5 risposte da Laura Boldrini portavoce Unhcr in Italia
di Umberto DE Giovannangeli
1. Ufficio Unhcr chiuso. Stiamo trattando per la sua riapertura. Perché è importante che l’ufficio dell’Unhcr possa essere operativo in quanto è l’unico riferimento in Libia per migliaia e migliaia di richiedenti asilo e rifugiati.
2. Da cosa fuggono. I rifugiati in Libia fuggono da situazioni diverse: da guerre che continuano da anni nei loro Paesi, o da violazioni dei diritti umani, oppure da persecuzioni individuali.
3. Italia-Libia: e i diritti?. Gli Stati hanno tutto il diritto di concludere accordi bilaterali finalizzati al contenimento dell’immigrazione irregolare. Quello che è importante, per noi, è che nell’ambito di questi accordi vengano inserite tutele e garanzie per coloro che hanno bisogno di asilo.
4. Il Mediterraneo oggi. Se è vero che nelle coste italiane vi è stata una drastica diminuzione degli arrivi via mare, è altrettanto vero che vi è stata una netta diminuzione delle domande di asilo, a conferma che chi tentava con ogni mezzo di arrivare a Lampedusa era spesso perché aveva bisogno di protezione internazionale.
5. L’allarme. La politica dei respingimenti più che contrastare l’immigrazione irregolare sta mettendo a dura prova il riconoscere il diritto d’asilo in Italia.
l’Unità 14.6.10
Affari e oro nero dietro il silenzio sui diritti umani
Torture e violenze sui «sans papier», chiuso l’ufficio dell’Unhcr Ma Berlusconi tace per tutelare la rete dei grandi appalti
di Umberto De Giovannangeli
Non parlategli dei diritti umani negati. Non chiedetegli quando riaprirà l’ufficio dell’Unhcr (l’Alto commissariato Onu per i rifugiati). E non provateci nemmeno a sottoporgli un recente rapporto della Ong Human Rights Watch, nel quale si denuncia che tutti i «sans papier» nei centri libici hanno sofferto torture, maltrattamenti, detenzione senza limite di tempo e «condizioni inumane e degradanti». E se volete farlo uscire dai gangheri ricordategli quanto affermato da Amnesty International sull’accordo di «Amicizia, partenariato e cooperazione» firmato da Berlusconi e Gheddafi a Tripoli nell’agosto 2008 e «velocemente ratificato dal» Parlamento italiano a febbraio 2009: «Questo trattato non dedica spazio alla tutela concreta dei diritti umani...» . Non cercate di scalfire quello che il «Guardian» definì «un altamente discutibile comune interesse negli affari». Il comune interesse che lega indissolubilmente il Cavaliere e il Colonnello. Tripoli bel suol d'affari...Questo è per Silvio Berlusconi la Libia di Muammar Gheddafi. Non solo autostrade, cantieri, infrastrutture (in prima linea imprese come Impregilo e Finmeccanica). Ma anche petrolio e gas.
L’Eni ha rinegoziato nel giugno 2008 i sei cantieri di esplorazione ed estrazione con la compagnia nazionale libica, ottenendo un allungamento della concessione al 2042 per il petrolio ed al 2027 per il gas. Non solo oro nero. Ma anche cemento. E commesse per almeno 153 miliardi di dollari. L’Impregilo sta costruendo tre centri universitari, la Conicons sta modernizzando l'aeroporto di Ghat, la Trevi sta realizzando l'hotel-reggia al-Ghazala a Tripoli, per citare solo alcuni dei lavori in corso. Sempre l’Impregilo ha già realizzato diverse importanti opere pubbliche in Libia: gli aeroporti di Kufra, Benina e Misuratah, e il Parlamento a Sirte. Nel luglio 2009 è datato un accordo che ha permesso all’Ansaldo, società del gruppo Finmeccanica, di aggiudicarsi una commessa da 541 milioni di euro in Libia. Il contratto riguarda la realizzazione dei sistemi di segnalamento e connessi impianti di telecomunicazioni e di alimentazione relativi alla linea ferroviaria costiera Ras Ajdir-Sirte e quella verso l’interno Al-Hisha-Sabha, per un totale di circa 1.450 chilometri.
Fondi impegnati. Nell’ottobre 2008 la Banca centrale libica (che gestisce circa la metà delle riserve valutarie della Libia) ha aumentato la propria quota di partecipazione all’interno di Unicredit dallo 0.9% al 4,23%, diventando il secondo azionista della banca. Unicredit, e non solo. Il fondo sovrano libico «è pronto ad entrare in altre banche italiane» e a «salire in Eni». Lo affermava afferma il presidente del Lya (Libya Africa Investment) e ministro della Pianificazione di Tripoli Abdulhafid Zlitni in un’intervista (14 febbraio 2009) al Corriere della Sera. «'Abbiamo -spiegauna liquidità altissima, disponibilità per 80 miliardi di dollari. Siamo in Unicredit e c’è stato un piccolo aumento della nostra quota da quando siamo entrati. Ma abbiamo dato la nostra disponibilità all'ingresso anche in altre banche. In questo periodo le banche sono in sofferenza. E può darsi che in questo quadro sia anche desiderio delle banche italiane cercare la nostra collaborazione». Un «desiderio» ampiamente praticato.
l’Unità 14.6.10
Oggi la Fiom si esprimerà sulla proposta della Fiat. Le tute blu: svolta nelle relazioni sindacali
Il progetto prevede, tra l’altro, provvedimenti disciplinari per chi aderisce a uno sciopero
E per i lavoratori meno diritti
Pomigliano la prova generale
Oggi il comitato centrale della Fiom ribadirà il suo no alla proposta Fiat per Pomigliano d’Arco, già accettata dagli altri sindacati. «Sarà la prova generale per eliminare il sindacato».
di Luigina Venturelli
Tutti gli occhi sono puntati sulla Fiom, che oggi si esprimerà in via definitiva sulla proposta della Fiat per Pomigliano d’Arco, già accettata dalle altre organizzazioni sindacali: 700 milioni d’investimenti e 5mila posti di lavoro al prezzo di un accordo che farebbe delllo stabilimento campano «una zona franca dal contratto nazionale, dalle leggi e perfino dalla Costituzione».
