domenica 20 giugno 2010

l’Unità 20.6.10
«Mani, cuore, testa, questo siamo noi, questo è il partito che voglio io. Dobbiamo trasformare la rabbia in energia positiva»
«Non diremo mai una parola men che positiva contro di loro. Le altre le dedichiamo a Berlusconi».
La Costituzione: «La vogliamo rafforzare, è la più bella del mondo. La Costituzione è avanti, noi siamo indietro»

Folla e entusiasmo al Palalottomatica. Il leader Pd legge gli articoli 1 e 3 della Costituzione
Berlusconismo e conformismo «colpevoli» . L’elenco delle promesse del governo mancate
Bersani: basta balle mandiamoli a casa
Bersani all’attacco contro la manovra, il ddl intercettazioni e le tentazioni di modifica della Costituzione. Al Pd: «Dobbiamo essere più forti delle nostre debolezze. La gente ha bisogno di noi»
di Maria Zegarelli

«Mani, testa, cuore: questo siamo noi, questo è il partito che voglio io. Questa manifestazione non è la fine, è l’inizio». Infuoca la platea del Palalottomatica Pier Luigi Bersani che sventola centinaia di bandiere e si spella le mani. È questo il partito che vuole, cuore testa e mani nei bisogni del Paese, fuori dal dibattito interno in cui il Pd rischiava di morire. L’Inno di Mameli, versione abbreviata, la Canzone popolare di Ivano Fossati, e questa «rabbia che va trasformata in energia positiva, in una possibilità di cambiamento».
È un segretario «tonico» per dirla con Beppe Fioroni, «in gran forma» con David Sassoli, «bravissimo» con Rosy Bindi che a fatica trattiene le lacrime. Veltroni non parla, «oggi è il giorno del segretario», ma se ne va prima che Bersani intervenga, «impegni presi prima», spiegano i suoi. Ma oggi non è giorno di polemica, il Pd ritrova l’orgoglio di se stesso in questa manifestazione di protesta e di proposta, come la definisce lo stesso Bersani e si prepara per la campagna d’estate e quella d’autunno contro il ddl intercettazioni e la manovra «sbagliata, iniqua» fatta di 2380 commi «e 150 pagine senza uno straccio di idee, senza direzione di marcia». Sferzata a chi «passava il suo tempo a misurare le pagine del programma di Prodi».
Un discorso fissato sui fogli con appunti, l’articolo 1 e l’articolo 3 della Costituzione letti per intero. L’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro... tutti i cittadini sono uguali davanti alla legge senza distinzione... La Costituzione, dice, «sarà la nostra bandiera, ci indicherà la strada. La memoria di Berlusconi non arriva all' articolo 2 della Costituzione ma lui ci ha giurato sopra e se non gli piace, vada a casa». Applausi scroscianti, come fischi scroscianti quando va in onda il video con Berlusconi, Gelmini, Brunetta, Tremonti veri e imitati da Guzzanti, Crozza, Cortellesi.
Bersani all’attacco contro Berlusconi, la manovra, ma anche contro «la classe dirigente di questo paese», perché dice, «berlusconismo e conformismo sono altrettanto colpevoli». «Noi le proposte le abbiamo sempre fatte ma l'orecchio non è sempre stato attento, non solo quello del governo, anche di una parte della classe dirigente. Non si può più prendere per buona qualsiasi bolla di sapone della destra: dove sono finiti l'Irap, il bollo auto, la banca del Sud, il posto fisso? Sono state sprecate colonne di piombo su questo ma neanche un piombino per scrivere: erano tutte balle. Che fine hanno fatto i miracoli dell'Aquila e di Napoli. Dove sono finiti i rifiuti, nella discarica del Vesuvio? Le mille bolle blu nella versione di Apicella di ventano le mille balle azzurre». Risate e applausi. Riferimenti a Confindustria, ma anche a certa stampa che imbavagliata lo è già e forse, anche a qualcuno del suo partito: «Cosa vogliamo fare, gli vogliamo correre dietro anche sull’articolo 41? Non ho mai visto un imprenditore lamentarsi perché c’è la Costituzione». E Robin Hood-Tremonti, dov’è? «Forse a raccogliere funghi con Bossi nei boschi del comasco? Lo dico perché li hanno visti insieme». E cosa dicono a Pontida «dei quattro ladroni che stanno a Roma e hanno scritto le norme di questa manovra?». Una Lega dura contro «l’Inno e con la Nazionale, ma mollacciona con i miliardari».
Chiama all’azione i democratici arrivati qui da tutta Italia, oltre cento pullman, armati di striscioni e slogan: «Siamo un partito di governo temporaneamente all'opposizione. Dobbiamo andare dove c'è la gente, dove c'è il corpo e portare qualche idea. Usiamo tutti gli strumenti, vecchi e nuovi, per arrivare alle persone. Siamo un bel partito, dobbiamo essere più forti delle nostre debolezze perché la gente ha bisogno di noi». La formula è quella di oggi: la società civile che parla ad «un grande partito popolare» che deve ascoltare. Ascoltare quello che dicono Mila Spicola, «eroina dei tempi moderni», insegnante in trincea; Marcello Tocci, operaio dell’Ex Eutelia, che chiede aiuto al Pd; Giuseppe Tiani, sindacalista degli agenti di polizia, che dice: «Bisogna conoscerci meglio, lasciarci alle spalle le antiche contrapposizioni», perché oggi la battaglia per la legalità «è comune» e la posta in gioco è alta. O Don Vinicio Albanesi, fondatore della Comunità Capodarco, che non nasconde il male della Chiesa, «la pedofilia, Propaganda Fide» e Stefania Pezzopane che denuncia ancora una volta che niente va bene, che «mo basta», perché l’Aquila muore anche se la tv dice che il malato è in netta ripresa.

Repubblica 20.6.10
Fischi a Silvio, video e vuvuzelas così i "piddini" ritrovano l´orgoglio
In cinquemila al Palasport: "Siamo un gran bel partito"
di Alessandra Longo

ROMA - Risuonano le vuvuzelas sudafricane nell´enorme catino del Palalottomatica. I militanti del Pd se le sono portate dietro per sottolineare i passaggi clou di questa manifestazione contro la manovra. Da trombette da stadio si trasformano, per la prima volta, in «strumenti» di partito. Per sostenere la battaglia degli operai dell´Eutelia, ormai arrivati allo sciopero della fame, o per dare enfasi sonora a un Bersani lancia in resta che attacca il premier e la sua nota allergia per la Carta: «Se non gli piace la Costituzione vada pure a casa!».
Cinquemila militanti, certo non il Circo Massimo, arrivati con i pullman. Sondrio, Palermo, Imola, Bergamo, Catania... Un po´ di Cgil (c´è il futuro segretario generale Susanna Camusso in prima fila) e molta base, operai, studenti, insegnanti. Alla spicciolata arrivano i dirigenti: ecco Walter Veltroni, assediato da chi gli chiede come mai sia stato così tranchant con la Fiom e il caso Pomigliano (un caso, uno snodo, che qui tiene banco e crea anche dell´imbarazzo); ecco Piero Fassino che ha ancora fedelissimi che gli chiedono l´autografo, ecco Rosy Bindi, i capigruppo Franceschini e Finocchiaro, Livia Turco, Enrico Letta, il sindaco di Torino Chiamparino, il presidente della Conferenza Stato-Regioni, Errani. Assenti giustificati Franco Marini e Massimo D´Alema, tutti e due all´estero. Accanto ai big siede Stefania Pezzopane, aquilana, già presidente della Provincia, venerata come una reliquia (quando parlerà del «cinismo» di Berlusconi sul terremoto verrà giù la sala, tutti in piedi).
Un video-jukebox apre il raduno. Sullo schermo, la faccia truccata di Berlusconi. Parla della crisi gonfiata dai catastrofisti, dell´«amore che vince sempre». Fischia forte la platea. Seguono altri buuh per la Gelmini, Brunetta, Tremonti, immortalati dietro le loro scrivanie ministeriali. Jukebox goliardico, blob integrati dalle imitazioni dei fratelli Guzzanti e di Crozza. Risate. Non è un Pd depresso, non è un Pd ringhioso. Il vocabolario di Bersani è costruito per ribaltare l´immagine corrente, la vulgata della decadenza: «Noi siamo propositivi e ve lo dimostriamo. Sono loro che non hanno uno straccio di idea, di direzione di marcia. Noi abbiamo in testa un´altra Italia. Il partito che ho in mente ha mani, cuore, testa e piedi dentro la società». Loro il passato, noi il futuro. «Loro sono vecchi e senza coraggio – dice Errani – spingono il Paese all´indietro». La «rabbia da trasformare in energia», le «migliaia di feste di partito che diventeranno la nostra vetrina vivente», le «campagne d´estate e di autunno su democrazia e sociale», la «strategia per un´Europa federale»: è un Bersani in giornata sì che quasi impone il training autogeno alle sue truppe: «Siamo un gran bel partito, via...».
Un Pd che lascia parlare la base, che privilegia le storie. Va sul palco Mila Spicola, insegnante a Palermo (anni fa ebbe notorietà quando polemizzò sulla condizione femminile in Italia riassumendo così il concetto: «Il mio fondoschiena vale più di due lauree»). Racconta di come son ridotte le «scuole sgarrupate» del Sud, evoca vetri rotti, muffa sulle pareti, i suoi allievi difficili, figli di carcerati, dislessici, malati, che non hanno mai avuto il tempo pieno e nemmeno l´insegnante di sostegno. Invita Tremonti: «Ministro venga a Palermo nella mia scuola». Mila finisce tra gli applausi, Bersani l´abbraccia.
I numeri del massacro degli Enti Locali li danno Chiamparino e Errani: «Questa manovra ci taglia le ginocchia, incide sulla carne viva, non alzeremo mai bandiera bianca». Oscar Luigi Scalfaro appare in video, dietro un tavolo con le bandiere, la voce ferma, un appello ai cittadini: «E´ maturo il tempo di dire no». No ad una manovra ingiusta, no al lodo Alfano, no al bavaglio per magistrati e stampa.
Parlano l´operaio Tocci dell´Eutelia, un «poliziotto democratico», Giuseppe Tiani, che si sente preso in giro, parla Don Vinicio Albanesi, comunità di Capodarco, che invoca la lotta alla povertà «prima che muoiano tutti».E parla, con quella sua voce di attore, Fabrizio Gifuni. Difende la scuola, la cultura, come elementi fondanti della democrazia: «Ho paura di vivere in questo Paese perché sono tempi bui, opachi e molto, molto pericolosi. Il genocidio culturale, che temeva Pasolini, è già compiuto». Gifuni-Basaglia guarda la platea e si lascia andare: «Cari compagne e compagni. Vi chiamo così, è tanto che volevo dirlo...». Standing ovation della pancia Pd, qualche rigidità in prima fila. Bersani, alla fine, è contento: «Che bella manifestazione. Siamo un gran bel partito, via...».

l’Unità 20.6.10
«La scuola è la nostra identità, siamo noi»
Parla l’insegnante di Palermo che nel 2007 entrò in polemica con il Financial Times per l’eccesso di donne nude in Italia
di M.Ze.

È l’insegnante che tre anni fa fece aprire un dibattito andato avanti per settimane con una lettera che aveva un titolo fatto così: «Se il mio fondo schiena vale più di due lauree». Mica Spicola, insegnante di Palermo, porta qui, nel Palalottomatica, quel pezzo del paese che resta sempre più fuori dai media eppure riguarda la quotidianità di milioni di famiglie normali. Parole come pietre, dure, che fanno inumidire gli occhi quando racconta la Sicilia che lotta per mantenere i ragazzi a scuola, per dare il pasto ai figli delle famiglie più povere e spinge i figli dei ricchi a condividere con i loro compagni. «Chi glielo ha insegnato? chiede Noi glielo abbiamo insegnato». Quando finisce di parlare Bersani si alza e va ad abbracciarla a lungo. «Questi cialtroni hanno scambiato la scuola per un servizio, come la fila alla posta dice -, ma la scuola è nei primi dieci articoli della Costituzione, è la nostra identità, siamo noi. Voi protestate contro la legge bavaglio, ma a noi e ai vostri figli il bavaglio lo hanno messo con l’indifferenza», Cita la «Cecità» di Saramago, «quel male da cui sembrano affetti gli italiani». Dove è finita chiedela solidarietà economica politica e sociale?

il Fatto 20.6.10
La scuola chiude, la protesta continua
Le lezioni sono terminate, ma non le iniziative contro la “riforma”: 20 mila scrutini ritardati dallo sciopero indetto dai Cobas, 100 mila in piazza del Popolo sabato con la Cgil
di Marina Boscaino

