giovedì 24 giugno 2010

Repubblica 24.6.10
Italiani, di costituzione
di Alessandra Longo

Italiani, di Costituzione. E´ il titolo che l´Anpi ha dato alla sua seconda festa nazionale che apre oggi ad Ancona per chiudersi domenica 27. Lavoro, pace, democrazia: di questo si parlerà. I partigiani, dopo anni di solitudine, anche amara, si ritrovano dentro la corrente dei tanti che ci tengono ancora alla Costituzione, oggi sottoposta a continui attacchi. Non un raduno di ex. «E´ una sfida al presente», dice l´attore Marco Paolini. Da Ancona, l´appello è per un «no forte, responsabile, massiccio, a chi intende cancellare la democrazia dal Paese». Un nuovo sito, il blog, forum, spettacoli, il tentativo di rinnovarsi per lasciare il testimone ai giovani: è la missione dell´Anpi 2010, fedele alla lezione della decima brigata Rocco: «Abbiamo imparato a non essere mai indifferenti».

l’Unità 24.6.10
Napolitano sul crocefisso: nessuna interferenza ma decidano i singoli Stati
A giorni la Corte di Strasburgo si pronuncerà sul ricorso italiano contro la sentenza sul divieto di esposizione del crocifisso. Il presidente Napolitano: «La laicità dell’Europa non ferisca sentimenti elementari e profondi».
di Marcella Ciarnelli

Nessuna interferenza. Ma piuttosto una riflessione sollecitata al Capo dello Stato dal presidente di «Umanesimo cristiano». E Napolitano, proprio mentre la Grande Chambre della Corte europea dei diritti dell’uomo si accinge, il 30 giugno, a decidere sulla revisione della sentenza del novembre scorso sull’esposizione del crocifisso negli uffici e scuole pubbliche, su ricorso del governo italiano, non ha mancato di far conoscere il suo pensiero che non deve essere inteso in alcun modo come «un’interferenza nelle competenze proprie di organi giudiziari, in questo caso sovrannazionali, sulla cui saggezza è bene confidare e le cui decisioni definitive devono essere comunque accettate».
Una premessa alla quale il presidente ha fatto seguire la sottolineatura di come lui «più volte e in diverse sedi» abbia avuto modo «di riconoscere la rilevanza pubblica e sociale del fatto religioso e il valore della laicità dello Stato, a garanzia della libertà religiosa e dei rapporti tra confessioni religiose e autorità statuali, nel segno della reciproca autonomia e dell’accettazione del metodo democratico».
Argomenti da affrontare con una visione complessiva perché «i processi di integrazione europea, anche per le difficoltà di diverso genere che stanno incontrando, hanno bisogno di tutte le energie spirituali e culturali degli Stati e delle popolazioni che vi partecipano». Il punto, Napolitano vi fece riferimento nel messaggio alle Camere nel giorno del suo insediamento, è che «la laicità dell’Europa non può essere concepita e vissuta in termini tali da ferire sentimenti popolari elementari e profondi, bensì come disponibilità ad accogliere ed amalgamare le tradizioni più diverse, senza escluderne alcuna, in una logica non più di indifferenza ed esclusione, ma di inclusione e arricchimento reciproco». Di qui, «anche la questione, particolarmente sensibile, dell'atteggia-
mento da tenere nei confronti delle simbologie religiose può essere più opportunamente affrontata secondo il generale principio di sussidiarietà, che ha finora costantemente ispirato la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo dai singoli Stati, che sono in grado di meglio percepirne la valenza in rapporto ai sentimenti diffusi nelle rispettive popolazioni, così come la necessità di bilanciamento tra diverse sensibilità e la salvaguardia di obiezioni di coscienza serie e consistenti in specifiche situazioni». Ascoltare la società civile, questo è l’invito «evitando sterili contrapposizioni e integralismi specialmente nei confronti di simboli che hanno assunto, anche per il riconoscimento di esponenti di altre religioni, significati universali di pace e di tolleranza».
GOVERNO E VATICANO
In vista dell'imminente sentenza interviene anche il presidente del Consiglio. Per Berlusconi la decisione di novembre «è inaccettabile». E ricorda che il ricorso dell’Italia «ha avuto, a vario titolo, l’appoggio di altri Stati europei». Anche il Vaticano, con i cardinali Bagnasco e Bertone, ha ribadito l’inaccettabilità della decisione passata. Aspettando la prossima.

il Fatto 24.6.10
La linea dura
La Fiom esulta: adesso non possono ignorarci
di Salvatore Cannavò

Entri nella sede Fiom e la soddisfazione trapassa i muri. E non parliamo solo di quella dei suoi dirigenti, a cominciare da Maurizio Landini, neosegretario generale, ma anche dei funzionari (non molti per la verità) che ci lavorano. La Fiom ha ottenuto un successo evidente in questo referendum, pur essendo stata molto cauta. Non ha mai dato indicazione di voto per il “No” e, anzi, ha invitato i lavoratori a recarsi alle urne. Il 36 per cento di contrari all’accordo che, tra gli operai, sale al 40 per cento è però molto di più dei consensi (28 per cento) che la stessa Fiom e lo Slai-Cobas (che ha invitato a votare “No”) avevano ottenuto nelle elezioni Rsu del 2006. A comprendere la soddisfazione di Landini aiuta l’irritazione speculare di Sergio Marchionne, l’amministratore delegato Fiat che si aspettava un risultato attorno all’80 per cento.

Landini arriva puntualissimo in conferenza stampa, accompagnato dal responsabile Fiom per il settore auto Enzo Masini, e la prima parola è di ringraziamento “per i lavoratori e le lavoratrici di Pomigliano che hanno voluto dare un messaggio chiarissimo: sì all’investimento Fiat e dunque sì al lavoro ma sì anche ai diritti e alla dignità del lavoro stesso”. Sulla parola “dignità” il segretario Fiom tornerà più volte, facendone l’architrave del suo ragionamento e della prospettiva della Fiom. Che resta quella di non firmare l’accordo separato ma anche di restare disponibile “a riaprire il negoziato se la Fiat vuole”. “Siamo disponibili ad accettare i 18 turni, lo straordinario obbligatorio di 40 ore e anche l’orario di lavoro plurisettimanale – spiega Landini – perché si tratta di elementi che stanno già dentro il contratto nazionale di lavoro. No però alle deroghe al contratto e alle leggi” quelle la Fiom, a maggior ragione dopo questo referendum, non le firmerà mai.