LA SVOLTA ATTESA
Il comitato centrale delle tute blu Cgil non dovrebbe riservare sorprese: ribadirà il suo giudizio negativo sul documento del Lingotto e sfiderà l’azienda a trattare dei reali problemi d’efficienza e produttività della fabbrica. Ma attirerà comunque l’attenzione di certo mondo politico ed economico che, archiviata la decisione della Fiom, preparano «una svolta nelle relazioni industriali italiane». Così l’aveva definita il ministro del Lavoro Maurizio Sacconi, presto superato in fantasia dal collega Giulio Tremonti che ieri, dal palco della festa nazionale della Cisl, l’ha ribattezzata «economia sociale di mercato», ovvero «la via giusta da seguire, quella di Pomigliano». Non a caso, racconta Enzo Masini, responsabile auto dei metalmeccanici Cgil, «decine di grandi gruppi industriali stanno aspettando di vedere che cosa succede e come si comporterà la Fiat, per poi fare altrettanto».
LE CLAUSOLE VESSATORIE
Per capirne meglio la sostanza, è necessario addentrarsi nei dettagli della proposta Fiat, tra le condizioni che il gruppo torinese ritiene irrinunciabili per produrre automobili sul suolo italiano e che il sindacato dei metalmeccanici Cgil giudica «inaccettabili». La più eclatante è quella che introduce provvedimenti disciplinari fino al licenziamento per il lavoratore che aderisce a uno sciopero che, in qualsiasi modo, metta in discussione l’accordo. Ad esempio perchè contesta i ritmi di lavoro o gli straordinari: «La valutazione è a totale discrezione dell’azienda, che in questo modo deroga all’articolo 40 della nostra Costituzione» spiega il responsabile auto della Fiom, Enzo Masini.
Una disposizione che va di pari passo con le sanzioni per i singoli sindacati e le singole Rsu che proclamino le suddette iniziative di lotta. Azzardo per il quale saranno puntite con il blocco dei versamenti dei contributi sindacali e la sospensione dei permessi sindacali previsti dalla legge 300 del 1970, anche detta Statuto dei lavoratori. Ed ancora: quando si verificheranno picchi di assenteismo anomalo, l’azienda non pagherà la quota di malattia che le impone il contratto nazionale, «come se già non avesse tutti gli strumenti per fare controlli e punire gli abusi». Né pagherà i tre giorni trascorsi al seggio elettorale dai rappresentanti di lista, come invece vorrebbe la legge elettorale. Infine, il testo Fiat deroga alla legge 66/03 che recepisce la direttiva Ue in materia di orari di lavoro, e richiede di lavorare anche otto ore consecutive senza la mezz’ora di pausa per la mensa, contata come straordinario. Ecco il nuovo corso sognato dalla Confindustria e dal governo. E di cui «Pomigliano sarà solo la prova generale».
L’INVITO DI EPIFANI
Per questo la Fiom oggi rinnoverà il suo no. Nonostante le parole più concilianti del segretario generale della Cgil: «Pomigliano non ha alternative. Napoli non ha alternative sul suo territorio. Servono occupazione, sviluppo e investimenti» ha rilevato ieri Guglielmo Epifani, dalla festa Cisl, ricordando anche la decisione del Lingotto di dismettere Termini Imerese. Ma Enzo Masini non ha dubbi: «Se qualcuno in Cgil non l’avesse capito, questa è la prova generale per ucciderci come sindacato, per annullare la presenza sindacale sui posti di lavoro».
l’Unità 14.6.10
Durante il Ventennio scioperare era un crimine contro lo Stato
Indietro di 40 anni
tutto in nome della produttività
Nel 2010 la Costituzione e lo Statuto dei lavoratori sono diventate figure mitologiche. Con l’accordo Fiat si registra l’attacco all’articolo 40, quello che tutela il diritto di sciopero
di G. Civati e M. Ruffini
Sembra che l’Italia stia facendo di tutto per spostare le lancette dell’orologio indietro di una quarantina d’anni. E così ci troviamo di slancio in un’epoca precedente al 1970, quando un Parlamento incalzato dai sindacati fu portato ad approvare lo Statuto dei lavoratori. Ma non ci basta, no: rischiamo di scivolare ancora più indietro, quando durante un altro Ventennio, il codice penale considerava lo sciopero come un reato, come un crimine verso l’azienda e verso il Paese.
Con l’avvento della Repubblica democratica fondata sul lavoro, i Costituenti si resero conto che, «se è vero che lo Stato è chiamato a tutelare il lavoro, con ciò non si esclude che anche la classe lavoratrice possa tutelare essa pure direttamente il lavoro» (Ghidini). Tutti i Costituenti, e non solo quelli che militavano nel Pci, ritennero «urgente ed indispensabile che una legge» riconoscesse «il diritto di sciopero dei lavoratori, abrogando i divieti fascisti in materia» (Fanfani) e vollero affermare come diritto «quello che il fascismo definiva a torto delitto» (Merlin). Perché il diritto di sciopero «non è altro che la logica derivazione del diritto alla legittima difesa, non è che una triste necessaria conseguenza di un rapporto di forza (...) fra capitale e lavoro» (Taviani). Era questo il clima in cui fu approvato l’art. 40 della Costituzione.
Ora siamo nel 2010 e la Costituzione e lo Statuto dei lavoratori sono diventate figure mitologiche rimpiante con nostalgia da qualche romantico isolato. Annuncio dopo annuncio, proclama dopo proclama, di quelle conquiste rischiamo che non rimanga più neanche il ricordo. Così, assistiamo increduli alla nuova stagione ricostituente che si sta consumando a Pomigliano: dopo l’attacco (retorico) della scorsa settimana all’articolo 41 della Costituzione italiana, ora dobbiamo registrare l’attacco (effettivo) all’articolo 40. Un articolo al giorno leva la Costituzione di torno.
