«Mani, cuore, testa, questo siamo noi, questo è il partito che voglio io. Dobbiamo trasformare la rabbia in energia positiva»
«Non diremo mai una parola men che positiva contro di loro. Le altre le dedichiamo a Berlusconi».
La Costituzione: «La vogliamo rafforzare, è la più bella del mondo. La Costituzione è avanti, noi siamo indietro»
Folla e entusiasmo al Palalottomatica. Il leader Pd legge gli articoli 1 e 3 della Costituzione
Berlusconismo e conformismo «colpevoli» . L’elenco delle promesse del governo mancate
Bersani: basta balle mandiamoli a casa
Bersani all’attacco contro la manovra, il ddl intercettazioni e le tentazioni di modifica della Costituzione. Al Pd: «Dobbiamo essere più forti delle nostre debolezze. La gente ha bisogno di noi»
di Maria Zegarelli
«Mani, testa, cuore: questo siamo noi, questo è il partito che voglio io. Questa manifestazione non è la fine, è l’inizio». Infuoca la platea del Palalottomatica Pier Luigi Bersani che sventola centinaia di bandiere e si spella le mani. È questo il partito che vuole, cuore testa e mani nei bisogni del Paese, fuori dal dibattito interno in cui il Pd rischiava di morire. L’Inno di Mameli, versione abbreviata, la Canzone popolare di Ivano Fossati, e questa «rabbia che va trasformata in energia positiva, in una possibilità di cambiamento».
È un segretario «tonico» per dirla con Beppe Fioroni, «in gran forma» con David Sassoli, «bravissimo» con Rosy Bindi che a fatica trattiene le lacrime. Veltroni non parla, «oggi è il giorno del segretario», ma se ne va prima che Bersani intervenga, «impegni presi prima», spiegano i suoi. Ma oggi non è giorno di polemica, il Pd ritrova l’orgoglio di se stesso in questa manifestazione di protesta e di proposta, come la definisce lo stesso Bersani e si prepara per la campagna d’estate e quella d’autunno contro il ddl intercettazioni e la manovra «sbagliata, iniqua» fatta di 2380 commi «e 150 pagine senza uno straccio di idee, senza direzione di marcia». Sferzata a chi «passava il suo tempo a misurare le pagine del programma di Prodi».
Un discorso fissato sui fogli con appunti, l’articolo 1 e l’articolo 3 della Costituzione letti per intero. L’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro... tutti i cittadini sono uguali davanti alla legge senza distinzione... La Costituzione, dice, «sarà la nostra bandiera, ci indicherà la strada. La memoria di Berlusconi non arriva all' articolo 2 della Costituzione ma lui ci ha giurato sopra e se non gli piace, vada a casa». Applausi scroscianti, come fischi scroscianti quando va in onda il video con Berlusconi, Gelmini, Brunetta, Tremonti veri e imitati da Guzzanti, Crozza, Cortellesi.
Bersani all’attacco contro Berlusconi, la manovra, ma anche contro «la classe dirigente di questo paese», perché dice, «berlusconismo e conformismo sono altrettanto colpevoli». «Noi le proposte le abbiamo sempre fatte ma l'orecchio non è sempre stato attento, non solo quello del governo, anche di una parte della classe dirigente. Non si può più prendere per buona qualsiasi bolla di sapone della destra: dove sono finiti l'Irap, il bollo auto, la banca del Sud, il posto fisso? Sono state sprecate colonne di piombo su questo ma neanche un piombino per scrivere: erano tutte balle. Che fine hanno fatto i miracoli dell'Aquila e di Napoli. Dove sono finiti i rifiuti, nella discarica del Vesuvio? Le mille bolle blu nella versione di Apicella di ventano le mille balle azzurre». Risate e applausi. Riferimenti a Confindustria, ma anche a certa stampa che imbavagliata lo è già e forse, anche a qualcuno del suo partito: «Cosa vogliamo fare, gli vogliamo correre dietro anche sull’articolo 41? Non ho mai visto un imprenditore lamentarsi perché c’è la Costituzione». E Robin Hood-Tremonti, dov’è? «Forse a raccogliere funghi con Bossi nei boschi del comasco? Lo dico perché li hanno visti insieme». E cosa dicono a Pontida «dei quattro ladroni che stanno a Roma e hanno scritto le norme di questa manovra?». Una Lega dura contro «l’Inno e con la Nazionale, ma mollacciona con i miliardari».
Chiama all’azione i democratici arrivati qui da tutta Italia, oltre cento pullman, armati di striscioni e slogan: «Siamo un partito di governo temporaneamente all'opposizione. Dobbiamo andare dove c'è la gente, dove c'è il corpo e portare qualche idea. Usiamo tutti gli strumenti, vecchi e nuovi, per arrivare alle persone. Siamo un bel partito, dobbiamo essere più forti delle nostre debolezze perché la gente ha bisogno di noi». La formula è quella di oggi: la società civile che parla ad «un grande partito popolare» che deve ascoltare. Ascoltare quello che dicono Mila Spicola, «eroina dei tempi moderni», insegnante in trincea; Marcello Tocci, operaio dell’Ex Eutelia, che chiede aiuto al Pd; Giuseppe Tiani, sindacalista degli agenti di polizia, che dice: «Bisogna conoscerci meglio, lasciarci alle spalle le antiche contrapposizioni», perché oggi la battaglia per la legalità «è comune» e la posta in gioco è alta. O Don Vinicio Albanesi, fondatore della Comunità Capodarco, che non nasconde il male della Chiesa, «la pedofilia, Propaganda Fide» e Stefania Pezzopane che denuncia ancora una volta che niente va bene, che «mo basta», perché l’Aquila muore anche se la tv dice che il malato è in netta ripresa.
Repubblica 20.6.10
Fischi a Silvio, video e vuvuzelas così i "piddini" ritrovano l´orgoglio
In cinquemila al Palasport: "Siamo un gran bel partito"
di Alessandra Longo
ROMA - Risuonano le vuvuzelas sudafricane nell´enorme catino del Palalottomatica. I militanti del Pd se le sono portate dietro per sottolineare i passaggi clou di questa manifestazione contro la manovra. Da trombette da stadio si trasformano, per la prima volta, in «strumenti» di partito. Per sostenere la battaglia degli operai dell´Eutelia, ormai arrivati allo sciopero della fame, o per dare enfasi sonora a un Bersani lancia in resta che attacca il premier e la sua nota allergia per la Carta: «Se non gli piace la Costituzione vada pure a casa!».