Meno 8 mld alla scuola entro il 2011, meno 140 mila posti di lavoro tra docenti e Ata: è la Finanziaria 2008. Non paghi, in un successivo, improvvisato round, i nostri governanti hanno reso ancora più incerto il confine tra la necessità di riordinare i conti pubblici e la volontà di colpire una categoriadilavoratorie,conloro,un'istituzione del Welfare e il progetto che essa configura. Il blocco degli scatti di anzianità previsto dalla nuova manovra porterà ad una perdita sullo stipendio di 1.000 euro l'anno per un Ata, dai 2 mila ai 3 mila per un insegnante. Ci sono poi il mancato rinnovo del contratto e le conseguenze dei tagli sul trattamento pensionistico. Qualcosa non torna (o tutto torna): nel caldeggiare l'amena proposta di posticipare l’apertura delle scuole, Gelmini ci ha informati (come se non lo sapessimo) che i docenti da noi lavorano più che negli altri Paesi dove (dato Eurostat) le retribuzioni sono più alte. Si è trattato di un vero e proprio coup de théâtre: l'epica del fannullonismo (celebrata con Brunetta per giustificare i tagli) usava argomentazioni opposte. La nostra spesa pubblica per l’istruzione è scesa dal 10,3% del totale del ‘90 al 9,3% del 2008. In 84 scuole del Lazio (dati Asal), a fronte di un fabbisogno medio per il 2009 di 90.600 euro, il Miur ne ha erogati 36.800. -25% di finanziamento per pulizia e igiene; -55% in 3 anni per i corsi di recupero. Dai primi dati diffusi dal ministero, i non ammessi alla maturità del 2010 sarebbero circa 28.500, il 6,1% del totale degli studenti del totale, con un aumento dello 0,6% rispetto al 2009. Nelle classi intermedie le bocciature salgono dal 11,7% al 13,1%: all'insuccesso formativo si risponde con un taglio generalizzato di tempo scuola, materie e diritto allo studio. Il preside di un liceo di Putignano (Ba) ha chiesto, a ciascuna delle 127 famiglie dei maturandi, 145 euro per anticipare i compensi ai commissari, da anni a carico immediato delle scuole, poi rifuse dal ministero, che però ha intanto accumulato un debito globale di 1,5 mld con gli istituti. Il problema della sostituzione dei docenti assenti è assillante, dal momento che non ci sono soldi per le supplenze; il dato assume particolare drammaticità nella primaria, dove sono quotidiane le migrazioni di aula in aula (con violazioni continue dei parametri di gestione sicura degli spazi) e dove gli alunni non svolgono normali attività didattiche anche per molte ore. Su materiale di consumo e attrezzature delle scuola si verifica un sapiente, quotidiano esercizio di bricolage organizzativo. Le norme per la sicurezza negli istituti sembrano rappresentare un paternalistico suggerimento più che un vincolo obbligatorio cui attenersi con rigore e senso di responsabilità. Gelmini esordì dicendo che occorreva tagliare la maggiore fonte di spesa del ministero: il 98% è infatti destinato al personale. Nel frattempo si è data da fare per falcidiare anche altri capitoli di spesa. La politica di delegittimazione ai danni degli insegnanti si è riflessa in una sostanziale e generale indifferenza dell’opinione pubblica nei confronti della protesta e delle lotte di chi è mobilitato da lungo tempo. Ma, anziché essere fiaccata, la scuola consapevole continua, nonostante la conclusione dell'anno, la propria protesta: 20 mila scrutini ritardati dallo sciopero indetto dai Cobas (con relativa accusa da parte di Gelmini di “complotto contro il governo” perpetrato dai media non allineati e coperti, quelli che si ostinano a riportare i dati del dissenso); 100 mila in piazza del Popolo sabato con la Cgil. Qualcosa sta ulteriormente cambiando: i genitori vero e proprio incubo del governo promettono di non arrendersi al taglio di tempo pieno nelle nuove prime. Una scuola di maggiore qualità indubbiamente costa. Del resto disinvestire sulla cultura nei periodi di crisi è una scelta e non un dogma. “L'istruzione e la ricerca sono pilastri per la futura sostenibilità della nostra società”: così Merkel. La manovra quadriennale tedesca di 80 mld, che punta a ridurre il deficit di quel Paese dal 5 al 3% entro il 2013, salvaguarda 12 mld di investimenti pubblici in ricerca, sviluppo e istruzione. Non tutta l'Europa è Bel Paese.

il Fatto 20.6.10
L’Osservatore Romano: “Mente uncinata dalla banalizzazione del sacro” Storture e omissioni
Il Vaticano crocifigge Saramago
Anatema sgangherato contro lo scrittore morto venerdì: “Populista estremistico”
di Paolo Flores d’Arcais

José Saramago ha lasciato l’isola di Lanzarote. La sua salma è stata trasferita in Portogallo, dove dopo la camera ardente verrà cremata. Una parte delle ceneri ritornerà nell’isola e sarà sepolta ai piedi di un ulivo. Mentre le agenzie battevano queste notizie, ne aggiungevano un’altra: al grande scrittore scomparso arrivava uno straordinario riconoscimento, l’attacco forsennato del quotidiano della Santa Sede, l’Osservatore Romano, talmente invasato nella pulsione dell’anatema da dare spurgo a una prosa sgangherata e sbilenca. Ma la carità cristiana, si sa, messa in mano alla Chiesa gerarchica può fare miracoli. Gli uncini di Benedetto Evidentemente i suoi libri devono aver colto nel vivo, se il foglio del Papa sente il bisogno di sproloquiare che “uncinata com’è stata sempre la sua mente da una destabilizzante banalizzazione del sacro e da un materialismo libertario che quanto più avanzava negli anni tanto più si radicalizzava, Saramago non si fece mai mancare il sostegno di un semplicismo teologico sconfortante: se Dio è all’origine di tutto, Lui è la causa di ogni effetto e l’effetto di ogni causa”.
Prescindendo dalla struttura sintattica di conio prepotentemente tedesco, colpisce quella “sua mente” descritta come “uncinata”, per l’assonanza hitleriana che il lapsus evoca con gioventù assai diverse da quella del grande scrittore, a parte che in italiano “una mente uncinata da una banalizzazione” o lo scrive un genio del “pulp” o te la segnano in blu in qualsiasi ginnasio. L’autore, o traduttore, del cristiano necrologio, vuole dire che il cervello di Saramago era destabilizzato dalla banalizzazione del sacro (vulgo: che era un pazzo o un coglione) o che con tale banalizzazione, coniugata col suo materialismo libertario, destabilizzava la fede dei lettori? Perché in quest’ultimo caso sarebbe un elogio.
La teologia
Del resto “lo sconfortante semplicismo teologico” che gli viene imputato riassume solo nella splendida forma narrativa del Vangelo secondo Gesù e del più recente Caino le antinomie della teodicea delle quali, malgrado secoli di sottigliezze teologiche e alpinismo sugli specchi, i dottori della Chiesa non sono mai riusciti a venire a capo. L’“house organ” del presunto Vicario di Cristo in terra fulmina lo scrittore per essersela presa con “un Dio in cui non aveva mai creduto, per via della Sua onnipotenza, della Sua onniscienza, della Sua onniveggenza” ma dimentica la infinita bontà e/o giustizia che è la caratteristica di Dio incompatibile con l’onnipotenza, visti gli orrori di cui è albergo il “Suo” creato, incompatibilità da cui non ci si libera con il solito richiamo al passpartout del “mistero”, anzi delle “(di Dio) prerogative per così dire, che ben avrebbero potuto nascondere un mistero”. Segue il puro nonsense, razionalmente parlando, della conclusione: “Oltre che la divina infinità delle risposte per l’umana totalità delle domande”.
Quanto al Vangelo secondo Gesù quello che manda fuori dai gangheri L’Osservatore è che sia costruito utilizzando tutti i dati che la critica storica delle origini del cristianesimo considera da decenni acquisiti, da un Gesù che non si considerò mai il Cristo (eventualmente, per alcuni, al momento della croce) a una Maria di cui nulla sappiamo, se non che giudicava suo figlio “fuori di sé” (Marco, 3,21). E valorizzando tutte le contraddizioni della favola teologica realizzata nei secoli successivi, fino a Nicea e Calcedonia. Anti-logica
Ma la logica non è il forte del quotidiano vaticano e neppure il rispetto dei fatti, visto che come botta finale rimprovera al grande scrittore che “un populista estremistico come lui, che si era fatto carico del perchè del male nel mondo, avrebbe dovuto anzitutto investire del problema tutte le storte strutture umane, da storico-politiche a socio-economiche”: esattamente quello che Saramago ha fatto, con il suo impegno inesauribile “dalla parte degli ultimi”, dei poveri, degli emarginati, che a chi pretende di predicare il Vangelo tutte le domeniche qualcosa dovrebbe pur ricordare.

L’Osservatore Romano 19.6.10
È morto José Saramago
L'onnipotenza (presunta) del narratore
di Claudio Toscani

"Quello di cui la morte non potrà mai essere accusata è di aver dimenticato a tempo indeterminato nel mondo qualche vecchio, solo per invecchiare sempre di più, senza alcun merito o altro motivo visibile". 
Sia pure scomparso alla rispettabile età di 87 anni, di José Saramago non si potrà dire che il destino l'abbia tenuto in vita a tutti i costi, vedi la frase succitata, tolta dal romanzo Tutti i nomi, uscito in quel 1998 che lo vide provocatorio Nobel della letteratura.

"Saramago", cognome aggiunto all'anagrafico José Sousa, era nato nel 1922 ad Azinhaga in Portogallo, da una famiglia di contadini e braccianti. Trasferitosi a Lisbona nel 1924, qui aveva compiuto i suoi studi fino al diploma di tecnico meccanico. Non particolarmente complessa né movimentata, la sua vita veniva registrando vari lavori, tra cui l'editoria; un matrimonio nel 1944; un primo romanzo nel 1947 (Terra di peccato, che disconoscerà in sede di bibliografia ufficiale); l'iscrizione al Partito comunista nel 1969 e una militanza politica clandestina sino al 1974, quando la cosiddetta "rivoluzione dei garofani" (contro la dittatura di Caetano), ristabilisce le libertà democratiche. 
Cinquantacinque anni compiva Saramago al suo vero primo romanzo, Manuale di pittura e di calligrafia (1977), ma nel resto della sua vita recupererà il tempo andato imponendosi in decine e decine di opere che coerentemente convergono attorno a pochi cespiti conduttori: la Storia maiuscola in filigrana a quella del popolo; una struttura autoritaria totalmente sottomessa all'autore, più che alla voce narrante, non solo onnisciente ma anche onnipresente; una tecnica dialogica in tutto debitrice all'oralità; un intento inventivo che non si cura di celare con la fantasia l'impronta ideologica d'eterno marxista; un tono da inevitabile apocalisse il cui perturbante presagio intende celebrare il fallimento di un Creatore e della sua creazione. E, infine, una strategica modalità, tematica ed espressiva a un tempo, impegnata a rendere quel che lui stesso ha definito la "profondità della superficie": qualcosa che allude sia a quel poco che conosciamo del tanto che rivendichiamo alla ragione, ma anche quel tanto che strappiamo alla realtà di quel poco che la ragione ci permette. 
Chiamando a raccolta non molti ma primari maestri (da Kafka a Borges, da Eça de Queiros a Pessoa, da Antonio Vieira a Machado), Saramago diede da subito l'elenco degli artefici della sua formazione, collocandoli senza soluzione di continuità lungo un'onda di piena al cui estuario poneva la novecentesca inquietudine della letteratura, della storia, dell'arte, della politica e della religione, oltre che di se stesso. 
E per quel che riguardava la religione, uncinata com'è stata sempre la sua mente da una destabilizzante banalizzazione del sacro e da un materialismo libertario che quanto più avanzava negli anni tanto più si radicalizzava, Saramago non si fece mai mancare il sostegno di uno sconfortante semplicismo teologico: se Dio è all'origine di tutto, Lui è la causa di ogni effetto e l'effetto di ogni causa. 
Un populista estremistico come lui, che si era fatto carico del perché del male nel mondo, avrebbe dovuto anzitutto investire del problema tutte le storte strutture umane, da storico-politiche a socio-economiche, invece di saltare al per altro aborrito piano metafisico e incolpare, fin troppo comodamente e a parte ogni altra considerazione, un Dio in cui non aveva mai creduto, per via della Sua onnipotenza, della Sua onniscienza, della Sua onniveggenza. Prerogative, per così dire, che ben avrebbero potuto nascondere un mistero, oltre che la divina infinità delle risposte per l'umana totalità delle domande. Ma non per lui. 
Giunto tardi al romanzo, si era rifatto, come s'è detto, con una serie di narrazioni. Dal 1980 in poi, nella bibliografia dell'opera di Saramago, si transita da Memoriale del Convento a L'anno della morte di Ricardo Reis (1984), che torna alla storia del Portogallo nel 1936; da La zattera di pietra (1986), avventura ecologica e demoniaca che immagina la deriva della Spagna dell'oceano tra magico quotidiano, metafora politica e nuove soluzioni atlantiche, a Storia dell'assedio di Lisbona (1989), libro in cui un revisore editoriale, inserendo una particella negativa (un "non") in un saggio storico, dà a Saramago il destro per giocare a falsificare l'evento, più per gioco che per convinta ideologia. 
È il 1991 quando, inaugurando ciò che la critica ha chiamato il suo secondo tempo, lo scrittore pubblica Vangelo secondo Gesù, sfida alla memorie del cristianesimo di cui non si sa cosa salvare se, tra l'altro, Cristo è figlio di un Padre che imperturbato lo manda al sacrificio; che sembra intendersela con Satana più che con gli uomini; che sovrintende l'universo con potestà senza misericordia. E Cristo non sa nulla di Sé se non a un passo dalla croce; e Maria Gli è stata madre occasionale; e Lazzaro è lasciato nella tomba per non destinarlo a morte suppletiva. 
Irriverenza a parte, la sterilità logica, prima che teologica, di tali assunti narrativi, non produce la perseguita decostruzione ontologica, ma si ritorce in una faziosità dialettica di tale evidenza da vietargli ogni credibile scopo. 
Il secondo tempo di Saramago si diversifica poi con Cecità (1995), affresco apocalittico che denuncia la notte dell'etica in cui siamo sprofondati. Poi in campo esistenziale, sia con Tutti i nomi (1997), altra apocalisse dal pessimismo assoluto sospesa su una indifferenziata comunità di morti e di vivi, sia con Il racconto dell'isola sconosciuta (1998), parabola sull'uguaglianza dell'uomo tra gli uomini. In campo intellettuale, prima con La caverna (2000), che tra Kafka, Huxley e Orwell, dispiega un allarme meno disperato del solito e addirittura aperto alla speranza; poi, con L'uomo duplicato (2003), dove colui che si scopre identico a una comparsa televisiva finisce per smarrirsi in un garbuglio fattuale, psichico e spirituale. 
Avvicinandosi alla fine, Saramago ci ha lasciato un "testamentario" Saggio sulla lucidità (del 2004), critica al funzionamento, se non alla funzionalità, delle odierne democrazie, contro le quali l'autore auspica una schiacciante maggioranza di "schede bianche", la più invisa espressione di volontà politica per un potere che solo così dovrebbe deflagrare. Poi, un "giocoso" Don Giovanni o il dissoluto assolto (del 2005), ossia il ritratto di un onore sociale offeso, giacché al grande amatore non riesce, nel testo, ciò per cui è da sempre famoso. 
Fertile, comunque, la discesa creativa degli anni appena precedenti la scomparsa: dall'itinerante carovana di Il viaggio dell'elefante (2009), pittoresco, umoristico e "peripatetico", all'inaccettabile Caino (2010), romanzo-saggio sull'ingiustizia di Dio, parodiante antilettura biblica, per non dire di altri titoli che andrebbero segnalati, a onor del vero, ma quasi sempre per polemica o pretesto. 
Saramago è stato dunque un uomo e un intellettuale di nessuna ammissione metafisica, fino all'ultimo inchiodato in una sua pervicace fiducia nel materialismo storico, alias marxismo. Lucidamente autocollocatosi dalla parte della zizzania nell'evangelico campo di grano, si dichiarava insonne al solo pensiero delle crociate, o dell'inquisizione, dimenticando il ricordo dei gulag, delle "purghe", dei genocidi, dei samizdat culturali e religiosi.