Un invito alla responsabilità è stato rivolto dall’azienda ai lavoratori. E i lavoratori della Fiat questo caloroso appello l’hanno raccolto e hanno accettato una profonda riorganizzazione e l’intensificazione dei turni di lavoro, compreso il sabato notte. Ma, anche in questo caso, non bastava: ci voleva anche la compressione del diritto di sciopero.
Tutto all’insegna della modernizzazione e della produttività, ovviamente. E di una riforma dello Statuto dei lavoratori, che forse in futuro non sarà nemmeno necessaria: perché dello Statuto e degli opportuni riferimenti costituzionali si può anche fare a meno. A Pomigliano e nel resto del Paese.
l’Unità 14.6.10
Pomigliano, così muore il contratto
di Bruno Ugolini
È in atto l’agonia del contratto nazionale. Stanno infatti addensandosi, per iniziativa del centrodestra, una serie di “deroghe” che lentamente svuotano quel sistema che univa il mondo del lavoro. Per la felicità di quanti (vedi la Lega) perseguono condizioni di lavoro differenziate tra Nord e Sud.
Ora, col caso Pomigliano, c’è qualcosa di più e ministri e commentatori esultano per la svolta storica. Non consiste solo nelle “deroghe” al contratto nazionale per rendere quella Fiat competitiva. Stavolta c’è la deroga a un diritto costituzionale, quello riferito al diritto di sciopero. Un diritto non in mano al sindacato ma all’individuo. Un’abolizione richiesta non per qualche mese ma per sempre. Un precedente. Poi magari sarà la volta di un’azienda chimica o di un’azienda editoriale, quella dove magari lavorano tanti solerti commentatori. Un atto motivato dalla crisi perché le ristrutturazioni comporterebbero l’assoluta pace sociale, non trattative o confronti. Non ci state? Portiamo la fabbrica in Polonia. La Fiom sembra la più ostinata nel rifiuto e cerca un’alternativa, una via d’uscita. Non intende essere additata alla pubblica gogna. Un semplice, netto rifiuto cambierebbe lo stato delle cose? Forse la Fiat procederebbe comunque nei suoi intenti accontentandosi di un accordo separato oppure dirotterebbe i promessi investimenti all’Est. L’annunciato referendum potrebbe poi far prevalere tra i lavoratori, intimoriti, una disponibilità ad accettare il ricatto.
Una morsa infernale. La posta in gioco è altissima. L’attacco alla Costituzione parte da Palazzo Chigi, arriva ai convegni dei giovani industriali, arriva alle imprese che annaspano e cercano ricette facili. Come se l’assenza del conflitto coincidesse con l’efficienza (non siamo certo all’epoca della conflittualità permanente o dell’assenteismo esasperato). E come se davvero si potesse impedire il conflitto (sta esplodendo persino in Cina). Forse i sindacati metalmeccanici avrebbero potuto proporre un periodo di tregua garantita, limitata nel tempo (la Fim aveva fatto un passo in tal senso, subito evitato dalla Fiat) e attestarsi su quella indicazione. L’iniziativa sarebbe apparsa forte e autorevole, se sostenuta unitariamente, con la capacità di uscire dalla forbice tra acquiescenza e rifiuto.
C’è anche chi pensa che quella in corso sia una sceneggiata. Il destino di Pomigliano sarebbe già stato segnato e non resterebbe che trovare un capro espiatorio, ovverosia la maledetta Fiom. Una ragione di più per non concedere alcun alibi in tal senso. Che Marchionne scopra le sue carte. Con la consapevolezza che, del resto, nessuna intesa aziendale può seppellire il diritto di sciopero. Non lo fu nemmeno nel 1943.
l’Unità 14.6.10
Dopo la manifestazione di sabato
Ora lo sciopero generale
Ed ora lo sciopero generale. Dopo il grande successo della manifestazione nazionale di sabato scorso, la CGIL prosegue nella mobilitazione contro la cosiddetta manovra “correttiva” che nei prossimi giorni sarà discussa in Parlamento e sulla quale è assai probabile che l’esecutivo ponga la fiducia, blindando così un complesso di misure sbagliato e iniquo. Lo sciopero generale (per l’intera giornata per i lavoratori pubblici, quattro ore per i privati) è stato proclamato dalla CGIL per venerdì 25 giugno, ma si svolgerà venerdì 2 luglio in Liguria, Toscana e Piemonte. Nel recente Comitato direttivo della confederazione, il segretario generale Guglielmo Epifani ha sottolineato come il sindacato sia convinto che i conti pubblici debbano tornare in equilibrio, ma il dl n. 78, e anche i contenuti annunciati del maxiemendamento che il governo si accinge a presentare in aula, sono del tutto insufficienti. Le critiche di Epifani sono chiare, di merito: non vi sono i provvedimenti chiesti dalla CGIL a sostegno dell’occupazione, della crescita e dello sviluppo. Non si accetta il dialogo su un’ipotesi di manovra alternativa. Al contrario, i costi della crisi vengono tutti scaricati sui lavoratori dipendenti, pubblici e privati, sulle regioni, sugli enti locali (con pesanti conseguenze sui servizi e sui trasporti), sulla ricerca e la cultura, sulla formazione e la scuola, sulle pensioni, sugli invalidi, in buona sostanza sui cittadini più esposti. La manovra – afferma la CGIL – è iniqua al Nord come nel Mezzogiorno; colpisce tanto i giovani quanto i pensionati; sottrae risorse alla parte più debole del paese. Una scelta di campo, quella del governo, che non tocca in alcun modo quel dieci per cento di italiani che detengono il 45 per cento della ricchezza nazionale e non riguarda i top manager pubblici e privati. Tutti costoro, compreso il sistema delle imprese, non pagheranno un euro in più. La verità, come afferma il documento approvato dal Direttivo della CGIL, è che la condizione deficita-
ria dei conti pubblici italiani non è stata dettata solo dalla crisi e dalla congiuntura internazionale, ma principalmente dagli errori commessi nella gestione della finanza pubblica e dalla scelte di politica economica compiute dall’attuale governo, in un contesto di subalternità della stessa Confindustria. Non è con i tagli “lineari” alla spesa pubblica – rileva la CGIL – che si esce dalla crisi. Senza una politica per la crescita e per l’occupazione, il rischio è di dovere decidere a breve una nuova manovra “correttiva”. La CGIL rilancia le sue proposte di rifinanziamento degli ammortizzatori in deroga, di riforma del sistema di sostegno al lavoro e alla piena occupazione. Il sindacato ricorda anche come in molti paesi euro-
pei i sindacati stiano programmando iniziative di protesta e di lotta unitarie. “Se nel nostro paese Cisl e Uil si rendessero disponibili ad una mobilitazione unitaria – afferma il documento del Direttivo – tutto il sindacato sarebbe più forte nel contrastare e cambiare una manovra tanto ingiusta e iniqua”.