Il contratto nazionale, dunque, resta la bussola dell’organizzazione e anche per questo il 1 luglio, proprio a Pomigliano, si terrà l’assemblea nazionale dei delegati del gruppo Fiat e delle fabbriche metalmeccaniche del sud Italia, “perché la vicenda ha una valenza generale e noi vogliamo rimarcare questo dato”. Del resto, su Pomigliano hanno scioperato Mirafiori, Termini Imerese, anche la Piaggio e ora si tratterà di capire come valorizzare questa disponibilità “inusitata” dei lavoratori.

Anche le ventilate minacce della Fiat di lasciare la produzione in Polonia non scalfiscono il segretario Fiom: “Ognuno si assuma le proprie responsabilità – dice Landini – noi siamo pronti ad assumerci le nostre”.

Insomma, Landini che aveva inaugurato la sua segreteria con una delle trattative più difficili della Fiom si rimette al centro della scena mentre sono costretti a un ruolo da comprimari sia il governo che Fim e Uilm. Che rincorrono da un lato la Fiat, chiedendole di mantenere gli impegni, e dall’altra la stessa Fiom alle cui posizioni replicano con qualche nervosismo: “Si tratta di fregnacce”, dice Raffaele Bonanni della Cisl.

Ma anche nei rapporti con la Cgil le cose un po’ cambiano . Landini non ha voluto alimentare polemiche salvo che con il segretario campano della Cgil, Michele Gravano, che aveva invitato la Fiom a firmare. E preferisce sottolineare l’unità di vedute tra la categoria e la confederazione, dimostrato anche dalla dichiarazione di Susanna Camusso, neo-vicesegretaria generale secondo la quale “il terzo degli operai che ha detto no all’accordo è precisamente quello che dice che i diritti non si cancellano”. Esattamente come dice la Fiom. Ma il referendum rafforza quest’ultima all’interno dell’organizzazione – a nessuno è sfuggita la solidarietà che nella serata del referendum le è giunta dalla Funzione pubblica, appena rientrata nella maggioranza del segretario generale della Cgil Guglielmo Epifani – e costringe comunque a valutare, come dice Landini, “chi ci ha preso e chi no”. A Epifani potrebbero fischiare le orecchie ma è molto lontano dall’Italia, in Canada, al Congresso Mondiale dell’Ituc, la confederazione internazionale dei sindacati.

il Fatto 24.6.10
Maturità, Del Boca: “Da bocciare 
le scelte della Gelmini sui temi”
Lo storico e saggista critica gli argomenti proposti agli studenti per la prima prova
qui
http://www.ilfattoquotidiano.it/2010/06/23/temi-di-maturita-da-bocciare-le-scelte-della-gelmini/

il Fatto 24.6.10
In Israele 222 detenuti senza motivo
“Una violazione dei diritti umani”
Detenuti amministrativi, i fantasmi di Israele “Un massacro mentale contro i diritti umani”
Il caso è stato sollevato dalla Ong israeliana B'Tselem. Per il governo questa misura detentiva viene usata quando non c'è “alternativa”
qui
http://www.ilfattoquotidiano.it/2010/06/21/detenuti-amministrativi-i-fantasmi-di-israele-un-massacro-mentale-contro-i-diritti-umani/

il Fatto 24.6.10
Post indignato
di Piergiorgio Odifreddi
qui
http://www.ilfattoquotidiano.it/2010/06/20/post-indignato/

Repubblica 24.6.10
Despoti e dittatori che umiliano la democrazia
di E.L. Doctorow

La preghiera laica dello scrittore americano E.L. Doctorow in difesa della Dichiarazione universale proclamata dall´Onu nel 1948
Da quando quel documento è stato promulgato, sono stati uccisi dai 13 ai 14 milioni di persone in operazioni di genocidio e di repressione
I massacri sono un infernale ghigno di disprezzo verso la presunzione umana di essere qualcosa di più che un ammasso di carne e sangue

