giovedì 17 giugno 2010

Agi 17.6.10
lo psichiatra Massimo Biondi, direttore del dipartimento di Scienze Psichiatriche e Medicina Psicologica della 'Sapienza' di Roma
Una svolta nella cultura psichiatrica: se e' decisivo "ridurre i tempi tra la comparsa dei sintomi di gravi disturbi non riconsciuti, le psicosi, e la diagnosi per la cura, e' anche importante
disporre di validi indizi come il sonno e i sogni per comprendere i vissuti del
paziente". Lo dice lo psichiatra Massimo Biondi, direttore del dipartimento di
Scienze Psichiatriche e Medicina Psicologica della 'Sapienza' di Roma,
all'indomani del terzo convegno annuale 'L'intervento precoce nelle psicosi, Un
cambio di paradigma' con i contributi di specialisti europei. "Un incontro
molto importante di riflessione, ricerca e scambio di esperienze - spiega
Biondi - Siamo una struttura che fa attivita' didattica e che vuole
confrontarsi con la cultura in movimento". Insomma, la psichiatria si
rinnova? "La diagnosi e' decisiva per evitare danni molto piu' grandi -
aggiunge - e la comparsa dei primi sintomi avviene nell'adolescenza: diciamo
che la fascia d'eta' a rischio e' tra i 16 e 30 anni, per cui prima si fa
diagnosi e s'interviene e meglio e'. Bisogna, secondo Biondi, "vincere una
certa disattenzione colpevole per cui si tende a sottovalutare l'esordio
precoce di sintomi che non trattati arrecano danni gravi".
Spesso questi esordi sono accompagnati dall'uso e
dall'abuso di sostanze. "Esattamente, puo' essere l'abuso di sostanze che porta
e scatena distrubi psichiatrici gravi - precisa Biondi - ma anche l'inverso
cioe' l'esordio dei primi sintomi spinge all'uso e all'abuso di sostanze: un
circolo vizioso che va assolutamente interrotto, cosi' come va posto uno stop
ad una ondata liberatoria per cui tutto sarebbe permesso". E non e' che serva
il proibizionismo, quanto un salto culturale. Insomma, si fa strada un nuovo
approccio alla malattia mentale che "c'e' ed esiste", sottolinea Biondi che pur
riconoscendo i meriti della legge 180, avverte che "la concezione che
presiedeva alla 180 e' un po' vecchiotta, oggi disponiamo di tante esperienze
nuove e di tanti studi ed acquisizioni". Importante dunque la diagnosi per la
cura: e altra novita' riguarda i sogni sinora appannaggio solo della
psicoanalisi. "Lo psichiatra e' in grado - conclude Biondi - di leggerli e di
interpretarli: i sogni contano molto, sono indizi validi per comprendere i
vissuti profondi del paziente, cosi' come e' importante il sonno e la sua
qualita'. Sogno e sonno poi sono in stretto rapporto con la memoria". Insomma,
lo psichiatra nella diagnosi considera sia il comportamento che i sogni e il
sonno.

l’Unità 17.6.10
Ieri manifestazione sotto la Regione. Dopo le aperture in campagna elettorale il dietrofront
Il decreto. Nuova burocrazia e richieste di verifiche per stoppare di fatto la somministrazione
Ru486, il Lazio si mobilita contro lo stop di Polverini
A Roma manifestazione indetta da Sel, Pd, Radicali, Rifondazione, Idv e Cgil sotto le finestre della Regione Lazio contro le scelte del governatore Polverini che hanno di fatto bloccato la somministrazione della RU486.
di Gioia Salvatori

«Ru486, liberatela». Con questo slogan ieri alcune decine di persone hanno manifestato sotto le finestre della Regione Lazio dove la neo-eletta governatrice Renata Polverini si è rimangiata le aperture della campagna elettorale per emanare un decreto che di fatto ha stoppato la somministrazione della pillola abortiva. Il provvedimento della governatrice, che è anche commissario alla sanità, è arrivato dopo l’uso, all’ospedale Grassi di Ostia, di una pillola abortiva. La Polverini impone all’Asp (agenzia di sanità pubblica) ̆di fare una ricognizione dei posti letto dedicati e delle strutture idonee alla somministrazione della pillola. Un modo goffo e macchinoso per proibire di fatto l’uso della Ru486, dicono Radicali, Sel, Pd, Cgil, Rifondazione e Idv, riuniti in protesta. «È evidente che tutti i reparti di interruzione volontaria di gravidanza dove si applica la 194 sono idonei a praticare l’aborto farmacologico e che è assurdo scrivere il numero dei posti letto dedicati: se nessuna donna si presenta in quel reparto per prendere la Ru486, che succede? Li lasciamo vuoti, i letti dedicati? L’Asp decida e decida subito, perché le donne vogliono la Ru486: in sei nel nostro ospedale avevano
già programmato un aborto farmacologico che dopo questo stop non potranno più fare», dice Elisabetta Canitano, ginecologa dell’ospedale Grassi e presidente dell’associazione promotrice del sit-in “Vita di Donna”.
TURISMO DA ABORTO
Ora la patata bollente è nelle mani del direttore generale dell’Asp Gabriella Guasticchi, già dirigente dell’agenzia ai tempi della giunta Storace. Mentre l’Asp è ancora silente, donne che odiano le donne verrebbe da dire, le pazienti emigrano in Toscana e Puglia per prendere la Ru486. Sottoposte a uno stress psicologico che solo loro possono raccontare e a rischi fisici: «Ieri sera ha telefonato in associazione una ragazza romana che è dovuta andare a Volterra per prendere la Ru486. Ha chiamato perché dopo la somministrazione non sapeva a chi votarsi per un problema insorto il giorno dopo aver ingerito la prima pillola. Tutte difficoltà ̆ che non ci sarebbero se una donna avesse vicino casa l’ospedale dove prendere la pillola», racconta la Canitano. A complicare il quadro c’è la politica, con la Polverini ancora in cerca di un accordo con l’Udc, a cui ha promesso e poi negato posti in giunta, le deleghe agli assessori ancora da riempire di competenze, le commissioni in consiglio ancora da fare e diverse dirigenze scoperte tra pensionamenti e dimissioni. Con la svolta pro-life che intanto avanza e il consigliere Olimpia Tarzia (Lp), segretaria romana del Movimento per la vita, bioeticista e fondatrice di “Scienza e vita”, ha già presentato una proposta di legge (sottoscritta anche da cinque consiglieri Pd di area popolare) che apre la strada ai volontari per la vita nei consultori. L’unica certezza è che in sanità si deve tagliare tanto che la Polverini ha già emanato una dozzina di decreti su tasse e posti letto; solo per la Ru486 non si baderà a spese di ricovero: «Una situazione ridicola», dicono i consiglieri Enzo Foschi (Pd) e Giulia Rodano (Idv). «La Polverini da un lato taglia i posti letto e decreta che quando possibile il ricovero ordinario va sostituito col day hospital, dall’altro chiede per la Ru486, che ovunque si prende in day hospital, tre giorni di ricovero. Chiederemo alla governatrice di fare un passo indietro e di stornare, con l’assestamento di bilancio, i fondi recuperati su asili nido e servizi per le donne».

l’Unità 17.6.10
Il «labirinto» lombardo fra ricovero obbligatorio norme fantasma e obiettori
In Lombardia la situazione sfiora il paradosso e le interruzioni di gravidanza sono sempre più complicate, specie quelle farmacologiche. Linee guida introvabili, obiezioni di coscienza in crescita e obbligo di tre giorni di ricovero.
di Giuseppe Vespo

Le donne lombarde devono cercarsele negli ospedali e nei consultori della regione: le linee guida per l’utilizzo della pillola abortiva Ru486 sono state definite ad aprile, ma la Giunta Formigoni non le ha pubblicate da nessuna parte. Bisogna andare nei vari reparti di ginecologia per sapere ad esempio che la Lombardia ha recepito il parere non vincolante del Consiglio superiore della sanità, secondo cui per fare ricorso all’aborto farmacologico è necessario un ricovero di tre giorni. Mentre per quello chirurgico basta un giorno in Day Hospital, così come per altri interventi invasivi.
La poca informazione è solo la prima stazione della «via crucis» che secondo Sinistra Ecologia Libertà (Sel) è costretta a percorrere chi vuole interrompere volontariamente una gravidanza, in Italia e in Lombardia in particolare. Una delle difficoltà più grosse è superare la barriera degli obiettori di coscienza: sempre secondo Sel, nel nostro Paese quasi il settanta per cento dei ginecologi dice «no» a chi chiede di abortire. Un rifiuto che ogni anno costringe molte donne ad «emigrare» alla ricerca di istituti che accolgano la loro decisione. Stando agli ultimi dati disponibili relativi al 2008 a Milano sono stati effettuati 7.028 aborti: 3.693 di donne residenti in città. Il resto è arrivato da fuori, da altre province o regioni. Qualcuna magari dalla Asl di Legnano, dove sono state portate a termine 968 richieste su 1.650 arrivate da parte di donne legnanesi. Stesso fenomeno a Monza: in 1.950 hanno chiesto di interrompere la gravidanza, ma solo 1.050 sono state aiutate.
SALUTE E LIBERTÀ
Per «denunciare arbitrii e abusi ai danni delle donne», da oggi è attivo un numero verde nazionale a pagamento (3313937224) creato da Sinistra Ecologia Libertà. Darà consigli utili a chi telefona. Ma servirà anche ai consiglieri di SeL, che sulla base delle segnalazioni presenteranno alle varie giunte regionali delle mozioni per tutelare la libertà di scelta delle donne in tema di aborto o fecondazione assistita. La prima mozione porta la firma del consigliere lombardo Chiara Cremonesi, che ha chiesto alla giunta Formigoni di «rivedere le linee guida sull’utilizzo della Ru486, escludendo l’obbligatorietà del ricovero ospedaliero, consentendo così di ridurre al minimo i disagi per le pazienti». Cremonesi ha chiesto inoltre alla Regione di monitorare l’utilizzo della pillola abortiva e di fornire al consiglio una relazione dettagliata con cadenza trimestrale. «La Lombardia è una Regione talebana», ha detto ieri l’esponente di Sel, facendo riferimento anche alle polemiche sulla sepoltura dei feti della pillola abortiva. Una critica allargata a livello nazionale dal coordinatore nazionale di Sinistra Ecologia Libertà, Claudio Fava: «In Italia sulla salute delle donne si esercita un pregiudizio ideologico», ha esordito. Quindi ha ricordato che tra i primi atti dell’esecutivo Berlusconi c’è stata la soppressione della legge contro le dimissioni in bianco: pratica che permette, ad esempio, di liberarsi di una lavoratrice che rimane incinta.

l’Unità 17.6.10
A 50 anni dalle agitazioni del 1960. Storia della protesta vittoriosa contro la destra e il Msi
Un Convegno della Fondazione Di Vittorio per ricostruire il senso storico di quella svolta cruciale
Quel caldo luglio antifascista: la rivolta che affossò Tambroni
Cinquant’anni fa i morti di Reggio Emilia durante le proteste contro il governo Tambroni. Allora gli scontri si conclusero con le dimissioni del governo. Oggi sarebbe possibile? Un convegno ricorda questa storia.
di Carlo Ghezzi

http://www.scribd.com/doc/33154875/Unita-17-6-10-pp-38-39


il Fatto 17.6.10
Trafficanti d’armi. L’unica crisi che non c’è
Le esportazioni italiane di fucili e pistole macinano record Business da 1 miliardo di euro in due anni, in aumento
di Daniele Martini

Crisi? Non per i fabbricanti italiani di armi. A loro non è mai andata bene come ora. Dal Rapporto 2010 dell’Archivio Disarmo che Il Fatto Quotidiano ha avuto in esclusiva emerge che le esportazioni di fucili e pistole macinano record. Quasi 1 miliardo di euro in un due anni, il 2007 e il 2008, gli ultimi per i quali sono disponibili i dati Istat (Istituto nazionale di statistica) utilizzati come base per la ricerca. L’incremento percentuale è impressionante: più 12 per cento rispetto al biennio precedente. Bisogna risalire a quasi un quindicennio fa per trovare exploit così vistosi. Nessun altro settore industriale è cresciuto così tanto, anzi, gli altri in genere faticano a tenere le posizioni acquisite e molti arretrano di brutto.
LE RIVOLTELLE. Le armi prese in considerazione dal rapporto sono quelle in gergo definite “leggere”, non dichiaratamente da guerra, tipo i mitra e i bazooka in uso alle forze armate dei vari paesi. Le armi leggere sono classificate come tali in base ad una legge di 35 anni fa e comprendono in prevalenza fucili di vario tipo e dimensione, rivoltelle, pistole, carabine. Tutti strumenti con cui non si scherza, estremamente efficaci e letali al pari delle armi ufficialmente considerate belliche, anche se in teoria destinati solo ai cacciatori o agli appassionati di tiro al bersaglio. Probabilmente una parte delle esportazioni italiane finisce davvero in mani amatoriali e da questo punto di vista il successo dell’industria armiera nazionale non è affatto negativo, anzi, è ricchezza prodotta, lavoro per migliaia di operai, quattrini che entrano nel nostro paese e fanno bene alla bilancia dei pagamenti.
GUERRE E CRIMINALI.
Ma non sempre le armi commercializzate sono usate così come viene dichiarato e il boom delle esportazioni di fucili e pistole è così vistoso da far emergere dubbi e aspetti inquietanti. Almeno tre. Primo: l’export italiano in qualche modo contribuisce ad amplificare l’uso abnorme e spesso sregolato delle armi per difesa personale nei paesi dove è consentito, in particolare gli Stati Uniti. Proprio gli Usa sono uno dei mercati forti delle esportazioni italiane (circa 30 per cento del totale) e proprio lì da tempo è avviato un dibattito acceso sia nell’opinione pubblica sia a livello parlamentare sull’opportunità di continuare a riempire le case di strumenti così micidiali. La scelta è demandata ai singoli e comunque è un diritto addirittura espressamente garantito dalla Costituzione.
Il secondo aspetto inquietante si basa su qualcosa che è più di un sospetto: è molto improbabile, infatti, che volumi così elevati di armi, anche quelli indirizzati verso paesi senza conflitti interni o guerriglie come gli Stati Uniti, il Canada o la Francia e la Germania, alla fine siano utilizzati sempre e solo dai cacciatori o per uso di difesa personale. Evidentemente c’è dell’altro. E questo “altro” può essere solo intuito perché non può risultare dalle statistiche ufficiali. Il sospetto è che quegli arsenali gira e rigira alimentino un commercio parallelo e clandestino e le armi letali ancorché classificate come leggere finiscano in mano a bande criminali e alla delinquenza organizzata. Il terzo aspetto è che una fetta di quelle esportazioni italiane è indirizzata verso paesi canaglia o comunque verso aree del pianeta dove imperversano guerre, guerriglie, tumulti e rivolte. E’ una quota modesta rispetto al totale, ma la dimensione non cancella il problema.
AFGHANISTAN. E’ assai probabile, per esempio, che le armi leggere italiane esportate in Afghanistan non siano utilizzate per la caccia ai fagiani. In quel paese e negli altri che gli somigliano, fucili, pistole, munizioni ed esplosivi tricolori servono per uccidere e alimentare le guerriglie, le macellerie tra bande paramilitari rivali e i focolai di guerra che si accendono a ripetizione. Il titolo della ricerca dell’istituto a suo tempo fondato dal senatore Luigi Anderlini, spiega bene il concetto: “Armi leggere, guerre pesanti”. L’esperienza conferma il sospetto. La mattanza nella ex Jugoslavia, per esempio, fu perpetrata anche con le armi leggere di provenienza italiana le cui esportazioni conobbero proprio in quel periodo un incremento simile a quello odierno.
L’ARCHIVIO DISARMO.
Secondo l’accurato studio dell’Archivio disarmo tra i paesi verso cui si dirigono i flussi di esportazioni di armi italiane ce ne sono diversi sottoposti ad embarghi internazionali proprio per le armi, come la Cina, il Libano, la Repubblica democratica del Congo, l’Iran, l’Uzbekistan, l’Armenia, l’Azerbaijan. E ce ne sono altri in cui sono in corso conflitti o si verificano gravi violazioni dei diritti umani denunciate non solo da organizzazioni non governative tipo Amnesty International o Human Rights Watch, ma dalle Nazioni unite e dall’Unione europea. Tra questi la Russia, Thailandia, Filippine, Pakistan, India, Colombia, Israele e Kenia. Da un punto di vista strettamente formale non è compito delle industrie e degli esportatori indagare sulla fine che faranno le armi prodotte ed esportate e come saranno utilizzate davvero. Ma certi tipi di commerci per loro natura sono particolari e alla fine impegnano gli Stati che li sostengono e che, infatti, li regolamentano con leggi specifiche.
In Italia l’esportazione di armi da guerra è regolata da una legge del 1990 considerata dagli stessi pacifisti una delle più avanzate al mondo.
Per quanto riguarda le armi leggere, invece, la norma è confusa, contraddittoria e ritenuta molto meno efficace e rigorosa dell’altra.