Cinquemila militanti, certo non il Circo Massimo, arrivati con i pullman. Sondrio, Palermo, Imola, Bergamo, Catania... Un po´ di Cgil (c´è il futuro segretario generale Susanna Camusso in prima fila) e molta base, operai, studenti, insegnanti. Alla spicciolata arrivano i dirigenti: ecco Walter Veltroni, assediato da chi gli chiede come mai sia stato così tranchant con la Fiom e il caso Pomigliano (un caso, uno snodo, che qui tiene banco e crea anche dell´imbarazzo); ecco Piero Fassino che ha ancora fedelissimi che gli chiedono l´autografo, ecco Rosy Bindi, i capigruppo Franceschini e Finocchiaro, Livia Turco, Enrico Letta, il sindaco di Torino Chiamparino, il presidente della Conferenza Stato-Regioni, Errani. Assenti giustificati Franco Marini e Massimo D´Alema, tutti e due all´estero. Accanto ai big siede Stefania Pezzopane, aquilana, già presidente della Provincia, venerata come una reliquia (quando parlerà del «cinismo» di Berlusconi sul terremoto verrà giù la sala, tutti in piedi).
Un video-jukebox apre il raduno. Sullo schermo, la faccia truccata di Berlusconi. Parla della crisi gonfiata dai catastrofisti, dell´«amore che vince sempre». Fischia forte la platea. Seguono altri buuh per la Gelmini, Brunetta, Tremonti, immortalati dietro le loro scrivanie ministeriali. Jukebox goliardico, blob integrati dalle imitazioni dei fratelli Guzzanti e di Crozza. Risate. Non è un Pd depresso, non è un Pd ringhioso. Il vocabolario di Bersani è costruito per ribaltare l´immagine corrente, la vulgata della decadenza: «Noi siamo propositivi e ve lo dimostriamo. Sono loro che non hanno uno straccio di idea, di direzione di marcia. Noi abbiamo in testa un´altra Italia. Il partito che ho in mente ha mani, cuore, testa e piedi dentro la società». Loro il passato, noi il futuro. «Loro sono vecchi e senza coraggio – dice Errani – spingono il Paese all´indietro». La «rabbia da trasformare in energia», le «migliaia di feste di partito che diventeranno la nostra vetrina vivente», le «campagne d´estate e di autunno su democrazia e sociale», la «strategia per un´Europa federale»: è un Bersani in giornata sì che quasi impone il training autogeno alle sue truppe: «Siamo un gran bel partito, via...».
Un Pd che lascia parlare la base, che privilegia le storie. Va sul palco Mila Spicola, insegnante a Palermo (anni fa ebbe notorietà quando polemizzò sulla condizione femminile in Italia riassumendo così il concetto: «Il mio fondoschiena vale più di due lauree»). Racconta di come son ridotte le «scuole sgarrupate» del Sud, evoca vetri rotti, muffa sulle pareti, i suoi allievi difficili, figli di carcerati, dislessici, malati, che non hanno mai avuto il tempo pieno e nemmeno l´insegnante di sostegno. Invita Tremonti: «Ministro venga a Palermo nella mia scuola». Mila finisce tra gli applausi, Bersani l´abbraccia.
I numeri del massacro degli Enti Locali li danno Chiamparino e Errani: «Questa manovra ci taglia le ginocchia, incide sulla carne viva, non alzeremo mai bandiera bianca». Oscar Luigi Scalfaro appare in video, dietro un tavolo con le bandiere, la voce ferma, un appello ai cittadini: «E´ maturo il tempo di dire no». No ad una manovra ingiusta, no al lodo Alfano, no al bavaglio per magistrati e stampa.
Parlano l´operaio Tocci dell´Eutelia, un «poliziotto democratico», Giuseppe Tiani, che si sente preso in giro, parla Don Vinicio Albanesi, comunità di Capodarco, che invoca la lotta alla povertà «prima che muoiano tutti».E parla, con quella sua voce di attore, Fabrizio Gifuni. Difende la scuola, la cultura, come elementi fondanti della democrazia: «Ho paura di vivere in questo Paese perché sono tempi bui, opachi e molto, molto pericolosi. Il genocidio culturale, che temeva Pasolini, è già compiuto». Gifuni-Basaglia guarda la platea e si lascia andare: «Cari compagne e compagni. Vi chiamo così, è tanto che volevo dirlo...». Standing ovation della pancia Pd, qualche rigidità in prima fila. Bersani, alla fine, è contento: «Che bella manifestazione. Siamo un gran bel partito, via...».
l’Unità 20.6.10
«La scuola è la nostra identità, siamo noi»
Parla l’insegnante di Palermo che nel 2007 entrò in polemica con il Financial Times per l’eccesso di donne nude in Italia
di M.Ze.
È l’insegnante che tre anni fa fece aprire un dibattito andato avanti per settimane con una lettera che aveva un titolo fatto così: «Se il mio fondo schiena vale più di due lauree». Mica Spicola, insegnante di Palermo, porta qui, nel Palalottomatica, quel pezzo del paese che resta sempre più fuori dai media eppure riguarda la quotidianità di milioni di famiglie normali. Parole come pietre, dure, che fanno inumidire gli occhi quando racconta la Sicilia che lotta per mantenere i ragazzi a scuola, per dare il pasto ai figli delle famiglie più povere e spinge i figli dei ricchi a condividere con i loro compagni. «Chi glielo ha insegnato? chiede Noi glielo abbiamo insegnato». Quando finisce di parlare Bersani si alza e va ad abbracciarla a lungo. «Questi cialtroni hanno scambiato la scuola per un servizio, come la fila alla posta dice -, ma la scuola è nei primi dieci articoli della Costituzione, è la nostra identità, siamo noi. Voi protestate contro la legge bavaglio, ma a noi e ai vostri figli il bavaglio lo hanno messo con l’indifferenza», Cita la «Cecità» di Saramago, «quel male da cui sembrano affetti gli italiani». Dove è finita chiedela solidarietà economica politica e sociale?