La CGIL ha ribadito anche la propria contrarietà alla controriforma del diritto del lavoro e al disegno di legge sulle intercettazioni manifestando la disponibilità ad organizzare iniziative unitarie di mobilitazione in accordo con gli operatori della sicurezza, con i magistrati e i giornalisti e con le associazioni e i movimenti della società civile.
Repubblica 14.6.10
Tremonti: addio conflitti sul lavoro Pomigliano sarà un modello per tutti
Turni duri e scioperi limitati. Epifani: Napoli senza alternative
"Via all´economia sociale di mercato" Oggi si pronuncia la Fiom. Cambia lo Statuto lavoratori
di Adriano Bonafede
ROMA - Tremonti benedice l´accordo tra Fiat e sindacati sullo stabilimento di Pomigliano già firmato da Cisl e Uil. «Con la globalizzazione - ha detto ieri il ministro dell´Economia alla festa della Cisl - è finito il conflitto tra capitale e lavoro. Io, tra la dialettica continua di questo conflitto e l´economia sociale di mercato, non ho dubbi: la via giusta è quella dell´economia sociale di mercato, quella di Pomigliano». Questa intesa è stata dunque additata come esempio di quelle che dovrebbero essere in futuro le relazioni tra le imprese e i lavoratori: pochi regole comuni nei contratti nazionali e tutto il resto demandato a contratti locali, settoriali e aziendali, come dirà lo Statuto dei lavori che sostituirà lo Statuto dei lavoratori.
Sulla vicenda di Pomigliano è poi intervenuto Guglielmo Epifani, anche lui invitato alla festa della Cisl. In attesa che oggi si pronunci il Comitato centrale della Fiom - che venerdì sera non ha firmato il documento proposto dal Lingotto respingendolo come un "diktat" - il segretario generale della Cgil non si è sottratto al confronto. E ha riconosciuto che «Pomigliano non ha alternative. Napoli non ha alternative sul suo territorio. Servono occupazione, sviluppo e investimenti». Perché, ha spiegato, «se non dicessimo questo saremmo in contrasto con tutto ciò che abbiamo fatto in passato, con gli scioperi, le mobilitazioni con i giovani, con la Chiesa. Già altre volte la Fiat aveva ipotizzato la chiusura, ma siamo sempre riusciti a far restare la produzione». Epifani ha anche chiesto di «non dimenticare neppure Termini Imerese. Nemmeno qui c´è altro».
L´intervento di Epifani sembra aprire la strada a un atteggiamento possibilista da parte della Cgil verso un accordo che per molti versi rappresenta una svolta nella storia delle relazioni industriali. Vediamolo da vicino. Secondo il piano della Fiat tutti dovranno lavorare a rotazione su tre turni giornalieri di otto ore, e solo l´ultima mezz´ora sarà dedicata alla refezione. Inoltre, la settimana lavorativa sarà alternativamente di sei e di quattro giorni, mentre l´azienda potrà richiedere 80 ore di straordinario annuale a persona senza bisogno di preventivo accordo sindacale e con un minimo preavviso. Capisaldi di questa intesa sono anche la contrazione della pausa da 40 a 30 minuti e il possibile recupero di perdite di produzione dovute a qualsiasi motivo anche nella mezz´ora di fine turno o nei giorni di riposo. L´altro elemento qualificante dell´accordo è un minuzioso controllo tramite computer per calcolare e verificare i movimenti che un operaio deve compiere.
Se Pomigliano viene salutato da Tremonti come un nuovo e positivo modello di relazioni industriali, dal Pd segnali di preoccupazione. «La discussione in cui è impegnata una parte del sindacato - ha detto Stefano Fassina, responsabile economico del Pd - è una discussione seria, perché la soluzione Fiat a Pomigliano mette in primo piano un´acuta contraddizione tra occupazione e diritti dei lavoratori. La competitività delle imprese è importante, ma i diritti e la dignità del lavoro non possono essere la variabile compensativa delle rendite e degli interessi corporativi difesi dalla destra di Sacconi, Tremonti e Berlusconi». Fassina auspica comunque «che il senso di responsabilità prevalga e l´investimento Fiat vada avanti come previsto. Tuttavia il governo rischia di dare una pericolosa dimensione politica alla richiesta di deroghe sul diritto di sciopero incluse nel documento conclusivo della casa automobilistica».
Repubblica 14.6.10
Un dilemma storico per la Cgil salvare i posti rinunciando ai diritti
Ma il vertice promuove i tempi di produzione giapponesi
Attesi il giudizio sul piano Fiat, la decisione sul referendum e la indicazione di voto
di Roberto Mania
ROMA - I loro nomi ai più non dicono nulla. Ma Michele Gravano e Peppe Errico potrebbero diventare i sindacalisti chiave nella delicatissima vicenda per la sopravvivenza dello stabilimento della Fiat a Pomigliano d´Arco. Il primo è il segretario della Cgil Campania, il secondo di quella di Napoli. Entrambi sono ex operai proprio di Pomigliano. Due giorni fa hanno rilasciato una dichiarazione congiunta diretta ai «compagni» della Fiom: «E´ il momento di assumersi le responsabilità all´altezza della storia della Cgil meridionale».
