoli. Entrambi sono ex operai proprio di Pomigliano. Due giorni fa hanno rilasciato una dichiarazione congiunta diretta ai «compagni» della Fiom: «E´ il momento di assumersi le responsabilità all´altezza della storia della Cgil meridionale».
Difficile pensare che quelle parole non siano state concordate con i vertici romani di Corso d´Italia. E infatti il senso delle affermazioni pronunciate ieri dal leader della Cgil, Guglielmo Epifani, stanno lungo quel tracciato: «Pomigliano non ha alternative. Servono occupazione, sviluppo e investimenti». Insomma non può essere la Cgil a «chiudere» definitivamente i cancelli della fabbrica campana, dopo che gli altri sindacati hanno aderito alla proposta dell´azienda. Eppure le incognite restano. E sono tante. Oggi si riuniscono la segreteria della Cgil e il Comitato centrale della Fiom che dovrà decidere se accettare il piano della Fiat, se partecipare al referendum tra i lavoratori, se dare il sì o il no come indicazione di voto. La «tripla» più difficile da decenni per i metalmeccanici fiommini. Potrebbe arrivare una clamorosa spaccatura interna insieme alla sconfessione della linea da parte della stessa confederazione dopo il messaggio, per quanto cauto, di Epifani. Di certo la vertenza Pomigliano è diventata il paradigma di un nuovo modello di relazioni industriali. L´ha detto il ministro del Lavoro, Maurizio Sacconi, ne è convinta la presidente della Confindustria, Emma Marcegaglia. Lo sanno la Cisl e la Uil di Raffaele Bonanni e Luigi Angeletti. Il Lingotto fa da apripista come già accadde nel 1980 con la «marcia dei quarantamila» per le vie di Torino che infilò i sindacati in una profonda e lunga crisi di rappresentatività e cambiò per decenni i rapporti di forza, come si diceva all´epoca, tra capitale e lavoro.
L´italo-canadese Sergio Marchionne detesta i rituali del nostro sindacalismo, ma è un abile negoziatore: ha piegato la General Motors nello scontro sulla cosiddetta «put», poi ha inchiodato i potenti sindacati americani dell´auto ad accettare durissimi sacrifici per non abbandonare al fallimento la Chrysler, ora ha lasciato nelle mani dei conflittualisti della Fiom il cerino di Pomigliano. Prendere. O lasciare che la Panda continui ad essere prodotta in Polonia a Tichy, dove la produttività è alta e la difettosità bassa, cioè l´opposto di Pomigliano dove proprio Marchionne tentò nel 2007, ma con risultati insufficienti, la «rieducazione» dei 5.000 addetti ai nuovi canoni della produzione automobilistica, quelli della world class manufacturing ispirati dal giapponese Hajime Yamashina. Ora ci riprova.
Marchionne ha messo sul tavolo 700 milioni di investimento, la conferma dei posti di lavoro (15 mila con l´indotto). Ma ha chiesto più turni di lavoro, meno pause, più straordinari obbligatori, l´azzeramento dell´anomalo assenteismo in occasione degli appuntamenti elettorali. E anche la limitazione del diritto di sciopero e al pagamento dei primi giorni di malattia. Un pacchetto da prendere tutto insieme o da lasciare sul tavolo, mentre la crisi sta decimando posti di lavoro. Questo è il dilemma di Epifani che ben sa come il ricorso al referendum possa trasformarsi in una grande sconfitta per la Cgil: chi potrà votare a favore del proprio licenziamento?
La matassa è complessa e intricata. La proposta di Marchionne deroga al contratto nazionale e anche alla legge. La Cgil pensa che possa violare addirittura la Costituzione laddove sanziona gli scioperanti. Epifani ha chiesto un parere ai suoi giuristi che dubitano si possa fare un referendum sindacale su quei temi. Però - e non è di poco conto - Epifani ha sostanzialmente detto sì alla nuova organizzazione del lavoro. Ora scommette sui due anni entro i quali andrà a regime il piano di Torino. Una tattica attendista che mal si concilia con il rapido decisionismo di Marchionne.

Repubblica 14.6.10
La democrazia bendata
di Adriano Prosperi

Con la legge sulle intercettazioni sta passando in Italia una aggressione senza precedenti a due pilastri dello stato di diritto: l´uguaglianza dei cittadini davanti alla legge e la libertà di informazione e di opinione. La legge varata dal Senato tura le orecchie della giustizia.
E tura gli occhi dei cittadini davanti alle prove della criminalità più influente e pericolosa, quella del potere politico. Si scioglie il vincolo che lega il diritto e lo Stato: come ha scritto lo storico Wolfgang Reinhard nella sua Storia dello Stato moderno (Il Mulino, 2010), in origine il diritto e lo Stato non avevano lo stretto legame che oggi li unisce: per il diritto contava la giustizia, per lo stato contava il potere. Il legame si scioglie quando l´uso brutale o astuto del potere fa del diritto uno strumento unilaterale di dominio e ne cancella la componente "dal basso", cioè le convinzioni morali e le consuetudini diffuse nella società.
Oggi l´Italia mostra al mondo come si fa a dissolvere lo Stato di diritto senza ricorrere alla violenza, senza bisogno di quel "rumore di sciabole" che abbiamo tante volte creduto di sentire nel cinquantennio passato. L´argomento del potere è il mandato popolare a governare, ricevuto in sede elettorale e confermato dai sondaggi. La domanda da porsi è dunque una sola: poiché viviamo in un sistema formalmente democratico e non ci sono carri armati per le strade, che cosa impedisce una reazione da parte dell´opinione pubblica? È evidente infatti che senza un movimento forte e diffuso gli argini opposti dalla Carta costituzionale sono fragile difesa. Non per niente la mossa successiva già annunciata dal presidente del Consiglio è la modifica della Costituzione. Il che mostra quanto sia semplice e prevedibile il canovaccio a cui obbedisce lo scenario che stiamo vivendo.
La sovranità popolare affermata dalla Costituzione è una finzione giuridica: il popolo sovrano resta anche in Italia un principe senza scettro, come scrisse a suo tempo Lelio Basso. Basta una situazione di emergenza perché il potere politico faccia straccio della Costituzione, abolendola formalmente oppure logorandola e diffamandola ogni giorno (come oggi accade) tanto da farla morire nelle coscienze prima di sovvertirla formalmente. La situazione di emergenza in Italia c´è. La crisi finanziaria ha prodotto disoccupazione, tagli unilaterali dei servizi sociali, pressione sulle fasce più deboli (giovani, donne, lavoratori dipendenti). L´unità stessa del paese è sempre più una finzione, insidiata com´è dal progettato federalismo fiscale e prima ancora da un´ondata di egoismo locale che ha visto trionfare sotto etichette diverse il modello della Lega. Il consenso generale che premiò l´adesione dell´Italia all´euro esprimeva una speranza oggi languente: che al di là delle deficienze di legalità e di moralità del Paese si potesse investire nella costruzione di una grande realtà politica dotata di quella salda coscienza di sé e di quella più alta tradizione statale e giuridica che faceva difetto all´Italia.
Oggi l´ideale europeistico è offuscato. Da noi il vincolo di identificazione del cittadino col Paese, tradizionalmente debole, è intaccato da un´assidua picconatura del principio stesso di legalità: condoni, sanatorie, "scudi" per evasori, libertinismo e corruzione come metodo e sostanza del governare. Questo ci dà la risposta alla domanda iniziale: la coscienza civile del paese è oggi ridotta allo stremo, esposta – come in un celebre racconto di Mark Twain – a subìre il colpo di grazia. Dopo di che gli autori del delitto potranno governare nella definitiva sicurezza dell´impunità. Ci sono speranze che questo non accada? Le leggi fondamentali di un Paese vivono finché è desto e vigile lo spirito che le ha create. In Germania, paese che ha fatto tragica esperienza di quanto fragile fosse l´argine della Costituzione di Weimar, la Legge fondamentale del secondo dopoguerra ha previsto il diritto dei cittadini alla resistenza in difesa della costituzione (art.20, c. IV). Ma non ci facciamo illusioni: anche in questo caso si tratta di un muro di carta. La resistenza ha da essere un movimento di massa consapevole e ben guidato. E potrebbe guidarla oggi solo una opposizione che, cancellando le divisioni e i conflitti di gruppi dirigenti, si mostrasse finalmente capace di parlare al cuore del paese, risvegliando una coscienza civile che, per essere stata anestetizzata, corrotta, e addormentata, non è ancor morta.

l’Unità 14.6.10
Alfano: «Riforma della giustizia a settembre»
Pd: la Carta non si tocca
Coro di no alla proposta del Guardasigilli che vuole creare due Csm e separare le carriere. Contraria anche l’Udc: non sia una punizione per le toghe, Via libera da Cota: si deve fare
di A. C.