il Fatto 20.6.10
La scuola chiude, la protesta continua
Le lezioni sono terminate, ma non le iniziative contro la “riforma”: 20 mila scrutini ritardati dallo sciopero indetto dai Cobas, 100 mila in piazza del Popolo sabato con la Cgil
di Marina Boscaino
Meno 8 mld alla scuola entro il 2011, meno 140 mila posti di lavoro tra docenti e Ata: è la Finanziaria 2008. Non paghi, in un successivo, improvvisato round, i nostri governanti hanno reso ancora più incerto il confine tra la necessità di riordinare i conti pubblici e la volontà di colpire una categoriadilavoratorie,conloro,un'istituzione del Welfare e il progetto che essa configura. Il blocco degli scatti di anzianità previsto dalla nuova manovra porterà ad una perdita sullo stipendio di 1.000 euro l'anno per un Ata, dai 2 mila ai 3 mila per un insegnante. Ci sono poi il mancato rinnovo del contratto e le conseguenze dei tagli sul trattamento pensionistico. Qualcosa non torna (o tutto torna): nel caldeggiare l'amena proposta di posticipare l’apertura delle scuole, Gelmini ci ha informati (come se non lo sapessimo) che i docenti da noi lavorano più che negli altri Paesi dove (dato Eurostat) le retribuzioni sono più alte. Si è trattato di un vero e proprio coup de théâtre: l'epica del fannullonismo (celebrata con Brunetta per giustificare i tagli) usava argomentazioni opposte. La nostra spesa pubblica per l’istruzione è scesa dal 10,3% del totale del ‘90 al 9,3% del 2008. In 84 scuole del Lazio (dati Asal), a fronte di un fabbisogno medio per il 2009 di 90.600 euro, il Miur ne ha erogati 36.800. -25% di finanziamento per pulizia e igiene; -55% in 3 anni per i corsi di recupero. Dai primi dati diffusi dal ministero, i non ammessi alla maturità del 2010 sarebbero circa 28.500, il 6,1% del totale degli studenti del totale, con un aumento dello 0,6% rispetto al 2009. Nelle classi intermedie le bocciature salgono dal 11,7% al 13,1%: all'insuccesso formativo si risponde con un taglio generalizzato di tempo scuola, materie e diritto allo studio. Il preside di un liceo di Putignano (Ba) ha chiesto, a ciascuna delle 127 famiglie dei maturandi, 145 euro per anticipare i compensi ai commissari, da anni a carico immediato delle scuole, poi rifuse dal ministero, che però ha intanto accumulato un debito globale di 1,5 mld con gli istituti. Il problema della sostituzione dei docenti assenti è assillante, dal momento che non ci sono soldi per le supplenze; il dato assume particolare drammaticità nella primaria, dove sono quotidiane le migrazioni di aula in aula (con violazioni continue dei parametri di gestione sicura degli spazi) e dove gli alunni non svolgono normali attività didattiche anche per molte ore. Su materiale di consumo e attrezzature delle scuola si verifica un sapiente, quotidiano esercizio di bricolage organizzativo. Le norme per la sicurezza negli istituti sembrano rappresentare un paternalistico suggerimento più che un vincolo obbligatorio cui attenersi con rigore e senso di responsabilità. Gelmini esordì dicendo che occorreva tagliare la maggiore fonte di spesa del ministero: il 98% è infatti destinato al personale. Nel frattempo si è data da fare per falcidiare anche altri capitoli di spesa. La politica di delegittimazione ai danni degli insegnanti si è riflessa in una sostanziale e generale indifferenza dell’opinione pubblica nei confronti della protesta e delle lotte di chi è mobilitato da lungo tempo. Ma, anziché essere fiaccata, la scuola consapevole continua, nonostante la conclusione dell'anno, la propria protesta: 20 mila scrutini ritardati dallo sciopero indetto dai Cobas (con relativa accusa da parte di Gelmini di “complotto contro il governo” perpetrato dai media non allineati e coperti, quelli che si ostinano a riportare i dati del dissenso); 100 mila in piazza del Popolo sabato con la Cgil. Qualcosa sta ulteriormente cambiando: i genitori vero e proprio incubo del governo promettono di non arrendersi al taglio di tempo pieno nelle nuove prime. Una scuola di maggiore qualità indubbiamente costa. Del resto disinvestire sulla cultura nei periodi di crisi è una scelta e non un dogma. “L'istruzione e la ricerca sono pilastri per la futura sostenibilità della nostra società”: così Merkel. La manovra quadriennale tedesca di 80 mld, che punta a ridurre il deficit di quel Paese dal 5 al 3% entro il 2013, salvaguarda 12 mld di investimenti pubblici in ricerca, sviluppo e istruzione. Non tutta l'Europa è Bel Paese.
il Fatto 20.6.10
L’Osservatore Romano: “Mente uncinata dalla banalizzazione del sacro” Storture e omissioni
Il Vaticano crocifigge Saramago
Anatema sgangherato contro lo scrittore morto venerdì: “Populista estremistico”
di Paolo Flores d’Arcais
José Saramago ha lasciato l’isola di Lanzarote. La sua salma è stata trasferita in Portogallo, dove dopo la camera ardente verrà cremata. Una parte delle ceneri ritornerà nell’isola e sarà sepolta ai piedi di un ulivo. Mentre le agenzie battevano queste notizie, ne aggiungevano un’altra: al grande scrittore scomparso arrivava uno straordinario riconoscimento, l’attacco forsennato del quotidiano della Santa Sede, l’Osservatore Romano, talmente invasato nella pulsione dell’anatema da dare spurgo a una prosa sgangherata e sbilenca. Ma la carità cristiana, si sa, messa in mano alla Chiesa gerarchica può fare miracoli. Gli uncini di Benedetto Evidentemente i suoi libri devono aver colto nel vivo, se il foglio del Papa sente il bisogno di sproloquiare che “uncinata com’è stata sempre la sua mente da una destabilizzante banalizzazione del sacro e da un materialismo libertario che quanto più avanzava negli anni tanto più si radicalizzava, Saramago non si fece mai mancare il sostegno di un semplicismo teologico sconfortante: se Dio è all’origine di tutto, Lui è la causa di ogni effetto e l’effetto di ogni causa”.
Prescindendo dalla struttura sintattica di conio prepotentemente tedesco, colpisce quella “sua mente” descritta come “uncinata”, per l’assonanza hitleriana che il lapsus evoca con gioventù assai diverse da quella del grande scrittore, a parte che in italiano “una mente uncinata da una banalizzazione” o lo scrive un genio del “pulp” o te la segnano in blu in qualsiasi ginnasio. L’autore, o traduttore, del cristiano necrologio, vuole dire che il cervello di Saramago era destabilizzato dalla banalizzazione del sacro (vulgo: che era un pazzo o un coglione) o che con tale banalizzazione, coniugata col suo materialismo libertario, destabilizzava la fede dei lettori? Perché in quest’ultimo caso sarebbe un elogio.
La teologia
Del resto “lo sconfortante semplicismo teologico” che gli viene imputato riassume solo nella splendida forma narrativa del Vangelo secondo Gesù e del più recente Caino le antinomie della teodicea delle quali, malgrado secoli di sottigliezze teologiche e alpinismo sugli specchi, i dottori della Chiesa non sono mai riusciti a venire a capo. L’“house organ” del presunto Vicario di Cristo in terra fulmina lo scrittore per essersela presa con “un Dio in cui non aveva mai creduto, per via della Sua onnipotenza, della Sua onniscienza, della Sua onniveggenza” ma dimentica la infinita bontà e/o giustizia che è la caratteristica di Dio incompatibile con l’onnipotenza, visti gli orrori di cui è albergo il “Suo” creato, incompatibilità da cui non ci si libera con il solito richiamo al passpartout del “mistero”, anzi delle “(di Dio) prerogative per così dire, che ben avrebbero potuto nascondere un mistero”. Segue il puro nonsense, razionalmente parlando, della conclusione: “Oltre che la divina infinità delle risposte per l’umana totalità delle domande”.