Difficile pensare che quelle parole non siano state concordate con i vertici romani di Corso d´Italia. E infatti il senso delle affermazioni pronunciate ieri dal leader della Cgil, Guglielmo Epifani, stanno lungo quel tracciato: «Pomigliano non ha alternative. Servono occupazione, sviluppo e investimenti». Insomma non può essere la Cgil a «chiudere» definitivamente i cancelli della fabbrica campana, dopo che gli altri sindacati hanno aderito alla proposta dell´azienda. Eppure le incognite restano. E sono tante. Oggi si riuniscono la segreteria della Cgil e il Comitato centrale della Fiom che dovrà decidere se accettare il piano della Fiat, se partecipare al referendum tra i lavoratori, se dare il sì o il no come indicazione di voto. La «tripla» più difficile da decenni per i metalmeccanici fiommini. Potrebbe arrivare una clamorosa spaccatura interna insieme alla sconfessione della linea da parte della stessa confederazione dopo il messaggio, per quanto cauto, di Epifani. Di certo la vertenza Pomigliano è diventata il paradigma di un nuovo modello di relazioni industriali. L´ha detto il ministro del Lavoro, Maurizio Sacconi, ne è convinta la presidente della Confindustria, Emma Marcegaglia. Lo sanno la Cisl e la Uil di Raffaele Bonanni e Luigi Angeletti. Il Lingotto fa da apripista come già accadde nel 1980 con la «marcia dei quarantamila» per le vie di Torino che infilò i sindacati in una profonda e lunga crisi di rappresentatività e cambiò per decenni i rapporti di forza, come si diceva all´epoca, tra capitale e lavoro.
L´italo-canadese Sergio Marchionne detesta i rituali del nostro sindacalismo, ma è un abile negoziatore: ha piegato la General Motors nello scontro sulla cosiddetta «put», poi ha inchiodato i potenti sindacati americani dell´auto ad accettare durissimi sacrifici per non abbandonare al fallimento la Chrysler, ora ha lasciato nelle mani dei conflittualisti della Fiom il cerino di Pomigliano. Prendere. O lasciare che la Panda continui ad essere prodotta in Polonia a Tichy, dove la produttività è alta e la difettosità bassa, cioè l´opposto di Pomigliano dove proprio Marchionne tentò nel 2007, ma con risultati insufficienti, la «rieducazione» dei 5.000 addetti ai nuovi canoni della produzione automobilistica, quelli della world class manufacturing ispirati dal giapponese Hajime Yamashina. Ora ci riprova.
Marchionne ha messo sul tavolo 700 milioni di investimento, la conferma dei posti di lavoro (15 mila con l´indotto). Ma ha chiesto più turni di lavoro, meno pause, più straordinari obbligatori, l´azzeramento dell´anomalo assenteismo in occasione degli appuntamenti elettorali. E anche la limitazione del diritto di sciopero e al pagamento dei primi giorni di malattia. Un pacchetto da prendere tutto insieme o da lasciare sul tavolo, mentre la crisi sta decimando posti di lavoro. Questo è il dilemma di Epifani che ben sa come il ricorso al referendum possa trasformarsi in una grande sconfitta per la Cgil: chi potrà votare a favore del proprio licenziamento?
La matassa è complessa e intricata. La proposta di Marchionne deroga al contratto nazionale e anche alla legge. La Cgil pensa che possa violare addirittura la Costituzione laddove sanziona gli scioperanti. Epifani ha chiesto un parere ai suoi giuristi che dubitano si possa fare un referendum sindacale su quei temi. Però - e non è di poco conto - Epifani ha sostanzialmente detto sì alla nuova organizzazione del lavoro. Ora scommette sui due anni entro i quali andrà a regime il piano di Torino. Una tattica attendista che mal si concilia con il rapido decisionismo di Marchionne.
Repubblica 14.6.10
La democrazia bendata
di Adriano Prosperi
Con la legge sulle intercettazioni sta passando in Italia una aggressione senza precedenti a due pilastri dello stato di diritto: l´uguaglianza dei cittadini davanti alla legge e la libertà di informazione e di opinione. La legge varata dal Senato tura le orecchie della giustizia.
E tura gli occhi dei cittadini davanti alle prove della criminalità più influente e pericolosa, quella del potere politico. Si scioglie il vincolo che lega il diritto e lo Stato: come ha scritto lo storico Wolfgang Reinhard nella sua Storia dello Stato moderno (Il Mulino, 2010), in origine il diritto e lo Stato non avevano lo stretto legame che oggi li unisce: per il diritto contava la giustizia, per lo stato contava il potere. Il legame si scioglie quando l´uso brutale o astuto del potere fa del diritto uno strumento unilaterale di dominio e ne cancella la componente "dal basso", cioè le convinzioni morali e le consuetudini diffuse nella società.
Oggi l´Italia mostra al mondo come si fa a dissolvere lo Stato di diritto senza ricorrere alla violenza, senza bisogno di quel "rumore di sciabole" che abbiamo tante volte creduto di sentire nel cinquantennio passato. L´argomento del potere è il mandato popolare a governare, ricevuto in sede elettorale e confermato dai sondaggi. La domanda da porsi è dunque una sola: poiché viviamo in un sistema formalmente democratico e non ci sono carri armati per le strade, che cosa impedisce una reazione da parte dell´opinione pubblica? È evidente infatti che senza un movimento forte e diffuso gli argini opposti dalla Carta costituzionale sono fragile difesa. Non per niente la mossa successiva già annunciata dal presidente del Consiglio è la modifica della Costituzione. Il che mostra quanto sia semplice e prevedibile il canovaccio a cui obbedisce lo scenario che stiamo vivendo.