Ancora immersi fino al collo nella legge bavaglio, e in attesa del via libera al nuovo super lodo salva premier, Berlusconi e Alfano lanciano la riforma della Giustizia. «Grande, grande», l’ha più volte definita il premier-chansonnier. Ieri il fedele Guardasigilli si è incaricato di indicare al Corriere della Sera titoli e tempi della modifica costituzionale. «Io sono pronto, a settembre la presento», ha spiegato. Cosa cambierà? «La separazione degli ordini tra pm e giudicanti, con percorsi professionali separati fin dall’inizio»; la creazione di due Csm e di un meccanismo disciplinare che risolva il problema di una giustizia troppo domestica». «La voteremo presto, per varare la Bicamerale di D’Alema ci vollero quattro mesi». Nulla di particolarmente nuovo, a dire la verità. Così come non è nuovo il progetto del premier di sottoporre i pm all’esecutivo, ribadito venerdì sera in una cena con i suoi giovani fans.
Alfano per ora raccoglie soprattutto critiche, tranne lo scontato via libera degli avvocati e il plauso di Bondi. Critiche persino dall’Udc, che su questi temi era sempre stata piuttosto in sintonia col Cavaliere. Dal Pd arriva un no secco:«Siamo contro ogni modifica della Costituzione su questi temi, in particolare diciamo no alle ipotesi di due Csm e di separare ulteriormente le carriere dei magistrati, già oggi nettamente distinte», dice il responsabile Giustizia del Pd Andrea Orlando. Contrarissima l’Idv, con Donadi che ironizza: «Affidare la riforma della giustizia a Berlusconi sarebbe come affidare al lupo di Cappuccetto Rosso la salvaguardia dei boschi».
Ma è dall’Udc che arriva il no che non ci si aspettava, almeno non così netto: «La riforma non sia una sorta di punizione verso i magistrati. Non servono nuovi spot e promesse, serve una riforma che metta al centro i cittadini, che chiedono un sistema giudiziario efficiente», dice Roberto Rao.
Tace per ora l’Anm, parlano diversi membri del Csm. «Nulla di nuovo, sempre e solo un’idea ritorsiva contro i magistrati», dice Livio Pepino (Magistratura democratica). «La separazione delle carriere e la duplicazione del Csm sono inutili», taglia corto Antonio Patrono (Magistratura indipendente). «Sono sempre annunci, quando ci saranno dei testi ragioneremo», dice Fabio Roia di Unicost. Mario Fresa di Movimento per la Giustizia dice no a «interventi di spaccatura che non migliorerebbero di un giorno la durata dei processi». E avverte il ministro: «Tra venti giorni ci sono le elezioni per rinnovare il Csm, dunque la sua riforma entrerebbe in vigore solo tra 4 anni...».
Dalla Lega, ormai sempre più allineata al Cavaliere sui temi della giustizia, arriva il via libera di Cota: «La riforma era prevista e va fatta, la maggioranza ha la compattezza per farla».

Comunicato-stampa
LO SCIOPERO DEGLI SCRUTINI DILAGA NELLE PRIME 7 REGIONI OLTRE 5000 SCRUTINI BLOCCATI
IL 14 E 15 SCIOPERANO TUTTE LE ALTRE REGIONI IL 14 (ore 10) MANIFESTAZIONE A ROMA DAVANTI AL MINISTERO

Con nuove e dilaganti adesioni si è concluso il „primo tempo‰ della lotta in difesa della scuola che ha coinvolto sette Regioni: ed il successo è stato così clamoroso da costringerci ad aggiornarne le cifre di ora in ora. Anche se ci mancano i dati da tante piccole realtà ove i COBAS non sono presenti, il bilancio finale è già di oltre 5000 scrutini bloccati, con l‚Emilia-Romagna che supera i 1500 blocchi, il Veneto oltre i mille, la Sardegna intorno ai 1200 e Umbria, Marche, Puglia e Calabria, insieme, intorno ai 1300. La ferocia sociale e politica di Crudelia Tremont‚ (e della sua spalla Gelmini) ha colpito in primo luogo (senza sottovalutare l‚attacco a tutto il PI e ai servizi sociali) la scuola, già martoriata e umiliata nell‚ultimo quindicennio da tutti i governi, con 41 mila posti di lavoro cancellati, l‚espulsione in massa dei precari e con una Finanziaria-massacro che provoca per docenti ed ATA una perdita economica senza precedenti. Il blocco per tre anni degli scatti di anzianità significa un furto medio di 30 mila euro nell‚arco della l‚intera carriera lavorativa, con massimi di 45 mila (90 milioni di vecchie lire!!) e con un introito iperbolico nelle casse statali di oltre 20 miliardi; ed il furto cresce ancora di migliaia di euro a causa del blocco contrattuale. Un tale nugolo di „mazzate‰ sta facendo dilagare lo sciopero: le adesioni si ingigantiscono di ora in ora e sfuggono ad un conteggio preciso perchè coinvolgono non solo i lavoratori/trici COBAS ma anche molti docenti ed Ata dei sindacati che avevano dichiarato „inutile‰ lo sciopero (ad esempio la FLC, il cui segretario Pantaleo ha invitato a non farlo, battendo poi ogni record di „inutilità‰, con la convocazione di uno sciopero a fine giugno) e tanti colleghi/e non sindacalizzati; e va ricordato che alle migliaia di scioperanti „diretti‰ si aggiungono tanti lavoratori/trici che partecipano alle Casse di Resistenza per risarcire gli scioperanti della trattenuta. Da domani inizierà il „secondo tempo‰. Lo sciopero dilagherà nelle Regioni più grandi come Piemonte, Lombardia, Toscana, Lazio, Campania, Sicilia, oltre a Liguria, Valle d‚Aosta, Friuli Venezia- Giulia, Abruzzo, Molise, Basilicata e la Provincia di Bolzano. Nel Lazio e in Sicilia la crescita delle adesioni è travolgente, oltre le previsioni degli ultimi giorni: in entrambe le regioni gli ultimi dati sono di circa 2000 scrutini bloccati (solo a Roma si supererà il migliaio) ; Campania, Piemonte, Toscana e Lombardia avranno tra i 1000 e i 1300 blocchi; circa 700 la Liguria e 500 l‚Abruzzo: e la previsione nazionale complessiva, per quanto incompleta a causa della tumultuosa crescita delle adesioni, va ben oltre i 15 mila blocchi, avvicinandosi molto ai 20 mila. Anche tali scioperi saranno accompagnati da dimostrazioni di piazza. A Roma si manifesterà il 14 giugno (ore 10) davanti al Ministero di Viale Trastevere. Ricordiamo che i COBAS chiedono che si cancellino i 41 mila tagli e la Finanziaria-massacro, il blocco degli scatti „di anzianità‰ e dei contratti, il furto delle liquidazioni e l‚allungamento dell‚età pensionabile, in particolare a 65 anni per le donne; e vogliono l‚assunzione a tempo indeterminato dei precari/e, massicci investimenti nella scuola pubblica per il funzionamento degli istituti, l‚annullamento della „riforma‰ delle superiori, la restituzione a tutti/e del diritto di assemblea.
Piero Bernocchi portavoce nazionale COBAS
Roma, 13 giugno 2010

l’Unità 14.6.10
Sarebbero quattro i parroci coinvolti. Uno di loro già condannato a tre anni di reclusione
Allertata la procura Nell’indagine del vescovo Caliandro violenze e relazioni sentimentali
Sesso, molestie e pedofilia, un dossier fa tremare la Diocesi Gallipoli-Nardo
di Ivan Cimarrusti

Un documento scottante sul tavolo del vescovo Caliandro. I fatti ricostruiti iniziano nel 2001 e raccontano di casi di molestie sessuali su minori, di relazioni sentimentali e violenze. Un parroco già condannato.

Ci sarebbero vere e proprie violenze sessuali, molestie, inviti ad appartarsi in luoghi isolati, relazioni segrete e, addirittura, l’invito ad un pastorello di 15 anni ad avere un rapporto omosessuale. Di questo sono accusati quattro sacerdoti della diocesi di Gallipoli-Nardò, in provincia di Lecce, finiti in un’ampia indagine del vescovo Domenico Caliandro nata da numerose segnalazioni di parrocchiani, vittime dei presunti abusi sessuali. Una vicenda che sta sconvolgendo tutta la comunità cattolica Salentina e che presto potrebbe giungere sulla scrivania del procuratore capo di Lecce, Cataldo Motta. «Al momento non ci è stato depositato nulla dalla diocesi – spiega il procuratore – Bisogna, inoltre, capire se si tratta di reati (a sfondo sessuale, ndr) procedibili d’ufficio. Vedremo domani (oggi, ndr)».
ANNI DI MOLESTIE
E’ certo che nelle mani del vescovo c’è un ampio dossier, composto da numerose testimonianze delle presunte vittime degli abusi sessuali. Fatti che, secondo indiscrezioni che trapelano dalla diocesi, sarebbero avvenuti fin dal 2001. Il dossier è top secret, ma è certo che all’attenzione del vescovo ci sono quattro sacerdoti che avrebbero compiuto «insidie su fedeli e parrocchiani – come spiegano dalla diocesi – venendo meno ai loro precetti». Ma non solo questo. Un anziano prete avrebbe molestato un minore ed un altro avrebbe, addirittura, fatto vere e proprie violenze sessuali su un altro. Un terzo parroco, invece, avrebbe avuto una relazione segreta con una donna di 30 anni.
DON ENZO GRECO
Nell’incartamento ecclesiastico, a quanto è dato sapere, una parte riguarderebbe il quarto sacerdote. Don Enzo Greco, parroco della chiesa di Santa Caterina a Nardò e professore in una scuola media dello stesso paese, avrebbe molestato sessualmente un pastorello di 15 anni. Il parroco è stato condannato nei primi mesi del 2009 a tre anni e sei mesi di carcere per tentata violenza sessuale e atti osceni. I fatti sarebbero cominciati nel 2001, quando il piccolo pastorello sarebbe stato avvicinato dal prete, il quale avrebbe cominciato una vera e propria pressione prolungata negli anni per avere rapporti sessuali con lui. Secondo la denuncia del pastorello, che ha trovato piena conferma nelle indagini della Procura della Repubblica, il prete gli
avrebbe messo in mano alcune riviste pornografiche, invitandolo a salire sulla sua automobile. Una richiesta che terrorizzò il ragazzino, il quale riuscì a scappare. Pochi giorni dopo, però, il parroco sarebbe tornato dal pastorello con un uomo di colore e gli avrebbe chiesto, ancora una volta, di avere rapporti sessuali con entrambi. «Una costante presenza nella mia vita», disse a verbale il pastorello nel corso del lungo processo celebrato a porte chiuse. «Chiesi l’intervento di mio padre», il quale in un’occasione era quasi riuscito a bloccare il prete che, però, riuscì fuggire. Da quel momento le presunte richieste si sarebbero fermate, fino alla morte del padre del pastorello. Dopo, il prete sarebbe tornato alla carica chiedendo al ragazzino di avere rapporti sessuali con lui e con altre persone sempre di sesso maschile. Tutte queste pressioni sarebbero state compiute per tre anni, fin quando la presunta vittima, ormai maggiorenne, raccontò tutto ai carabinieri che, dopo una serie di pedinamenti, colsero in flagranza di reato don Enzo Greco.
Il dossier, che al momento è nelle mani del vescovo Caliandro, presto potrebbe essere depositato alla Procura della Repubblica. Se i fatti accertati dalle indagini interne trovassero conferme in quelle degli inquirenti, potrebbero finire nel registro degli indagati almeno due anziani preti, per molestie e violenze sessuali su minori.