Quanto al Vangelo secondo Gesù quello che manda fuori dai gangheri L’Osservatore è che sia costruito utilizzando tutti i dati che la critica storica delle origini del cristianesimo considera da decenni acquisiti, da un Gesù che non si considerò mai il Cristo (eventualmente, per alcuni, al momento della croce) a una Maria di cui nulla sappiamo, se non che giudicava suo figlio “fuori di sé” (Marco, 3,21). E valorizzando tutte le contraddizioni della favola teologica realizzata nei secoli successivi, fino a Nicea e Calcedonia. Anti-logica
Ma la logica non è il forte del quotidiano vaticano e neppure il rispetto dei fatti, visto che come botta finale rimprovera al grande scrittore che “un populista estremistico come lui, che si era fatto carico del perchè del male nel mondo, avrebbe dovuto anzitutto investire del problema tutte le storte strutture umane, da storico-politiche a socio-economiche”: esattamente quello che Saramago ha fatto, con il suo impegno inesauribile “dalla parte degli ultimi”, dei poveri, degli emarginati, che a chi pretende di predicare il Vangelo tutte le domeniche qualcosa dovrebbe pur ricordare.
L’Osservatore Romano 19.6.10
È morto José Saramago
L'onnipotenza (presunta) del narratore
di Claudio Toscani
"Quello di cui la morte non potrà mai essere accusata è di aver dimenticato a tempo indeterminato nel mondo qualche vecchio, solo per invecchiare sempre di più, senza alcun merito o altro motivo visibile". Sia pure scomparso alla rispettabile età di 87 anni, di José Saramago non si potrà dire che il destino l'abbia tenuto in vita a tutti i costi, vedi la frase succitata, tolta dal romanzo Tutti i nomi, uscito in quel 1998 che lo vide provocatorio Nobel della letteratura.
"Saramago", cognome aggiunto all'anagrafico José Sousa, era nato nel 1922 ad Azinhaga in Portogallo, da una famiglia di contadini e braccianti. Trasferitosi a Lisbona nel 1924, qui aveva compiuto i suoi studi fino al diploma di tecnico meccanico. Non particolarmente complessa né movimentata, la sua vita veniva registrando vari lavori, tra cui l'editoria; un matrimonio nel 1944; un primo romanzo nel 1947 (Terra di peccato, che disconoscerà in sede di bibliografia ufficiale); l'iscrizione al Partito comunista nel 1969 e una militanza politica clandestina sino al 1974, quando la cosiddetta "rivoluzione dei garofani" (contro la dittatura di Caetano), ristabilisce le libertà democratiche. Cinquantacinque anni compiva Saramago al suo vero primo romanzo, Manuale di pittura e di calligrafia (1977), ma nel resto della sua vita recupererà il tempo andato imponendosi in decine e decine di opere che coerentemente convergono attorno a pochi cespiti conduttori: la Storia maiuscola in filigrana a quella del popolo; una struttura autoritaria totalmente sottomessa all'autore, più che alla voce narrante, non solo onnisciente ma anche onnipresente; una tecnica dialogica in tutto debitrice all'oralità; un intento inventivo che non si cura di celare con la fantasia l'impronta ideologica d'eterno marxista; un tono da inevitabile apocalisse il cui perturbante presagio intende celebrare il fallimento di un Creatore e della sua creazione. E, infine, una strategica modalità, tematica ed espressiva a un tempo, impegnata a rendere quel che lui stesso ha definito la "profondità della superficie": qualcosa che allude sia a quel poco che conosciamo del tanto che rivendichiamo alla ragione, ma anche quel tanto che strappiamo alla realtà di quel poco che la ragione ci permette. Chiamando a raccolta non molti ma primari maestri (da Kafka a Borges, da Eça de Queiros a Pessoa, da Antonio Vieira a Machado), Saramago diede da subito l'elenco degli artefici della sua formazione, collocandoli senza soluzione di continuità lungo un'onda di piena al cui estuario poneva la novecentesca inquietudine della letteratura, della storia, dell'arte, della politica e della religione, oltre che di se stesso. E per quel che riguardava la religione, uncinata com'è stata sempre la sua mente da una destabilizzante banalizzazione del sacro e da un materialismo libertario che quanto più avanzava negli anni tanto più si radicalizzava, Saramago non si fece mai mancare il sostegno di uno sconfortante semplicismo teologico: se Dio è all'origine di tutto, Lui è la causa di ogni effetto e l'effetto di ogni causa. Un populista estremistico come lui, che si era fatto carico del perché del male nel mondo, avrebbe dovuto anzitutto investire del problema tutte le storte strutture umane, da storico-politiche a socio-economiche, invece di saltare al per altro aborrito piano metafisico e incolpare, fin troppo comodamente e a parte ogni altra considerazione, un Dio in cui non aveva mai creduto, per via della Sua onnipotenza, della Sua onniscienza, della Sua onniveggenza. Prerogative, per così dire, che ben avrebbero potuto nascondere un mistero, oltre che la divina infinità delle risposte per l'umana totalità delle domande. Ma non per lui. Giunto tardi al romanzo, si era rifatto, come s'è detto, con una serie di narrazioni. Dal 1980 in poi, nella bibliografia dell'opera di Saramago, si transita da Memoriale del Convento a L'anno della morte di Ricardo Reis (1984), che torna alla storia del Portogallo nel 1936; da La zattera di pietra (1986), avventura ecologica e demoniaca che immagina la deriva della Spagna dell'oceano tra magico quotidiano, metafora politica e nuove soluzioni atlantiche, a Storia dell'assedio di Lisbona (1989), libro in cui un revisore editoriale, inserendo una particella negativa (un "non") in un saggio storico, dà a Saramago il destro per giocare a falsificare l'evento, più per gioco che per convinta ideologia. È il 1991 quando, inaugurando ciò che la critica ha chiamato il suo secondo tempo, lo scrittore pubblica Vangelo secondo Gesù, sfida alla memorie del cristianesimo di cui non si sa cosa salvare se, tra l'altro, Cristo è figlio di un Padre che imperturbato lo manda al sacrificio; che sembra intendersela con Satana più che con gli uomini; che sovrintende l'universo con potestà senza misericordia. E Cristo non sa nulla di Sé se non a un passo dalla croce; e Maria Gli è stata madre occasionale; e Lazzaro è