lunedì 21 giugno 2010

l’Unità 21.6.10
Dopo la manifestazione di Roma contro la manovra, nel partito si apre una nuova fase
Le piccole schermaglie non cancellano il plauso raccolto dal discorso del segretario Bersani
Il day after del Palalottomatica L’entusiasmo della base Pd
di Maria Zegarelli

Il giorno dopo il Palalottomatica Bersani insiste: «Mani cuore e cervello nei problemi della gente». Penati: «Con il suo intervento di ieri ha colto nel segno. Questa manovra non piace a nessuno».

Basta con le polemiche interne, «il paese ha bisogno di noi» ragion per cui il Pd deve mettere «mani, cuore e cervello» nei problemi della gente e riannodare i fili con la società. Pier Luigi Bersani sente che il cambio di passo è segnato, che si è usciti dal dibattito tutto interno al Pd, è convinto che adesso la priorità sia «trasformare la rabbia» che c’è nel Paese e in tanti cittadini delusi e sfiancati «in energia positiva». Ma sa anche che nel Pd la polemica è sempre dietro l’angolo, per questo il giorno dopo la manifestazione di Roma, non replica ai mal di pancia che pure si registrano in qualche democratico.
Beppe Fioroni, per esempio, era poco convinto della manifestazione contro la manovra e poco ha gradito gli accenti troppo «di sinistra», mentre in diversi hanno provato fastidio per quel «compagni e compagne» pronunciato dall’attore Gifuni. C’è anche chi ha notato tra gli assenti Franco Marini insi-
nuando prese di distanza, ma il presidente era in Finlandia, come hanno fatto sapere i suoi collaboratori, da dove è rientrato soltanto ieri pomeriggio.
L’ENTUSIASMO DI FACEBOOK
Su Facebook, intanto, l’entusiasmo per questa nuova linea del partito è alle stelle, «era ora», «finalmente Pier Luigi incomincia a sparare a zero, meglio tardi che mai».
«Ieri Bersani ha colpito nel segno dimostrando che si tratta di una manovra sbagliata e dannosa che non risolve i problemi del paese e non lo aiuta a ripartire dice Filippo Penati, capo della segreteria politica -. Non piace veramente a nessuno, tanto che neanche Berlusconi la difende preferendo attaccare l'opposizione per distogliere l’attenzione e fare un appello all’unità della sua maggioranza». Un messaggio «forte e chiaro» quello partito dal Palalottomatica, secondo Maria Pia Garavaglia:«Il Pd è una realtà viva di questo Paese che può dare un grande contributo a farlo uscire dalla crisi. Siamo in un’epoca post-industriale e molto dipenderà dalla capacità di leadership di Bersani di saper fare fronte alle sfide che in questa era si aprono». L’imprenditore Diego Della Valle, infine, si dice d’accordo con la proposta del segretario di chiederedipiùachiadipiù.
Critiche da Rodolfo Viola che, se apprezza «la voglia di fare proposte concrete e alternative per il Paese», annota che nessuna di queste parli a al mondo delle partite Iva o dei “piccoli”. Il Pd, dice Viola, deve decidere se «professionisti, artigiani, commercianti fanno parte dei complessi interessi sociali che devono essere valorizzati e tutelati».

Repubblica 21.6.10
La Sinistra ritrovi se stessa
di Marc Lazar

Il Pd ha organizzato una grande manifestazione per protestare contro una «manovra ingiusta e sbagliata», per criticare il governo e proporre le sue soluzioni economiche e sociali.
Il Pd assolve alla sua funzione di partito d´opposizione in una democrazia, come anche quando denuncia con forza, insieme ad altre formazioni, la «legge bavaglio». Con questa iniziativa, la direzione del Pd persegue anche altri obbiettivi: mobilitare i suoi iscritti per dare un senso e uno scopo alle loro azioni quotidiane, compattare le diverse sensibilità del partito, che hanno semmai la tendenza a litigare fra loro, rivolgersi ai cittadini mostrando determinazione e convincendoli della serietà delle proprie proposte. Quanto al segretario, Bersani, si sforza attraverso questa iniziativa di affermare la sua autorità all´interno del partito e costruire la sua reputazione di principale oppositore del presidente del Consiglio.
Ma questa manifestazione non può mascherare l´anemia politica e culturale del Pd. In un momento in cui la crisi obbliga i grandi partiti politici a uno sforzo d´immaginazione per rispondere ai dubbi dei cittadini, questa anemia spiega in parte la scarsa credibilità politica, i risultati elettorali negativi e il basso livello nei sondaggi del Pd. Quaranta o cinquant´anni fa, le sinistre italiane erano più o meno impotenti sul piano politico, ma avevano un´enorme e variegata creatività culturale, grazie agli scambi, difficili ma intensi, tra intellettuali, partiti e sindacati. Era così al Pci, con la rete degli Istituti Gramsci, e anche al Psi, in particolare negli anni 60 e 70 intorno alla rivista Mondo operaio, che polemizzava con i comunisti contribuendo a intaccare la loro egemonia culturale sulla sinistra. Diverse personalità esercitarono una forte influenza, come ad esempio Norberto Bobbio, Lelio Basso, Vittorio Foa, Bruno Trentin ecc. Le analisi delle mutazioni del capitalismo, della classe operaia, del lavoro, dell´Unione Sovietica, del socialismo, del sindacalismo o della democrazia spesso divergevano, ma alimentavano il dibattito. Oggi in gran parte quelle analisi sono superate (tranne Bobbio). L´inerzia attuale del dibattito all´interno della sinistra italiana ha diverse spiegazioni. La tradizione socialista è stata progressivamente dissipata a partire dagli anni 80, con il Psi che ha dimenticato il lavoro realizzato nel decennio precedente dagli intellettuali a lui vicini sul riformismo, la socialdemocrazia, la modernizzazione dell´Italia o il totalitarismo comunista. Quando il partito è scomparso, negli anni 90, si è trascinato dietro gran parte della tradizione intellettuale socialista o l´ha tendenzialmente, e ingiustamente, screditata. La trasformazione del Pci nel Pds, poi nei Ds e infine nel Pd ha fatto precipitare il gruppo che l´ha pilotata in un dilemma: proclamarsi fieri di essere stati comunisti comporta un prezzo in termini elettorali, ma rinnegare le proprie convinzioni precedenti è difficilmente sostenibile. Divisi al riguardo, gli ex comunisti non sanno più bene che cosa fare della propria storia e della propria tradizione. L´ascesa in politica di Berlusconi ha polarizzato tutta l´attenzione e le energie della sinistra. La conseguenza è che i dibattiti che la attraversano ruotano intorno a tematiche essenzialmente politiche: scongiurare i pericoli per la democrazia (ma senza riuscire, nelle due occasioni in cui il centrosinistra è stato al potere, a mettere a punto una legge sul conflitto d´interessi), trovare un sistema elettorale adeguato, rifiutare le riforme istituzionali proposte dal presidente del Consiglio, che rischierebbero di rafforzare il potere esecutivo, e proporne altre. E la creazione del Pd nel 2007 invece di incoraggiare il dibattito ha contribuito paradossalmente a soffocarlo.
Il Pd ambiva a rappresentare un crogiolo delle sue varie componenti, quelle provenienti dal Pci, dal Psi e dalla Dc, senza trascurare l´ingrediente ecologista. Questo melting pot è fallito. Oltre alle rivalità personali, ai confronti fra diverse sensibilità, alle enormi difficoltà generate dalla fusione degli apparati di partito e dalla delicata spartizione dei posti, il Pd, per tenere insieme i diversi iscritti e definire la propria identità, ha scelto il minimo denominatore comune. Il risultato è stato un partito senza leader forte, dalla strategia tentennante, caratterizzato da un basso profilo e che fatica a nascondere un abissale vuoto culturale. Su tutti gli argomenti scottanti, economici, politici e sociali (in particolare la bioetica e la laicità), il partito si sforza innanzitutto di non collassare sotto il peso delle sue divergenze.
Certo, le varie sensibilità hanno i loro intellettuali e i loro esperti, anche di altissimo livello (basti pensare a Michele Salvati), che lavorano nelle fondazioni, come la Fondazione democratica o Italianieuropei. Ma generalmente queste fondazioni, pur lasciando libertà ai propri membri, sono al servizio innanzitutto di un leader, nel primo caso Veltroni e nel secondo D´Alema. Questo significa che non contribuiscono minimamente all´elaborazione collettiva di una cultura di partito. Obnubilato dal comportamento da adottare riguardo a Silvio Berlusconi, oscillante tra un´opposizione intransigente e la ricerca del compromesso, il Pd ha poco da dire sulle mutazioni della società italiana, sull´Europa e sulla globalizzazione.
Il suo deficit di elaborazione culturale paralizza il resto della sinistra. Al di fuori del Pd ci sono numerose riviste di centrosinistra espressione di tradizioni e generazioni diverse. Ma – e questo forse è uno degli elementi nuovi -, le loro produzioni, le loro polemiche e i cantieri che esplorano sembrano riuscire minimamente a influenzare il dibattito del Pd, e ancor meno il suo orientamento politico. La circolazione tradizionale fra partito e intellettuali è entrata più o meno in corto circuito, con i due mondi, quello dei politici e quello degli intellettuali, che conducono vite parallele, si ignorano quando addirittura non si criticano a vicenda, anche se tutto questo non impedisce che occasionalmente ci siano dei punti d´incontro o una strumentalizzazione degli intellettuali da parte dei politici. Il risultato è che la sinistra italiana oggi non rappresenta più una fonte d´ispirazione per il resto della sinistra europea.
Eppure, in un momento in cui Silvio Berlusconi è in declino e la sua egemonia politica e culturale si sgretola, il Pd ha tutte le carte in mano per apportare un contributo fondamentale alla riflessione in corso a sinistra. Occupa un posto centrale nell´opposizione. Il progetto iniziale da cui è nato era una risposta ingegnosa al fallimento storico e alla crisi della socialdemocrazia classica. Il Pd ambiva a svolgere la funzione di un laboratorio e a inventare un altro riformismo. Tocca a lui riallacciare il legame con questa ambizione annodando i fili di un dialogo e di un confronto con le forze vive della sinistra italiana ed europea.
(Traduzione di Fabio Galimberti)

Repubblica 21.6.10
"Non accettiamo la parola compagni"
Giovani pd contestano il vocabolario comunista. Bersani. "Un pretesto"
di Giovanna Casadio

ROMA - Colpa sua, di Fabrizio Gifuni, che ha interpretato tra l´altro Alcide De Gasperi in tv ma che sabato - invitato da Bersani alla mobilitazione anti-manovra del Pd al Palalottomatica - ha concluso un appassionato discorso sui tagli alla cultura con le antiche parole d´ordine della sinistra: «Compagne e compagni...è tanto che volevo dirlo!». Liberatorio. I militanti democratici presenti si sono spellati le mani. Eccetto quelli che ieri hanno deciso di protestare. Un gruppo di giovanissimi ha scritto a Bersani una lettera di fuoco. Per noi «nativi del Pd», cioè estranei alla tradizione comunista e a quella democristiana, «le parole compagni, festa dell´Unità, sono concetti che rispettiamo per la tradizione che hanno avuto ma che non rientrano nel nostro pensare politico e che facciamo fatica ad accettare... questo trapassato non ha noi come destinatari». Luca Candiano, uno dei firmatari (con Veronica Chirra, Matteo Cinalli, Sante Calefati e Marino Ceci, ventenni o poco più, giovani Democratici) sostiene che «è un´aria che si respira dall´inizio della segreteria Bersani» e che li fa sentire «fuoriposto», anche se non è una minaccia ad andarsene. Fanno eco Lucio D´Ubaldo, senatore, e Giorgio Merlo: per entrambi, ex Ppi, «con i Gifuni di turno il Pd si disegna un ruolo di eterna opposizione».
Anche il veltroniano Stefano Ceccanti su Facebook apre un dibattito sul tema: «Il leader dei cristiano sociali Gorrieri, agli stati generali del 1998 in cui nacquero i Ds, suscitò proteste chiedendo che la si smettesse di chiamarsi "compagni" così che ciascuno si sentisse a casa propria. Noi qui - commenta Ceccanti - torniamo al Pds e al Pci. Se l´avesse fatto un operaio nostalgico...ma lo dice Gifuni, è l´estremismo dei ricchi e uno specchio delle difficoltà del Pd destinato a essere minoranza».
Gifuni trasecola: «Pensavo che fossero parole ancora pronunciabili, né volevo suggerire linea o nostalgie. Ci si chiama così anche nella vita, mi è venuto dal cuore. Non ho tessere di partito, neppure del Pd». Dopo l´applauditissimo intervento, si sono complimentati con lui: «Bravo, hai avuto coraggio». Coraggio di denunciare «il genocidio culturale», credeva l´attore, figlio di Gaetano, ex segretario generale del Quirinale. Invece il coraggio gli serve ora che è finito nel tritacarne delle divisioni del Pd e degli attacchi del Pdl. Gasparri gli consiglia di occuparsi dei «parenti giardinieri». «Che tristezza», replica lui. «La parola compagno esiste», aveva assicurato Bersani a un operaio sardo. E adesso dalla segreteria sull´intera vicenda affermano: «È solo un pretesto». Pure Prodi non disdegnava parlare di «compagni». E Ivan Scalfarotto sbotta: «Lasciateci chiamare compagni che è parola piena di sentimento e solidarietà. La mancanza di innovazione sta nel fatto che D´Alema e Marini siano ancora dirigenti dai tempi di Pci e Dc. Gifuni è stato bravissimo». Debora Serracchiani: «Io voglio che al Pd vengano a dire amici, fratelli, compagni e che noi ascoltiamo cosa dicono».