http://www.vatican.va/news_services/or/or_quo/text.html#12

l’Unità 20.6.10
La fiaccolata dei favorevoli all’intesa è un fiasco per le speranze di Marchionne
Solo la Fim presente Le altre sigle si sfilano all’ultimo momento. A sventolare le bandiere del Pdl
Pomigliano, un flop totale il corteo contro i diritti
Cinquemila persone secondo un comunicato della questura, in realtà non più di 1.500: la fiaccolata dei “colletti bianchi” favorevoli all’accordo sullo stabilimento di Pomigliano si è rivelata un insuccesso.
di Massimiliano Amato

«Spero che stavolta vada diversamente rispetto al 1980, quando la marcia dei quarantamila portò al massacro del sindacato». Per la serie: fratture di senso. La vicenda Pomigliano ne produce in serie, bisogna abituarsi. Si è già adeguato Michele Liberti, segretario della Fim, che arriva al cancello 2 e si guarda intorno, un po’ intimorito. La sua è l’unica sigla presente alla fiaccolata dei capi del “Vico”: all’ultimo momento si sfila la Uilm, mentre gli iscritti Fismic e Ugl partecipano a titolo personale. Un cortese “no, grazie” arrivato anche dall’arcivescovo di Nola, Beniamino Depalma. In compenso, abbondano le bandiere del Pdl, che vengono ritirate durante la marcia. In testa al serpentone, il presidente della Provincia Luigi Cesaro, che dispensa vigorose strette di mano e baci e ribattezza «Melchionne» l’ad Fiat, e Lello Russo, il sindaco di Pomigliano.
In mattinata, avevano dato vita ad un happening sotto un gazebo del Pdl, alla presenza di tutto lo stato maggiore della destra campana: Nicola Cosentino, Mario Landolfi, Paolo Russo, l’assessore regionale Ermanno Russo. Circostanza, questa,
che manda in bestia Michele Gravano, segretario della Cgil Campania, uno che si è preso gli insulti dei falchi della Fiom per aver invitato i lavoratori a votare sì al referendum del 22: «No alle strumentalizzazioni della politica dice -, no alle crociate: ben altro è il ruolo che spetta alle istituzioni. La scarsissima partecipazione al corteo e la mobilitazione di partito dimostrano che l'iniziativa è stata un errore».
FRATTURE DI SENSO
Un flop? Dipende dai punti di vista: i capi, che sostengono di aver preso la decisione di sfilare in piena autonomia, «durante un brain storming» (testuale) nella sala del reparto qualità, si aspettavano almeno 2000-2500 presenze, fonti della Questura ne certificano 5000 ma, fatta la tara, non si è andati oltre le 1500 unità. In testa al corteo, uno striscione: “Sì all’accordo, sì al nostro futuro». Dietro, la nuova generazione di capi (sono 450 in tutto), gente che è entrata in fabbrica in massa nel 1989, vittima inconsapevole della seconda grande frattura di senso. «Assenteismo a Pomigliano? Assolutamente nella media degli altri siti», ammette Benedetto Tramontano, che negli ultimi anni ha girato come una trottola: Polonia, Brasile, Turchia, Argentina.
«C’è una generazione di operai più responsabile rincara Umberto Garofalo -, solo che è giunto il momento di lavorare in condizioni più normali». Cioé? «Senza pressioni della politica e del sindacato», si lascia scappare Giuseppe La Cava. “La Panda è il nostro futuro e la nostra speranza”, recita uno striscione. Lo inalberano 88 precari buttati fuori senza riguardi il 31 dicembre scorso. «Presidieremo lo stabilimento notte e giorno fino al referendum: ci aspettiamo una valanga di sì». Un’altra frattura di senso. E per oggi può bastare.

Repubblica 20.6.10
A Pomigliano comincia l’epoca dopo Cristo
di Eugenio Scalfari

TRA le tante dichiarazioni fatte da Marchionne in questi giorni ce n´è una che è d´una chiarezza disarmante ed anche sconcertante: «Io vivo nell´epoca dopo Cristo; tutto ciò che è avvenuto prima di Cristo non mi riguarda e non mi interessa».
Il dopo Cristo per l´amministratore delegato della Fiat comincia evidentemente con la globalizzazione della finanza, delle merci e del lavoro. È un´epoca che ha accentuato e radicalizzato la legge dei vasi comunicanti.
Le grandezze economiche, come ovviamente per i liquidi, tendono a raggiungere lo stesso livello. Si livellano i rendimenti del capitale, i rapporti tra benessere e povertà, la produttività del lavoro e, naturalmente i salari.
I salari dei Paesi emergenti sono ancora molto bassi; dovranno gradualmente aumentare ma lo faranno lentamente. I livelli dei salari nei paesi opulenti e di antica civiltà industriale sono molto alti, ma tenderanno a diminuire e questo fenomeno avverrà invece con notevole rapidità per consentire alle imprese manifatturiere di vendere le loro merci sui mercati mondiali a prezzi competitivi.
In questo schema già operante va collocata la vicenda di Pomigliano. Se la Fiat trasferisce la produzione di uno dei suo modelli da una fabbrica dove i salari e le condizioni del lavoro sono più favorevoli al capitale investito ad una fabbrica dove sono invece più sfavorevoli, il trasferimento potrà farsi soltanto se le condizioni tenderanno a livellarsi, oppure non si farà.
Questo è il dopo Cristo di Marchionne; non si tratta di ricatto ma di dati di fatto e con i dati di fatto è inutile polemizzare.
I sindacati che hanno firmato l´accordo proposto dalla Fiat ritengono che si tratti d´un evento eccezionale e non più ripetibile. La stessa posizione l´hanno fatta propria molte delle parti interessate alla vicenda di Pomigliano, compresa una parte dell´opposizione parlamentare: passi per Pomigliano purché non si ripeta.
Errore. La legge dei vasi comunicanti ha carattere generale e quindi il livellamento salariale e delle condizioni di lavoro si ripeterà. Molte imprese in difficoltà, specialmente nel Nordest, nelle Marche, in Puglia e in tutto il Mezzogiorno, metteranno i loro dipendenti di fronte allo stesso dilemma che riguarda per ora i 5000 dipendenti Fiat di Pomigliano. Dichiareranno che in caso di risposta negativa saranno costrette a de-localizzare la produzione in siti più convenienti. Pomigliano cioè è l´apripista d´un movimento generale e non sarà né la Fiom né Bonanni che potrà fermarlo.
Chi pensa di fermare l´alta marea costruendo un muro che blocchi l´oceano non ha capito niente di quanto sta avvenendo nel mondo. Nello stesso modo non ha capito niente chi ritiene di bloccare la massa di migranti che abbandona i luoghi della povertà e preme per fare ingresso nei luoghi dell´opulenza. Quel tipo di muri può reggere qualche mese o qualche anno ma poi si sbriciolerà e il livellamento procederà.
Allora non si può far niente? Bisogna rassegnarsi al livellamento verso il basso del benessere delle zone ricche del mondo?
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Qualche cosa si può e si deve fare. Ma occorre molta lucidità e molto coraggio. I Paesi opulenti, al loro interno, non sono affatto livellati per quanto riguarda la diffusione del benessere. Ci sono, nelle zone ricche del mondo, sacche di povertà impressionanti e diseguaglianze mai verificatesi prima con questa intensità. Voglio dire che la legge dei vasi comunicanti deve entrare in funzione dovunque e spetta alla politica rimuovere gli impedimenti che la bloccano.
Perciò i sindacati e le forze di opposizione debbono spostare l´obiettivo. Le categorie svantaggiate e costrette a rinunciare ad una parte delle conquiste raggiunte nell´epoca «prima di Cristo» debbono recuperarle su altri piani e in altre forme nell´epoca del «dopo Cristo». Debbono cioè impostare un piano globale di redistribuzione del reddito da chi più ha a chi meno ha.
Lo spostamento può avvenire in vari modi, manovrando soprattutto il fisco (ma non soltanto); sgravando il peso fiscale sui redditi di lavoro dipendente e sulle famiglie e finanziando la redistribuzione con maggior carico tributario sulle rendite, sui patrimoni e sui consumi opulenti.
Un piano di questo genere non può essere considerato un progetto dettato dall´emergenza poiché non di emergenza si tratta, bensì di un movimento, appunto, epocale. E per gestire un progetto del genere è necessario ripristinare quel metodo della concertazione tra le parti sociali e il governo che diede ottimi frutti tra il 1993 e il 2007, consentendo di abbattere l´inflazione, far scendere i rendimenti dei titoli pubblici e il disavanzo delle partite correnti.
Ci vuole insomma una politica a lungo raggio che rafforzi la coesione sociale, diminuisca le diseguaglianze, renda sopportabile il livellamento delle condizioni di lavoro compensando quei sacrifici con agevolazioni massicce anche in tema di servizi pubblici efficienti e gratuiti, finanziati da chi possiede mezzi in abbondanza.
Questa è a nostro avviso la linea da seguire, «buscando el levante por el ponente», cioè mettendo a carico della società opulenta una parte dei sacrifici che la guerra tra poveri scarica sui deboli di casa nostra.
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C´è un filo diretto che lega queste riflessioni suscitate da quanto sta accadendo a Pomigliano con la politica deflazionistica imboccata dall´Eurozona sotto la guida della Germania. Questa politica, sulla quale ci siamo intrattenuti varie volte, arriverà domani all´esame del G8 e del G20 appositamente convocati.
Il presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, ha lanciato un messaggio ai capi di Stato dell´Eurozona affinché affianchino alla manovra di stabilizzazione dei rispettivi debiti una politica che sostenga i redditi e la crescita. Un secondo l´ha lanciato alla Cina affinché proceda ad una rivalutazione della propria moneta rispetto al dollaro per accrescere le importazioni e per tale via sostenga la domanda globale.
La Cina ha già risposto positivamente; l´Europa e la Germania finora sembrano voler persistere nella politica di deflazione. Questa posizione è semplicemente insensata.
Dal canto suo il segretario generale dell´Onu, Ban Ki Moon, ha posto ieri ai paesi dell´Eurozona le seguenti domande: «Il mondo intero è destinato a sprofondare a causa dei problemi dell´Eurozona in una recessione che rischia di essere recidiva? Può la ripresa dei mercati emergenti bilanciare i cali che si verificano altrove? Stiamo finalmente emergendo come i sopravvissuti a un uragano, per valutare l´entità del danno e i bisogni dei nostri vicini? Oppure ci troviamo piuttosto nell´occhio del ciclone?» (La Stampa del 19 scorso).
Non si può esser più chiari di così. E anche qui il tema si risolve attraverso un grande programma di redistribuzione delle risorse tra paesi e tra classi all´interno dei paesi. Non c´è altro mezzo per equilibrare libertà ed eguaglianza, la necessaria crudeltà della libera concorrenza e la coesione sociale che si proponga il bene comune.
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Su questi argomenti di capitale importanza il governo italiano tace, la sua afasia è totale. Tiene invece banco la modifica costituzionale dell´articolo 41 della nostra Costituzione.
Quell´articolo, che fu voluto da Luigi Einaudi e da Taviani, proclama la piena libertà di impresa purché non crei danni sociali. Questa dizione non piace a Berlusconi e a Tremonti. Di qui la proposta di modificarla sostituendola con la libertà totale, anche nel settore delle costruzioni e dell´urbanistica, in modo che si aggiungerà scempio a scempio nel paese dell´abusivismo di massa.
Snellire le procedure burocratiche è un obiettivo sacrosanto, più volte preannunciato e finora mai attuato. Si può e si deve fare con provvedimenti di ordinaria amministrazione. Mettere in Costituzione l´abolizione di ogni regola rinviando i controlli ad una fase successiva è semplicemente una bestemmia costituzionale che svela l´intento di stravolgere l´architettura democratica del patto sociale.
Eguale chiacchiericcio del tutto inutile lo ritroviamo nella proposta italiana all´Unione europea di valutare i debiti pubblici aggiungendo ad essi la consistenza dei debiti privati. La Commissione di Bruxelles ha accolto la proposta: non costa nulla e il nostro governo l´ha sbandierata come un grande successo. Nessuno ha fatto osservare che il debito pubblico è la sola grandezza che determina il fabbisogno, gli oneri da pagare e il disavanzo che ne risulta.
Siamo ancora tutti nell´occhio del ciclone e il nostro governo inganna il tempo con annunci inutili che servono soltanto a gettar fumo negli occhi degli sprovveduti.

