venerdì 18 giugno 2010

Repubblica 18.6.10
La menzogna di Stato
di Francesco Merlo

Gianni De Gennaro non è un uomo qualunque, è da moltissimi anni un pezzo importante dello Stato italiano, ha alle spalle una carriera di poliziotto modello.
Ma proprio per questo la sentenza che lo condanna non dovrebbe spingere nessuno a recitare le solite tragicommedie del garantismo e del giustizialismo alle quali purtroppo stiamo invece assistendo.
Un servitore dello Stato, un ex capo della Polizia oggi Signore dei servizi segreti, non può apparire come un manipolatore di testimoni, non può permettersi una condanna anche se non definitiva, non può consentire che la gente pensi a lui come a un bugiardo. Ha ovviamente diritto alla presunzione di innocenza ma ha il dovere di liberare lo Stato dalla fosca ombra che lo sovrasta. Non sappiamo cosa De Gennaro deciderà, ma abbiamo fiducia nella sua coscienza, nel suo spirito di servizio, nel suo alto senso dello Stato che, mai come oggi, coincide con la sua dignità di insospettabile.
E però, più inquietante della sentenza c´è la solidarietà meccanica, ideologica, quasi fosse "di partito", del ministro dell´Interno Maroni e del ministro della Giustizia Alfano. Le loro dichiarazioni a caldo, istintive e assolutorie finiscono con l´apparire come una prova involontaria della giustezza della sentenza: come si può essere solidali con un condannato di questa portata? Che fine ha fatto quell´idea rigorosa di Stato che un tempo dai suoi servitori esigeva zelo, dedizione, efficienza e pulizia assoluta? Neppure De Gennaro è, secondo noi, solidale con se stesso come Maroni e Alfano lo sono con lui. E se fosse stato direttore del Tg1 o del Tg5 di sicuro De Gennaro avrebbe evidenziato nei titoli la notizia che invece Minzolini e Mimun hanno nascosto. Come si fa a non capire che delegittimare o malcelare una sentenza così rilevante finisce con il rafforzarla, con il fornire ulteriori argomenti alla colpevolezza?
Insomma, più grave della sentenza c´è la complicità politica con il reo, l´idea che la politica possa annullare le ragioni della giustizia. Di sicuro non è bello lo scontato crucifige ideologico dei soliti nemici di De Gennaro e della polizia, ma si tratta in fondo di pezzi di un´opposizione d´antan e tribunizia di pochissimo peso istituzionale. Ben più indecente è l´amicizia ammiccante di Maroni e di Alfano. E in tv ci ha colpito il silenzio del procuratore antimafia Piero Grasso che, seduto per caso tra Alfano e Maroni che difendevano il condannato, esibiva una impassibilità che somigliava - ci è parso - allo sconcerto trattenuto, allo scandalo dissimulato. Cosa avrebbe detto Piero Grasso se fosse stato lui il condannato, magari pure ingiustamente? Come reagisce un Servitore della Cosa Pubblica se il suo operato vulnera l´istituzione che rappresenta? Difende se stesso anche a costo di offendere lo Stato? Tratta se stesso come un uomo qualunque quando invece è un pezzo di Stato?
Ma voglio essere ancora più chiaro. A noi piacciono i capi che coprono i loro uomini, capiamo le ragioni psicologiche e anche professionali, specie di un poliziotto che ha vissuto i giorni pesanti di Genova, dove però le violenze cieche, di strada, sono purtroppo risultate alla fine meno cruente delle violenze di Stato, quelle costruite a freddo contro degli inermi. De Gennaro insomma lo capiamo senza giustificarlo. Ha le attenuanti del capo che si compromette in favore dei suoi. C´è una nobiltà nella ignobiltà che ha commesso.
Ma la solidarietà dei ministri degli Interni e della Giustizia sconfessa l´operato dei giudici in maniera sconsiderata, solo perché De Gennaro è uno dei loro, uno come loro. Il messaggio che arriva agli italiani è che la corporazione, la cricca, la casta e l´amicizia rendono innocente anche un reo condannato. L´impunità è la peggiore delle sporcizie di Stato.

l’Unità 18.6.10
I disastrosi effetti dell’accordo
L’Italia, la Libia e il trattato della vergogna
di Valentina Bridi e Ernesto Ruffini

Il 2 giugno la sede di Tripoli dell’Alto Commissariato per i Rifugiati dell’Onu è stata costretta a chiudere poiché, non aderendo la Libia alla Convenzione di Ginevra, le attività svolte dall’ufficio venivano considerate “illecite”. È una questione che riguarda, e molto, l’Italia. E, infatti, il «Trattato di amicizia, partenariato e cooperazione» siglato con la Libia ha appena compiuto un anno. Una cooperazione nella «lotta al terrorismo, alla criminalità organizzata, al traffico di stupefacenti, all’immigrazione clandestina» attraverso «un sistema di controllo delle frontiere terrestri libiche». Così, dal 15 maggio 2009, viene attuata una politica di respingimento di quanti tentano di approdare irregolarmente sulle nostre coste. Gli effetti di questa politica sono drammatici. Per un verso si è registrata una riduzione delle richieste di asilo presentate agli organi italiani: dagli oltre 31mila del 2008 a poco più di 17mila nel 2009. Per altro verso gli sbarchi, che nel 2008 sono stati 36.900, si sono ridotti a 9.573 (ma quelli in Sicilia rappresentavano appena il 5% degli ingressi irregolari), con un calo notevole, del 90%, da maggio a dicembre. Ma la realtà che si cela dietro questi numeri rimanda mette sotto accusa la pratica dei respingimenti e più in generale l’inasprimento delle misure di contrasto all’immigrazione. Ne conseguono la rinuncia al viaggio da parte di chi è a conoscenza delle politiche migratorie italiane, il pesantissimo controllo libico sul territorio e sulle coste, l’intercettazione e il respingimento in mare di quanti riescono a imbarcarsi. Quei migranti respinti con ogni probabilità, avevano diritto di ottenere lo status di rifugiati, ma di loro non sapremo più nulla. Certo, avevamo solidi motivi per chiudere il contenzioso con la Libia per il nostro passato coloniale, ma, evidentemente, nemmeno un motivo qualunque per aiutare uomini e donne provenienti da paesi dove quel passato è stato ugualmente disastroso. Intanto il ministro Franco Frattini vanta il fatto di aver salvato tanti dalla morte in mare. È immorale il tentativo di presentare all’opinione pubblica una sola faccia del fenomeno migratorio: se i morti sono morti (e i 419 del 2009 a noi sembrano molti), qual è il destino dei salvati, dei “respinti”? L’alternativa possibile sarà tra la detenzione nei campi libici di cui sono stati ben documentati i livelli di civiltà giuridica, e il ritorno coatto alle situazioni di guerra, miseria, persecuzione dalle quali erano fuggiti. Ma, secondo l’articolo 16 del Trattato, le parti non dovrebbero adoperarsi «per la diffusione di una cultura ispirata ai principi della collaborazione tra i popoli»?

l’Unità 18.6.10
I teatri si infiammano Sciopero delle «prime» contro il decreto Bondi
Il primo sì l’altro ieri al provvedimento che da qualche spicciolo alla cultura e nessuno emendamento dell’opposizione è stato recepito, differentemente da quanto annunciato. La prima protesta il 22.
di Luca Del Fra

Tornano a incendiarsi i grandi teatri d’opera italiani: i sindacati dichiarano lo sciopero di tutte le prime e uno sciopero nazionale con presidio davanti a Montecitorio nel giorno della definitiva approvazione alla Camera del cosiddetto decreto Bondi che dovrebbe avvenire il 22 giugno. È la reazione al primo via libera del Senato per la conversione in legge del decreto avvenuta l’altro ieri: «Dopo molti sforzi fatti in sede di commissione cultura per migliorare il testo attraverso gli emendamenti – spiega il Sentore del Pd Vincenzo Vita –, giunti in aula la maggioranza è tornata indietro sulle sue decisioni e il ministro Bondi sulle sue stesse promesse, mostrando il volto peggiore e più vero». Il provvedimento colpisce in maniera pesante i lavoratori dei teatri, blocca il turnover così da rendere impossibile il ricambio nelle orchestre delle Fondazioni lirico-sinfoniche –come la Scala, il Maggio fiorentino, il San Carlo, il Regio di Torino e la Sinfonica di Santa Cecilia–, così destinandole a trasformarsi in pochi anni in ensemble raccogliticci: dopo una lunga mediazione su questi due punti il testo era stato migliorato, ma all’atto della votazione in Senato la maggioranza ha fatto dietrofront. Inoltre il provvedimento sostanzialmente commissaria tutti i nostri grandi teatri lirici, togliendo loro autonomia e mettendoli sotto il giogo del ministro delle Attività Culturali e del suo entourage.
«È un decreto anticostituzionale, ingiusto e inutile» -ha più volte ripetuto Silvano Conti della Cgil che stavolta ribadisce–: «Se passerà così la Cgil e la Fials (il sindacato autonomo) dopo questi scioperi continueranno le agitazioni questa estate e in ogni possibile occasione, da San Nicola a Sant’Ambrogio», rispettivamente l’inaugurazione della stagione del Petruzzelli e della Scala, vale a dire da Sud a Nord. Sul futuro finora sono invece apparse molto più caute la Csil e soprattutto la Uil.
Malgrado Bondi dopo il voto del senato abbia esternato la sua soddisfazione «abbiamo salvato la lirica»-, secondo molti il provvedimento, unito ai tagli apportati ai finanziamenti alle attività culturali da parte del Governo, è il colpo di grazia alle fondazioni lirico-sinfoniche, nel bene e nel male rappresentano l’unico sistema di produzione teatrale estesa su tutto il territorio nazionale. I profili di possibile incostituzionalità del decreto sono parecchi –le attività culturali sarebbero materia su cui il governo dovrebbe legiferare in accordo con le regioni, il che non è avvenuto in questo caso. Tanto è vero che giunte come quella della Toscana stanno vagliando un possibile ricorso se il decreto sarà convertito in legge.

Libertà d´impresa, ecco la legge meno vincoli anche nell´urbanistica

Repubblica 18.6.10
Il direttore della Normale di Pisa: è la stessa Carta che all´articolo 9 garantisce la tutela
Settis: "Norme generiche e confuse rischiano di stravolgere il paesaggio"
Quella del governo se confermata, è davvero una pessima idea. Appare come un attacco all’urbanistica
di Lucio Cillis

ROMA - C´è un passaggio nel disegno di legge costituzionale di modifica agli articoli 41 e 118 della Carta, che fa scorrere dei brividi sulla schiena di chi si occupa di tutela del paesaggio, di urbanistica.
Salvatore Settis, archeologo, scrittore, ed direttore della Normale di Pisa, è in questo caso uno degli interlocutori ideali.
Settis premette di «non conoscere» nel dettaglio il testo appena battuto dalle agenzie di stampa. Ma quando nel ddl compare inaspettatamente il richiamo alla «materia urbanistica», quando si concedono tre mesi a Comuni, città metropolitane, Province e Regioni per adeguare le proprie normative in modo da "limitare le restrizioni del diritto di iniziativa economica", i dubbi, così come i timori di un colpo di mano mascherato tra le righe del documento, cominciano a farsi largo tra i pensieri di chi si occupa di queste tematiche.
Professore, come giudica le novità in materia urbanistica introdotte nel ddl che oggi verrà esaminato dal Consiglio dei ministri?
«Da questa prima lettura a me sembra una pessima idea. In questo modo, se quello che leggiamo oggi sarà confermato, si rischia di stravolgere la tutela stessa del paesaggio. Garantita, vorrei sottolineare, dall´articolo 9 della Costituzione...».
Eccolo, professore: "La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione...". Il ddl del governo, tra l´altro, chiama in causa "normative comunitarie o internazionali" e concede tre mesi agli Enti locali per adeguarsi alla nuova legge costituzionale. Quasi a salvaguardia di eventuali abusi sul fronte urbanistico, non crede?
«Intanto a me sembra che queste norme siano state scritte in modo generico e confuso. Inoltre, va detto che a livello europeo non c´è nulla di così "protettivo", non c´è niente di più alto rispetto all´articolo 9 della nostra Costituzione...».
Quindi lei ha il sospetto che dietro questa modifica si possano celare dei colpi di mano?
«Ripeto, da questa prima lettura del testo, intravedo dei seri rischi. Qualsiasi cosa attacchi in modo diretto l´articolo 9, è un qualcosa che attacca direttamente l´urbanistica e il paesaggio...».

Repubblica 18.6.10
Fo: "Ora vi racconto Correggio pittore dell´erotismo e visionario"
Il Nobel sarà alla rassegna "Sotto il cielo di Parma" con lo spettacolo dedicato all´artista
di Anna Bandettini

La sua è la storia di un self made man, «il figlio di un vu cumprà del Cinquecento, cresciuto senza mezzi, in una casa modesta affollata di parenti, dove però lui trovava la concentrazione per dedicarsi alla pittura e alle buone letture». Fu così che Antonio Allegri divenne Correggio, uno dei massimi artisti del Rinascimento italiano, un innovatore e un gaudente, il primo a trasporre in pittura le teorie di Copernico e a riscoprire la matrice pagana del classicismo in dipinti di fantastico e gioioso erotismo.
Lo racconta così Dario Fo, infaticabile cacciatore di storie e di uomini speciali. Dopo Raffaello, Michelangelo, Leonardo, Mantegna, Giotto, Caravaggio, il Nobel si è dedicato al pittore emiliano. Dieci anni di studi per un bottino grosso: la scoperta in una collezione privata di un dipinto del Correggio che ritrae l´amata Girolama; un libro a cura di Franca Rame, Correggio che dipingeva appeso al cielo (Panini editore, 248 pagg., 200 ill., 20 euro); e uno spettacolo omonimo, debutto (dopo due anteprime a Salsomaggiore domani e il 20) a Parma il 23 e 24 per la rassegna "Sotto il cielo di Parma".
Lo spettacolo, racconti inframmezzati da tre giullarate (di cui un paio del Ruzante) e illustrazioni dello stesso Fo dai dipinti originali, ha il valore di una vera riscoperta del Correggio, «a lungo dimenticato - spiega il Nobel - Eppure nella sua epoca era una star, al pari di Raffaello e Leonardo. I collezionisti di mezza Europa facevano a gara per un Correggio, cosa che comportò la dispersione delle sue opere. Fu il grande lavoro critico di Longhi a riportarne alla luce la paternità».
Di Correggio, Fo ricostruisce la formazione, il legame al maestro Mantegna, gli amori, soprattutto la bella personalità intellettuale. «Correggio - racconta - era un giovane intelligente, vivace, con un´ansia d´apprendimento straordinaria. Leggeva di matematica, scienza, filosofia. Era una spugna e le sue conoscenze confluivano poi nei dipinti». Prova ne è l´imponente ciclo di affreschi delle due cupole del Duomo e della basilica di San Giovanni sempre a Parma: «Qui nel Cristo al centro della cupola e attorno gli apostoli, come fosse il sole e i suoi pianeti, ci sono le rivoluzionarie tesi eliocentriche di Copernico - dice Fo - Ma la cosa straordinaria è l´azzardo tecnico di quei dipinti: 15 anni prima di Michelangelo alla Sistina, Correggio riuscì non solo a dipingere così in alto grazie alle invenzioni di macchine e impalcature, ma lo fece creando nello spettatore l´illusione di sfondare il tetto e arrivare al cielo. Di una modernità assoluta».
Moderna anche l´attenzione, non secondaria, di Correggio per l´amore e le donne, una in particolare Girolama, la donna della vita, modella di tante Madonne e Maddalene. «Attraverso lei e per lei - dice Fo - Correggio è il pittore della fantasia dell´erotismo, vissuto con giocondità, come si vede nella decorazione della camera della badessa nel convento di San Paolo o nel trionfo di nudi e seni nella cupola del Duomo. Lo vedevano anche i monaci, che storcevano il naso: ma Correggio li tacitava con le armi del grottesco e dell´ironia».