il Fatto 17.6.10
Professionisti dell’anti-Saviano
Le critiche allo scrittore adesso piovono anche da sinistra ma sono sempre attacchi gratuiti e male documentati
Il sociologo Dal Lago polemizza utilizzando false citazioni dell’autore campano
di Marco Travaglio

nelle edicole

mercoledì 16 giugno 2010

l’Unità 16.6.10
Migliorare la 180, non tornare indietro
Luigi Cancrini risponde a Elena Canali

Ho letto oggi sull’Unità una risposta di Cancrini riguardo la proposta di legge Ciccioli. Certamente bisogna respingere ogni tentativo di restaurazione manicomialista, ma allo stesso tempo: perché a sinistra continuare a dirci balle e cioè che la 180 è perfetta, ma non è stata applicata?
RISPOSTA La legge Basaglia non è perfetta semplicemente perché di perfetto non c’è niente. Questo non vuol dire, però, che qualsiasi proposta di cambiamento sia buona. Nel caso della proposta Ciccioli, io credo sia corretto dunque da parte mia dire che si tratta di un testo troppo ancorato ad una visione medica ed organicista del disturbo psichiatrico. Da cui non si evince con chiarezza, per esempio, che i ricoveri lunghi hanno un senso solo nell’ambito delle Comunità, non delle Cliniche e che i servizi hanno bisogno per affrontare la cronicità di livello psicotico (gli schizofrenici) o border line (i disturbi di personalità) di équipes multidisciplinari in grado di dare risposte orientate su criterii psicoterapeutici. Anche a livello dei reparti di diagnosi e cura è la cultura psicoterapeutica e sociale (e non solo medico farmacologica) degli operatori quella che permette di confrontarsi con chi rifiuta le cure modulando con intelligenza forma e durata dei Trattamenti sanitari obbligatori. Sapendo che coinvolte con rispetto da operatori capaci le famiglie e la rete sono la risorsa fondamentale di ogni progetto di terapia.

Repubblica 16.6.10
Esce un libro sul tema: da Borgna a Boncinelli, studiosi a confronto
Il senso dell’uomo per l’infelicità
Non stare bene è una condizione naturale e come cura non bastano i farmaci: per sentirci meglio abbiamo bisogno di relazioni affettive e sentimenti
di Umberto Galimberti

e so che devo morire non capisco perché devo essere felice. La differenza tra l´uomo e l´animale sta tutta in questa consapevolezza, per cui l´infelicità è l´elemento costitutivo della condizione umana, che un tempo le religioni e oggi le psicoterapie o i ritrovati farmacologici cercano inutilmente di narcotizzare. Ma si può davvero pensare di reperire la felicità attraverso la negazione del tratto caratteristico della condizione umana? E allora, come scrive opportunamente Edoardo Boncinelli in Perché siamo infelici (Einaudi, pagg. 184, euro 14): "L´infelicità non è un accidente, è un destino".
Oltre a Boncinelli, che affronta il problema dal punto di vista genetico, il libro ospita gli interventi di eminenti psichiatri e psicoanalisti quali Maurizio Andolfi, Vittorino Andreoli, Eugenio Borgna, Bruno Callieri e Paolo Crepet che cura questa raccolta dei saggi, il cui intento è di smascherare i falsi rimedi che ogni giorno ci vengono proposti da quanti traggono profitto dall´infelicità diffusa, per vendere quelle che già Eschilo chiamava "cieche speranze (thuphlás elpídas)".
Con la chiarezza dello scienziato che non si fa incantare dalle cieche speranze, Boncinelli ci avverte che la natura ci genera per la continuità della specie e non per la felicità dell´individuo. Ma affinché gli individui non si demotivino una volta raggiunta questa consapevolezza, la natura provvede a quella serie di inganni che sono i desideri dell´individuo, i suoi progetti, i suoi investimenti, i suoi entusiasmi, particolarmente vividi nell´età giovanile che è poi la stagione più feconda per la generazione. "Resisteremmo infatti fino all´età riproduttiva - il traguardo che interessa alla natura - se non avessimo questa sorta di imbroglio da bambini, che non ci fa vedere perfettamente le asperità del mondo?" - si domanda Boncinelli e risponde: "Sono sicuro di no. Abbiamo una fase transitoria, ma lunga, di minore lucidità e ringraziamo Iddio. Altrimenti sono convinto che molta gente abbandonerebbe questo mondo ben prima della morte naturale"
A questa infelicità di base, che possiamo chiamare "biologica" se ne aggiunge una "culturale", determinata dal fatto che l´individuo promuove desideri, progetti, investimenti che, scrive sempre Boncinelli, sono "una molla alla base di tutta la civiltà e di tutta l´evoluzione culturale, ma anche una palla al piede, uno sconforto, uno sconcerto, un amplificare l´infelicità su tutta la vita", perché i nostri desideri sono quasi sempre sproporzionati alla nostra capacità di realizzazione, e lo scarto tra il desiderio e la sua realizzazione è la fonte di una nuova infelicità.
Su questo tema ritornano le bellissime pagine di Eugenio Borgna che, dopo aver esaminato tutte le forme patologiche di felicità e di infelicità, e i rimedi farmacologici che attutiscono i sintomi ma non danno un orizzonte di senso, affonda radicalmente lo sguardo sulla condizione tragica dell´uomo che non può vivere senza una produzione di senso, in vista della morte che è l´implosione di ogni senso. Colta nella sua dimensione abissale, questa infelicità non è curabile con i farmaci, ma è possibile attenuarla attraverso un´intensificazione delle relazioni interpersonali, da quelle affettive a quelle di cura, recuperando quel tratto costitutivo dell´essenza dell´uomo che la natura prevede come "animale sociale".
Ma che tipo di società è quella che ci circonda? Una società che ci riempie di oggetti da consumare, scrive Paolo Crepet, che stanno al posto di relazioni mancate. Una società che misura la felicità sui redditi invece che sulla circolazione dei sentimenti, fino al punto, sempre in nome dei redditi, di fare dell´infelicità un businnes. Infatti, scrive Crepet: "assistenti sociali, religiosi, psicologi, psicoterapeuti, psichiatri, filosofi, organizzazioni di volontariato, farmacologi, perfino le prostitute vedrebbero i loro ricavi ridursi se, d´un colpo o per magia, la maggior parte degli infelici cessassero di esserlo". Per non parlare poi del controllo sociale che trae un indiscutibile vantaggio dall´infelicità: "perché è più facile controllare persone rassegnate e impotenti, piuttosto che vitali e ideative".
Sull´infelicità collettiva vivono anche le religioni che "promettono una felicità post mortem", garantendosi in tal modo la sopportazione dell´infelicità su questa terra, fino a indurre a vivere i momenti di felicità con un mal celato senso di colpa, perché assaporare la felicità su questa terra potrebbe ridurre la fede nell´al di là. Ma, osserva opportunamente Crepet, non meno insidioso è il messaggio sotteso a ogni forma di pubblicità che, per invitarci a consumare, ci dice Life is now (la vita è adesso). E se la religione si alimenta di infelicità proiettando la felicità in un altro mondo, la cultura del nostra società, concentrandosi sul presente, esclude che il futuro della vita individuale e sociale possa essere migliore di quello attuale.
Ma se questa è la condizione umana, non è che per vivere bisogna frequentare e almeno in parte corteggiare la nostra follia? Questo è il messaggio dello psichiatra Vittorino Andreoli secondo il quale: "Per vivere bisogna essere fuori dalla realtà, essere dunque come i folli che l´hanno dimenticata, per poter sopportare di stare al mondo e di continuare a essere uomini, uomini senza senso, perché di fatto la condizione umana non ne ha alcuno".

l’Unità 16.6.10
Intervista a Pier Luigi Bersani
«Voglio che il Pd sia il partito della Costituzione»
Più attaccano la Carta, più la difenderemo: da settembre nelle scuole La manovra colpisce i deboli, è iniqua e ha un respiro di otto mesi Il nostro compito sarà finito quando il partito sarà in mano ai nativi del Pd
di Concita De Gregorio

Il popolo viola. Aderire? «Come sempre, se la piattaforma è convincente parteciperemo
alla manifestazione del 9
Primarie centrosinistra Se si parla di accordo saranno di coalizione
Un papa straniero? Per il 2013 sarà libero Obama...
La balena spiaggiata Anche gli inglesi sembravano spiaggiati a Dunkerque, invece... Barra diritta, non abbiamo finito di costruire

Ha messo in moto un meccanismo di delegittimazione: fa correre l’idea che il consenso sia tutto ciò che serve, il resto è inutile. Questa l’idea sovrana. Ne deriva disprezzo per le quel che la Carta garantisce: la magistratura, la libera stampa, il presidente della Repubblica. Sono elusive della Costituzione anche le pratiche di formazione delle leggi: un uso parossistico di decreti, fiducia. Il governo zittisce il Parlamento. La sovranità appartiene al popolo, certo, che però “la esercita nei limiti e nelle forma della Costituzione”. Che non è solo memoria: ha una strada davanti».
Parliamo del Bavaglio. La destra fa propaganda dicendo che è uguale alla proposta Mastella, governo Prodi. Cosa risponde?
«Un’altra bugia delle loro. È radicalmente opposto il concetto da cui le due proposte muovono: lì, nella proposta Mastella, si diceva di responsabilizzare i magistrati e gli uffici giudiziari rispetto all’uso improprio delle intercettazioni. Evitare la fuga di notizie, la divulgazione di notizie inutili, eliminare in origine le parti non attinenti all'indagine. Affrontava il tema facendo leva sulla responsabilità dei magistrati e rinnovando loro fiducia. Questi non vogliono evitare la divulgazione delle intercettazioni ma impedire di farle, colpendo così in una volta chi indaga, chi garantisce la giustizia, la stampa».
Il Popolo viola sarà in piazza il 9. Il Pd aderisce? «Come sempre, se la piattaforma è convincente parteciperemo. Noi abbiamo le nostre manifestazioni. Nostro compito è fare il maggiore sforzo di tenere assieme i temi. Non dimentichiamo che mentre si parla di intercettazioni questi ti tolgono 218 euro a testa agli handicappati».
Sta già parlando di manovra.
«Difatti. Un colpo alle Regioni. 11 miliardi in due anni non è il taglio delle auto blu. È una botta storica alle politiche sociali per i non autosufficienti, al sostegno alle piccole imprese, a una parte di ammortizzatori sociali e di istruzione. Come dice Burlando: ci hanno messo in mano una pistola perché spariamo noi. Anche Formigoni si ribella. Avrà effetti gravissimi, ingestibili. Poi ci sarà un ulteriore taglio sulla sanità. un milione e mezzo forse due. Poi il pubblico impiego. Diciamo chi sono queste persone: poliziotti, insegnanti, infermieri, redditi medio bassi. Non chiede un euro a chi ha le rendite. È una manovra iniqua, depressiva della crescita. Oltretutto di corto raggio: gli effetti durano otto mesi». Non teme la rabbia sociale?
«Oggi più che rabbia vedo rassegnazione e dolorosa sfiducia». Tremonti acclamato dagli imprenditori, studia da leader?
«Tremonti sa usare il potere che ha anche in termini di costruzione del suo profilo. In 15 anni attorno al Tesoro ha coagulato molto. La Lega, questo il punto: è la Lega che sostiene Berlusconi, non ci sarebbe Berlsuconi, oggi, senza la Lega. Il punto di sutura è quello determinante. Anche quello critico, però. La Lega non può fare tutte le parti in commedia: avrà difficoltà a far digerire quel che sta arrivando. Questa maggioranza può indebolirsi che nel suo rapporto con la Lega».
E Fini? Teme un polo costituito da Fini Casini Montezemolo? «È una costruzione che corrisponde a un sentimento che c’è in strati moderati del centrodestra che mal sopportano l’ipoteca leghista. Ho visto toni sprezzanti nella maggioranza. Se si preoccupano loro ci dobbiamo preoccupare un po' meno noi».
Non la preoccupa nemmeno l’avvio delle candidature per le prossime primarie del centrosinistra? «C’è questa litania che il centrosinistra sia in cerca del comandante. Non è così. Siamo chiamati a dare credibilità all’alternativa di governo. Dobbiamo farlo noi, adesso». Pensa alle elezioni anticipate? «Guardo l’oggi. Non so se si voterà nel 2011 ma faccio fatica a pensare ad altri tre anni così».
Dicevamo delle primarie. Vendola è pronto, altri in pista. «Quando si fanno accordi di coalizione si parla di primarie di coalizione. Non c’è altro da aggiungere».
Autocandidature?
«All’interno delle forze che partecipano alla coalizione». Niente papa straniero. «Nel 2013 sarà libero Obama, eventualmente».
Marini dice che nel Pd c’è poco Ppi
«Colgo l’aspetto positivo: verso un rafforzamento del Pd». Al contrario, la balena spiaggiata di De Benedetti...
«Anche gli inglesi a Dunkerque sembravano spiaggiati, invece...» Un calcio ai vecchi, ha detto Prodi. «Fra due o tre mesi avremo in rete tutti gli amministratori del Pd: hanno in larghissima maggioranza tra 30 e 40 anni. Detto questo, siamo e resteremo in costruzione. Avremo finito il compito quando il partito sarà in mano ai nativi del Pd».
I giovani, i dirigenti e i militanti, chiedono manifestazioni unitarie e combattive. Civati propone una campagna d’estate. Per ora ha risposto Cicchitto: dice che rinuncia alle ferie d’agosto»
«Batteremo di un giorno l’eroico Cicchitto. Se per stare nella società fosse sufficiente scendere tutte le settimane in piazza sarebbe facile. Bisogna prima, come si sarebbe detto una volta, aver chiara la linea: poi gestire la proposta e l’azione tra la gente. Non serve andare alla rinfusa. Ci vediamo sabato al Palazzo dello sport, da lì partiremo per la campagna d’estate. Abbiamo due mesi, a settembre lavoriamo sulle scuole: voglio che il Pd sia il partito della Costituzione a partire dalle scuole. Hanno ristretto l’offerta in qualità e quantità, siamo di fronte all’analfabetismo di ritorno. Bisogna partire da lì».

l’Unità 16.6.10
È un’intesa che mina l’essenza della Costituzione
Oggi in Italia la questione sociale si salda con quella democratica. Le regole della nostra Carta sono poste a tutela dei soggetti deboli, difendiamole
di Tania Groppi, costituzionalista