il Fatto 20.6.10
Poggioreale, benvenuti all’inferno
di Silvia D’Onghia

A guardarlo da fuori, il carcere di Poggioreale, sembra un enorme cane che si morde la coda. Immobile, appesantito, malandato all’esterno; sovraffollato, caotico, in perenne tensione all’interno. In realtà è una bomba pronta ad esplodere, forse la prima di quella che si annuncia essere un’estate ad altissimo rischio rivolte in tutta Italia. Ieri il Fatto ha pubblicato la lettera inviata a Radio Radicale da 650 detenuti anonimi dell’istituto partenopeo, in cui si denunciano maltrattamenti, lunghi tempi di attesa per le cure, colloqui più brevi del previsto, e in generale un atteggiamento intimidatorio da parte della polizia penitenziaria.
I numeri dell’inciviltà
Per capire cosa accade a Poggioreale bisogna partire dai numeri: i detenuti sono 2780, a fronte di una capienza massima di 1400 posti. Il doppio. Ci sono celle in cui vivono per 22 ore al giorno otto persone, spesso costrette ad arrampicarsi fino al terzo piano del letto a castello per poter dormire. L’organico di polizia è di 720 unità, con una scopertura del 25 per cento secondo i sindacati. Rapporto numerico che fa venire i brividi se si pensa che, di notte, ci sono appena 35 agenti per tutti i 2780 detenuti. “Tenendo conto che, tra i poliziotti, ci sono anche gli addetti alla portineria e all’ufficio matricole, arriviamo ad avere un rapporto di uno a 300 – spiega Eugenio Sarno, segretario generale della Uilpa penitenziari – In queste condizioni, purtroppo, gli interventi sono spesso tardivi. Per esempio, se io ho la fortuna di sentire uno sgabello che cade, il chiaro segnale di un suicidio, significa che sono lì vicino e posso correre e magari, dopo aver aperto qualche porta, riesco a salvare una vita. Ma se non lo sento, non ci sono speranze. Questo dai detenuti è letto come un ingiustificato allungamento dei tempi di soccorso”.
Le persone che hanno scritto la lettera hanno raccontato anche un episodio avvenuto l’11 giugno: un detenuto malato di cuore si è sentito male dopo i colloqui, mentre era stipato con altri 39 in una stanza di 10 metri quadri. Secondo il racconto dei suoi compagni, più volte e inutilmente sarebbero stati chiamati i soccorsi, fino a quando l’uomo ha cominciato a sbattere la testa contro la cella, provocandosi delle lesioni. “Se un agente, che porta mazzi di chiavi da tre chili, deve attraversare sette porte, non possono permettersi di dire che non voleva intervenire. Il fatto che la lettera sia arrivata a Radio Radicale significa poi che non c’è censura né filtro, come invece a volte viene detto”.
Più che un istituto per la rieducazione degli individui sembra il campo di battaglia di una guerra tra poveri. “In tutto il carcere ci sono appena 14 educatori – denuncia Dario Dell’Aquila, portavoce dell’associazione Antigone a Napoli – I due terzi circa dei detenuti sono in attesa di giudizio, ogni giorno entrano moltissime persone, che poi magari vengono subito trasferite”. Esistono problemi igienici, così come è grave l’assistenza sanitaria: “In alcuni reparti c’è una doccia nel piano e non all’interno di ogni cella – prosegue Dell’Aquila – questo significa che ci si lava una volta alla settimana. Va peggio a chi deve sottoporsi ad una visita specialistica, che spesso deve aspettare troppo tempo”.
Poggioreale ha una popolazione detenuta un po’ differente dagli altri istituti italiani: gli stranieri, secondo Antigone, sono soltanto il 15 per cento del totale (contro il 30 della media nazionale); quasi tutti invece sono cittadini campani, che sono dentro magari per piccolo spaccio o per il furto d’auto.
Parenti e proteste
Esiste poi un enorme problema per i colloqui con i familiari, proprio come denunciano i detenuti. Chi ha voglia di farsi un giro, troverà già all’alba decine di persone in fila per entrare in carcere. “Ci avviamo però alla fine dell’indecenza – spiega Sarno – il dipartimento ha finanziato con un milione e 400 mila euro la realizzazione di una nuova area per i colloqui. La gara si sta svolgendo in questi giorni e forse già fra un anno avremo una situazione diversa: tutto sarà informatizzato, anche le registrazioni. Questo porterà a uno snellimento dei tempi e ad una maggiore sicurezza, per esempio rispetto a quello che entra in carcere”. Sarno teme che la lettera dei detenuti, “come storicamente è avvenuto”, preluda a una rivolta, magari proprio contro quella maggiore sicurezza. Ipotesi che le associazioni rimandano al mittente. “Si continua a mandare dentro la gente pensando che il carcere significhi sicurezza, ma è esattamente il contrario”, commenta amareggiata Ornella Favero di Ristretti Orizzonti.
L’estate in carcere è ancora più calda. “A Padova non hanno neanche più i materassi”, prosegue Favero; a Genova da sei giorni ci sono proteste ininterrotte, fa sapere la Uilpa. All’Ucciardone (Palermo) i detenuti della settima sezione fanno una colletta per ristrutturare i bagni.
In questa polveriera il piano carceri del ministro Alfano non esiste più: non c’è neanche più la copertura economica per assumere duemila agenti in più della polizia penitenziaria, figuriamoci se si trovano i soldi per costruire 47 nuovi padiglioni entro la fine dell’anno. I 68 mila detenuti non interessano a nessuno e, soprattutto, non hanno ancora cominciato a fare paura.

il Fatto 20.6.10
Nel mondo si celebra la Giornata del Rifugiato In Italia il governo brinda ai respingimenti
Dimezzate le domande di asilo: nel 2008 ne erano state presentate 30 mila, nel 2009 sono scese a 17 mila
di Corrado Giustiniani

Per il mondo è la Giornata del Rifugiato. Ma in Italia quella che si celebra oggi andrebbe forse ribattezzata come giornata della vergogna. La politica dei respingimenti in mare, inaugurata dal governo Berlusconi nel maggio del 2009, ricaccia indietro non soltanto migranti per lavoro, ma anche, e sempre più, persone che fuggono dalla guerra e dalle persecuzioni. Il crollo delle domande di asilo politico è una prova schiacciante: nel 2008 ne erano state presentate 30 mila 492, nel 2009 sono scese a 17 mila 603. Quasi un dimezzamento. E molti di coloro che invocano una protezione internazionale arrivano proprio con i gommoni e le vecchie carrette. Il 75 per cento di coloro che nel 2008 sono sbarcati in Sicilia, ha infatti chiesto asilo alle autorità italiane, e ben il 50 per cento alla fine ha ottenuto una forma di protezione. “Questo, alla fine di accuratissime audizioni individuali – assicura Laura Boldrini, portavoce in Italia dell'Unhcr, l'Alto commissariato dell'Onu per i rifugiati – Le commissioni sono infatti molto rigorose, e hanno dentro il prefetto, un funzionario di polizia, un rappresentante dell'Associazione comuni d'Italia e uno dell'Onu”.
Mentre in Italia le domande d'asilo calano del 43 per cento, in Francia sono aumentate del 20 e in Germania del 25 per cento. Ma non sarà che in Italia ci sono già troppi rifugiati? Neanche questo è vero: 55 mila in tutto, rispetto ai 200 mila della Francia, ai quasi 300 mila del Regno Unito, ai 600 mila della Germania. Non è vero, in ogni caso, che i rifugiati invadano i paesi industrializzati: secondo i dati dell'Unhcr ve ne sono 43 milioni al mondo, e l'80 per cento di loro vive nei paesi in via di sviluppo.
E che ne facciamo, noi, dei tanti respinti in mare? Li affidiamo ai centri di raccolta della Libia, che non aderisce alla Convenzione di Ginevra del 1951, incentrata proprio sul principio del non respingimento dei rifugiati. Gheddafi, due settimane fa, ha imposto all'Onu di chiudere i suoi uffici. Prima gli ufficiali delle Nazioni Unite erano tollerati, anche se non potevano vedere tutto. Qualche ottimista pensava che la recente visita di Berlusconi al colonnello servisse proprio a favorire un ripensamento, vista la pessima figura che anche di riflesso l'Italia sta facendo. Ma nulla è emerso che potesse autorizzare una simile speranza. Solo l'orgoglio del ministro dell'Interno Roberto Maroni, perché il centro di Lampedusa, oggi è totalmente vuoto.
“Siamo persone in fuga, che abbiamo abbandonato tutto, in cerca di una terra dove poter almeno dormire senza spari, accontentandoci di sopravvivere” racconta Katirisa Kahindo, scappata 13 anni fa dal Congo, che non dimentica quelle madri che nel suo paese avevano manifestato perché i loro figli erano scomparsi, e per tutta risposta vennero sepolte vive. Katirisa sta cercando di impiantare un'attività economica di raccolta di scarpe usate, per spedirle nel suo paese (chi vuole aiutarla la contatti a www.barazavenir.it) e nello stesso tempo ha dato vita all'associazione Nasce-Rinasce, per dare dignità e visibilità a tante donne del suo paese. La vergogna italiana non sta soltanto nei respingimenti, ma anche nel non garantire l'integrazione dei rifugiati, una volta accolta la loro domanda. L'atto di accusa è stato lanciato da Laurens Jolles, l'olandese delegato per il Sud Europa dell'Unhcr: “In città come Roma, Milano, Torino, Firenze, Bari, Napoli e Palermo – ha detto – rifugiati somali, eritrei, afghani sono spesso costretti a vivere senza una fissa dimora, trovando un riparo in edifici occupati abusivamente”. La politica dell'accoglienza non funziona. “A volte – ha aggiunto Jolles – non ottengono l'iscrizione anagrafica, restando quindi esclusi dall'accesso a servizi pubblici essenziali”.
Clamoroso il caso di Roma, dove i Medici per i diritti umani (Medu) hanno chiesto a Comune e Regione di intervenire immediatamente in soccorso di cento profughi afghani, costretti a vivere “in condizioni disastrose” nei pressi della stazione Ostiense. È stata chiusa l'unica fontanella che avevano a disposizione, dormono in tende, senza alcun servizio igienico a disposizione e fra di loro ci sono diversi bambini. “Siamo al di sotto degli standard di qualsiasi paese del mondo” accusa il Medu, osservando che ci dovrebbe essere un servizio igienico almeno ogni venti persone. Ma non vanno meglio le cose a Bologna, dove molti rifugiati sono diventati homeless, e dove ad alcuni la questura avrebbe consigliato di cambiare status per ottenere il permesso di soggiorno, col risultato che, perso il lavoro, dopo sei mesi diventano espellibili. Molti rifugiati hanno cercato di lasciare l'Italia per trovare fortuna in altri paesi europei, ma sono stati rispediti qui da noi, perché il regolamento “Dublino II” prevede che debbano fermarsi nel primo paese in cui hanno fatto domanda. Tante iniziative a favore dei rifugiati si stanno svolgendo in varie parti del paese. Notevole, in particolare, l'impegno dell'Arci che ha organizzato speaker's corners, angoli di dibattito, in venti città italiane, lanciando anche il numero verde per i rifugiati 800 90 55 70.

sabato 19 giugno 2010

l’Unità 19.6.10
Il segretario Pd: «Bossi finirà per smarcarsi, pronti a costruire l’alternativa nel paese»
Bersani: «Litigano su tutto non dureranno tre anni»
di Maria Zegarelli

Bersani: «Questa maggioranza non durerà tre anni. Dobbiamo essere pronti all’alternativa, quando saremo al dunque i due campi saranno davvero alternativi. Il centrosinistra non accetta deformazioni populiste».

Non saprebbe dire «dove, come o quando», ma Pier Luigi Bersani si dice certo che questo governo non durerà altri tre anni. E più che Gianfranco Fini, la spina nel fianco del premier potrebbe essere proprio Umberto Bossi, oggi «punto di sutura» della maggioranza, domani possibile punto critico a causa di «questo federalismo» che è «una storia che non sta in piedi, Brancher non potrà risolvere tutti i problemi. Questo per loro sarà un problema, non riesco a immaginare che una storia del genere possa durare tre anni». Il segretario Pd risponde alle domande di Giovanni Floris che lo intervista durante la manifestazione «Non stop banda larga», in corso alla città del gusto a Roma, tornando spesso sul punto: «I problemi arriveranno quando ci saranno le noci da rompere sul piano economico, quando si crea l’impossibilità di far sognare che è un handicap per Berlusconi». Secondo il segretario Pd il Cavaliere sente che il cerchio si sta stringendo intorno al suo stesso fortino: la Lega preme sul federalismo, inizia a smarcarsi dal ddl intercettazioni perché la base inizia a mostra insofferenza verso un provvedimento che mina la sicurezza; Giulia Bongiorno, finiana doc, in Commissione Giustizia ha detto chiaro e tondo che dovranno esserci modifiche e come se non bastasse il governo è costretto a chiedere lacrime e sangue con una manovra da 24 miliardi di euro. La fine del sogno. E chissà se Berlusconi è disposto a farsi mettere nell’angolo. Il segretario Pd anche per questo non è sicuro « che dietro le aperture di questi giorni ci sia un ripensamento vero, la forzatura è sempre dietro l’angolo, sono sempre porti a tornare alla carica con la faccia dura, l’elmetto in testa e procedere a colpi di fiducia». Inutili allora le corse «nello stesso campo», soprattutto nell’eventualità che la legislatura finisca bruscamente, per dimostrare che è più duro nell’opposizione. «Noi dobbiamo essere pronti all’alternativa dice . C’è da fare ma non dispero perché quando si arriva al dunque è evidente che i due campi sono davvero alternativi sui grandi temi costituzionali è evidente che il grande campo del centrosinistra non accetta deformazioni populiste e plebiscitarie». E quando dai microfoni di «Radio anch’io», di buona mattina gli chiedono di possibili alleanze costituzionali, risponde che soltanto di fronte ad deriva populista andrebbe con «chiunque». «Ma se devo guardare al profilo politico di un’alleanza aggiunge devo fare delle scelte e non mi risulta che Fini e Casini siano alleati».
BANDA LARGA E CRESCITA ECONOMICA
Ma visto che il tema all’ordine del giorno di questa manifestazione è la banda larga, tra gli ospiti Paolo Gentiloni, Vincenzo Vita, Renato Soru, Fabrizio Meli ad de l’Unità è di questo che si parla. Anche la banda larga, spiega Bersani, è un modo di pensare al paese e all’utilizzo della tecnologia per rilanciare la crescita. «Con il governo Prodi avevamo stanziato 4miliardi di euro per la banda larga e le infrastrutture, loro li hanno presi e buttati nel grande calderone. Negli emendamenti alla manovra ce n’è uno che riguarda anche l’uso delle frequenze, vedremo se saranno disponibili a discuterne».
Secondo Renato Soru il premier ha una sola idea rispetto all’uso delle frequenze: «Aprire altri canali televisivi. Questo è il Paese a cui pensa, non certo al Paese di Internet e dell’inclusione. È per questo motivo che la banda larga non è un tema che attira l’attenzione dei media, né è al centro dell’azione del governo, malgrado l’Europa la metta al centro di una economia più competitiva e inclusiva. Costruire una economia inclusiva vuol dire che dentro ci siamo tutti. Per questo spetta alla politica occuparsi di questo tema, oltre che alle imprese direttamente coinvolte». Secondo il patron di Tiscali questo «la politica non può agire secondo i tempi del mercato. Chi ci ha preceduto, quando ha costruito le autostrade e le infrastrutture, non ha pensato ai tempi del mercato, ma ad una visione del Paese».