Repubblica 14.6.10
El País rivela la bozza delle nuove norme: stabiliscono la "neutralità religiosa" delle istituzioni
Spagna, pronta la legge sulla religione "Niente crocefissi e funerali di Stato cattolici"
di Omero Ciai

Il nuovo progetto in Parlamento dopo l´estate. Ancora in discussione l´articolo che regola l´uso del velo islamico

Via il crocefisso dalle aule scolastiche, dagli ospedali pubblici, dalle sedi amministrative, dai ministeri; e via il parroco dai funerali di Stato che non potranno più essere di rito cattolico. La bozza della nuova legge sulla "libertà religiosa" in Spagna - già annunciata dal premier Zapatero due anni fa - è pronta e ieri è stata rivelata da El País. Più che di "laicità" dello Stato, nella bozza, si esprime «la neutralità dei pubblici poteri di fronte alla religione e a qualsiasi altro credo, evitando qualsiasi confusione fra funzione pubblica e attività religiosa».
Riguardo ai funerali di Stato, El País propone l´esempio di quelli che si svolsero nel 2004 per le vittime degli attentati dell´11 marzo e ricorda che furono di rito cattolico nonostante tra i morti vi fossero numerosi musulmani. Con la nuova legge lo Stato potrà organizzare solo funerali civili, senza simboli religiosi. Mentre sul crocefisso la legge chiarisce che non potrà essere esposto (come nessun altro simbolo religioso) nei locali pubblici, esclusi quelli con un particolare valore storico, artistico o culturale. Fanno eccezione però i centri privati, anche nel caso in cui siano ampiamente finanziati con denaro pubblico, come le scuole o gli ospedali.
La nuova legge è composta da un totale di 37 articoli e si propone di rendere uguali di fronte allo Stato tutte le religioni presenti nel paese: in Spagna ci sono, oltre alla maggioranza di cattolici, 1,4 milioni di musulmani, un milione di protestanti e 600mila cristiani ortodossi insieme a comunità minori di ebrei, mormoni, buddisti e testimoni di Geova. Grazie agli accordi firmati con lo Stato spagnolo nel 1979 la Chiesa cattolica potrà ancora godere di alcuni privilegi, come quello di essere l´unica confessione alla quale i contribuenti possono attribuire lo 0,7 % delle tasse.
C´è, per ora, un solo spazio vuoto nella nuova legge e riguarda il velo islamico. La Commissione governativa che ha preparato la bozza non ha ancora deciso - scrive El País - «se regolerà o no con una norma i simboli religiosi individuali portati in uno spazio pubblico», come sarebbe appunto il velo in una scuola o in un ospedale. Fonti del governo vicine a Zapatero ammettono che nella Commissione sull´argomento prosegue il dibattito anche se il ministro della Giustizia spagnolo, Francisco Caamaño, si è espresso chiaramente a favore di una normativa. «È necessario precisare - ha detto - quali simboli religiosi di identificazione personale possono essere portati da un cittadino in uno spazio pubblico. In questi casi la legge dovrà essere chiara e dovrà applicare il senso comune e la tolleranza». La legge vigente per ora in Spagna, che risale al 1980, non chiarisce se portare il velo sia consentito oppure no negli spazi pubblici. La discussione in Parlamento della nuova legge inizierà solo dopo l´estate.

domenica 13 giugno 2010

l’Unità 13.6.10
Roma, in giro per un quartiere (ex) popolare. Di intercettazioni la gente non si interessa
Tutti concordi però: «Il Paese ha altri problemi, era meglio intervenire su scuola e pensioni»
«Legge bavaglio? Boh, non so» Il Paese narcotizzato dalla tv
Distanza dalla politica, disaffezione, stanchezza e insofferenza. Morale: la legge bavaglio passa sulla testa del Paese ma alla gente del mercato della Garbatella, a Roma, non interessa. «Abbiamo altre grane».
di Gioia Salvatori

Ddl intercettazioni, chi è questo sconosciuto? Disinformazione, qualunquismo, proteste. Sabato mattina al mercato rionale romano della Garbatella, quartiere rosso ex popolare, oggi quasi-centro di ceto medio e luoghi trendy: trovarvi un passante che conosca il contenuto della legge che limita la possibilità di indagine per gli inquirenti e cancella da giornali e tv decine di servizi, è come cercare l’ago nel pagliaio. Soprattutto se si cerca tra gli anziani. «Io ho altri problemi, delle intercettazioni poco mi importa, sono altre le leggi che servono: sul lavoro, sull’immigrazione» è il coro dei più, cioè dei tanti che hanno chiuso il giornale da anni, guardano la tv il pomeriggio e considerano la politica “un teatrino salva-poltrona”. Inutile spiegare i risvolti pratici della legge-bavaglio. «Io non ho nulla da nascondere, possono pure intercettarmi» è il mantra unito alla convinzione, nata a furia di sentire “ddl intercettazioni”, che la nuova legge serva a autorizzare i controlli sui telefoni. E la cricca, le inchieste sui grandi eventi, sulla malasanità, non le è interessato sapere che qualcuno rideva mentre l’Aquila crollava? «Sì, vabbè ma che c’entra con questa legge?», è la risposta frequente.
POTERE CATODICO
Eleonora mentre sente i «signora mia io non arrivo a fine mese...» di una passante va su tutte le furie. E’ intorno ai 40, ha i siti web d’informazione sotto mano a lavoro, sa cosa c’è scritto nel ddl intercettazioni ed ha il dente avvelenato «contro certa televisione che non ti fa capire nulla, tanto che mia madre è di sinistra ma l’ho dovuta convincere io, che questa legge è una porcata». Si infiamma e, come tutti coloro che sanno del bavaglio, chiama la piazza, la disobbedienza civile e chiede a Napolitano di non firmare.
Su un punto tutti sono d’accordo, informati e disinformati, favorevoli e contrari, giovanissimi e anziani disinteressati: questa legge per il Paese non è una priorità: «Servono leggi per i precari, per creare lavoro, per i pensionati che non ce la fanno ad arrivare a fine mese», sono le istanze, ognuno la sua, a seconda della posizione sociale. Rosanna, 36 anni, programmatrice europea, è sconsolata: «Bisogna scendere in piazza numerosi, è l’unica cosa che possiamo fare ora. Se la legge passerà così com’è mi auguro che arrivi un referendum abrogativ», dice tra le buste di verdura, in mano un quotidiano. Eleonora, 38 anni, è della stessa opinione: «Mi auguro che Napolitano non firmi, nel frattempo dobbiamo organizzare una specie di rivoluzione da qui in autunno: scendere tutti in piazza, farci sentire. La legge sulle intercettazioni non era indispensabile: io ho due figli e a scuola non hanno la carta igienica: le priorità del Paese sono altre». Luciano che di primavere ne ha almeno 65 e lavora ad un banco del mercato, è uno dei pochi anziani contrari. Cita Zagrebelsky e non ha dubbi: «E’ una legge fatta per coprire la cricca, a me possono intercettarmi 25 ore su 24, non ho nulla da nascondere...».
E lei che sa del ddl intercettazioni? «Io ho due bimbe e un altro figlio in arrivo, non ho tempo per informarmi, mica ho chi me li guarda...» dice una ragazza senza vergognarsi. E poi ci sono Zelinda, 60 anni, che ammette che guarda Italia 1 e al tg solo i servizi di cronaca e della legge bavaglio non ne sa niente, e la verduraia più o meno coetanea col lamento sulla crisi e anche lei col suo “signora mia”: «So solo che se non mi alzo alle quattro ogni mattina, non mangio – dice L’unica cosa che serve è una legge per farci campare un po’ meglio». Istanza non meglio specificata, legge chissà su cosa. La politica, intanto, è sempre più lontana.

l’Unità 13.6.10
Gli italiani sono come le rane
di Beppe Sebaste

Sto parlando nella scuola Roberto Rossellini con un collega, il regista Valerio Jalongo, autore di un bel documentario narrativo sulla deriva del cinema italiano, Di me cosa ne sai, dove si vede tra l’altro la prima spudorata menzogna liftata del premier, allora padrone soltanto di tv, verso l’ultima battaglia culturale (politica) fatta in Italia: quella di Federico Fellini contro la pubblicità che interrompe i film. Jalongo e io abbiamo gli scrutini del corso serale, mentre le prime zanzare del vicino Tevere irrompono nelle aule. Siamo orgogliosi di insegnare in questo istituto professionale di cinema e televisione unico in Italia. Il suo futuro ̆è incerto, grazie alla distruttività del governo, anche se gran parte dei tecnici che lavorano nel cinema e nelle tv di Roma e del Lazio hanno preso qui il diploma. Nato nei primi anni ‘60 in un luogo mitico, gli studi Ponti-De Laurentiis, dove sono stati girati film come La Strada di ̆Fellini, fino a pochi anni fa Aurelio De Laurentiis ne condivideva ̆gli spazi. Di recente il Rossellini è finito sui giornali per il geniale scherzo ai giornalisti di Mario Monicelli, che con la scusa di annunciare il remake de L’armata Brancaleone ha perorato gli studenti a ribellarsi contro i tagli. È qui che ha l’ufficio e il teatro il ̆produttore sognatore de Il Caimano, interpretato da Silvio Orlando.
Ecco, il caimano. Non volevo parlarne, ma è un dovere pedagogico ricordare che, nella Storia, avviene come nel noto esperimento che i ricercatori fecero con le rane: lanciandole in una pentola di acqua bollente saltavano subito fuori per trarsi in salvo. Mettendole al contrario in una pentola d’acqua fredda e riscaldandola in modo lento e costante, le rane si abituano gradualmente alla temperatura senza turbarsi, finché è troppo alta per avere la forza di saltare, e muoiono bollite. Nelle dittature è la stessa cosa.