Repubblica 21.6.10
Le contese democratiche tra archeo-politica e nostalgia ideologica
Nel 2007 il leader della Margherita Rutelli cercò la parola compagno nelle Sacre scritture I dc si chiamavano tra loro "amici" I neofascisti preferivano "camerati"
di Filippo Ceccarelli

Archeo-politica, proto-invocazioni, vetero-linguaggi e dispute ideologiche fuori tempo massimo. Non che la questione paia destinata a mutare il paesaggio dell´opposizione tra la manovra e la legge-bavaglio, ma ad alcuni giovani del Partito democratico non è piaciuto per niente che l´altro giorno, durante la manifestazione del Palalottomatica, Fabrizio Gifuni abbia esordito con uno squillante: "Care compagne e compagni".
E perciò, non riconoscendosi in quella formula, hanno scritto a Bersani «perché vorremmo renderti cosciente del nostro disagio di fronte a parole e comportamenti che guardano in maniera ingiustificatamente romantica al passato». Si tratta di espressioni anche rispettabili, ma a loro giudizio «trapassate».
Vero è che sabato scorso Gifuni ha un po´ caricato la faccenda del "compagne e compagni" aggiungendo con la dovuta enfasi: «Vi chiamo così perché era tanto che volevo dirlo», motivazione che è suonata quasi liberatoria e come tale accolta da applausi scroscianti. A tale proposito va detto che i giovani del Pd romano, cui si sono ieri aggiunti esponenti di derivazione margheritina, quindi di ex osservanza popolare e perciò prima ancora democristiana, hanno trascurato la circostanza che ormai stabilmente al giorno d´oggi si fa ricorso alla gente di spettacolo per far partire la macchina emotiva, riscaldare la platea e magari prolungare l´evento con qualche curiosità del giorno dopo.
Eppure, posto che l´attore Gifuni ha svolto egregiamente il suo mestiere e anche il suo compito per così dire fusionale, è vero che la parola "compagno" viene dal latino delle corporazioni medievali ("cum panis", colui con cui si divide il cibo), ma da almeno un secolo sta piantata nella tradizione marxista. E se pure c´è qualche dubbio che quest´ultima sia oggi viva e vegeta, basta pensare agli inni del movimento operaio e dell´ultrasinistra - "Su fratelli, su compagni", "Compagni, avanti il gran partito", "Compagni, dai campi e dalle officine" - per comprendere il disappunto di chi quel mondo ha perfino combattuto e adesso se lo ritrova in casa con i suoi simboli e tutto l´armamentario espressivo.
Nostalgia. Pretesti. Perdita di tempo. Ma la questione non è nuovissima. Così, mentre a sinistra la parola fu a lungo veicolo di scomuniche ("Non è più un compagno") e ambiguità ("Compagni che sbagliano") nelle Acli degli anni 70, dove già convivevano marxisti e cristiani, la formula rituale d´inizio comizio si articolò in un articolato: "Compagni e amici" - e con questo titolo c´è pure un libro di Gabriele Ghepardi (Coines 1976).
Del resto "amici", sia pure con la dovuta ipocrisia, si chiamavano fra loro i dc; così come i neofascisti vicendevolmente si nominarono a lungo "camerati". Il termine "compagno" vivacchiò per tutti gli anni 80´ per poi sfumare nel decennio seguente, a riprova dell´erosione delle culture politiche e delle relative appartenenze. L´ipotesi è che fu la tecnologia, oltre al crollo ideologico, a dismettere l´uso di un termine che presupponeva un calore di vicinanza, un guardarsi in faccia, una reciprocità di rapporti. Quando i leader della sinistra approdarono in televisione non c´era la loro pur vasta tribù ad ascoltarli, ma sterminate masse di pubblico, non più "compagni". Pare di ricordare che fu D´Alema, allora presidente, a rifiutare per primo l´appellativo che incautamente gli aveva rivolto un povero segretario di sezione ds degradatosi a figurante in qualche Ballarò.
Dopo di che la parola fu in qualche modo subissata da un´onda di varia e beffarda dissacrazione, dai "Compagni di merende" (copyright Filippo Mancuso) fino al "Compagno Fini". Ma nessun colpo di grazia, come si intende anche oggi, ha impedito che nei tronconi costituitivi dell´imminente Pd, partito subito disponibile a spendersi e lacerarsi nelle più bislacche e autolesionistiche controversie, si riaprisse periodicamente la questione dei compagni o non compagni.
In questo senso vale rammentare che nel 2007 il leader della Margherita Francesco Rutelli concesse il suo benestare all´uso di "compagno", ma non senza aver commissionato un´indagine sulla parola nelle Sacre Scritture. La squadretta di filologi rutelliani scovò oltre cento ricorrenze. La più significativa era nel libro del Siracide: "Non è forse un grande dolore quando il compagno diventa un nemico?". Che si adatti abbastanza bene proprio a Rutelli, uscito dal Pd, dice molto sul potere delle parole e sulle vendette che a volte tengono in serbo.

Intervista a Mila Spicola
l’Unità 21.6.10
«Oggi è la scuola la vera emergenza democratica di questo Paese»

Erano due anni che aspettavo quell’abbraccio dal Partito democratico». Il giorno dopo il l Palalottomatica Mila Spicola, l’insegnante di Palermo che ha raccolto gli applausi calorosi dei democratici arrivati a Roma, è ottimista: «Il Pd ha finalmente capito che la scuola deve essere al centro della politica». L’abbraccio più lungo Bersani l’ha dedicato proprio a lei. Un successone ieri. «Quell’abbraccio l’ha dedicato alla scuola e di questo sono felice perché per due anni è stato un argomento quasi dimenticato dal partito. Francesca Puglisi, responsabile scuola nell’esecutivo Pd, invece, ha mostrato un interesse reale, ci siamo visti insieme ad altri insegnanti molte volte mettendo in piedi un lavoro importante. Si è finalmente capito che la scuola è la vera emergenza democratica del Paese: se molliamo su questo potranno passare tutte le leggi bavaglio o comprimere qualunque diritto perché si perderebbe la capacità di esercizio critico, di socializzazione sana».
Ieri Fabrizio Gifuni ha definito la televisione, citando Pasolini, la nuova forma di fascismo. Esagerato? «Niente affatto, oggi la nostra agenzia educativa concorrente è la televisione. Ogni giorno in classe devo combattere con i miei ragazzi che puntano tutti a fare i ballerini, che mi chiedono di commentare “Amici” e quando rispondo che non ho la televisione mi guardano stupiti. In Sicilia noi ci battiamo per il tempo pieno non soltanto per togliere i ragazzi dalla strada, ma anche per sottrarli alla televisione».
Lei diventò «famosa» per una lettera scritta ad un quotidiano sul fondo schiena che prevale su tutto, anche su due lauree. «Quella lettera la scrissi d’impulso, leggendo un articolo sul Financial Times, ma la mia lotta quotidiana da sempre è per una scuola migliore, inclusiva. Sono stata precaria all’università per quindici anni, quando ho ottenuto il posto nella scuola media ho scelto di tornare a Palermo, nei quartieri dove è più complesso insegnare. Oggi insegno alla Quasimodo, nel quartiere Oreto, dove convivono realtà sociali diverse. In Sicilia c’è davvero il Vietnam, in molti luoghi lo Stato è ancora visto come un nemico».
Lei ha chiesto: cosa aspettate a scendere in piazza?. Lo chiedo a lei, cosa aspettano? «Qui la gente si accorge se ti batti nel loro interesse e sono con te, ma è molto più complesso riuscire a coinvolgerli in una battaglia che è anche politica. Per questo un partito come il Pd deve avere la forza di rimettere al centro proprio questo tema e far sentire agli 800mila insegnanti e alle famiglie che non sono soli». M.ZE.

l’Unità 21.6.10
La guerra della destra alla Ru486
di Gloria Buffo

Il nostro non è un paese abituato a trattare bene le donne. E così passa sotto silenzio l’accanimento verso le italiane di questo governo che non solo vuole alzare l’età pensionabile e tagliare i servizi ma ostacola, ancora una volta la libertà (e la salute) delle donne.
La vicenda della pillola RU486 è emblematica. In un paese dove c’è una buona legge, la 194, che ha dimezzato il ricorso all’aborto e dove, per l’alto numero di medici obiettori, è facile incappare in lunghe liste di attesa, l’arrivo di un farmaco che può sostituire un intervento chirurgico dovrebbe essere un sollievo. Non è la panacea di tutti i mali ma è un metodo sperimentato da molti anni in tanti paesi ed è un’alternativa, in molti casi, per le donne e per i medici. Qui, invece, diventa una via crucis. Per ragioni politiche ed ideologiche, l’Agenzia per il Farmaco, il Ministero, il Consiglio Superiore di Sanità, l’indagine parlamentare ad hoc, partoriscono un iter lunghissimo che non è riservato a nessun altro farmaco. Deve essere ben chiaro: anche se è meno «glamour» della legge bavaglio e dell’attacco alla magistratura (entrambi gravissimi), siamo di fronte a un fatto inconcepibile.
In Italia la destra fa la guerra ad una medicina. Gli stessi che volevano fosse gratis e per tutti la cura Di Bella, priva di qualsiasi validazione scientifica, adesso non vogliono la RU486. Altro che il ’68 o il «sei politico», qui c’è il «farmaco politico»! Cura Di Bella sì, pillola abortiva no. E senza un solo argomento scientifico o giuridico: la RU486, infatti, viene adoperata nel rispetto pieno della 194. Non contenti, i campioni del «farmaco politico», una volta ammesso per forza questo preparato, hanno cominciato la guerriglia sulla sua somministrazione. E, per ostacolarla, hanno inventato l’obbligo del ricovero per tre giorni, intromettendosi in una scelta, che compete al medico e alla donna. Cota e Zaia, appena eletti presidenti di regione, hanno tuonato contro la RU486, la Polverini ne impedisce l’uso, altre regioni si adeguano, per fortuna non tutte. È ora di sollevare scandalo per il fatto che ciò che è normale e utile alla salute di tutte le donne qui viene impedito. Accade anche per la fecondazione assistita, per la pillola del giorno dopo, spesso per la legge 194. Sinistra Ecologia Libertà vuole contribuire a rendere visibile questo scandalo e ha messo a disposizione un telefono 331.3937224 per denunciare abusi, arbitri, lacune e disservizi in questa materia. Si chiama «Salute e Libertà», due obiettivi che in Italia sono diventati difficili, soprattutto per le donne. Non pensiate, non pensiamo, che sia solo il Vaticano ad ostacolare il principio, civile e umanissimo, della scelta e della libertà. C’è una destra che si nutre di una idea perversa della morale, su cui tra l’altro non ha alcun titolo o coerenza da rivendicare. Riprendiamoci quello che ci è dovuto.

l’Unità 21.6.10
25 giugno 2 luglo 2010
Contro una manovra sbagliata, per lo sviluppo e l’occupazione
Sciopero generale CGIL

La manovra economica del governo è grave, perché toglierà spazio a qualsiasi ipotesi di ripresa. È iniqua e sbagliata: sbagliata, perché non vi sono provvedimenti di sostegno all’occupazione, alla crescita e allo sviluppo; iniqua, perché divide il paese caricando i costi della manovra stessa sui lavoratori dipendenti, pubblici e privati, sulle regioni, gli enti locali e sui cittadini più deboli ed esposti. Sono queste le ragioni dello sciopero generale proclamato dalla CGIL per venerdì prossimo 25 giugno nella maggior parte delle regioni, e per venerdì 2 luglio in Liguria, Toscana e Piemonte. Il segretario generale della CGIL, Guglielmo Epifani, ha espresso molto chiaramente, in una intervista all’Unità, le ragioni della confederazione: “Non contestiamo – ha detto – la necessità di intervenire per correggere i conti pubblici, anche se lo si fa per colpa del governo che ha sbagliato le previsioni e sottovalutato la crisi. Ma non è condivisibile una manovra di tagli pesanti, fatti senza equità, senza pensare allo sviluppo, all’innovazione, all’occupazione”. “Pagano – ha aggiunto il leader CGIL – i lavoratori pubblici e della scuola e anche del settore privato, pagano i lavoratori in mobilità che solo in parte potranno andare in pensione senza incappare nello slittamento delle finestre. Pagano i cittadini, perché i dieci miliardi tolti a regioni e comuni avranno come conseguenza un taglio dei servizi alle persone. Al contrario, non pagano un centesimo i cittadini che guadagnano da 150 mila euro l’anno in su, che possiedono barche, patrimoni, case lussuose, ville, così come non paga nulla l’impresa”. Lo sciopero sarà, in linea di massima, di otto ore (e quindi per l’intera giornata) nei settori pubblici e di quattro ore nel settore privato. In Emilia Romagna, Lombardia, Abruzzo, Marche, Molise e Umbria, e nella provincia di Cagliari, lo sciopero sarà di otto ore sia nei settori pubblici sia in quelli privati. In Calabria l’astensione sarà di otto ore, oltre che nel pubblico, nei settori del lavoro portuale e delle costruzioni. Il 2 luglio lo sciopero sarà di otto ore in tutti i settori in Toscana. Alla luce del differimento dello sciopero del trasporto pubblico locale e nelle ferrovie, la Filt CGIL ha annunciato la partecipazione allo sciopero generale nella giornata del 9 luglio. Lo sciopero sarà di otto ore anche in numerose categorie del terziario, della distribuzione, dei servizi e del turismo, e nel settore domestico. I servizi essenziali saranno ovunque garantiti. Manifestazioni si svolgeranno in molte città italiane con cortei e comizi dei leader della CGIL.O

l’Unità 21.6.10
In Italia nuove prove generali del conflitto capitale e lavoro
Alla radice del braccio di ferro non c’è la produttività ma la politica. La globalizzazione non ha portato più diritti ma più bassi salari. Non esiste una rete sindacale internazionale
di Loretta Napoleoni