E.L. DOCTOROW
Secondo la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, così com´è stata ratificata dall´Assemblea Generale delle Nazioni Unite nel 1948, tutti gli individui possiedono in quanto tali un valore e una dignità, e devono essergli riconosciuti diritti uguali e inalienabili in quanto membri della famiglia umana... il diritto alla vita, alla libertà e alla sicurezza della propria persona... il diritto a non essere tenuti in schiavitù o sottoposti a tortura... il diritto a non essere arbitrariamente detenuti o arrestati... il diritto alla libertà di espressione e di opinione... il diritto di procurarsi un´istruzione... il diritto di praticare una religione... di riunirsi pacificamente, di sposarsi per libero consenso, di avere proprietà personali, di ricevere eguale retribuzione per eguale lavoro, di aderire a un sindacato, di essere proprietari delle rispettive creazioni intellettuali e artistiche.
Anche se giuridicamente non sono vincolanti, questi Diritti Umani Dichiarati si dimostrano una scomodità per i governi. Chi sostiene il diritto a riunirsi pacificamente va abbattuto con le armi se sfila in corteo per protestare contro le elezioni truccate, i giornalisti che sostengono il diritto alla libertà di espressione vanno incarcerati o assassinati e le loro rotative distrutte, le donne che vogliono un´istruzione vanno malmenate o riconsegnate ai mariti, ai lavoratori che scioperano bisogna rispondere coi lacrimogeni e i manganelli, e laddove vengono utilizzate la tortura e la detenzione senza processo, si tratta di un espediente necessario.
Inoltre, ad alcune nazioni membre dell´Onu è parso doveroso rifiutare con fermezza l´interferenza esterna in questioni strettamente interne. E dunque, a partire dalla ratifica della Dichiarazione dei Diritti Umani nel 1948, fra i 13 e i 14 milioni di persone con un loro valore e una loro dignità sono state uccise in tutto il mondo in operazioni di genocidio o repressione politica.
Fra i paesi che hanno diligentemente contribuito a raggiungere questa cifra da Olocausto ci sono il Sudan, la Cambogia, la Cina, il Vietnam del Sud, l´Iraq, l´Iran, l´Algeria, il Ruanda, il Congo, il Burundi, l´Indonesia, il Guatemala, il Pakistan, l´Uganda, la Nigeria, il Cile, l´Angola, l´Argentina, l´Afghanistan, El Salvador, la Siria, la Serbia, l´Etiopia.
Quando esaminiamo gli assassinii da prima pagina degli ultimi sessant´anni, i dittatori, i despoti, gli autori di omicidi tribali, i generali, i colonnelli, i ministri della giustizia e i rivoluzionari che hanno posto fine a quelle vite e annientato quelle anime... quando riflettiamo sui torturatori delle repubbliche delle banane, i tiranni delle isole dei Caraibi e del Pacifico, gli ideologi sociopatici dell´Asia, i massacratori africani e i criminali autori della pulizia etnica nei Balcani, e se per buona misura ci aggiungiamo tutti i loro consiglieri, fiancheggiatori, banchieri, fornitori di armi, intermediari di affari e politologi provenienti dall´Occidente democratico... ci rendiamo conto che in quanto individui anch´essi sono membri della famiglia umana che pretendono di essere considerati persone con un valore e una dignità.
E dunque ne possiamo trarre le seguenti conclusioni: Recitare gli articoli della Dichiarazione dei Diritti Umani significa recitare una sorta di preghiera. La preghiera è cautamente indirizzata a Dio in quanto Dio di tutti. Le nostre religioni vengono facilmente politicizzate. Chi brandisce il machete, chi colpisce col manganello, chi spara con l´ak47, uccide con la convinzione di essere nel giusto.
La desacralizzazione dell´umanità compiuta dagli autori dei genocidi rappresenta una terribile umiliazione della nostra specie. Togliere la vita a masse di esseri umani significa togliergli anche l´identità, al punto che la morte di una persona non sembra più rilevante di quella di una formica in un formicaio. I massacri rappresentano un infernale ghigno di disprezzo nei confronti di tutta la presunzione umana: dell´idea di essere qualcosa di più che un ammasso di carne, sangue e ossa. Tanto che tutti noi, credenti o scettici, tremiamo nel contemplare questo dominio del nichilismo. C´è qualcosa di simile allo stesso Satana nello spettro degli innumerevoli cadaveri gettati, di generazione in generazione, in una fossa di profondità abissale.
Non è stato un insieme di istituzioni religiose a proporre la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani per quanto molti dei suoi firmatari abbiano poi defezionato. Possiamo fare commenti sconfortati su questo documento dell´Onu, ma resta il fatto che, a partire dall´eredità morale lasciataci dai testi sacri di migliaia di anni fa, i rari progressi etici della razza umana non sono venuti da iniziative religiose, ma laiche. Uno di questi è il concetto di democrazia, con le libertà che ne derivano. Un altro è la percezione della terra come un ambiente passibile di distruzione. Un altro ancora è il tribunale internazionale per i crimini di guerra. Così come questa Dichiarazione concepita a livello internazionale.
Nella Dichiarazione Universale dei Diritti Umani si profetizza che in futuro questa civiltà diventerà finalmente civile, che la propensione omicida della nostra specie, questo gene malato, questa proteina tossica che da sempre ci tormenta e nutre la terra delle nostre ossa, un giorno forse verrà rimossa dal nostro Dna. Agli ateniesi c´è voluto più di un secolo per inventare la loro democrazia. Questo accadeva mezzo millennio prima di Cristo. I primi segni di democrazia in Occidente apparvero solo con la Magna Carta del 1215, e poi, dopo altri quattrocento anni, in documenti come il Mayflower Compact dei Padri Pellegrini. Il concetto arrivò a caratterizzare gli stati nazionali solo verso la fine del Settecento. Dunque, i grandi progressi morali richiedono un tempo sovrumano, e la preghiera implicita nella Dichiarazione Universale è che ce ne sia abbastanza, di tempo, prima che la negazione dei diritti umani universali si traduca nella distruzione del pianeta.
Traduzione di Martina Testa

Repubblica 24.6.10
Simona Argentieri parla del suo nuovo libro "A qualcuno piace uguale"
Se l'omosessualità non è un destino
di Luciana Sica

L'analista affronta un tema poco trattato: la scelta, a un certo punto della vita, dopo "normali" relazioni eterosessuali, di fare coppia con un partner dello stesso sesso