L’accordo proposto dalla Fiat ai sindacati per trasferire dalla Polonia a Pomigliano la produzione della Panda tocca un nervo scoperto del sistema italiano delle relazioni industriali. Ma non solo. Esso è sintomatico di una tendenza che sembra inarrestabile, volta a mettere in discussione l’essenza stessa della Costituzione italiana.
L’aspetto più evidente, ovviamente, è l’impatto, sulla pelle dei lavoratori, della globalizzazione sfrenata, con la “concorrenza al ribasso” che porta con sé. Al contempo, l’intero sistema-paese viene attratto in un gorgo che, allo scopo di intercettare capitali, gli impone di ridurre quelle garanzie dei diritti sociali che rappresentano uno degli assi portanti della vigente Costituzione repubblicana.
Che sia necessaria una riflessione sul futuro dello Stato sociale, nel mondo globale, non è certo una novità. Ma una cosa è cercare di esplorare vie per assicurare la compatibilità tra libero mercato e garanzia dei diritti, un’altra è, semplicemente, svuotare o stravolgere le regole esistenti. E ciò tanto che lo facciano soggetti privati (come in questo caso) o titolari del potere politico (come nella recente, e ancora aperta, vicenda dell’art. 41 Cost.).
Ed è qui che la questione sociale si salda, oggi in Italia, con quella democratica. Ovvero con la necessità di difendere le regole della democrazia costituzionale. Regole che sono poste a tutela dei soggetti deboli, siano essi le minoranze politiche o i lavoratori.
Quando un primo ministro dice, ripetutamente, per anni, che governare con le regole che la Costituzione impone è un inferno. Quando queste regole vengono violate ripetutamente, sia attraverso le ordinanze di necessità di urgenza, che con i decreti legge, che con i maxiemendamenti su cui si appone la fiducia, che con leggi ad personam... Quando questa è l’attitudine verso le regole della convivenza dei massimi titolari del potete politico, il rischio che anche i soggetti privati pensino di poter impunemente disattendere le regole costituzionali si fa concreto. Una Costituzione delegittimata, ridotta a un’inutile rete di lacci e lacciuoli. Una Costituzione vecchia, adatta per un’Italia che ormai non esiste più. I suoi difensori dei retrogradi parrucconi conservatori che conducono una battaglia di retroguardia. Ecco il messaggio che deve passare.
A questo punto, ad essere messe in discussione non sono solo le singole regole costituzionali, ma la stessa essenza del patto di convivenza su cui si basa la nostra Repubblica, come Stato democratico e sociale, fin dall’articolo 1, «L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro».
Ma se così è, deve essere chiaro che la battaglia per la difesa della Costituzione e la battaglia per i diritti dei lavoratori non possono che andare di pari passo.

l’Unità 16.6.10
Sorpresa: è tornato Carlo Marx
La vicenda di Pomigliano sta riportando d’attualità vecchie espressioni come lo scontro fra capitale e lavoro. Il guaio è che la globalizzazione è entrata in una nuova fase ma l’Italia non l’ha capito
di Loretta Napoleoni

La previsione. Se la torta non viene divisa più equamente, la crescita si blocca e nessuno mangia più. Lo aveva detto un certo Marx due secoli fa

Riparte la lotta operaia lungo la catena di montaggio che ormai unisce l’est all’ovest. I metalmeccanici cinesi strappano alla Foxconn e all’Honda concessioni importanti verso la creazione di uno statuto dei lavoratori che i nostri operai invece stanno per perdere. Le stesse forze che applaudono alla vittoria cinese in occidente, incitano gli italiani a rinunciare ai privilegi conquistati in decenni di lotte. Ecco l’ultimo atto canaglia dell’economia globalizzata, e per conciliare questi atteggiamenti incompatibili non si esita a suggerire di cambia-
re la Costituzione. Peccato che questa contraddizione sia irrisolvibile con i tagli alla Costituzione o ai costi di produzione. Non si illudano politici e alcuni industriali: la crisi è sistemica, e se non viene risolta da entrambi i fattori dell’equazione produttiva: capitale e lavoro, tra dieci anni il nostro capitalismo potrebbe non esistere più. I destini degli industriali e degli operai occidentali sono tornati a incrociarsi.
Per vent’anni la formula della globalizzazione è stata: taglio dei tassi d’interesse e delocalizzazione, un’equazione che ha evitato al capitalismo, quello vero, non il suo avatar finanziario, di confrontarsi con il suo nemico numero uno: la caduta tendenziale del saggio di profitto. Marx ne parla a lungo, ma anche Smith e Ricardo accennano a questo virus che si rafforza con il dilagare della produzione meccanizzata. Meno lavoro umano si utilizza nella produzione, meno grasso sarà il profitto; l’uomo e la sua intelligenza hanno un valore aggiunto superiore alla macchina.
Gli asiatici lo sanno bene, noi ce ne siamo dimenticati. La Honda e la Foxconn si piegano ai voleri degli operai cinesi invece che rimpiazzarli con nuove tecnologie o delocalizzare la produzione in Vietnam perché il valore aggiunto della manodopera cinese è ancora imbattibile. Per produrre autovetture ed ipod di prima qualità ci vuole, per dirla alla Adam Smith, la mano “magica” dell’operaio specializzato.
La disputa tra capitale e lavoro alla Fiat è solo l’anteprima di ciò che ci aspetta nei prossimi anni se non ci decidiamo a risolvere il problema della caduta tendenziale del saggio di profitto. Con i tassi d’interesse ormai a zero l’unico modo per contrastarla è tagliare il costo del lavoro, già ridotto all’osso. Delocalizzare in Cina o in Asia non è più così conveniente, ce lo confermano gli scioperi a Shenzhen, si rischia di ritrovarsi con le stesse dispute dall’altra parte del mondo. È vero, ci sono sempre i Paesi dell’ex est europeo: Polonia, Serbia, Slovacchia dove un operaio guadagna ancora 350 euro al mese e dove la vita è quasi tanto cara quanto a casa nostra. Questa la minaccia della dirigenza Fiat: chiudiamo Pomigliano e ce ne andiamo tutti in Polonia, la Panda invece che nel mediterraneo la facciamo a due passi dal Baltico.
Il discorso non fa una piega, peccato che non si sia preso minimamente in considerazione il mercato di sbocco. Ecco l’altro grande ostacolo del capitalismo: il mercato di sbocco, un volano industriale che bisogna conquistarsi con crescente difficoltà. Quello cinese si chiama mercato interno: un miliardo e 300 milioni di operai. Anche in Italia un tempo si chiamava nello stesso modo. Negli anni del miracolo economico la Fiat produceva utilitarie che poi vendeva a quella classe media ed operaia che l’aiutava a produrle.
Il capitalismo, ricordiamolo, prende il nome dal capitale, ma altro non è che il prodotto del rapporto tra questo e il lavoro: l’uno senza l’altro non possono esistere. Se togliamo la fabbrica agli operai italiani e paghiamo 350 euro a quelli slovacchi, la moderna utilitaria chi la comprerà? È una domanda che tutti gli industriali dovrebbero porsi. E prima di guardare oltralpe, facciamo due conti con la concorrenza. La Fiat non è la Toyota che da vent’anni produce macchine ibride, non è neppure la cinese Grenley che si è comprata la Volvo. Non ha né il prodotto, né i muscoli per competere a livello internazionale con i vecchi e nuovi giganti dell’auto. E, ahimé, questo discorso vale un po’ per tutta la nostra industria che negli ultimi anni ha perso lustro e fatica a sostenere la concorrenza agguerrita degli asiatici.
La grande sfida della seconda fase della globalizzazione si chiama mercato nazionale, come difendere capitale e lavoro in un’economia mondiale tendenzialmente canaglia? L’Italia non è la Germania, terzo esportatore al mondo, ma è un Paese dove c’è ancora voglia di lavorare, dove la classe media e quella operaia sono più povere che vent’anni fa, dove un insegnante di liceo guadagna 1200 euro al mese. C’è spazio quindi per la crescita economica, ma per averla bisogna che la torta venga divisa più equamente, le briciole non bastano più. Se non lo facciamo, nessuno mangerà più: l’ha predetto due secoli fa Carlo Marx.

l’Unità 16.6.10
Una pillola chiamata boicottaggio
Così la Regione Lazio ostacola la Ru 486
di Giulia Rodano

Nell’Anno Primo dell’era Polverini è capitato a Roma che una donna, madre di tre figli, nati tutti con parto cesareo, vagasse di ospedale in ospedale alla ricerca della pillola RU 486, per interrompere una quarta gravidanza. Finalmente ha trovato nell’ospedale Grassi di Ostia l’assistenza cui aveva diritto. A questo punto si è scatenata l’ira della presidente della Regione, la quale non solo ha bacchettato duramente i medici dell’ospedale, ma ha immediatamente riunito la giunta, nota finora per la sua scarsissima attività, per varare delle sedicenti linee guida per confermare il ricovero obbligatorio di tre giorni, ma soprattutto per bloccare la possibilità di usare la pillola RU 486 negli ospedali del Lazio, in attesa della individuazione di fantomatiche strutture più idonee a praticare l’aborto farmacologico.
Siamo di fronte a un vero e proprio boicottaggio della pillola RU 486 e della legge 194. L’argomento della ricerca delle strutture idonee è ridicolo. Nel Lazio, che applica la legge 194 da 40 anni, è difficile pensare che non esistano strutture in grado di eseguire e assistere un aborto farmacologico. Siamo di fronte alla violazione della legge 194, che assegna alle Regioni l’aggiornamento «sull’uso delle tecniche più moderne, più rispettose dell’integrità fisica e psichica della donna e meno rischiose per l’interruzione di gravidanza».
La Polverini non solo rende più difficile l’applicazione di una specifica tecnica di interruzione della gravidanza, rendendo obbligatorio il ricovero, ma addirittura la blocca, per un periodo imprecisato. E ci si risparmi la favoletta della preoccupazione per la sicurezza delle donne. C’è un diluvio di letteratura scientifica che dimostra l’elevato tasso di sicurezza della RU 486.
Siamo di fronte a un vero accanimento ideologico di una donna contro altre donne e di uso propagandistico della sofferenza delle donne. Che questo sia vero, è testimoniato dagli atti compiuti dalla Polverini come commissario di governo per la Sanità. Nei decreti appena firmati si tagliano migliaia di posti letto perché sarebbe opportuno, quando le conoscenze scientifiche e l’esperienza sanitaria lo consentono, passare dal ricovero ordinario al day hospital e da questo all’assistenza ambulatoriale e domiciliare.
L’aborto chirurgico si fa ordinariamente in day hospital, nel caso dell’aborto farmacologico, per la Polverini, sono necessari tre giorni ricovero. Ma la Polverini ha voluto fare di più. Nel Piemonte di Cota, sia pure con il ricovero di tre giorni, che le donne possono rifiutare, l’aborto farmacologico si pratica. Nel Lazio non si può fare neppure questo. Siamo all’interruzione del pubblico servizio. Per una Presidente donna, niente male.

il Fatto 16.6.10
Scuola, un’operazione “fatta con i piedi”
I Cobas bloccano gli scrutini, ma per il ministero è solo “ricerca di visibilità politica”
di Caterina Perniconi

“Giù le zampe dall’istruzione”. Il messaggio scritto a caratteri cubitali su uno striscione srotolato fuori dal Colosseo ieri mattina è chiaro: basta col massacro della scuola pubblica da parte di chi fa tagli indiscriminati usando rozzamente i piedi anziché le mani. La protesta, arrivata nel secondo giorno del blocco degli scrutini indetto dai Cobas, ha fatto da cornice ad un’iniziativa che sta riscuotendo grande successo e mettendo a rischio il regolare svolgimento degli esami di maturità. “Hic sunt leones, hic sunt Cobas – ha dichiarato il portavoce del sindacato, Piero Bernocchi, sotto il Colosseo – siamo al 50 per cento e puntiamo ad arrivare al 70 di scrutini bloccati in tutt’Italia. La scuola pubblica viene massacrata dalla manovra economica che taglia 41 mila posti di lavoro – ha spiegato Bernocchi – e viene attaccata con la riduzione dei salari e il blocco dei contratti per 3 anni”. E anche se il ministero dell’Istruzione ha cercato di ridimensionare l’avvenimento, definendolo “un’operazione mediatica dettata dalla ricerca di visibilità politica e destituita da qualsiasi fondamento reale”. Secondo i tecnici di viale Trastevere “si sono registrati solo casi isolatissimi di blocco degli scrutini nelle scuole, a seguito di una manifestazione davanti al ministero, alla quale hanno preso parte non più di trenta persone. Si tratta quindi di un caso che esiste solo sui giornali e nei servizi dei tg, ma che non esiste assolutamente nella realtà”. E allora i Cobas snocciolano un numero sull’altro: “Nel Lazio siamo intorno ai 2500 scrutini bloccati – dichiara il sindacato – solo a Roma a quota 1500, mentre in Sicilia ci si attende una cifra finale di 2200-2300. Il Piemonte raggiungerà quota 1300, con Torino in primo piano con almeno 800 blocchi; in Campania, Toscana e Lombardia si va da 1200 a 1500 a regione; oltre 800 scrutini fermati in Liguria e quasi 600 in Abruzzo. Il totale è di 25.000 blocchi.
E a protestare non solo solo gli irriducibili. Ieri il segretario della Cisl, Raffaele Bonanni, si è augurato che il governo “si prenda presto la responsabilità contro i tagli alla scuola”, e ha annunciato, durante una manifestazione contro i tagli organizzata a Roma, che il sindacato da lui guidato continuerà la sua azione “anche con lo sciopero, a condizione che in piazza non ci siano politici ma solo lavoratori”. “Chi ha scritto la manovra – ha insistito il segretario generale della Cisl Scuola, Francesco Scrima – prevedendo il blocco degli scatti di anzianità per gli insegnanti, è o troppo perfido o incompetente. In sede di conversione in legge del testo del decreto bisogna salvaguardare l’assetto delle carriere del personale scolastico”.
Lo stop al blocco degli scatti d’anzianità è una richiesta sostenuta anche dall’ex ministro della Pubblica Istruzione, Giuseppe Fioroni, secondo il quale la copertura economica “va presa da quel 30% sul taglio già fatto di 8 miliardi e 300 milioni di euro della Finanziaria 2008”.
E contro i tagli alla scuola si è schierata anche l’Udc. Il segretario del partito, Lorenzo Cesa, ha annunciato che l’Udc preparerà “emendamenti mirati alla manovra correttiva perché il governo ripristini quei soldi che spettano ai professori perché il mondo della scuola vuole essere trattato alla pari degli altri dipendenti pubblici, senza penalizzazioni aggiuntive permanenti. E se il governo non si prenderà presto le sue responsabilità, non è esclusa la mobilitazione di piazza”.

martedì 15 giugno 2010

il Velino 14.6.10
Libri, mercoledi' Pannella presenta volume su Riccardo Lombardi
Roma, 14 GIU (Il Velino) - Politica e cultura, un binomio fuori moda oggi da riscoprire. Il nesso indissolubile e radicale tra idee e prassi nel pensiero di Riccardo Lombardi, figura storica del socialismo italiano, a lungo dimenticato, antifascista, tra i padri costituenti al fianco di Piero Calamandrei e dei fratelli Carlo e Nello Rosselli, rappresenta il nucleo del volume di Carlo Patrignani "Lombardi e il Fenicottero". Il libro verra' presentato mercoledi' 16 giugno a Roma alla Casa delle Culture (via S.Crisogono 45) alle 17,30 dall'autore, Marco Pannella, lo storico Giuseppe Tamburrano, l'economista Paolo Lenon e Enzo Foschi, consigliere regionale del Pd. Conduce l'incontro Daniela Ubaldi, giornalista dell'agenzia Area e di Radio Citta' Futura.