Repubblica 13.6.10
Privacy, trasparenza e diritto di sapere
di Stefano Rodotà

QUALE governo ha drasticamente ridotto la privacy dei dipendenti pubblici, modificando addirittura il primo articolo del Codice che regola questa materia?
Quale governo ha messo nelle mani delle società di marketing la privacy telefonica delle persone, capovolgendo le regole che proprio gli interessati avevano mostrato di gradire? Quale governo ha incentivato il diffondersi della sorveglianza capillare sulle persone? Quale governo ha abbandonato ogni iniziativa sulla tutela della libertà su Internet, che aveva dato all´Italia un significativo primato internazionale? Quale maggioranza ha sfornato e continua a sfornare proposte di legge e emendamenti volti a limitare la privacy di chi naviga in rete? Proprio governo e maggioranza che ora innalzano il vessillo della privacy, invocano l´art. 15 della Costituzione e ricorrono al voto di fiducia.
Questi fatti, incontestabili, non mettono soltanto in luce una contraddizione clamorosa. Consentono di cogliere quale sia l´obiettivo vero dell´improvviso entusiasmo per la riservatezza. Mentre viene sacrificata senza batter ciglio la privacy di milioni di persone, si fanno le barricate proprio là dove la riflessione culturale e l´evoluzione legislativa inducono a ritenere che, per alcune categorie di persone e in situazioni particolari, le "aspettative di privacy" debbano essere drasticamente ridotte. Si tratta delle "figure pubbliche", delle persone indagate, delle attività economiche.
Questi non sono argomenti inventati oggi per dare sostegno a chi polemizza contro "la legge bavaglio". Quando, nel 2003, con una significativa convergenza tra il Garante per la privacy e il Consiglio nazionale dell´ordine dei giornalisti, si misero a punto le regole sul diritto d´informare, l´articolo 6 del Codice di deontologia venne scritto così: «La sfera privata delle persone note o che esercitano funzioni pubbliche deve essere rispettata se le notizie o i dati non hanno alcun rilevo sul loro ruolo o sulla loro vita pubblica». Parole chiarissime, così come è chiara la ragione di questa ridotta "aspettativa di privacy" per tutti quelli che hanno ruoli pubblici. In democrazia non bastano i controlli istituzionali (parlamentari, giudiziari, burocratici), serve il controllo diffuso di tutti i cittadini, dunque la trasparenza.
Si era consapevoli della necessità di non far divenire la privacy uno strumento che, invece di tutelare le sacrosante ragioni dell´intimità, serva a coprire attività che devono essere sempre sottoposte al giudizio di una opinione pubblica adeguatamente informata. Si seguiva così il filone inaugurato nel 1964 da una celebre sentenza della Corte Suprema degli Stati Uniti nel caso New York Times contro Sullivan, quando si riconobbe il diritto della stampa di pubblicare addirittura notizie false e diffamatorie riguardanti "figure pubbliche", salvo nel caso in cui ciò fosse fatto con "actual malice". Questa linea è stata seguita in moltissimi paesi e, in un caso riguardante uno stretto collaboratore del Presidente Mitterrand, la Corte europea dei diritti dell´uomo è andata oltre, affermando che, in un sistema democratico, è legittima persino la pubblicazione di notizie coperte dal segreto, per consentire il controllo su come viene esercitato il potere. Diritto di sapere, esercizio del controllo democratico e trasparenza sono strettamente intrecciati, e neppure il segreto e l´eventuale falsità della notizia possono interrompere questo circuito virtuoso, impedire la circolazione delle informazioni.
Una pur minima cultura della privacy dovrebbe essere provvista di questo bagaglio, che ci avrebbe risparmiato quell´impasto di ignoranza e malafede che ci affligge in questi giorni. Ma la regressione culturale, con conseguente pessima politica, ci avvolge da ogni parte, sì che ogni volta si è costretti a ricominciare dall´abc. Ricordando, anzitutto, che è falso sostenere che la legge appena approvata dal Senato abbia come obiettivo quello di frenare il gossip, di impedire la pubblicità di informazioni irrilevanti o intime. Ripeto quello che è stato detto mille volte, scritto in disegni di legge: questo è un fine, sacrosanto, che si può agevolmente raggiungere, con il consenso di tutti, stabilendo la cancellazione di questi brani delle intercettazioni, irrilevanti per le indagini. Poiché non ci si è fermati a questo punto, ma si è voluto imporre il silenzio totale su notizie rivelatrici di malefatte politiche o amministrative e persino su ammissioni di mafiosi, allora è evidente che l´obiettivo è un altro, quello di mettere a punto una rete protettiva di un ceto che del disprezzo delle regole ha fatto la propria regola. La sintonia tra questo atteggiamento e l´assalto alla legalità costituzionale è del tutto evidente.
E diventa chiarissimo che cosa si avvia ad essere il sistema di tutela della privacy, in un totale stravolgimento del rapporto tra pubblico e privato. Trasparenza crescente per l´inerme persona "comune"; opacità crescente di un ceto per il quale l´esercizio del potere non è più fonte di responsabilità, ma di immunità. Si mette a disposizione di poteri politici, economici, tecnologici la vita quotidiana d´ogni persona, scrutata in ogni momento, "profilata", ridotta ad oggetto di cui si può impunemente disporre. Si sottrae alla democrazia, come "governo in pubblico" una delle sue ragion d´essere, allungando l´ombra dove la trasparenza dovrebbe essere massima. È questa la logica che dev´essere capovolta, restituendo alla privacy l´onore che le spetta come elemento essenziale della libertà dei contemporanei.

«La disobbedienza civile è necessaria quando le leggi sono contro la democrazia e la libertà. Se un vostro articolo dovesse violare la legge pubblicatelo pure con il mio nome»
l’Unità 13.6.10
Intervista a Margherita Hack
Questa legge uccide la libertà di informazione Sono pronta a trasgredire
di Cristiana Pulcinelli

In questo momento mi dispiace non essere una giornalista perché vorrei partecipare in prima persona a questa battaglia». L’astrofisica Margherita Hack ha appena festeggiato il suo ottantottesimo compleanno a Mercatale Val di Pesa. Ma né l’età, né il clima da vigilia della festa tolgono vigore all’indignazione di Margherita per la legge bavaglio e per i modi in cui è stata approvata.
Cosa ne pensa della legge sulle intercettazioni appena passata al Senato con il voto di fiducia? «E’una vera vergogna. Questa legge è un aiuto per i delinquenti e i mafiosi, perché è risaputo che molti crimini si scoprono proprio grazie alle intercettazioni. Ma, del resto, c’è poco da stupirsi se si guarda chi c’è al governo: i migliori sono ignoranti e deboli, i peggiori una banda di delinquenti».
Abbiamo deciso di chiamare i giornalisti alla disobbedienza civile e di violare la legge. Pensa che sia giusto? «La disobbedienza civile è necessaria quando le leggi sono contro la democrazia e la libertà. C’è il dovere di opporsi a una legge sbagliata. Io spero che tutti i giornalisti disobbediscano, anche quelli di destra che però considerano il loro lavoro un servizio per il pubblico e il loro dovere dare le notizie».
Se le chiedessimo di firmare un articolo sul nostro giornale la cui pubblicazione violi la legge, lo farebbe? «Certamente sì, anzi mi dispiace non essere giornalista perché non posso partecipare in prima persona a questa battaglia». Reporters sans frontieres ha offerto ai giornalisti italiani di pubblicare sul loro sito gli articoli che non potranno essere più pubblicati in Italia e altre testate straniere offrono ospitalità. Pensa sia una forma di lotta utile?
«Sì, però gli italiani non leggono i giornali nella loro lingua, figuriamoci gli stranieri. E’ un’iniziativa che avrebbe un’eco molto ridotta». Cosa direbbe ai giovani per convincerli a fare opposizione?
«I giovani devono essere persuasi che la libertà d’espressione è un diritto a cui non si deve rinunciare. Altrimenti ci si avvia verso una dittatura. Noi che ci siamo passati lo sappiamo: la libertà d’opinione si deve difendere anche a costo di violare la legge. Quando sotto il fascismo furono promulgate le leggi razziali, era doveroso opporsi e violarle. Ora, per fortuna, non siamo a quel punto, ma il principio alla base di questa legge è lo stesso che era alla base delle leggi razziali: violare la libertà. I giovani dovrebbero sentire il desiderio di battersi contro questo». Cos’altro si può fare per far sentire la propria voce?
«Oltre a disobbedire? Andare tutti in piazza, o fare la rivoluzione... »

l’Unità 13.6.10
In «100mila» alla manifestazione della Cgil a Roma. Epifani: «A pagare sempre gli stessi»
Un fiume di persone ha invaso le strade della Capitale: «Tutto sulle nostre spalle»
Statali e insegnanti in corteo I «soliti noti» contro la manovra
Centomila ieri alla manifestazione nazionale della Cgil. Pensionati, funzione pubblica, precari e studenti in piazza contro la manovra del governo. Epifani: «Noi dalla parte dei lavoratori e contro interventi iniqui»
di Maria Zegarelli