lasciato nella tomba per non destinarlo a morte suppletiva. Irriverenza a parte, la sterilità logica, prima che teologica, di tali assunti narrativi, non produce la perseguita decostruzione ontologica, ma si ritorce in una faziosità dialettica di tale evidenza da vietargli ogni credibile scopo. Il secondo tempo di Saramago si diversifica poi con Cecità (1995), affresco apocalittico che denuncia la notte dell'etica in cui siamo sprofondati. Poi in campo esistenziale, sia con Tutti i nomi (1997), altra apocalisse dal pessimismo assoluto sospesa su una indifferenziata comunità di morti e di vivi, sia con Il racconto dell'isola sconosciuta (1998), parabola sull'uguaglianza dell'uomo tra gli uomini. In campo intellettuale, prima con La caverna (2000), che tra Kafka, Huxley e Orwell, dispiega un allarme meno disperato del solito e addirittura aperto alla speranza; poi, con L'uomo duplicato (2003), dove colui che si scopre identico a una comparsa televisiva finisce per smarrirsi in un garbuglio fattuale, psichico e spirituale. Avvicinandosi alla fine, Saramago ci ha lasciato un "testamentario" Saggio sulla lucidità (del 2004), critica al funzionamento, se non alla funzionalità, delle odierne democrazie, contro le quali l'autore auspica una schiacciante maggioranza di "schede bianche", la più invisa espressione di volontà politica per un potere che solo così dovrebbe deflagrare. Poi, un "giocoso" Don Giovanni o il dissoluto assolto (del 2005), ossia il ritratto di un onore sociale offeso, giacché al grande amatore non riesce, nel testo, ciò per cui è da sempre famoso. Fertile, comunque, la discesa creativa degli anni appena precedenti la scomparsa: dall'itinerante carovana di Il viaggio dell'elefante (2009), pittoresco, umoristico e "peripatetico", all'inaccettabile Caino (2010), romanzo-saggio sull'ingiustizia di Dio, parodiante antilettura biblica, per non dire di altri titoli che andrebbero segnalati, a onor del vero, ma quasi sempre per polemica o pretesto. Saramago è stato dunque un uomo e un intellettuale di nessuna ammissione metafisica, fino all'ultimo inchiodato in una sua pervicace fiducia nel materialismo storico, alias marxismo. Lucidamente autocollocatosi dalla parte della zizzania nell'evangelico campo di grano, si dichiarava insonne al solo pensiero delle crociate, o dell'inquisizione, dimenticando il ricordo dei gulag, delle "purghe", dei genocidi, dei samizdat culturali e religiosi.
http://www.vatican.va/news_services/or/or_quo/text.html#12
l’Unità 20.6.10
La fiaccolata dei favorevoli all’intesa è un fiasco per le speranze di Marchionne
Solo la Fim presente Le altre sigle si sfilano all’ultimo momento. A sventolare le bandiere del Pdl
Pomigliano, un flop totale il corteo contro i diritti
Cinquemila persone secondo un comunicato della questura, in realtà non più di 1.500: la fiaccolata dei “colletti bianchi” favorevoli all’accordo sullo stabilimento di Pomigliano si è rivelata un insuccesso.
di Massimiliano Amato
«Spero che stavolta vada diversamente rispetto al 1980, quando la marcia dei quarantamila portò al massacro del sindacato». Per la serie: fratture di senso. La vicenda Pomigliano ne produce in serie, bisogna abituarsi. Si è già adeguato Michele Liberti, segretario della Fim, che arriva al cancello 2 e si guarda intorno, un po’ intimorito. La sua è l’unica sigla presente alla fiaccolata dei capi del “Vico”: all’ultimo momento si sfila la Uilm, mentre gli iscritti Fismic e Ugl partecipano a titolo personale. Un cortese “no, grazie” arrivato anche dall’arcivescovo di Nola, Beniamino Depalma. In compenso, abbondano le bandiere del Pdl, che vengono ritirate durante la marcia. In testa al serpentone, il presidente della Provincia Luigi Cesaro, che dispensa vigorose strette di mano e baci e ribattezza «Melchionne» l’ad Fiat, e Lello Russo, il sindaco di Pomigliano.
In mattinata, avevano dato vita ad un happening sotto un gazebo del Pdl, alla presenza di tutto lo stato maggiore della destra campana: Nicola Cosentino, Mario Landolfi, Paolo Russo, l’assessore regionale Ermanno Russo. Circostanza, questa,
che manda in bestia Michele Gravano, segretario della Cgil Campania, uno che si è preso gli insulti dei falchi della Fiom per aver invitato i lavoratori a votare sì al referendum del 22: «No alle strumentalizzazioni della politica dice -, no alle crociate: ben altro è il ruolo che spetta alle istituzioni. La scarsissima partecipazione al corteo e la mobilitazione di partito dimostrano che l'iniziativa è stata un errore».
FRATTURE DI SENSO
Un flop? Dipende dai punti di vista: i capi, che sostengono di aver preso la decisione di sfilare in piena autonomia, «durante un brain storming» (testuale) nella sala del reparto qualità, si aspettavano almeno 2000-2500 presenze, fonti della Questura ne certificano 5000 ma, fatta la tara, non si è andati oltre le 1500 unità. In testa al corteo, uno striscione: “Sì all’accordo, sì al nostro futuro». Dietro, la nuova generazione di capi (sono 450 in tutto), gente che è entrata in fabbrica in massa nel 1989, vittima inconsapevole della seconda grande frattura di senso. «Assenteismo a Pomigliano? Assolutamente nella media degli altri siti», ammette Benedetto Tramontano, che negli ultimi anni ha girato come una trottola: Polonia, Brasile, Turchia, Argentina.
«C’è una generazione di operai più responsabile rincara Umberto Garofalo -, solo che è giunto il momento di lavorare in condizioni più normali». Cioé? «Senza pressioni della politica e del sindacato», si lascia scappare Giuseppe La Cava. “La Panda è il nostro futuro e la nostra speranza”, recita uno striscione. Lo inalberano 88 precari buttati fuori senza riguardi il 31 dicembre scorso. «Presidieremo lo stabilimento notte e giorno fino al referendum: ci aspettiamo una valanga di sì». Un’altra frattura di senso. E per oggi può bastare.
Repubblica 20.6.10
A Pomigliano comincia l’epoca dopo Cristo
di Eugenio Scalfari
TRA le tante dichiarazioni fatte da Marchionne in questi giorni ce n´è una che è d´una chiarezza disarmante ed anche sconcertante: «Io vivo nell´epoca dopo Cristo; tutto ciò che è avvenuto prima di Cristo non mi riguarda e non mi interessa».