il Fatto 18.6.10
E il papa graziò il gay
Il vescovo polacco Paetz è stato reintegrato Nel 2002 ebbe rapporti con seminaristi
Parecchi giovani nel 2001 erano pronti a mettere nero su bianco le molestie
Oggi, a 83 anni, potrà ordinare nuovamente nella diocesi dalla quale fu cacciato
di Marco Politi

Papa Ratzinger “grazia” l’ex vescovo polacco di Poznan, costretto alle dimissioni da Giovanni Paolo II, perché coinvolto in una girandola di rapporti erotici con seminaristi. Dopo il condono vaticano Juliusz Paetz potrà di nuovo esercitare tutte le funzioni sacramentali di un vescovo nella stessa diocesi dove aveva provocato lo scandalo.
Benedetto XVI ha deciso così nonostante l’opposizione del nuovo vescovo mons. Gadecki, indignato per il colpo di spugna che mina la credibilità della Chiesa. Il nuovo vescovo tenta di far ritirare il provvedimento: un boomerang nell’anno in cui l’opinione pubblica è scossa per gli abusi sessuali del clero.
La storia risale al 2002, quando il giornale conservatore Rzeczpospolita fece esplodere lo scandalo, raccontando dell’attivismo sessuale dell’arcivescovo Juliusz Paetz e riferendo dello scontro avvenuto con il rettore del seminario di Poznan, don Karkosz. Il rettore aveva fisicamente impedito l’ingresso in seminario al vescovo, accusandolo di aver insidiato e molestato ripetutamente dei seminaristi. Per tutta la Polonia erano corse le voci sui messaggini seduttivi e sui regalini ammiccanti inviati dal vescovo ai suoi amichetti. Poche settimane dopo l’arcivescovo, il 28 marzo 2002, era stato costretto alle dimissioni. La vicenda è tipica di come le cose funzionavano in Vaticano durante il pontificato di Wojtyla. Era dal 1999 che erano cominciate a circolare accuse contro Paetz. Ma il prelato godeva della fiducia di Giovanni Paolo II e del suo segretario mons. Dziwisz, perché aveva fatto parte della “Famiglia pontificia”, a stretto contatto con il Papa. Wojtyla lo aveva nominato vescovo di Lomza in Polonia nel 1982 e nel 1996 lo aveva promosso arcivescovo dell’importante e storica diocesi di Poznan. Sicché le accuse erano state regolarmente insabbiate. Solo nel tardo 2001, intorno a Natale, dal Vaticano era partito come ispettore un giudice polacco della Sacra Rota, mons. Stankiewicz. A smuovere Giovanni Paolo II e il suo entourage era stato necessario l’intervento dell’amica personale di Wojtyla, la psichiatra Wanda Poltawska, che aveva denunciato lo scandalo del silenzio intorno a comportamenti indegni di un vescovo. Scesero in campo con una lettera aperta anche decine di esponenti cattolici di Cracovia e Varsavia, chiedendo chiarezza.
Quando lo scandalo esplose e nel Palazzo apostolico si venne a sapere che c’erano parecchi giovani pronti a mettere nero su bianco le molestie sessuali del prelato, la soluzione trovata fu quella classica. Nessun procedimento trasparente per informare la comunità cattolica dell’innocenza o della colpevolezza dell’arcivescovo, ma la firma di una lettera di dimissioni. La punizione inferta (mai dichiarata ufficialmente) fu blanda: Paetz non avrebbe potuto esercitare le sue funzioni vescovili all’interno della diocesi di Poznan.
D’ora in avanti il Vaticano – benché non ci sia ancora comunicazione ufficiale – lo autorizza a svolgere nuovamente i riti di un vescovo. L’83enne Paetz potrà ordinare a Poznan sacerdoti, celebrare cresime, guidare processioni, consacrare chiese e presiedere messe solenni. Le frequenti visite del prelato ai suoi amici in Vaticano gli hanno guadagnato la grazia di Ratzinger, firmata dal cardinale Re, prefetto della Congregazione dei Vescovi in procinto di andarsene per limiti di età.
Come se nulla fosse accaduto.
Con un eclatante doppiopesismo: le autorità ecclesiastiche invocano sempre il pretesto dello “scandalo” e del grave peccato per vietare la comunione a due disgraziati, che sono divorziati e risposati, mentre un vescovo molestatore per anni può tornare tranquillamente a benedire in pompa magna.
A Roma Paetz era conosciuto per il suo garbo, la sua cultura, la sua gentilezza. I suoi gusti sessuali non interesserebbero nessuno, se il magistero ecclesiastico non tuonasse continuamente contro l’omosessualità, definita “grave disordine morale” e collocata ufficialmente tra i “peccati che gridano vendetta a Dio”. Non da oggi i gruppi omosessuali cattolici chiedono alla Chiesa comprensione e riconoscimento della dignità di “figli di Dio” per i loro legami. Ma le autorità ecclesiastiche sono rigidissime: a chi vive in coppia omosessuale è negata l’assoluzione. In ogni caso per gli standard, proclamati ufficialmente dalla Chiesa, il comportamento dell’ex vescovo di Poznan rappresenta una gravissima infrazione, che rientra fra gli atti che spingevano il cardinale Ratzinger ad esclamare alla Via Crucis del 2005: “Signore, quanta sporcizia c’è nella Chiesa”. Che Benedetto XVI si sia lasciato consigliare a diventare improvvisamente “flessibile” sta suscitando una marea di interrogativi in Polonia e anche nell’opinione pubblica non polacca. La fortuna di Paetz – se così si può dire – è che ai tribunali polacchi non arrivò mai nessuna denuncia da parte di minori o per rapporti con minorenni. Ma non aiuta la credibilità della Chiesa che le autorità ecclesiastiche non abbiano mai voluto dare conto delle sue relazioni extra-celibatarie. Ancora una volta – quando si tratta di tonaca e sesso – il Vaticano non sceglie la trasparenza. Che il vento nella Curia romana stesse volgendo a favore di Paetz lo avevano capito in Polonia, quando esattamente un anno fa il Papa mandò al prelato un telegramma di auguri per i 50 anni della sua ordinazione, congratulandosi per la sua “testimonianza di fede” e il suo “fecondo lavoro per il bene della Chiesa”. Era un messaggio prestampato, si tentò di dire. Invece era presagio di condono.

il Fatto 18.6.10
Immigrati, quattro nuovi Cie nel menù del governo
Veneto, Campania, Marche e Toscana le “prescelte” Nelle strutture solito inferno
di Chiara Paolin

Tra ruote panoramiche e trenini che si tuffano in piscina, Zaia deve rispondere a una domanda antipatica: ma quando apre il nuovo Centro di Identificazione ed Espulsione? Risposta: ''Voglio ricordare che un Cie non è la fine del mondo ma la conclusione di un circolo virtuoso delle leggi sull'immigrazione. Questi centri non saranno né ghetti né caserme, ma strutture di tutta tranquillità". Ancora un sorriso ai fotografi, e poi via con l’auto blu. Così è finita la gita a Gardaland del governatore in risposta al ministro dell'interno Roberto Maroni che la settimana scorsa era sbarcato in Veneto pronunciando parole chiarissime: "Il Cie si farà entro la fine dell’anno. Ne ho nuovamente discusso con Zaia e abbiamo trovato l’accordo". Da allora non si parla d'altro in zona. Il sindaco leghista di Verona, Fabio Tosi, freme e scalpita essendosi offerto per primo come partner ideale dell'impresa. Ma Zaia precisa: "Non c'è ancora nulla di deciso. In ogni caso, sarò io a dialogare col ministro". Dunque il Cie si farà presto. “E' assolutamente indispensabile ha spiegato Maroni -. Se in una regione non c’è, nove volte su dieci un clandestino fermato dev’essere rimesso in libertà, perché quelli delle altre regioni sono già pieni. Ecco perché abbiamo individuato quattro regioni che ne sono prive dove li realizzeremo entro la fine di quest’anno”.
Toscana, Marche e Campania hanno reagito male all’annuncio. I governatori delle regioni rosse da sempre osteggiano l'iniziativa, e il toscano Enrico Rossi s'è beccato pure una severa ramanzina. Aveva proposto un modello innovativo: anziché una grande struttura carceraria meglio individuare diversi 'mini centri' per garantire ospitalità dignitosa, mediazione culturale, assistenza legale, percorsi di recupero. Maroni però ha tagliato corto: chi arriva al Cie è un clandestino e per la legge va espulso, non aiutato. Il centro toscano, da far sorgere nell'area di Campi Bisenzio, sarà uguale a tutti gli altri.
E si va per le spicce anche in Campania, nonostante i malumori interni al Pdl. Angelo Polverino, consigliere regionale di un certo peso (presidente di commissione e papabile assessore al primo rimpasto utile), ha lanciato l’allarme: a Caserta doveva nascere il nuovo aeroporto intercontinentale sfruttando le piste della struttura militare, ormai votata al civile. Ma il governatore Caldoro ha avuto una richiesta precisa da Maroni e il destino pare già segnato. Spiega Polverino: “Mi rifiuto di credere che al posto dell’aeroporto si edifichi una galera con sbarre e cancelli chiusi a chiave. No, non è questo che la comunità casertana vuole. Del resto a Napoli il Cie non se lo piglieranno mai, e Salerno è ben rappresentata in giunta. Alla fine toccherà per forza a Caserta”.
I quattro nuovi centri dovrebbero garantire un migliaio di posti in più rispetto ai 1.800 attualmente disponibili. La Finanziaria non ha fatto tagli, dunque nulla osta. Tranne la cronaca di ciò che accade quotidianamente nei Cie, notizie che restano ai margini della realtà come le vittime di una violenza di Stato ormai ingestibile. Solo nelle ultime settimane a Milano ci sono state due rivolte e diversi tentativi di suicidio. Il centro di Crotone (come già quello di Caltanissetta) è stato chiuso perché reso inagibile dalla rabbia disperata dei detenuti. Dal Cie di Gradisca sono fuggiti in 36, ma 19 li hanno ripresi subito e castigati a dovere. Idem a Brindisi, con 10 persone fuggite tra i campi e un senegalese ricoverato in fin di vita. A Roma evasione di gruppo: 6 clandestini scappati e un egiziano finito all’ospedale. Qualche giorno dopo un algerino si è tagliato il corpo in diversi punti standosene arrampicato sopra le sbarre della cella. Il sangue sgocciolava a terra mentre gli agenti tentavano di tirarlo giù. E ieri Debby e Priscilla, due prostitute nigeriane, hanno avuto la notizia peggiore: saranno imbarcate su un volo Frontex che le scaricherà in patria. Quando torneranno la prossima volta, in fuga da fame e violenza, troveranno quattro nuovi Cie ad accoglierle.

il Fatto 18.6.10
Cina mai vista: scioperi e contestazioni
Nelle fabbriche proteste e prime vittorie sindacali
I lavoratori si organizzano grazie a sms e chat room Le aziende adesso devono trattare
di David Barboza e Keith Bradsher

Zhongshan (Cina). I 1.700 operai della Honda Lock scesi in sciopero nei giorni scorsi sono per lo più migranti poveri che hanno fatto a malapena la scuola media. Ma sono sorprendentemente abili con le nuove tecnologie. A poche ore dall’inizio dello sciopero già fornivano in Rete informazioni sui picchetti non solo ai compagni di lavoro, ma anche ad altri operai in agitazione in altre zone della Cina.
Con gli sms invitavano i colleghi a resistere alle pressioni dei capi e, come se non bastasse, sono entrati in un sito controllato dallo Stato – workercn.cn – che sta diventando la piazza digitale del movimento operaio cinese. Poi hanno scaricato in Rete i video degli addetti alla sicurezza della Honda Lock che maltrattavano i dipendenti.
Gli operai di questa città nel sud della Cina hanno avuto l’idea da altri scioperanti di altre fabbriche della Honda, che a maggio hanno avviato un duro scontro con la fabbrica giapponese sui salari e le condizioni di lavoro utilizzando su Internet diversi blog. Ma si sono serviti anche di un gigantesca rete di comunicazioni che consente agli operai cinesi di mettere a punto piattaforme di rivendicazione e strategie di lotta. Molti dirigenti sindacali non fanno altro che setacciare la Rete per aggiornarsi sul diritto del lavoro. Nella guerra appena iniziata contro le multinazionali avide di profitti e i loro alleati locali, l’emergente movimento sindacale cinese è riuscito finora ad aggirare la censura grazie ai cellulari e ai computer.
Tutto questo non sarebbe stato possibile se il governo cinese nel corso degli ultimi dieci anni non avesse drasticamente ridotto i costi dei cellulari e dei servizi Internet nel quadro di un programma di modernizzazione che ha prodotto la più grande popolazione mondiale di utenti della rete – 400 milioni – e ha consentito anche ai più poveri di usare il Web.
“È una realtà di cui pochi si sono accorti: i lavoratori migranti possono organizzarsi usando le moderne tecnologie”, dice Guobin Yang, professore al Barnard College. “In genere pensiamo che queste tecnologie siano monopolio dei giovani del ceto medio e degli intellettuali”, aggiunge Guobin Yang. La Rete e la tecnologia digitale sono diventati strumenti di trasformazione sociale così come avvenne per la macchina da scrivere nel 1989 in occasione delle manifestazioni di Pechino soffocate nel sangue a piazza Tien an Men nel giugno del 1989, con il pesante bilancio di centinaia di morti. Ma se l’attuale movimento sindacale dovesse continuare e crescere e magari finisse per minacciare l’ordine sociale, il governo potrebbe decidere di intervenire per soffocare la protesta?
Il governo ha già tentato di oscurare alcuni siti utilizzati dagli operai e ha cancellato il contenuto di molti blog che parlano degli scioperi. Il servizio di messaggeria istantanea QQ – accessibile via Internet o con il cellulare – strumento privilegiato all’inizio dai leader sindacali perché molto popolare tra i giovani – è stato infiltrato dai dirigenti della Honda Lock e dagli agenti della sicurezza, così da costringere gli scioperanti a cambiare mezzo di comunicazione. “Non usiamo più QQ”, dice un leader sindacale. “Vi accedevano spie dell’azienda. Ora usiamo di più i cellulari”. Secondo gli analisti è stata una mossa intelligente. “Il sistema QQ può essere facilmente intercettato dalle autorità cinesi ed è stato un bene averlo abbandonato”, dice Rebecca MacKinnon, sinologa e studiosa di informatica all’Università di Princeton. “QQ non è sicuro. Tanto varrebbe informare direttamente la polizia”. Ma gli attivisti fanno sapere che riescono ad aggirare alcuni di questi ostacoli spostandosi da una piattaforma all’altra (tra cui una rete telefonica online e gratuita, simile a Skype, chiamata YY Voice) e ricorrendo ad un codice per comunicare ai dimostranti dove debbono incontrarsi.
Da anni alcuni attivisti denunciano le dure condizioni di lavoro nelle fabbriche cinesi inviando video e foto realizzati con il cellulare e utilizzando la rete per far circolare documenti sulle violazioni dei diritti dei lavoratori. Il fatto nuovo è che questi attivisti, che un tempo agivano clandestinamente, ora sono usciti allo scoperto.
Strani suicidi: il mese scorso quando si sono diffuse notizie di operai morti suicidi dalla Foxconn Technology, uno dei massimi produttori mondiali di apparecchiature elettroniche, la rete è stata subito invasa da video che testimoniavano le violenze degli addetti alla sicurezza. Inoltre, in rete sono apparse le buste paga di molti operai della Foxconn ed è emerso che le ore di straordinario erano superiori a quanto consentito dalla legge. A Zhongshan, dove molti operai hanno ripreso il lavoro mentre proseguono le trattative, i dimostranti hanno seguito la stessa strategia messa a punto il mese scorso nella fabbrica Honda di Foshan. A Foshan gli organizzatori dello sciopero hanno organizzato oltre 600 operai mediante chat room su QQ. “Ne ho creata una anche io la sera prima dello sciopero e si sono immediatamente iscritti in 40”, dice Xiao Lang, uno degli organizzatori delle manifestazioni di protesta che è stato licenziato subito dopo la manifestazione. “Nella chat room abbiamo discusso tutti i dettagli”, dice Xiao Lang. “Dove incontrarci, quale percorso doveva seguire il corteo e quali erano le nostre rivendicazioni salariali”. Le autorità cinesi hanno consentito ai media statali di pubblicare e trasmettere le notizie sul primo sciopero di Foshan, ma poi hanno deciso di censurare tutte le informazioni. I giovani cinesi che non accettano le tremende condizioni di lavoro dei loro genitori, sono tutti abilissimi con le nuove tecnologie digitali. Gli operai della Honda Lock sono in attesa dell’esito della trattativa che si svolge alla presenza di esponenti del governo. Finora è stato offerto un aumento salariale dell’11%, ma gli operai sono certi di ottenere oltre il 50% pari a 234 dollari al mese – esattamente come gli operai di Foshan. “Non ce l’avremmo fatta se non avessimo saputo quello che era avvenuto a Foshan”, dice un giovane operaio che usa il computer da quando aveva 7 anni. “Abbiamo seguito il loro esempio. Perché non dovremmo ottenere aumenti salariali uguali?”.
© The New York Times Traduzione di Carlo Antonio Biscotto

il Fatto 18.6.10
“Vi racconto mio padre, il sogno chiamato Che”
Camilo vive a Cuba: aveva 5 anni quando il comandante Ernesto Guevara fu ucciso in Bolivia
“Con l’elezione di Barack Obama non è ancora cambiato nulla nell’atteggiamento americano verso di noi”
di Luca Morino*