«Noi abbiamo il diritto di non essere ingannati. Il governo non dica cose false sul futuro del Paese. Noi non ci chiamiamo Alice e non viviamo nel paese delle meraviglie». Il segretario della Cgil Guglielmo Epifani parla in piazza del Popolo di fronte ad una marea rossa di bandiere e raccoglie lunghi e ripetuti applausi da questo popolo reale, in carne ed ossa, che è venuto a Roma da tutta Italia per dire no alla manovra del governo. Nessun riferimento a questa manifestazione nazionale nei titoli del Tg1 delle 13.30 di Augusto Minzolini, silenzio sul grido di allarme che migliaia di lavoratori e lavoratrici, precari, pensionati, ricercatori, giovani e vecchi lanciano sfilando per le vie della Capitale. Gli organizzatori annunciano dal palco 100mila persone, la Questura 25mila. Sminuire, come ha fatto il governo con la crisi, fino ad ora. Ma questo «fiume rosso», così lo definiscono gli organizzatori, si ingrossa via via, e la piazza diventa sempre più stretta: in fondo è come il dissenso a Silvio Berlusconi, cresce e anche se non tutti lo raccontano prima o poi si imporrà.
Questo non è il paese delle meraviglie: è il paese di Umberto Pugliese, per esempio, che dice, «prendiamo 1400 euro al mese, non evadiamo neanche un centesimo e siamo quelli che pagheranno ancora». Dieci passi più in là c’è una banda che suona l’Internazionale, «siamo qui per Pomigliano D’Arco, cuore del Sud che rischia di fermarsi». Si protesta, si balla, si canta, si marcia. «Peccato che il governo non capisca che investendo sull’energia pulita si creano posti di lavoro e anche da lì può ripartire il Paese. Avrebbero potuto farlo con questa manovra e invece tagliano “linearmente”», commenta Marco, ricercatore di Pisa. A Roma sfilano quelli «che ogni giorno tirano la carretta per dirla con e Epifani e non sanno come arrivare alla fine del mese». «Tremonti questa volta l’hai fatta grossa», urla dal megafono un impiegato con il berretto rosso e la maglietta slogan «Tutto sulle nostre spalle». La ministra Gelmini, invece, è stampata su quelle di studenti, ricercatori e insegnanti. C’è anche una ruota della Fortuna, con sopra i volti dei ministri e di Bonanni della Cisl, sindacato assente, come la Uil, d’altra parte. Il «fiume rosso» scorre lento e si ingrossa sempre di più, qua e là qualche bandiera di Rifondazione, dell’Idv, ma questo è il corteo della Cgil. Qui nessuno nega la necessità di una manovra, non è un popolo di ingenui, ma non è questa la manovra che chiedono. Se solo si fossero fatte prima le cose che si dovevano fare, «qui e in Europa dice Epifani stabilendo regole certe per la finanza internazionale», forse oggi i sacrifici sarebbero meno pesanti. Se solo paghessero tutti «sarebbe un paese più giusto».
CHI C’È E CHI NON C’È
A quelli che non ci sono, Cisl e Uil, la piazza regala un fischio, Epifani si limita a un punto interrogativo: «Dov’è l’equità in questa manovra?». Quanto al Pd: «Ha la sua manifestazione. Ha detto che aderiva a questa nostra iniziativa, ma il mio problema non è chi aderisce, ma chi condivide il cuore dei nostri ragionamenti». Ignazio Marino è meno diplomatico: «Mi aspettavo una delegazione, come annunciato dal segretario, qui oggi non vedo neanche una bandiera del Pd. Vorrà dire che la prossima volta me la porterò da solo». I politici presenti, Cesare Damiano, Vincenzo Vita, Filippo Penati, Stefano Fassina, David Sassoli, (Pd) Gennaro Migliore e Paolo Ferrero (Sel), e l’Idv di Di Pietro, si confondono tra la folla. Ci sono delegazioni sindacali arrivate da tutte le regioni: lavoro, Costituzione, diritto allo studio, alla salute, libertà d’informazione, tutto tenuto insieme nella Costituzione. Di questo senti parlare sfilando con loro. Sono quelli che alla fine si salutano cantando e ballando insieme sulle note di «Bella Ciao».

Repubblica 13.6.10
Berlino verso la stangata sui ricchi
Tassa già decisa da Spagna, Francia e Regno Unito. L´Italia non la prevede
Siamo anche uno dei pochissimi Paesi a non colpire le rendite di tipo finanziario
di Roberto Pietrini

ROMA - L´euroausterity non è fatta solo di tagli alla spesa pubblica e sacrifici per gli statali, ma arriva anche l´aumento delle tasse. Per ora solo l´Italia sembra smarcarsi dalla nuova tendenza continentale, che attraversa trasversalmente destra e sinistra, e che per recuperare risorse e per dare il senso dell´equità alle manovre di bilancio, non esita a ritoccare le aliquote per i redditi alti, ad elevare il prelievo su rendite finanziarie, stock option e superstipendi. A rompere il tabu anche il governo di centrodestra tedesco di Angela Merkel: proprio ieri il ministro delle Finanze Schaeuble non ha escluso un aumento dell´aliquota Irpef più alta oggi ferma al 42%. Gordon Brown, prima di cedere il passo al conservatore Cameron, nei mesi scorsi aveva già provveduto ad introdurre una nuova aliquota massima del 50% oltre le 150 mila sterline di reddito e il nuovo governo non sembra intenzionato a fare retromarcia. I due leader socialisti di Spagna e Portogallo, Zapatero e Socrates, hanno già applicato o stanno per varare nuove aliquote sui redditi alti. Sarkozy, in Francia, ha dovuto annunciare un prelievo straordinario sui più ricchi. Solo in Italia l´aliquota sopra i 75 mila euro resta inchiodata al 43%.
In un periodo in cui la finanza è nel mirino per il ruolo avuto nella recente crisi internazionale, le grandi banche e i manager dagli stipendi d´oro non potevano rimanere fuori. La Francia e il Regno Unito hanno annunciato tasse straordinarie sulle banche, il Portogallo ha già varato un´imposta del 2,5% sugli utili degli istituti di credito. La Germania ha tassato le società energetiche: anche in questo caso il nostro paese, spiegando che il nostro sistema bancario non ha avuto bisogno di aiuti durante il crac del 2007-2009, ha evitato nuove addizionali sul credito.
Quanto alle remunerazioni speciali di banchieri e uomini della finanza, l´Italia - come dimostra un rapporto dello Studio Maisto di Milano - ha agito: nella manovra è stata introdotta una addizionale del 10% su bonus e stock options che superino di tre volte lo stipendio base ma che molti giudicano un´arma destinata a colpire solo una manciata di manager. Più dura la mano della Francia (che ha varato un´imposta straordinaria del 50% per i bonus oltre il tetto di 27.500 euro), del Regno Unito (che ha deciso un tassa del 50% oltre 25 mila sterline per i dirigenti di banche) e della Germania (che ha imposto un tetto ai compensi manager di banche salvate dallo Stato).
Mentre in Italia ancora si discute se uniformare al 20% le tasse su titoli di Stato e rendite finanziarie, in Europa i governi sull´onda della crisi si sono già mossi: in Spagna è stato varato un aumento dell´aliquota sui redditi da capitale dal 18 al 19-21%. In Portogallo è stata introdotta una tassa del 20% sulle plusvalenze azionarie, e una stretta è in atto in Inghilterra. Mentre in Francia si è preferito adottare una ritenuta alla fonte del 50% per chi si stabilisce nei paradisi fiscali.
Infine i redditi dei pubblici funzionari. In Italia i funzionari dello Stato sono stati sottoposti ad un prelievo del 5-10% oltre i 90 mila euro di stipendio annui. In Spagna, in Portogallo e Francia sono state introdotte misure simili. Forse non è finita qui e i tempi della Thatcher oggi sembrano preistoria.


l’Unità 13.6.10
Le tute blu della Cgil si preparano a confermare il no al documento del Lingotto
Ma rilanciano: «Per investire in Italia non serve derogare ai contratti e alle leggi dello Stato»
Pomigliano, Marchionne attacca «La Fiom gioca con 5mila posti»
«Passaggio storico
Il contratto nazionale messo sotto scacco»
L’analisi «Il modello è Detroit. L’azienda punta a un sistema di relazioni industriali come quello americano» spiega il docente della Bocconi
di Luigina Venturelli