La globalizzazione ha prodotto un fenomeno nuovo nel mercato del lavoro, che gli economisti definiscono la corsa dei salari verso il basso. Grazie alla delocalizzazione la forza lavoro a disposizione del capitale occidentale si è raddoppiata. Dall’Est europeo fino al sud est asiatico, l’impresa ha così usufruito di salari decrescenti. Ciò significa che quello minimo percepito, ad esempio in Cina, è diventato un metro di comparazione internazionale. Si chiama «arbitraggio globale del lavoro», lo spostamento della produzione da un paese all’altro in base al costo del lavoro.
La corsa dei salari verso il basso ha messo in ghiacciaia il costo del lavoro in occidente, e spesso per evitare la delocalizzazione i sindacati hanno accettato condizioni monetarie che non coprivano l’aumento del costo della vita. Ciò significa che in termini reali, e cioè al netto dell’inflazione, oggi il salario medio dell’operaio occidentale è più basso che vent’anni fa.
Naturalmente non era questo l’obiettivo che ci si prefiggeva globalizzando. Il fenomeno ha messo in aperta concorrenza tutti i lavoratori senza però creare la rete di connessione tra i sindacati. I lavoratori della Fiat polacchi non hanno alcun collegamento con quelli di Pomigliano, e scoprono il potenziale trasferimento della fabbrica dai giornali. Ci troviamo quindi in presenza di una concorrenza sleale. A detta dei polacchi fino alla scorsa settimana il ministro dell’economia negava che la Fiat avesse intenzione di spostare la produzione in Polonia. Ma non basta. La Fiat ha ottenuto finanziamenti dalla Ue per produrre la Panda in Polonia, accordi che ora dovrà infrangere. È vero che queste cose non succedono da nessun altra parte al mondo, difficile infatti trovare un’impresa che per riportare la produzione in patria rompa accordi internazionali ed imponga ai lavoratori di abrogare la Costituzione per accettare condizioni di lavoro «a la cinese».
Molti si domanderanno se dietro questa strategia non ci sia un fine politico che nulla abbia a che vedere con la globalizzazione. In termini economici viene spontaneo domandarsi che senso ha trasferirsi da una fabbrica che funziona bene a Pomigliano. Forse dietro questo braccio di ferro ci sono problemi strutturali, di imprese che da decenni sopravvivono solo grazie all’abbattimento dei costi di produzione, problemi oggi pressanti. La corsa dei salari verso il basso sta infatti per raggiungere il traguardo, già in Cina le lotte operaie costringono l’impresa a farli gravitare, è solo questione di tempo ma anche nel resto del mondo succederà lo stesso. A quel punto sarà difficile per le imprese contenere le richieste di aumento dei salari reali e sociali.
È dunque possibile che in Italia si stiano svolgendo le prove generali di un braccio di ferro tra capitale e lavoro che potrebbe vedere riaccendersi le lotte operaie in occidente dovunque esista un’industria che produce solo grazie a condizioni particolari. Ed è anche probabile che ciò succeda perché sullo fondo c’è una crisi del debito sovrano, che equivale a dire che lo stato si trova nell’impossibilità di iniettare, come sempre, in queste industrie contante sotto forma di sovvenzioni.
Se questo è vero allora il problema è strutturale e non ha nulla a che vedere con la globalizzazione. In Germania o in Giappone operai e sindacati dell’auto non vengono messi alle strette come da noi, la Merkel non chiede l’abrogazione degli articoli costituzionali sul lavoro. Né in Germania e né in Giappone ci si lamenta della scarsa produttivita della manodopera, ma ricordiamolo in questi paesi le assunzioni non avvengono su sollecitazione politica. Tutti gli operai scrutatori di Pomigliano che durante le elezioni hanno preso il permesso hanno presentato regolare certificato con firma di politici. Domandiamolo a loro se erano veramente nei seggi non al sindacato. Se questa analisi è corretta allora alla radice del braccio di ferro non c’è la produttività ma politica, ed impresa e sindacato faranno bene a tenerlo presente.

Repubblica 21.6.10
Chi svuota la Costituzione
di Stefano Rodotà

In questa stagione torbida le prove di decostituzionalizzazione si susseguono e si infittiscono. Per la prima volta nella storia della Repubblica un governo vuole modificare un articolo della parte iniziale della Costituzione, l´articolo 41.
Una norma contigua, l´articolo 40 che disciplina il fondamentale diritto di sciopero, viene messo concretamente in discussione dal documento della Fiat riguardante i lavoratori di Pomigliano d´Arco. Non a caso dall´attuale maggioranza si è affermato perentoriamente che è venuto il momento di cambiare lo stesso articolo 1, considerandosi anacronistico che si parli di «una Repubblica democratica fondata sul lavoro». Ancora il Governo propone di modificare l´articolo 118, altri ritengono che si deve porre mano all´articolo 81 e si è addirittura pubblicamente sostenuto che si debba ammettere il referendum sulle leggi tributarie, escluso dall´articolo 75. In questo clima si dice apertamente che deve cadere il tabù della prima parte della Costituzione, e che è tempo di cambiarne persino i principi fondamentali. Ho parlato di decostituzionalizzazione, e non di modifiche, perché siamo di fronte a tentativi dichiarati di liberarsi della Costituzione. Sembra così giungere a compimento un vecchio progetto, che attraversa tutta la storia della Repubblica e che finora era stato sventato. Il caso dell´articolo 41 illustra bene lo stato delle cose. In questi giorni sono state ricordate la genesi e la portata della norma: storia nota, consegnata da anni a studi impeccabili, che smentiscono sia la tesi di una sua ascendenza comunista, sia quella dell´impossibilità di introdurre regole più flessibili per le imprese senza modificare quell´articolo. L´ignoranza della storia sta divenendo una sua continua falsificazione. Non si leggono gli atti dell´Assemblea costituente né la giurisprudenza costituzionale, si inventano inesistenti "vuoti" costituzionali, che dovrebbero essere colmati con le parole "mercato" e "concorrenza", necessarie perché l´Italia si allinei all´Europa e all´ultima generazione di costituzioni. Un´altra falsificazione. La concorrenza non figura più tra i principi di base del Trattato europeo di Lisbona: piaccia o no, questo è il risultato di una iniziativa di Sarkozy, che l´ha confinata in uno dei tanti protocolli che accompagnano il Trattato. Tutte le costituzioni europee prevedono il diritto dei poteri pubblici di regolare il funzionamento del mercato e quando questa parola compare, come nella costituzione spagnola, la si accompagna con la previsione esplicita del potere dello Stato di sottoporla a pianificazione. E ricordo per l´ennesima volta quel che è scritto nella costituzione tedesca: "La proprietà impone obblighi. Il suo uso deve al tempo stesso servire al bene della collettività" (art. 14); "la proprietà terriera, le ricchezze naturali e i mezzi di produzione possono essere trasferiti, ai fini della socializzazione, alla collettività o essere sottoposti a altre forme di economia collettiva mediante una legge che determini il modo e la misura dell´indennizzo").
Peraltro, bisogna pure ricordare che l´articolo 41 si apre con le parole "l´iniziativa economica privata è libera", che sono una evidente descrizione del mercato. Diventa così evidente il carattere strumentale e ideologico dell´operazione che si sta conducendo intorno all´articolo 41. Si addita questa norma come un ostacolo per fornire alla maggioranza un alibi per la sua perdurante incapacità di dare regole ragionevoli e per giustificare spallate pubbliche o private. Si cerca un collante per una maggioranza a pezzi, e si apre un inquietante scenario. Se la modifica costituzionale andrà in porto, sarà inevitabile un referendum su di essa e i costumi ormai noti del Presidente del consiglio lo indurranno a esasperare i toni, a gridare che si deve scegliere tra libertà e collettivismo, a evocare tutti i possibili "spiriti animali", facendo sempre più terra bruciata, spazzando via ogni ragionevolezza, immergendoci sempre più profondamente nella regressione culturale.
Di questa regressione cogliamo ogni giorno i segni. Si ripropone una identificazione tra mercato e libertà che ignora persino la polemica che divise Croce e Einaudi, e che ci riporterebbe ai tempi in cui Adolphe Thiers, nel 1831, scriveva che "alla proprietà non possono darsi giudici migliori di essa stessa". Si cade in contraddizione proponendo modifiche dell´articolo 41 insieme alla rievocazione dell´economia sociale di mercato. Si ignora una realtà nella quale la crisi finanziaria ha provocato autocritiche anche da parte di sacerdoti del mercato come Richard Posner. Si trascura proprio la planetaria discussione in corso sulle regole del mercato. E così non ci si accorge che proprio lì, nell´articolo 41, si trovano le indicazioni per collocare l´azione economica dei privati nella sua giusta dimensione, subordinandola agli ineludibili principi di dignità, libertà e sicurezza e riconoscendo che il mercato non è uno spazio separato della società. O siamo tornati a Margaret Thatcher e al suo "la società non esiste"?
Sui rischi dell´altra modifica annunciata dal Governo, quella dell´articolo 118, ha già richiamato l´attenzione Salvatore Settis. L´intenzione di sottrarsi alle lungaggini nella materia urbanistica, in nome dell´efficienza, può portarci a travolgere le garanzie necessarie per la tutela del territorio e del paesaggio, di cui parla esplicitamente l´articolo 9 della Costituzione, che così verrebbe fortemente depotenziato. Ma può il bisogno di efficienza travolgere ogni garanzia? È quello che dobbiamo chiederci davanti a quella forma di decostituzionalizzazione di fonte privata rappresentata dalla limitazione del diritto di sciopero contenuta nel documento della Fiat. L´articolo 40 della Costituzione, infatti, prevede che le modalità del diritto di sciopero possano essere regolate solo dalla legge. Siamo di fronte a un diritto indisponibile, necessario perché la democrazia non si fermi "ai cancelli della fabbrica" e che, se pure venisse negato in un solo caso, perderebbe la sua universalità e potrebbe essere negato in ogni altra situazione. Per contrastare gli abusi, se provati, esistono altre vie e altri strumenti.
La lotta per i diritti, dunque, riguarda ormai anche l´ambito dell´economia, si aggiunge alle rivendicazioni riguardanti il diritto della persona di governare liberamente la propria vita ed alla opposizione contro la legge bavaglio. Queste non sono iniziative figlie di una "egemonia borghese" da respingere in nome dei diritti del lavoro. Sul terreno costituzionale l´indebolimento pure di un solo diritto ha effetti negativi su tutti gli altri.
La decostituzionalizzazione deve essere fermata perché sta accompagnando la decomposizione del paese, le dà forma, la legittima. Ma, proprio perché violentemente aggredita, la Costituzione sta generando anticorpi sociali che la difendono in forme nuove e efficaci, che hanno messo in difficoltà gli aggressori, come dimostra la vicenda della legge bavaglio. Insistiamo.

Repubblica 21.6.10
Escono i "Quaderni laici": saggi e documenti sui grandi temi di oggi
La libertà di coscienza e il dibattito pubblico
La discussione su alcuni argomenti non riguarda solo i rapporti con la Chiesa, ma è una questione aperta che va dalla bioetica all´aborto, fino alla difesa delle minoranze religiose
di Massimo L. Salvadori

Nel marzo 1947 l´Assemblea costituente diede voce ai diversi punti di vista circa la decisione se recepire o no nella Costituzione repubblicana i Patti lateranensi del 1929. Nel dibattito intervennero tra i favorevoli Dossetti, La Pira, De Gasperi e Togliatti, tra i non favorevoli Calamandrei, Nenni e Croce; e il voto di 350 sì contro 149 no sancì la vittoria dei primi sui secondi. Inutile dire che gli interventi decisivi nello schieramento che decretò la continuità della politica religiosa dal fascismo alla repubblica furono quelli di De Gasperi, il quale invocò il diritto ad un regime privilegiato per la Chiesa romana fondato sul dato statistico secondo cui la stragrande maggioranza degli italiani si dichiarava cattolica, e di Togliatti, che fece appello alla necessità di respingere il pericolo di un conflitto religioso che avrebbe minato l´unità delle masse lavoratrici. Calamandrei protestò con estremo vigore che «i Patti lateranensi realizzano uno Stato confessionale», in inconciliabile contrasto con «il diritto di uguaglianza di tutti i cittadini, la libertà di religione, la libertà di coscienza».
Sono passati oltre sessant´anni dal varo della Costituzione, che Bobbio e Pierandrei dissero aver conferito al nostro Stato un carattere semi-laico, e da anni si afferma che è opportuno cambiarla in questo e quell´aspetto. Ma una revisione dei rapporti tra lo Stato e la Chiesa cattolica – solo parzialmente modificati dal compromesso raggiunto con il Concordato del 1984 – che dia allo Stato un volto compiutamente e coerentemente laico è un obiettivo che viene ignorato da tutti i maggiori partiti, interessati a non toccare il Vaticano detentore di grandi privilegi e dotato di una determinante influenza sulla politica nazionale. A porselo sono soltanto gruppi minoritari, accusati perciò di essere fastidiosi "laicisti" ovvero disturbatori della quiete pubblica. Ciò nonostante, non passa giorno senza che i problemi della laicità o non laicità tocchino in maniera profonda la vita della collettività e delle singole persone. Sono in ballo – per limitarci ad alcuni tra i temi più importanti – le quote di risorse pubbliche attribuite alla Chiesa cattolica, l´insegnamento della religione nelle scuole, il diritto di famiglia, le coppie di fatto, l´approccio alla bioetica, l´aborto, la fine della vita, la libertà di nuove minoranze religiose come anzitutto quella islamica ridotta ai margini. Bisogna far comprendere anche agli italiani che la difesa della laicità costituisce una componente cruciale delle loro libertà.
E proprio per dare un contributo a questa battaglia è iniziata a Torino, presso la casa editrice Claudiana, la pubblicazione semestrale dei Quaderni laici, promossa dal Centro di Documentazione, Ricerca e Studi sulla Cultura Laica "Piero Calamandrei", in collegamento con la Consulta Torinese per la Laicità delle Istituzioni e con altre associazioni consimili. Della rivista sono usciti il numero zero e il numero uno, il primo dedicato a Costituzione, laicità e democrazia, il secondo a Natura, vita, persone, corpi, ai quali hanno collaborato Bellini, Di Giovine, Flamigni, Garrone, Giorello, Lariccia, Monti, Piazza, Pocar, Remotti, Rodotà, Sbarberi, Viano, Volli, Zagrebelsky e chi scrive. Ciò che anima la rivista che si propone – di pubblicare saggi, ricerche e dossier di documenti – lo ha chiarito Viano nella sua Introduzione ai Quaderni: «Il riconoscimento che quella della laicità è una questione aperta e urgente della nostra vita pubblica, che non può restare in attesa di operazioni politiche o trasformazioni sociali capaci di risolverla automaticamente».
Non si tratta soltanto di offrire testimonianze di spirito di laicità, ma di opporsi fattivamente a chi la laicità contrasta con l´intento di ridurla a parola vuota praticamente inefficace. Ha scritto bene in proposito Rodotà nel suo libro Perché laico: «Non è tempo di laicità flebile, timida, devota. È tempo, pieno e difficile, di laicità senza aggettivi o, se vogliamo comunque definirla, semplicemente democratica».