L’Avana. Camilo, il terzo figlio di Ernesto Che Guevara, è nel Centro Studi dedicato a suo padre e situato nella stessa casa, a L’Avana, abitata dal rivoluzionario argentino fino alla sua partenza per il Congo, nel 1965. “Abbiamo iniziato a lavorare agli archivi personali nel 1983 spiega Camilo Guevara e con il tempo abbiamo realizzato numerose pubblicazioni e lavori accademici che hanno reso sempre più complessa la nostra attività. Attualmente siamo in sette, ma con i collaboratori esterni arriviamo a oltre trecento persone che lavorano al progetto: quasi tutti compagni o amici del Che, persone che occuparono incarichi nel periodo in cui faceva parte del governo”. L’immagine di suo padre corrisponde al vero Che e al suo pensiero?
C’è sicuramente una commercializzazione eccessiva dell’immagine del Che.
Spesso viene associata a elementi che hanno poco a che vedere con lui, come una bottiglia di rum o un pacchetto di sigarette. A volte la gente cerca di arricchirsi attraverso il Che utilizzandolo per vendere un prodotto e quando succede questo, di solito, consapevoli o no che siano, in pratica separano l’immagine dell’uomo dalla sua storia, dalla sua ideologia. Pensa che anni fa in Italia, in una manifestazione dichiaratamente fascista, fu visto un tipo che sventolava l’immagine del Che. Non so se fosse lì per protestare contro la manifestazione, tutto può essere, ma la situazione era decisamente ambigua, no?
Che ricordi ha di suo padre? Ero molto piccolo quando partì per il Congo, nel 1965 avevo 3 anni. Quando tornò non poteva violare le norme della clandestinità e per questo ovviamente noi figli non potevamo vederlo. Il giorno in cui partì per la Bolivia era già calvo e venne a salutarci travestito. Quando morì nel ’67 io avevo solo 5 anni: era un uomo che aveva un’enorme responsabilità nel Paese, passava il tempo a lavorare e studiare, anche diciotto ore al giorno. Solo la domenica, dopo il lavoro volontario, veniva a casa e giocava con noi. Questa è stata le mia relazione con lui e non riesco a ricordarlo con chiarezza, non capisco neanche se sia stato parte di un sogno o una costruzione della mia fantasia. Quando girano un film sul Che consultano la sua famiglia?
A volte sì, ultimamente abbiamo lavorato con un regista argentino che si chiama Tristan Bauer e Walter Salles per esempio è venuto a consultarci per I diari della Motocicletta, così come Gianni Minà per un documentario. Per il film di Soderbergh con Benicio Del Toro abbiamo fornito una serie di informazioni storiche molto precise, poi ovviamente hanno fatto scelte artistiche in cui la realtà veniva anche alterata e a quel punto ci siamo fermati. A me sembra che il bilancio di questi ultimi film sia positivo, anche se non sono fatti per insegnare la Storia. Cosa rappresenta oggi il Che per i giovani cubani?
Mi sembra che il Che sia sempre una figura che i ragazzi proteggono e rispettano e funge tuttora come riferimento: quando per esempio una cosa non va bene o dovrebbe essere differente si dice “se ci fosse qui il Che questo non sarebbe successo”. Con questo non voglio dire che sarebbe stato esattamente così perché la vita è molto più complessa, ma questo sentimento, questa speranza, mi sembrano un grande omaggio alla sua vita di sacrifico, intoccabile e limpida. Il Che è sempre stato un uomo onesto.
Crede che i rapporti tra Cuba e Stati Uniti potranno cambiare? Non sono un esperto di politica, però personalmente penso di no. Negli Stati Uniti la vittoria di Obama, ormai quasi due anni fa, non una rivoluzione: è un presidente di colore, però ampiamente sostenuto dal denaro nordamericano. Credo che quello che è successo sia stato un cambio cosmetico. Nessuno ci crede veramente, bisogna cambiare, bisogna dimostrare che è cambiato qualcosa perché per ora non è ancora successo nulla.
Quindi, il giudizio su Obama è negativo? Claro! C’è l’Iraq, l’Afghanistan, c’è la IV Flotta che controlla i Caraibi e il Sudamerica. Perché la lasciano lì? Ci sono le basi militari in Colombia. Cos’è cambiato con Obama? Non è cambiato nulla. Possono cambiare alcuni aspetti all’interno degli Stati Uniti, bisogna vedere se succederà, ma in ultima istanza la cosa importante sarebbe cambiare le cose perché potessero durare nel tempo. Se suo padre fosse ancora vivo?
Io credo che una rondine non fa primavera, però credo anche che non si vedono rondini se non inizia la primavera! Il Che ha sempre fatto capire chiaramente la sua posizione e sapeva perfettamente che non esiste una società che non sia perfettibile, che non si possa migliorare. Di fatto si pensava, quando il Che era a Cuba, che la Rivoluzione cubana fosse una sommatoria risultante da più pensieri e mi sembra che ora il processo di sviluppo storico renda ancora molto più articolato il tema: la cosa certa è che c’è un progetto nazionale che risale a prima che nascessero Fidel Castro, il Che e tutti i rivoluzionari che nel ‘59 trionfarono nel Paese. Questo progetto-nazione antimperialista si è formato quasi naturalmente: a 90 miglia dalle nostre coste il padre della democrazia americana, Thomas Jefferson, già nell’Ottocento scriveva di suo pugno che bisognava conquistare Cuba e... Marx non aveva nessuna colpa di questo! La nostra esperienza si è messa in linea con un progetto che è in alternativa al capitalismo e ci ha mostrato che anche a Cuba possono esserci borghesi, ma non una borghesia nazionale. La borghesia nazionale era legata per forza agli interessi degli Usa. Posso affermare con certezza che il Che approverebbe il progetto-nazione cubano al cento per cento.
*voce e chitarra dei Mau Mau

il Fatto 18.6.10
Gentiloni: liberare le frequenze
Il Pd si schiera con Internet

Il Partito democratico sembra voler fare sul serio: oggi dedica un’intera giornata a Internet. L’iniziativa “PDigitale” va in scena a Roma, alla Città del Gusto. Si parte alle 10 con Alec Ross, esperto di innovazione e fidato collaboratore di Hillary Clinton. Alle 12:30 “A che punto è l’ultrabanda” sul presente e futuro della fibra ottica in Italia (partecipa anche il presidente Agcom Corrado Calabrò); alle 16 Derrick De Kerckhove parlerà di “società digitale e intelligenza collettiva”. Nel pomeriggio, arriva la discesa in campo del segretario in persona. A settembre, durante una festa dell’Unità, Pier Luigi Bersani definì Internet “quell’ambaradan là”, ma oggi il segretario Pd sembra pronto ad impostare un nuova rotta: “Politica Digitale. Il Pd si schiera” il titolo del suo colloquio con Giovanni Floris. Nella giornata, infine, spazio anche ai blogger e giornalisti Alessandro Gilioli, Vittorio Zambardino e Luca De Biase: all’avvocato Guido Scorza punto di riferimento sulle questioni digitali e a Riccardo Luna, direttore di Wired Italia. Paolo Gentiloni, deputato Pd e ministro delle Comunicazioni nell’ultimo governo Prodi, spiega al Fatto Quotidiano il senso di questa giornata: “L’intenzione – dice Gentiloni – è quella di spingere il Pd a una maggiore consapevolezza dell’importanza di Internet come leva di sviluppo e come luogo principe per libertà e democrazia. Il web 2.0, inoltre, può essere motore di cambiamento per i partiti”. Gentiloni ammette un ritardo della politica sulle tematiche digitali: “La classe politica in molti casi non conosce lo strumento. Ma anche a livello paese ci sono sia ritardi infrastrutturali (tante famiglie non sono raggiunte da connessioni veloci), sia di carattere economico: in tanti non si possono permettere la banda larga. Abbiamo un governo in tutto e per tutto televisivo che nella migliore delle ipotesi ignora la Rete, e nella peggiore cerca di ritardarne lo sviluppo”. Se il Partito democratico andasse domani al governo cosa farebbe per la Rete? “Bisogna proseguire sulla strada degli investimenti contro il digital divide già avviata dal governo Prodi continua Gentiloni poi andrebbero messe immediatamente all’asta le frequenze liberate dalla transizione dall’analogico. Si otterrebbero così fondi consistenti liberando al contempo frequenze per i collegamenti mobili. Il governo Berlusconi invece vuole regalare le frequenze al vecchio club della televisione. Infine ci asterremmo da fare danni dal punto di vista normativo alla libertà della Rete: i tentativi fatti in questi mesi, ultima in ordine di tempo la norma contenuta nella legge sulle intercettazioni che equipara i blog ai giornali, non dovrebbero più verificarsi”.

Martedì il sito del nostro giornale
Su Antefatto.it le prime anticipazioni
Mancano quattro giorni al lancio del nuovo sito Web del nostro giornale: martedì 22 giugno antefatto.it diventa ilfattoquotidiano.it, un portale di news a 360 gradi. All’informazione del Fatto e delle sue firme, si affiancheranno notizie in esclusiva, contenuti multimediali
e una piattaforma di blog; il tutto puntando alla massima interazione con i lettori. Online su antefatto.it alcune anticipazioni: la prima delle nostre “videostorie” (Marco Travaglio racconta una storia di mafia alla Favorita di Palermo), la nuova pagina Facebook e le istruzioni per blogger e utenti che vogliono contribuire alla campagna virale per il lancio del nuovo sito.

giovedì 17 giugno 2010

Agi 17.6.10
lo psichiatra Massimo Biondi, direttore del dipartimento di Scienze Psichiatriche e Medicina Psicologica della 'Sapienza' di Roma
Una svolta nella cultura psichiatrica: se e' decisivo "ridurre i tempi tra la comparsa dei sintomi di gravi disturbi non riconsciuti, le psicosi, e la diagnosi per la cura, e' anche importante
disporre di validi indizi come il sonno e i sogni per comprendere i vissuti del
paziente". Lo dice lo psichiatra Massimo Biondi, direttore del dipartimento di
Scienze Psichiatriche e Medicina Psicologica della 'Sapienza' di Roma,
all'indomani del terzo convegno annuale 'L'intervento precoce nelle psicosi, Un
cambio di paradigma' con i contributi di specialisti europei. "Un incontro
molto importante di riflessione, ricerca e scambio di esperienze - spiega
Biondi - Siamo una struttura che fa attivita' didattica e che vuole
confrontarsi con la cultura in movimento". Insomma, la psichiatria si
rinnova? "La diagnosi e' decisiva per evitare danni molto piu' grandi -
aggiunge - e la comparsa dei primi sintomi avviene nell'adolescenza: diciamo
che la fascia d'eta' a rischio e' tra i 16 e 30 anni, per cui prima si fa
diagnosi e s'interviene e meglio e'. Bisogna, secondo Biondi, "vincere una
certa disattenzione colpevole per cui si tende a sottovalutare l'esordio
precoce di sintomi che non trattati arrecano danni gravi".
Spesso questi esordi sono accompagnati dall'uso e
dall'abuso di sostanze. "Esattamente, puo' essere l'abuso di sostanze che porta
e scatena distrubi psichiatrici gravi - precisa Biondi - ma anche l'inverso
cioe' l'esordio dei primi sintomi spinge all'uso e all'abuso di sostanze: un
circolo vizioso che va assolutamente interrotto, cosi' come va posto uno stop
ad una ondata liberatoria per cui tutto sarebbe permesso". E non e' che serva
il proibizionismo, quanto un salto culturale. Insomma, si fa strada un nuovo
approccio alla malattia mentale che "c'e' ed esiste", sottolinea Biondi che pur
riconoscendo i meriti della legge 180, avverte che "la concezione che
presiedeva alla 180 e' un po' vecchiotta, oggi disponiamo di tante esperienze
nuove e di tanti studi ed acquisizioni". Importante dunque la diagnosi per la
cura: e altra novita' riguarda i sogni sinora appannaggio solo della
psicoanalisi. "Lo psichiatra e' in grado - conclude Biondi - di leggerli e di
interpretarli: i sogni contano molto, sono indizi validi per comprendere i
vissuti profondi del paziente, cosi' come e' importante il sonno e la sua
qualita'. Sogno e sonno poi sono in stretto rapporto con la memoria". Insomma,
lo psichiatra nella diagnosi considera sia il comportamento che i sogni e il
sonno.

l’Unità 17.6.10
Ieri manifestazione sotto la Regione. Dopo le aperture in campagna elettorale il dietrofront
Il decreto. Nuova burocrazia e richieste di verifiche per stoppare di fatto la somministrazione
Ru486, il Lazio si mobilita contro lo stop di Polverini
A Roma manifestazione indetta da Sel, Pd, Radicali, Rifondazione, Idv e Cgil sotto le finestre della Regione Lazio contro le scelte del governatore Polverini che hanno di fatto bloccato la somministrazione della RU486.
di Gioia Salvatori