l’Unità 19.6.10
Addio Saramago, il mondo è cieco senza il tuo sguardo
Fedele alle idee: È sempre rimasto duro, combattivo e comunista
Fedele alla politica: Aveva conosciuto, in casa, la dittatura di Salazar
di Oreste Pivetta

È morto a 87 anni il grande scrittore portoghese, autore di Memoriale del convento e Cecità
Di recente teneva un blog per ritrovare nell’immaginazione compagni d’avventure letterarie
Il manifesto Aveva un’antipatia mai dissimulata per Israele
La sua prosa Maestosa, avvolgente, sinuosa: ti prende per mano e ti accompagna

Lo scrittore portoghese e Premio Nobel per la Letteratura è morto all’età di 87 anni a causa di una leucemia cronica nella sua casa di Lanzarote, isola delle Canarie, dove risiedeva dal 1991.
Saramago conobbe momenti di celebrità anche in Italia: quando apparvero i suoi romanzi più belli, come Cecità, quando nel 1998 vinse il Nobel, quando fece intendere che cosa pensava di Berlusconi. Scrivendo di Berlusconi divise il suo pubblico vecchio e possibile, s’attirò accuse pesanti, si guadagnò simpatie estreme. Ormai ottantasettenne. La sua polemica antiberlusconiana sta in un libretto, Il Quaderno, che venne pubblicato da Bollati Boringhieri, dopo che l’Einaudi mondadoriana l’aveva rifiutato. Censura, non si discute. Troppo esplicito il verdetto di condanna nei confronti del nostro presidente del consiglio e dell’italietta pecorona e volgare modellata a sua immagine. Non tutta l’Italia è così e Saramago lo sapeva, altrimenti non avrebbe accettato un viaggio nella piovosissima Torino, per presentare il suo «diario». Che stupiva già per una ragione intrinseca, per il modo con cui era nato, cioè dialogando in un blog: che un vecchio intellettuale famoso, in marcia verso i novant’anni, perdesse il suo tempo dietro un blog potrebbe apparire insolito...
Ho usato l’espressione «in marcia» non a caso, perché al nostro appuntamento me lo vidi, alla lettera, marciare incontro, ritto, elegante in completo grigio, camicia e cravatta (con la bella moglie, assai più giovane, al fianco). Era magro, il viso scavato, calvo, mai stanco di parlare, anche se gli altri tutto attorno trepidavano in ansia per la sua stanchezza. Mi spiegò che il blog era un’invenzione di un cognato. Lui si era prestato volentieri a quel dialogo quotidiano, che gli serviva per ritrovare nell’immaginazione vecchi compagni d’avventure letterarie, per connettere tanti episodi della sua esistenza, per introdurre temi di carattere universale, dalla fame nel mondo al potere delle banche, per polemizzare non risparmiandosi avversari. Perché se, dicendo dell’Italia, il suo bersaglio preferito era Berlusconi, ne aveva pesantemente anche per la nostra sinistra, sbeffeggiata per la sua indolenza in varie pagine, con un angolo riservato al nostro Veltroni, descritto, in modo crudo, fragile di carattere e assai incerto nell’ideologia. A proposito di Berlusconi ne scrisse di peggio. Citiamo: «Con la sua particolarissima opinione sulla ragione d’essere e il significato dell’istituzione democratica,
Berlusconi ha trasformato in pochi anni l’Italia nell’ombra grottesca di un Paese e una grande parte degli italiani in una moltitudine di burattini...».
Francamente non mi sentirei di dissentire, ma ci sarà stato qualcuno che l’avrà tacciato di settarismo e l’avrà accusato di non conoscere la realtà del bel paese. Il dubbio venne anche a me e glielo esposi. Saramago teneva un’aria seria, non sorrideva. Accettava le mie domande senza un attimo di impazienza, rispondeva pacato e lento nella parola. Mi rispose che conosceva l’Italia grazie ai suoi viaggi, agli amici che gli riferivano, ai giornali. Ineccepibile. Poi c’era il blog... Ci sarebbe altro da raccontare, ad esempio l’antipatia mai dissimulata per Israele, con qualche durezza di troppo, come nel manifesto che firmò in nobile compagnia, con John Berger, Noam Chomsky, Harold Pinter, Gore Vidal, l’ostilità nei confronti della chiesa portoghese e del «suo» Dio «vendicativo, rancoroso, cattivo, indegno di fiducia», lo spregio per i banchieri, considerati più o meno delle canaglie (s’era in piena crisi finanziaria). Insomma Saramago, dal ritiro di Lanzarote, alle Canarie, dove ieri è morto, non si risparmiava, duro, combattivo e comunista, come era rimasto, fedele a un’idea più che alla sua dispersione materiale nel corso della storia. Aveva conosciuto, in casa, la dittatura di Salazar (al partito comunista portoghese, in clandestinità, s’era iscritto nel 1959), appena oltre confine poteva apprezzare quella di Franco. Dopo la libertà, che arrivò con la rivoluzione dei garofani, era rimasto un uomo all’antica, onesto, un combattente, diventando un «grande scrittore», come lo riteneva il più grande dei critici, Harold Bloom: un «titano» lo considerava. Certo rappresenta una delle voci più maestose del secolo che è da poco passato. Maestosa è la sua prosa, avvolgente, sinuosa: ti prende per mano e ti conduce tra i misteri della vita e della storia, insegnando a guardare, moltiplicando gli sguardi lungo le traiettorie dell’insolito, come nel suo romanzo forse più bello, Cecità, dove la nebbia diventa la lente che costringe a seguire passaggi anomali e per questo meglio aperti sulla verità. C’è anche ironia nelle sue pagine e c’è soprattutto pena per una umanità fragile, destinata alla sconfitta.
José de Sousa Saramago era nato ad Azinhaga il 16 novembre 1922. Il padre era un agricoltore, che, una volta a Lisbona dal 1924, aveva trovato lavoro come poliziotto. Il fratello minore, Francisco, morì a due anni, pochi mesi dopo l’arrivo nella capitale. Non c’erano soldi in famiglia e così il giovane Saramago non frequentò l’università, ingegnandosiper mantenersi nei lavori più diversi, fabbro, disegnatore, correttore di bozze, traduttore, giornalista, fino a impiegarsi in campo editoriale, lavorando per dodici anni come direttore letterario e di produzione. Il suo primo romanzo, Terra del peccato, del 1947, non trovò gran fortuna. Sino alla Rivoluzione dei Garofani, nel ‘74, Saramago visse una stagione di formazione. Pubblicò poesie (Le poesie possibili, 1966), cronache (Di questo e d’altro mondo, 1971), testi teatrali, novelle. Il secondo Saramago (vice direttore del quotidiano Diario de Noticias nel ‘75 e quindi scrittore a tempo pieno), crollata la dittatura, si presentò nel 1977 con il romanzo Manuale di pittura e calligrafia, seguito da Una terra chiamata Alentejo, incentrato sulla rivolta della popolazione della regione più ad Est del Portogallo. Ma è con Memoriale del convento (1982) che ottenne il successo. In sei anni pubblicò tre opere di grande impatto (oltre al Memoriale, L’anno della morte di Riccardo Reis e La zattera di pietra). Gli anni novanta lo consacrarono con L’assedio di Lisbona, Il Vangelo secondo Gesù e Cecità.
Nel 1998 il riconoscimento «ufficiale»: il Nobel. Non piacque al Vaticano il premio ad un uomo che non s’era mai risparmiato nelle critiche alla Chiesa, alla religione, ad un certo modo di usare persino Dio. Critiche che gli dettava la vicenda del suo paese e della Spagna accanto.

l’Unità 19.6.10
Intervista a Vincenzo Consolo «Coraggioso e senza peli sulla lingua. Come lui ce ne sono davvero pochi»
Lo scrittore siciliano «Insieme visitammo la Striscia di Gaza, ma parlò apertamente di crimine contro l’umanità e i suoi libri furono ritirati»
di Roberto Carnero

Con Saramago perdiamo un autore di alta letteratura e di profondo impegno civile». In questo binomio – qualità letteraria coniugata con un’attenzione sempre vigile alla realtà circostante – uno dei più importanti autori italiani, Vincenzo Consolo, individua la peculiarità del lavoro di José Saramago. E ricorda un rapporto di amicizia quasi trentennale con lo scrittore portoghese, che conobbe all’inizio degli anni ’80 in Sicilia, la terra d’origine di Consolo. In che occasione ha conosciuto Saramago?
«Fu a un convegno letterario organizzato a Catania, al quale ricordo che parteciò anche Leonardo Sciascia. In quell’occasione feci da cicerone a Saramago, che portai a visitare il Convento dei Benedettini, ricordato nei Viceré di Federico De Roberto, un romanzo che Saramago conosceva bene».
Avete avuto modo di incontrarvi altre volte? «Sì, in diverse circostanze. Abbiamo mantenuto un rapporto costante negli anni. Ricordo, in particolare, un viaggio che compimmo nel 2002 con un gruppo di scrittori di diversi Paesi europei, organizzato dall’Unione Europea. Visitammo anche la Striscia di Gaza e nel constatare le terribili condizioni di vita della popolazione palestinese Saramago ebbe una reazione molto forte, pronunciando parole estremamente dure. Pronunciò, cioè, qualcosa di impronunciabile, parlando apertamente di crimine contro l’umanità. La reazione del governo israeliano fu molto determinata: i libri di Saramago vennero immediatamente ritirati dalle librerie». Come ricorda il suo carattere? «Questo era l’uomo: un uomo coraggioso, privo di autocensure, sempre disposto a dire apertamente ciò che pensava. Come prova l’episodio che ho appena rievocato. Non aveva cautele diplomatiche. Era schietto, diretto, a costo di essere fastidioso. Era una persona trasparente. Dotata di una grande capacità di empatia. Era innamoratissimo della sua seconda moglie, con la quale, quando era lontano da casa, passava delle intere mezz’ore al telefono». Come mai era così importante per lui la dimensione dell’impegno civile? «Lo si capisce facilmente se si guarda alla sua provenienza. Lui veniva dal giornalismo, da giovane, durante gli anni della dittatura di Salazar, aveva lavorato nel giornalismo d’opposizione. Pur essendo poi passato alla narrativa, non ha mai dimenticato di essere partito da lì. E ha mantenuto la forma mentis del bravo cronista, del giornalista d’inchiesta».
Quale dei suoi libri le è più caro?
«Sono molte le opere che l’hanno reso grande e che ho amato. Da Memoriale del convento a La zattera di pietra, fino a Storia dell’assedio di Lisbona. Un libro come Cecità è una grande metafora della nostra condizione attuale: una condizione di accecamento generale, specchio del mondo d’oggi».
In particolare in Italia, forse. Non è un caso che Einaudi, una casa editrice del gruppo Mondadori (la cui proprietà è riferibile alla famiglia Berlusconi), si sia rifiutata di pubblicare uno dei suoi ultimi libri, «Il quaderno» (poi edito da Bollati Boringhieri), perché conteneva critiche al nostro Presidente del Consiglio. Ha avuto modo di raccogliere le sue reazioni su questa vicenda?
«No, e devo dire che ho volutamente evitato di farlo. Perché mi è sembrata una storia davvero sgradevole, un caso di censura bella e buona, particolarmente grave visto che colpiva un autore della sua statura. E mi ha spinto a riflettere su come un’attività come la letteratura, per molti versi oggi considerata marginale, abbia evidentemente ancora la capacità di disturbare i poteri forti. Autori come Saramago e come Roberto Saviano danno fastidio ai potenti, politici o criminali che siano, perché dicono la verità, spiattellano con candore le tante piccole e grandi scomode verità che spesso facciamo prima a non vedere. O che il potere mediatico ci impedisce di vedere, rincitrullendo e rimbambendo la gente con ore e ore di programmi tv stupidi, superficiali e sostanzialmente vuoti. Ecco perché la perdita di uno scrittore come Saramago è gravissima: perché sono pochi quelli che come lui, in un panorama letterario per molti aspetti desolante, continuano a concepire il lavoro della scrittura in questi termini così ampi». L’altro suo bersaglio polemico, soprattutto negli ultimi anni, era diventato la religione. Da dove derivava questa attenzione al fenomeno religioso? «Anche questa critica alle religioni rivelate si inserisce nella più ampia critica al potere. Saramago attaccava le grandi fedi monoteiste, in particolare il cattolicesimo da cui proveniva per formazione e l’islam nelle sue derive fondamentaliste, a partire da una matrice laica e razionalista. Lo si vede bene anche nel suo ultimo libro, pubblicato poche settimane fa da Feltrinelli, Caino, che è una rilettura della Bibbia fatta in maniera del tutto anticonvenzionale».