Repubblica 21.6.10
Jiulia Kristeva
Solo un nuovo umanesimo può fermare il nichilismo"

Domani sarà a Massenzio dove leggerà un testo su Santa Teresa d´Avila: "Il suo esempio ci serve anche oggi, contro l´integralismo e il vuoto di valori"

PARIGI. «Il bisogno di credere è un bisogno prepolitico e prereligioso, sul quale poggia il desiderio di sapere. Riconoscendo l´importanza di tale bisogno, noi atei possiamo favorire il dialogo tra credenti e non credenti, per combattere da un lato il nichilismo e dall´altro l´integralismo». Linguista e psicanalista, saggista e romanziera, Julia Kristeva, dopo Il genio femminile, la trilogia dedicata a Hannah Arendt, Melanie Klein e Colette, ha pubblicato Bisogno di credere (Donzelli), un testo in cui, pur senza rinunciare alle sue convinzioni figlie dell´illuminismo, si confronta con l´universo della fede. Un dialogo che attraversa anche Teresa mon amour. Santa Teresa d´Avila: l´estasi come un romanzo (Donzelli), un libro a metà strada tra romanzo e saggio, che analizza la personalità e gli scritti della santa spagnola del XVI secolo. Proprio di Teresa d´Avila, la studiosa francese parlerà domani alla Basilica di Massenzio in chiusura del Festival Letterature. «Ho iniziato ad occuparmi di Teresa quasi per caso, scoprendo un personaggio estremamente complesso, ricco e attuale», spiega Kristeva, in questo momento alle prese con la stesura di un nuovo romanzo. «Oggi lo scontro di religioni è una realtà che non possiamo ignorare. Il dialogo quindi è necessario. L´Europa – forse perché ha conosciuto la violenza e l´orrore legati alle religioni, dalle crociate alla Shoah – ha intrapreso, prima con l´illuminismo e in seguito con le scienze umane, un percorso di attraversamento della religione. Non per ghigliottinarla, come ha fatto la Rivoluzione francese, o per rinchiuderla nei gulag, come è accaduto in Unione Sovietica, ma per tentare di "transvalutarla", come direbbe Nietzsche. Attraverso il caso concreto di Teresa, io ho cercato di dare il mio contributo a questo percorso di attraversamento».
Per questo, Monsignor Gianfranco Ravasi l´ha invitata a partecipare al dialogo tra credenti e non credenti. Le sembra un´opportunità?
«Oggi, più ancora del dialogo interreligioso, occorre promuovere il dialogo tra chi crede e chi no, soprattutto in Europa. Appartengo a coloro che, per dirla con Tocqueville e Hannah Arendt, hanno reciso il filo della tradizione. Mi considero una discendente dell´illuminismo e della secolarizzazione che ci hanno messo in guardia contro i rischi della religione: la nevrosi, le illusioni, gli abusi, le guerre. Il filo reciso della tradizione ci ha consentito di muoverci verso la libertà, senza la quale non ci sarebbero il mondo della scienza né quello dell´arte, l´avventura dell´impresa né quella dei nuovi amori. Il filo reciso della tradizione è una conquista importante, ma occorre evitare la deriva verso un nichilismo senza valori e senza autorità. Ecco perché abbiamo bisogno di "transvalutare" la tradizione. Vale a dire ripensarla e attraversala, cercando di trarne tutto ciò che può essere positivo per noi contemporanei. Ciò vale per tutta la tradizione, le tre religioni monoteistiche, ma anche la cultura classica, il taoismo o il confucianesimo».
A chi spetta questo compito?
«Agli intellettuali, ma anche agli artisti, visto che considero la letteratura e le arti delle vere e proprie forme di pensiero. Senza il confronto con la tradizione rischiamo di perderci in un nichilismo depressivo. Sul piano della religione, tale confronto ci consente di capire che la fede non è solamente un vicolo cieco, come diceva Diderot. Condannando la fede, la filosofia dell´illuminismo ha privato il bisogno di conoscenza di un fondamento importante. Per me il bisogno di credere è il fondamento del sapere. È una necessità antropologica che la storia delle religioni ha capitalizzato attraverso le varianti cristiana, islamica, ebraica, taoista. Noi atei dobbiamo riscoprire le radici di tale bisogno, favorendo in questo modo il dialogo tra credenti e non credenti, un dialogo alla pari dove ciascuno possa spiegare e difendere le proprie posizioni».
Il bisogno di credere come si manifesta in Teresa d´Avila?
«Teresa vive una fede sovrannaturale, che esalta il legame amoroso nascosto nella fede. Lo esalta in maniera ideale, ma anche concretamente con tutte le fibre del suo corpo di donna, come testimonia la statua del Bernini nella chiesa romana di Santa Maria della Vittoria. Teresa si esilia nell´alterità divina, rivelando una profondità estrema della vita psichica, che Lacan è stato il primo a mettere in evidenza, parlando del piacere femminile. Nelle sue estasi non c´è solo la felicità dell´incontro con Dio, ma tutta la violenza del piacere, l´annullamento di se stessi e del proprio corpo. Mettendo per iscritto i suoi stati di estasi, Teresa riesce però ad allontanare la loro dimensione mortuaria. Più li descrive, più diventa lucida, agendo nel mondo in maniera concreta».
Nell´abbandono dell´estasi, Dio – per Teresa – cessa d´essere un´entità esterna, diventando una realtà interiore e immanente. È così?
«Nel suo viaggio verso l´altro, Teresa indica un dato importante per la cultura europea. Perché l´io esista, il cogito di Descartes non è sufficiente. L´io ha bisogno dell´altro da sé, con il quale instaura un legame indispensabile. L´io e l´altro s´identificano, si confondono e si portano a vicenda. Teresa crea tale legame con la divinità. Per lei la trascendenza diventa immanenza. In questo modo si colloca sulla via dell´umanesimo cristiano che darà luogo l´umanesimo moderno. Proprio perché Dio e l´infinito sono in lei, Teresa diventa una persona e un linguaggio infinito. Anche per questo affascinò tanto Leibniz».
È per questo che lei la considera una nostra contemporanea?
«Certo. Teresa è una donna eccezionale, un genio femminile che ha innovato la fede cattolica, anticipando la rivoluzione barocca. La sua esperienza parla alle donne moderne e in particolare a quelle che si consacrano alla creazione artistica, lavorando con le immagini e il linguaggio».
Lei è stata una delle voci del femminismo francese. Teresa d´Avila può interessare le femministe?
«Oggi il ritorno della tradizione e la centralità della maternità rimettono in discussione le conquiste del femminismo. Ciò è vero soprattutto quando la maternità è prigioniera delle preoccupazioni materiali e sanitarie. Teresa c´insegna che occorre riuscire a pensare dal punto di vista dell´altro. Non dobbiamo proiettare sui figli i nostri desideri, le nostre angosce, i nostri bisogni, ma considerarli come un altro da sé, cercando di sviluppare la loro alterità. In questa prospettiva, le donne saranno all´avanguardia della civiltà. Come ha fatto Teresa, ogni donna deve cercare di essere singolare. Occorre rifondare l´umanesimo in una direzione che stimoli le singolarità. E´ questo l´insegnamento di Teresa».

l’Unità 21.6.10
Il comico confessa le sue «questioni di salute mentale» in occasione di «Impazzire si può»
A Trieste un convegno sul tema della «guarigione» e un codice etico per i giornalisti
Vergassola: «Noi, quelli che... il Lexotan lo teniamo in tasca»
di Dario Vergassola

La «confessione» di Dario Vergassola ai microfoni di «La terra è blu» di Radio Fragola Trieste e Radio Popolare Milano, programma ideato e condotto da Massimo Cirri con Agnese Ermacora e Antonello Dinapoli.

Ho avuto le mie questioni di salute mentale, e me ne vanto, ne sono fiero. In fondo chi non ha mai avuto un piccolo disagio, anche minimo, è sempre un po' più antipatico, un po' più rozzo, un po' più duro. E quindi non solo ammetto i disagi miei, ma me la tiro anche un po', come se portassi eroiche ferite di battaglia ...
La mia «iniziazione» all'ansia risale ai tempi di gioventù, quando al primo giramento di testa mi son chiesto: «Che sarà? Morirò? Avrò qualche malattia strana?». Insomma, mi son lanciato in uno screening da manuale dell’ipocondriaco, e naturalmente questa china ansiosa è andata di pari passo con la depressione, come di regola succede ... La sera entravo al pronto soccorso e dicevo «ho un infarto»: me ne son venuti circa venti al mese, di infarti, e ogni volta, mentre andavo all’ospedale, ricordo che mi davano delle ottime gocce, non di Lexotan però, di Valium normale, che in effetti sa di chewing gum ... «È arrivato Vergassola», si dicevano appena entravo, e intanto portavano il carrellino dell'elettrocardiogramma, mi rilassavano un po’, e me lo facevano: sempre inutile, naturalmente. Ma intanto era partita la mia rincorsa all’ansia e al panico.
IL BRUNETTA MALTESE
«Se vai a lavorare passa tutto», mi dicevano qualche volta: un classico, probabilmente. Ma io a lavorare ci andavo, solo che non sapevo spiegare quello che mi stava succedendo. E d’altra parte, come si fa a spiegare ai propri genitori, che nel mio caso lavavano le scale e andavano a scaricare, che si sta male senza un perché? Ero quello privilegiato, io, avevo la macchina e facevo lo statale, e se in casa dicevo «sto male» e mi chiedevano «cosa c'hai?», cosa potevo rispondergli?
«Niente. Sto male, ma non capisco perché». E loro mi rispondevano, «ma se non fai una mazza, come fai a star male?». Poveracci, forse i miei rifiutavano l’idea di avere un figlio un po' problematico, figurarsi, ero anche uno «statale», facevo il marinaio di coperta all'arsenale militare a La Spezia e mi consideravo una specie di reincarnazione di Corto Maltese. Sarà perché «corto» mi si addice abbastanza, diciamo il «Brunetta maltese». Certo, era una situazione pesante quella, uno spazio militare chiuso e ristretto, roba da crisi di claustrofobia. Non era un lavoro faticoso, o fisico: in fondo, come dice Brunetta, noi statali non siamo poi così oberati di lavoro. Solo in caso di guerra saremmo diventati operativi, e se Dio vuole non ce n’è mai stato bisogno. Però nel quotidiano era una dimensione alienante e aveva innescato i suoi meccanismi perversi ... Ricordo bene le serate in cui io pensavo di essere solo un po' triste, e invece chissà, forse era una sorta di depressione ... Magari anche lieve, però tutte quelle notti in macchina a sentire le cassette ... Oddio, se uno sta anche benissimo e mette Lolli è impossibile che non gli venga la depressione, un po' come gli Intillimani che hanno rovinato la sinistra ...
Allora frequentavo un bar dove eravamo tutti un po' così, diciamo ... ignorantelli, e questo tipo di malattia era trattata con sufficienza: dicevano, «se non hai niente cosa rompi le balle ...» Ma alla fine ho visto che altri facevano capolino un po’ come me, ci si parlava e con un’occhiata scoprivamo di avere tutti il Lexotan in tasca ... Come essere parte di un associazione segreta, ti accorgi che più sei e meglio è ...
E poi c’era l’ansia a quattro ruote a bordo della mia macchinetta, la 127. Facevo il tratto La Spezia Sarzana, 15 chilometri, e mi prendeva una strana paura, come non mi fidassi di me al volante. Una specie di bizzarra auto prevenzione: lo stesso mi succedeva i mesi in cui cercavo casa per sposarmi ed evitavo di vedere gli appartamenti che superavano il secondo piano. Pensavo, se fra due anni mi sento male poi che succede da quell’altezza ...
Un sintomo evidente di insicurezza ... Ma poi, finalmente, ho cominciato a fare questo lavoro da pelandrone in cui vai e ti racconti alla gente. Ho preso la macchina e ho cominciato ad andare verso Milano, la sera, con la nebbia. Mi aspettavano allo Zelig, quando lo Zelig era ancora un bar, e la mattina dopo dovevo presentarmi al lavoro, magari tornando alle cinque, alle sette ... E facevo la Cisa, che per me era un viaggio oscuro e tenebroso con i monti, la nebbia... Con tutti i miei ansiolitici in macchina che sembravo una farmacia ambulante. Però m'è servito quel periodo, è stata veramente terapeutica la possibilità di girare e raccontare al pubblico cose mie, senza vergognarmi. E ho imparato che, in questo genere di cose, è più facile riconoscersi che prendere le distanze.

l’Unità 21.6.10
È in Italia il terapeuta familiare Jesper Juul per lanciare il Family-lab a sostegno dei genitori
Alla base di tutto la critica ai metodi pedagogici che mirano a creare cittadini obbedienti
W la famiglia senza tetto né legge
di Manuela Trinci

Si chiama Jesper Juul, è danese e si batte contro i tradizionali metodi pedagogici. È in Italia col nuovo libro «La famiglia che vogliamo» e col progetto «Family-lab» (www.family-lab.com.)