Piccolo gioco cinefilo, alludendo a quel film di Billy Wilder - A qualcuno piace caldo - dove saggiamente si dichiara: "nessuno è perfetto!", A qualcuno piace uguale è il titolo scelto da Simona Argentieri per il suo nuovo libro in uscita nelle "Vele" di Einaudi (pagg. 132, euro 10). Da sempre provvista di un suo tic per il cinema, la nota psicoanalista è qui molto critica con i vecchi pregiudizi che colpiscono gli omosessuali, ma anche allergica al nuovo conformismo del "politicamente corretto" che tende a banalizzare e soprattutto a dissimulare certe forme più o meno sottili di rifiuto.
Le pagine di A qualcuno piace uguale scorrono veloci, chiare e ben scritte: tutt´altro che rassicuranti, però. «Ammettere che nessuno è perfetto non equivale a dire che tutto va ugualmente bene»: in linea di massima, l´autrice trova molto sospetta l´assenza di "problematizzazione" quando si parla di sessualità in generale, e di omosessualità in particolare.
Il suo è uno sguardo preoccupato sull´incapacità di amare, come spia di patologia, sintomo diffusissimo ma estraneo alle inclinazioni sessuali. E sulla tendenza a proclamare pari dignità per ogni bizzarria, ogni combinazione sentimentale ed erotica: nulla sembra proibito e tutto possibile, anche che a un certo punto della vita si scopra un gusto erotico diverso e si scelga un partner dello stesso sesso. Capita, anzi l´impressione è che capiti sempre più di frequente.
Non solo di questo tema - poco trattato - scrive l´Argentieri nel suo libro, e senza l´ingenuità di sbandierare una qualche certezza, convinta che le generalizzazioni siano sempre improbabili e nel caso del "viraggio" quasi impossibili: «Nel passaggio all´omosessualità, bisognerebbe innanzitutto valutare quale fosse l´assetto della relazione eterosessuale nella prima parte della vita... Non a caso Freud parlava di "sacrifici pulsionali", della rinuncia a una parte di sé».
Oggi molti analisti - di diversi orientamenti teorici - si chiedono soprattutto quanto contano le pressioni culturali al bisogno di adattamento sociale, se non sono un elemento decisivo nella formazione complessiva del soggetto. Che la scelta eterosessuale possa essere conformista, mortificante per la parte passionale dell´erotismo, e l´incontro omosessuale consentire finalmente un´espressione autentica del desiderio, l´Argentieri non lo esclude: «Credo che la minore rigidità delle strutture psicologiche dei nostri giorni permetta davvero in qualche caso una riorganizzazione intrapsichica della propria struttura e una pienezza inedita di emozioni, affetti, passioni».
Se però è declinata al femminile, a volte la scelta omosessuale somiglia a un rimedio alla solitudine, a un ripiegamento su una sorta di amicizia amorosa. In questi rapporti - dice l´Argentieri - la componente passionale non è il primo motore: «Sono le circostanze ambientali e culturali, i fattori di realtà che hanno il loro peso, come una raggiunta autonomia economica, l´aver già realizzato il desiderio di avere figli, magari la delusione nei confronti dell´altro sesso o la valutazione realistica delle opportunità che offre la vita. Una donna non giovanissima può non trovare facilmente un partner etero, mentre in una relazione omosessuale l´aspetto anagrafico non è così determinante».
Dal suo punto di vista, più problematici sembrano gli uomini che, dopo aver fatto coppia con una o più donne, preferiscono apertamente un partner dello stesso sesso: «Sono uomini - anche secondo l´esperienza clinica - che per un lungo tratto della vita "non scelgono", e sono tutt´altro da invidiare perché in genere soffrono e fanno soffrire, vittime di complicazioni e tormenti, artefici di piccoli inferni nella vita quotidiana. Qui le due parti spesso sono scisse: quella eterosessuale si è organizzata in un rapporto stabile mentre quella omosessuale viene vissuta in modo anonimo e furtivo. Se invece le due "quote" si integrano, la sessualità diventa legame, oltre che piacere, e un uomo può orientarsi decisamente alla compagnia di un altro uomo».
Tenendo conto di tanta varietà nella declinazione dei generi, c´è da chiedersi cosa dica oggi la parola "omosessuale": «Non dice proprio niente, è un concetto di poco spessore che non ci dà nessuna informazione sull´organizzazione psicologica di un soggetto. Dietro questa etichetta può esserci davvero di tutto, dalla nevrosi alla perversione, dall´inibizione alla più banale normalità... Gli omosessuali sono fin troppo simili agli eterosessuali, e se proprio sono "diversi", lo sono tra loro».
Senza temere certi cliché, l´Argentieri osa difendere «lo stare in coppia» come una risorsa, un esercizio di conoscenza, una fonte di intimità. Non sottovaluta però le difficoltà profonde di qualunque relazione stabile, insistendo sul problema di riconoscere e tollerare la diversità dell´altro - senza odiarlo.
«In un primo momento dell´attrazione amorosa ci può essere l´illusione che stare con una persona dello stesso sesso sia facilitante, ma ben presto si comprende che la somiglianza anatomica è solo l´aspetto più superficiale del mistero dell´alterità. La psicoanalisi non può rinunciare a interrogarsi sulla qualità dei rapporti che riusciamo a costruire... È anche vero che chi è felice ha sempre ragione: ma questo l´ha scritto Tolstoj, non Freud».

Repubblica 24.6.10
Gli accademici: "Senza finanziamenti, costretti alla questua"
Il grido d'allarme della Crusca

La presidente Maraschio: "In queste condizioni non possiamo programmare nulla"