Non solo la salvaguardia dell’occupazione a Pomigliano e la garanzia dei diritti dei suoi lavoratori. La posta in gioco tra il Lingotto e i sindacati, anche nel lungo periodo, non potrebbe essere più alta: «Siamo ad un passaggio storico nelle relazioni industriali del nostro Paese, si va verso il superamento del contratto nazionale di categoria» spiega Giuseppe Berta, docente di Storia contemporanea all’Università Bocconi di Milano. Lei crede nell’offerta dell’azienda per il rilancio della fabbrica o teme, come la Fiom, che cerchi la rottura? «Io credo che si tratti di un’offerta reale. Dal piano industriale del gruppo Fiat, l’Italia potrebbe diventare la base produttiva per tutta l’Europa. Il Lingotto non ha altre basi europee, ma avendo diversi stabilimenti in patria, può permettersi di scegliere quelli più efficienti. E a Pomigliano vuole un accordo immediatamente operativo, altrimenti l’abbandono sarà nei fatti».
Solo di questo si tratta? Di efficienza?
«Di un forsennato recupero di efficienza aziendale. Entro la fine di quest’anno Marchionne vuole portare in Borsa la Chrysler e, per farlo, deve dimostrare di adottare la stessa politica di relazioni industriali in tutto il gruppo, senza trattare l’Italia come un soggetto privilegiato. Il modello è Detroit, dove l’azienda ha ottenuto dal sindacato Uaw condizioni molto favorevoli e tagli cospicui di personale. Chi ha ottenuto tutto questo negli Stati Uniti, in aggiunta ai finanziamenti di Washington, difficilmente accetterà di meno in Italia, dove il governo non ha nulla da scambiare, né aiuti né incentivi».
Nel testo Fiat non ci sono anche clausole ideologiche, che nulla hanno a che fare con la produttività? «La fabbrica di Pomigliano d’Arco ha sempre riscontrato problemi di assenteismo che non si verificano negli altri stabilimenti Fiat. Ma la questione è più ampia: la proposta dell’azienda è concepita per un sistema di relazioni industriali molto diverso da quello italiano, più all’americana, con un unico sindacato e con precise sanzioni in caso di violazioni agli accordi sottoscritti, anche per sciopero».
Che fine farebbe, in un simile contesto, il contratto nazionale di lavoro? «Da questo punto di vista ha ragione la Fiom: con la firma dell’accordo su Pomigliano d’Arco si aprirà una crepa profonda nella contrattazione nazionale che, nel tempo, potrebbe condurre al superamento del contratto di categoria. Vale a dire, ad una situazione in cui i grandi gruppi industriali negozieranno contratti diversi l’uno dall’altro, a seconda della loro forza, mentre le intese nazionali negoziate in Confindustria serviranno solo alle imprese medio-piccole». Una svolta epocale, dunque. «Siamo ad un passaggio storico, simile a quello dell’ottobre 1980, ma al contrario: stavolta è l’azienda ha fare rivendicazioni, non i lavoratori. Oggi la Fiat è un gruppo globale, potrebbe produrre all’estero senza difficoltà, e questo cambia completamente i termini della trattativa. Anche i tradizionali strumenti di lotta sindacale non funzionano più come una volta».

l’Unità 13.6.10
Secondo i Cobas il blocco è stato attuato in sette regioni. Domani e martedì in tutta Italia
LaFinanziaria prevede tagli del 10% sulle buste paga e il blocco dei contratti per tre anni
Scuola, sciopero contro i tagli
Bloccati oltre 4mila scrutini
In sette regioni d’Italia bloccati oltre 4mila scrutini. la protesta parte dal basso. Domani e martedì, secondo i Cobas, si estenderà anche nelle altre regioni. La Finanziaria prevede tagli sulle buste paga del 10%.
di Cosimo Cito

Lo definiscono «un massacro», attanagliati dall’ansia di un dopo che sta arrivando a suon di sforbiciate, «di decapitazioni», e non è una rivoluzione, ma una restaurazione. La scuola pubblica langue sotto la mannaia di una Finanziaria che prevede tagli del 10% circa sulle buste paga di insegnanti e ausiliari. Si stimano circa 40mila euro in meno nelle tasche di ogni lavoratore della scuola pubblica nell’arco di un’intera carriera. Tagli nel personale, blocco degli scatti automatici di carriera, blocco dei contratti per tre anni. La ricetta è semplice, ma gravida di conseguenze. Nell’ultimo anno circa 600mila euro di finanziamenti sono passati dalla scuola pubblica a quella privata, tagliati di netto.
La lotta è quindi spostata nella forma più estrema e definitiva: il blocco degli scrutini. Se ne contano già circa 4000 in scuole di Puglia, Veneto, Marche, Lazio. Lunedì e martedì il secondo tempo, nelle regioni più grandi. Il blocco è determinato dall’assenza di un insegnante per legge uno scrutinio per essere valido deve prevedere la presenza di tutto il corpo docente a turno. La protesta, dilagata dal basso, con Cobas e precari della scuola in prima linea, ha anche la piazza, adesso. Piazza del Popolo, che nel sole di giugno è un forno ed è infiammata di rosso Cigl. A centinaia, insegnanti e personale Ata portano le loro storie sotto il palco, raccontano, si commuovono, denunciano. Vengono dalla Brianza, come Emanuela Tavornina, insegnante di Cavenago, «incazzata, e lo scriva con tre z» incazzata al cubo, insomma -, che racconta, a voce alta: «La scuola pubblica in Brianza è sempre stata negli ultimi anni un modello di efficienza, di capacità, di oculatezza nella gestione, spesso difficilissima, delle risorse. Questa Finanziaria ci taglia l’erba sotto i piedi. Nella nostra scuola – la primaria “Ada Negri” -, due posti sono stati tagliati, ora i bambini hanno in media meno di due insegnanti per classe, e quindi non possiamo più garantire il tempo pieno, il sostegno, il recupero degli scolari in difficoltà». E poi, il paradosso: «Nella scuola delle tre I – continua Emanuela -, l’inglese, una delle supposte priorità, è affidata a incredibili stratagemmi: ci sono corsi di aggiornamento di 40 ore per insegnanti della primaria in cui si dà loro un’infarinatura d’inglese. Con questo pezzo di carta quindi si può insegnare la lingua ai bambini. E gente laureata in lingue, con esperienza, competenze, cultura e capacità didattiche resta fuori. Una situazione imbarazzante, deprimente». E una risposta al ministro Gelmini, che vorrebbe la scuola chiusa a settembre per motivi “turistici”: «Noi insegnanti siamo disposti ad andare anche a luglio a lavorare. Noi siamo professionisti della cultura e non abbiamo problemi di sorta. Le sparate non servono, a noi servono finanziamenti».
SPOSTAMENTO
Il blocco degli scrutini è una forma estrema di protesta. Anche loro, gli uomini, le donne che lottano, preferiscono la parola “spostamento”. Gli scrutini sono solo spostati di due giorni – oltre, per legge, c’è il precetta mento e il decurta mento degli stipendi -, e le ultime classi di medie e superiori non vengono toccate per non compromettere gli esami di maturità. Tuttavia la protesta è larga tutto un Paese. A Bari Sergio, «insegnante di italiano e latino, a tempo indeterminato, ma sono tra i pochissimi alla mia età – 39 anni – a poterlo dire» vede nuvole nere all’orizzonte, «un futuro in cui la scuola sarà relegata sempre più a un ruolo subalterno», del resto il presente è quello che è, con «i soldi della Comunità europea, e solo quelli, ad aiutarci ad alimentare le attività pomeridiane, così importanti e formative». Il fronte di lotta è largo, ed è una linea del Piave che deve necessariamente tenere.

l’Unità 13.6.10
Le sbarre della psichiatria
Risponde Luigi Cancrini

È alla discussione nei meandri delle commissioni parlamentari il disegno di legge Ciccioli, un “superamento” della legge Basaglia, con un punto “qualificante”: i trattamenti sanitari obbligatori della durata di sei mesi non in ospedale ma in “strutture residenziali”.
Aldo Lotta, Associazione il Gabbiano

RISPOSTA C’era una volta, tanti anni fa, una ragazza che credeva di essere un uccello e cinguettava guardando la finestra grande e gonfia di sbarre della Neuro. Sognava di volare via, come gli uccellini che si affaccendavano sui rami di un grande platano, ed io mi sono affannato per cinquantanni, credo, ad aiutare quelli come lei combattendo contro i colleghi che senza saperlo le rinforzano, le sbarre, perché hanno paura e non sanno come comportarsi con le persone che parlano il linguaggio dei sogni e dei desideri, la complessità dell’inconscio e la tortuosità delle comunicazioni travestite da sintomi dei loro pazienti. C’è un intero mondo, mi dico, di esseri normali (malati e ingombranti, spaventati e aggressivi) che si pone di nuovo tra sbarre e libertà ora che sembra così lontano il tempo in cui Basaglia insegnava che i pazienti devono essere liberati proprio dalle sbarre: Basaglia di cui ci si è dimenticati nella legge all’esame oggi del Parlamento che evita (come il diavolo evita l’acqua santa) la parola psicoterapia e che ripropone, insieme ai manicomietti privati, una cultura solo medica del disturbo mentale.

l’Unità 13.6.10
Radio3, lunedì a colori Il direttore Sinibaldi: «Siamo tutti stranieri»

Lunedì 14 giugno per Radio3 sarà una giornata particolare: a condurre i programmi saranno cittadini stranieri. Alcuni di loro immigrati, altri nati in Italia. Ce ne parla il direttore di Radio3, Marino Sinibaldi: «L’idea nasce da molte suggestioni: partendo dai fatti di Rosarno fino ad arrivare al modo in cui quotidianamente viene rappresentato il fenomeno migratorio. Qualche giorno fa c’è stata una polemica sulla scelta di far dipingere il Drappo del Palio di Siena ad un pittore musulmano. Ecco, è da episodi come questo che abbiamo preso spunto, con un intento che vuole essere provocatorio e autoprovocatorio insieme. Provocatorio perché ci stupiamo della strumentalità con cui si affrontano certi argomenti e troviamo scandalosa la demonizzazione dello straniero, visto come simbolo del Male. Autoprovocatorio perché siamo curiosi di sapere come, per una volta, saranno gli altri a giudicare la nostra realtà, costringendoci ad accogliere il punto di vista di chi guarda con altri occhi. Può essere un buon modo per sconfiggere le nostre pigrizie e i nostri automatismi. Ecco, mettere questa radio in mano agli stranieri è per noi un modo di dimostrare in maniera non retorica quanto possano essere una risorsa. Parteciperanno scrittori, insegnanti, scienziati, manderemo in onda storie molto diverse tra loro, proprio perché vogliamo raccontare esperienze diverse, che siano altra cosa rispetto all’etichetta che così facilmente gli appiccichiamo sopra. Etichetta che è solo strumentale, insufficiente a definire la varietà delle differenze che gli stranieri rappresentano. Forse è piccola cosa, ma ascoltandole, queste persone, ci renderemo conto che, in realtà, stranieri lo siamo tutti».