«Ru486, liberatela». Con questo slogan ieri alcune decine di persone hanno manifestato sotto le finestre della Regione Lazio dove la neo-eletta governatrice Renata Polverini si è rimangiata le aperture della campagna elettorale per emanare un decreto che di fatto ha stoppato la somministrazione della pillola abortiva. Il provvedimento della governatrice, che è anche commissario alla sanità, è arrivato dopo l’uso, all’ospedale Grassi di Ostia, di una pillola abortiva. La Polverini impone all’Asp (agenzia di sanità pubblica) ̆di fare una ricognizione dei posti letto dedicati e delle strutture idonee alla somministrazione della pillola. Un modo goffo e macchinoso per proibire di fatto l’uso della Ru486, dicono Radicali, Sel, Pd, Cgil, Rifondazione e Idv, riuniti in protesta. «È evidente che tutti i reparti di interruzione volontaria di gravidanza dove si applica la 194 sono idonei a praticare l’aborto farmacologico e che è assurdo scrivere il numero dei posti letto dedicati: se nessuna donna si presenta in quel reparto per prendere la Ru486, che succede? Li lasciamo vuoti, i letti dedicati? L’Asp decida e decida subito, perché le donne vogliono la Ru486: in sei nel nostro ospedale avevano
già programmato un aborto farmacologico che dopo questo stop non potranno più fare», dice Elisabetta Canitano, ginecologa dell’ospedale Grassi e presidente dell’associazione promotrice del sit-in “Vita di Donna”.
TURISMO DA ABORTO
Ora la patata bollente è nelle mani del direttore generale dell’Asp Gabriella Guasticchi, già dirigente dell’agenzia ai tempi della giunta Storace. Mentre l’Asp è ancora silente, donne che odiano le donne verrebbe da dire, le pazienti emigrano in Toscana e Puglia per prendere la Ru486. Sottoposte a uno stress psicologico che solo loro possono raccontare e a rischi fisici: «Ieri sera ha telefonato in associazione una ragazza romana che è dovuta andare a Volterra per prendere la Ru486. Ha chiamato perché dopo la somministrazione non sapeva a chi votarsi per un problema insorto il giorno dopo aver ingerito la prima pillola. Tutte difficoltà ̆ che non ci sarebbero se una donna avesse vicino casa l’ospedale dove prendere la pillola», racconta la Canitano. A complicare il quadro c’è la politica, con la Polverini ancora in cerca di un accordo con l’Udc, a cui ha promesso e poi negato posti in giunta, le deleghe agli assessori ancora da riempire di competenze, le commissioni in consiglio ancora da fare e diverse dirigenze scoperte tra pensionamenti e dimissioni. Con la svolta pro-life che intanto avanza e il consigliere Olimpia Tarzia (Lp), segretaria romana del Movimento per la vita, bioeticista e fondatrice di “Scienza e vita”, ha già presentato una proposta di legge (sottoscritta anche da cinque consiglieri Pd di area popolare) che apre la strada ai volontari per la vita nei consultori. L’unica certezza è che in sanità si deve tagliare tanto che la Polverini ha già emanato una dozzina di decreti su tasse e posti letto; solo per la Ru486 non si baderà a spese di ricovero: «Una situazione ridicola», dicono i consiglieri Enzo Foschi (Pd) e Giulia Rodano (Idv). «La Polverini da un lato taglia i posti letto e decreta che quando possibile il ricovero ordinario va sostituito col day hospital, dall’altro chiede per la Ru486, che ovunque si prende in day hospital, tre giorni di ricovero. Chiederemo alla governatrice di fare un passo indietro e di stornare, con l’assestamento di bilancio, i fondi recuperati su asili nido e servizi per le donne».

l’Unità 17.6.10
Il «labirinto» lombardo fra ricovero obbligatorio norme fantasma e obiettori
In Lombardia la situazione sfiora il paradosso e le interruzioni di gravidanza sono sempre più complicate, specie quelle farmacologiche. Linee guida introvabili, obiezioni di coscienza in crescita e obbligo di tre giorni di ricovero.
di Giuseppe Vespo

Le donne lombarde devono cercarsele negli ospedali e nei consultori della regione: le linee guida per l’utilizzo della pillola abortiva Ru486 sono state definite ad aprile, ma la Giunta Formigoni non le ha pubblicate da nessuna parte. Bisogna andare nei vari reparti di ginecologia per sapere ad esempio che la Lombardia ha recepito il parere non vincolante del Consiglio superiore della sanità, secondo cui per fare ricorso all’aborto farmacologico è necessario un ricovero di tre giorni. Mentre per quello chirurgico basta un giorno in Day Hospital, così come per altri interventi invasivi.
La poca informazione è solo la prima stazione della «via crucis» che secondo Sinistra Ecologia Libertà (Sel) è costretta a percorrere chi vuole interrompere volontariamente una gravidanza, in Italia e in Lombardia in particolare. Una delle difficoltà più grosse è superare la barriera degli obiettori di coscienza: sempre secondo Sel, nel nostro Paese quasi il settanta per cento dei ginecologi dice «no» a chi chiede di abortire. Un rifiuto che ogni anno costringe molte donne ad «emigrare» alla ricerca di istituti che accolgano la loro decisione. Stando agli ultimi dati disponibili relativi al 2008 a Milano sono stati effettuati 7.028 aborti: 3.693 di donne residenti in città. Il resto è arrivato da fuori, da altre province o regioni. Qualcuna magari dalla Asl di Legnano, dove sono state portate a termine 968 richieste su 1.650 arrivate da parte di donne legnanesi. Stesso fenomeno a Monza: in 1.950 hanno chiesto di interrompere la gravidanza, ma solo 1.050 sono state aiutate.
SALUTE E LIBERTÀ
Per «denunciare arbitrii e abusi ai danni delle donne», da oggi è attivo un numero verde nazionale a pagamento (3313937224) creato da Sinistra Ecologia Libertà. Darà consigli utili a chi telefona. Ma servirà anche ai consiglieri di SeL, che sulla base delle segnalazioni presenteranno alle varie giunte regionali delle mozioni per tutelare la libertà di scelta delle donne in tema di aborto o fecondazione assistita. La prima mozione porta la firma del consigliere lombardo Chiara Cremonesi, che ha chiesto alla giunta Formigoni di «rivedere le linee guida sull’utilizzo della Ru486, escludendo l’obbligatorietà del ricovero ospedaliero, consentendo così di ridurre al minimo i disagi per le pazienti». Cremonesi ha chiesto inoltre alla Regione di monitorare l’utilizzo della pillola abortiva e di fornire al consiglio una relazione dettagliata con cadenza trimestrale. «La Lombardia è una Regione talebana», ha detto ieri l’esponente di Sel, facendo riferimento anche alle polemiche sulla sepoltura dei feti della pillola abortiva. Una critica allargata a livello nazionale dal coordinatore nazionale di Sinistra Ecologia Libertà, Claudio Fava: «In Italia sulla salute delle donne si esercita un pregiudizio ideologico», ha esordito. Quindi ha ricordato che tra i primi atti dell’esecutivo Berlusconi c’è stata la soppressione della legge contro le dimissioni in bianco: pratica che permette, ad esempio, di liberarsi di una lavoratrice che rimane incinta.

l’Unità 17.6.10
A 50 anni dalle agitazioni del 1960. Storia della protesta vittoriosa contro la destra e il Msi
Un Convegno della Fondazione Di Vittorio per ricostruire il senso storico di quella svolta cruciale
Quel caldo luglio antifascista: la rivolta che affossò Tambroni
Cinquant’anni fa i morti di Reggio Emilia durante le proteste contro il governo Tambroni. Allora gli scontri si conclusero con le dimissioni del governo. Oggi sarebbe possibile? Un convegno ricorda questa storia.
di Carlo Ghezzi

http://www.scribd.com/doc/33154875/Unita-17-6-10-pp-38-39


il Fatto 17.6.10
Trafficanti d’armi. L’unica crisi che non c’è
Le esportazioni italiane di fucili e pistole macinano record Business da 1 miliardo di euro in due anni, in aumento
di Daniele Martini

Crisi? Non per i fabbricanti italiani di armi. A loro non è mai andata bene come ora. Dal Rapporto 2010 dell’Archivio Disarmo che Il Fatto Quotidiano ha avuto in esclusiva emerge che le esportazioni di fucili e pistole macinano record. Quasi 1 miliardo di euro in un due anni, il 2007 e il 2008, gli ultimi per i quali sono disponibili i dati Istat (Istituto nazionale di statistica) utilizzati come base per la ricerca. L’incremento percentuale è impressionante: più 12 per cento rispetto al biennio precedente. Bisogna risalire a quasi un quindicennio fa per trovare exploit così vistosi. Nessun altro settore industriale è cresciuto così tanto, anzi, gli altri in genere faticano a tenere le posizioni acquisite e molti arretrano di brutto.
LE RIVOLTELLE. Le armi prese in considerazione dal rapporto sono quelle in gergo definite “leggere”, non dichiaratamente da guerra, tipo i mitra e i bazooka in uso alle forze armate dei vari paesi. Le armi leggere sono classificate come tali in base ad una legge di 35 anni fa e comprendono in prevalenza fucili di vario tipo e dimensione, rivoltelle, pistole, carabine. Tutti strumenti con cui non si scherza, estremamente efficaci e letali al pari delle armi ufficialmente considerate belliche, anche se in teoria destinati solo ai cacciatori o agli appassionati di tiro al bersaglio. Probabilmente una parte delle esportazioni italiane finisce davvero in mani amatoriali e da questo punto di vista il successo dell’industria armiera nazionale non è affatto negativo, anzi, è ricchezza prodotta, lavoro per migliaia di operai, quattrini che entrano nel nostro paese e fanno bene alla bilancia dei pagamenti.
GUERRE E CRIMINALI.
Ma non sempre le armi commercializzate sono usate così come viene dichiarato e il boom delle esportazioni di fucili e pistole è così vistoso da far emergere dubbi e aspetti inquietanti. Almeno tre. Primo: l’export italiano in qualche modo contribuisce ad amplificare l’uso abnorme e spesso sregolato delle armi per difesa personale nei paesi dove è consentito, in particolare gli Stati Uniti. Proprio gli Usa sono uno dei mercati forti delle esportazioni italiane (circa 30 per cento del totale) e proprio lì da tempo è avviato un dibattito acceso sia nell’opinione pubblica sia a livello parlamentare sull’opportunità di continuare a riempire le case di strumenti così micidiali. La scelta è demandata ai singoli e comunque è un diritto addirittura espressamente garantito dalla Costituzione.
Il secondo aspetto inquietante si basa su qualcosa che è più di un sospetto: è molto improbabile, infatti, che volumi così elevati di armi, anche quelli indirizzati verso paesi senza conflitti interni o guerriglie come gli Stati Uniti, il Canada o la Francia e la Germania, alla fine siano utilizzati sempre e solo dai cacciatori o per uso di difesa personale. Evidentemente c’è dell’altro. E questo “altro” può essere solo intuito perché non può risultare dalle statistiche ufficiali. Il sospetto è che quegli arsenali gira e rigira alimentino un commercio parallelo e clandestino e le armi letali ancorché classificate come leggere finiscano in mano a bande criminali e alla delinquenza organizzata. Il terzo aspetto è che una fetta di quelle esportazioni italiane è indirizzata verso paesi canaglia o comunque verso aree del pianeta dove imperversano guerre, guerriglie, tumulti e rivolte. E’ una quota modesta rispetto al totale, ma la dimensione non cancella il problema.
AFGHANISTAN. E’ assai probabile, per esempio, che le armi leggere italiane esportate in Afghanistan non siano utilizzate per la caccia ai fagiani. In quel paese e negli altri che gli somigliano, fucili, pistole, munizioni ed esplosivi tricolori servono per uccidere e alimentare le guerriglie, le macellerie tra bande paramilitari rivali e i focolai di guerra che si accendono a ripetizione. Il titolo della ricerca dell’istituto a suo tempo fondato dal senatore Luigi Anderlini, spiega bene il concetto: “Armi leggere, guerre pesanti”. L’esperienza conferma il sospetto. La mattanza nella ex Jugoslavia, per esempio, fu perpetrata anche con le armi leggere di provenienza italiana le cui esportazioni conobbero proprio in quel periodo un incremento simile a quello odierno.
L’ARCHIVIO DISARMO.
Secondo l’accurato studio dell’Archivio disarmo tra i paesi verso cui si dirigono i flussi di esportazioni di armi italiane ce ne sono diversi sottoposti ad embarghi internazionali proprio per le armi, come la Cina, il Libano, la Repubblica democratica del Congo, l’Iran, l’Uzbekistan, l’Armenia, l’Azerbaijan. E ce ne sono altri in cui sono in corso conflitti o si verificano gravi violazioni dei diritti umani denunciate non solo da organizzazioni non governative tipo Amnesty International o Human Rights Watch, ma dalle Nazioni unite e dall’Unione europea. Tra questi la Russia, Thailandia, Filippine, Pakistan, India, Colombia, Israele e Kenia. Da un punto di vista strettamente formale non è compito delle industrie e degli esportatori indagare sulla fine che faranno le armi prodotte ed esportate e come saranno utilizzate davvero. Ma certi tipi di commerci per loro natura sono particolari e alla fine impegnano gli Stati che li sostengono e che, infatti, li regolamentano con leggi specifiche.
In Italia l’esportazione di armi da guerra è regolata da una legge del 1990 considerata dagli stessi pacifisti una delle più avanzate al mondo.
Per quanto riguarda le armi leggere, invece, la norma è confusa, contraddittoria e ritenuta molto meno efficace e rigorosa dell’altra.

il Fatto 17.6.10
Professionisti dell’anti-Saviano
Le critiche allo scrittore adesso piovono anche da sinistra ma sono sempre attacchi gratuiti e male documentati
Il sociologo Dal Lago polemizza utilizzando false citazioni dell’autore campano
di Marco Travaglio

nelle edicole

mercoledì 16 giugno 2010

l’Unità 16.6.10
Migliorare la 180, non tornare indietro
Luigi Cancrini risponde a Elena Canali

Ho letto oggi sull’Unità una risposta di Cancrini riguardo la proposta di legge Ciccioli. Certamente bisogna respingere ogni tentativo di restaurazione manicomialista, ma allo stesso tempo: perché a sinistra continuare a dirci balle e cioè che la 180 è perfetta, ma non è stata applicata?
RISPOSTA La legge Basaglia non è perfetta semplicemente perché di perfetto non c’è niente. Questo non vuol dire, però, che qualsiasi proposta di cambiamento sia buona. Nel caso della proposta Ciccioli, io credo sia corretto dunque da parte mia dire che si tratta di un testo troppo ancorato ad una visione medica ed organicista del disturbo psichiatrico. Da cui non si evince con chiarezza, per esempio, che i ricoveri lunghi hanno un senso solo nell’ambito delle Comunità, non delle Cliniche e che i servizi hanno bisogno per affrontare la cronicità di livello psicotico (gli schizofrenici) o border line (i disturbi di personalità) di équipes multidisciplinari in grado di dare risposte orientate su criterii psicoterapeutici. Anche a livello dei reparti di diagnosi e cura è la cultura psicoterapeutica e sociale (e non solo medico farmacologica) degli operatori quella che permette di confrontarsi con chi rifiuta le cure modulando con intelligenza forma e durata dei Trattamenti sanitari obbligatori. Sapendo che coinvolte con rispetto da operatori capaci le famiglie e la rete sono la risorsa fondamentale di ogni progetto di terapia.