Repubblica 14.6.10
Maometto tra gli angeli
La visione celeste del divino
di Pietro Citati

"Il viaggio notturno e l´ascensione del profeta" un testo pieno di mistero su un momento essenziale nella vita dell´Islam

Sul dorso di Buraq, una creatura insieme umana e animale che procede velocissima di cielo in cielo quasi al di fuori del tempo
All´inizio della sua missione il messaggero crede di aver visto Dio da vicino, ma alla fine della vita ne dubita. Forse è stato solo un "sogno veridico"

Tutto lascia credere che, all´inizio della sua missione, Maometto abbia immaginato di vedere Dio: da vicino, «alla distanza di due archi o meno», Egli gli fece la rivelazione: il Corano. Più tardi, verso la fine della vita, Maometto ebbe dubbi su quello che aveva visto: fu incerto se la sua era stata veramente una visione; questi dubbi furono accolti dall´ultima moglie, Ai´sa, che in una frase memorabile ricordò che Maometto aveva avuto un «sogno veridico». Questa visione, o questo sogno, diventò un momento essenziale nella vita dell´Islam: ne derivò una mistica; e una serie di racconti popolarissimi sul viaggio del profeta in cielo. In Italia conosciamo Il libro della Scala di Maometto, che venne tradotto in latino, e forse conosciuto da Dante (SE, a cura di Carlo Saccone, pagg. 200, euro 20). Un altro testo è Il viaggio notturno e l´ascensione del profeta, di ignota epoca e di ignoto autore, appena pubblicato da Einaudi nella bella traduzione di Ida Zilio-Grandi, con due saggi di Cesare Segre e di Maria Piccoli (pagg. XLII-126, euro 24).
Maometto trascorre la notte nella casa di Fahita, insieme alla figlia, Fatima la Radiosa. Qualcuno bussa alla porta: Fatima va ad aprire, e scorge un angelo coperto di gioielli, con due ali verdi che sbarrano la vista ad oriente e ad occidente: porta in capo un diadema ornato di perle e pietre preziose, e sulla fronte la scritta: «Non c´è dio al di fuori di Dio, Maometto è l´inviato di Dio». Fatima ha paura. Il padre riconosce l´angelo Gabriele, che gli aveva rivelato i primi versetti del Corano. Ora Gabriele gli dice: «Mio amato, indossa le tue vesti e acquieta il tuo cuore. Questa notte parlerai con il Tuo Signore, che non conosce né sopore né sonno».
Così comincia il miracoloso viaggio celeste. Il profeta sale sul dorso di Buraq, una creatura insieme umana ed animale: ha il viso umano, il corpo simile a quello di un mulo, la criniera fatta di una tramatura luminosa di perle fresche e di bacchette di giacinto, gli orecchi di smeraldo, gli occhi che irradiano bagliori come quelli del sole. Buraq possiede una conoscenza dei cieli che Maometto ignora: ma, nella gerarchia delle creature, è inferiore al Profeta, e gli domanda di intercedere per lei il giorno del giudizio.
Il viaggio di Maometto avviene tra una moltitudine di angeli. I testi apocalittici ebraici e cristiani avevano rappresentato migliaia e migliaia di angeli che lodavano Dio: col viso simile al sole, la fronte cinta dall´arcobaleno, e le gambe come colonne di fuoco. Ma la vera patria degli angeli è l´Islam. Quasi sempre appaiono in gruppi di settantamila: le spalle sono così vaste che un uccello veloce non può coprire in cinquecento anni la distanza tra le due spalle; e tengono in mano tutta la creazione, come un granello di senape nel deserto. Il sacro islamico esige grandezza, enormità, eccesso di luce, e talvolta una specie di vertiginosa mostruosità, che richiama alla memoria le antiche figure babilonesi ed iraniche. Nel primo cielo, Maometto incontra un angelo mezzo di neve e mezzo di fuoco, senza che il fuoco sciolga la neve e la neve estingua il fuoco: ha mille teste, ogni testa ha mille volti, ogni volto mille bocche, ogni bocca mille lingue che glorificano Dio in mille parlate diverse: «Sia gloria a colui che unì la neve ed il fuoco».
L´ascesa di Buraq e di Maometto procede velocissima di cielo in cielo: cinquecento anni di cammino sono superati in un batter d´occhi, quasi al di fuori del tempo. Via via essi si lasciano alle spalle il cielo di ferro, quello di rame, di argento bianco, di oro rosso, di giacinto verde, finché giungono nel settimo cielo, di perla bianca, dove «non si ode il graffiare di un calamo»: dunque al di sopra di ogni scrittura e letteratura, nel puro ineffabile divino. Come i cieli, scorrono i profeti: Davide, Salomone, Giuseppe, Abramo, Mosè, Adamo. Intanto si ode il Grido di Dio: Dio è, in primo luogo, una voce, un´immensa potenza fonica; il culmine e il cuore spirituale di ogni realtà fisica. Questa voce esalta Maometto: «Non contraddire il mio amato Maometto»; «Conducete il mio amato Maometto nella Luce». Se il sacro è l´enormità dello spazio e della luce, un semplice uomo, nato e destinato a morire, sta al di sopra di qualsiasi grandezza, nella quale Dio si esprime.
[* * *]
Quando Maometto arriva un´ultima volta alla presenza di settantamila fila d´angeli, si ode di nuovo il Grido di Dio: «Sollevate i veli tra me e il mio amato Maometto». Il profeta aveva già superato settantamila veli di luce bianca, settantamila veli di smeraldo verde, settantamila veli di broccato di seta, settantamila veli di taffetà, settantamila veli di luce e settantamila veli di tenebra, settantamila veli di muschio, settantamila veli d´ambra e settantamila veli di Potenza; e ora supera veli che Dio solo conosce. In questo momento percepisce «qualcosa di sublime, che nessuna fantasia può immaginare e nessun pensiero raggiungere». Il Corano affermava che Dio parla agli uomini soltanto dietro un velo: mentre Maometto si lascia dietro anche l´ultimo velo, e si trova «alla distanza di due archi, o meno» da Lui.
Questo momento supremo è un´esperienza totale, che Maometto conosce sia nell´anima sia nel corpo. Dio pone la mano tra le scapole di Maometto; e lui prova un´alleviante frescura al fegato o al cuore. Ma, al tempo stesso, sia Maometto sia l´autore del Viaggio notturno sanno che vedere Dio è impossibile. Quando Dio domanda: «Mi vedi con i tuoi occhi?», il profeta risponde: «La vista non ti percepisce... La Tua Luce, il Tuo Splendore e la Tua Maestà hanno accecato la mia vista. Ti vedo soltanto con il cuore». La conoscenza fisica di Dio non può venire cancellata, ma insieme viene cancellata, perché quando percepiamo Dio, percepiamo solo un´infinita luce: è il paradosso di ogni esperienza mistica. Il rapporto di Maometto con Dio è diretto, immediato, senza distanza né intermediari, «faccia a faccia». Dio ribadisce: «Se ho creato Adamo con la Mia mano, l´ho creato d´argilla, mentre ho creato te con la luce del Mio volto. Se ho scelto Abramo come amico, ho scelto te come amato, e l´amato è meglio dell´amico. Se ho parlato con Mosè, gli ho parlato da dietro un velo, sul monte Sinai, mentre con te ho parlato sul tappeto della Prossimità e senza alcun velo».
Quando Maometto lascia il culmine dei cieli, ritrova l´angelo Gabriele, che lo accompagna fino all´entrata del Paradiso. Qui Ridwan, il Guardiano, lo prende per mano e lo accompagna nei Giardini. Maometto guarda, e la terra è bianca come fosse d´argento, i ciottoli sono di perle e di corallo, la polvere di muschio, le piante di zafferano, gli alberi hanno foglie d´argento e d´oro. Una cupola di perla sta sospesa, senza che nulla la sorregga e la sostenga. Dentro la cupola ci sono mille cappelle, e in ciascuna ci sono mille stanze, e in ogni stanza mille divani, e su ogni divano mille giacigli di broccato di seta, e un fiume d´acqua corre tra giaciglio e giaciglio. Nella cupola di perla c´è una cupola di smeraldo verde, e all´interno un divano d´ambra bianca tempestato di diamanti e pietre preziose, dove sta adagiata una donna, con le palpebre scure di collirio, e occhi grandi dalla cornea rosa e le pupille nerissime.
Maometto ritorna a casa, dove la figlia Fatima lo attende. Ormai sa tutto del mondo, che egli stesso ha contribuito a creare. Esso ha due culmini. Quello supremo è un Dio che egli non può vedere, o vede soltanto nelle profondità del cuore. L´altro culmine è il Paradiso, che invece riempie il suo sguardo: mentre lo percorre, contempla la nostra stessa realtà terrena, più bella, ricca e lussuosa, portata in alto e spiritualizzata. Tra l´invisibile e il meraviglioso visibile, egli conosce la vita felice.

l'Unità 15.6.10
Il comitato centrale: «Quello Fiat è un ricatto, non un’intesa. Senza diritti saremmo schiavi»

Alzo zero contro la Costituzione
Pomigliano diventa l’ultimo caso di aggressione alla Carta In ballo c’è il diritto di sciopero
Fiom dice no al ricatto
Pomigliano, la Fiom respinge l’accordo
Il comitato centrale delle tute blu Cgil respinge il ricatto Fiat su Pomigliano: «Impossibile firmare». Ma rilancia: «Se davvero vuole realizzare il proprio piano industriale, l’azienda applichi il contratto nazionale».
di L. V.

Il Lingotto ha deciso il gioco, ha dettato le regole, e ha preteso un sì o un no secco da quanti vogliano partecipare. Ma la risposta della Fiom su Pomigliano d’Arco non può che essere articolata. La posta è troppo alta per semplificazioni monosillabiche.
FIOM NON FIRMA MA RILANCIA
«Diciamo sì al rilancio dello stabilimento campano per realizzare il piano industriale della Fiat, nella piena applicazione del contratto nazionale» hanno sottolineato le tute blu della Cgil al termine del comitato centrale, convocato ieri per esprimersi sull’ultimatum del gruppo. «Ma diciamo no alle clausole che derogano a contratti, leggi e Costituzione. Non possiamo sottoscrivere quel testo perchè contiene profili d’illegittimità».
Niente firma, dunque. La Fiom non si piega al «ricatto» del gruppo torinese e scatena un fiume di reazioni nel mondo economico e politico, tra chi invoca responsabilità a senso unico e chi riconosce le ragioni del lavoro. «Marchionne ha chiesto solo più turni di lavoro e di combattere l’assenteismo»
ha commentato, tra gli altri, il presidente della Camera Gianfranco Fini. «Nel documento ci sono punti molto pesanti sui diritti fondamentali» gli ha risposto il responsabile Lavoro del Pd, Stefano Fassina.
Oggi l’organizzazione dei metalmeccanici Cgil sarà comunque al tavolo convocato a Roma dall’azienda per fare il punto sulla trattativa, invitata a partecipare «per conoscenza», mentre le altre organizzazioni sindacali si preparano a firmare un accordo separato da sottoporre poi a referendum. Ovvero, il rilancio dell’impianto napoletano con 700 milioni d’investimento e la produzione della nuova Panda al prezzo di deroghe al contratto nazionale a alle leggi.
IL LAVORO È LA PRIORITÀ
Eppure un’altra soluzione sarebbe possibile, se il Lingotto decidesse di accogliere la controproposta della Fiom, che «all’unanimità chiede alla Fiat di applicare il contratto nazionale di lavoro, perchè questo permette all’azienda di produrre le 280mila automobili all’anno e le 1.045 al giorno che sono gli obiettivi del piano che Marchionne vuole fare».
Su questi obiettivi si è concentrata anche la segreteria confederale della Cgil, riunitasi in mattinata dopo l’incontro a due tra il leader Guglielmo Epifani e il segretario delle tute blu Maurizio Landini: «Il lavoro è la priorità, è essenziale che si dia corso all’investimento annunciato dalla Fiat ridando certezza al territorio» ha ribadito il sindacato di Corso d’Italia. Senza dimenticare, però, che «le norme proposte dall’azienda aprono profili di illegittimità su malattia e diritto di sciopero» e che «ogni firma eventualmente apposta a questa clausola non è semplicemente invalida, è inefficace e inesistente». Autonomia alla Fiom, dunque, a cui «tocca promuovere la discussione» in merito, «coinvolgendo gli iscritti e individuando le corrette forme per il giudizio da parte dei lavoratori». Per domani, infatti, il sindacato ha convocato a Napoli l’assemblea dei propri iscritti.

l’Unità 15.6.10
Adesso c’è anche l’assalto al diritto allo sciopero
I costituzionalisti lanciano l’allarme
«Attenti agli aut aut»
Incontro di una cinquantina di accademici con Bersani e Violante. Difendere la Carta dai colpi di mano del governo
di Maria Zegarelli

Certo, tutti cercano di attenersi al tema all’ordine del giorno, le riforme istituzionali a cui sta lavorando il Partito democratico, ma la preoccupazione anche per l’assalto all’articolo 41 della Carta Costituzionale, tra gli oltre 50 costituzionalisti riunitisi ieri nella Sala della Regina a Montecitorio, è forte. L’invito è partito dal segretario Pier Luigi Bersani, che si prepara, con il responsabile Riforme, Luciano Violante, alla «campagna d’autunno», proprio sui temi della Costituzione, ma come prescindere dalla stretta attualità, dalla lettura dei quotidiani? Impossibile, anche perché l’accordo che una delle realtà imprenditoriali più importanti del Paese vuole siglare con i sindacati minerebbe parecchi di diritti sanciti dai costituenti. Tania Groppi, professore ordinario di Istituzioni di diritto pubblico nella facoltà di Economia dell'Università di Siena, appena uscita dal seminario Pd, prova a fare il punto: «A me sembra che la tendenza che la maggioranza di governo viveva finora di insofferenza verso le regole, si stia diffondendo anche al settore privato e sia passata dalle garanzie ai diritti dice Groppi poco dopo aver lasciato i lavori del seminario -. Berlusconi da sempre, e ultimamente con maggiore insistenza, dice che tutte queste regole sono un impedimento al suo lavoro: adesso mi sembra che si sia fatto un ulteriore passo cercando di intaccare i diritti sociali, quelli dei lavoratori». Secondo la costituzionalista la Fiat con questo accordo mette in discussione lo stesso diritto allo sciopero, alla salute, al riposo e quello alla partecipazione politica».
E non è un caso che ieri, durante l’incontro a porte chiuse, a cui erano presenti tra gli altri, Onida, Sorrentino, Luciani, Barbera, Bassanini, De Martin e Giorgis in tanti abbiano ribadito la necessità di difendere con convinzione la Costituzione, nella «prima e nella seconda parte». Da qui la larga condivisione della platea per la piattaforma di lavoro illustrata da Violante che «punta molto sul rilancio della democrazia partecipativa, sulla necessità di una rinnovata legittimazione delle istituzioni, del rapporto tra elettori e eletti e della centralità del parlamento», come commenta uno dei presenti.
Allarme, rinnovato, poi per una possibile forzatura da parte della maggioranza per le riforme istituzionali. «Le riforme vanno fatte senza aut-aut ma con larga condivisione». Ai costituzionalisti presenti è stato anche chiesto quanto percorribile possa essere lo strumento del referendum per l’abrogazione del Porcellum e l’eventuale reviviscenza del Mattarellum. Alla fine la linea che è prevalsa è stata quella della cautela. Lo stesso Bersani, ha avvertito: «Attenzione, il quorum in questi ultimi venti anni non è mai stato raggiunto. Potrebbe rivelarsi un boomerang. Noi dobbiamo dire con chiarezza che siamo contro questa legge elettorale e che si devono saldare questione sociale e questione istituzionale». C’è chi fa anche notare che dubbi di ammissibilità davanti alla Corte Costituzionale sul referendum abrogativo per il Porcellum ce ne sono e non vanno sottovalutati. Il Pd, dal canto suo, trova un punto di condivisione al suo interno: non porsi in termini «statici» rispetto alle riforme, ma di difendere con decisione l’impianto della Carta fondativa.

l’Unità 15.6.10
«Si rispettino le regole l’Italia non è il Burundi»
Un’associazione privata come il sindacato non può convalidare atti costituzionalmente illegittimi dei datori di lavoro come l’art. 14 dell’intesa
di Luigi Mariucci, Diritto del lavoro a Ca’ Foscari

I l documento Fiat su Pomigliano assomiglia, per usare un eufemismo, più a una dichiarazione unilaterale che a una proposta contrattuale. Il testo contiene molte rilevanti modifiche della condizione di lavoro e del sistema di relazioni contrattuali. Sul primo piano basti vedere le misure previste in tema di orario di lavoro: 24 ore di produzione continua, 18 turni settimanali, compreso il sabato notte, lavoro straordinario direttamente esigibile dall’azienda, deroghe al regime delle pause. Colpiscono, in particolare, clausole siffatte: «Le soluzioni ergonomiche (...) permettono sulle linee a trazione meccanizzata con scocche in movimento continuo, un regime di tre pause per 10 minuti ciascuna (...) che sostituiscono le attuali due pause di 20 minuti». E lo chiamano postfordismo! Vi sono poi norme c.d. anti-assenteismo che prevedono la mancata retribuzione dei giorni di malattia se le assenze superano una certa media, colpendo, per così dire, nel mucchio. Infine è prevista una «clausola di responsabilità» molto pesante a carico dei sindacati, in caso di comportamenti difformi dalle regole sopra definite, in termini di sanzioni riferite ai contributi e ai permessi sindacali.
Dicono che questo diktat, anzi, si perdoni il lapsus, questo accordo è necessario per assicurare la prospettiva produttiva di Pomigliano e che questo è reso necessario dalla competizione globalizzata. E sia. Fin qui si può fare, nella consapevolezza che tutto ciò comporta duri sacrifici e costrizioni per i lavoratori e una assunzione molto forte di responsabilità per i sindacati. Purché di questo non si faccia la bandiera di un «nuovo sol dell’avvenire», come predica l’attuale ed ex-socialista ministro del lavoro in carica.
Ciò che non si può fare è invece pretendere di modificare, con un c.d. contratto collettivo, addirittura la Costituzione. Ciò è quanto si verifica, in particolare, nel punto 14 del testo, che merita di essere citato per intero: «Le clausole indicate integrano la regolamentazione dei contratti individuali di lavoro al cui interno sono da considerarsi correlate ed inscindibili, sicché la violazione da parte del singolo lavoratore di una di esse costituisce infrazione disciplinare di cui (...) agli articoli contrattuali relativi ai provvedimenti disciplinari conservativi e ai licenziamenti(...)».
Questa clausola è due volte illegittima: perché qualifica arbitrariamente come parte normativa del contratto impegni di parte obbligatoria, riferite ai sindacati stipulanti; e perché pretende addirittura di trasformare in illecito, passibile di licenziamento, l’esercizio del diritto individuale di sciopero, sancito dalla Costituzione. La firma già apposta da qualche sindacato a questa clausola non è semplicemente invalida: è inefficace, inesistente, tamquant non esset, dicevano gli antichi. Una associazione privata, qual è il sindacato, non può infatti convalidare atti costituzionalmente illegittimi dei datori di lavoro. Non si modifica per contratto la costituzione: questo è l’abc dell’alfabeto costituzionale. Forse questo si può fare in Cina, negli Usa o nel Burundi, ma non in Italia. Perciò a mio giudizio la Fiom-Cgil farebbe bene a siglare con riserva quel testo, con una assunzione straordinaria di responsabilità, limitando gli effetti giuridici della sua firma alle parti del testo riferite a materie di competenza contrattuale e dichiarandone l’ovvia irrilevanza per le parti relative a discipline inderogabili di legge.