l’Unità 13.6.10
Intervista a Li Qiang
«Operai-macchina. In Cina lo sfruttamento porta al suicidio»
Il direttore di China Labor Watch: «Nella fabbrica Foxconn di Shenzhen il salario è 130 dollari al mese e si lavora 12 ore al giorno E la minaccia di scioperi a catena ora allarma il governo di Pechino»
di Massimo Franchi

Da una parte le multinazionali Apple, Dell e Hewlett-Packard che sfruttano il bassissimo costo del lavoro. Dall’altra il governo cinese alle prese con la patata bollente del primo sciopero organizzato e della pressione internazionale. In mezzo, a prendere botte da entrambi, i 300 mila lavoratori della Foxconn, fabbrica taiwanese di Shenzhen, megalopoli cinese, distrutti dalle condizioni del lavoro al punto di suicidarsi (dieci nell’ultimo anno più altri tentati). A far scatenare tutto il putiferio
c’è il China Labor Watch, un’associazione con base a New York che ha dato le notizie sui suicidi e si batte per migliorare le condizioni di vita dei lavoratori cinesi.
Il fondatore è Li Qiang, combattivo attivista cinese del Sichuan che dal 2000 non può più entrare nel suo Paese, considerato “indesiderato” dal regime di Pechino. Per la prima volta parla con un giornale italiano. Signor Li Qiang, quando e perché ha iniziato ad occuparsi della Foxconn?
Quali sono le condizioni di lavoro a Shenzhen? Perché questa escalation di suicidi? «Il salario base è di meno di 130 dollari al mese. Non è sufficiente per vivere e allora gli operai sono tutti costretti a turni massacranti: 12 ore al giorno per 28 giorni al mese, con solo due giorni di riposo al mese». Steve Jobs qualche giorno fa ha detto che la Foxconn «non è così male, ci sono anche ristoranti e piscine»...
«È vero che ci sono piscine e ristoranti. Ma gli operai lavorano così tanto che non hanno certo il tempo per usarli. Mr. Jobs ha parlato così perché non conosce bene la situazione. Gli operai lavorano come delle macchine, si tratta senza ombra di dubbio di una sweatshop una fabbrica sfruttatrice in tutto e per tutto».
A questo proposito voi chiedete a consumatori occidentali di inviare una lettera alle multinazionali in cui denunciate le condizioni dei lavoratori di Shenzen. Proponete un boicottaggio degli I-Phone, il gioiello della Apple? «Un boicottaggio potrebbe essere controproducente. La lettera che chiediamo di mandare a tutti i clienti di Dell, Apple e Hewlett-Pacward, a chiunque abbia comprato un I-Phone invita queste aziende a farsi carico delle “condizioni di lavoro deplorevoli e dello stile militaresco del management della Foxconn” e a chiedere “al loro fornitore” di “cambiare drasticamente strada” ridando “dignità ai lavoratori” e “rispettando le norme di lavoro cinesi e internazionali”. Sottolineiamo che “la Foxconn è un’azienda è l’azienda più grande al mondo nella produzione di componenti elettronici” e che “ha tutte le possibilità economiche e di organizzazione per migliorare la situazione”. Specifichiamo che “la Foxconn ha bisogno del vostro aiuto”, “di piani di cooperazione con il suo management” e che “questa è l’unica strada” per “assicurare il rispetto delle norme di diritto del lavoro cinesi”. Niente boicottaggio, quindi. Solo la giusta denuncia e pressione nei confronti di questi giganti mondiali che rischiano di sfruttare una situazione gravissima facendo finta di non conoscerla».
Intanto però la situazione però sta peggiorando. Ad inizio settimana la Foxconn ha deciso, in caso di suicidio di un lavoratore, di non dare più alcun compensazione alle famiglie.
«È un’altra decisione incredibile. La cosa assurda è che l’azienda pensa che i lavoratori si suicidino perché vogliono finanziare le proprie famiglie con le compensazioni e, non pagandole più, pensa di prevenire i suicidi. Ma è una pazzia. È una forma di discriminazione perché non c’è nessuna relazione tra le due cose. Gli operai si tolgono la vita perché non riescono più ad andare avanti: hanno troppa pressione, problemi psicologici e non ricevono alcuna cura da parte dei medici dell’azienda. L’azienda arriva a dare la colpa dei suicidi agli stessi operai morti che non possono più parlare e spiegare le loro ragioni».
Ma l’azienda intanto sbandiera a tutto il mondo l’aumento del 70 per cento dei salari... «L’aumento dei salari è certamente positivo ed era una delle nostre richieste. Ma se non si riduce anche l’orario di lavoro e l’organizzazione del lavoro le cose non cambiano di molto. L’azienda però usa l’aumento in modo strumentale per mettere la sordina alle denunce che noi facciamo sui suicidi e sulla situazione nell’azienda».
I media cinesi però hanno parlato dei suicidi... «In realtà all’inizio sì. Poi la Foxconn ha fatto pressioni sul governo perché censurasse le notizie, ma il regime ha seguito l’indicazione solo in parte e la censura non è stata totale. Dal 26 maggio c’è stata una stretta ulteriore ma la ragione sta nel fatto che il governo ha paura delle possibili conseguenze dell’aumento dei salari concesso dalla Foxconn. Per il regime di Pechino il rischio che tutti i lavoratori cinesi scioperino per chiedere gli stessi aumenti è troppo grande».
Quindi si profila uno scontro fra Foxconn e governo cinese?
«L’azienda sta cercando di scaricare la colpa dei suicidi sul governo sostenendo che non faccia abbastanza per prevenirli. Ma poi ha cercato di risolvere la questione con l’aumento dei salati e, in un momento di crisi, solo la Foxconn e poche altre si possono permettere di farlo: le altre aziende sono molto spaventate per il rischio che anche i loro lavoratori chiedano lo stesso trattamento. E il governo cinese si trova in difficoltà allo stesso modo».
Secondo voi come evolverà lo scenario? Ora la Foxconn minaccia addirittura di chiudere gli stabilimenti e di spostarli a Taiwan.
«La vicenda Foxconn sarà cruciale per i futuro dei lavoratori cinesi. Siamo in un momento delicatissimo che potrebbe essere di svolta per la storia della Cina. La minaccia di chiusura degli stabilimenti è un ricatto nei confronti del governo cinese: il rischio di perdere investimenti esteri e fabbriche di questo livello fa breccia nel regime. Il governo cinese affronta questo dilemma: lasciare che i lavoratori scioperino e protestino con il rischio che le aziende estere lascino la Cina o risposta dura. Un possibile scenario è quello che tutte le aziende di Honk Kong e Taiwan che hanno concordato con il governo cinese situazioni di vantaggio sul costo del lavoro cinese facciano pressione sul regime e che il governo non difenda più anche quei pochi diritti conquistati dai lavoratori cinesi in questi anni: la repressione interna alle fabbriche sarà fortissima e il passo indietro molto grande».
E l’altro scenario?
«L’altro è quello che prevede aumenti di salario senza annunci, senza farlo sapere all’esterno. Il basso profilo porta direttamente alla censura totale per evitare conseguenze peggiori. Ma l’annuncio degli aumenti da parte della Foxconn rischia di renderla meno percorribile».
In questo contesto, quale futuro vede per il suo Paese? «Io lotto perché la ricchezza prodotta negli ultimi anni di crescita economica sia distribuita anche agli operai, che invece non hanno visto la loro vita migliorare. Se il regime collasserà è probabile che le condizioni dei lavoratori migliorino. Ma non è così sicuro».

Repubblica 13.6.10
Genova ’60
La lunga estate della rivolta
di Wanda Valli

Cinquant´anni fa la città si ribella al congresso del Msi. Ex partigiani, camalli, studenti si infiammano alle parole di Pertini: "Difendere la Resistenza, costi quel che costi". Il 30 giugno la Celere di Tambroni viene travolta dai "ragazzi con le magliette a strisce". È in quelle giornate che si disegnerà il futuro dell´Italia Tra aperture alla sinistra e tentazioni autoritarie