FIRENZE. È un grido quel foglio. «Gli accademici della Crusca e i soci corrispondenti italiani e stranieri denunciano le condizioni di assoluta precarietà economico-finanziaria dell´istituzione». Seguono quarantasette firme di intellettuali, ricercatori, linguisti fra cui Angelo Stella, Domenico De Robertis, Maria Luisa Altieri Biagi, Maurizio Dardano, Tullio De Mauro e via via tutti gli altri. L´Accademia che ha creato il primo vocabolario del mondo, che è stata dal 1583 il motore di una coscienza linguistica nel paese e che sul suo esempio ha fatto nascere altre storiche accademie in Francia, Spagna e Germania, annaspa nelle incertezze del presente e vede, davanti, un orizzonte sempre più ristretto.
«Per funzionare ci serve un milione di euro e soprattutto una legge che ci riconosca come ente di tutela e valorizzazione della lingua garantendoci una stabilità di risorse che oggi non abbiamo», spiega la presidente Nicoletta Maraschio. Oggi arrivano, come contributo dal Ministero dei Beni Culturali, 190mila euro e altri 50mila dal Comune di Firenze e dalla Regione Toscana: «Ma soltanto per pagare il personale e per il mantenimento della villa medicea di Castello sede dell´Accademia se ne vanno 400mila euro. In queste condizioni non possiamo programmare niente, non possiamo nemmeno acquistare i libri che ci servono e ogni anno è una questua da questa o quella associazione per racimolare soldi e finanziare i progetti di ricerca». Così non si va avanti, dicono gli accademici, da qui l´appello presentato a Palazzo Vecchio con l´assessore alla cultura di Firenze, Giuliano da Empoli che aggiunge: «È straziante che una delle più prestigiose istituzioni culturali del mondo sia costretta di Finanziaria in Finanziaria, a lottare per la sua sopravvivenza quando all´estero c´è una grande domanda di italiano visto che è la quarta o quinta lingua straniera più studiata». Scuote il capo Tullio De Mauro, appena entrato come ordinario nella Crusca: «Gran parte della classe dirigente italiana, compreso l´attuale governo, non considera una priorità investire nella cultura. È così anche per l´università e per la ricerca». Eppure gli studi sulla lingua italiana, sul suo sviluppo e sulla contaminazione, possono aiutarci a capire i fenomeni complessi che avvengono intorno a noi: «Le parole sono perimetri concettuali», ha ricordato la docente bolognese Maria Luisa Altieri Biagi. Se ci fossero finanziamenti adeguati, l´Accademia potrebbe sviluppare alcuni servizi come per esempio lo sportello di consulenza linguistica oppure, ha aggiunto Tullio De Mauro «potrebbe realizzare un nuovo dizionario della lingua contemporanea di cui avremmo sicuramente bisogno, con una descrizione accurata degli usi di migliaia e migliaia di parole che circolano nei testi migliori redatti nella nostra lingua».

mercoledì 23 giugno 2010

Repubblica 23.6.10
"Il discorso su Matteotti fu l'ultimo colpo alle libertà"
Gli storici: la frase di Mussolini usata fuori contesto
L’Anpi denuncia l’accostamento "capzioso" con Togliatti, Moro e Giovanni Paolo II
di Michele Smargiassi

Un tema "revisionista"? No, molto peggio: un tema insensato. Gli storici bocciano la traccia storica dell´esame di maturità sul "Ruolo dei giovani nella storia e nella politica". Tra i quattro "documenti" proposti agli studenti come base di lavoro c´è anche una citazione di Benito Mussolini, accostata ad altre di Palmiro Togliatti, Aldo Moro e Giovanni Paolo II, e questo fa infuriare l´Anpi (oltre a un´associazione studentesca e qualche esponente Pd) che denuncia l´accostamento «singolare e capzioso» tra i quattro personaggi storici. Ma il problema non è quello, per gli studiosi. Il pasticcio è puramente scientifico. Citazioni astratte, incoerenti tra loro, non storicizzate: morale, un invito alla retorica. «Mussolini è un oggetto storico, nessuno scandalo nel far lavorare gli studenti su un suo testo», concede Claudio Pavone, storico della Resistenza, ma subito accusa: «mi pare orribile però che si sia scelta una citazione che, tagliata in quel modo, può persino apparire seducente». Eppure è un brano del famigerato discorso con cui Mussolini in Parlamento si assunse la responsabilità dell´omicidio Matteotti; ma uno studente particolarmente studioso lo poteva dedurre solo dalla data, 3 gennaio 1925. «Sì, ma chi non riesce a risalire a quel contesto storico di sopraffazione rischia di prendere per buona, perfino esaltante, la retorica strumentale con cui Mussolini usò il concetto di giovinezza. Accostare quella frase ad altre citazioni sotto un titolo generico, mi pare faccia parte di un certo modo pericoloso di depoliticizzare il fascismo».
Anche per Emilio Gentile, allievo di Renzo De Felice e studioso dell´ideologia fascista, non c´è nessun problema a proporre citazioni del Duce, anzi: «Partire da Mussolini per un´analisi storica dell´uso del mito giovanilista nella cultura politica italiana mi sembra addirittura obbligatorio. È quella specifica citazione che trovo completamente sbagliata». Alternative? «Il Mussolini del ´19, del fascismo nascente, dell´ideologia vitalista, del mito della giovinezza. Anzi, per dirla tutta, avrei trovato più stimolanti citazioni di leader politici giovani che parlano di giovani: Italo Balbo, Antonio Gramsci, Piero Gobetti... I personaggi scelti invece sono tutti leader anziani (uno, papa Wojtyla, non è neanche un leader in senso proprio) che parlano di gioventù da un´ottica di potere». Sbagliato soprattutto far parlare il Mussolini della crisi Matteotti: «Quello è il discorso con cui dà l´ultimo colpo alle libertà politiche in Italia, il tema della giovinezza è per lui ormai solo uno strumento retorico. La trovo una citazione fuorviante proprio rispetto alla traccia, per trattarla adeguatamente bisognerebbe partire non dai giovani ma dalla nascita di una dittatura. Anche ammesso che uno studente si ricordi il delitto Matteotti, il suo tema sarà comunque "fuori tema"».
Guido Crainz, autore di "Autobiografia di una repubblica", è della stessa idea: «Se uno studente è capace di inquadrare bene quel momento storico e decifrare la funzione retorica della frase di Mussolini, certo, va promosso col massimo dei voti. Ma mi pare già tanto se chi ha svolto questo tema è riuscito a distinguere i contesti storici delle affermazioni di Mussolini, Togliatti, Moro. In realtà io temo che tutto si riduca a un esercizio di divagazione, dove all´esaminando è richiesto semplicemente di parlare della sua personale idea di gioventù, pescando qualche appoggio in queste quattro frasi». Insomma, un tema "televisivo", è la conclusione, «da talk show a ruota libera. Un´altra conferma del modo in cui la scuola insegna la storia: come un eterno presente sul quale esercitare un po´ di digressioni personali».
«Va bocciato chi ha escogitato una traccia così grottesca»: il più severo di tutti è Giovanni De Luna, che divide i suoi interessi fra periodo fascista e dopoguerra. «Quattro citazioni messe assieme col manuale Cencelli, o la par condicio televisiva: il fascista, il comunista, il democristiano, il religioso, un tema bilanciato per quote proporzionali...». Scelti i quattro personaggi solo per ragioni di equilibrio, il confronto diventa astratto. Ma uno studente non deve saper contestualizzare? «Cavare qualcosa dall´accostamento tra quattro fenomeni storici lontani e così diversi uno dall´altro (l´avvio del totalitarismo, la ricostruzione postbellica, il dopo-´68 e i papa-boys) sarebbe arduo anche per uno storico. Per uno studente di liceo, temo resti solo la scappatoia della retorica».