Una voce morbida, calda, dal ritmo veloce. Mani grandi come uno zio d’America e una bella pancia
rotonda, accogliente come un cuscino. Jesper Juul si presenta così, placido e rassicurante, come un abitante del paese dei cerchi. Danese, terapeuta della famiglia, autore di vari libri, tra cui gli imperdibili long-seller: Il bambino è competente (Feltrinelli, 2001), e Ragazzi, a tavola! (Feltrinelli 2005), Juul è da un paio di mesi in Italia per presentare la sua ultima fatica La famiglia che vogliamo (Urra) e lanciare i Family-lab (www.family-lab.com), un progetto familiare al servizio dei ge-
nitori, peraltro già molto diffuso in Europa (Germania, Austria, Danimarca, Svezia ecc...).
PER MAMMA E PAPA’
Con una premessa importante. Il celebre terapeuta non crede affatto che esistano metodi «educativi» esterni che garantiscono il successo o che sia possibile istruirsi o qualificarsi come padre e madre frequentando corsi. Tuttavia, questa «officina di famiglia», a fronte della grande solitudine dei genitori di oggi, tra conversazioni, dialoghi, serate a tema, riescono ad offrire «ispirazione, counselling e soprattutto condivisione». Un progetto elastico, dove ai genitori, «costruttivamente insicuri e consapevoli», si propone la ricerca di altri modi di fare, di altre scelte possibili e si valorizzano sogni e voglie per raggiungere la famiglia che si desidera. Perché la famiglia che Juul vuole è un luogo di mediazione, di negoziati, di rispetto reciproco, di incoraggiamento dell'individualità. Un luogo senza recinzioni, di soggetti imperfetti e volenterosi, di errori, di incontri e di scontri.
ABBASSO LE REGOLE
Alla base di tutto, una fortissima critica sia ai metodi pedagogici più tradizionali basati su regole e regolamentazioni con l’obiettivo di creare futuri cittadini obbedienti quanto acefali, sia all’attuale potentissima manipolazione che, a tutto tondo, viene usata sui bambini tanto da violarne l’integrità emozionale ed esistenziale. E via anche dal vocabolario del versatile analista il sostantivo «educazione», sostituito dall' espressione «guida empatica».
Il bambino, sostiene Juul, nasce competente e dispone già di nozioni, valori e criteri di valutazione che orientano concretamente la sua esperienza. Il neonato è un sentimentale: neuroscienze e osservazioni psicoanalitiche lo confermano da anni. Comunemente, invece, ci si comporta con lui come se fosse una specie di tabula rasa su cui i genitori devono imprimere le conoscenze necessarie per un regolare sviluppo umano e sociale. Sembra difficile impostare da subito un rapporto paritario, fra soggetti. Il piccolo è un «centro attivo di competenze», collabora. Occorre osservarlo. E non basta incoraggiare, sostenere, facilitare il bambino; è indispensabile anche aiutarlo in situazione sociale come la nostra, più orientata verso il «fare» e il «non pensiero» a «esistere», a «sentirsi bene con se stesso».
Quelle di Jesper Juul sono idee semplici: stare di più tutti insieme, con cellulari, televisioni e computer spenti! Nessuno è un’isola, e allora cucinare, in maniera attenta e creativa, con i figli si rivela una gran risorsa. Le famiglie hanno bisogno di valori più sostanziali del «veloce, a buon mercato e facile». Anche per affrontare i problemi individuali c’è necessità di valori: pari dignità, integrità, autenticità, responsabilità come pure il ruolo di leadership dei genitori o la solidarietà sociale, nella scuola, dappertutto.
Ma non disdegna Juul di sovvertire bonariamente, di conferenza in conferenza, tanti luoghi comuni: la paghetta? E perché mai! Nelle relazioni gratuite d'amore, in cui c'è rispetto, l'aiuto lo si dà volentieri senza chiedere nulla in cambio! E i genitori? Che dire? Sempre d’accordo di fronte ai ragazzini? Solo se la famiglia è autoritaria replica, ancora, Juul. Diversamente non c'è alcun bisogno di essere d'accordo. I bambini non sono turbati dalle nostre differenze ma dai nostri litigi sulle differenze!
In ogni modo tranquilli: né i family-lab né i suoi libri si presentano come un prontuario terapeutico, anzi. Jesper Juul è il primo a suggerire, sornione, che «se con i vostri figli fate qualcosa che funziona e che è diverso da quello che dico io, continuate a fare come state facendo!»

domenica 20 giugno 2010

l’Unità 20.6.10
«Mani, cuore, testa, questo siamo noi, questo è il partito che voglio io. Dobbiamo trasformare la rabbia in energia positiva»
«Non diremo mai una parola men che positiva contro di loro. Le altre le dedichiamo a Berlusconi».
La Costituzione: «La vogliamo rafforzare, è la più bella del mondo. La Costituzione è avanti, noi siamo indietro»

Folla e entusiasmo al Palalottomatica. Il leader Pd legge gli articoli 1 e 3 della Costituzione
Berlusconismo e conformismo «colpevoli» . L’elenco delle promesse del governo mancate
Bersani: basta balle mandiamoli a casa
Bersani all’attacco contro la manovra, il ddl intercettazioni e le tentazioni di modifica della Costituzione. Al Pd: «Dobbiamo essere più forti delle nostre debolezze. La gente ha bisogno di noi»
di Maria Zegarelli

«Mani, testa, cuore: questo siamo noi, questo è il partito che voglio io. Questa manifestazione non è la fine, è l’inizio». Infuoca la platea del Palalottomatica Pier Luigi Bersani che sventola centinaia di bandiere e si spella le mani. È questo il partito che vuole, cuore testa e mani nei bisogni del Paese, fuori dal dibattito interno in cui il Pd rischiava di morire. L’Inno di Mameli, versione abbreviata, la Canzone popolare di Ivano Fossati, e questa «rabbia che va trasformata in energia positiva, in una possibilità di cambiamento».
È un segretario «tonico» per dirla con Beppe Fioroni, «in gran forma» con David Sassoli, «bravissimo» con Rosy Bindi che a fatica trattiene le lacrime. Veltroni non parla, «oggi è il giorno del segretario», ma se ne va prima che Bersani intervenga, «impegni presi prima», spiegano i suoi. Ma oggi non è giorno di polemica, il Pd ritrova l’orgoglio di se stesso in questa manifestazione di protesta e di proposta, come la definisce lo stesso Bersani e si prepara per la campagna d’estate e quella d’autunno contro il ddl intercettazioni e la manovra «sbagliata, iniqua» fatta di 2380 commi «e 150 pagine senza uno straccio di idee, senza direzione di marcia». Sferzata a chi «passava il suo tempo a misurare le pagine del programma di Prodi».
Un discorso fissato sui fogli con appunti, l’articolo 1 e l’articolo 3 della Costituzione letti per intero. L’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro... tutti i cittadini sono uguali davanti alla legge senza distinzione... La Costituzione, dice, «sarà la nostra bandiera, ci indicherà la strada. La memoria di Berlusconi non arriva all' articolo 2 della Costituzione ma lui ci ha giurato sopra e se non gli piace, vada a casa». Applausi scroscianti, come fischi scroscianti quando va in onda il video con Berlusconi, Gelmini, Brunetta, Tremonti veri e imitati da Guzzanti, Crozza, Cortellesi.
Bersani all’attacco contro Berlusconi, la manovra, ma anche contro «la classe dirigente di questo paese», perché dice, «berlusconismo e conformismo sono altrettanto colpevoli». «Noi le proposte le abbiamo sempre fatte ma l'orecchio non è sempre stato attento, non solo quello del governo, anche di una parte della classe dirigente. Non si può più prendere per buona qualsiasi bolla di sapone della destra: dove sono finiti l'Irap, il bollo auto, la banca del Sud, il posto fisso? Sono state sprecate colonne di piombo su questo ma neanche un piombino per scrivere: erano tutte balle. Che fine hanno fatto i miracoli dell'Aquila e di Napoli. Dove sono finiti i rifiuti, nella discarica del Vesuvio? Le mille bolle blu nella versione di Apicella di ventano le mille balle azzurre». Risate e applausi. Riferimenti a Confindustria, ma anche a certa stampa che imbavagliata lo è già e forse, anche a qualcuno del suo partito: «Cosa vogliamo fare, gli vogliamo correre dietro anche sull’articolo 41? Non ho mai visto un imprenditore lamentarsi perché c’è la Costituzione». E Robin Hood-Tremonti, dov’è? «Forse a raccogliere funghi con Bossi nei boschi del comasco? Lo dico perché li hanno visti insieme». E cosa dicono a Pontida «dei quattro ladroni che stanno a Roma e hanno scritto le norme di questa manovra?». Una Lega dura contro «l’Inno e con la Nazionale, ma mollacciona con i miliardari».
Chiama all’azione i democratici arrivati qui da tutta Italia, oltre cento pullman, armati di striscioni e slogan: «Siamo un partito di governo temporaneamente all'opposizione. Dobbiamo andare dove c'è la gente, dove c'è il corpo e portare qualche idea. Usiamo tutti gli strumenti, vecchi e nuovi, per arrivare alle persone. Siamo un bel partito, dobbiamo essere più forti delle nostre debolezze perché la gente ha bisogno di noi». La formula è quella di oggi: la società civile che parla ad «un grande partito popolare» che deve ascoltare. Ascoltare quello che dicono Mila Spicola, «eroina dei tempi moderni», insegnante in trincea; Marcello Tocci, operaio dell’Ex Eutelia, che chiede aiuto al Pd; Giuseppe Tiani, sindacalista degli agenti di polizia, che dice: «Bisogna conoscerci meglio, lasciarci alle spalle le antiche contrapposizioni», perché oggi la battaglia per la legalità «è comune» e la posta in gioco è alta. O Don Vinicio Albanesi, fondatore della Comunità Capodarco, che non nasconde il male della Chiesa, «la pedofilia, Propaganda Fide» e Stefania Pezzopane che denuncia ancora una volta che niente va bene, che «mo basta», perché l’Aquila muore anche se la tv dice che il malato è in netta ripresa.

Repubblica 20.6.10
Fischi a Silvio, video e vuvuzelas così i "piddini" ritrovano l´orgoglio
In cinquemila al Palasport: "Siamo un gran bel partito"
di Alessandra Longo

ROMA - Risuonano le vuvuzelas sudafricane nell´enorme catino del Palalottomatica. I militanti del Pd se le sono portate dietro per sottolineare i passaggi clou di questa manifestazione contro la manovra. Da trombette da stadio si trasformano, per la prima volta, in «strumenti» di partito. Per sostenere la battaglia degli operai dell´Eutelia, ormai arrivati allo sciopero della fame, o per dare enfasi sonora a un Bersani lancia in resta che attacca il premier e la sua nota allergia per la Carta: «Se non gli piace la Costituzione vada pure a casa!».
Cinquemila militanti, certo non il Circo Massimo, arrivati con i pullman. Sondrio, Palermo, Imola, Bergamo, Catania... Un po´ di Cgil (c´è il futuro segretario generale Susanna Camusso in prima fila) e molta base, operai, studenti, insegnanti. Alla spicciolata arrivano i dirigenti: ecco Walter Veltroni, assediato da chi gli chiede come mai sia stato così tranchant con la Fiom e il caso Pomigliano (un caso, uno snodo, che qui tiene banco e crea anche dell´imbarazzo); ecco Piero Fassino che ha ancora fedelissimi che gli chiedono l´autografo, ecco Rosy Bindi, i capigruppo Franceschini e Finocchiaro, Livia Turco, Enrico Letta, il sindaco di Torino Chiamparino, il presidente della Conferenza Stato-Regioni, Errani. Assenti giustificati Franco Marini e Massimo D´Alema, tutti e due all´estero. Accanto ai big siede Stefania Pezzopane, aquilana, già presidente della Provincia, venerata come una reliquia (quando parlerà del «cinismo» di Berlusconi sul terremoto verrà giù la sala, tutti in piedi).
Un video-jukebox apre il raduno. Sullo schermo, la faccia truccata di Berlusconi. Parla della crisi gonfiata dai catastrofisti, dell´«amore che vince sempre». Fischia forte la platea. Seguono altri buuh per la Gelmini, Brunetta, Tremonti, immortalati dietro le loro scrivanie ministeriali. Jukebox goliardico, blob integrati dalle imitazioni dei fratelli Guzzanti e di Crozza. Risate. Non è un Pd depresso, non è un Pd ringhioso. Il vocabolario di Bersani è costruito per ribaltare l´immagine corrente, la vulgata della decadenza: «Noi siamo propositivi e ve lo dimostriamo. Sono loro che non hanno uno straccio di idea, di direzione di marcia. Noi abbiamo in testa un´altra Italia. Il partito che ho in mente ha mani, cuore, testa e piedi dentro la società». Loro il passato, noi il futuro. «Loro sono vecchi e senza coraggio – dice Errani – spingono il Paese all´indietro». La «rabbia da trasformare in energia», le «migliaia di feste di partito che diventeranno la nostra vetrina vivente», le «campagne d´estate e di autunno su democrazia e sociale», la «strategia per un´Europa federale»: è un Bersani in giornata sì che quasi impone il training autogeno alle sue truppe: «Siamo un gran bel partito, via...».
Un Pd che lascia parlare la base, che privilegia le storie. Va sul palco Mila Spicola, insegnante a Palermo (anni fa ebbe notorietà quando polemizzò sulla condizione femminile in Italia riassumendo così il concetto: «Il mio fondoschiena vale più di due lauree»). Racconta di come son ridotte le «scuole sgarrupate» del Sud, evoca vetri rotti, muffa sulle pareti, i suoi allievi difficili, figli di carcerati, dislessici, malati, che non hanno mai avuto il tempo pieno e nemmeno l´insegnante di sostegno. Invita Tremonti: «Ministro venga a Palermo nella mia scuola». Mila finisce tra gli applausi, Bersani l´abbraccia.
I numeri del massacro degli Enti Locali li danno Chiamparino e Errani: «Questa manovra ci taglia le ginocchia, incide sulla carne viva, non alzeremo mai bandiera bianca». Oscar Luigi Scalfaro appare in video, dietro un tavolo con le bandiere, la voce ferma, un appello ai cittadini: «E´ maturo il tempo di dire no». No ad una manovra ingiusta, no al lodo Alfano, no al bavaglio per magistrati e stampa.
Parlano l´operaio Tocci dell´Eutelia, un «poliziotto democratico», Giuseppe Tiani, che si sente preso in giro, parla Don Vinicio Albanesi, comunità di Capodarco, che invoca la lotta alla povertà «prima che muoiano tutti».E parla, con quella sua voce di attore, Fabrizio Gifuni. Difende la scuola, la cultura, come elementi fondanti della democrazia: «Ho paura di vivere in questo Paese perché sono tempi bui, opachi e molto, molto pericolosi. Il genocidio culturale, che temeva Pasolini, è già compiuto». Gifuni-Basaglia guarda la platea e si lascia andare: «Cari compagne e compagni. Vi chiamo così, è tanto che volevo dirlo...». Standing ovation della pancia Pd, qualche rigidità in prima fila. Bersani, alla fine, è contento: «Che bella manifestazione. Siamo un gran bel partito, via...».

l’Unità 20.6.10
«La scuola è la nostra identità, siamo noi»
Parla l’insegnante di Palermo che nel 2007 entrò in polemica con il Financial Times per l’eccesso di donne nude in Italia
di M.Ze.