La sovranità popolare affermata dalla Costituzione è una finzione giuridica: il popolo sovrano resta anche in Italia un principe senza scettro, come scrisse a suo tempo Lelio Basso. Basta una situazione di emergenza perché il potere politico faccia straccio della Costituzione, abolendola formalmente oppure logorandola e diffamandola ogni giorno (come oggi accade) tanto da farla morire nelle coscienze prima di sovvertirla formalmente. La situazione di emergenza in Italia c´è. La crisi finanziaria ha prodotto disoccupazione, tagli unilaterali dei servizi sociali, pressione sulle fasce più deboli (giovani, donne, lavoratori dipendenti). L´unità stessa del paese è sempre più una finzione, insidiata com´è dal progettato federalismo fiscale e prima ancora da un´ondata di egoismo locale che ha visto trionfare sotto etichette diverse il modello della Lega. Il consenso generale che premiò l´adesione dell´Italia all´euro esprimeva una speranza oggi languente: che al di là delle deficienze di legalità e di moralità del Paese si potesse investire nella costruzione di una grande realtà politica dotata di quella salda coscienza di sé e di quella più alta tradizione statale e giuridica che faceva difetto all´Italia.
Oggi l´ideale europeistico è offuscato. Da noi il vincolo di identificazione del cittadino col Paese, tradizionalmente debole, è intaccato da un´assidua picconatura del principio stesso di legalità: condoni, sanatorie, "scudi" per evasori, libertinismo e corruzione come metodo e sostanza del governare. Questo ci dà la risposta alla domanda iniziale: la coscienza civile del paese è oggi ridotta allo stremo, esposta – come in un celebre racconto di Mark Twain – a subìre il colpo di grazia. Dopo di che gli autori del delitto potranno governare nella definitiva sicurezza dell´impunità. Ci sono speranze che questo non accada? Le leggi fondamentali di un Paese vivono finché è desto e vigile lo spirito che le ha create. In Germania, paese che ha fatto tragica esperienza di quanto fragile fosse l´argine della Costituzione di Weimar, la Legge fondamentale del secondo dopoguerra ha previsto il diritto dei cittadini alla resistenza in difesa della costituzione (art.20, c. IV). Ma non ci facciamo illusioni: anche in questo caso si tratta di un muro di carta. La resistenza ha da essere un movimento di massa consapevole e ben guidato. E potrebbe guidarla oggi solo una opposizione che, cancellando le divisioni e i conflitti di gruppi dirigenti, si mostrasse finalmente capace di parlare al cuore del paese, risvegliando una coscienza civile che, per essere stata anestetizzata, corrotta, e addormentata, non è ancor morta.
l’Unità 14.6.10
Alfano: «Riforma della giustizia a settembre»
Pd: la Carta non si tocca
Coro di no alla proposta del Guardasigilli che vuole creare due Csm e separare le carriere. Contraria anche l’Udc: non sia una punizione per le toghe, Via libera da Cota: si deve fare
di A. C.
Ancora immersi fino al collo nella legge bavaglio, e in attesa del via libera al nuovo super lodo salva premier, Berlusconi e Alfano lanciano la riforma della Giustizia. «Grande, grande», l’ha più volte definita il premier-chansonnier. Ieri il fedele Guardasigilli si è incaricato di indicare al Corriere della Sera titoli e tempi della modifica costituzionale. «Io sono pronto, a settembre la presento», ha spiegato. Cosa cambierà? «La separazione degli ordini tra pm e giudicanti, con percorsi professionali separati fin dall’inizio»; la creazione di due Csm e di un meccanismo disciplinare che risolva il problema di una giustizia troppo domestica». «La voteremo presto, per varare la Bicamerale di D’Alema ci vollero quattro mesi». Nulla di particolarmente nuovo, a dire la verità. Così come non è nuovo il progetto del premier di sottoporre i pm all’esecutivo, ribadito venerdì sera in una cena con i suoi giovani fans.
Alfano per ora raccoglie soprattutto critiche, tranne lo scontato via libera degli avvocati e il plauso di Bondi. Critiche persino dall’Udc, che su questi temi era sempre stata piuttosto in sintonia col Cavaliere. Dal Pd arriva un no secco:«Siamo contro ogni modifica della Costituzione su questi temi, in particolare diciamo no alle ipotesi di due Csm e di separare ulteriormente le carriere dei magistrati, già oggi nettamente distinte», dice il responsabile Giustizia del Pd Andrea Orlando. Contrarissima l’Idv, con Donadi che ironizza: «Affidare la riforma della giustizia a Berlusconi sarebbe come affidare al lupo di Cappuccetto Rosso la salvaguardia dei boschi».
Ma è dall’Udc che arriva il no che non ci si aspettava, almeno non così netto: «La riforma non sia una sorta di punizione verso i magistrati. Non servono nuovi spot e promesse, serve una riforma che metta al centro i cittadini, che chiedono un sistema giudiziario efficiente», dice Roberto Rao.
Tace per ora l’Anm, parlano diversi membri del Csm. «Nulla di nuovo, sempre e solo un’idea ritorsiva contro i magistrati», dice Livio Pepino (Magistratura democratica). «La separazione delle carriere e la duplicazione del Csm sono inutili», taglia corto Antonio Patrono (Magistratura indipendente). «Sono sempre annunci, quando ci saranno dei testi ragioneremo», dice Fabio Roia di Unicost. Mario Fresa di Movimento per la Giustizia dice no a «interventi di spaccatura che non migliorerebbero di un giorno la durata dei processi». E avverte il ministro: «Tra venti giorni ci sono le elezioni per rinnovare il Csm, dunque la sua riforma entrerebbe in vigore solo tra 4 anni...».
Dalla Lega, ormai sempre più allineata al Cavaliere sui temi della giustizia, arriva il via libera di Cota: «La riforma era prevista e va fatta, la maggioranza ha la compattezza per farla».