Repubblica 15.6.10
Epifani: la Fiat ci ripensi la fabbrica non è una caserma
"Cadano i limiti a scioperi e malattia, e noi diciamo sì"
Siamo disponibili a trovare soluzioni per un assenteismo che a tratti è stato intollerabile
intervista di Roberto Mania

ROMA - «Marchionne ci ripensi: non contrapponga lavoro a diritti. Pomigliano non può diventare una fabbrica-caserma. E il "piano B" sarebbe anche una sua sconfitta». Guglielmo Epifani, segretario generale della Cgil, parla mentre, a qualche chilometro di distanza, è in corso il Comitato centrale della Fiom sul caso-Pomigliano. Sa già come andrà a finire: no alla proposta della Fiat.
Lei condivide la posizione della Fiom?
«Io dico ciò che chiede la Cgil: che si realizzi rapidamente l´investimento previsto per lo stabilimento di Pomigliano. Questo è il frutto di anni di mobilitazione nel territorio da parte dei sindacati, della Cgil, della Chiesa, delle istituzioni locali. A Napoli non c´è alternativa. Stiamo parlando di 15 mila posti di lavoro, compresi quelli dell´indotto. Un piano di queste dimensioni impone una sfida che sicuramente deve essere raccolta: quella della saturazione degli impianti e della turnazione. Su questo non dobbiamo avere timidezze. I 18 turni non sono una novità. In molte fabbriche si lavora 24 ore su 24 per sette giorni. Sappiamo che sarà un sacrificio alto per i lavoratori, perché non è facile lavorare il sabato e la domenica di notte, perché non è la stessa cosa lavorare alla catena di montaggio o stare seduti davanti a una scrivania».
Sta ragionando come se il no della Fiom fosse ininfluente. Le ricordo che Marchionne ha posto come condizione l´accordo di tutti i sindacati senza escludere di poter mantenere la produzione della Panda in Polonia.
«C´è un capitolo del documento della Fiat che apre problemi molto gravi. Riguarda la malattia e lo sciopero. Abbiamo consultato insigni giuristi e ci dicono che, senza chiarimenti e correzioni, quelle clausole appaiono illegittime o addirittura incostituzionali. Mi domando: si può sottoscrivere un accordo con questi profili di illegittimità? Questo è il punto. Conviene alla Fiat che chiede certezze uno scenario di questo tipo?».
Lei pensa che la Fiat, la Cisl e la Uil possano firmare un accordo addirittura incostituzionale? Le sembra possibile? Non sarà la vostra una forzatura interpretativa?
«Per quanto mi risulta anche i metalmeccanici di Cisl e Uil avevano sollevato i nostri stessi argomenti. Poi ha prevalso lo spirito di chiudere. Ma c´è il rischio di un fiorire di iniziative giudiziarie, se non vengono chiariti quegli aspetti, perché la nostre preoccupazioni sono molto fondate. Al primo ricorso quel piano non regge. Per questo chiedo a Marchionne un ripensamento».
La Cgil sostiene che una firma su un accordo del genere sarebbe "invalida, inefficace e inesistente". Se è così perché intanto non la mettete?
«Rovesciamo il problema: a cosa servirebbe un sì in questo modo? A nulla. La Fiat non deve piegare i sindacati ma trovare un piano che regga. La Cgil è assolutamente disponibile a trovare soluzioni per un assenteismo che a tratti ha assunto a Pomigliano caratteristiche intollerabili. Siamo pronti e abbiamo anche le nostre proposte».
Quali?
«Ne parleremo».
Esclude che Marchionne possa applicare il "piano B" e non spostare la produzione della Panda a Pomigliano?
«Penso che alla fine possa prevalere in Marchionne il senso della forza dell´operazione Pomigliano. Ha scommesso troppo sulla Fabbrica Italia. Il "piano B" sarebbe anche una sua sconfitta. Gli chiedo di non attuarlo, ma so che il "piano B" è concretamente nelle sue mani».
Lei ha fatto tutto per arrivare a un´intesa? Possibile che la Cgil scopra i problemi sempre poco prima della firma?
«Non è così. Stiamo rincorrendo centinaia di vertenze in tutta Italia. In questo caso, mi dispiace, è mancato il rapporto tra la Cgil e la Fiom nella costruzione della soluzione».
La colpa è della Fiom?
«È un dato di fatto perché questa vicenda ha ricadute su vari settori, non solo sui lavoratori metalmeccanici».
La Fiom ha parlato di "ricatto" da parte di Marchionne. Lei userebbe la stessa parola?
«Se si intende dire che la Fiat ha tirato troppo la corda, c´è una parte di verità. L´intera verità è che la Fiat ha integralmente la possibilità di decidere. È una situazione inedita nella quale il Lingotto ragiona come una multinazionale che non ha più nulla da chiedere al governo italiano».
Se ci sarà il referendum è scontata la vittoria del sì. A quel punto la Fiom dovrà firmare?
«Deciderà la Fiom. È giusto che i lavoratori comunque dicano la loro. La Fiom deve potere dire sì o no, può chiedere il giudizio dei lavoratori, ma non può scaricare tutte le responsabilità su quest´ultimi».

l’Unità 15.6.10
Il virus della divisione
La sinistra e la retorica vecchi contro giovani
di Michele Ciliberto

Personalmente amo molto la polemica che considero il sale della discussione e della ricerca; ma per polemizzare bisognerebbe entrare nel merito delle posizioni che si vogliono contestare. Altrimenti la polemica si trasforma in un gioco sterile. Come è accaduto nel caso dell’articolo pubblicato sabato scorso in “polemica” con un mio intervento di due giorni prima.
Il mio obiettivo era contestare la rugiadosa retorica giovanilistica oggi di moda a destra e a sinistra, per sottolineare la dimensione sociale della “questione generazionale” e la necessità di affrontarla a livello strutturale, al di fuori di diffuse, e artificiose, contrapposizioni tra “vecchi” e “giovani”. Nel quadro di questo ragionamento, ho fatto riferimento all’Università il mondo che credo di conoscere meglio e alla recente proposta del Pd di procedere a uno shock generazionale, mandando forzosamente in pensione i professori a 65 anni (per intendersi: l’età della pensione prevista ora per le donne). Era una specificazione di ordine esemplificativo, che voleva, per contrasto, ribadire la necessità di porre su basi concrete la “questione” dei giovani, tirandola fuori dalle secche in cui è ora impigliata e di cui proprio la proposta del Pd è una conferma.
Di tutto ciò in questa polemica non ci sono tracce, salvo ricordare che sul tema esiste una “piccola” (sic) bibliografia. Invece ci si concentra con molta energia sulle (poche) righe in cui criticavo la proposta del Pd: come se se si fosse imbracciato il fucile “a prescindere” (direbbe Totò) e non si aspettasse altro che sparare sui professori universitari, considerati la vera radice di tutti i mali dell’Università. I professori universitari, ribadisco: non coloro che hanno sgovernato, e continuano a sgovernare questo paese; quei professori che, in una sorta di lavacro, dovrebbero essere eliminati con un’operazione di tipo gattopardesco sostituendo a un vecchio ceto un nuovo ceto. E per aver citato una battuta in chiave antiutopistica di Antonio Labriola – uno dei più grandi studiosi di Marx che l’Italia abbia avuto mi sono trovato ad essere annoverato tra i conservatori, anzi tra gli apologeti della “tradizione”: come se Labriola fosse Joseph de Maistre o Edmund Burke.
Eppure è stata una polemica istruttiva. Essa dimostra che l’ideologia “generazionale” è assai ramificata ed è spia di disagi strutturali; che tra le generazioni è sceso il “coltello della divisione”; che è venuto meno un linguaggio unitario. Occorre un lungo lavoro per rimettere il Paese e l’Università: gli shock generazionali, le rotture velenose, gli atteggiamenti pregiudiziali non portano da nessuna parte. In questo momento è necessario il contrario: un paziente lavoro di reciproco ascolto per individuare un terreno comune; e per questo anche l’Unità può dare un contributo.

il Fatto 15.6.10
Pretendiamo rispetto
di Gian Carlo Caselli

Ennesimo attacco del premier contro i giudici, che sarebbero “politicizzati” e avrebbero l’obiettivo di rovesciare per via giudiziaria il risultato elettorale. Tesi non priva di un che di grottesco. Liquidata dalla “Jena”, sul quotidiano “La Stampa”, osservando che dopo 16 anni di tentativi inutili i giudici andrebbero licenziati per manifesta incapacità... Ma l’ironia non basta. La ripetizione ossessiva di una tesi, anche bislacca, con martellanti campagne spesso prive di contraddittorio, finisce per diffondere e consolidare un pregiudizio pericoloso per la democrazia. Perché in democrazia la fiducia dei cittadini nella giustizia non è un optional, ma un elemento strutturale: se viene meno, si affaccia il rischio di derive illiberali e disgreganti. I tentativi del premier di circoscrivere i suoi attacchi ad una parte della magistratura non sono credibili perché smentiti dalle vicende degli ultimi anni. L’attacco si è rivelato a geometria variabile, nel senso che è di assoluta evidenza come siano stati costretti a subirlo tutti i magistrati (proprio tutti: pm e giudici, fino alle Sezioni Unite della Cassazione e addirittura alla Corte costituzionale) che adempiendo i loro doveri, in qualunque città o ufficio, abbiano avuto la sventura di imbattersi in interessi che pretendono di sottrarsi ai controlli istituzionali previsti per tutti gli altri.
Ma l’obiettivo di una propaganda tanto infondata quanto insistita è anche distogliere l’attenzione rispetto ai veri problemi che angosciano il Paese. Riproporre il vecchio ma sempre verde ritornello della magistratura politicizzata significa parlare meno della crisi economica; della manovra finanziaria; delle pensioni; del lavoro che non c’è o se c’è è sempre più spesso nero, precario, insicuro. Significa provare ad offuscare la realtà incontestabile di una legge sulle intercettazioni che stritola in una tenaglia micidiale informazione, investigazione e sicurezza dei cittadini, picconando in un colpo solo alcune pietre angolari della democrazia. Significa continuare ad ignorare la catastrofe annunziata del sistema giustizia, per tirare invece la volata a riforme che invece di migliorare anche solo un poco l’efficienza del sistema taglieranno ancora di più le unghie agli inquirenti. Dunque, evocare complotti giudiziari, disegni politici realizzati mediante l’azione penale, persecuzioni per motivi di parte può essere utile perché sempre meno si ragioni sui fatti. Ma questi metodi e questa cultura rischiano di uccidere la verità e la giustizia, rendendo un pessimo servizio al Paese. L’Associazione nazionale magistrati, facendo il suo mestiere, prova ad arginare questa strumentale ondata di propaganda basata sul nulla, ma gli spazi che riesce a ritagliarsi sono sempre più esigui. Il Consiglio superiore della magistratura ha sempre fatto di tutto per difendere l’autonomia e l’indipendenza dei giudici contro gli attacchi di certa politica, ma non possiede radio o televisioni che diffondano ovunque il suo “verbo”. Anzi, dovrà presto pagare il rifiuto sempre opposto alle richieste di maggior “docilità” subendo una trasformazione (due Csm separati per separare le carriere, in vista della agognata – anche se a parole negata – sottoposizione del pm al governo), trasformazione che non è prevista dalla Costituzione, ma tanto si sa che la Costituzione è vista da qualcuno come una pratica da archiviare, non come una Carta di valori irrinunciabili, una spinta al continuo miglioramento del tasso di democrazia del sistema, che nello stesso tempo funziona da argine ai tentativi di arretramento.
Il ministro Guardasigilli, il presidente della Camera e il presidente del Senato potrebbero, ciascuno nell’ambito delle proprie competenze istituzionali, intervenire in qualche modo per recuperare un clima di rispetto verso l’ordine giudiziario. Non mi sembra che abbiano molta voglia di farlo. E allora, non resta che sperare in qualcun altro. Che però è troppo in alto perché possa arrivargli la voce sommessa di uno dei tanti servitori dello Stato stanchi di essere vilipesi “a gratis”.

Repubblica 15.6.10
Ambra a teatro con "I pugni in tasca" "Ma come ho pianto per Bellocchio"
Ospite del festival di Taormina, l'attrice racconta gli esordi in tv e la fatica dello studio

di Maria Pia Fusco

TAORMINA. Il primo incontro di Ambra Angiolini con Marco Bellocchio per un provino non si può definire esattamente felice. «Non capisco come una con quella faccia abbia quella voce», fu il commento del regista, che però le diede un´altra possibilità «ma fu un disastro, perché non riuscivo a smettere di piangere. Piansi per tutto il viaggio di ritorno a casa», ricorda Ambra Angiolini. Ma «Marco è una persona priva di pregiudizi, ricco di una sana curiosità e si è fatto sorprendere: mi ha richiamato al festival di Bobbio, abbiamo girato un cortometraggio e soprattutto mi ha coinvolto nella versione teatrale di I pugni in tasca». Scritto dallo stesso Bellocchio è in programma la prossima stagione, quattro mesi in vari teatri italiani: regia di Stefania De Santis, Ambra nel ruolo che fu di Paola Pitagora, Piergiorgio Bellocchio in quello di Lou Castel.
I pugni in tasca, considerato in seguito anticipatore della contestazione, è un film del 1965, Ambra è nata 12 anni dopo. Ma «è una storia di grande impatto anche per chi il ´68 non l´ha vissuto. Più che nel contesto politico, che resterà lo stesso nella versione teatrale, il fascino è in quello familiare. È una famiglia che non riesce a controllare le distanze e in cui c´è qualcosa di torbido che è anche modo di comunicare. Ho letto una corrispondenza tra Bellocchio e Pasolini, che definiva I pugni in tasca "un cinema di prosa che ogni tanto sfocia nella poesia". Mi sembra una riflessione perfetta per tutto il cinema bello». Una vicenda come quella del film di esordio di Bellocchio «sarebbe difficile da proporre oggi. Non si potrebbe tenere nascosta la malattia o l´abuso, oggi finirebbero su Internet. Con il risultato che la famiglia, che dovrebbe essere sostegno e protezione diventa prigione e causa di autodistruzione. In un tempo in cui se ne parla tanto mi sembra giusto ricordare che ci sono ancora tante famiglie di questo tipo. Basta leggere certi casi di cronaca». Ospite di Taormina, Ambra ha incontrato i giovani del Campus ai quali ha raccontato la propria esperienza di adolescente a cui «la popolarità è arrivata per caso. Ma da allora sono passati 19 anni di lavoro, di studio, anche di fatica». Oggi è un´attrice con più di un film in uscita, tra i quali Notizie dagli scavi di Emidio Greco con Battiston e Immaturi di Paolo Genovesi, una fiction per la Rai e una sit-com con Fabio De Luigi per Mediaset. E anche attrice di teatro. Dopo una prova impegnativa come il monologo di Stefano Benni La misteriosa scomparsa di W, «penso che potrò affrontare I pugni in tasca con un pizzico di sicurezza in più. Sarà una prova di coraggio, ma mi piace la compagnia, siamo un gruppo strano, giusto per una famiglia come quella».