La macchia è ancora lì, rossastra, a due passi dal palazzo della Regione, in piazza De Ferrari, cuore di Genova. Hanno provato a ripulirla nel tempo, più e più volte, ma senza riuscirci. Quasi che la storia volesse lasciare un suo segno. La macchia è quel che rimane di una camionetta della Celere di Padova rovesciata e incendiata dai manifestanti, il 30 giugno del 1960. Il giorno in cui Genova brucia, si ribella, si rivolta contro il Msi, fresco alleato del governo Tambroni, che vuole tenere nella città medaglia d´oro della Resistenza il suo congresso il 2 luglio. E vuole che a presiederlo sia Carlo Emanuele Basile, l´uomo delle torture alla Casa dello studente, l´uomo che nel 1944 fece deportare milleseicento operai delle fabbriche e del porto.
Genova non ha dimenticato. È una calda giornata d´estate, il 30 giugno 1960, c´è maccaia, quel tempo umido con le nubi che velano il sole. «Scimmia di luce e di follia» la definirà molti anni dopo Paolo Conte, poeta della canzone. La città vive una calma apparente. Ma ci sono già stati cortei e scontri con la polizia: il 25 è il giorno della prima manifestazione, il 28 giugno Sandro Pertini, con il discorso del bricchettu (del fiammifero) dà il via all´incendio finale. Tutto è incominciato quasi un mese prima, il 2 giugno, festa della Repubblica. Gli ex partigiani si incontrano a Pannesi, sulle alture sopra Genova, lo stesso posto da dove sono partiti per andare a combattere in montagna. Giorgio Gimelli, ex partigiano, nel 1960 è presidente provinciale dell´Anpi. È lui a parlare con Umberto Terracini, amico di Gramsci, compagno di prigionia di Pertini a Ponza, poi deputato eletto in Liguria per il Pci. Terracini è stato il presidente dell´Assemblea costituente, è sua la firma, nel dicembre del 1947, sotto il testo della Costituzione. Quel giorno, a Pannesi, Terracini di fronte a tremila persone lancia la mobilitazione. Il resto dell´Italia ignora quanto sta per accadere, il governo minaccia di mandare l´esercito e spera che tutto finisca così. Il tam tam, invece, avvolge la città. A tenere i contatti tra Roma e Genova, sono la Cgil attraverso la Camera del lavoro, e soprattutto l´Anpi, l´associazione dei partigiani.
I protagonisti saranno i giovani, i ragazzi con le "magliette a strisce", operai, portuali, moltissimi studenti dell´università. Paride Batini, leader dei portuali scomparso un anno fa, nel giugno del 1960 ha venticinque anni, è uno di quelli con la maglietta a strisce: «Le portavamo tutti, perché costavano poco» spiegò l´unica volta in cui ruppe il silenzio su quei giorni. Raccontò, Batini, che il 30 giugno ´60 fu la rivolta dei giovani: «Il miracolo economico lo stavano costruendo sulla nostra pelle, noi volevamo giocarci il futuro». In prefettura tentano una mediazione. Fulvio Cerofolini, ex sindaco socialista di Genova, poi deputato, ora è presidente provinciale dell´Anpi: «Il prefetto propose di spostare il congresso del Msi a Nervi e a noi di manifestare al Righi, sulle alture, una specie di anticipazione della teoria degli opposti estremismi». Che non passa.
Per il 30 giugno la Camera del lavoro prevede uno sciopero di sole due ore, ma due giorni prima, il 28, sono la passione e la foga oratoria di Sandro Pertini di fronte a ventimila persone a scaldare gli animi. Il futuro presidente della Repubblica ricorda gli ideali che hanno unito l´Italia: «Libertà, giustizia sociale, amor di patria. Noi siamo decisi a difendere la Resistenza. Lo consideriamo un nostro preciso dovere: per la pace dei morti e per l´avvenire dei vivi, lo compiremo fino in fondo. Costi quel che costi». Così andrà.
Il 30, quei pochi delegati del Msi che si presentano negli alberghi vengono respinti, i tassisti li lasciano nei posti più impensati, sui tavoli dei ristoranti ci sono volantini antifascisti. Il corteo parte un po´ in anticipo. Raccoglie, via via che attraversa la città, una folla di centomila persone. In piazza della Vittoria arriva l´ordine di scioglimento. Molti ritornano in piazza De Ferrari, ma c´è anche chi non si muove da lì. Il nucleo di polizia della Celere di Padova è schierato con le jeep e prova a mandar via la gente, a partire da chi si è arrampicato sulla fontana al centro della piazza. Uno di questi è Giordano Bruschi, allora aveva trentacinque anni, era segretario dei marittimi della Cgil: «Dopo il primo carosello, io con molti altri, finisco nell´acqua, mentre le camionette vengono posteggiate sotto i portici», là dove oggi c´è la macchia. Le cariche si susseguono, si fugge lungo i vicoli, e lì la polizia si ritrova impotente. Bruschi: «La gente tirava vasi, acqua calda e olio dalle finestre», i poliziotti risalgono in piazza De Ferrari, proprio mentre almeno in cinquemila, soprattutto portuali e operai, vanno all´assalto delle jeep. Vengono sollevate di peso dai camalli, gli scaricatori del porto, e rovesciate. Il comandante della Celere finisce nella fontana, lo salvano i portuali e i partigiani, lo portano in un bar, a prendere un caffè.
Quando lo scontro sembra diventare sanguinoso, Giorgio Gimelli va in Questura a parlare con il commissario Costa. Insieme, il partigiano e il commissario, corrono in via XX Settembre dove la gente ha eretto barricate. Lì c´è anche Raimondo Ricci. Avvocato, oggi presidente nazionale Anpi, ricorda: «Le prime cariche, la gente che lanciava tavolini e seggiole. C´erano i lacrimogeni, ci coprivamo con i fazzoletti». Alla fine si riesce a convincere tutti ad andare a casa. In prefettura si tratta. Il centro della città resta presidiato. All´una di notte, il segretario della Cgil, Pigna, annuncia: «Il congresso del Msi è stato annullato». Genova ha vinto ancora.

Repubblica 13.6.10
Leoni in piazza volpi a Palazzo
di Filippo Ceccarelli

Fu questo dei moti di Genova e del luglio ´60, «a mio parere - come scrisse Aldo Moro nel suo memoriale dal carcere delle Br - il fatto più grave e minaccioso per le istituzioni intervenuto a quell´epoca». Tale il clima, dopo i tre morti di Melissa, Palermo, Catania e i cinque di Reggio Emilia; tanto angosciosi i boatos dopo la tregua proposta a sorpresa dal presidente del Senato Merzagora e il simultaneo sventolio di dossier tra potenti democristiani, specie da parte dello stesso presidente del Consiglio Tambroni, che per qualche giorno l´allora segretario della Dc preferì dormire fuori casa. Giulio Andreotti, del resto, che rispetto a Moro aveva meno ragioni di temere, più che l´aria di golpe si è poi divertito a descrivere la scena «da film americano» dei ministri della sinistra Dc che acrobaticamente cercavano di consegnare le loro lettere di dimissioni nelle mani di Tambroni, il quale a sua volta ingaggiò i più ingegnosi esercizi fisici per non accoglierle. Perché come spesso accade in Italia c´era il dramma, la rabbia e la paura, ma anche da ridere: così una sera, durante una riunione a piazza del Gesù, quando dalla strada risuonò un improvviso rumore di cavalli al galoppo, un anonimo notabile diede voce al comune sentimento: «Non saranno mica venuti ad arrestarci?».
E insomma: insorta Genova, e manganellati dalla Celere parecchi deputati comunisti a Porta San Paolo, lo scudo crociato non smetteva di traccheggiare di fronte alla scelta del centrosinistra, Tambroni lasciava maliziosamente capire di sapere tutto di tutti («Li conosco uno per uno e al momento giusto li metto a posto») e il presidente della Repubblica Gronchi, terrorizzato dal primigenio complotto comunista, con tale grottesca insistenza pretese un aumento della vigilanza da indicare i requisiti degli agenti di Ps da disporre a tutela della sua persona: «Di alta statura, complessione atletica e rotti - recitava la formula - a tutti gli sport».
Di queste strambe e turbinose manovre, di questo carosello che arrivò a lambire anche la Santa Sede e la Cei, che non mancarono di mettere in campo dispute pure di ordine dottrinale, fece alla fine tesoro l´altro cavallo di razza della Dc: Amintore Fanfani, il grande sconfitto di due anni prima, in tale frangente chiamato a una delle sue consuete, repentine e impetuose resurrezioni.
In realtà già prima della fatidica estate genovese, «il Rieccolo», come di lì a poco l´avrebbe designato Indro Montanelli, aveva cominciato in gran segreto a tessere la sua trama per aprire le porte al Psi con l´ovvia collaborazione di La Malfa e Saragat. Il dato rimarchevole, e se si vuole pure significativo degli usi e costumi della Prima Repubblica è che l´imminente governo Fanfani - poi detto «delle convergenze democratiche» o secondo la più metafisica lectio morotea «delle convergenze parallele» - venne comunque prefigurato in un pranzo tenutosi in una remota trattoria dell´Acqua Acetosa, "Da Giggetto il Pescatore"; dove quella piovosa domenica, insieme agli illustri cospiratori erano capitati almeno un paio di giornalisti, oltre all´incolpevole figliola del presidente Tambroni, che poi era la vittima designata di quella conviviale congiura.
Seguirne con gli occhi di oggi le logiche politiche e le tatticissime sottigliezze tattiche è praticamente impossibile, se non vano. Con ragionevole semplificazione, a mezzo secolo di distanza, è abbastanza evidente che a partire dalla sollevazione antifascista di Genova si giocò in Italia una partita di leoni e di volpi, un passaggio che combinava ruggiti di piazza e tagliole di palazzo. Di quel luglio anche sanguinoso scrissero a caldo Carlo Levi e Pier Paolo Pasolini, Antonio Delfini vi dedicò una poesia (Genova è in rivolta, Torino ascolta), mentre il giovane Fausto Amodei compose una canzone destinata a diventare celebre, Morti di Reggio Emilia. Ma nel cuore del potere e nel suo immaginario quella mezza insurrezione, proprio in quanto favorì l´affermarsi del centrosinistra, rimase inscritta anche come un potenziale pericolo: di qui probabilmente la redazione del controverso Piano Solo da parte dell´Arma dei carabinieri.
Dotatosi di un suo quasi personale servizio segreto, ma a sua volta spiato dal Sifar che riferiva a Moro, Tambroni non aveva né le intenzioni né la stoffa per portare alle estreme conseguenze l´avventura autoritaria. Allo stesso modo l´allora leader del Msi, Arturo Michelini, mancava di statura per inserirsi in quel gioco rischioso. La stessa storiografia di destra (a cominciare dal saggio di Adalberto Baldoni, Due volte Genova, Vallecchi, 2004) appare piuttosto tiepida, se non dubbiosa, rispetto all´ipotesi che se la sommossa di Genova non avesse impedito quel congresso, il Msi avrebbe anticipato il processo di costituzionalizzazione del neofascismo compiuto da Gianfranco Fini con An tra il 1993 e il 1995.
Vero è che la storia non si fa con i se. Fra gli angosciosi presentimenti di Moro, gli arguti ricordi andreottiani e la rapinosa abilità di Fanfani ce n´è abbastanza perché Genova resti nella memoria collettiva, con la sua energia anche gloriosa, ma anche, come succede, con le sue ambiguità.