Comunicato-stampa
LO SCIOPERO DEGLI SCRUTINI DILAGA NELLE PRIME 7 REGIONI OLTRE 5000 SCRUTINI BLOCCATI
IL 14 E 15 SCIOPERANO TUTTE LE ALTRE REGIONI IL 14 (ore 10) MANIFESTAZIONE A ROMA DAVANTI AL MINISTERO
Con nuove e dilaganti adesioni si è concluso il „primo tempo‰ della lotta in difesa della scuola che ha coinvolto sette Regioni: ed il successo è stato così clamoroso da costringerci ad aggiornarne le cifre di ora in ora. Anche se ci mancano i dati da tante piccole realtà ove i COBAS non sono presenti, il bilancio finale è già di oltre 5000 scrutini bloccati, con l‚Emilia-Romagna che supera i 1500 blocchi, il Veneto oltre i mille, la Sardegna intorno ai 1200 e Umbria, Marche, Puglia e Calabria, insieme, intorno ai 1300. La ferocia sociale e politica di Crudelia Tremont‚ (e della sua spalla Gelmini) ha colpito in primo luogo (senza sottovalutare l‚attacco a tutto il PI e ai servizi sociali) la scuola, già martoriata e umiliata nell‚ultimo quindicennio da tutti i governi, con 41 mila posti di lavoro cancellati, l‚espulsione in massa dei precari e con una Finanziaria-massacro che provoca per docenti ed ATA una perdita economica senza precedenti. Il blocco per tre anni degli scatti di anzianità significa un furto medio di 30 mila euro nell‚arco della l‚intera carriera lavorativa, con massimi di 45 mila (90 milioni di vecchie lire!!) e con un introito iperbolico nelle casse statali di oltre 20 miliardi; ed il furto cresce ancora di migliaia di euro a causa del blocco contrattuale. Un tale nugolo di „mazzate‰ sta facendo dilagare lo sciopero: le adesioni si ingigantiscono di ora in ora e sfuggono ad un conteggio preciso perchè coinvolgono non solo i lavoratori/trici COBAS ma anche molti docenti ed Ata dei sindacati che avevano dichiarato „inutile‰ lo sciopero (ad esempio la FLC, il cui segretario Pantaleo ha invitato a non farlo, battendo poi ogni record di „inutilità‰, con la convocazione di uno sciopero a fine giugno) e tanti colleghi/e non sindacalizzati; e va ricordato che alle migliaia di scioperanti „diretti‰ si aggiungono tanti lavoratori/trici che partecipano alle Casse di Resistenza per risarcire gli scioperanti della trattenuta. Da domani inizierà il „secondo tempo‰. Lo sciopero dilagherà nelle Regioni più grandi come Piemonte, Lombardia, Toscana, Lazio, Campania, Sicilia, oltre a Liguria, Valle d‚Aosta, Friuli Venezia- Giulia, Abruzzo, Molise, Basilicata e la Provincia di Bolzano. Nel Lazio e in Sicilia la crescita delle adesioni è travolgente, oltre le previsioni degli ultimi giorni: in entrambe le regioni gli ultimi dati sono di circa 2000 scrutini bloccati (solo a Roma si supererà il migliaio) ; Campania, Piemonte, Toscana e Lombardia avranno tra i 1000 e i 1300 blocchi; circa 700 la Liguria e 500 l‚Abruzzo: e la previsione nazionale complessiva, per quanto incompleta a causa della tumultuosa crescita delle adesioni, va ben oltre i 15 mila blocchi, avvicinandosi molto ai 20 mila. Anche tali scioperi saranno accompagnati da dimostrazioni di piazza. A Roma si manifesterà il 14 giugno (ore 10) davanti al Ministero di Viale Trastevere. Ricordiamo che i COBAS chiedono che si cancellino i 41 mila tagli e la Finanziaria-massacro, il blocco degli scatti „di anzianità‰ e dei contratti, il furto delle liquidazioni e l‚allungamento dell‚età pensionabile, in particolare a 65 anni per le donne; e vogliono l‚assunzione a tempo indeterminato dei precari/e, massicci investimenti nella scuola pubblica per il funzionamento degli istituti, l‚annullamento della „riforma‰ delle superiori, la restituzione a tutti/e del diritto di assemblea.
Piero Bernocchi portavoce nazionale COBAS
Roma, 13 giugno 2010
Roma, 13 giugno 2010
l’Unità 14.6.10
Sarebbero quattro i parroci coinvolti. Uno di loro già condannato a tre anni di reclusione
Allertata la procura Nell’indagine del vescovo Caliandro violenze e relazioni sentimentali
Sesso, molestie e pedofilia, un dossier fa tremare la Diocesi Gallipoli-Nardo
di Ivan Cimarrusti
Un documento scottante sul tavolo del vescovo Caliandro. I fatti ricostruiti iniziano nel 2001 e raccontano di casi di molestie sessuali su minori, di relazioni sentimentali e violenze. Un parroco già condannato.
Ci sarebbero vere e proprie violenze sessuali, molestie, inviti ad appartarsi in luoghi isolati, relazioni segrete e, addirittura, l’invito ad un pastorello di 15 anni ad avere un rapporto omosessuale. Di questo sono accusati quattro sacerdoti della diocesi di Gallipoli-Nardò, in provincia di Lecce, finiti in un’ampia indagine del vescovo Domenico Caliandro nata da numerose segnalazioni di parrocchiani, vittime dei presunti abusi sessuali. Una vicenda che sta sconvolgendo tutta la comunità cattolica Salentina e che presto potrebbe giungere sulla scrivania del procuratore capo di Lecce, Cataldo Motta. «Al momento non ci è stato depositato nulla dalla diocesi – spiega il procuratore – Bisogna, inoltre, capire se si tratta di reati (a sfondo sessuale, ndr) procedibili d’ufficio. Vedremo domani (oggi, ndr)».