Repubblica 15.6.10
"Vendola, governatore stile Obama" sul "Times" l'elogio di Emmott

ROMA - Nichi Vendola «è l´uomo da tenere d´occhio nella sinistra in Italia», perché sta combinando con successo mercato e competizione con i valori sociali della sinistra. Parola di Bill Emmott, ex direttore dell´Economist che ieri sul Times ha raccontato quello che sta succedendo «nel tacco d´Italia: una rinfrescante combinazione di vecchi valori e capitalismo». Per Emmott, il governatore della Puglia è un esempio per la sinistra europea in crisi. Vendola «è un mobilizzatore in stile Obama, con l´oratoria e il carisma per creare sogni, e sta costruendo un movimento nazionale. Come governatore, ha almeno in parte accettato che il problema del Meridione è stato troppo Stato e troppo poco mercato e ha spostato il proprio interventismo verso le infrastrutture locali, verso la concessione di borse di studio a 10.000 studenti, per consentire loro di studiare fuori dalla regione, e verso l´ambientalismo».

lunedì 14 giugno 2010

l’Unità 14.6.10
5 risposte da Laura Boldrini portavoce Unhcr in Italia
di Umberto DE Giovannangeli

1. Ufficio Unhcr chiuso. Stiamo trattando per la sua riapertura. Perché è importante che l’ufficio dell’Unhcr possa essere operativo in quanto è l’unico riferimento in Libia per migliaia e migliaia di richiedenti asilo e rifugiati.
2. Da cosa fuggono. I rifugiati in Libia fuggono da situazioni diverse: da guerre che continuano da anni nei loro Paesi, o da violazioni dei diritti umani, oppure da persecuzioni individuali.
3. Italia-Libia: e i diritti?. Gli Stati hanno tutto il diritto di concludere accordi bilaterali finalizzati al contenimento dell’immigrazione irregolare. Quello che è importante, per noi, è che nell’ambito di questi accordi vengano inserite tutele e garanzie per coloro che hanno bisogno di asilo.
4. Il Mediterraneo oggi. Se è vero che nelle coste italiane vi è stata una drastica diminuzione degli arrivi via mare, è altrettanto vero che vi è stata una netta diminuzione delle domande di asilo, a conferma che chi tentava con ogni mezzo di arrivare a Lampedusa era spesso perché aveva bisogno di protezione internazionale.
5. L’allarme. La politica dei respingimenti più che contrastare l’immigrazione irregolare sta mettendo a dura prova il riconoscere il diritto d’asilo in Italia.

l’Unità 14.6.10
Affari e oro nero dietro il silenzio sui diritti umani
Torture e violenze sui «sans papier», chiuso l’ufficio dell’Unhcr Ma Berlusconi tace per tutelare la rete dei grandi appalti
di Umberto De Giovannangeli

Non parlategli dei diritti umani negati. Non chiedetegli quando riaprirà l’ufficio dell’Unhcr (l’Alto commissariato Onu per i rifugiati). E non provateci nemmeno a sottoporgli un recente rapporto della Ong Human Rights Watch, nel quale si denuncia che tutti i «sans papier» nei centri libici hanno sofferto torture, maltrattamenti, detenzione senza limite di tempo e «condizioni inumane e degradanti». E se volete farlo uscire dai gangheri ricordategli quanto affermato da Amnesty International sull’accordo di «Amicizia, partenariato e cooperazione» firmato da Berlusconi e Gheddafi a Tripoli nell’agosto 2008 e «velocemente ratificato dal» Parlamento italiano a febbraio 2009: «Questo trattato non dedica spazio alla tutela concreta dei diritti umani...» . Non cercate di scalfire quello che il «Guardian» definì «un altamente discutibile comune interesse negli affari». Il comune interesse che lega indissolubilmente il Cavaliere e il Colonnello. Tripoli bel suol d'affari...Questo è per Silvio Berlusconi la Libia di Muammar Gheddafi. Non solo autostrade, cantieri, infrastrutture (in prima linea imprese come Impregilo e Finmeccanica). Ma anche petrolio e gas.
L’Eni ha rinegoziato nel giugno 2008 i sei cantieri di esplorazione ed estrazione con la compagnia nazionale libica, ottenendo un allungamento della concessione al 2042 per il petrolio ed al 2027 per il gas. Non solo oro nero. Ma anche cemento. E commesse per almeno 153 miliardi di dollari. L’Impregilo sta costruendo tre centri universitari, la Conicons sta modernizzando l'aeroporto di Ghat, la Trevi sta realizzando l'hotel-reggia al-Ghazala a Tripoli, per citare solo alcuni dei lavori in corso. Sempre l’Impregilo ha già realizzato diverse importanti opere pubbliche in Libia: gli aeroporti di Kufra, Benina e Misuratah, e il Parlamento a Sirte. Nel luglio 2009 è datato un accordo che ha permesso all’Ansaldo, società del gruppo Finmeccanica, di aggiudicarsi una commessa da 541 milioni di euro in Libia. Il contratto riguarda la realizzazione dei sistemi di segnalamento e connessi impianti di telecomunicazioni e di alimentazione relativi alla linea ferroviaria costiera Ras Ajdir-Sirte e quella verso l’interno Al-Hisha-Sabha, per un totale di circa 1.450 chilometri.
Fondi impegnati. Nell’ottobre 2008 la Banca centrale libica (che gestisce circa la metà delle riserve valutarie della Libia) ha aumentato la propria quota di partecipazione all’interno di Unicredit dallo 0.9% al 4,23%, diventando il secondo azionista della banca. Unicredit, e non solo. Il fondo sovrano libico «è pronto ad entrare in altre banche italiane» e a «salire in Eni». Lo affermava afferma il presidente del Lya (Libya Africa Investment) e ministro della Pianificazione di Tripoli Abdulhafid Zlitni in un’intervista (14 febbraio 2009) al Corriere della Sera. «'Abbiamo -spiegauna liquidità altissima, disponibilità per 80 miliardi di dollari. Siamo in Unicredit e c’è stato un piccolo aumento della nostra quota da quando siamo entrati. Ma abbiamo dato la nostra disponibilità all'ingresso anche in altre banche. In questo periodo le banche sono in sofferenza. E può darsi che in questo quadro sia anche desiderio delle banche italiane cercare la nostra collaborazione». Un «desiderio» ampiamente praticato.

l’Unità 14.6.10
Oggi la Fiom si esprimerà sulla proposta della Fiat. Le tute blu: svolta nelle relazioni sindacali
Il progetto prevede, tra l’altro, provvedimenti disciplinari per chi aderisce a uno sciopero
E per i lavoratori meno diritti
Pomigliano la prova generale
Oggi il comitato centrale della Fiom ribadirà il suo no alla proposta Fiat per Pomigliano d’Arco, già accettata dagli altri sindacati. «Sarà la prova generale per eliminare il sindacato».
di Luigina Venturelli

Tutti gli occhi sono puntati sulla Fiom, che oggi si esprimerà in via definitiva sulla proposta della Fiat per Pomigliano d’Arco, già accettata dalle altre organizzazioni sindacali: 700 milioni d’investimenti e 5mila posti di lavoro al prezzo di un accordo che farebbe delllo stabilimento campano «una zona franca dal contratto nazionale, dalle leggi e perfino dalla Costituzione».
LA SVOLTA ATTESA
Il comitato centrale delle tute blu Cgil non dovrebbe riservare sorprese: ribadirà il suo giudizio negativo sul documento del Lingotto e sfiderà l’azienda a trattare dei reali problemi d’efficienza e produttività della fabbrica. Ma attirerà comunque l’attenzione di certo mondo politico ed economico che, archiviata la decisione della Fiom, preparano «una svolta nelle relazioni industriali italiane». Così l’aveva definita il ministro del Lavoro Maurizio Sacconi, presto superato in fantasia dal collega Giulio Tremonti che ieri, dal palco della festa nazionale della Cisl, l’ha ribattezzata «economia sociale di mercato», ovvero «la via giusta da seguire, quella di Pomigliano». Non a caso, racconta Enzo Masini, responsabile auto dei metalmeccanici Cgil, «decine di grandi gruppi industriali stanno aspettando di vedere che cosa succede e come si comporterà la Fiat, per poi fare altrettanto».
LE CLAUSOLE VESSATORIE
Per capirne meglio la sostanza, è necessario addentrarsi nei dettagli della proposta Fiat, tra le condizioni che il gruppo torinese ritiene irrinunciabili per produrre automobili sul suolo italiano e che il sindacato dei metalmeccanici Cgil giudica «inaccettabili». La più eclatante è quella che introduce provvedimenti disciplinari fino al licenziamento per il lavoratore che aderisce a uno sciopero che, in qualsiasi modo, metta in discussione l’accordo. Ad esempio perchè contesta i ritmi di lavoro o gli straordinari: «La valutazione è a totale discrezione dell’azienda, che in questo modo deroga all’articolo 40 della nostra Costituzione» spiega il responsabile auto della Fiom, Enzo Masini.
Una disposizione che va di pari passo con le sanzioni per i singoli sindacati e le singole Rsu che proclamino le suddette iniziative di lotta. Azzardo per il quale saranno puntite con il blocco dei versamenti dei contributi sindacali e la sospensione dei permessi sindacali previsti dalla legge 300 del 1970, anche detta Statuto dei lavoratori. Ed ancora: quando si verificheranno picchi di assenteismo anomalo, l’azienda non pagherà la quota di malattia che le impone il contratto nazionale, «come se già non avesse tutti gli strumenti per fare controlli e punire gli abusi». Né pagherà i tre giorni trascorsi al seggio elettorale dai rappresentanti di lista, come invece vorrebbe la legge elettorale. Infine, il testo Fiat deroga alla legge 66/03 che recepisce la direttiva Ue in materia di orari di lavoro, e richiede di lavorare anche otto ore consecutive senza la mezz’ora di pausa per la mensa, contata come straordinario. Ecco il nuovo corso sognato dalla Confindustria e dal governo. E di cui «Pomigliano sarà solo la prova generale».
L’INVITO DI EPIFANI
Per questo la Fiom oggi rinnoverà il suo no. Nonostante le parole più concilianti del segretario generale della Cgil: «Pomigliano non ha alternative. Napoli non ha alternative sul suo territorio. Servono occupazione, sviluppo e investimenti» ha rilevato ieri Guglielmo Epifani, dalla festa Cisl, ricordando anche la decisione del Lingotto di dismettere Termini Imerese. Ma Enzo Masini non ha dubbi: «Se qualcuno in Cgil non l’avesse capito, questa è la prova generale per ucciderci come sindacato, per annullare la presenza sindacale sui posti di lavoro».

l’Unità 14.6.10
Durante il Ventennio scioperare era un crimine contro lo Stato
Indietro di 40 anni
tutto in nome della produttività
Nel 2010 la Costituzione e lo Statuto dei lavoratori sono diventate figure mitologiche. Con l’accordo Fiat si registra l’attacco all’articolo 40, quello che tutela il diritto di sciopero
di G. Civati e M. Ruffini

Sembra che l’Italia stia facendo di tutto per spostare le lancette dell’orologio indietro di una quarantina d’anni. E così ci troviamo di slancio in un’epoca precedente al 1970, quando un Parlamento incalzato dai sindacati fu portato ad approvare lo Statuto dei lavoratori. Ma non ci basta, no: rischiamo di scivolare ancora più indietro, quando durante un altro Ventennio, il codice penale considerava lo sciopero come un reato, come un crimine verso l’azienda e verso il Paese.
Con l’avvento della Repubblica democratica fondata sul lavoro, i Costituenti si resero conto che, «se è vero che lo Stato è chiamato a tutelare il lavoro, con ciò non si esclude che anche la classe lavoratrice possa tutelare essa pure direttamente il lavoro» (Ghidini). Tutti i Costituenti, e non solo quelli che militavano nel Pci, ritennero «urgente ed indispensabile che una legge» riconoscesse «il diritto di sciopero dei lavoratori, abrogando i divieti fascisti in materia» (Fanfani) e vollero affermare come diritto «quello che il fascismo definiva a torto delitto» (Merlin). Perché il diritto di sciopero «non è altro che la logica derivazione del diritto alla legittima difesa, non è che una triste necessaria conseguenza di un rapporto di forza (...) fra capitale e lavoro» (Taviani). Era questo il clima in cui fu approvato l’art. 40 della Costituzione.
Ora siamo nel 2010 e la Costituzione e lo Statuto dei lavoratori sono diventate figure mitologiche rimpiante con nostalgia da qualche romantico isolato. Annuncio dopo annuncio, proclama dopo proclama, di quelle conquiste rischiamo che non rimanga più neanche il ricordo. Così, assistiamo increduli alla nuova stagione ricostituente che si sta consumando a Pomigliano: dopo l’attacco (retorico) della scorsa settimana all’articolo 41 della Costituzione italiana, ora dobbiamo registrare l’attacco (effettivo) all’articolo 40. Un articolo al giorno leva la Costituzione di torno.
Un invito alla responsabilità è stato rivolto dall’azienda ai lavoratori. E i lavoratori della Fiat questo caloroso appello l’hanno raccolto e hanno accettato una profonda riorganizzazione e l’intensificazione dei turni di lavoro, compreso il sabato notte. Ma, anche in questo caso, non bastava: ci voleva anche la compressione del diritto di sciopero.
Tutto all’insegna della modernizzazione e della produttività, ovviamente. E di una riforma dello Statuto dei lavoratori, che forse in futuro non sarà nemmeno necessaria: perché dello Statuto e degli opportuni riferimenti costituzionali si può anche fare a meno. A Pomigliano e nel resto del Paese.

l’Unità 14.6.10
Pomigliano, così muore il contratto
di Bruno Ugolini

È in atto l’agonia del contratto nazionale. Stanno infatti addensandosi, per iniziativa del centrodestra, una serie di “deroghe” che lentamente svuotano quel sistema che univa il mondo del lavoro. Per la felicità di quanti (vedi la Lega) perseguono condizioni di lavoro differenziate tra Nord e Sud.
Ora, col caso Pomigliano, c’è qualcosa di più e ministri e commentatori esultano per la svolta storica. Non consiste solo nelle “deroghe” al contratto nazionale per rendere quella Fiat competitiva. Stavolta c’è la deroga a un diritto costituzionale, quello riferito al diritto di sciopero. Un diritto non in mano al sindacato ma all’individuo. Un’abolizione richiesta non per qualche mese ma per sempre. Un precedente. Poi magari sarà la volta di un’azienda chimica o di un’azienda editoriale, quella dove magari lavorano tanti solerti commentatori. Un atto motivato dalla crisi perché le ristrutturazioni comporterebbero l’assoluta pace sociale, non trattative o confronti. Non ci state? Portiamo la fabbrica in Polonia. La Fiom sembra la più ostinata nel rifiuto e cerca un’alternativa, una via d’uscita. Non intende essere additata alla pubblica gogna. Un semplice, netto rifiuto cambierebbe lo stato delle cose? Forse la Fiat procederebbe comunque nei suoi intenti accontentandosi di un accordo separato oppure dirotterebbe i promessi investimenti all’Est. L’annunciato referendum potrebbe poi far prevalere tra i lavoratori, intimoriti, una disponibilità ad accettare il ricatto.
Una morsa infernale. La posta in gioco è altissima. L’attacco alla Costituzione parte da Palazzo Chigi, arriva ai convegni dei giovani industriali, arriva alle imprese che annaspano e cercano ricette facili. Come se l’assenza del conflitto coincidesse con l’efficienza (non siamo certo all’epoca della conflittualità permanente o dell’assenteismo esasperato). E come se davvero si potesse impedire il conflitto (sta esplodendo persino in Cina). Forse i sindacati metalmeccanici avrebbero potuto proporre un periodo di tregua garantita, limitata nel tempo (la Fim aveva fatto un passo in tal senso, subito evitato dalla Fiat) e attestarsi su quella indicazione. L’iniziativa sarebbe apparsa forte e autorevole, se sostenuta unitariamente, con la capacità di uscire dalla forbice tra acquiescenza e rifiuto.
C’è anche chi pensa che quella in corso sia una sceneggiata. Il destino di Pomigliano sarebbe già stato segnato e non resterebbe che trovare un capro espiatorio, ovverosia la maledetta Fiom. Una ragione di più per non concedere alcun alibi in tal senso. Che Marchionne scopra le sue carte. Con la consapevolezza che, del resto, nessuna intesa aziendale può seppellire il diritto di sciopero. Non lo fu nemmeno nel 1943.