Repubblica 16.6.10
Esce un libro sul tema: da Borgna a Boncinelli, studiosi a confronto
Il senso dell’uomo per l’infelicità
Non stare bene è una condizione naturale e come cura non bastano i farmaci: per sentirci meglio abbiamo bisogno di relazioni affettive e sentimenti
di Umberto Galimberti

e so che devo morire non capisco perché devo essere felice. La differenza tra l´uomo e l´animale sta tutta in questa consapevolezza, per cui l´infelicità è l´elemento costitutivo della condizione umana, che un tempo le religioni e oggi le psicoterapie o i ritrovati farmacologici cercano inutilmente di narcotizzare. Ma si può davvero pensare di reperire la felicità attraverso la negazione del tratto caratteristico della condizione umana? E allora, come scrive opportunamente Edoardo Boncinelli in Perché siamo infelici (Einaudi, pagg. 184, euro 14): "L´infelicità non è un accidente, è un destino".
Oltre a Boncinelli, che affronta il problema dal punto di vista genetico, il libro ospita gli interventi di eminenti psichiatri e psicoanalisti quali Maurizio Andolfi, Vittorino Andreoli, Eugenio Borgna, Bruno Callieri e Paolo Crepet che cura questa raccolta dei saggi, il cui intento è di smascherare i falsi rimedi che ogni giorno ci vengono proposti da quanti traggono profitto dall´infelicità diffusa, per vendere quelle che già Eschilo chiamava "cieche speranze (thuphlás elpídas)".
Con la chiarezza dello scienziato che non si fa incantare dalle cieche speranze, Boncinelli ci avverte che la natura ci genera per la continuità della specie e non per la felicità dell´individuo. Ma affinché gli individui non si demotivino una volta raggiunta questa consapevolezza, la natura provvede a quella serie di inganni che sono i desideri dell´individuo, i suoi progetti, i suoi investimenti, i suoi entusiasmi, particolarmente vividi nell´età giovanile che è poi la stagione più feconda per la generazione. "Resisteremmo infatti fino all´età riproduttiva - il traguardo che interessa alla natura - se non avessimo questa sorta di imbroglio da bambini, che non ci fa vedere perfettamente le asperità del mondo?" - si domanda Boncinelli e risponde: "Sono sicuro di no. Abbiamo una fase transitoria, ma lunga, di minore lucidità e ringraziamo Iddio. Altrimenti sono convinto che molta gente abbandonerebbe questo mondo ben prima della morte naturale"
A questa infelicità di base, che possiamo chiamare "biologica" se ne aggiunge una "culturale", determinata dal fatto che l´individuo promuove desideri, progetti, investimenti che, scrive sempre Boncinelli, sono "una molla alla base di tutta la civiltà e di tutta l´evoluzione culturale, ma anche una palla al piede, uno sconforto, uno sconcerto, un amplificare l´infelicità su tutta la vita", perché i nostri desideri sono quasi sempre sproporzionati alla nostra capacità di realizzazione, e lo scarto tra il desiderio e la sua realizzazione è la fonte di una nuova infelicità.
Su questo tema ritornano le bellissime pagine di Eugenio Borgna che, dopo aver esaminato tutte le forme patologiche di felicità e di infelicità, e i rimedi farmacologici che attutiscono i sintomi ma non danno un orizzonte di senso, affonda radicalmente lo sguardo sulla condizione tragica dell´uomo che non può vivere senza una produzione di senso, in vista della morte che è l´implosione di ogni senso. Colta nella sua dimensione abissale, questa infelicità non è curabile con i farmaci, ma è possibile attenuarla attraverso un´intensificazione delle relazioni interpersonali, da quelle affettive a quelle di cura, recuperando quel tratto costitutivo dell´essenza dell´uomo che la natura prevede come "animale sociale".
Ma che tipo di società è quella che ci circonda? Una società che ci riempie di oggetti da consumare, scrive Paolo Crepet, che stanno al posto di relazioni mancate. Una società che misura la felicità sui redditi invece che sulla circolazione dei sentimenti, fino al punto, sempre in nome dei redditi, di fare dell´infelicità un businnes. Infatti, scrive Crepet: "assistenti sociali, religiosi, psicologi, psicoterapeuti, psichiatri, filosofi, organizzazioni di volontariato, farmacologi, perfino le prostitute vedrebbero i loro ricavi ridursi se, d´un colpo o per magia, la maggior parte degli infelici cessassero di esserlo". Per non parlare poi del controllo sociale che trae un indiscutibile vantaggio dall´infelicità: "perché è più facile controllare persone rassegnate e impotenti, piuttosto che vitali e ideative".
Sull´infelicità collettiva vivono anche le religioni che "promettono una felicità post mortem", garantendosi in tal modo la sopportazione dell´infelicità su questa terra, fino a indurre a vivere i momenti di felicità con un mal celato senso di colpa, perché assaporare la felicità su questa terra potrebbe ridurre la fede nell´al di là. Ma, osserva opportunamente Crepet, non meno insidioso è il messaggio sotteso a ogni forma di pubblicità che, per invitarci a consumare, ci dice Life is now (la vita è adesso). E se la religione si alimenta di infelicità proiettando la felicità in un altro mondo, la cultura del nostra società, concentrandosi sul presente, esclude che il futuro della vita individuale e sociale possa essere migliore di quello attuale.
Ma se questa è la condizione umana, non è che per vivere bisogna frequentare e almeno in parte corteggiare la nostra follia? Questo è il messaggio dello psichiatra Vittorino Andreoli secondo il quale: "Per vivere bisogna essere fuori dalla realtà, essere dunque come i folli che l´hanno dimenticata, per poter sopportare di stare al mondo e di continuare a essere uomini, uomini senza senso, perché di fatto la condizione umana non ne ha alcuno".

l’Unità 16.6.10
Intervista a Pier Luigi Bersani
«Voglio che il Pd sia il partito della Costituzione»
Più attaccano la Carta, più la difenderemo: da settembre nelle scuole La manovra colpisce i deboli, è iniqua e ha un respiro di otto mesi Il nostro compito sarà finito quando il partito sarà in mano ai nativi del Pd
di Concita De Gregorio

Il popolo viola. Aderire? «Come sempre, se la piattaforma è convincente parteciperemo
alla manifestazione del 9
Primarie centrosinistra Se si parla di accordo saranno di coalizione
Un papa straniero? Per il 2013 sarà libero Obama...
La balena spiaggiata Anche gli inglesi sembravano spiaggiati a Dunkerque, invece... Barra diritta, non abbiamo finito di costruire

Ha messo in moto un meccanismo di delegittimazione: fa correre l’idea che il consenso sia tutto ciò che serve, il resto è inutile. Questa l’idea sovrana. Ne deriva disprezzo per le quel che la Carta garantisce: la magistratura, la libera stampa, il presidente della Repubblica. Sono elusive della Costituzione anche le pratiche di formazione delle leggi: un uso parossistico di decreti, fiducia. Il governo zittisce il Parlamento. La sovranità appartiene al popolo, certo, che però “la esercita nei limiti e nelle forma della Costituzione”. Che non è solo memoria: ha una strada davanti».
Parliamo del Bavaglio. La destra fa propaganda dicendo che è uguale alla proposta Mastella, governo Prodi. Cosa risponde?
«Un’altra bugia delle loro. È radicalmente opposto il concetto da cui le due proposte muovono: lì, nella proposta Mastella, si diceva di responsabilizzare i magistrati e gli uffici giudiziari rispetto all’uso improprio delle intercettazioni. Evitare la fuga di notizie, la divulgazione di notizie inutili, eliminare in origine le parti non attinenti all'indagine. Affrontava il tema facendo leva sulla responsabilità dei magistrati e rinnovando loro fiducia. Questi non vogliono evitare la divulgazione delle intercettazioni ma impedire di farle, colpendo così in una volta chi indaga, chi garantisce la giustizia, la stampa».
Il Popolo viola sarà in piazza il 9. Il Pd aderisce? «Come sempre, se la piattaforma è convincente parteciperemo. Noi abbiamo le nostre manifestazioni. Nostro compito è fare il maggiore sforzo di tenere assieme i temi. Non dimentichiamo che mentre si parla di intercettazioni questi ti tolgono 218 euro a testa agli handicappati».
Sta già parlando di manovra.
«Difatti. Un colpo alle Regioni. 11 miliardi in due anni non è il taglio delle auto blu. È una botta storica alle politiche sociali per i non autosufficienti, al sostegno alle piccole imprese, a una parte di ammortizzatori sociali e di istruzione. Come dice Burlando: ci hanno messo in mano una pistola perché spariamo noi. Anche Formigoni si ribella. Avrà effetti gravissimi, ingestibili. Poi ci sarà un ulteriore taglio sulla sanità. un milione e mezzo forse due. Poi il pubblico impiego. Diciamo chi sono queste persone: poliziotti, insegnanti, infermieri, redditi medio bassi. Non chiede un euro a chi ha le rendite. È una manovra iniqua, depressiva della crescita. Oltretutto di corto raggio: gli effetti durano otto mesi». Non teme la rabbia sociale?
«Oggi più che rabbia vedo rassegnazione e dolorosa sfiducia». Tremonti acclamato dagli imprenditori, studia da leader?
«Tremonti sa usare il potere che ha anche in termini di costruzione del suo profilo. In 15 anni attorno al Tesoro ha coagulato molto. La Lega, questo il punto: è la Lega che sostiene Berlusconi, non ci sarebbe Berlsuconi, oggi, senza la Lega. Il punto di sutura è quello determinante. Anche quello critico, però. La Lega non può fare tutte le parti in commedia: avrà difficoltà a far digerire quel che sta arrivando. Questa maggioranza può indebolirsi che nel suo rapporto con la Lega».
E Fini? Teme un polo costituito da Fini Casini Montezemolo? «È una costruzione che corrisponde a un sentimento che c’è in strati moderati del centrodestra che mal sopportano l’ipoteca leghista. Ho visto toni sprezzanti nella maggioranza. Se si preoccupano loro ci dobbiamo preoccupare un po' meno noi».
Non la preoccupa nemmeno l’avvio delle candidature per le prossime primarie del centrosinistra? «C’è questa litania che il centrosinistra sia in cerca del comandante. Non è così. Siamo chiamati a dare credibilità all’alternativa di governo. Dobbiamo farlo noi, adesso». Pensa alle elezioni anticipate? «Guardo l’oggi. Non so se si voterà nel 2011 ma faccio fatica a pensare ad altri tre anni così».
Dicevamo delle primarie. Vendola è pronto, altri in pista. «Quando si fanno accordi di coalizione si parla di primarie di coalizione. Non c’è altro da aggiungere».
Autocandidature?
«All’interno delle forze che partecipano alla coalizione». Niente papa straniero. «Nel 2013 sarà libero Obama, eventualmente».
Marini dice che nel Pd c’è poco Ppi
«Colgo l’aspetto positivo: verso un rafforzamento del Pd». Al contrario, la balena spiaggiata di De Benedetti...
«Anche gli inglesi a Dunkerque sembravano spiaggiati, invece...» Un calcio ai vecchi, ha detto Prodi. «Fra due o tre mesi avremo in rete tutti gli amministratori del Pd: hanno in larghissima maggioranza tra 30 e 40 anni. Detto questo, siamo e resteremo in costruzione. Avremo finito il compito quando il partito sarà in mano ai nativi del Pd».
I giovani, i dirigenti e i militanti, chiedono manifestazioni unitarie e combattive. Civati propone una campagna d’estate. Per ora ha risposto Cicchitto: dice che rinuncia alle ferie d’agosto»
«Batteremo di un giorno l’eroico Cicchitto. Se per stare nella società fosse sufficiente scendere tutte le settimane in piazza sarebbe facile. Bisogna prima, come si sarebbe detto una volta, aver chiara la linea: poi gestire la proposta e l’azione tra la gente. Non serve andare alla rinfusa. Ci vediamo sabato al Palazzo dello sport, da lì partiremo per la campagna d’estate. Abbiamo due mesi, a settembre lavoriamo sulle scuole: voglio che il Pd sia il partito della Costituzione a partire dalle scuole. Hanno ristretto l’offerta in qualità e quantità, siamo di fronte all’analfabetismo di ritorno. Bisogna partire da lì».

l’Unità 16.6.10
È un’intesa che mina l’essenza della Costituzione
Oggi in Italia la questione sociale si salda con quella democratica. Le regole della nostra Carta sono poste a tutela dei soggetti deboli, difendiamole
di Tania Groppi, costituzionalista

L’accordo proposto dalla Fiat ai sindacati per trasferire dalla Polonia a Pomigliano la produzione della Panda tocca un nervo scoperto del sistema italiano delle relazioni industriali. Ma non solo. Esso è sintomatico di una tendenza che sembra inarrestabile, volta a mettere in discussione l’essenza stessa della Costituzione italiana.
L’aspetto più evidente, ovviamente, è l’impatto, sulla pelle dei lavoratori, della globalizzazione sfrenata, con la “concorrenza al ribasso” che porta con sé. Al contempo, l’intero sistema-paese viene attratto in un gorgo che, allo scopo di intercettare capitali, gli impone di ridurre quelle garanzie dei diritti sociali che rappresentano uno degli assi portanti della vigente Costituzione repubblicana.
Che sia necessaria una riflessione sul futuro dello Stato sociale, nel mondo globale, non è certo una novità. Ma una cosa è cercare di esplorare vie per assicurare la compatibilità tra libero mercato e garanzia dei diritti, un’altra è, semplicemente, svuotare o stravolgere le regole esistenti. E ciò tanto che lo facciano soggetti privati (come in questo caso) o titolari del potere politico (come nella recente, e ancora aperta, vicenda dell’art. 41 Cost.).
Ed è qui che la questione sociale si salda, oggi in Italia, con quella democratica. Ovvero con la necessità di difendere le regole della democrazia costituzionale. Regole che sono poste a tutela dei soggetti deboli, siano essi le minoranze politiche o i lavoratori.
Quando un primo ministro dice, ripetutamente, per anni, che governare con le regole che la Costituzione impone è un inferno. Quando queste regole vengono violate ripetutamente, sia attraverso le ordinanze di necessità di urgenza, che con i decreti legge, che con i maxiemendamenti su cui si appone la fiducia, che con leggi ad personam... Quando questa è l’attitudine verso le regole della convivenza dei massimi titolari del potete politico, il rischio che anche i soggetti privati pensino di poter impunemente disattendere le regole costituzionali si fa concreto. Una Costituzione delegittimata, ridotta a un’inutile rete di lacci e lacciuoli. Una Costituzione vecchia, adatta per un’Italia che ormai non esiste più. I suoi difensori dei retrogradi parrucconi conservatori che conducono una battaglia di retroguardia. Ecco il messaggio che deve passare.
A questo punto, ad essere messe in discussione non sono solo le singole regole costituzionali, ma la stessa essenza del patto di convivenza su cui si basa la nostra Repubblica, come Stato democratico e sociale, fin dall’articolo 1, «L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro».
Ma se così è, deve essere chiaro che la battaglia per la difesa della Costituzione e la battaglia per i diritti dei lavoratori non possono che andare di pari passo.

l’Unità 16.6.10
Sorpresa: è tornato Carlo Marx
La vicenda di Pomigliano sta riportando d’attualità vecchie espressioni come lo scontro fra capitale e lavoro. Il guaio è che la globalizzazione è entrata in una nuova fase ma l’Italia non l’ha capito
di Loretta Napoleoni

La previsione. Se la torta non viene divisa più equamente, la crescita si blocca e nessuno mangia più. Lo aveva detto un certo Marx due secoli fa