Il dopo Cristo per l´amministratore delegato della Fiat comincia evidentemente con la globalizzazione della finanza, delle merci e del lavoro. È un´epoca che ha accentuato e radicalizzato la legge dei vasi comunicanti.
Le grandezze economiche, come ovviamente per i liquidi, tendono a raggiungere lo stesso livello. Si livellano i rendimenti del capitale, i rapporti tra benessere e povertà, la produttività del lavoro e, naturalmente i salari.
I salari dei Paesi emergenti sono ancora molto bassi; dovranno gradualmente aumentare ma lo faranno lentamente. I livelli dei salari nei paesi opulenti e di antica civiltà industriale sono molto alti, ma tenderanno a diminuire e questo fenomeno avverrà invece con notevole rapidità per consentire alle imprese manifatturiere di vendere le loro merci sui mercati mondiali a prezzi competitivi.
In questo schema già operante va collocata la vicenda di Pomigliano. Se la Fiat trasferisce la produzione di uno dei suo modelli da una fabbrica dove i salari e le condizioni del lavoro sono più favorevoli al capitale investito ad una fabbrica dove sono invece più sfavorevoli, il trasferimento potrà farsi soltanto se le condizioni tenderanno a livellarsi, oppure non si farà.
Questo è il dopo Cristo di Marchionne; non si tratta di ricatto ma di dati di fatto e con i dati di fatto è inutile polemizzare.
I sindacati che hanno firmato l´accordo proposto dalla Fiat ritengono che si tratti d´un evento eccezionale e non più ripetibile. La stessa posizione l´hanno fatta propria molte delle parti interessate alla vicenda di Pomigliano, compresa una parte dell´opposizione parlamentare: passi per Pomigliano purché non si ripeta.
Errore. La legge dei vasi comunicanti ha carattere generale e quindi il livellamento salariale e delle condizioni di lavoro si ripeterà. Molte imprese in difficoltà, specialmente nel Nordest, nelle Marche, in Puglia e in tutto il Mezzogiorno, metteranno i loro dipendenti di fronte allo stesso dilemma che riguarda per ora i 5000 dipendenti Fiat di Pomigliano. Dichiareranno che in caso di risposta negativa saranno costrette a de-localizzare la produzione in siti più convenienti. Pomigliano cioè è l´apripista d´un movimento generale e non sarà né la Fiom né Bonanni che potrà fermarlo.
Chi pensa di fermare l´alta marea costruendo un muro che blocchi l´oceano non ha capito niente di quanto sta avvenendo nel mondo. Nello stesso modo non ha capito niente chi ritiene di bloccare la massa di migranti che abbandona i luoghi della povertà e preme per fare ingresso nei luoghi dell´opulenza. Quel tipo di muri può reggere qualche mese o qualche anno ma poi si sbriciolerà e il livellamento procederà.
Allora non si può far niente? Bisogna rassegnarsi al livellamento verso il basso del benessere delle zone ricche del mondo?
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Qualche cosa si può e si deve fare. Ma occorre molta lucidità e molto coraggio. I Paesi opulenti, al loro interno, non sono affatto livellati per quanto riguarda la diffusione del benessere. Ci sono, nelle zone ricche del mondo, sacche di povertà impressionanti e diseguaglianze mai verificatesi prima con questa intensità. Voglio dire che la legge dei vasi comunicanti deve entrare in funzione dovunque e spetta alla politica rimuovere gli impedimenti che la bloccano.Perciò i sindacati e le forze di opposizione debbono spostare l´obiettivo. Le categorie svantaggiate e costrette a rinunciare ad una parte delle conquiste raggiunte nell´epoca «prima di Cristo» debbono recuperarle su altri piani e in altre forme nell´epoca del «dopo Cristo». Debbono cioè impostare un piano globale di redistribuzione del reddito da chi più ha a chi meno ha.
Lo spostamento può avvenire in vari modi, manovrando soprattutto il fisco (ma non soltanto); sgravando il peso fiscale sui redditi di lavoro dipendente e sulle famiglie e finanziando la redistribuzione con maggior carico tributario sulle rendite, sui patrimoni e sui consumi opulenti.
Un piano di questo genere non può essere considerato un progetto dettato dall´emergenza poiché non di emergenza si tratta, bensì di un movimento, appunto, epocale. E per gestire un progetto del genere è necessario ripristinare quel metodo della concertazione tra le parti sociali e il governo che diede ottimi frutti tra il 1993 e il 2007, consentendo di abbattere l´inflazione, far scendere i rendimenti dei titoli pubblici e il disavanzo delle partite correnti.
Ci vuole insomma una politica a lungo raggio che rafforzi la coesione sociale, diminuisca le diseguaglianze, renda sopportabile il livellamento delle condizioni di lavoro compensando quei sacrifici con agevolazioni massicce anche in tema di servizi pubblici efficienti e gratuiti, finanziati da chi possiede mezzi in abbondanza.
Questa è a nostro avviso la linea da seguire, «buscando el levante por el ponente», cioè mettendo a carico della società opulenta una parte dei sacrifici che la guerra tra poveri scarica sui deboli di casa nostra.
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C´è un filo diretto che lega queste riflessioni suscitate da quanto sta accadendo a Pomigliano con la politica deflazionistica imboccata dall´Eurozona sotto la guida della Germania. Questa politica, sulla quale ci siamo intrattenuti varie volte, arriverà domani all´esame del G8 e del G20 appositamente convocati.Il presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, ha lanciato un messaggio ai capi di Stato dell´Eurozona affinché affianchino alla manovra di stabilizzazione dei rispettivi debiti una politica che sostenga i redditi e la crescita. Un secondo l´ha lanciato alla Cina affinché proceda ad una rivalutazione della propria moneta rispetto al dollaro per accrescere le importazioni e per tale via sostenga la domanda globale.
La Cina ha già risposto positivamente; l´Europa e la Germania finora sembrano voler persistere nella politica di deflazione. Questa posizione è semplicemente insensata.
Dal canto suo il segretario generale dell´Onu, Ban Ki Moon, ha posto ieri ai paesi dell´Eurozona le seguenti domande: «Il mondo intero è destinato a sprofondare a causa dei problemi dell´Eurozona in una recessione che rischia di essere recidiva? Può la ripresa dei mercati emergenti bilanciare i cali che si verificano altrove? Stiamo finalmente emergendo come i sopravvissuti a un uragano, per valutare l´entità del danno e i bisogni dei nostri vicini? Oppure ci troviamo piuttosto nell´occhio del ciclone?» (La Stampa del 19 scorso).