l’Unità 14.6.10
Dopo la manifestazione di sabato
Ora lo sciopero generale

Ed ora lo sciopero generale. Dopo il grande successo della manifestazione nazionale di sabato scorso, la CGIL prosegue nella mobilitazione contro la cosiddetta manovra “correttiva” che nei prossimi giorni sarà discussa in Parlamento e sulla quale è assai probabile che l’esecutivo ponga la fiducia, blindando così un complesso di misure sbagliato e iniquo. Lo sciopero generale (per l’intera giornata per i lavoratori pubblici, quattro ore per i privati) è stato proclamato dalla CGIL per venerdì 25 giugno, ma si svolgerà venerdì 2 luglio in Liguria, Toscana e Piemonte. Nel recente Comitato direttivo della confederazione, il segretario generale Guglielmo Epifani ha sottolineato come il sindacato sia convinto che i conti pubblici debbano tornare in equilibrio, ma il dl n. 78, e anche i contenuti annunciati del maxiemendamento che il governo si accinge a presentare in aula, sono del tutto insufficienti. Le critiche di Epifani sono chiare, di merito: non vi sono i provvedimenti chiesti dalla CGIL a sostegno dell’occupazione, della crescita e dello sviluppo. Non si accetta il dialogo su un’ipotesi di manovra alternativa. Al contrario, i costi della crisi vengono tutti scaricati sui lavoratori dipendenti, pubblici e privati, sulle regioni, sugli enti locali (con pesanti conseguenze sui servizi e sui trasporti), sulla ricerca e la cultura, sulla formazione e la scuola, sulle pensioni, sugli invalidi, in buona sostanza sui cittadini più esposti. La manovra – afferma la CGIL – è iniqua al Nord come nel Mezzogiorno; colpisce tanto i giovani quanto i pensionati; sottrae risorse alla parte più debole del paese. Una scelta di campo, quella del governo, che non tocca in alcun modo quel dieci per cento di italiani che detengono il 45 per cento della ricchezza nazionale e non riguarda i top manager pubblici e privati. Tutti costoro, compreso il sistema delle imprese, non pagheranno un euro in più. La verità, come afferma il documento approvato dal Direttivo della CGIL, è che la condizione deficita-
ria dei conti pubblici italiani non è stata dettata solo dalla crisi e dalla congiuntura internazionale, ma principalmente dagli errori commessi nella gestione della finanza pubblica e dalla scelte di politica economica compiute dall’attuale governo, in un contesto di subalternità della stessa Confindustria. Non è con i tagli “lineari” alla spesa pubblica – rileva la CGIL – che si esce dalla crisi. Senza una politica per la crescita e per l’occupazione, il rischio è di dovere decidere a breve una nuova manovra “correttiva”. La CGIL rilancia le sue proposte di rifinanziamento degli ammortizzatori in deroga, di riforma del sistema di sostegno al lavoro e alla piena occupazione. Il sindacato ricorda anche come in molti paesi euro-
pei i sindacati stiano programmando iniziative di protesta e di lotta unitarie. “Se nel nostro paese Cisl e Uil si rendessero disponibili ad una mobilitazione unitaria – afferma il documento del Direttivo – tutto il sindacato sarebbe più forte nel contrastare e cambiare una manovra tanto ingiusta e iniqua”.
La CGIL ha ribadito anche la propria contrarietà alla controriforma del diritto del lavoro e al disegno di legge sulle intercettazioni manifestando la disponibilità ad organizzare iniziative unitarie di mobilitazione in accordo con gli operatori della sicurezza, con i magistrati e i giornalisti e con le associazioni e i movimenti della società civile.

Repubblica 14.6.10
Tremonti: addio conflitti sul lavoro Pomigliano sarà un modello per tutti
Turni duri e scioperi limitati. Epifani: Napoli senza alternative
"Via all´economia sociale di mercato" Oggi si pronuncia la Fiom. Cambia lo Statuto lavoratori
di Adriano Bonafede

ROMA - Tremonti benedice l´accordo tra Fiat e sindacati sullo stabilimento di Pomigliano già firmato da Cisl e Uil. «Con la globalizzazione - ha detto ieri il ministro dell´Economia alla festa della Cisl - è finito il conflitto tra capitale e lavoro. Io, tra la dialettica continua di questo conflitto e l´economia sociale di mercato, non ho dubbi: la via giusta è quella dell´economia sociale di mercato, quella di Pomigliano». Questa intesa è stata dunque additata come esempio di quelle che dovrebbero essere in futuro le relazioni tra le imprese e i lavoratori: pochi regole comuni nei contratti nazionali e tutto il resto demandato a contratti locali, settoriali e aziendali, come dirà lo Statuto dei lavori che sostituirà lo Statuto dei lavoratori.
Sulla vicenda di Pomigliano è poi intervenuto Guglielmo Epifani, anche lui invitato alla festa della Cisl. In attesa che oggi si pronunci il Comitato centrale della Fiom - che venerdì sera non ha firmato il documento proposto dal Lingotto respingendolo come un "diktat" - il segretario generale della Cgil non si è sottratto al confronto. E ha riconosciuto che «Pomigliano non ha alternative. Napoli non ha alternative sul suo territorio. Servono occupazione, sviluppo e investimenti». Perché, ha spiegato, «se non dicessimo questo saremmo in contrasto con tutto ciò che abbiamo fatto in passato, con gli scioperi, le mobilitazioni con i giovani, con la Chiesa. Già altre volte la Fiat aveva ipotizzato la chiusura, ma siamo sempre riusciti a far restare la produzione». Epifani ha anche chiesto di «non dimenticare neppure Termini Imerese. Nemmeno qui c´è altro».
L´intervento di Epifani sembra aprire la strada a un atteggiamento possibilista da parte della Cgil verso un accordo che per molti versi rappresenta una svolta nella storia delle relazioni industriali. Vediamolo da vicino. Secondo il piano della Fiat tutti dovranno lavorare a rotazione su tre turni giornalieri di otto ore, e solo l´ultima mezz´ora sarà dedicata alla refezione. Inoltre, la settimana lavorativa sarà alternativamente di sei e di quattro giorni, mentre l´azienda potrà richiedere 80 ore di straordinario annuale a persona senza bisogno di preventivo accordo sindacale e con un minimo preavviso. Capisaldi di questa intesa sono anche la contrazione della pausa da 40 a 30 minuti e il possibile recupero di perdite di produzione dovute a qualsiasi motivo anche nella mezz´ora di fine turno o nei giorni di riposo. L´altro elemento qualificante dell´accordo è un minuzioso controllo tramite computer per calcolare e verificare i movimenti che un operaio deve compiere.
Se Pomigliano viene salutato da Tremonti come un nuovo e positivo modello di relazioni industriali, dal Pd segnali di preoccupazione. «La discussione in cui è impegnata una parte del sindacato - ha detto Stefano Fassina, responsabile economico del Pd - è una discussione seria, perché la soluzione Fiat a Pomigliano mette in primo piano un´acuta contraddizione tra occupazione e diritti dei lavoratori. La competitività delle imprese è importante, ma i diritti e la dignità del lavoro non possono essere la variabile compensativa delle rendite e degli interessi corporativi difesi dalla destra di Sacconi, Tremonti e Berlusconi». Fassina auspica comunque «che il senso di responsabilità prevalga e l´investimento Fiat vada avanti come previsto. Tuttavia il governo rischia di dare una pericolosa dimensione politica alla richiesta di deroghe sul diritto di sciopero incluse nel documento conclusivo della casa automobilistica».

Repubblica 14.6.10
Un dilemma storico per la Cgil salvare i posti rinunciando ai diritti
Ma il vertice promuove i tempi di produzione giapponesi
Attesi il giudizio sul piano Fiat, la decisione sul referendum e la indicazione di voto
di Roberto Mania

ROMA - I loro nomi ai più non dicono nulla. Ma Michele Gravano e Peppe Errico potrebbero diventare i sindacalisti chiave nella delicatissima vicenda per la sopravvivenza dello stabilimento della Fiat a Pomigliano d´Arco. Il primo è il segretario della Cgil Campania, il secondo di quella di Napoli. Entrambi sono ex operai proprio di Pomigliano. Due giorni fa hanno rilasciato una dichiarazione congiunta diretta ai «compagni» della Fiom: «E´ il momento di assumersi le responsabilità all´altezza della storia della Cgil meridionale».
Difficile pensare che quelle parole non siano state concordate con i vertici romani di Corso d´Italia. E infatti il senso delle affermazioni pronunciate ieri dal leader della Cgil, Guglielmo Epifani, stanno lungo quel tracciato: «Pomigliano non ha alternative. Servono occupazione, sviluppo e investimenti». Insomma non può essere la Cgil a «chiudere» definitivamente i cancelli della fabbrica campana, dopo che gli altri sindacati hanno aderito alla proposta dell´azienda. Eppure le incognite restano. E sono tante. Oggi si riuniscono la segreteria della Cgil e il Comitato centrale della Fiom che dovrà decidere se accettare il piano della Fiat, se partecipare al referendum tra i lavoratori, se dare il sì o il no come indicazione di voto. La «tripla» più difficile da decenni per i metalmeccanici fiommini. Potrebbe arrivare una clamorosa spaccatura interna insieme alla sconfessione della linea da parte della stessa confederazione dopo il messaggio, per quanto cauto, di Epifani. Di certo la vertenza Pomigliano è diventata il paradigma di un nuovo modello di relazioni industriali. L´ha detto il ministro del Lavoro, Maurizio Sacconi, ne è convinta la presidente della Confindustria, Emma Marcegaglia. Lo sanno la Cisl e la Uil di Raffaele Bonanni e Luigi Angeletti. Il Lingotto fa da apripista come già accadde nel 1980 con la «marcia dei quarantamila» per le vie di Torino che infilò i sindacati in una profonda e lunga crisi di rappresentatività e cambiò per decenni i rapporti di forza, come si diceva all´epoca, tra capitale e lavoro.
L´italo-canadese Sergio Marchionne detesta i rituali del nostro sindacalismo, ma è un abile negoziatore: ha piegato la General Motors nello scontro sulla cosiddetta «put», poi ha inchiodato i potenti sindacati americani dell´auto ad accettare durissimi sacrifici per non abbandonare al fallimento la Chrysler, ora ha lasciato nelle mani dei conflittualisti della Fiom il cerino di Pomigliano. Prendere. O lasciare che la Panda continui ad essere prodotta in Polonia a Tichy, dove la produttività è alta e la difettosità bassa, cioè l´opposto di Pomigliano dove proprio Marchionne tentò nel 2007, ma con risultati insufficienti, la «rieducazione» dei 5.000 addetti ai nuovi canoni della produzione automobilistica, quelli della world class manufacturing ispirati dal giapponese Hajime Yamashina. Ora ci riprova.
Marchionne ha messo sul tavolo 700 milioni di investimento, la conferma dei posti di lavoro (15 mila con l´indotto). Ma ha chiesto più turni di lavoro, meno pause, più straordinari obbligatori, l´azzeramento dell´anomalo assenteismo in occasione degli appuntamenti elettorali. E anche la limitazione del diritto di sciopero e al pagamento dei primi giorni di malattia. Un pacchetto da prendere tutto insieme o da lasciare sul tavolo, mentre la crisi sta decimando posti di lavoro. Questo è il dilemma di Epifani che ben sa come il ricorso al referendum possa trasformarsi in una grande sconfitta per la Cgil: chi potrà votare a favore del proprio licenziamento?
La matassa è complessa e intricata. La proposta di Marchionne deroga al contratto nazionale e anche alla legge. La Cgil pensa che possa violare addirittura la Costituzione laddove sanziona gli scioperanti. Epifani ha chiesto un parere ai suoi giuristi che dubitano si possa fare un referendum sindacale su quei temi. Però - e non è di poco conto - Epifani ha sostanzialmente detto sì alla nuova organizzazione del lavoro. Ora scommette sui due anni entro i quali andrà a regime il piano di Torino. Una tattica attendista che mal si concilia con il rapido decisionismo di Marchionne.

Repubblica 14.6.10
La democrazia bendata
di Adriano Prosperi

Con la legge sulle intercettazioni sta passando in Italia una aggressione senza precedenti a due pilastri dello stato di diritto: l´uguaglianza dei cittadini davanti alla legge e la libertà di informazione e di opinione. La legge varata dal Senato tura le orecchie della giustizia.
E tura gli occhi dei cittadini davanti alle prove della criminalità più influente e pericolosa, quella del potere politico. Si scioglie il vincolo che lega il diritto e lo Stato: come ha scritto lo storico Wolfgang Reinhard nella sua Storia dello Stato moderno (Il Mulino, 2010), in origine il diritto e lo Stato non avevano lo stretto legame che oggi li unisce: per il diritto contava la giustizia, per lo stato contava il potere. Il legame si scioglie quando l´uso brutale o astuto del potere fa del diritto uno strumento unilaterale di dominio e ne cancella la componente "dal basso", cioè le convinzioni morali e le consuetudini diffuse nella società.
Oggi l´Italia mostra al mondo come si fa a dissolvere lo Stato di diritto senza ricorrere alla violenza, senza bisogno di quel "rumore di sciabole" che abbiamo tante volte creduto di sentire nel cinquantennio passato. L´argomento del potere è il mandato popolare a governare, ricevuto in sede elettorale e confermato dai sondaggi. La domanda da porsi è dunque una sola: poiché viviamo in un sistema formalmente democratico e non ci sono carri armati per le strade, che cosa impedisce una reazione da parte dell´opinione pubblica? È evidente infatti che senza un movimento forte e diffuso gli argini opposti dalla Carta costituzionale sono fragile difesa. Non per niente la mossa successiva già annunciata dal presidente del Consiglio è la modifica della Costituzione. Il che mostra quanto sia semplice e prevedibile il canovaccio a cui obbedisce lo scenario che stiamo vivendo.
La sovranità popolare affermata dalla Costituzione è una finzione giuridica: il popolo sovrano resta anche in Italia un principe senza scettro, come scrisse a suo tempo Lelio Basso. Basta una situazione di emergenza perché il potere politico faccia straccio della Costituzione, abolendola formalmente oppure logorandola e diffamandola ogni giorno (come oggi accade) tanto da farla morire nelle coscienze prima di sovvertirla formalmente. La situazione di emergenza in Italia c´è. La crisi finanziaria ha prodotto disoccupazione, tagli unilaterali dei servizi sociali, pressione sulle fasce più deboli (giovani, donne, lavoratori dipendenti). L´unità stessa del paese è sempre più una finzione, insidiata com´è dal progettato federalismo fiscale e prima ancora da un´ondata di egoismo locale che ha visto trionfare sotto etichette diverse il modello della Lega. Il consenso generale che premiò l´adesione dell´Italia all´euro esprimeva una speranza oggi languente: che al di là delle deficienze di legalità e di moralità del Paese si potesse investire nella costruzione di una grande realtà politica dotata di quella salda coscienza di sé e di quella più alta tradizione statale e giuridica che faceva difetto all´Italia.
Oggi l´ideale europeistico è offuscato. Da noi il vincolo di identificazione del cittadino col Paese, tradizionalmente debole, è intaccato da un´assidua picconatura del principio stesso di legalità: condoni, sanatorie, "scudi" per evasori, libertinismo e corruzione come metodo e sostanza del governare. Questo ci dà la risposta alla domanda iniziale: la coscienza civile del paese è oggi ridotta allo stremo, esposta – come in un celebre racconto di Mark Twain – a subìre il colpo di grazia. Dopo di che gli autori del delitto potranno governare nella definitiva sicurezza dell´impunità. Ci sono speranze che questo non accada? Le leggi fondamentali di un Paese vivono finché è desto e vigile lo spirito che le ha create. In Germania, paese che ha fatto tragica esperienza di quanto fragile fosse l´argine della Costituzione di Weimar, la Legge fondamentale del secondo dopoguerra ha previsto il diritto dei cittadini alla resistenza in difesa della costituzione (art.20, c. IV). Ma non ci facciamo illusioni: anche in questo caso si tratta di un muro di carta. La resistenza ha da essere un movimento di massa consapevole e ben guidato. E potrebbe guidarla oggi solo una opposizione che, cancellando le divisioni e i conflitti di gruppi dirigenti, si mostrasse finalmente capace di parlare al cuore del paese, risvegliando una coscienza civile che, per essere stata anestetizzata, corrotta, e addormentata, non è ancor morta.

l’Unità 14.6.10
Alfano: «Riforma della giustizia a settembre»
Pd: la Carta non si tocca
Coro di no alla proposta del Guardasigilli che vuole creare due Csm e separare le carriere. Contraria anche l’Udc: non sia una punizione per le toghe, Via libera da Cota: si deve fare
di A. C.