Riparte la lotta operaia lungo la catena di montaggio che ormai unisce l’est all’ovest. I metalmeccanici cinesi strappano alla Foxconn e all’Honda concessioni importanti verso la creazione di uno statuto dei lavoratori che i nostri operai invece stanno per perdere. Le stesse forze che applaudono alla vittoria cinese in occidente, incitano gli italiani a rinunciare ai privilegi conquistati in decenni di lotte. Ecco l’ultimo atto canaglia dell’economia globalizzata, e per conciliare questi atteggiamenti incompatibili non si esita a suggerire di cambia-
re la Costituzione. Peccato che questa contraddizione sia irrisolvibile con i tagli alla Costituzione o ai costi di produzione. Non si illudano politici e alcuni industriali: la crisi è sistemica, e se non viene risolta da entrambi i fattori dell’equazione produttiva: capitale e lavoro, tra dieci anni il nostro capitalismo potrebbe non esistere più. I destini degli industriali e degli operai occidentali sono tornati a incrociarsi.
Per vent’anni la formula della globalizzazione è stata: taglio dei tassi d’interesse e delocalizzazione, un’equazione che ha evitato al capitalismo, quello vero, non il suo avatar finanziario, di confrontarsi con il suo nemico numero uno: la caduta tendenziale del saggio di profitto. Marx ne parla a lungo, ma anche Smith e Ricardo accennano a questo virus che si rafforza con il dilagare della produzione meccanizzata. Meno lavoro umano si utilizza nella produzione, meno grasso sarà il profitto; l’uomo e la sua intelligenza hanno un valore aggiunto superiore alla macchina.
Gli asiatici lo sanno bene, noi ce ne siamo dimenticati. La Honda e la Foxconn si piegano ai voleri degli operai cinesi invece che rimpiazzarli con nuove tecnologie o delocalizzare la produzione in Vietnam perché il valore aggiunto della manodopera cinese è ancora imbattibile. Per produrre autovetture ed ipod di prima qualità ci vuole, per dirla alla Adam Smith, la mano “magica” dell’operaio specializzato.
La disputa tra capitale e lavoro alla Fiat è solo l’anteprima di ciò che ci aspetta nei prossimi anni se non ci decidiamo a risolvere il problema della caduta tendenziale del saggio di profitto. Con i tassi d’interesse ormai a zero l’unico modo per contrastarla è tagliare il costo del lavoro, già ridotto all’osso. Delocalizzare in Cina o in Asia non è più così conveniente, ce lo confermano gli scioperi a Shenzhen, si rischia di ritrovarsi con le stesse dispute dall’altra parte del mondo. È vero, ci sono sempre i Paesi dell’ex est europeo: Polonia, Serbia, Slovacchia dove un operaio guadagna ancora 350 euro al mese e dove la vita è quasi tanto cara quanto a casa nostra. Questa la minaccia della dirigenza Fiat: chiudiamo Pomigliano e ce ne andiamo tutti in Polonia, la Panda invece che nel mediterraneo la facciamo a due passi dal Baltico.
Il discorso non fa una piega, peccato che non si sia preso minimamente in considerazione il mercato di sbocco. Ecco l’altro grande ostacolo del capitalismo: il mercato di sbocco, un volano industriale che bisogna conquistarsi con crescente difficoltà. Quello cinese si chiama mercato interno: un miliardo e 300 milioni di operai. Anche in Italia un tempo si chiamava nello stesso modo. Negli anni del miracolo economico la Fiat produceva utilitarie che poi vendeva a quella classe media ed operaia che l’aiutava a produrle.
Il capitalismo, ricordiamolo, prende il nome dal capitale, ma altro non è che il prodotto del rapporto tra questo e il lavoro: l’uno senza l’altro non possono esistere. Se togliamo la fabbrica agli operai italiani e paghiamo 350 euro a quelli slovacchi, la moderna utilitaria chi la comprerà? È una domanda che tutti gli industriali dovrebbero porsi. E prima di guardare oltralpe, facciamo due conti con la concorrenza. La Fiat non è la Toyota che da vent’anni produce macchine ibride, non è neppure la cinese Grenley che si è comprata la Volvo. Non ha né il prodotto, né i muscoli per competere a livello internazionale con i vecchi e nuovi giganti dell’auto. E, ahimé, questo discorso vale un po’ per tutta la nostra industria che negli ultimi anni ha perso lustro e fatica a sostenere la concorrenza agguerrita degli asiatici.
La grande sfida della seconda fase della globalizzazione si chiama mercato nazionale, come difendere capitale e lavoro in un’economia mondiale tendenzialmente canaglia? L’Italia non è la Germania, terzo esportatore al mondo, ma è un Paese dove c’è ancora voglia di lavorare, dove la classe media e quella operaia sono più povere che vent’anni fa, dove un insegnante di liceo guadagna 1200 euro al mese. C’è spazio quindi per la crescita economica, ma per averla bisogna che la torta venga divisa più equamente, le briciole non bastano più. Se non lo facciamo, nessuno mangerà più: l’ha predetto due secoli fa Carlo Marx.

l’Unità 16.6.10
Una pillola chiamata boicottaggio
Così la Regione Lazio ostacola la Ru 486
di Giulia Rodano

Nell’Anno Primo dell’era Polverini è capitato a Roma che una donna, madre di tre figli, nati tutti con parto cesareo, vagasse di ospedale in ospedale alla ricerca della pillola RU 486, per interrompere una quarta gravidanza. Finalmente ha trovato nell’ospedale Grassi di Ostia l’assistenza cui aveva diritto. A questo punto si è scatenata l’ira della presidente della Regione, la quale non solo ha bacchettato duramente i medici dell’ospedale, ma ha immediatamente riunito la giunta, nota finora per la sua scarsissima attività, per varare delle sedicenti linee guida per confermare il ricovero obbligatorio di tre giorni, ma soprattutto per bloccare la possibilità di usare la pillola RU 486 negli ospedali del Lazio, in attesa della individuazione di fantomatiche strutture più idonee a praticare l’aborto farmacologico.
Siamo di fronte a un vero e proprio boicottaggio della pillola RU 486 e della legge 194. L’argomento della ricerca delle strutture idonee è ridicolo. Nel Lazio, che applica la legge 194 da 40 anni, è difficile pensare che non esistano strutture in grado di eseguire e assistere un aborto farmacologico. Siamo di fronte alla violazione della legge 194, che assegna alle Regioni l’aggiornamento «sull’uso delle tecniche più moderne, più rispettose dell’integrità fisica e psichica della donna e meno rischiose per l’interruzione di gravidanza».
La Polverini non solo rende più difficile l’applicazione di una specifica tecnica di interruzione della gravidanza, rendendo obbligatorio il ricovero, ma addirittura la blocca, per un periodo imprecisato. E ci si risparmi la favoletta della preoccupazione per la sicurezza delle donne. C’è un diluvio di letteratura scientifica che dimostra l’elevato tasso di sicurezza della RU 486.
Siamo di fronte a un vero accanimento ideologico di una donna contro altre donne e di uso propagandistico della sofferenza delle donne. Che questo sia vero, è testimoniato dagli atti compiuti dalla Polverini come commissario di governo per la Sanità. Nei decreti appena firmati si tagliano migliaia di posti letto perché sarebbe opportuno, quando le conoscenze scientifiche e l’esperienza sanitaria lo consentono, passare dal ricovero ordinario al day hospital e da questo all’assistenza ambulatoriale e domiciliare.
L’aborto chirurgico si fa ordinariamente in day hospital, nel caso dell’aborto farmacologico, per la Polverini, sono necessari tre giorni ricovero. Ma la Polverini ha voluto fare di più. Nel Piemonte di Cota, sia pure con il ricovero di tre giorni, che le donne possono rifiutare, l’aborto farmacologico si pratica. Nel Lazio non si può fare neppure questo. Siamo all’interruzione del pubblico servizio. Per una Presidente donna, niente male.

il Fatto 16.6.10
Scuola, un’operazione “fatta con i piedi”
I Cobas bloccano gli scrutini, ma per il ministero è solo “ricerca di visibilità politica”
di Caterina Perniconi

“Giù le zampe dall’istruzione”. Il messaggio scritto a caratteri cubitali su uno striscione srotolato fuori dal Colosseo ieri mattina è chiaro: basta col massacro della scuola pubblica da parte di chi fa tagli indiscriminati usando rozzamente i piedi anziché le mani. La protesta, arrivata nel secondo giorno del blocco degli scrutini indetto dai Cobas, ha fatto da cornice ad un’iniziativa che sta riscuotendo grande successo e mettendo a rischio il regolare svolgimento degli esami di maturità. “Hic sunt leones, hic sunt Cobas – ha dichiarato il portavoce del sindacato, Piero Bernocchi, sotto il Colosseo – siamo al 50 per cento e puntiamo ad arrivare al 70 di scrutini bloccati in tutt’Italia. La scuola pubblica viene massacrata dalla manovra economica che taglia 41 mila posti di lavoro – ha spiegato Bernocchi – e viene attaccata con la riduzione dei salari e il blocco dei contratti per 3 anni”. E anche se il ministero dell’Istruzione ha cercato di ridimensionare l’avvenimento, definendolo “un’operazione mediatica dettata dalla ricerca di visibilità politica e destituita da qualsiasi fondamento reale”. Secondo i tecnici di viale Trastevere “si sono registrati solo casi isolatissimi di blocco degli scrutini nelle scuole, a seguito di una manifestazione davanti al ministero, alla quale hanno preso parte non più di trenta persone. Si tratta quindi di un caso che esiste solo sui giornali e nei servizi dei tg, ma che non esiste assolutamente nella realtà”. E allora i Cobas snocciolano un numero sull’altro: “Nel Lazio siamo intorno ai 2500 scrutini bloccati – dichiara il sindacato – solo a Roma a quota 1500, mentre in Sicilia ci si attende una cifra finale di 2200-2300. Il Piemonte raggiungerà quota 1300, con Torino in primo piano con almeno 800 blocchi; in Campania, Toscana e Lombardia si va da 1200 a 1500 a regione; oltre 800 scrutini fermati in Liguria e quasi 600 in Abruzzo. Il totale è di 25.000 blocchi.
E a protestare non solo solo gli irriducibili. Ieri il segretario della Cisl, Raffaele Bonanni, si è augurato che il governo “si prenda presto la responsabilità contro i tagli alla scuola”, e ha annunciato, durante una manifestazione contro i tagli organizzata a Roma, che il sindacato da lui guidato continuerà la sua azione “anche con lo sciopero, a condizione che in piazza non ci siano politici ma solo lavoratori”. “Chi ha scritto la manovra – ha insistito il segretario generale della Cisl Scuola, Francesco Scrima – prevedendo il blocco degli scatti di anzianità per gli insegnanti, è o troppo perfido o incompetente. In sede di conversione in legge del testo del decreto bisogna salvaguardare l’assetto delle carriere del personale scolastico”.
Lo stop al blocco degli scatti d’anzianità è una richiesta sostenuta anche dall’ex ministro della Pubblica Istruzione, Giuseppe Fioroni, secondo il quale la copertura economica “va presa da quel 30% sul taglio già fatto di 8 miliardi e 300 milioni di euro della Finanziaria 2008”.
E contro i tagli alla scuola si è schierata anche l’Udc. Il segretario del partito, Lorenzo Cesa, ha annunciato che l’Udc preparerà “emendamenti mirati alla manovra correttiva perché il governo ripristini quei soldi che spettano ai professori perché il mondo della scuola vuole essere trattato alla pari degli altri dipendenti pubblici, senza penalizzazioni aggiuntive permanenti. E se il governo non si prenderà presto le sue responsabilità, non è esclusa la mobilitazione di piazza”.

martedì 15 giugno 2010

il Velino 14.6.10
Libri, mercoledi' Pannella presenta volume su Riccardo Lombardi
Roma, 14 GIU (Il Velino) - Politica e cultura, un binomio fuori moda oggi da riscoprire. Il nesso indissolubile e radicale tra idee e prassi nel pensiero di Riccardo Lombardi, figura storica del socialismo italiano, a lungo dimenticato, antifascista, tra i padri costituenti al fianco di Piero Calamandrei e dei fratelli Carlo e Nello Rosselli, rappresenta il nucleo del volume di Carlo Patrignani "Lombardi e il Fenicottero". Il libro verra' presentato mercoledi' 16 giugno a Roma alla Casa delle Culture (via S.Crisogono 45) alle 17,30 dall'autore, Marco Pannella, lo storico Giuseppe Tamburrano, l'economista Paolo Lenon e Enzo Foschi, consigliere regionale del Pd. Conduce l'incontro Daniela Ubaldi, giornalista dell'agenzia Area e di Radio Citta' Futura.

Repubblica 14.6.10
Maometto tra gli angeli
La visione celeste del divino
di Pietro Citati

"Il viaggio notturno e l´ascensione del profeta" un testo pieno di mistero su un momento essenziale nella vita dell´Islam

Sul dorso di Buraq, una creatura insieme umana e animale che procede velocissima di cielo in cielo quasi al di fuori del tempo
All´inizio della sua missione il messaggero crede di aver visto Dio da vicino, ma alla fine della vita ne dubita. Forse è stato solo un "sogno veridico"