Repubblica 19.6.10
il mio maestro Josè
Accettare il rischio della parola l’ultima lezione del mio maestro
di Roberto Saviano

Di tutte le cose che poteva fare Josè Saramago morire è quella più inaspettata. Se conoscevi Josè proprio non lo mettevi in conto. Sì, certo tutti muoiono, anche gli scrittori
Ha sempre espresso solidarietà nei miei confronti e mi aveva invitato a trasferirmi da lui Non era affatto stanco della vita e mi aveva detto: "Potessi decidere, non me ne andrei mai"
Ma lui non ti dava proprio alcuna impressione di essersi stancato di vivere, respirare, mangiare, amare. Si era consumato negli ultimi anni, tra la carne e le ossa sembrava esserci sempre meno spessore, la sua pelle sembrava un sottile mantello che ricopriva il teschio. Ma diceva: «Potessi decidere, io non me ne andrei mai».
Parlare della morte di qualcuno cui si è voluto bene, molto bene, rischia di essere solo un esercizio retorico, una proclamazione di memoria e virtù del defunto. L´unico modo che si ha per mantenersi sinceri, è quello di tentare di descrivere lo spazio di vita in più che ti ha dato chi ha finito di respirare. Questo vale la pena fare. Vedere quanto ti è stato sommato alla tua vita, ciò che ti è rimasto dentro, che riuscirai a passare a chi incontrerai, e questo sì, ha il sapore della vita eterna. In fondo molto non è andato via, se molto sei riuscito a trattenere.
Avevo conosciuto Saramago per la prima volta come tutti, leggendolo. Il Vangelo secondo Gesù era il suo libro che mi aveva cambiato, trasformando il modo di sentire le cose. Quel Gesù uomo, che sbaglia, ama, arranca, cerca di essere felice, mi era sembrato essere un personaggio del tutto nuovo nella storia della letteratura. Era una sintesi dei vangeli apocrifi, dei vangeli ufficiali, dei racconti pagani e delle leggende materialiste sul Cristo socialista. Era il Gesù dell´amore carnale verso Maria Maddalena. Su questo Saramago ha scritto parole incantevoli come solo il Cantico dei Cantici era riuscito a creare: «Guarderò la tua ombra se non vuoi che guardi te, gli disse, e lui rispose "Voglio essere ovunque sia la mia ombra, se là saranno i tuoi occhi"».
E´ un Gesù umano che non vuole morire: è il contrario della santità, è uomo con i suoi errori, peccati, talenti e con il suo coraggio. Sembra dire al lettore che basta esser fedeli a se stessi per conoscere la vita e non diventare dei servi, o degli schiavi. «Allora Gesù capì di essere stato portato all´inganno come si conduce l´agnello al sacrificio, che la sua vita era destinata a questa morte, fin dal principio e, ripensando al fiume di sangue e di sofferenza che sarebbe nato spargendosi per tutta la terra, esclamò rivolto al cielo dove Dio sorrideva, Uomini, perdonatelo, perché non sa quello che ha fatto». Proprio così: il Gesù di Saramago rivolgendosi all´uomo chiede di perdonare Dio, ribaltando la versione evangelica del "Padre perdona loro".
E poi ho letto Cecità, altro suo romanzo che ho amato molto e che spesso mi torna in mente. In una frase. Pronunciata da lui per rispondere a me che maledivo certe scelte che mi avevano rovinato la vita. «Arriva sempre un momento in cui non puoi fare altro che rischiare». E la parola di Saramago era sempre una parola rischiosa, non cercava mai di farsi comoda.
Sognavo di trasferirmi da lui, come mi aveva consigliato, esprimendomi solidarietà nei giorni più difficili. Non lo dimenticherò mai. E non dimenticherò mai l´imbarazzo estremo in cui mi trovai quando mi definì "maestro di vita". Io che da lui cercavo continuamente indicazioni, esperienza, per galleggiare in un oceano di difficoltà, bile, rabbia, ostilità. Lui era un maestro che insegnava per farsi a sua volta insegnare. A Stoccolma disse che nella sua vita le persone più sagge che avesse mai conosciuto erano i suoi nonni. Entrambi analfabeti. La loro saggezza era stata costretta a rinunciare per povertà al libro, alla musica, ai teatri, ai dipinti, ma che era riuscita a conoscere la vita, a sentirne con generosità quello che José chiamava sussurro. «Tutte le cose, le animate e le inanimate, stanno sussurrando misteriose rivelazioni».
Una volta scambiandoci alcune riflessioni sullo stile, citai Albert Camus convinto che «lo scrittore che decide di scrivere chiaro vuole lettori, lo scrittore che scrive oscuro vuole invece interpreti». E la risposta fu: «ecco cos´hanno di simpatico le parole semplici, non sanno ingannare». Trovare parole semplici è il mestiere più complicato che sceglie di fare uno scrittore. Avevi ragione, José: «il viaggio non finisce, solo i viaggiatori finiscono". E ora tocca a noi qui. Continueremo a camminare con le tue parole a indicarci la strada senza fine.
©2010 Roberto Saviano/
Agenzia Santachiara

l’Unità 19.6.10
Fucili, bombe e pallottole L’Italia tallona gli Usa sull’export delle armi
Rapporto 2010 sulla vendita di armamenti leggeri: 12% di incremento, il picco più alto dal 1996. Gli affari con Stati Uniti ed Europa ma anche con Paesi sotto embargo o accusati da Amnesty di gravi violazioni dei diritti umani
di Umberto De Giovannangeli

Finché c’è guerra c’è speranza». Non è solo il titolo di un famoso film con Alberto Sordi protagonista. È anche una logica di mercato. Il mercato delle armi. Un mercato in cui l’Italia eccelle. A darne conto è l’Istituto di ricerche internazionali Archivio Disarmo nel documentatissimo «Armi leggere, guerre pesanti. Rapporto 2010. Le esportazioni italiane di armi piccole e leggere ad uso civile». Dal Rapporto 2010 emerge un forte incremento nelle vendite. Infatti, l’Italia ha esportato armi comunida sparo, munizioni ed esplosivi per oltre 460 milioni di euro nel 2007 e per oltre 465 milioni di euro nel 2008, con un incremento del 12% rispetto al biennio precedente, toccando così i valori più alti dal 1996. Un giro di affari che, colloca l’Italia al secondo posto nel mondo, dopo gli Stati Uniti.
La ricerca dell’Archivio Disarmo, diretta da Emilio Emmolo, è stata condotta su fonte ISTAT, che periodicamente mette a disposizione i dati relativi alle esportazioni ad armi comuni da sparo, munizioni ed esplosivi, senza peraltro dettagliare le ditte fornitrici, il prodotto, gli acquirenti (evidenziando ancora una scarsa trasparenza sui trasferimenti, al punto da non poter distinguere la vendita di doppiette da quella di fucili da caccia grossa). In particolare, il 67% del totale delle esportazioni del biennio è costituito da pistole e fucili, a fronte di un 29% di munizioni e di un 4% di esplosivi. Nel biennio 2007-2008 tali esportazioni sono state dirette per la maggior parte verso gli Usa (30%) e i Paesi membri dell’Ue (45%), ma anche verso una serie di Paesi nei quali si riscontrano la presenza di conflitti e di gravi violazioni dei diritti umani.
Emerge, infatti, l’esportazione verso Paesi sottoposti a embarghi internazionali sulle forniture di armi (Cina, Libano, Repubblica Democratica del Congo, Iran, Uzbekistan, Armenia e Azerbaigian), e verso Paesi in cui sono in atto conflitti e in cui si riscontrano gravi violazioni dei diritti umani riconosciute non solo da Organizzazioni non governative (quelle prese in considerazioni dalla ricerca dell’Archivio Disarmo, tra le più autorevoli: Amnesty International, Escola de Cultura de Pau e Human Rights Watch), ma anche dalle stesse Nazioni Unite e dall’Unione Europea (la Federazione Russa, la Thailandia, le Filippine, il Pakistan, l’India, l’Afghanistan, la Colombia, Israele, il Congo, il Kenya, la Georgia, il Guatemala, la Bolivia,il Ciad ...). Attenzione anche al Messico che registra un incremento progressivo confermandosi sempre tra i primi venti maggiori importatori; dei 12 milioni di euro di materiali importati tra il 2007 e il 2008, oltre 11 milioni sono per pistole e fucili. Secondo il Rapporto 2009 di Amnesty International in Messico continuano a verificarsi gravi violazioni dei diritti umani, esecuzioni extragiudiziali, uccisioni di giornalisti, detenzioni arbitrarie e il ricorso alla tortura da parte delle forze di sicurezza è noto Nel biennio 2007-2008 l’Italia ha esportato complessivamente 927.888.960 euro in armi leggere ad uso civile e, precisamente, 461.997.732 euro nel 2007 e 465.891.228 euro nel 2008. Per quanto riguarda le diverse categorie di materiali il valore complessivo di pistole, fucili e relativi parti ed accessori esportati dall’Italia nel biennio 20072008 ammonta a oltre 600 milioni di euro (67% del totale), quello delle munizioni ad oltre 260 milioni di euro (29%) e quello degli esplosivi a oltre 33 milioni di euro (4%). Il trend si mostra in ascesa costante per quanto riguarda le esportazioni di munizioni che dal 2006 sono aumentate di circa il 23% e di un ulteriore 9% dal 2007 al 2008. L’andamento delle esportazioni di pistole, fucili e loro parti ed accessori mostra, invece, un incremento tra il 2006 e il 2007 (più 12%) e una leggera flessione nell’anno successivo (meno 10 milioni di euro pari a circa il 3%). Il valore delle esportazioni di materiale esplosivo registrano, invece, una tendenza diversa: diminuzione tra il 2006 e il 2007 (meno 48%) e leggero aumento nel 2008 pari al 14%.
Oltre sulla definizione di armi piccole e leggere, Il Rapporto si sofferma anche sulle normative vigenti in Italia e sul quadro giuridico internazionale, nonché sull’Arms Trade Treaty in discussione in ambito Onu, il trattato internazionale sul commercio che dovrebbe approdare nel 2012 ad accordo mondiale. In particolare, ancora una volta emergono le contraddizioni derivanti dal fatto che le procedure e i divieti previsti per le armi comuni da sparo (previste dalla legge 110/75) sono diverse dal quelle previste dalla legge 185/90 che si occupa dei trasferimenti di armi ad uso militare, una tra le discipline più avanzate a livello internazionale. Emergono dall’analisi da un lato l’incremento progressivo delle esportazioni italiane di armi «leggere ad uso civile», dall’altro un quadro normativo tutt’altro che univoco e che lascia delle zone d’ombra molto importanti (nonostante che la Relazione della Presidenza del Consiglio sull’export di materiale di armamento militare abbia più volte ribadito di seguire anche in questo ambito criteri analoghi a quelli applicati per la 185/90). È opportuno ricordare rilevano gli autori che, come ha più volte messo in luce l’Onu, spesso attraverso vendite legali si passa poi a successive forniture a soggetti che di questi strumenti fanno un uso non consentito, finendo per armare anche la delinquenza organizzata, formazioni terroristiche, bande paramilitari ecc. I Paesi dell’Unione Europea sono stati il maggiore importatore di pistole,fucili, munizioni ed esplosivi italiani: nel 2007 le esportazioni italiane sono state pari a 213.100.647 euro, seguite da una lieve diminuzione (meno 6%) nel 2008 con 199.939.220 euro. Rispetto al 200684 le esportazioni verso i Paesi dell’Unione Europea hanno registrato un aumento notevole. I primi otto Stati per valori di importazioni sono, come l’anno precedente, Regno Unito, Francia, Spagna, Germania, Grecia, Belgio, Finlandia, Portogallo i quali complessivamente sono stati destinatari di armi italiane di piccolo calibro per un valore di 361 milioni di euro così ripartiti: oltre 195 milioni di euro in pistole e fucili, oltre 141 milioni di euro in munizioni e oltre 23 milioni di euro in esplosivi.
Partendo da queste considerazioni, una delle conclusioni a cui giunge il Rapporto è che, come avviene già a livello europeo, ancora una volta appare necessario considerare giuridicamente le armi comuni da sparo alla stregua delle armi leggere ad uso militare alla luce dell’ormai accertata pericolosità della loro presenza soprattutto nei numerosi scenari di conflitto che costellano i cinque continenti; conflitti in cui le armi, dalle più piccole alle più sofisticate, contribuiscono alla radicalizzazione della violenza e delle difficili condizioni post-conflittuali con impatti devastanti sulle popolazioni. «Il grosso problema dice a l’Unità Maurizio Simoncelli, Vicepresidente dell’ Istituto di ricerche internazionali Archivio Disarmo è la scarsa trasparenza dei dati. Noi sappiamo che vengono esportate delle quantità di armamenti ma non esattamente quali e a chi. Un altro problema aggiunge il professor Simoncelli è che dichiarazioni contenute nella Relazione della Presidenza del Consiglio non appaiono conseguenziali nei fatti, per cui in Paesi come Cina, Colombia, Israele ed altri, dove teoricamente non si dovrebbe esportare, invece risultano esportazioni di armi italiane».