l’Unità 23.6.10
Lo strappo di Pomigliano inaugura Fabbrica Italia ma per Fiat è solo l’inizio
La saturazione degli impianti, i 18 turni, la compressione dei diritti per recuperare produttività è il modello che Fiat applicherà in tutte le fabbriche
di Rinaldo Gianola

Il voto di Pomigliano d’Arco, con tutto il suo carico di tensioni , speranze e purtroppo divisioni tra i lavoratori, non è la conclusione contrastata di un percorso. È, invece, solo la prima tappa di «Fabbrica Italia» il progetto che Sergio Marchionne ha delineato per la Fiat da qui al 2014, una sfida totale, industriale e anche culturale, al mondo del lavoro, alla politica, alle istituzioni.
Dopo il referendum, se il Lingotto confermerà l’investimento di 700 milioni di euro e non metterà in campo altre impreviste soluzioni, niente sarà più lo stesso nelle relazioni industriali in casa Fiat, ma si può facilmente immaginare che sulla strada del recupero di competitività attraverso la compressione dei diritti contrattuali e costituzionali dei lavoratori si avvieranno molte altre aziende. Il mondo sembra andare al contrario: in Cina gli operai scioperano e protestano per ottenere salari dignitosi e migliori condizioni di lavoro, in Italia invece in nome di una non ben definita modernità smantelliamo le conquiste sindacali, civili frutto di lotte decennali.
Se davvero partirà il progetto di Pomigliano (Marchionne non ha sciolto la riserva) poi toccherà a Mirafiori, a Melfi, a Cassino, alla Sevel. Per Termini Imerese, invece, la Fiat non ha lasciato speranze: «Sarebbe una pazzia non chiuderla» ha sentenziato Marchionne. Il modello Pomigliano, se sarà implementato, verrà poesteso alle altre fabbriche italiane, probabilmente sarà calibrato sulle esigenze produttive e organizzative di ciascuna fabbrica da Torino alla Basilicata. Inutile dire che il timore del “contagio”, dell’estensione del programma di Marchionne da Pomigliano alle altre fabbriche preoccupa migliaia di dipendenti. Perchè nessuno, tanto meno i sindacati, si oppone a perseguire nuovi, ambiziosi obiettivi di produzione, ma quello che giustamente allarma è che questo possa avvenire a scapito del sistema di garanzie, dei diritti dei lavoratori.
D’altra parte è inutile farsi illusioni. Il clima politico, la linea del governo, il tifo della Confindustria, anche le timidezze della sinistra, tutto pare concorrere per favorire il successo del “ricatto” della Fiat: vi offro il lavoro, zitti e fate come dico io. Marchionne vuole un cambiamento radicale dell’organizzazione del lavoro e delle relazioni industriali, la sua ambizione è trasferire in Italia il modello della fabbrica Tychy, in Polonia. In sintesi queste sono le condizioni preliminari che il Lingotto esige per investire in Italia: 18 turni settimanali per tutti gli impianti, revisione degli accordi sindacali, piena flessibilità della forza lavoro, contenimento del costo del lavoro, pieno utilizzo degli ammortizzatori sociali. Con questa dote Marchionne è pronto a fare la sua parte e a concedere una speranza alle fabbriche, ai lavoratori italiani con investimenti di circa 20 miliardi di euro in cinque anni.
La Fiat intende portare la produzione di auto in Italia dalle 650mila unità del 2009 a 1,4 milioni nel 2014, una cifra che rappresenterà circa un quarto dell’intera produzione Fiat-Chrysler stimata in 6 milioni di vetture. Il raddoppio della produzione avverrà tramite la saturazione degli impianti esistenti, più turni, più produttività. I numeri non lasciano dubbi. Mirafiori, la storica cattedrale dei metalmeccanici, tra cinque anni avrà una capacità produttiva di oltre 300 mila vetture con una saturazione degli impianti che passerà dal 64% all’88%. A Cassino la produzione passerà da 100mila a 400mila auto. Melfi, il “prato verde” del sogno della fabbrica non conflittuale, produrrà almeno 400mila vetture. A Pomigliano, se i lavoratori fanno i bravi e seguono Marchionne, ci sarà la Nuova Panda, 250mila auto all’anno. La Sevel di Val di Sangro passerà da 100mila a 250mila veicoli. Obiettivi ambiziosi, forse temerari che, se conseguiti, consentiranno a Fiat Auto di raddoppiare il fatturato da 26 a 51 miliardi di euro.
Davanti a un disegno industriale, di potere, di questa dimensione. di questa forza risultano quasi marginali le osservazioni, le critiche, le lotte di chi cercando un lavoro e un reddito per vivere non dimentica i diritti e la dignità. Ma oggi l’Italia è questa. Ora vedremo cosa farà Marchionne.

l’Unità 23.6.10
Più diritti e salari, in Cina ondata di scioperi. Ieri il turno di Denso (Toyota)
Le prime proteste scoppiate a metà maggio tra i lavoratori della Honda e tollerate dal regime di Pechino che in questo modo alimenta la domnda interna. Lunghini: «Ma in Cina vige già la dittatura del mercato».
di Giuseppe Vespo