È l’insegnante che tre anni fa fece aprire un dibattito andato avanti per settimane con una lettera che aveva un titolo fatto così: «Se il mio fondo schiena vale più di due lauree». Mica Spicola, insegnante di Palermo, porta qui, nel Palalottomatica, quel pezzo del paese che resta sempre più fuori dai media eppure riguarda la quotidianità di milioni di famiglie normali. Parole come pietre, dure, che fanno inumidire gli occhi quando racconta la Sicilia che lotta per mantenere i ragazzi a scuola, per dare il pasto ai figli delle famiglie più povere e spinge i figli dei ricchi a condividere con i loro compagni. «Chi glielo ha insegnato? chiede Noi glielo abbiamo insegnato». Quando finisce di parlare Bersani si alza e va ad abbracciarla a lungo. «Questi cialtroni hanno scambiato la scuola per un servizio, come la fila alla posta dice -, ma la scuola è nei primi dieci articoli della Costituzione, è la nostra identità, siamo noi. Voi protestate contro la legge bavaglio, ma a noi e ai vostri figli il bavaglio lo hanno messo con l’indifferenza», Cita la «Cecità» di Saramago, «quel male da cui sembrano affetti gli italiani». Dove è finita chiedela solidarietà economica politica e sociale?

il Fatto 20.6.10
La scuola chiude, la protesta continua
Le lezioni sono terminate, ma non le iniziative contro la “riforma”: 20 mila scrutini ritardati dallo sciopero indetto dai Cobas, 100 mila in piazza del Popolo sabato con la Cgil
di Marina Boscaino

Meno 8 mld alla scuola entro il 2011, meno 140 mila posti di lavoro tra docenti e Ata: è la Finanziaria 2008. Non paghi, in un successivo, improvvisato round, i nostri governanti hanno reso ancora più incerto il confine tra la necessità di riordinare i conti pubblici e la volontà di colpire una categoriadilavoratorie,conloro,un'istituzione del Welfare e il progetto che essa configura. Il blocco degli scatti di anzianità previsto dalla nuova manovra porterà ad una perdita sullo stipendio di 1.000 euro l'anno per un Ata, dai 2 mila ai 3 mila per un insegnante. Ci sono poi il mancato rinnovo del contratto e le conseguenze dei tagli sul trattamento pensionistico. Qualcosa non torna (o tutto torna): nel caldeggiare l'amena proposta di posticipare l’apertura delle scuole, Gelmini ci ha informati (come se non lo sapessimo) che i docenti da noi lavorano più che negli altri Paesi dove (dato Eurostat) le retribuzioni sono più alte. Si è trattato di un vero e proprio coup de théâtre: l'epica del fannullonismo (celebrata con Brunetta per giustificare i tagli) usava argomentazioni opposte. La nostra spesa pubblica per l’istruzione è scesa dal 10,3% del totale del ‘90 al 9,3% del 2008. In 84 scuole del Lazio (dati Asal), a fronte di un fabbisogno medio per il 2009 di 90.600 euro, il Miur ne ha erogati 36.800. -25% di finanziamento per pulizia e igiene; -55% in 3 anni per i corsi di recupero. Dai primi dati diffusi dal ministero, i non ammessi alla maturità del 2010 sarebbero circa 28.500, il 6,1% del totale degli studenti del totale, con un aumento dello 0,6% rispetto al 2009. Nelle classi intermedie le bocciature salgono dal 11,7% al 13,1%: all'insuccesso formativo si risponde con un taglio generalizzato di tempo scuola, materie e diritto allo studio. Il preside di un liceo di Putignano (Ba) ha chiesto, a ciascuna delle 127 famiglie dei maturandi, 145 euro per anticipare i compensi ai commissari, da anni a carico immediato delle scuole, poi rifuse dal ministero, che però ha intanto accumulato un debito globale di 1,5 mld con gli istituti. Il problema della sostituzione dei docenti assenti è assillante, dal momento che non ci sono soldi per le supplenze; il dato assume particolare drammaticità nella primaria, dove sono quotidiane le migrazioni di aula in aula (con violazioni continue dei parametri di gestione sicura degli spazi) e dove gli alunni non svolgono normali attività didattiche anche per molte ore. Su materiale di consumo e attrezzature delle scuola si verifica un sapiente, quotidiano esercizio di bricolage organizzativo. Le norme per la sicurezza negli istituti sembrano rappresentare un paternalistico suggerimento più che un vincolo obbligatorio cui attenersi con rigore e senso di responsabilità. Gelmini esordì dicendo che occorreva tagliare la maggiore fonte di spesa del ministero: il 98% è infatti destinato al personale. Nel frattempo si è data da fare per falcidiare anche altri capitoli di spesa. La politica di delegittimazione ai danni degli insegnanti si è riflessa in una sostanziale e generale indifferenza dell’opinione pubblica nei confronti della protesta e delle lotte di chi è mobilitato da lungo tempo. Ma, anziché essere fiaccata, la scuola consapevole continua, nonostante la conclusione dell'anno, la propria protesta: 20 mila scrutini ritardati dallo sciopero indetto dai Cobas (con relativa accusa da parte di Gelmini di “complotto contro il governo” perpetrato dai media non allineati e coperti, quelli che si ostinano a riportare i dati del dissenso); 100 mila in piazza del Popolo sabato con la Cgil. Qualcosa sta ulteriormente cambiando: i genitori vero e proprio incubo del governo promettono di non arrendersi al taglio di tempo pieno nelle nuove prime. Una scuola di maggiore qualità indubbiamente costa. Del resto disinvestire sulla cultura nei periodi di crisi è una scelta e non un dogma. “L'istruzione e la ricerca sono pilastri per la futura sostenibilità della nostra società”: così Merkel. La manovra quadriennale tedesca di 80 mld, che punta a ridurre il deficit di quel Paese dal 5 al 3% entro il 2013, salvaguarda 12 mld di investimenti pubblici in ricerca, sviluppo e istruzione. Non tutta l'Europa è Bel Paese.

il Fatto 20.6.10
L’Osservatore Romano: “Mente uncinata dalla banalizzazione del sacro” Storture e omissioni
Il Vaticano crocifigge Saramago
Anatema sgangherato contro lo scrittore morto venerdì: “Populista estremistico”
di Paolo Flores d’Arcais

José Saramago ha lasciato l’isola di Lanzarote. La sua salma è stata trasferita in Portogallo, dove dopo la camera ardente verrà cremata. Una parte delle ceneri ritornerà nell’isola e sarà sepolta ai piedi di un ulivo. Mentre le agenzie battevano queste notizie, ne aggiungevano un’altra: al grande scrittore scomparso arrivava uno straordinario riconoscimento, l’attacco forsennato del quotidiano della Santa Sede, l’Osservatore Romano, talmente invasato nella pulsione dell’anatema da dare spurgo a una prosa sgangherata e sbilenca. Ma la carità cristiana, si sa, messa in mano alla Chiesa gerarchica può fare miracoli. Gli uncini di Benedetto Evidentemente i suoi libri devono aver colto nel vivo, se il foglio del Papa sente il bisogno di sproloquiare che “uncinata com’è stata sempre la sua mente da una destabilizzante banalizzazione del sacro e da un materialismo libertario che quanto più avanzava negli anni tanto più si radicalizzava, Saramago non si fece mai mancare il sostegno di un semplicismo teologico sconfortante: se Dio è all’origine di tutto, Lui è la causa di ogni effetto e l’effetto di ogni causa”.
Prescindendo dalla struttura sintattica di conio prepotentemente tedesco, colpisce quella “sua mente” descritta come “uncinata”, per l’assonanza hitleriana che il lapsus evoca con gioventù assai diverse da quella del grande scrittore, a parte che in italiano “una mente uncinata da una banalizzazione” o lo scrive un genio del “pulp” o te la segnano in blu in qualsiasi ginnasio. L’autore, o traduttore, del cristiano necrologio, vuole dire che il cervello di Saramago era destabilizzato dalla banalizzazione del sacro (vulgo: che era un pazzo o un coglione) o che con tale banalizzazione, coniugata col suo materialismo libertario, destabilizzava la fede dei lettori? Perché in quest’ultimo caso sarebbe un elogio.
La teologia
Del resto “lo sconfortante semplicismo teologico” che gli viene imputato riassume solo nella splendida forma narrativa del Vangelo secondo Gesù e del più recente Caino le antinomie della teodicea delle quali, malgrado secoli di sottigliezze teologiche e alpinismo sugli specchi, i dottori della Chiesa non sono mai riusciti a venire a capo. L’“house organ” del presunto Vicario di Cristo in terra fulmina lo scrittore per essersela presa con “un Dio in cui non aveva mai creduto, per via della Sua onnipotenza, della Sua onniscienza, della Sua onniveggenza” ma dimentica la infinita bontà e/o giustizia che è la caratteristica di Dio incompatibile con l’onnipotenza, visti gli orrori di cui è albergo il “Suo” creato, incompatibilità da cui non ci si libera con il solito richiamo al passpartout del “mistero”, anzi delle “(di Dio) prerogative per così dire, che ben avrebbero potuto nascondere un mistero”. Segue il puro nonsense, razionalmente parlando, della conclusione: “Oltre che la divina infinità delle risposte per l’umana totalità delle domande”.
Quanto al Vangelo secondo Gesù quello che manda fuori dai gangheri L’Osservatore è che sia costruito utilizzando tutti i dati che la critica storica delle origini del cristianesimo considera da decenni acquisiti, da un Gesù che non si considerò mai il Cristo (eventualmente, per alcuni, al momento della croce) a una Maria di cui nulla sappiamo, se non che giudicava suo figlio “fuori di sé” (Marco, 3,21). E valorizzando tutte le contraddizioni della favola teologica realizzata nei secoli successivi, fino a Nicea e Calcedonia. Anti-logica
Ma la logica non è il forte del quotidiano vaticano e neppure il rispetto dei fatti, visto che come botta finale rimprovera al grande scrittore che “un populista estremistico come lui, che si era fatto carico del perchè del male nel mondo, avrebbe dovuto anzitutto investire del problema tutte le storte strutture umane, da storico-politiche a socio-economiche”: esattamente quello che Saramago ha fatto, con il suo impegno inesauribile “dalla parte degli ultimi”, dei poveri, degli emarginati, che a chi pretende di predicare il Vangelo tutte le domeniche qualcosa dovrebbe pur ricordare.

L’Osservatore Romano 19.6.10
È morto José Saramago
L'onnipotenza (presunta) del narratore
di Claudio Toscani

"Quello di cui la morte non potrà mai essere accusata è di aver dimenticato a tempo indeterminato nel mondo qualche vecchio, solo per invecchiare sempre di più, senza alcun merito o altro motivo visibile". 
Sia pure scomparso alla rispettabile età di 87 anni, di José Saramago non si potrà dire che il destino l'abbia tenuto in vita a tutti i costi, vedi la frase succitata, tolta dal romanzo Tutti i nomi, uscito in quel 1998 che lo vide provocatorio Nobel della letteratura.