l’Unità 19.6.10
Conversando con Citto Maselli
«D’accordo con Reichlin: alla sinistra serve un’idea e ai giovani serve la sinistra»

di Toni Jop

Alla manifestazione di Piazza Navola dell’8 giugno contro i tagli alla cultura c’era anche Citto Maselli che ha detto: «Questo governo segue una strategia lucida e mortuaria contro il pensiero libero».
Aquel lago di simboli che si è divertito a collezionare nel suo film più recente, «Le ombre rosse», Citto Maselli uno dei grandi padri del nostro cinema ha incollato un finale didascalico. Due ragazze (e un ragazzo), un fabbricato alla periferia delle periferie, un metro a nastro in mano, prendono misure, larghezza, lunghezza. Cercano un posto, un luogo, una situazione da nutrire con i corpi e con i pensieri, con azioni solidali. Ma lontano, via dalla pazza folla, dove l’urbanesimo, anima della nostra civiltà, degrada e sfuma il rigore della sua ottica concentrazionaria. Il film chiude, mentre si prende atto della fine di un’era, di una esperienza collettiva eccitante il decollo e il tramonto di un centro sociale con i segni dell’allestimento di un Natale che verrà. Sono giovani e sono soprattutto donne, non si sa cosa sappiano fare di «socialmente rilevante», non si conoscono le loro abilità misurate sui bisogni del mercato, ma si sa che scommettono sulla vita a dispetto della loro invisibilità. Così l’allegoria frana sul reale: è esattamente ciò che sta accadendo a milioni di ragazzi, soprattutto in Italia. Dicono che un ragazzo su tre non troverà lavoro, nessun lavoro in questo paese. Almeno finché le condizioni non cambieranno. Uno su tre fa paura perché muta il dna sociale che abbiamo fin qui conosciuto. Da decenni, da «Gli sbandati» e non solo, hai sempre dedicato uno sguardo d’affetto ai giovani. Un cineasta è anche un po’ uno stregone...
Quel finale di film dice anche altro: per esempio che la politica, quel che resta della politica in anni recenti non ha saputo dare non dico modelli ma strumenti, «utensili» adatti a costruire una vita in cui i ruoli individuali e collettivi non siano imposti dal mercato, dal consumo. C’è una fondamentale differenza tra essere schiacciati dai grandi meccanismi di una durissima ristrutturazione «capitalistica» in una crisi psicologica ed esistenziale senza uscita e affrontarla, invece, con consapevolezza, collettivamente, con azioni che puntellano una nuova forte soggettività politica. In altre parole: la sinistra non ha saputo fornire ai giovani motivi sufficienti per lottare, resistere, inventare strade nuove. Benché Rifondazione Comunista, il partito cui appartengo, si muova con le forze di cui dispone, proprio in questa direzione. E questa insufficienza, se permetti, non racconta di una banale crisi della sinistra, ma di una sua crisi profonda, terribile.
Lo si capisce scorrendo la drammaturgia del tuo film. La sinistra tutta ne esce a pezzi, nessuno si salva: i partiti, gli intellettuali, figure ingrigite da una mediocrità senza respiro, interne a un gioco da cui sono state adottate con l’ambizione e il miraggio della «modernità». E si salvano solo i ragazzi del centro sociale.... Condivido un recentissimo richiamo di Alfredo Reichlin: alla sinistra serve un’idea. È un po’ un’astrazione, nelle corde di Reichlin, ma mi pare che anche solo porsi di fronte a questo bisogno, affermare che esiste e che corrisponde al vuoto di oggi, significa assumersi una responsabilità all’altezza della storia che stiamo vivendo.
Forse, però, sostenere che ci serve un’idea non è una tenera ammissione di impotenza? E questa ammissione non ha qualcosa in comune con il febbrile riposizionamento del “territorio” in testa alla top ten delle questioni di cui deve farsi oggi carico la sinistra? Cosa ci è successo?
So che Togliatti decise già nel 1941 di organizzare il Partito Comunista scartando il metodo della cooptazione diretta in base alla affidabilità burocratica dei comunisti come imponeva lo schema della Terza Internazionale. Impartì direttive affinché la selezione fosse affidata a dei dati «storici», e cioè alla generosità e alla efficacia della lotta messa in pratica nelle fabbriche, sempre e comunque nei territori. Poi, vorrei ricordare qual è il valore insostituibile del marxismo: l’idea di una società conflittuata come garanzia di democrazia e di crescita. Marxismo non come modello, quindi, ma metodo,
tra l’altro inevitabile in una relazione di potere vissuta con consapevolezza. Dov’è finita questa cultura? Verrebbe da chiederlo a chi si è assunto la responsabilità di far naufragare i due governi di centrosinistra. Non saranno stati i migliori governi del mondo ma alla luce di quel che ha messo in campo l’era berlusconiana non si può negare che testimoniavano un’altra cultura e proponevano un’altra Italia...
Ma se non àncori il fare quotidiano, anche quello politico, ad una visione complessiva che entra in conflitto con l’esistente, devi attendere che tramonti una esperienza di governo e che salga al potere un oligarca amorale come Berlusconi per comprendere che era meglio proseguire sulla vecchia strada. E comunque se la cultura che animava quei governi è la stessa che da anni muove le opposizioni di sinistra, mi pare che non siamo di fronte alla chiave, oppure come dice Reichlin all’«idea» che può aprire nuove porte, nuove vie d’uscita. Anche per quel trenta per cento di ragazzi italiani condannati a vivere senza lavoro.
Alla sinistra per non perdersi sarebbe forse bastato riuscire a mettere in campo la legge sul conflitto di interessi; non era nemmeno indispensabile farla passare, visto che i numeri pare non ci fossero; ma doveva «morire» su quella iniziativa di pura giustizia molto annunciata...
Sì, e quei giovani che ora sono nel tritacarne avrebbero in tasca almeno il valore morale di un impegno storico di democrazia, di una coerenza limpida; ma sui principi, appunto, non si dovrebbe transigere. E ora la sinistra avrebbe cose da dire nei territori e saprebbe, certamente meglio di ora, cosa vuol dire lottare per un ideale che vale tutte le tue energie, e conoscerebbe il valore della lotta, dello stare in piedi, di una prospettiva di società alternativa.
Invece, dici con «Le ombre rosse», i ragazzi se la devono inventare da sé la nuova casa... Una casa, un partito, un progetto nato dai bisogni delle loro condizioni materiali. L’estromissione pressocché totale dal mondo del lavoro allora produrrà nuova consapevolezza e nuova cultura. Quando, provati e demoralizzati, spulceranno la storia, troveranno forza in quel che hanno prodotto il Movimento dei lavoratori e il Partito Comunista italiano, perché qualcuno a sinistra se ne vergogna ma è storia bellissima e forte, soprattutto in Italia, in quella vicenda che gli ortodossi francesi del Pcf chiamarono «déviation italienne».

Nato a Roma, partigiano durante la Resistenza, Francesco Maselli inizia la sua carriera cinematografica al fianco di Chiarini, Antonioni e Visconti. Gira nel 53 con Zavattini il suo primo film, «Storia di Caterina».
Ma è con «Gli sbandati», 1955, che conquista un ruolo di primo piano nella storia della cinematografia italiana. Mette a fuoco uno dei suoi più intensi nuclei narrativi con «I delfini», alla cui sceneggiatura collabora Alberto Moravia: il film è una lente lucida sul galleggiamento dei giovani figli di una borghesia oziosa.
Ancora Moravia sul suo cammino: nel 64 porta sugli schermi una bellissima trasposizione da «Gli indifferenti». Impegnato culturalmente e sul fronte politico, Maselli è alla testa della contestazione sul finire degli anni Sessanta. Nel ‘73 governa le «Giornate del cinema italiano» a Venezia, una contro-Mostra militante e innovativa.
Nel 70 dirige «Lettera aperta a un giornale della sera», film politico che inizia a scavare nelle contraddizioni della sinistra. Altro focus che Maselli non abbandonerà e verrà confermato nel 2009. con «Le ombre rosse».


il Fatto 19.6.10
Lettera dei detenuti a Radio Radicale
“Noi, bestie di Poggioreale”
“Guardate quanti vengono medicati con fratture e lesioni. Sempre la stessa versione: è caduto”
Pubblichiamo ampi stralci di una lettera firmata da un gruppo di detenuti anonimi del carcere di Poggioreale, letta ieri a Radio Radicale. I detenuti denunciano maltrattamenti e vessazioni ad opera della polizia penitenziaria

Nel carcere di Poggioreale ci sono cose ben più gravi di quelle di solito raccontate. Pressioni psicologiche, maltrattamenti fisici e morali, violazioni dei diritti minimi che anche un detenuto dovrebbe avere. Il giorno 11, poco dopo il colloquio, durante l’attesa per tornare nelle nostre celle ci hanno chiuso in una camera di sicurezza, circa 40 detenuti in uno spazio di circa 10/12 mq. Un detenuto (malato di cuore, come registrato nelle cartelle cliniche del carcere) non riesce a respirare e si sente male! Chiama la guardia, la chiamiamo anche noi! Dopo averlo chiamato a squarciagola arriva, infuriato e infastidito... Gli facciamo presente che è grave, che quel nostro compagno è malato di cuore... Ci risponde: “Certo come tutti quelli che stanno qui”. Alla fine quel detenuto per la disperazione con tutta la forza che ha sbatte la testa contro la cella... Si spacca la fronte e il viso. Poco dopo viene portato in infermeria. È giusto? È giusto che nei colloqui, se uno prova ad abbracciare un familiare, le guardie battono le loro chiavi sul vetro fino a fare piangere i bambini? È giusto che la scorsa settimana dei detenuti sono stati puniti solo perché si sono lamentati per avere fatto 50 minuti di colloquio invece di un’ora? Controllate le cartelle cliniche dei detenuti e guardate quanti di questi vengono medicati con fratture, ematomi, lesioni... Sempre la stessa risposta: “Dottore è caduto!”.
[...] Il giorno 5 un detenuto scese per denunciare un’aggressione subita dalle guardie (nonostante lo avevamo sconsigliato, sapendo quanto sono vigliacchi), poco dopo abbiamo sentito delle urla che ci hanno fatto venire i brividi. Ad oggi non sappiamo ancora cosa è successo. E quando sono venuti a prendere le sue cose in cella e abbiamo chiesto notizie in merito, la guardia ci ha risposto: “Fate gli avvocati?”.
Sto scrivendo questa lettera, perché dicono che lo so fare meglio di altri. Scrivo a nome di circa 650 detenuti. Purtroppo non possiamo comunicare tra un padiglione e l’altro, ma lo stato di disagio qui è altissimo e tutti si sono accorti, o meglio si stanno accorgendo, che anche se si è educati e rispettosi, se si osservano le regole, tutti stanno alla mercé delle guardie e dei loro stati d’animo! [...] C’è un clima di terrore in tutto quello che si fa, se per esempio sbagliano la spesa, devi avere timore di chiamare un appuntato, perché se
lo fai alzare dalla sedia per una cavolata come questa, facile che si metta a strillare; non puoi fare niente tranne soffocare la tua rabbia e mangiare l’ennesimo sospiro. Sicuramente anche gli agenti lavorano con molta difficoltà, ma noi che stiamo già chiusi 22 ore su 24, oltre a questo, dobbiamo essere trattati come vermi, è veramente troppo! La stessa Costituzione dice che il trattamento delle persone internate o comunque sottoposte a restrizioni di libertà non può essere contrario al senso di umanità! [...] Chi sta qui e subisce un tale trattamento, quando esce (se prima non si uccide) è un animale, una belva, un cane rabbioso, ed è normale, per ciò che ha subito. Come si può avere fiducia nello Stato se qui è proprio lo Stato a fare cose inverosimili? Noi non possiamo fare altro che stare in silenzio, ma per quanto ancora? Dobbiamo autolesionarci? O magari dobbiamo morire come mosche prima che qualcuno si accorga che il problema più grande non è il sovraffollamento, ma i soprusi che subiamo ogni giorno, e che sicuramente molti subiscono in tante carceri d’Italia? È giusto che chi ha sbagliato debba pagare, ma comunque ha dei diritti. [...] Ci scusiamo per non avere messo i nostri nomi, perché questo significherebbe dover subire chissà quale tortura o quale dispetto da questi tutori dello Stato! Prima di lasciarvi vi informo di un altro grave episodio che si è verificato tempo fa. Un ragazzo giovane, molto giovane ha chiesto di essere portato in infermeria e per quasi due ore ha pregato il capoposto. Per favore, per cortesia e alla fine è salito l’ispettore che ha iniziato a fare il pazzo dicendo “lei non deve chiamare, quando è possibile la chiamiamo noi!”. Dopo dieci minuti il ragazzo si è tagliato le vene!

il Fatto 19.6.10
Don Gelmini prete molesto: processo per gli abusi in comunità
A giudizio per 12 episodi: le accuse dei ragazzi
di Enrico Fierro