Continua l’ondata di scioperi nelle fabbriche straniere in Cina. Ieri è toccato agli operai della Denso Corporation del gruppo Toyota bloccare lo stabilimento di componenti per auto nel sud del Paese per chiedere maggiori diritti e aumenti salariali.
MOBILITAZIONI
Partite a metà maggio nelle fabbriche della Honda, in poche settimane le rivendicazioni dei lavoratori cinesi si stanno estendendo in molte zone industrializzate della Cina. In alcuni casi con successo. Alla Honda gli operai hanno ottenuto aumenti salariali tra il 15 ed il 24 per cento. Mentre nelle due filiali Toyota di Tianjin, città portuale del nord, i lavoratori sono tornati sulle linee di montaggio dopo aver scioperato nel fine settimana. L’azienda ha affermato che si sta ancora «discutendo» e non è chiaro se sia stato già raggiunto un accordo sugli aumenti di stipendio. Ma ormai indientro non si torna. Nei giorni scorsi scene simili si sono viste anche nelle fabbriche che producono componenti per Iphone e Ipod.
Oggi in Cina chi lavora nell’industria manifatturiera guadagna tra i 900 ed i 1500 yuan, ovvero tra 107 e 180 euro al mese. Troppo poco per un operaio che comincia a guardare ai colleghi dei Paesi industrializzati, meglio pagati e meno produttivi. Da qui le proteste, seguite in negli ultimi mesi anche dalla stampa di regime. Mentre lo stesso governo pare che abbia assunto un atteggiamento più tollerante rispetto a quelche tempo fa.
«È un fenomeno molto interessante», sostiene Giorgio Lunghini, economista e professore di Economia Politica all’Istituto Universitario di Studi Superiori di Pavia. «È la testimonianza di come la Cina, che per anni si è retta sui salari bassi per sostenere la sua macchina industriale, stia invertendo la rotta». Sono due le cause di questo processo, secondo l’economista. «Da una parte il rischio che le tensioni sociali si allarghino tanto da diventare incontrollabili. Dall’altra l’idea che i salari più alti possano rilanciare il consumo interno, che potrebbe così sostituirsi alle esportazioni. Come è avvenuto negli Usa ai tempi di Ford». Insomma, anche la Cina ha scoperto le potenzialità del suo mercato.
E mentre lì si sciopera per conquistare dei diritti da noi ci si mobilita per tutelarli. «Non credo però che sia possibile accostare la vicenda di Pomigliano alle crescenti rivendicazioni degli operai cinesi», chiude Lunghini. «A Pomigliano è in atto un ricatto che azzera le conquiste sindacali di decenni e lo Statuto dei lavoratori. Un fatto nuovo e grave. In Cina vige già la dittatura del mercato».

Repubblica 23.6.10
"Compagni" per unire e non per dividere
Corrado Augias risponde a Vittorio Emiliani

Caro Augias, dalla discussione sull'uso del termine "compagni" nel Pd sembra che lo stesso sia nato col Partito comunista. Niente di meno vero. Nasce col primo socialismo nell'Ottocento e quel primo socialismo è, in Italia, libertario. La sua divulgazione di massa viene certamente potenziata dal successo di cori come l'Inno dei lavoratori Su fratelli, su compagne , parole di Filippo Turati, musica di Amintore Galli, e siamo nel 1886, all'epoca del Partito operaio. Nei partiti aderenti all'Internazionale socialista ci si è sempre chiamati così. Un po' di storia non farebbe male. Oltre tutto i partiti comunisti non ci sono praticamente più.
Vittorio Emiliani Roma

Nel 1963 uscì il film di Mario Monicelli I compagni , giudicato non dei suoi migliori e tuttavia un "affresco spettacolare, divertito e malinconico sul nascente movimento operaio" (Mereghetti). Soprattutto, per ciò che interessa in questa altrettanto malinconica polemica: "Una commossa rievocazione del socialismo torinese agli inizi del secolo". Il termine "compagni", come ricorda Vittorio Emiliani, viene dal socialismo italiano di fine Ottocento. Quel film, sia detto per la cronaca, si guadagnò comunque la candidatura all'Oscar per la migliore sceneggiatura (Age, Scarpelli, Monicelli). Mi ha scritto Luisa Goglio (lu.go@fastwebnet.it): «Voto Pd senza essere mai stata comunista, eppure la parola compagni non mi offende. Compagni sono coloro che condividono un percorso. Mi rattrista questo continuo puntualizzare, spia, forse, di una temperatura troppo bassa nel Pd». Mi ha scritto Nelli Scilabra (nelliscilabra@hotmail.it): « Sono una giovane convinta che la passione, la fatica e la determinazione dei giovani possano cambiare il mondo. Quali giovani hanno potuto sollevare una questione tanto inutile e fuori luogo? Chi sono questi giovani che hanno tempo da perdere piuttosto che occuparsi di università, disoccupazione, scuola, legge bavaglio, discariche e rifiuti, Fiat, crisi economica, mala sanità? Mi sento offesa». Indirizzandosi all'Anpi di Treviso, Mario Rigoni Stern ha scritto (inviandomene copia): «Cari compagni, sì, compagni, nome bello e antico, che non dobbiamo lasciare in disuso; deriva dal latino "cum panis", accomuna coloro che mangiano lo stesso pane. Coloro che lo fanno condividono anche l'esistenza, con tutto ciò che comporta: gioia, lavoro, lotta e anche sofferenze. Noi della Resistenza siamo compagni, perché abbiamo sì diviso il pane quando si aveva fame ma anche insieme vissuto il pane della libertà, così difficile da conquistare e mantenere». La prossima volta gli autonominati "giovani del Pd" dovrebbero dedicare qualche ora a leggere un po' di pagine di storia prima di aprire bocca.