Tutto lascia credere che, all´inizio della sua missione, Maometto abbia immaginato di vedere Dio: da vicino, «alla distanza di due archi o meno», Egli gli fece la rivelazione: il Corano. Più tardi, verso la fine della vita, Maometto ebbe dubbi su quello che aveva visto: fu incerto se la sua era stata veramente una visione; questi dubbi furono accolti dall´ultima moglie, Ai´sa, che in una frase memorabile ricordò che Maometto aveva avuto un «sogno veridico». Questa visione, o questo sogno, diventò un momento essenziale nella vita dell´Islam: ne derivò una mistica; e una serie di racconti popolarissimi sul viaggio del profeta in cielo. In Italia conosciamo Il libro della Scala di Maometto, che venne tradotto in latino, e forse conosciuto da Dante (SE, a cura di Carlo Saccone, pagg. 200, euro 20). Un altro testo è Il viaggio notturno e l´ascensione del profeta, di ignota epoca e di ignoto autore, appena pubblicato da Einaudi nella bella traduzione di Ida Zilio-Grandi, con due saggi di Cesare Segre e di Maria Piccoli (pagg. XLII-126, euro 24).
Maometto trascorre la notte nella casa di Fahita, insieme alla figlia, Fatima la Radiosa. Qualcuno bussa alla porta: Fatima va ad aprire, e scorge un angelo coperto di gioielli, con due ali verdi che sbarrano la vista ad oriente e ad occidente: porta in capo un diadema ornato di perle e pietre preziose, e sulla fronte la scritta: «Non c´è dio al di fuori di Dio, Maometto è l´inviato di Dio». Fatima ha paura. Il padre riconosce l´angelo Gabriele, che gli aveva rivelato i primi versetti del Corano. Ora Gabriele gli dice: «Mio amato, indossa le tue vesti e acquieta il tuo cuore. Questa notte parlerai con il Tuo Signore, che non conosce né sopore né sonno».
Così comincia il miracoloso viaggio celeste. Il profeta sale sul dorso di Buraq, una creatura insieme umana ed animale: ha il viso umano, il corpo simile a quello di un mulo, la criniera fatta di una tramatura luminosa di perle fresche e di bacchette di giacinto, gli orecchi di smeraldo, gli occhi che irradiano bagliori come quelli del sole. Buraq possiede una conoscenza dei cieli che Maometto ignora: ma, nella gerarchia delle creature, è inferiore al Profeta, e gli domanda di intercedere per lei il giorno del giudizio.
Il viaggio di Maometto avviene tra una moltitudine di angeli. I testi apocalittici ebraici e cristiani avevano rappresentato migliaia e migliaia di angeli che lodavano Dio: col viso simile al sole, la fronte cinta dall´arcobaleno, e le gambe come colonne di fuoco. Ma la vera patria degli angeli è l´Islam. Quasi sempre appaiono in gruppi di settantamila: le spalle sono così vaste che un uccello veloce non può coprire in cinquecento anni la distanza tra le due spalle; e tengono in mano tutta la creazione, come un granello di senape nel deserto. Il sacro islamico esige grandezza, enormità, eccesso di luce, e talvolta una specie di vertiginosa mostruosità, che richiama alla memoria le antiche figure babilonesi ed iraniche. Nel primo cielo, Maometto incontra un angelo mezzo di neve e mezzo di fuoco, senza che il fuoco sciolga la neve e la neve estingua il fuoco: ha mille teste, ogni testa ha mille volti, ogni volto mille bocche, ogni bocca mille lingue che glorificano Dio in mille parlate diverse: «Sia gloria a colui che unì la neve ed il fuoco».
L´ascesa di Buraq e di Maometto procede velocissima di cielo in cielo: cinquecento anni di cammino sono superati in un batter d´occhi, quasi al di fuori del tempo. Via via essi si lasciano alle spalle il cielo di ferro, quello di rame, di argento bianco, di oro rosso, di giacinto verde, finché giungono nel settimo cielo, di perla bianca, dove «non si ode il graffiare di un calamo»: dunque al di sopra di ogni scrittura e letteratura, nel puro ineffabile divino. Come i cieli, scorrono i profeti: Davide, Salomone, Giuseppe, Abramo, Mosè, Adamo. Intanto si ode il Grido di Dio: Dio è, in primo luogo, una voce, un´immensa potenza fonica; il culmine e il cuore spirituale di ogni realtà fisica. Questa voce esalta Maometto: «Non contraddire il mio amato Maometto»; «Conducete il mio amato Maometto nella Luce». Se il sacro è l´enormità dello spazio e della luce, un semplice uomo, nato e destinato a morire, sta al di sopra di qualsiasi grandezza, nella quale Dio si esprime.
[* * *]
Quando Maometto arriva un´ultima volta alla presenza di settantamila fila d´angeli, si ode di nuovo il Grido di Dio: «Sollevate i veli tra me e il mio amato Maometto». Il profeta aveva già superato settantamila veli di luce bianca, settantamila veli di smeraldo verde, settantamila veli di broccato di seta, settantamila veli di taffetà, settantamila veli di luce e settantamila veli di tenebra, settantamila veli di muschio, settantamila veli d´ambra e settantamila veli di Potenza; e ora supera veli che Dio solo conosce. In questo momento percepisce «qualcosa di sublime, che nessuna fantasia può immaginare e nessun pensiero raggiungere». Il Corano affermava che Dio parla agli uomini soltanto dietro un velo: mentre Maometto si lascia dietro anche l´ultimo velo, e si trova «alla distanza di due archi, o meno» da Lui.
Questo momento supremo è un´esperienza totale, che Maometto conosce sia nell´anima sia nel corpo. Dio pone la mano tra le scapole di Maometto; e lui prova un´alleviante frescura al fegato o al cuore. Ma, al tempo stesso, sia Maometto sia l´autore del Viaggio notturno sanno che vedere Dio è impossibile. Quando Dio domanda: «Mi vedi con i tuoi occhi?», il profeta risponde: «La vista non ti percepisce... La Tua Luce, il Tuo Splendore e la Tua Maestà hanno accecato la mia vista. Ti vedo soltanto con il cuore». La conoscenza fisica di Dio non può venire cancellata, ma insieme viene cancellata, perché quando percepiamo Dio, percepiamo solo un´infinita luce: è il paradosso di ogni esperienza mistica. Il rapporto di Maometto con Dio è diretto, immediato, senza distanza né intermediari, «faccia a faccia». Dio ribadisce: «Se ho creato Adamo con la Mia mano, l´ho creato d´argilla, mentre ho creato te con la luce del Mio volto. Se ho scelto Abramo come amico, ho scelto te come amato, e l´amato è meglio dell´amico. Se ho parlato con Mosè, gli ho parlato da dietro un velo, sul monte Sinai, mentre con te ho parlato sul tappeto della Prossimità e senza alcun velo».
Quando Maometto lascia il culmine dei cieli, ritrova l´angelo Gabriele, che lo accompagna fino all´entrata del Paradiso. Qui Ridwan, il Guardiano, lo prende per mano e lo accompagna nei Giardini. Maometto guarda, e la terra è bianca come fosse d´argento, i ciottoli sono di perle e di corallo, la polvere di muschio, le piante di zafferano, gli alberi hanno foglie d´argento e d´oro. Una cupola di perla sta sospesa, senza che nulla la sorregga e la sostenga. Dentro la cupola ci sono mille cappelle, e in ciascuna ci sono mille stanze, e in ogni stanza mille divani, e su ogni divano mille giacigli di broccato di seta, e un fiume d´acqua corre tra giaciglio e giaciglio. Nella cupola di perla c´è una cupola di smeraldo verde, e all´interno un divano d´ambra bianca tempestato di diamanti e pietre preziose, dove sta adagiata una donna, con le palpebre scure di collirio, e occhi grandi dalla cornea rosa e le pupille nerissime.
Maometto ritorna a casa, dove la figlia Fatima lo attende. Ormai sa tutto del mondo, che egli stesso ha contribuito a creare. Esso ha due culmini. Quello supremo è un Dio che egli non può vedere, o vede soltanto nelle profondità del cuore. L´altro culmine è il Paradiso, che invece riempie il suo sguardo: mentre lo percorre, contempla la nostra stessa realtà terrena, più bella, ricca e lussuosa, portata in alto e spiritualizzata. Tra l´invisibile e il meraviglioso visibile, egli conosce la vita felice.

l'Unità 15.6.10
Il comitato centrale: «Quello Fiat è un ricatto, non un’intesa. Senza diritti saremmo schiavi»

Alzo zero contro la Costituzione
Pomigliano diventa l’ultimo caso di aggressione alla Carta In ballo c’è il diritto di sciopero
Fiom dice no al ricatto
Pomigliano, la Fiom respinge l’accordo
Il comitato centrale delle tute blu Cgil respinge il ricatto Fiat su Pomigliano: «Impossibile firmare». Ma rilancia: «Se davvero vuole realizzare il proprio piano industriale, l’azienda applichi il contratto nazionale».
di L. V.

Il Lingotto ha deciso il gioco, ha dettato le regole, e ha preteso un sì o un no secco da quanti vogliano partecipare. Ma la risposta della Fiom su Pomigliano d’Arco non può che essere articolata. La posta è troppo alta per semplificazioni monosillabiche.
FIOM NON FIRMA MA RILANCIA
«Diciamo sì al rilancio dello stabilimento campano per realizzare il piano industriale della Fiat, nella piena applicazione del contratto nazionale» hanno sottolineato le tute blu della Cgil al termine del comitato centrale, convocato ieri per esprimersi sull’ultimatum del gruppo. «Ma diciamo no alle clausole che derogano a contratti, leggi e Costituzione. Non possiamo sottoscrivere quel testo perchè contiene profili d’illegittimità».
Niente firma, dunque. La Fiom non si piega al «ricatto» del gruppo torinese e scatena un fiume di reazioni nel mondo economico e politico, tra chi invoca responsabilità a senso unico e chi riconosce le ragioni del lavoro. «Marchionne ha chiesto solo più turni di lavoro e di combattere l’assenteismo»
ha commentato, tra gli altri, il presidente della Camera Gianfranco Fini. «Nel documento ci sono punti molto pesanti sui diritti fondamentali» gli ha risposto il responsabile Lavoro del Pd, Stefano Fassina.
Oggi l’organizzazione dei metalmeccanici Cgil sarà comunque al tavolo convocato a Roma dall’azienda per fare il punto sulla trattativa, invitata a partecipare «per conoscenza», mentre le altre organizzazioni sindacali si preparano a firmare un accordo separato da sottoporre poi a referendum. Ovvero, il rilancio dell’impianto napoletano con 700 milioni d’investimento e la produzione della nuova Panda al prezzo di deroghe al contratto nazionale a alle leggi.
IL LAVORO È LA PRIORITÀ
Eppure un’altra soluzione sarebbe possibile, se il Lingotto decidesse di accogliere la controproposta della Fiom, che «all’unanimità chiede alla Fiat di applicare il contratto nazionale di lavoro, perchè questo permette all’azienda di produrre le 280mila automobili all’anno e le 1.045 al giorno che sono gli obiettivi del piano che Marchionne vuole fare».
Su questi obiettivi si è concentrata anche la segreteria confederale della Cgil, riunitasi in mattinata dopo l’incontro a due tra il leader Guglielmo Epifani e il segretario delle tute blu Maurizio Landini: «Il lavoro è la priorità, è essenziale che si dia corso all’investimento annunciato dalla Fiat ridando certezza al territorio» ha ribadito il sindacato di Corso d’Italia. Senza dimenticare, però, che «le norme proposte dall’azienda aprono profili di illegittimità su malattia e diritto di sciopero» e che «ogni firma eventualmente apposta a questa clausola non è semplicemente invalida, è inefficace e inesistente». Autonomia alla Fiom, dunque, a cui «tocca promuovere la discussione» in merito, «coinvolgendo gli iscritti e individuando le corrette forme per il giudizio da parte dei lavoratori». Per domani, infatti, il sindacato ha convocato a Napoli l’assemblea dei propri iscritti.

l’Unità 15.6.10
Adesso c’è anche l’assalto al diritto allo sciopero
I costituzionalisti lanciano l’allarme
«Attenti agli aut aut»
Incontro di una cinquantina di accademici con Bersani e Violante. Difendere la Carta dai colpi di mano del governo
di Maria Zegarelli

Certo, tutti cercano di attenersi al tema all’ordine del giorno, le riforme istituzionali a cui sta lavorando il Partito democratico, ma la preoccupazione anche per l’assalto all’articolo 41 della Carta Costituzionale, tra gli oltre 50 costituzionalisti riunitisi ieri nella Sala della Regina a Montecitorio, è forte. L’invito è partito dal segretario Pier Luigi Bersani, che si prepara, con il responsabile Riforme, Luciano Violante, alla «campagna d’autunno», proprio sui temi della Costituzione, ma come prescindere dalla stretta attualità, dalla lettura dei quotidiani? Impossibile, anche perché l’accordo che una delle realtà imprenditoriali più importanti del Paese vuole siglare con i sindacati minerebbe parecchi di diritti sanciti dai costituenti. Tania Groppi, professore ordinario di Istituzioni di diritto pubblico nella facoltà di Economia dell'Università di Siena, appena uscita dal seminario Pd, prova a fare il punto: «A me sembra che la tendenza che la maggioranza di governo viveva finora di insofferenza verso le regole, si stia diffondendo anche al settore privato e sia passata dalle garanzie ai diritti dice Groppi poco dopo aver lasciato i lavori del seminario -. Berlusconi da sempre, e ultimamente con maggiore insistenza, dice che tutte queste regole sono un impedimento al suo lavoro: adesso mi sembra che si sia fatto un ulteriore passo cercando di intaccare i diritti sociali, quelli dei lavoratori». Secondo la costituzionalista la Fiat con questo accordo mette in discussione lo stesso diritto allo sciopero, alla salute, al riposo e quello alla partecipazione politica».
E non è un caso che ieri, durante l’incontro a porte chiuse, a cui erano presenti tra gli altri, Onida, Sorrentino, Luciani, Barbera, Bassanini, De Martin e Giorgis in tanti abbiano ribadito la necessità di difendere con convinzione la Costituzione, nella «prima e nella seconda parte». Da qui la larga condivisione della platea per la piattaforma di lavoro illustrata da Violante che «punta molto sul rilancio della democrazia partecipativa, sulla necessità di una rinnovata legittimazione delle istituzioni, del rapporto tra elettori e eletti e della centralità del parlamento», come commenta uno dei presenti.
Allarme, rinnovato, poi per una possibile forzatura da parte della maggioranza per le riforme istituzionali. «Le riforme vanno fatte senza aut-aut ma con larga condivisione». Ai costituzionalisti presenti è stato anche chiesto quanto percorribile possa essere lo strumento del referendum per l’abrogazione del Porcellum e l’eventuale reviviscenza del Mattarellum. Alla fine la linea che è prevalsa è stata quella della cautela. Lo stesso Bersani, ha avvertito: «Attenzione, il quorum in questi ultimi venti anni non è mai stato raggiunto. Potrebbe rivelarsi un boomerang. Noi dobbiamo dire con chiarezza che siamo contro questa legge elettorale e che si devono saldare questione sociale e questione istituzionale». C’è chi fa anche notare che dubbi di ammissibilità davanti alla Corte Costituzionale sul referendum abrogativo per il Porcellum ce ne sono e non vanno sottovalutati. Il Pd, dal canto suo, trova un punto di condivisione al suo interno: non porsi in termini «statici» rispetto alle riforme, ma di difendere con decisione l’impianto della Carta fondativa.

l’Unità 15.6.10
«Si rispettino le regole l’Italia non è il Burundi»
Un’associazione privata come il sindacato non può convalidare atti costituzionalmente illegittimi dei datori di lavoro come l’art. 14 dell’intesa
di Luigi Mariucci, Diritto del lavoro a Ca’ Foscari

I l documento Fiat su Pomigliano assomiglia, per usare un eufemismo, più a una dichiarazione unilaterale che a una proposta contrattuale. Il testo contiene molte rilevanti modifiche della condizione di lavoro e del sistema di relazioni contrattuali. Sul primo piano basti vedere le misure previste in tema di orario di lavoro: 24 ore di produzione continua, 18 turni settimanali, compreso il sabato notte, lavoro straordinario direttamente esigibile dall’azienda, deroghe al regime delle pause. Colpiscono, in particolare, clausole siffatte: «Le soluzioni ergonomiche (...) permettono sulle linee a trazione meccanizzata con scocche in movimento continuo, un regime di tre pause per 10 minuti ciascuna (...) che sostituiscono le attuali due pause di 20 minuti». E lo chiamano postfordismo! Vi sono poi norme c.d. anti-assenteismo che prevedono la mancata retribuzione dei giorni di malattia se le assenze superano una certa media, colpendo, per così dire, nel mucchio. Infine è prevista una «clausola di responsabilità» molto pesante a carico dei sindacati, in caso di comportamenti difformi dalle regole sopra definite, in termini di sanzioni riferite ai contributi e ai permessi sindacali.
Dicono che questo diktat, anzi, si perdoni il lapsus, questo accordo è necessario per assicurare la prospettiva produttiva di Pomigliano e che questo è reso necessario dalla competizione globalizzata. E sia. Fin qui si può fare, nella consapevolezza che tutto ciò comporta duri sacrifici e costrizioni per i lavoratori e una assunzione molto forte di responsabilità per i sindacati. Purché di questo non si faccia la bandiera di un «nuovo sol dell’avvenire», come predica l’attuale ed ex-socialista ministro del lavoro in carica.
Ciò che non si può fare è invece pretendere di modificare, con un c.d. contratto collettivo, addirittura la Costituzione. Ciò è quanto si verifica, in particolare, nel punto 14 del testo, che merita di essere citato per intero: «Le clausole indicate integrano la regolamentazione dei contratti individuali di lavoro al cui interno sono da considerarsi correlate ed inscindibili, sicché la violazione da parte del singolo lavoratore di una di esse costituisce infrazione disciplinare di cui (...) agli articoli contrattuali relativi ai provvedimenti disciplinari conservativi e ai licenziamenti(...)».
Questa clausola è due volte illegittima: perché qualifica arbitrariamente come parte normativa del contratto impegni di parte obbligatoria, riferite ai sindacati stipulanti; e perché pretende addirittura di trasformare in illecito, passibile di licenziamento, l’esercizio del diritto individuale di sciopero, sancito dalla Costituzione. La firma già apposta da qualche sindacato a questa clausola non è semplicemente invalida: è inefficace, inesistente, tamquant non esset, dicevano gli antichi. Una associazione privata, qual è il sindacato, non può infatti convalidare atti costituzionalmente illegittimi dei datori di lavoro. Non si modifica per contratto la costituzione: questo è l’abc dell’alfabeto costituzionale. Forse questo si può fare in Cina, negli Usa o nel Burundi, ma non in Italia. Perciò a mio giudizio la Fiom-Cgil farebbe bene a siglare con riserva quel testo, con una assunzione straordinaria di responsabilità, limitando gli effetti giuridici della sua firma alle parti del testo riferite a materie di competenza contrattuale e dichiarandone l’ovvia irrilevanza per le parti relative a discipline inderogabili di legge.