Ancora immersi fino al collo nella legge bavaglio, e in attesa del via libera al nuovo super lodo salva premier, Berlusconi e Alfano lanciano la riforma della Giustizia. «Grande, grande», l’ha più volte definita il premier-chansonnier. Ieri il fedele Guardasigilli si è incaricato di indicare al Corriere della Sera titoli e tempi della modifica costituzionale. «Io sono pronto, a settembre la presento», ha spiegato. Cosa cambierà? «La separazione degli ordini tra pm e giudicanti, con percorsi professionali separati fin dall’inizio»; la creazione di due Csm e di un meccanismo disciplinare che risolva il problema di una giustizia troppo domestica». «La voteremo presto, per varare la Bicamerale di D’Alema ci vollero quattro mesi». Nulla di particolarmente nuovo, a dire la verità. Così come non è nuovo il progetto del premier di sottoporre i pm all’esecutivo, ribadito venerdì sera in una cena con i suoi giovani fans.
Alfano per ora raccoglie soprattutto critiche, tranne lo scontato via libera degli avvocati e il plauso di Bondi. Critiche persino dall’Udc, che su questi temi era sempre stata piuttosto in sintonia col Cavaliere. Dal Pd arriva un no secco:«Siamo contro ogni modifica della Costituzione su questi temi, in particolare diciamo no alle ipotesi di due Csm e di separare ulteriormente le carriere dei magistrati, già oggi nettamente distinte», dice il responsabile Giustizia del Pd Andrea Orlando. Contrarissima l’Idv, con Donadi che ironizza: «Affidare la riforma della giustizia a Berlusconi sarebbe come affidare al lupo di Cappuccetto Rosso la salvaguardia dei boschi».
Ma è dall’Udc che arriva il no che non ci si aspettava, almeno non così netto: «La riforma non sia una sorta di punizione verso i magistrati. Non servono nuovi spot e promesse, serve una riforma che metta al centro i cittadini, che chiedono un sistema giudiziario efficiente», dice Roberto Rao.
Tace per ora l’Anm, parlano diversi membri del Csm. «Nulla di nuovo, sempre e solo un’idea ritorsiva contro i magistrati», dice Livio Pepino (Magistratura democratica). «La separazione delle carriere e la duplicazione del Csm sono inutili», taglia corto Antonio Patrono (Magistratura indipendente). «Sono sempre annunci, quando ci saranno dei testi ragioneremo», dice Fabio Roia di Unicost. Mario Fresa di Movimento per la Giustizia dice no a «interventi di spaccatura che non migliorerebbero di un giorno la durata dei processi». E avverte il ministro: «Tra venti giorni ci sono le elezioni per rinnovare il Csm, dunque la sua riforma entrerebbe in vigore solo tra 4 anni...».
Dalla Lega, ormai sempre più allineata al Cavaliere sui temi della giustizia, arriva il via libera di Cota: «La riforma era prevista e va fatta, la maggioranza ha la compattezza per farla».

Comunicato-stampa
LO SCIOPERO DEGLI SCRUTINI DILAGA NELLE PRIME 7 REGIONI OLTRE 5000 SCRUTINI BLOCCATI
IL 14 E 15 SCIOPERANO TUTTE LE ALTRE REGIONI IL 14 (ore 10) MANIFESTAZIONE A ROMA DAVANTI AL MINISTERO

Con nuove e dilaganti adesioni si è concluso il „primo tempo‰ della lotta in difesa della scuola che ha coinvolto sette Regioni: ed il successo è stato così clamoroso da costringerci ad aggiornarne le cifre di ora in ora. Anche se ci mancano i dati da tante piccole realtà ove i COBAS non sono presenti, il bilancio finale è già di oltre 5000 scrutini bloccati, con l‚Emilia-Romagna che supera i 1500 blocchi, il Veneto oltre i mille, la Sardegna intorno ai 1200 e Umbria, Marche, Puglia e Calabria, insieme, intorno ai 1300. La ferocia sociale e politica di Crudelia Tremont‚ (e della sua spalla Gelmini) ha colpito in primo luogo (senza sottovalutare l‚attacco a tutto il PI e ai servizi sociali) la scuola, già martoriata e umiliata nell‚ultimo quindicennio da tutti i governi, con 41 mila posti di lavoro cancellati, l‚espulsione in massa dei precari e con una Finanziaria-massacro che provoca per docenti ed ATA una perdita economica senza precedenti. Il blocco per tre anni degli scatti di anzianità significa un furto medio di 30 mila euro nell‚arco della l‚intera carriera lavorativa, con massimi di 45 mila (90 milioni di vecchie lire!!) e con un introito iperbolico nelle casse statali di oltre 20 miliardi; ed il furto cresce ancora di migliaia di euro a causa del blocco contrattuale. Un tale nugolo di „mazzate‰ sta facendo dilagare lo sciopero: le adesioni si ingigantiscono di ora in ora e sfuggono ad un conteggio preciso perchè coinvolgono non solo i lavoratori/trici COBAS ma anche molti docenti ed Ata dei sindacati che avevano dichiarato „inutile‰ lo sciopero (ad esempio la FLC, il cui segretario Pantaleo ha invitato a non farlo, battendo poi ogni record di „inutilità‰, con la convocazione di uno sciopero a fine giugno) e tanti colleghi/e non sindacalizzati; e va ricordato che alle migliaia di scioperanti „diretti‰ si aggiungono tanti lavoratori/trici che partecipano alle Casse di Resistenza per risarcire gli scioperanti della trattenuta. Da domani inizierà il „secondo tempo‰. Lo sciopero dilagherà nelle Regioni più grandi come Piemonte, Lombardia, Toscana, Lazio, Campania, Sicilia, oltre a Liguria, Valle d‚Aosta, Friuli Venezia- Giulia, Abruzzo, Molise, Basilicata e la Provincia di Bolzano. Nel Lazio e in Sicilia la crescita delle adesioni è travolgente, oltre le previsioni degli ultimi giorni: in entrambe le regioni gli ultimi dati sono di circa 2000 scrutini bloccati (solo a Roma si supererà il migliaio) ; Campania, Piemonte, Toscana e Lombardia avranno tra i 1000 e i 1300 blocchi; circa 700 la Liguria e 500 l‚Abruzzo: e la previsione nazionale complessiva, per quanto incompleta a causa della tumultuosa crescita delle adesioni, va ben oltre i 15 mila blocchi, avvicinandosi molto ai 20 mila. Anche tali scioperi saranno accompagnati da dimostrazioni di piazza. A Roma si manifesterà il 14 giugno (ore 10) davanti al Ministero di Viale Trastevere. Ricordiamo che i COBAS chiedono che si cancellino i 41 mila tagli e la Finanziaria-massacro, il blocco degli scatti „di anzianità‰ e dei contratti, il furto delle liquidazioni e l‚allungamento dell‚età pensionabile, in particolare a 65 anni per le donne; e vogliono l‚assunzione a tempo indeterminato dei precari/e, massicci investimenti nella scuola pubblica per il funzionamento degli istituti, l‚annullamento della „riforma‰ delle superiori, la restituzione a tutti/e del diritto di assemblea.
Piero Bernocchi portavoce nazionale COBAS
Roma, 13 giugno 2010

l’Unità 14.6.10
Sarebbero quattro i parroci coinvolti. Uno di loro già condannato a tre anni di reclusione
Allertata la procura Nell’indagine del vescovo Caliandro violenze e relazioni sentimentali
Sesso, molestie e pedofilia, un dossier fa tremare la Diocesi Gallipoli-Nardo
di Ivan Cimarrusti

Un documento scottante sul tavolo del vescovo Caliandro. I fatti ricostruiti iniziano nel 2001 e raccontano di casi di molestie sessuali su minori, di relazioni sentimentali e violenze. Un parroco già condannato.

Ci sarebbero vere e proprie violenze sessuali, molestie, inviti ad appartarsi in luoghi isolati, relazioni segrete e, addirittura, l’invito ad un pastorello di 15 anni ad avere un rapporto omosessuale. Di questo sono accusati quattro sacerdoti della diocesi di Gallipoli-Nardò, in provincia di Lecce, finiti in un’ampia indagine del vescovo Domenico Caliandro nata da numerose segnalazioni di parrocchiani, vittime dei presunti abusi sessuali. Una vicenda che sta sconvolgendo tutta la comunità cattolica Salentina e che presto potrebbe giungere sulla scrivania del procuratore capo di Lecce, Cataldo Motta. «Al momento non ci è stato depositato nulla dalla diocesi – spiega il procuratore – Bisogna, inoltre, capire se si tratta di reati (a sfondo sessuale, ndr) procedibili d’ufficio. Vedremo domani (oggi, ndr)».
ANNI DI MOLESTIE
E’ certo che nelle mani del vescovo c’è un ampio dossier, composto da numerose testimonianze delle presunte vittime degli abusi sessuali. Fatti che, secondo indiscrezioni che trapelano dalla diocesi, sarebbero avvenuti fin dal 2001. Il dossier è top secret, ma è certo che all’attenzione del vescovo ci sono quattro sacerdoti che avrebbero compiuto «insidie su fedeli e parrocchiani – come spiegano dalla diocesi – venendo meno ai loro precetti». Ma non solo questo. Un anziano prete avrebbe molestato un minore ed un altro avrebbe, addirittura, fatto vere e proprie violenze sessuali su un altro. Un terzo parroco, invece, avrebbe avuto una relazione segreta con una donna di 30 anni.
DON ENZO GRECO
Nell’incartamento ecclesiastico, a quanto è dato sapere, una parte riguarderebbe il quarto sacerdote. Don Enzo Greco, parroco della chiesa di Santa Caterina a Nardò e professore in una scuola media dello stesso paese, avrebbe molestato sessualmente un pastorello di 15 anni. Il parroco è stato condannato nei primi mesi del 2009 a tre anni e sei mesi di carcere per tentata violenza sessuale e atti osceni. I fatti sarebbero cominciati nel 2001, quando il piccolo pastorello sarebbe stato avvicinato dal prete, il quale avrebbe cominciato una vera e propria pressione prolungata negli anni per avere rapporti sessuali con lui. Secondo la denuncia del pastorello, che ha trovato piena conferma nelle indagini della Procura della Repubblica, il prete gli
avrebbe messo in mano alcune riviste pornografiche, invitandolo a salire sulla sua automobile. Una richiesta che terrorizzò il ragazzino, il quale riuscì a scappare. Pochi giorni dopo, però, il parroco sarebbe tornato dal pastorello con un uomo di colore e gli avrebbe chiesto, ancora una volta, di avere rapporti sessuali con entrambi. «Una costante presenza nella mia vita», disse a verbale il pastorello nel corso del lungo processo celebrato a porte chiuse. «Chiesi l’intervento di mio padre», il quale in un’occasione era quasi riuscito a bloccare il prete che, però, riuscì fuggire. Da quel momento le presunte richieste si sarebbero fermate, fino alla morte del padre del pastorello. Dopo, il prete sarebbe tornato alla carica chiedendo al ragazzino di avere rapporti sessuali con lui e con altre persone sempre di sesso maschile. Tutte queste pressioni sarebbero state compiute per tre anni, fin quando la presunta vittima, ormai maggiorenne, raccontò tutto ai carabinieri che, dopo una serie di pedinamenti, colsero in flagranza di reato don Enzo Greco.
Il dossier, che al momento è nelle mani del vescovo Caliandro, presto potrebbe essere depositato alla Procura della Repubblica. Se i fatti accertati dalle indagini interne trovassero conferme in quelle degli inquirenti, potrebbero finire nel registro degli indagati almeno due anziani preti, per molestie e violenze sessuali su minori.

Repubblica 14.6.10
El País rivela la bozza delle nuove norme: stabiliscono la "neutralità religiosa" delle istituzioni
Spagna, pronta la legge sulla religione "Niente crocefissi e funerali di Stato cattolici"
di Omero Ciai

Il nuovo progetto in Parlamento dopo l´estate. Ancora in discussione l´articolo che regola l´uso del velo islamico

Via il crocefisso dalle aule scolastiche, dagli ospedali pubblici, dalle sedi amministrative, dai ministeri; e via il parroco dai funerali di Stato che non potranno più essere di rito cattolico. La bozza della nuova legge sulla "libertà religiosa" in Spagna - già annunciata dal premier Zapatero due anni fa - è pronta e ieri è stata rivelata da El País. Più che di "laicità" dello Stato, nella bozza, si esprime «la neutralità dei pubblici poteri di fronte alla religione e a qualsiasi altro credo, evitando qualsiasi confusione fra funzione pubblica e attività religiosa».
Riguardo ai funerali di Stato, El País propone l´esempio di quelli che si svolsero nel 2004 per le vittime degli attentati dell´11 marzo e ricorda che furono di rito cattolico nonostante tra i morti vi fossero numerosi musulmani. Con la nuova legge lo Stato potrà organizzare solo funerali civili, senza simboli religiosi. Mentre sul crocefisso la legge chiarisce che non potrà essere esposto (come nessun altro simbolo religioso) nei locali pubblici, esclusi quelli con un particolare valore storico, artistico o culturale. Fanno eccezione però i centri privati, anche nel caso in cui siano ampiamente finanziati con denaro pubblico, come le scuole o gli ospedali.
La nuova legge è composta da un totale di 37 articoli e si propone di rendere uguali di fronte allo Stato tutte le religioni presenti nel paese: in Spagna ci sono, oltre alla maggioranza di cattolici, 1,4 milioni di musulmani, un milione di protestanti e 600mila cristiani ortodossi insieme a comunità minori di ebrei, mormoni, buddisti e testimoni di Geova. Grazie agli accordi firmati con lo Stato spagnolo nel 1979 la Chiesa cattolica potrà ancora godere di alcuni privilegi, come quello di essere l´unica confessione alla quale i contribuenti possono attribuire lo 0,7 % delle tasse.
C´è, per ora, un solo spazio vuoto nella nuova legge e riguarda il velo islamico. La Commissione governativa che ha preparato la bozza non ha ancora deciso - scrive El País - «se regolerà o no con una norma i simboli religiosi individuali portati in uno spazio pubblico», come sarebbe appunto il velo in una scuola o in un ospedale. Fonti del governo vicine a Zapatero ammettono che nella Commissione sull´argomento prosegue il dibattito anche se il ministro della Giustizia spagnolo, Francisco Caamaño, si è espresso chiaramente a favore di una normativa. «È necessario precisare - ha detto - quali simboli religiosi di identificazione personale possono essere portati da un cittadino in uno spazio pubblico. In questi casi la legge dovrà essere chiara e dovrà applicare il senso comune e la tolleranza». La legge vigente per ora in Spagna, che risale al 1980, non chiarisce se portare il velo sia consentito oppure no negli spazi pubblici. La discussione in Parlamento della nuova legge inizierà solo dopo l´estate.