Non si può esser più chiari di così. E anche qui il tema si risolve attraverso un grande programma di redistribuzione delle risorse tra paesi e tra classi all´interno dei paesi. Non c´è altro mezzo per equilibrare libertà ed eguaglianza, la necessaria crudeltà della libera concorrenza e la coesione sociale che si proponga il bene comune.
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Su questi argomenti di capitale importanza il governo italiano tace, la sua afasia è totale. Tiene invece banco la modifica costituzionale dell´articolo 41 della nostra Costituzione.Quell´articolo, che fu voluto da Luigi Einaudi e da Taviani, proclama la piena libertà di impresa purché non crei danni sociali. Questa dizione non piace a Berlusconi e a Tremonti. Di qui la proposta di modificarla sostituendola con la libertà totale, anche nel settore delle costruzioni e dell´urbanistica, in modo che si aggiungerà scempio a scempio nel paese dell´abusivismo di massa.
Snellire le procedure burocratiche è un obiettivo sacrosanto, più volte preannunciato e finora mai attuato. Si può e si deve fare con provvedimenti di ordinaria amministrazione. Mettere in Costituzione l´abolizione di ogni regola rinviando i controlli ad una fase successiva è semplicemente una bestemmia costituzionale che svela l´intento di stravolgere l´architettura democratica del patto sociale.
Eguale chiacchiericcio del tutto inutile lo ritroviamo nella proposta italiana all´Unione europea di valutare i debiti pubblici aggiungendo ad essi la consistenza dei debiti privati. La Commissione di Bruxelles ha accolto la proposta: non costa nulla e il nostro governo l´ha sbandierata come un grande successo. Nessuno ha fatto osservare che il debito pubblico è la sola grandezza che determina il fabbisogno, gli oneri da pagare e il disavanzo che ne risulta.
Siamo ancora tutti nell´occhio del ciclone e il nostro governo inganna il tempo con annunci inutili che servono soltanto a gettar fumo negli occhi degli sprovveduti.
il Fatto 20.6.10
Poggioreale, benvenuti all’inferno
di Silvia D’Onghia
A guardarlo da fuori, il carcere di Poggioreale, sembra un enorme cane che si morde la coda. Immobile, appesantito, malandato all’esterno; sovraffollato, caotico, in perenne tensione all’interno. In realtà è una bomba pronta ad esplodere, forse la prima di quella che si annuncia essere un’estate ad altissimo rischio rivolte in tutta Italia. Ieri il Fatto ha pubblicato la lettera inviata a Radio Radicale da 650 detenuti anonimi dell’istituto partenopeo, in cui si denunciano maltrattamenti, lunghi tempi di attesa per le cure, colloqui più brevi del previsto, e in generale un atteggiamento intimidatorio da parte della polizia penitenziaria.
I numeri dell’inciviltà
Per capire cosa accade a Poggioreale bisogna partire dai numeri: i detenuti sono 2780, a fronte di una capienza massima di 1400 posti. Il doppio. Ci sono celle in cui vivono per 22 ore al giorno otto persone, spesso costrette ad arrampicarsi fino al terzo piano del letto a castello per poter dormire. L’organico di polizia è di 720 unità, con una scopertura del 25 per cento secondo i sindacati. Rapporto numerico che fa venire i brividi se si pensa che, di notte, ci sono appena 35 agenti per tutti i 2780 detenuti. “Tenendo conto che, tra i poliziotti, ci sono anche gli addetti alla portineria e all’ufficio matricole, arriviamo ad avere un rapporto di uno a 300 – spiega Eugenio Sarno, segretario generale della Uilpa penitenziari – In queste condizioni, purtroppo, gli interventi sono spesso tardivi. Per esempio, se io ho la fortuna di sentire uno sgabello che cade, il chiaro segnale di un suicidio, significa che sono lì vicino e posso correre e magari, dopo aver aperto qualche porta, riesco a salvare una vita. Ma se non lo sento, non ci sono speranze. Questo dai detenuti è letto come un ingiustificato allungamento dei tempi di soccorso”.
Le persone che hanno scritto la lettera hanno raccontato anche un episodio avvenuto l’11 giugno: un detenuto malato di cuore si è sentito male dopo i colloqui, mentre era stipato con altri 39 in una stanza di 10 metri quadri. Secondo il racconto dei suoi compagni, più volte e inutilmente sarebbero stati chiamati i soccorsi, fino a quando l’uomo ha cominciato a sbattere la testa contro la cella, provocandosi delle lesioni. “Se un agente, che porta mazzi di chiavi da tre chili, deve attraversare sette porte, non possono permettersi di dire che non voleva intervenire. Il fatto che la lettera sia arrivata a Radio Radicale significa poi che non c’è censura né filtro, come invece a volte viene detto”.
Più che un istituto per la rieducazione degli individui sembra il campo di battaglia di una guerra tra poveri. “In tutto il carcere ci sono appena 14 educatori – denuncia Dario Dell’Aquila, portavoce dell’associazione Antigone a Napoli – I due terzi circa dei detenuti sono in attesa di giudizio, ogni giorno entrano moltissime persone, che poi magari vengono subito trasferite”. Esistono problemi igienici, così come è grave l’assistenza sanitaria: “In alcuni reparti c’è una doccia nel piano e non all’interno di ogni cella – prosegue Dell’Aquila – questo significa che ci si lava una volta alla settimana. Va peggio a chi deve sottoporsi ad una visita specialistica, che spesso deve aspettare troppo tempo”.
Poggioreale ha una popolazione detenuta un po’ differente dagli altri istituti italiani: gli stranieri, secondo Antigone, sono soltanto il 15 per cento del totale (contro il 30 della media nazionale); quasi tutti invece sono cittadini campani, che sono dentro magari per piccolo spaccio o per il furto d’auto.
Parenti e proteste
Esiste poi un enorme problema per i colloqui con i familiari, proprio come denunciano i detenuti. Chi ha voglia di farsi un giro, troverà già all’alba decine di persone in fila per entrare in carcere. “Ci avviamo però alla fine dell’indecenza – spiega Sarno – il dipartimento ha finanziato con un milione e 400 mila euro la realizzazione di una nuova area per i colloqui. La gara si sta svolgendo in questi giorni e forse già fra un anno avremo una situazione diversa: tutto sarà informatizzato, anche le registrazioni. Questo porterà a uno snellimento dei tempi e ad una maggiore sicurezza, per esempio rispetto a quello che entra in carcere”. Sarno teme che la lettera dei detenuti, “come storicamente è avvenuto”, preluda a una rivolta, magari proprio contro quella maggiore sicurezza. Ipotesi che le associazioni rimandano al mittente. “Si continua a mandare dentro la gente pensando che il carcere significhi sicurezza, ma è esattamente il contrario”, commenta amareggiata Ornella Favero di Ristretti Orizzonti.