Un brutto colpo per il prete che si fece cane feroce. Don Pierino Gelmini è stato rinviato a giudizio per molestie sessuali. Lo ha deciso il gup di Terni, Pierluigi Panarello, che ha contestato all’ex sacerdote (don Pierino è tornato allo stato laicale qualche anno fa) ben 12 episodi di molestie sessuali ai danni di ospiti delle sue comunità per recupero di tossicodipendenti. L’inchiesta, venuta alla luce nel 2007, scaturì da una serie di denunce. “Mi palpava, mi baciava e in più occasioni mi ha costretto ad atti sessuali", raccontò Michele Iacobbe, un passato nell’inferno della tossicodipendenza, il primo grande accusatore dell’ex prete. L’uomo era finito in carcere per una serie di reati compresa l'estorsione e la calunnia. "Mi ha rovinato, mi ha costretto a fare delle cose che non avrei mai voluto. Mi diceva: tagliati i capelli, dai lo faccio io che corti mi piacciono di più, dammi un bacio per favore". Alla Procura di Terni sfilano tanti testimoni, almeno una quindicina, tutti disposti a raccontare la loro “mala educacion”. Paolo Zanin, attore, è stato uno dei volti di Amarcord di Fellini, e scrittore, affida il suo racconto ai giornali. “Ho avuto a che fare con le voglie di don Gelmini tra il 1969 e il ’70, quando ancora abitava nella villa all’Infernetto”. Sentito dai magistrati, Zanin fa mettere a verbale la storia della sua vita di ragazzo sbandato, l’incontro con don Pierino, “che si atteggiava a monsignore”, e l’accoglienza, prima in una casa di Piazza Navona, poi nella villa alla periferia romana. I luoghi delle strane attenzioni del prete. Una brutta esperienza che l’ex ragazzo racconta nel libro Nessuno dovrà saperlo.
Accuse che don Pierino ha sempre respinto con forza, attaccando la magistratura e gli stessi vertici della Chiesa. "L'infamia non mi tocca", disse subito dopo l’inchiesta della procura davanti a trecento sostenitori, ex tossicodipendenti e i loro genitori che lo veneravano come un santo. "Pensavano di avere a che fare con un coniglio, invece hanno trovato un cane che morde. Io non mollo. Volevano prendersi la comunità". La chiusura con un amen e il poco ecclesiastico gesto dell’ombrello. Troppe dichiarazioni polemiche (“le accuse? Frutto della lobby massonica radical chic”), al punto che il suo legale, Franco Coppi, si vede costretto ad abbandonare la difesa. Don Pierino è stato sempre così, un vulcano, la sua è stata una vita piena di contraddizioni fin dall’inizio divisa tra fede, potere e mondanità. Quando la Chiesa dopo un lungo braccio di ferro accoglie la sua domanda di riduzione allo stato laicale, attacca il Vaticano. "Gli intrallazzi non sono fede. Bisogn Cristo non al cesaro-papismo. Perché qui siamo arrivati al punto in cui parliamo più del Papa che del Cristo". Una vita spericolata Gli esordi al fianco di un altro sacerdote discusso, don Eligio Gelmini, suo fratello. Era il prete in cachemire, amico dei calciatori e degli uomini di spettacolo, andava in tv e appariva spesso al fianco di campioni come Gianni Rivera. Altri tempi, tv in bianco e nero, vita a colori sempre in bilico tra la fondazione di comunità per il recupero di ex tossicodipendenti, e accuse di balletti rosa. È in questo ambiente che don Pierino muove i primi passi. Una villa a Roma, all’Infernetto, piscina, una Jaguar in garage e tre camerieri di colore. La bella vita viene interrotta da una serie di guai con la giustizia. Le accuse vanno dalla bancarotta fraudolenta, emissione di assegni a vuoto e truffa. In quel periodo, fine anni Sessanta, don Pierino si spaccia anche per monsignore. La Chiesa tenta di sospenderlo a divinis, ma non ci riesce. Un breve esilio in Vietnam – anche qui con il contorno di accuse di truffa – poi il ritorno in Italia e l’arresto. Quattro anni di carcere, tutti scontati. Nel 1979 la folgorazione sulla via della lotta alle tossicodipendenze, don Pierino fonda la Comunità Incontro ad Amelia, Umbria, che nel giro di poco tempo diventa una vera e propria multinazionale: 164 sedi in Italia, 74 all’estero. E tanto potere.
Don Pierino gode dell’amicizia degli uomini che contano nel mondo dello spettacolo e della politica. Alle sue manifestazioni non mancano mai Gigi D’Alessio e Amedeo Minghi, lo psichiatra Alessandro Meluzzi, ex parlamentare di Forza Italia, diventa il portavoce della comunità, Silvio Berlusconi gli dona 5 milioni di euro per le popolazioni asiatiche colpite dallo tsunami, e poi Giovanardi, Gasparri. Fino a Gianfranco Rotondi che lo propone come sottosegretario per la lotta alla droga. “Se necessario chiederemo la dispensa al Vaticano”. Una vita così, dove la carità cristiana diventa business e potere, una figura contraddittoria che divide ancora oggi.
Amici e potenti
Chi non nutre alcun dubbio sulla figura di don Pierino, sono i suoi amici del palazzo. ''Nel prendere atto che nel corso dell'attività giudiziaria parte importante delle accuse nei confronti di esponenti della Comunità Incontro sono cadute, resto convinto che il giudizio confermerà che don Gelmini ha agito e agisce per difendere la vita di migliaia e migliaia di persone strappate alla droga e all'emarginazione in ogni parte del mondo. È una verità conosciuta da tanti e che alla fine troverà ulteriori conferme'', dice Maurizio Gasparri. ''Sono vicino all'amico Don Gelmini in questo difficile momento e gli auguro forza e salu continuare nella sua preziosa azione nella Comunità Incontro e per poter uscire a testa alta da questo processo'', è la frase che gli dedica un altro amico, Carlo Giovanardi. Gli altri, per il momento, tacciono.

il Fatto 19.6.10
Il sindacato spaccato
Cgil e Fiom in teoria sono la stessa organizzazione. Ma sulla Fiat e sul futuro di Pomigliano hanno idee opposte
di Salvatore Cannavò

Ma Fiom e Cgil non sono lo stesso sindacato? La domanda è legittima, osservando gli ultimi eventi di cronaca. Mentre a Torino, allo stabilimento di Mirafiori, gli operai scioperano e fanno un corteo in solidarietà con Pomigliano, con adesioni all'80 per cento (secondo la Fiom), il segretario della Cgil Guglielmo Epifani, dalle colonne del Corriere della Sera, bacchetta sia la Fiat che la Fiom e chiede a entrambe “di ascoltare la Cgil”. “Se fossimo stati coinvolti prima le cose andrebbero meglio”, dice Epifani che chiede alla Fiat di concedere due modifiche all'accordo su diritto di sciopero e malattia, perché si violano diritti fondamentali, e alla Fiom di dare la disponibilità alla firma. “Abbiamo due anni di tempo per ricomporre una frattura che è ricomponibile”, avverte Epifani. Dalla Fiom, però, gli risponde Giorgio Cremaschi, leader della sinistra interna alleata al segretario Maurizio Landini: “Se l'accordo è incostituzionale bisogna dire di no senza tentennamenti”. Di converso, Fausto Durante, della minoranza Fiom legata a Epifani, dice invece che se il 22 giugno vinceranno i sì “la Fiom dovrà firmare l'accordo”. Il quadro è quindi quello di una dialettica interna che si fa scontro aperto, di dissidi che invece di ricomporsi si acuiscono e che probabilmente si aggraveranno nel prossimo futuro.
LO SCONTRO. I rapporti tra Cgil e Fiom, in realtà, non sono mai stati semplici, per lo meno negli ultimi 10-15 anni. Sicuramente da quando alla guida del sindacato dei metalmeccanici andò Claudio Sabattini, storico dirigente sindacale anomalo e inquieto, che inventò per i metallurgici il concetto di “indipendenza”. Qualcosa in più della semplice autonomia che caratterizza una categoria, titolare esclusiva della contrattazione del proprio comparto, messa in discussione solo in caso di crisi generali con l'intervento pieno del governo. Come accaduto per Alitalia e come Epifani si aspettava avvenisse anche per Pomigliano.
MOVIMENTISMO. L'indipendenza di Sabattini costituiva un’ipotesi culturale e politica attinta alla storia “movimentista”
del Pci e che ispirava anche una linea sindacale. Ma che non ha mai trasformato il rapporto dialettico con la Cgil di Sergio Cofferati – che, come Sabattini, viene eletto nel 1994 – in scontro irreversibile. La divergenza più dura avviene proprio sul piano politico, nel 1997, quando Cofferati apre alla riforma pensionistica del governo Prodi e Sabattini si mette di traverso scontrandosi nella Fiom con l'ala riformista allora guidata da Cesare Damiano e Susanna Camusso. Sabattini è colui che porta la Fiom a Genova nel 2001 alle manifestazioni contro il G8 mescolando gli operai dell'industria con le culture giovanili, del non-lavoro, del cattolicesimo radicale. Cofferati non c’era ma recupererà un rapporto l'anno dopo nel corso delle grandi lotte contro la riforma dell'articolo 18 voluta dal governo Berlusconi. In quell'occasione Fiom e Cgil sono fianco a fianco e vincono. Lo saranno anche in occasione del referendum per l'estensione dell'articolo 18 alle piccole imprese, voluto da Rifondazione nel 2004. Stavolta a guidarle, ci sono i due nuovi segretari, Epifani alla Cgil e Gianni Rinaldini alla Fiom. Ed è scontro aperto, di nuovo e soprattutto sulla politica. Romano Prodi sta per vincere le elezioni, Epifani ne sostiene il programma e si accinge a fare da supporto al suo governo. Il 4 novembre del 2006 si tiene però la prima manifestazione contro Prodi, la Fiom sfila con Cobas e centri sociali ed Epifani non apprezza.
Lo scontro si fa ancora più duro l'anno seguente quando, modificando lo “scalone” Maroni (che alzava bruscamente l’età della pensione per alcune migliaia di lavoratori), Prodi e Damiano, suo ministro del Lavoro, provvederanno a una riforma del welfare che vede il consenso di Cgil, Cisl e Uil, con la Fiom decisamente contraria.
CONTRO EPIFANI. Poi c'è il congresso Cgil, il primo gestito da Epifani e in cui Rinaldini, con la “sua” Fiom, si schiera assieme alla sinistra interna di Cremaschi, presentando delle tesi alternative. Va in minoranza e ci resta, di fatto, fino a oggi quando al recente congresso Cgil, la Fiom, assieme alla Funzione pubblica e ai bancari, organizza un documento alternativo contrastando la volontà della Cgil di ricucire il rapporto con Cisl e Uil sulla riforma della contrattazione collettiva. Funzione pubblica e bancari vengono espugnati da Epifani mentre in Fiom la maggioranza è ancora con Rinaldini.
LA SFIDA CAMUSSO. Scaduti gli otto anni di mandato – dopo i quali in Cgil si viene sostituiti – Rinaldini lascia a Landini. Il quale si troverà tra pochi mesi a non dover discutere più con Epifani, anch’egli al termine degli otto anni, ma proprio con quella dirigente "riformista" che dalla Fiom fu allontanata da Claudio Sabattini, e cioè Susanna Camusso.
Da pochi giorni la sindacalista milanese è stata nominata vicesegretario vicario, cioè nuovo segretario generale in pectore, carica che andrà a ricoprire a ottobre. E in Fiom si teme la resa dei conti. Che potrebbe arrivare in caso di un rientro della Cgil al tavolo della riforma contrattuale. Camusso però potrebbe trattare il ritorno della Cgil al tavolo con governo e Confindustria oltre che con Cisl e Uil, come è nella sua indole e nel suo mandato congressuale. “È una craxiana di ferro” sibila qualche dirigente della sinistra interna mentre la sua fisionomia modernista è stata già apprezzata dal ministro del Welfare, Sacconi che ha detto di fare affidamento sulla sua “provenienza socialista”. In Fiom, non ripongono le stesse speranze. Lo scontro continua.

il Fatto 19.6.10
Cina: le conseguenze degli scioperi
di Alberto Martinelli

La stampa cinese ha riferito che nel solo mese di maggio si sono verificati dodici scioperi in varie fabbriche di grandi imprese tra cui, oltre alla Honda, le altre due giapponesi Sharp Electronics e Nikon e la coreana Xingyuche. Alla Pingmian Textile nella provincia di Henan gli addetti hanno scioperato per due settimane; alla Yihua Equipment Engineering nella provincia dello Jangsu continua lo sciopero di 700 addetti iniziato il 21 maggio. Si protesta soprattutto per i bassi salari, duemila yuan circa al mese (meno di 300 dollari), che si riducono drasticamente nei periodi di non lavoro in cui viene percepito solo l’80 per cento del salario base (circa 500-600 yuan). Consultando il China Statistical Yearbook, si rileva come i salari cinesi siano costantemente cresciuti negli ultimi anni (di quasi cinque volte dal 1995 a oggi) e come contemporaneamente siano aumentate le diseguaglianze tra settori produttivi, aree geografiche, tipo di proprietà dell’impresa e in particolare tra lavoratori specializzati e non. Come spesso accade, i più combattivi non sono gli addetti di imprese locali relativamente arretrate, ma i lavoratori di fabbriche tecnologicamente avanzate, con salari medi relativamente migliori e che nutrono tuttavia maggiori aspettative. Gli scioperi non riguardano solo gli operai di alcune fabbriche lontane, né solo la società cinese nel suo complesso, ma interessano tutti, anche noi, data l’importanza che ha la Cina, il paese con i più elevati tassi di crescita che sta vivendo uno straordinario processo di modernizzazione, nel mondo contemporaneo. Gli scioperi rappresentano una prima verifica della tesi della modernizzazione come processo complesso e multidimensionale. Non si può considerare, come avviene nella grande maggioranza delle analisi, lo sviluppo cinese soltanto dal punto di vista economico, prevedendo sorpassi imminenti del Pil cinese su quelli delle economie più sviluppate, fondando le previsioni sulla semplice estrapolazione dei dati presenti e deducendo una inesistente linearità e omogeneità del percorso di sviluppo. La modernizzazione cinese, come e più di ogni modernizzazione, date le dimensioni del paese, è un processo complesso che investe tutti gli aspetti della società; si svolge tra contraddizioni e conflitti, genera sia grandi opportunità di crescita individuale e collettiva sia grandi diseguaglianze, rimette in discussione rapporti istituzionali e di potere che sembravano consolidati, sfida valori e atteggiamenti culturali, modifica comportamenti. Gli scioperi come esempio di azione collettiva e i suicidi come forma estrema di protesta individuale sono la spia di disagi diffusi che provocano risposte di grande intensità. Riflettiamo sugli scioperi, partendo dall’analisi economica del mercato del lavoro, ma integrandola: si sostiene che grazie all’enorme esercito industriale di riserva costituito dalle centinaia di milioni di contadini, l’industrializzazione cinese può continuare a ritmi assai elevati e con salari assai bassi, mantenendo quindi (anche grazie all’aiuto della sottovalutazione della moneta cinese nei rapporti di cambio con le altre valute) una elevata competitività delle esportazioni della Cina e una convenienza a delocalizzare in Cina attività produttive per molte imprese di paesi più sviluppati (come la Honda giapponese). È vero che lo sviluppo cinese è in parte rilevante trainato dalle esportazioni (export-led), che i salari industriali sono incomparabilmente più bassi che nelle nostre società (130 dollari è il salario mensile degli operai della Honda); ma non è vero che la domanda di lavoro sia dovunque inferiore alla offerta. Esistono ostacoli sociali, resistenze culturali, ritardi burocratici e normativi, che contribuiscono a creare situazioni di carenza di mano d’opera per certi tipi di qualifica e in settori produttivi e aree geografiche particolari.
Una visione distorta. Questi sono i fenomeni alla radice dell’ondata di proteste in atto, che si rivolge per il momento alla dirigenza delle fabbriche (un bersaglio più facile trattandosi di stranieri e per giunta di giapponesi), ma che non può non coinvolgere le rappresentanze sindacali e il Partito comunista cinese che le controlla, e che può anche dar luogo alla formazione di sindacati autonomi secondo una sorta di modello polacco alla Solidarnosc. È bene evitare al riguardo comparazioni frettolose e ricordare la specificità del contesto in cui avviene la modernizzazione cinese. L’opinione pubblica dei paesi sviluppati sembra invece guardare alla modernizzazione cinese con un occhio solo: le borse (americana, europea, giapponese) vedono positivamente il dato sul valore quasi raddoppiato delle esportazioni cinesi nel mese scorso come segnale di ripresa mondiale e non vedono le contraddizioni della modernizzazione cinese. Se queste dovessero diventare ingovernabili, le conseguenze sarebbero drammatiche per tutti.
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