ANNI DI MOLESTIE
E’ certo che nelle mani del vescovo c’è un ampio dossier, composto da numerose testimonianze delle presunte vittime degli abusi sessuali. Fatti che, secondo indiscrezioni che trapelano dalla diocesi, sarebbero avvenuti fin dal 2001. Il dossier è top secret, ma è certo che all’attenzione del vescovo ci sono quattro sacerdoti che avrebbero compiuto «insidie su fedeli e parrocchiani – come spiegano dalla diocesi – venendo meno ai loro precetti». Ma non solo questo. Un anziano prete avrebbe molestato un minore ed un altro avrebbe, addirittura, fatto vere e proprie violenze sessuali su un altro. Un terzo parroco, invece, avrebbe avuto una relazione segreta con una donna di 30 anni.
DON ENZO GRECO
Nell’incartamento ecclesiastico, a quanto è dato sapere, una parte riguarderebbe il quarto sacerdote. Don Enzo Greco, parroco della chiesa di Santa Caterina a Nardò e professore in una scuola media dello stesso paese, avrebbe molestato sessualmente un pastorello di 15 anni. Il parroco è stato condannato nei primi mesi del 2009 a tre anni e sei mesi di carcere per tentata violenza sessuale e atti osceni. I fatti sarebbero cominciati nel 2001, quando il piccolo pastorello sarebbe stato avvicinato dal prete, il quale avrebbe cominciato una vera e propria pressione prolungata negli anni per avere rapporti sessuali con lui. Secondo la denuncia del pastorello, che ha trovato piena conferma nelle indagini della Procura della Repubblica, il prete gli
avrebbe messo in mano alcune riviste pornografiche, invitandolo a salire sulla sua automobile. Una richiesta che terrorizzò il ragazzino, il quale riuscì a scappare. Pochi giorni dopo, però, il parroco sarebbe tornato dal pastorello con un uomo di colore e gli avrebbe chiesto, ancora una volta, di avere rapporti sessuali con entrambi. «Una costante presenza nella mia vita», disse a verbale il pastorello nel corso del lungo processo celebrato a porte chiuse. «Chiesi l’intervento di mio padre», il quale in un’occasione era quasi riuscito a bloccare il prete che, però, riuscì fuggire. Da quel momento le presunte richieste si sarebbero fermate, fino alla morte del padre del pastorello. Dopo, il prete sarebbe tornato alla carica chiedendo al ragazzino di avere rapporti sessuali con lui e con altre persone sempre di sesso maschile. Tutte queste pressioni sarebbero state compiute per tre anni, fin quando la presunta vittima, ormai maggiorenne, raccontò tutto ai carabinieri che, dopo una serie di pedinamenti, colsero in flagranza di reato don Enzo Greco.
Il dossier, che al momento è nelle mani del vescovo Caliandro, presto potrebbe essere depositato alla Procura della Repubblica. Se i fatti accertati dalle indagini interne trovassero conferme in quelle degli inquirenti, potrebbero finire nel registro degli indagati almeno due anziani preti, per molestie e violenze sessuali su minori.
Repubblica 14.6.10
El País rivela la bozza delle nuove norme: stabiliscono la "neutralità religiosa" delle istituzioni
Spagna, pronta la legge sulla religione "Niente crocefissi e funerali di Stato cattolici"
di Omero Ciai
Il nuovo progetto in Parlamento dopo l´estate. Ancora in discussione l´articolo che regola l´uso del velo islamico
Via il crocefisso dalle aule scolastiche, dagli ospedali pubblici, dalle sedi amministrative, dai ministeri; e via il parroco dai funerali di Stato che non potranno più essere di rito cattolico. La bozza della nuova legge sulla "libertà religiosa" in Spagna - già annunciata dal premier Zapatero due anni fa - è pronta e ieri è stata rivelata da El País. Più che di "laicità" dello Stato, nella bozza, si esprime «la neutralità dei pubblici poteri di fronte alla religione e a qualsiasi altro credo, evitando qualsiasi confusione fra funzione pubblica e attività religiosa».
Riguardo ai funerali di Stato, El País propone l´esempio di quelli che si svolsero nel 2004 per le vittime degli attentati dell´11 marzo e ricorda che furono di rito cattolico nonostante tra i morti vi fossero numerosi musulmani. Con la nuova legge lo Stato potrà organizzare solo funerali civili, senza simboli religiosi. Mentre sul crocefisso la legge chiarisce che non potrà essere esposto (come nessun altro simbolo religioso) nei locali pubblici, esclusi quelli con un particolare valore storico, artistico o culturale. Fanno eccezione però i centri privati, anche nel caso in cui siano ampiamente finanziati con denaro pubblico, come le scuole o gli ospedali.
La nuova legge è composta da un totale di 37 articoli e si propone di rendere uguali di fronte allo Stato tutte le religioni presenti nel paese: in Spagna ci sono, oltre alla maggioranza di cattolici, 1,4 milioni di musulmani, un milione di protestanti e 600mila cristiani ortodossi insieme a comunità minori di ebrei, mormoni, buddisti e testimoni di Geova. Grazie agli accordi firmati con lo Stato spagnolo nel 1979 la Chiesa cattolica potrà ancora godere di alcuni privilegi, come quello di essere l´unica confessione alla quale i contribuenti possono attribuire lo 0,7 % delle tasse.
C´è, per ora, un solo spazio vuoto nella nuova legge e riguarda il velo islamico. La Commissione governativa che ha preparato la bozza non ha ancora deciso - scrive El País - «se regolerà o no con una norma i simboli religiosi individuali portati in uno spazio pubblico», come sarebbe appunto il velo in una scuola o in un ospedale. Fonti del governo vicine a Zapatero ammettono che nella Commissione sull´argomento prosegue il dibattito anche se il ministro della Giustizia spagnolo, Francisco Caamaño, si è espresso chiaramente a favore di una normativa. «È necessario precisare - ha detto - quali simboli religiosi di identificazione personale possono essere portati da un cittadino in uno spazio pubblico. In questi casi la legge dovrà essere chiara e dovrà applicare il senso comune e la tolleranza». La legge vigente per ora in Spagna, che risale al 1980, non chiarisce se portare il velo sia consentito oppure no negli spazi pubblici. La discussione in Parlamento della nuova legge inizierà solo dopo l´estate.