L’estate in carcere è ancora più calda. “A Padova non hanno neanche più i materassi”, prosegue Favero; a Genova da sei giorni ci sono proteste ininterrotte, fa sapere la Uilpa. All’Ucciardone (Palermo) i detenuti della settima sezione fanno una colletta per ristrutturare i bagni.
In questa polveriera il piano carceri del ministro Alfano non esiste più: non c’è neanche più la copertura economica per assumere duemila agenti in più della polizia penitenziaria, figuriamoci se si trovano i soldi per costruire 47 nuovi padiglioni entro la fine dell’anno. I 68 mila detenuti non interessano a nessuno e, soprattutto, non hanno ancora cominciato a fare paura.
il Fatto 20.6.10
Nel mondo si celebra la Giornata del Rifugiato In Italia il governo brinda ai respingimenti
Dimezzate le domande di asilo: nel 2008 ne erano state presentate 30 mila, nel 2009 sono scese a 17 mila
di Corrado Giustiniani
Per il mondo è la Giornata del Rifugiato. Ma in Italia quella che si celebra oggi andrebbe forse ribattezzata come giornata della vergogna. La politica dei respingimenti in mare, inaugurata dal governo Berlusconi nel maggio del 2009, ricaccia indietro non soltanto migranti per lavoro, ma anche, e sempre più, persone che fuggono dalla guerra e dalle persecuzioni. Il crollo delle domande di asilo politico è una prova schiacciante: nel 2008 ne erano state presentate 30 mila 492, nel 2009 sono scese a 17 mila 603. Quasi un dimezzamento. E molti di coloro che invocano una protezione internazionale arrivano proprio con i gommoni e le vecchie carrette. Il 75 per cento di coloro che nel 2008 sono sbarcati in Sicilia, ha infatti chiesto asilo alle autorità italiane, e ben il 50 per cento alla fine ha ottenuto una forma di protezione. “Questo, alla fine di accuratissime audizioni individuali – assicura Laura Boldrini, portavoce in Italia dell'Unhcr, l'Alto commissariato dell'Onu per i rifugiati – Le commissioni sono infatti molto rigorose, e hanno dentro il prefetto, un funzionario di polizia, un rappresentante dell'Associazione comuni d'Italia e uno dell'Onu”.
Mentre in Italia le domande d'asilo calano del 43 per cento, in Francia sono aumentate del 20 e in Germania del 25 per cento. Ma non sarà che in Italia ci sono già troppi rifugiati? Neanche questo è vero: 55 mila in tutto, rispetto ai 200 mila della Francia, ai quasi 300 mila del Regno Unito, ai 600 mila della Germania. Non è vero, in ogni caso, che i rifugiati invadano i paesi industrializzati: secondo i dati dell'Unhcr ve ne sono 43 milioni al mondo, e l'80 per cento di loro vive nei paesi in via di sviluppo.
E che ne facciamo, noi, dei tanti respinti in mare? Li affidiamo ai centri di raccolta della Libia, che non aderisce alla Convenzione di Ginevra del 1951, incentrata proprio sul principio del non respingimento dei rifugiati. Gheddafi, due settimane fa, ha imposto all'Onu di chiudere i suoi uffici. Prima gli ufficiali delle Nazioni Unite erano tollerati, anche se non potevano vedere tutto. Qualche ottimista pensava che la recente visita di Berlusconi al colonnello servisse proprio a favorire un ripensamento, vista la pessima figura che anche di riflesso l'Italia sta facendo. Ma nulla è emerso che potesse autorizzare una simile speranza. Solo l'orgoglio del ministro dell'Interno Roberto Maroni, perché il centro di Lampedusa, oggi è totalmente vuoto.
“Siamo persone in fuga, che abbiamo abbandonato tutto, in cerca di una terra dove poter almeno dormire senza spari, accontentandoci di sopravvivere” racconta Katirisa Kahindo, scappata 13 anni fa dal Congo, che non dimentica quelle madri che nel suo paese avevano manifestato perché i loro figli erano scomparsi, e per tutta risposta vennero sepolte vive. Katirisa sta cercando di impiantare un'attività economica di raccolta di scarpe usate, per spedirle nel suo paese (chi vuole aiutarla la contatti a www.barazavenir.it) e nello stesso tempo ha dato vita all'associazione Nasce-Rinasce, per dare dignità e visibilità a tante donne del suo paese. La vergogna italiana non sta soltanto nei respingimenti, ma anche nel non garantire l'integrazione dei rifugiati, una volta accolta la loro domanda. L'atto di accusa è stato lanciato da Laurens Jolles, l'olandese delegato per il Sud Europa dell'Unhcr: “In città come Roma, Milano, Torino, Firenze, Bari, Napoli e Palermo – ha detto – rifugiati somali, eritrei, afghani sono spesso costretti a vivere senza una fissa dimora, trovando un riparo in edifici occupati abusivamente”. La politica dell'accoglienza non funziona. “A volte – ha aggiunto Jolles – non ottengono l'iscrizione anagrafica, restando quindi esclusi dall'accesso a servizi pubblici essenziali”.
Clamoroso il caso di Roma, dove i Medici per i diritti umani (Medu) hanno chiesto a Comune e Regione di intervenire immediatamente in soccorso di cento profughi afghani, costretti a vivere “in condizioni disastrose” nei pressi della stazione Ostiense. È stata chiusa l'unica fontanella che avevano a disposizione, dormono in tende, senza alcun servizio igienico a disposizione e fra di loro ci sono diversi bambini. “Siamo al di sotto degli standard di qualsiasi paese del mondo” accusa il Medu, osservando che ci dovrebbe essere un servizio igienico almeno ogni venti persone. Ma non vanno meglio le cose a Bologna, dove molti rifugiati sono diventati homeless, e dove ad alcuni la questura avrebbe consigliato di cambiare status per ottenere il permesso di soggiorno, col risultato che, perso il lavoro, dopo sei mesi diventano espellibili. Molti rifugiati hanno cercato di lasciare l'Italia per trovare fortuna in altri paesi europei, ma sono stati rispediti qui da noi, perché il regolamento “Dublino II” prevede che debbano fermarsi nel primo paese in cui hanno fatto domanda. Tante iniziative a favore dei rifugiati si stanno svolgendo in varie parti del paese. Notevole, in particolare, l'impegno dell'Arci che ha organizzato speaker's corners, angoli di dibattito, in venti città italiane, lanciando anche il numero verde per i rifugiati 800 90 55 70.