"Saramago", cognome aggiunto all'anagrafico José Sousa, era nato nel 1922 ad Azinhaga in Portogallo, da una famiglia di contadini e braccianti. Trasferitosi a Lisbona nel 1924, qui aveva compiuto i suoi studi fino al diploma di tecnico meccanico. Non particolarmente complessa né movimentata, la sua vita veniva registrando vari lavori, tra cui l'editoria; un matrimonio nel 1944; un primo romanzo nel 1947 (Terra di peccato, che disconoscerà in sede di bibliografia ufficiale); l'iscrizione al Partito comunista nel 1969 e una militanza politica clandestina sino al 1974, quando la cosiddetta "rivoluzione dei garofani" (contro la dittatura di Caetano), ristabilisce le libertà democratiche. 
Cinquantacinque anni compiva Saramago al suo vero primo romanzo, Manuale di pittura e di calligrafia (1977), ma nel resto della sua vita recupererà il tempo andato imponendosi in decine e decine di opere che coerentemente convergono attorno a pochi cespiti conduttori: la Storia maiuscola in filigrana a quella del popolo; una struttura autoritaria totalmente sottomessa all'autore, più che alla voce narrante, non solo onnisciente ma anche onnipresente; una tecnica dialogica in tutto debitrice all'oralità; un intento inventivo che non si cura di celare con la fantasia l'impronta ideologica d'eterno marxista; un tono da inevitabile apocalisse il cui perturbante presagio intende celebrare il fallimento di un Creatore e della sua creazione. E, infine, una strategica modalità, tematica ed espressiva a un tempo, impegnata a rendere quel che lui stesso ha definito la "profondità della superficie": qualcosa che allude sia a quel poco che conosciamo del tanto che rivendichiamo alla ragione, ma anche quel tanto che strappiamo alla realtà di quel poco che la ragione ci permette. 
Chiamando a raccolta non molti ma primari maestri (da Kafka a Borges, da Eça de Queiros a Pessoa, da Antonio Vieira a Machado), Saramago diede da subito l'elenco degli artefici della sua formazione, collocandoli senza soluzione di continuità lungo un'onda di piena al cui estuario poneva la novecentesca inquietudine della letteratura, della storia, dell'arte, della politica e della religione, oltre che di se stesso. 
E per quel che riguardava la religione, uncinata com'è stata sempre la sua mente da una destabilizzante banalizzazione del sacro e da un materialismo libertario che quanto più avanzava negli anni tanto più si radicalizzava, Saramago non si fece mai mancare il sostegno di uno sconfortante semplicismo teologico: se Dio è all'origine di tutto, Lui è la causa di ogni effetto e l'effetto di ogni causa. 
Un populista estremistico come lui, che si era fatto carico del perché del male nel mondo, avrebbe dovuto anzitutto investire del problema tutte le storte strutture umane, da storico-politiche a socio-economiche, invece di saltare al per altro aborrito piano metafisico e incolpare, fin troppo comodamente e a parte ogni altra considerazione, un Dio in cui non aveva mai creduto, per via della Sua onnipotenza, della Sua onniscienza, della Sua onniveggenza. Prerogative, per così dire, che ben avrebbero potuto nascondere un mistero, oltre che la divina infinità delle risposte per l'umana totalità delle domande. Ma non per lui. 
Giunto tardi al romanzo, si era rifatto, come s'è detto, con una serie di narrazioni. Dal 1980 in poi, nella bibliografia dell'opera di Saramago, si transita da Memoriale del Convento a L'anno della morte di Ricardo Reis (1984), che torna alla storia del Portogallo nel 1936; da La zattera di pietra (1986), avventura ecologica e demoniaca che immagina la deriva della Spagna dell'oceano tra magico quotidiano, metafora politica e nuove soluzioni atlantiche, a Storia dell'assedio di Lisbona (1989), libro in cui un revisore editoriale, inserendo una particella negativa (un "non") in un saggio storico, dà a Saramago il destro per giocare a falsificare l'evento, più per gioco che per convinta ideologia. 
È il 1991 quando, inaugurando ciò che la critica ha chiamato il suo secondo tempo, lo scrittore pubblica Vangelo secondo Gesù, sfida alla memorie del cristianesimo di cui non si sa cosa salvare se, tra l'altro, Cristo è figlio di un Padre che imperturbato lo manda al sacrificio; che sembra intendersela con Satana più che con gli uomini; che sovrintende l'universo con potestà senza misericordia. E Cristo non sa nulla di Sé se non a un passo dalla croce; e Maria Gli è stata madre occasionale; e Lazzaro è lasciato nella tomba per non destinarlo a morte suppletiva. 
Irriverenza a parte, la sterilità logica, prima che teologica, di tali assunti narrativi, non produce la perseguita decostruzione ontologica, ma si ritorce in una faziosità dialettica di tale evidenza da vietargli ogni credibile scopo. 
Il secondo tempo di Saramago si diversifica poi con Cecità (1995), affresco apocalittico che denuncia la notte dell'etica in cui siamo sprofondati. Poi in campo esistenziale, sia con Tutti i nomi (1997), altra apocalisse dal pessimismo assoluto sospesa su una indifferenziata comunità di morti e di vivi, sia con Il racconto dell'isola sconosciuta (1998), parabola sull'uguaglianza dell'uomo tra gli uomini. In campo intellettuale, prima con La caverna (2000), che tra Kafka, Huxley e Orwell, dispiega un allarme meno disperato del solito e addirittura aperto alla speranza; poi, con L'uomo duplicato (2003), dove colui che si scopre identico a una comparsa televisiva finisce per smarrirsi in un garbuglio fattuale, psichico e spirituale. 
Avvicinandosi alla fine, Saramago ci ha lasciato un "testamentario" Saggio sulla lucidità (del 2004), critica al funzionamento, se non alla funzionalità, delle odierne democrazie, contro le quali l'autore auspica una schiacciante maggioranza di "schede bianche", la più invisa espressione di volontà politica per un potere che solo così dovrebbe deflagrare. Poi, un "giocoso" Don Giovanni o il dissoluto assolto (del 2005), ossia il ritratto di un onore sociale offeso, giacché al grande amatore non riesce, nel testo, ciò per cui è da sempre famoso. 
Fertile, comunque, la discesa creativa degli anni appena precedenti la scomparsa: dall'itinerante carovana di Il viaggio dell'elefante (2009), pittoresco, umoristico e "peripatetico", all'inaccettabile Caino (2010), romanzo-saggio sull'ingiustizia di Dio, parodiante antilettura biblica, per non dire di altri titoli che andrebbero segnalati, a onor del vero, ma quasi sempre per polemica o pretesto. 
Saramago è stato dunque un uomo e un intellettuale di nessuna ammissione metafisica, fino all'ultimo inchiodato in una sua pervicace fiducia nel materialismo storico, alias marxismo. Lucidamente autocollocatosi dalla parte della zizzania nell'evangelico campo di grano, si dichiarava insonne al solo pensiero delle crociate, o dell'inquisizione, dimenticando il ricordo dei gulag, delle "purghe", dei genocidi, dei samizdat culturali e religiosi.

http://www.vatican.va/news_services/or/or_quo/text.html#12

l’Unità 20.6.10
La fiaccolata dei favorevoli all’intesa è un fiasco per le speranze di Marchionne
Solo la Fim presente Le altre sigle si sfilano all’ultimo momento. A sventolare le bandiere del Pdl
Pomigliano, un flop totale il corteo contro i diritti
Cinquemila persone secondo un comunicato della questura, in realtà non più di 1.500: la fiaccolata dei “colletti bianchi” favorevoli all’accordo sullo stabilimento di Pomigliano si è rivelata un insuccesso.
di Massimiliano Amato

«Spero che stavolta vada diversamente rispetto al 1980, quando la marcia dei quarantamila portò al massacro del sindacato». Per la serie: fratture di senso. La vicenda Pomigliano ne produce in serie, bisogna abituarsi. Si è già adeguato Michele Liberti, segretario della Fim, che arriva al cancello 2 e si guarda intorno, un po’ intimorito. La sua è l’unica sigla presente alla fiaccolata dei capi del “Vico”: all’ultimo momento si sfila la Uilm, mentre gli iscritti Fismic e Ugl partecipano a titolo personale. Un cortese “no, grazie” arrivato anche dall’arcivescovo di Nola, Beniamino Depalma. In compenso, abbondano le bandiere del Pdl, che vengono ritirate durante la marcia. In testa al serpentone, il presidente della Provincia Luigi Cesaro, che dispensa vigorose strette di mano e baci e ribattezza «Melchionne» l’ad Fiat, e Lello Russo, il sindaco di Pomigliano.
In mattinata, avevano dato vita ad un happening sotto un gazebo del Pdl, alla presenza di tutto lo stato maggiore della destra campana: Nicola Cosentino, Mario Landolfi, Paolo Russo, l’assessore regionale Ermanno Russo. Circostanza, questa,
che manda in bestia Michele Gravano, segretario della Cgil Campania, uno che si è preso gli insulti dei falchi della Fiom per aver invitato i lavoratori a votare sì al referendum del 22: «No alle strumentalizzazioni della politica dice -, no alle crociate: ben altro è il ruolo che spetta alle istituzioni. La scarsissima partecipazione al corteo e la mobilitazione di partito dimostrano che l'iniziativa è stata un errore».
FRATTURE DI SENSO
Un flop? Dipende dai punti di vista: i capi, che sostengono di aver preso la decisione di sfilare in piena autonomia, «durante un brain storming» (testuale) nella sala del reparto qualità, si aspettavano almeno 2000-2500 presenze, fonti della Questura ne certificano 5000 ma, fatta la tara, non si è andati oltre le 1500 unità. In testa al corteo, uno striscione: “Sì all’accordo, sì al nostro futuro». Dietro, la nuova generazione di capi (sono 450 in tutto), gente che è entrata in fabbrica in massa nel 1989, vittima inconsapevole della seconda grande frattura di senso. «Assenteismo a Pomigliano? Assolutamente nella media degli altri siti», ammette Benedetto Tramontano, che negli ultimi anni ha girato come una trottola: Polonia, Brasile, Turchia, Argentina.
«C’è una generazione di operai più responsabile rincara Umberto Garofalo -, solo che è giunto il momento di lavorare in condizioni più normali». Cioé? «Senza pressioni della politica e del sindacato», si lascia scappare Giuseppe La Cava. “La Panda è il nostro futuro e la nostra speranza”, recita uno striscione. Lo inalberano 88 precari buttati fuori senza riguardi il 31 dicembre scorso. «Presidieremo lo stabilimento notte e giorno fino al referendum: ci aspettiamo una valanga di sì». Un’altra frattura di senso. E per oggi può bastare.

Repubblica 20.6.10
A Pomigliano comincia l’epoca dopo Cristo
di Eugenio Scalfari

TRA le tante dichiarazioni fatte da Marchionne in questi giorni ce n´è una che è d´una chiarezza disarmante ed anche sconcertante: «Io vivo nell´epoca dopo Cristo; tutto ciò che è avvenuto prima di Cristo non mi riguarda e non mi interessa».
Il dopo Cristo per l´amministratore delegato della Fiat comincia evidentemente con la globalizzazione della finanza, delle merci e del lavoro. È un´epoca che ha accentuato e radicalizzato la legge dei vasi comunicanti.
Le grandezze economiche, come ovviamente per i liquidi, tendono a raggiungere lo stesso livello. Si livellano i rendimenti del capitale, i rapporti tra benessere e povertà, la produttività del lavoro e, naturalmente i salari.
I salari dei Paesi emergenti sono ancora molto bassi; dovranno gradualmente aumentare ma lo faranno lentamente. I livelli dei salari nei paesi opulenti e di antica civiltà industriale sono molto alti, ma tenderanno a diminuire e questo fenomeno avverrà invece con notevole rapidità per consentire alle imprese manifatturiere di vendere le loro merci sui mercati mondiali a prezzi competitivi.
In questo schema già operante va collocata la vicenda di Pomigliano. Se la Fiat trasferisce la produzione di uno dei suo modelli da una fabbrica dove i salari e le condizioni del lavoro sono più favorevoli al capitale investito ad una fabbrica dove sono invece più sfavorevoli, il trasferimento potrà farsi soltanto se le condizioni tenderanno a livellarsi, oppure non si farà.
Questo è il dopo Cristo di Marchionne; non si tratta di ricatto ma di dati di fatto e con i dati di fatto è inutile polemizzare.
I sindacati che hanno firmato l´accordo proposto dalla Fiat ritengono che si tratti d´un evento eccezionale e non più ripetibile. La stessa posizione l´hanno fatta propria molte delle parti interessate alla vicenda di Pomigliano, compresa una parte dell´opposizione parlamentare: passi per Pomigliano purché non si ripeta.
Errore. La legge dei vasi comunicanti ha carattere generale e quindi il livellamento salariale e delle condizioni di lavoro si ripeterà. Molte imprese in difficoltà, specialmente nel Nordest, nelle Marche, in Puglia e in tutto il Mezzogiorno, metteranno i loro dipendenti di fronte allo stesso dilemma che riguarda per ora i 5000 dipendenti Fiat di Pomigliano. Dichiareranno che in caso di risposta negativa saranno costrette a de-localizzare la produzione in siti più convenienti. Pomigliano cioè è l´apripista d´un movimento generale e non sarà né la Fiom né Bonanni che potrà fermarlo.
Chi pensa di fermare l´alta marea costruendo un muro che blocchi l´oceano non ha capito niente di quanto sta avvenendo nel mondo. Nello stesso modo non ha capito niente chi ritiene di bloccare la massa di migranti che abbandona i luoghi della povertà e preme per fare ingresso nei luoghi dell´opulenza. Quel tipo di muri può reggere qualche mese o qualche anno ma poi si sbriciolerà e il livellamento procederà.
Allora non si può far niente? Bisogna rassegnarsi al livellamento verso il basso del benessere delle zone ricche del mondo?
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Qualche cosa si può e si deve fare. Ma occorre molta lucidità e molto coraggio. I Paesi opulenti, al loro interno, non sono affatto livellati per quanto riguarda la diffusione del benessere. Ci sono, nelle zone ricche del mondo, sacche di povertà impressionanti e diseguaglianze mai verificatesi prima con questa intensità. Voglio dire che la legge dei vasi comunicanti deve entrare in funzione dovunque e spetta alla politica rimuovere gli impedimenti che la bloccano.
Perciò i sindacati e le forze di opposizione debbono spostare l´obiettivo. Le categorie svantaggiate e costrette a rinunciare ad una parte delle conquiste raggiunte nell´epoca «prima di Cristo» debbono recuperarle su altri piani e in altre forme nell´epoca del «dopo Cristo». Debbono cioè impostare un piano globale di redistribuzione del reddito da chi più ha a chi meno ha.
Lo spostamento può avvenire in vari modi, manovrando soprattutto il fisco (ma non soltanto); sgravando il peso fiscale sui redditi di lavoro dipendente e sulle famiglie e finanziando la redistribuzione con maggior carico tributario sulle rendite, sui patrimoni e sui consumi opulenti.
Un piano di questo genere non può essere considerato un progetto dettato dall´emergenza poiché non di emergenza si tratta, bensì di un movimento, appunto, epocale. E per gestire un progetto del genere è necessario ripristinare quel metodo della concertazione tra le parti sociali e il governo che diede ottimi frutti tra il 1993 e il 2007, consentendo di abbattere l´inflazione, far scendere i rendimenti dei titoli pubblici e il disavanzo delle partite correnti.
Ci vuole insomma una politica a lungo raggio che rafforzi la coesione sociale, diminuisca le diseguaglianze, renda sopportabile il livellamento delle condizioni di lavoro compensando quei sacrifici con agevolazioni massicce anche in tema di servizi pubblici efficienti e gratuiti, finanziati da chi possiede mezzi in abbondanza.
Questa è a nostro avviso la linea da seguire, «buscando el levante por el ponente», cioè mettendo a carico della società opulenta una parte dei sacrifici che la guerra tra poveri scarica sui deboli di casa nostra.
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C´è un filo diretto che lega queste riflessioni suscitate da quanto sta accadendo a Pomigliano con la politica deflazionistica imboccata dall´Eurozona sotto la guida della Germania. Questa politica, sulla quale ci siamo intrattenuti varie volte, arriverà domani all´esame del G8 e del G20 appositamente convocati.
Il presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, ha lanciato un messaggio ai capi di Stato dell´Eurozona affinché affianchino alla manovra di stabilizzazione dei rispettivi debiti una politica che sostenga i redditi e la crescita. Un secondo l´ha lanciato alla Cina affinché proceda ad una rivalutazione della propria moneta rispetto al dollaro per accrescere le importazioni e per tale via sostenga la domanda globale.
La Cina ha già risposto positivamente; l´Europa e la Germania finora sembrano voler persistere nella politica di deflazione. Questa posizione è semplicemente insensata.
Dal canto suo il segretario generale dell´Onu, Ban Ki Moon, ha posto ieri ai paesi dell´Eurozona le seguenti domande: «Il mondo intero è destinato a sprofondare a causa dei problemi dell´Eurozona in una recessione che rischia di essere recidiva? Può la ripresa dei mercati emergenti bilanciare i cali che si verificano altrove? Stiamo finalmente emergendo come i sopravvissuti a un uragano, per valutare l´entità del danno e i bisogni dei nostri vicini? Oppure ci troviamo piuttosto nell´occhio del ciclone?» (La Stampa del 19 scorso).
Non si può esser più chiari di così. E anche qui il tema si risolve attraverso un grande programma di redistribuzione delle risorse tra paesi e tra classi all´interno dei paesi. Non c´è altro mezzo per equilibrare libertà ed eguaglianza, la necessaria crudeltà della libera concorrenza e la coesione sociale che si proponga il bene comune.
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Su questi argomenti di capitale importanza il governo italiano tace, la sua afasia è totale. Tiene invece banco la modifica costituzionale dell´articolo 41 della nostra Costituzione.
Quell´articolo, che fu voluto da Luigi Einaudi e da Taviani, proclama la piena libertà di impresa purché non crei danni sociali. Questa dizione non piace a Berlusconi e a Tremonti. Di qui la proposta di modificarla sostituendola con la libertà totale, anche nel settore delle costruzioni e dell´urbanistica, in modo che si aggiungerà scempio a scempio nel paese dell´abusivismo di massa.
Snellire le procedure burocratiche è un obiettivo sacrosanto, più volte preannunciato e finora mai attuato. Si può e si deve fare con provvedimenti di ordinaria amministrazione. Mettere in Costituzione l´abolizione di ogni regola rinviando i controlli ad una fase successiva è semplicemente una bestemmia costituzionale che svela l´intento di stravolgere l´architettura democratica del patto sociale.
Eguale chiacchiericcio del tutto inutile lo ritroviamo nella proposta italiana all´Unione europea di valutare i debiti pubblici aggiungendo ad essi la consistenza dei debiti privati. La Commissione di Bruxelles ha accolto la proposta: non costa nulla e il nostro governo l´ha sbandierata come un grande successo. Nessuno ha fatto osservare che il debito pubblico è la sola grandezza che determina il fabbisogno, gli oneri da pagare e il disavanzo che ne risulta.
Siamo ancora tutti nell´occhio del ciclone e il nostro governo inganna il tempo con annunci inutili che servono soltanto a gettar fumo negli occhi degli sprovveduti.