Repubblica 15.6.10
Epifani: la Fiat ci ripensi la fabbrica non è una caserma
"Cadano i limiti a scioperi e malattia, e noi diciamo sì"
Siamo disponibili a trovare soluzioni per un assenteismo che a tratti è stato intollerabile
intervista di Roberto Mania

ROMA - «Marchionne ci ripensi: non contrapponga lavoro a diritti. Pomigliano non può diventare una fabbrica-caserma. E il "piano B" sarebbe anche una sua sconfitta». Guglielmo Epifani, segretario generale della Cgil, parla mentre, a qualche chilometro di distanza, è in corso il Comitato centrale della Fiom sul caso-Pomigliano. Sa già come andrà a finire: no alla proposta della Fiat.
Lei condivide la posizione della Fiom?
«Io dico ciò che chiede la Cgil: che si realizzi rapidamente l´investimento previsto per lo stabilimento di Pomigliano. Questo è il frutto di anni di mobilitazione nel territorio da parte dei sindacati, della Cgil, della Chiesa, delle istituzioni locali. A Napoli non c´è alternativa. Stiamo parlando di 15 mila posti di lavoro, compresi quelli dell´indotto. Un piano di queste dimensioni impone una sfida che sicuramente deve essere raccolta: quella della saturazione degli impianti e della turnazione. Su questo non dobbiamo avere timidezze. I 18 turni non sono una novità. In molte fabbriche si lavora 24 ore su 24 per sette giorni. Sappiamo che sarà un sacrificio alto per i lavoratori, perché non è facile lavorare il sabato e la domenica di notte, perché non è la stessa cosa lavorare alla catena di montaggio o stare seduti davanti a una scrivania».
Sta ragionando come se il no della Fiom fosse ininfluente. Le ricordo che Marchionne ha posto come condizione l´accordo di tutti i sindacati senza escludere di poter mantenere la produzione della Panda in Polonia.
«C´è un capitolo del documento della Fiat che apre problemi molto gravi. Riguarda la malattia e lo sciopero. Abbiamo consultato insigni giuristi e ci dicono che, senza chiarimenti e correzioni, quelle clausole appaiono illegittime o addirittura incostituzionali. Mi domando: si può sottoscrivere un accordo con questi profili di illegittimità? Questo è il punto. Conviene alla Fiat che chiede certezze uno scenario di questo tipo?».
Lei pensa che la Fiat, la Cisl e la Uil possano firmare un accordo addirittura incostituzionale? Le sembra possibile? Non sarà la vostra una forzatura interpretativa?
«Per quanto mi risulta anche i metalmeccanici di Cisl e Uil avevano sollevato i nostri stessi argomenti. Poi ha prevalso lo spirito di chiudere. Ma c´è il rischio di un fiorire di iniziative giudiziarie, se non vengono chiariti quegli aspetti, perché la nostre preoccupazioni sono molto fondate. Al primo ricorso quel piano non regge. Per questo chiedo a Marchionne un ripensamento».
La Cgil sostiene che una firma su un accordo del genere sarebbe "invalida, inefficace e inesistente". Se è così perché intanto non la mettete?
«Rovesciamo il problema: a cosa servirebbe un sì in questo modo? A nulla. La Fiat non deve piegare i sindacati ma trovare un piano che regga. La Cgil è assolutamente disponibile a trovare soluzioni per un assenteismo che a tratti ha assunto a Pomigliano caratteristiche intollerabili. Siamo pronti e abbiamo anche le nostre proposte».
Quali?
«Ne parleremo».
Esclude che Marchionne possa applicare il "piano B" e non spostare la produzione della Panda a Pomigliano?
«Penso che alla fine possa prevalere in Marchionne il senso della forza dell´operazione Pomigliano. Ha scommesso troppo sulla Fabbrica Italia. Il "piano B" sarebbe anche una sua sconfitta. Gli chiedo di non attuarlo, ma so che il "piano B" è concretamente nelle sue mani».
Lei ha fatto tutto per arrivare a un´intesa? Possibile che la Cgil scopra i problemi sempre poco prima della firma?
«Non è così. Stiamo rincorrendo centinaia di vertenze in tutta Italia. In questo caso, mi dispiace, è mancato il rapporto tra la Cgil e la Fiom nella costruzione della soluzione».
La colpa è della Fiom?
«È un dato di fatto perché questa vicenda ha ricadute su vari settori, non solo sui lavoratori metalmeccanici».
La Fiom ha parlato di "ricatto" da parte di Marchionne. Lei userebbe la stessa parola?
«Se si intende dire che la Fiat ha tirato troppo la corda, c´è una parte di verità. L´intera verità è che la Fiat ha integralmente la possibilità di decidere. È una situazione inedita nella quale il Lingotto ragiona come una multinazionale che non ha più nulla da chiedere al governo italiano».
Se ci sarà il referendum è scontata la vittoria del sì. A quel punto la Fiom dovrà firmare?
«Deciderà la Fiom. È giusto che i lavoratori comunque dicano la loro. La Fiom deve potere dire sì o no, può chiedere il giudizio dei lavoratori, ma non può scaricare tutte le responsabilità su quest´ultimi».

l’Unità 15.6.10
Il virus della divisione
La sinistra e la retorica vecchi contro giovani
di Michele Ciliberto

Personalmente amo molto la polemica che considero il sale della discussione e della ricerca; ma per polemizzare bisognerebbe entrare nel merito delle posizioni che si vogliono contestare. Altrimenti la polemica si trasforma in un gioco sterile. Come è accaduto nel caso dell’articolo pubblicato sabato scorso in “polemica” con un mio intervento di due giorni prima.
Il mio obiettivo era contestare la rugiadosa retorica giovanilistica oggi di moda a destra e a sinistra, per sottolineare la dimensione sociale della “questione generazionale” e la necessità di affrontarla a livello strutturale, al di fuori di diffuse, e artificiose, contrapposizioni tra “vecchi” e “giovani”. Nel quadro di questo ragionamento, ho fatto riferimento all’Università il mondo che credo di conoscere meglio e alla recente proposta del Pd di procedere a uno shock generazionale, mandando forzosamente in pensione i professori a 65 anni (per intendersi: l’età della pensione prevista ora per le donne). Era una specificazione di ordine esemplificativo, che voleva, per contrasto, ribadire la necessità di porre su basi concrete la “questione” dei giovani, tirandola fuori dalle secche in cui è ora impigliata e di cui proprio la proposta del Pd è una conferma.
Di tutto ciò in questa polemica non ci sono tracce, salvo ricordare che sul tema esiste una “piccola” (sic) bibliografia. Invece ci si concentra con molta energia sulle (poche) righe in cui criticavo la proposta del Pd: come se se si fosse imbracciato il fucile “a prescindere” (direbbe Totò) e non si aspettasse altro che sparare sui professori universitari, considerati la vera radice di tutti i mali dell’Università. I professori universitari, ribadisco: non coloro che hanno sgovernato, e continuano a sgovernare questo paese; quei professori che, in una sorta di lavacro, dovrebbero essere eliminati con un’operazione di tipo gattopardesco sostituendo a un vecchio ceto un nuovo ceto. E per aver citato una battuta in chiave antiutopistica di Antonio Labriola – uno dei più grandi studiosi di Marx che l’Italia abbia avuto mi sono trovato ad essere annoverato tra i conservatori, anzi tra gli apologeti della “tradizione”: come se Labriola fosse Joseph de Maistre o Edmund Burke.
Eppure è stata una polemica istruttiva. Essa dimostra che l’ideologia “generazionale” è assai ramificata ed è spia di disagi strutturali; che tra le generazioni è sceso il “coltello della divisione”; che è venuto meno un linguaggio unitario. Occorre un lungo lavoro per rimettere il Paese e l’Università: gli shock generazionali, le rotture velenose, gli atteggiamenti pregiudiziali non portano da nessuna parte. In questo momento è necessario il contrario: un paziente lavoro di reciproco ascolto per individuare un terreno comune; e per questo anche l’Unità può dare un contributo.

il Fatto 15.6.10
Pretendiamo rispetto
di Gian Carlo Caselli

Ennesimo attacco del premier contro i giudici, che sarebbero “politicizzati” e avrebbero l’obiettivo di rovesciare per via giudiziaria il risultato elettorale. Tesi non priva di un che di grottesco. Liquidata dalla “Jena”, sul quotidiano “La Stampa”, osservando che dopo 16 anni di tentativi inutili i giudici andrebbero licenziati per manifesta incapacità... Ma l’ironia non basta. La ripetizione ossessiva di una tesi, anche bislacca, con martellanti campagne spesso prive di contraddittorio, finisce per diffondere e consolidare un pregiudizio pericoloso per la democrazia. Perché in democrazia la fiducia dei cittadini nella giustizia non è un optional, ma un elemento strutturale: se viene meno, si affaccia il rischio di derive illiberali e disgreganti. I tentativi del premier di circoscrivere i suoi attacchi ad una parte della magistratura non sono credibili perché smentiti dalle vicende degli ultimi anni. L’attacco si è rivelato a geometria variabile, nel senso che è di assoluta evidenza come siano stati costretti a subirlo tutti i magistrati (proprio tutti: pm e giudici, fino alle Sezioni Unite della Cassazione e addirittura alla Corte costituzionale) che adempiendo i loro doveri, in qualunque città o ufficio, abbiano avuto la sventura di imbattersi in interessi che pretendono di sottrarsi ai controlli istituzionali previsti per tutti gli altri.
Ma l’obiettivo di una propaganda tanto infondata quanto insistita è anche distogliere l’attenzione rispetto ai veri problemi che angosciano il Paese. Riproporre il vecchio ma sempre verde ritornello della magistratura politicizzata significa parlare meno della crisi economica; della manovra finanziaria; delle pensioni; del lavoro che non c’è o se c’è è sempre più spesso nero, precario, insicuro. Significa provare ad offuscare la realtà incontestabile di una legge sulle intercettazioni che stritola in una tenaglia micidiale informazione, investigazione e sicurezza dei cittadini, picconando in un colpo solo alcune pietre angolari della democrazia. Significa continuare ad ignorare la catastrofe annunziata del sistema giustizia, per tirare invece la volata a riforme che invece di migliorare anche solo un poco l’efficienza del sistema taglieranno ancora di più le unghie agli inquirenti. Dunque, evocare complotti giudiziari, disegni politici realizzati mediante l’azione penale, persecuzioni per motivi di parte può essere utile perché sempre meno si ragioni sui fatti. Ma questi metodi e questa cultura rischiano di uccidere la verità e la giustizia, rendendo un pessimo servizio al Paese. L’Associazione nazionale magistrati, facendo il suo mestiere, prova ad arginare questa strumentale ondata di propaganda basata sul nulla, ma gli spazi che riesce a ritagliarsi sono sempre più esigui. Il Consiglio superiore della magistratura ha sempre fatto di tutto per difendere l’autonomia e l’indipendenza dei giudici contro gli attacchi di certa politica, ma non possiede radio o televisioni che diffondano ovunque il suo “verbo”. Anzi, dovrà presto pagare il rifiuto sempre opposto alle richieste di maggior “docilità” subendo una trasformazione (due Csm separati per separare le carriere, in vista della agognata – anche se a parole negata – sottoposizione del pm al governo), trasformazione che non è prevista dalla Costituzione, ma tanto si sa che la Costituzione è vista da qualcuno come una pratica da archiviare, non come una Carta di valori irrinunciabili, una spinta al continuo miglioramento del tasso di democrazia del sistema, che nello stesso tempo funziona da argine ai tentativi di arretramento.
Il ministro Guardasigilli, il presidente della Camera e il presidente del Senato potrebbero, ciascuno nell’ambito delle proprie competenze istituzionali, intervenire in qualche modo per recuperare un clima di rispetto verso l’ordine giudiziario. Non mi sembra che abbiano molta voglia di farlo. E allora, non resta che sperare in qualcun altro. Che però è troppo in alto perché possa arrivargli la voce sommessa di uno dei tanti servitori dello Stato stanchi di essere vilipesi “a gratis”.

Repubblica 15.6.10
Ambra a teatro con "I pugni in tasca" "Ma come ho pianto per Bellocchio"
Ospite del festival di Taormina, l'attrice racconta gli esordi in tv e la fatica dello studio

di Maria Pia Fusco

TAORMINA. Il primo incontro di Ambra Angiolini con Marco Bellocchio per un provino non si può definire esattamente felice. «Non capisco come una con quella faccia abbia quella voce», fu il commento del regista, che però le diede un´altra possibilità «ma fu un disastro, perché non riuscivo a smettere di piangere. Piansi per tutto il viaggio di ritorno a casa», ricorda Ambra Angiolini. Ma «Marco è una persona priva di pregiudizi, ricco di una sana curiosità e si è fatto sorprendere: mi ha richiamato al festival di Bobbio, abbiamo girato un cortometraggio e soprattutto mi ha coinvolto nella versione teatrale di I pugni in tasca». Scritto dallo stesso Bellocchio è in programma la prossima stagione, quattro mesi in vari teatri italiani: regia di Stefania De Santis, Ambra nel ruolo che fu di Paola Pitagora, Piergiorgio Bellocchio in quello di Lou Castel.
I pugni in tasca, considerato in seguito anticipatore della contestazione, è un film del 1965, Ambra è nata 12 anni dopo. Ma «è una storia di grande impatto anche per chi il ´68 non l´ha vissuto. Più che nel contesto politico, che resterà lo stesso nella versione teatrale, il fascino è in quello familiare. È una famiglia che non riesce a controllare le distanze e in cui c´è qualcosa di torbido che è anche modo di comunicare. Ho letto una corrispondenza tra Bellocchio e Pasolini, che definiva I pugni in tasca "un cinema di prosa che ogni tanto sfocia nella poesia". Mi sembra una riflessione perfetta per tutto il cinema bello». Una vicenda come quella del film di esordio di Bellocchio «sarebbe difficile da proporre oggi. Non si potrebbe tenere nascosta la malattia o l´abuso, oggi finirebbero su Internet. Con il risultato che la famiglia, che dovrebbe essere sostegno e protezione diventa prigione e causa di autodistruzione. In un tempo in cui se ne parla tanto mi sembra giusto ricordare che ci sono ancora tante famiglie di questo tipo. Basta leggere certi casi di cronaca». Ospite di Taormina, Ambra ha incontrato i giovani del Campus ai quali ha raccontato la propria esperienza di adolescente a cui «la popolarità è arrivata per caso. Ma da allora sono passati 19 anni di lavoro, di studio, anche di fatica». Oggi è un´attrice con più di un film in uscita, tra i quali Notizie dagli scavi di Emidio Greco con Battiston e Immaturi di Paolo Genovesi, una fiction per la Rai e una sit-com con Fabio De Luigi per Mediaset. E anche attrice di teatro. Dopo una prova impegnativa come il monologo di Stefano Benni La misteriosa scomparsa di W, «penso che potrò affrontare I pugni in tasca con un pizzico di sicurezza in più. Sarà una prova di coraggio, ma mi piace la compagnia, siamo un gruppo strano, giusto per una famiglia come quella».

Repubblica 15.6.10
"Vendola, governatore stile Obama" sul "Times" l'elogio di Emmott

ROMA - Nichi Vendola «è l´uomo da tenere d´occhio nella sinistra in Italia», perché sta combinando con successo mercato e competizione con i valori sociali della sinistra. Parola di Bill Emmott, ex direttore dell´Economist che ieri sul Times ha raccontato quello che sta succedendo «nel tacco d´Italia: una rinfrescante combinazione di vecchi valori e capitalismo». Per Emmott, il governatore della Puglia è un esempio per la sinistra europea in crisi. Vendola «è un mobilizzatore in stile Obama, con l´oratoria e il carisma per creare sogni, e sta costruendo un movimento nazionale. Come governatore, ha almeno in parte accettato che il problema del Meridione è stato troppo Stato e troppo poco mercato e ha spostato il proprio interventismo verso le infrastrutture locali, verso la concessione di borse di studio a 10.000 studenti, per consentire loro di studiare fuori dalla regione, e verso l´ambientalismo».