il Fatto 20.6.10
Poggioreale, benvenuti all’inferno
di Silvia D’Onghia

A guardarlo da fuori, il carcere di Poggioreale, sembra un enorme cane che si morde la coda. Immobile, appesantito, malandato all’esterno; sovraffollato, caotico, in perenne tensione all’interno. In realtà è una bomba pronta ad esplodere, forse la prima di quella che si annuncia essere un’estate ad altissimo rischio rivolte in tutta Italia. Ieri il Fatto ha pubblicato la lettera inviata a Radio Radicale da 650 detenuti anonimi dell’istituto partenopeo, in cui si denunciano maltrattamenti, lunghi tempi di attesa per le cure, colloqui più brevi del previsto, e in generale un atteggiamento intimidatorio da parte della polizia penitenziaria.
I numeri dell’inciviltà
Per capire cosa accade a Poggioreale bisogna partire dai numeri: i detenuti sono 2780, a fronte di una capienza massima di 1400 posti. Il doppio. Ci sono celle in cui vivono per 22 ore al giorno otto persone, spesso costrette ad arrampicarsi fino al terzo piano del letto a castello per poter dormire. L’organico di polizia è di 720 unità, con una scopertura del 25 per cento secondo i sindacati. Rapporto numerico che fa venire i brividi se si pensa che, di notte, ci sono appena 35 agenti per tutti i 2780 detenuti. “Tenendo conto che, tra i poliziotti, ci sono anche gli addetti alla portineria e all’ufficio matricole, arriviamo ad avere un rapporto di uno a 300 – spiega Eugenio Sarno, segretario generale della Uilpa penitenziari – In queste condizioni, purtroppo, gli interventi sono spesso tardivi. Per esempio, se io ho la fortuna di sentire uno sgabello che cade, il chiaro segnale di un suicidio, significa che sono lì vicino e posso correre e magari, dopo aver aperto qualche porta, riesco a salvare una vita. Ma se non lo sento, non ci sono speranze. Questo dai detenuti è letto come un ingiustificato allungamento dei tempi di soccorso”.
Le persone che hanno scritto la lettera hanno raccontato anche un episodio avvenuto l’11 giugno: un detenuto malato di cuore si è sentito male dopo i colloqui, mentre era stipato con altri 39 in una stanza di 10 metri quadri. Secondo il racconto dei suoi compagni, più volte e inutilmente sarebbero stati chiamati i soccorsi, fino a quando l’uomo ha cominciato a sbattere la testa contro la cella, provocandosi delle lesioni. “Se un agente, che porta mazzi di chiavi da tre chili, deve attraversare sette porte, non possono permettersi di dire che non voleva intervenire. Il fatto che la lettera sia arrivata a Radio Radicale significa poi che non c’è censura né filtro, come invece a volte viene detto”.
Più che un istituto per la rieducazione degli individui sembra il campo di battaglia di una guerra tra poveri. “In tutto il carcere ci sono appena 14 educatori – denuncia Dario Dell’Aquila, portavoce dell’associazione Antigone a Napoli – I due terzi circa dei detenuti sono in attesa di giudizio, ogni giorno entrano moltissime persone, che poi magari vengono subito trasferite”. Esistono problemi igienici, così come è grave l’assistenza sanitaria: “In alcuni reparti c’è una doccia nel piano e non all’interno di ogni cella – prosegue Dell’Aquila – questo significa che ci si lava una volta alla settimana. Va peggio a chi deve sottoporsi ad una visita specialistica, che spesso deve aspettare troppo tempo”.
Poggioreale ha una popolazione detenuta un po’ differente dagli altri istituti italiani: gli stranieri, secondo Antigone, sono soltanto il 15 per cento del totale (contro il 30 della media nazionale); quasi tutti invece sono cittadini campani, che sono dentro magari per piccolo spaccio o per il furto d’auto.
Parenti e proteste
Esiste poi un enorme problema per i colloqui con i familiari, proprio come denunciano i detenuti. Chi ha voglia di farsi un giro, troverà già all’alba decine di persone in fila per entrare in carcere. “Ci avviamo però alla fine dell’indecenza – spiega Sarno – il dipartimento ha finanziato con un milione e 400 mila euro la realizzazione di una nuova area per i colloqui. La gara si sta svolgendo in questi giorni e forse già fra un anno avremo una situazione diversa: tutto sarà informatizzato, anche le registrazioni. Questo porterà a uno snellimento dei tempi e ad una maggiore sicurezza, per esempio rispetto a quello che entra in carcere”. Sarno teme che la lettera dei detenuti, “come storicamente è avvenuto”, preluda a una rivolta, magari proprio contro quella maggiore sicurezza. Ipotesi che le associazioni rimandano al mittente. “Si continua a mandare dentro la gente pensando che il carcere significhi sicurezza, ma è esattamente il contrario”, commenta amareggiata Ornella Favero di Ristretti Orizzonti.
L’estate in carcere è ancora più calda. “A Padova non hanno neanche più i materassi”, prosegue Favero; a Genova da sei giorni ci sono proteste ininterrotte, fa sapere la Uilpa. All’Ucciardone (Palermo) i detenuti della settima sezione fanno una colletta per ristrutturare i bagni.
In questa polveriera il piano carceri del ministro Alfano non esiste più: non c’è neanche più la copertura economica per assumere duemila agenti in più della polizia penitenziaria, figuriamoci se si trovano i soldi per costruire 47 nuovi padiglioni entro la fine dell’anno. I 68 mila detenuti non interessano a nessuno e, soprattutto, non hanno ancora cominciato a fare paura.

il Fatto 20.6.10
Nel mondo si celebra la Giornata del Rifugiato In Italia il governo brinda ai respingimenti
Dimezzate le domande di asilo: nel 2008 ne erano state presentate 30 mila, nel 2009 sono scese a 17 mila
di Corrado Giustiniani

Per il mondo è la Giornata del Rifugiato. Ma in Italia quella che si celebra oggi andrebbe forse ribattezzata come giornata della vergogna. La politica dei respingimenti in mare, inaugurata dal governo Berlusconi nel maggio del 2009, ricaccia indietro non soltanto migranti per lavoro, ma anche, e sempre più, persone che fuggono dalla guerra e dalle persecuzioni. Il crollo delle domande di asilo politico è una prova schiacciante: nel 2008 ne erano state presentate 30 mila 492, nel 2009 sono scese a 17 mila 603. Quasi un dimezzamento. E molti di coloro che invocano una protezione internazionale arrivano proprio con i gommoni e le vecchie carrette. Il 75 per cento di coloro che nel 2008 sono sbarcati in Sicilia, ha infatti chiesto asilo alle autorità italiane, e ben il 50 per cento alla fine ha ottenuto una forma di protezione. “Questo, alla fine di accuratissime audizioni individuali – assicura Laura Boldrini, portavoce in Italia dell'Unhcr, l'Alto commissariato dell'Onu per i rifugiati – Le commissioni sono infatti molto rigorose, e hanno dentro il prefetto, un funzionario di polizia, un rappresentante dell'Associazione comuni d'Italia e uno dell'Onu”.
Mentre in Italia le domande d'asilo calano del 43 per cento, in Francia sono aumentate del 20 e in Germania del 25 per cento. Ma non sarà che in Italia ci sono già troppi rifugiati? Neanche questo è vero: 55 mila in tutto, rispetto ai 200 mila della Francia, ai quasi 300 mila del Regno Unito, ai 600 mila della Germania. Non è vero, in ogni caso, che i rifugiati invadano i paesi industrializzati: secondo i dati dell'Unhcr ve ne sono 43 milioni al mondo, e l'80 per cento di loro vive nei paesi in via di sviluppo.
E che ne facciamo, noi, dei tanti respinti in mare? Li affidiamo ai centri di raccolta della Libia, che non aderisce alla Convenzione di Ginevra del 1951, incentrata proprio sul principio del non respingimento dei rifugiati. Gheddafi, due settimane fa, ha imposto all'Onu di chiudere i suoi uffici. Prima gli ufficiali delle Nazioni Unite erano tollerati, anche se non potevano vedere tutto. Qualche ottimista pensava che la recente visita di Berlusconi al colonnello servisse proprio a favorire un ripensamento, vista la pessima figura che anche di riflesso l'Italia sta facendo. Ma nulla è emerso che potesse autorizzare una simile speranza. Solo l'orgoglio del ministro dell'Interno Roberto Maroni, perché il centro di Lampedusa, oggi è totalmente vuoto.
“Siamo persone in fuga, che abbiamo abbandonato tutto, in cerca di una terra dove poter almeno dormire senza spari, accontentandoci di sopravvivere” racconta Katirisa Kahindo, scappata 13 anni fa dal Congo, che non dimentica quelle madri che nel suo paese avevano manifestato perché i loro figli erano scomparsi, e per tutta risposta vennero sepolte vive. Katirisa sta cercando di impiantare un'attività economica di raccolta di scarpe usate, per spedirle nel suo paese (chi vuole aiutarla la contatti a www.barazavenir.it) e nello stesso tempo ha dato vita all'associazione Nasce-Rinasce, per dare dignità e visibilità a tante donne del suo paese. La vergogna italiana non sta soltanto nei respingimenti, ma anche nel non garantire l'integrazione dei rifugiati, una volta accolta la loro domanda. L'atto di accusa è stato lanciato da Laurens Jolles, l'olandese delegato per il Sud Europa dell'Unhcr: “In città come Roma, Milano, Torino, Firenze, Bari, Napoli e Palermo – ha detto – rifugiati somali, eritrei, afghani sono spesso costretti a vivere senza una fissa dimora, trovando un riparo in edifici occupati abusivamente”. La politica dell'accoglienza non funziona. “A volte – ha aggiunto Jolles – non ottengono l'iscrizione anagrafica, restando quindi esclusi dall'accesso a servizi pubblici essenziali”.
Clamoroso il caso di Roma, dove i Medici per i diritti umani (Medu) hanno chiesto a Comune e Regione di intervenire immediatamente in soccorso di cento profughi afghani, costretti a vivere “in condizioni disastrose” nei pressi della stazione Ostiense. È stata chiusa l'unica fontanella che avevano a disposizione, dormono in tende, senza alcun servizio igienico a disposizione e fra di loro ci sono diversi bambini. “Siamo al di sotto degli standard di qualsiasi paese del mondo” accusa il Medu, osservando che ci dovrebbe essere un servizio igienico almeno ogni venti persone. Ma non vanno meglio le cose a Bologna, dove molti rifugiati sono diventati homeless, e dove ad alcuni la questura avrebbe consigliato di cambiare status per ottenere il permesso di soggiorno, col risultato che, perso il lavoro, dopo sei mesi diventano espellibili. Molti rifugiati hanno cercato di lasciare l'Italia per trovare fortuna in altri paesi europei, ma sono stati rispediti qui da noi, perché il regolamento “Dublino II” prevede che debbano fermarsi nel primo paese in cui hanno fatto domanda. Tante iniziative a favore dei rifugiati si stanno svolgendo in varie parti del paese. Notevole, in particolare, l'impegno dell'Arci che ha organizzato speaker's corners, angoli di dibattito, in venti città italiane, lanciando anche il numero verde per i rifugiati 800 90 55 70.