Repubblica 23.6.10
Così vivono i filosofi
Il ‘900 con gli occhi dei pensatori
di Umberto Galimberti

Il figlio di Heidegger che parla del padre, di Jünger e di Schmitt. Albert Hofmann che racconta come scoprì l´Lsd
Raccolti in volume gli articoli e le interviste di Antonio Gnoli e Franco Volpi ai grandi testimoni del secolo
Un intreccio fra la riflessione e l´esistenza. In primo piano gli studiosi che da sponde anche opposte hanno descritto il tracollo dei valori occidentali
Gadamer assisté affascinato alle lezioni dell´autore di "Essere e tempo", ma se ne allontanò quando il maestro cavalcò il nazionalsocialismo

La crisi dei nostri giorni non ci avrebbe colto impreparati se solo avessimo letto e prestato attenzione a quei pensatori del Novecento che, su sponde filosofiche e politiche opposte e spesso tra loro in conflitto, avevano descritto il tracollo dei valori su cui l´Occidente aveva costruito se stesso, e il dispiegarsi di quel teatro dove il nichilismo, "l´ospite inquietante" annunciato da Nietzsche, dettava a tutti gli attori la loro nuova parte.
Oggi è possibile rimediare a questa lacuna con la lettura di un libro, I filosofi e la vita, (Bompiani, pagg. 214, euro 10,50) scritto da Antonio Gnoli e dal compianto e caro amico Franco Volpi, in cui sono raccolti una serie di articoli e le interviste che gli autori fecero ai filosofi del Novecento, o, se defunti, ai loro figli che ne custodiscono la memoria e gli epistolari. Ne risulta un interessante intreccio, dove il pensiero filosofico si contamina con le vicende della vita, ivi compresa la vita del filosofo, che talvolta ne condiziona il pensiero e talvolta lo lascia imperturbato nelle sue analisi lucide e penetranti.
È il caso di Heidegger, di cui Franco Volpi ha curato le traduzioni delle sue opere per Adelphi, che dissolve la metafisica dell´Occidente, decreta la fine della centralità dell´uomo nella storia, annuncia l´avvento della tecnica che ridurrà gli uomini a "im-piegati" degli apparati tecnici, quando non a semplice materia prima, «la più importante materia prima (die wichtigste Rohstoff)». L´intervista è al figlio Hermann Heidegger che rievoca i rapporti di suo padre col grande giurista tedesco Carl Schmitt, e soprattutto con Ernst Jünger, i cui scritti giovanili piacquero all´intellighentia nazista, anche se Jünger, come peraltro testimonia anche Hannah Arendt, nazista non lo fu mai.
È lo stesso Jünger a confermarlo nell´intervista rilasciata, in prossimità del suo centesimo compleanno, in cui ricorda che ebbe salva la sua vita grazie a Hitler, lettore dei suoi libri giovanili, contro il parere di Goebbels e Göring che volevano la sua testa. A Carl Schmitt, padrino di suo figlio Alessandro, Jünger un giorno chiese se avesse un mitra in cantina. E a Schmitt che gli chiedeva perché, Jünger rispose: «Perché lei ha pronunciato la sentenza: il Führer crea il diritto. Una frase, dal punto di vista politico molto pericolosa». E poi una profezia: «In questo evo il poeta dovrà andare in letargo. Ciò vuol dire che le azioni sono più importanti della poesia e del pensiero che le cantano e le riflettono. Sarà un evo molto propizio per la tecnica, ma sfavorevole alla cultura».
Cambiando scenario, un´intervista al novantenne Albert Hofmann, scienziato svizzero, chimico di professione e umanista per passione, che scoprì l´Lsd e, a partire dalla sua scoperta, prese a leggere «il modo in cui l´Occidente ha guardato e vissuto la propria instabilità e precarietà». Nato per un utilizzo psichiatrico, l´Lsd fu nominato "psichedelico" perché «atto a manifestare la psiche». Hofmann lo assumeva insieme a Jünger per «potenziare la sensibilità e sperimentare quel sentimento oceanico che ci fa sentire tutt´uno col mondo». A sentire Hofmann, anche Platone, Pausania, Marco Aurelio conoscevano l´uso di allucinogeni, come ad esempio il kykeon, la bevanda psicotropa impiegata nei misteri di Eleusi.
Non di droghe, ma di vino era appassionato Hans-Georg Gadamer che, all´arrivo di Volpi e Gnoli recatisi nella sua casa per intervistarlo, offre una bottiglia di eccellente Montepulciano. Gadamer era sulla soglia dei cent´anni, ma non aveva dimenticato quella frase che leggiamo nel Simposio di Platone. "In vino veritas". A fianco di tutti i grandi pensatori tedeschi: Husserl, Scheler, Hartmann. Heidegger, Gadamer, già a vent´anni, vive con scetticismo la fiducia che allora si nutriva nei confronti della scienza e della tecnica, e dopo aver letto le Considerazioni di un impolitico di Thomas Mann, prese a riflettere sulla distanza che si era venuta a creare tra «i valori spirituali della Kultur umanistica rispetto a quelli materiali della moderna Zivilisation».
Con Marcuse, Horkheimer, Ritter, Löwith, Hans Jonas e Leo Strauss, anche Gadamer assiste alle lezioni di Heidegger restandone affascinato, ma discostandosi quando il maestro pensò di «promuovere un rinnovamento dell´università cavalcando, con un´incredibile e inimmaginabile ingenuità, il movimento nazionalsocialista», quasi a sottolineare che non sempre la vita accompagna la grandezza del pensiero, ma anche che la grandezza del pensiero può trovarsi in uomini "pavidi" come Heidegger. Ad Heidegger va comunque riconosciuto il merito, osserva Gadamer, di aver individuato per primo e con più lucidità di tutti che «il progresso tecnico, nel bene e nel male, è diventato il nostro destino». E alla domanda: «Quale sistema politico assegnare alla tecnica per contenerla?», la risposta di Gadamer è: «La democrazia? Chissà».
Franco Volpi e Antonio Gnoli girarono in macchina tutta la Germania per intervistare i testimoni del pensiero del Novecento. Dobbiamo essere grati a questo loro peregrinare che ci consente di conoscere, per voce diretta, la loro interpretazione del secolo appena concluso. Scrive Gnoli: «La caratteristica assolutamente definitiva dei morti è la loro assenza. Ma essi tornano sotto altra forma, come un debito che abbiamo contratto con la loro vita che si è chiusa». E questo vale non solo per i grandi filosofi intervistati, ma anche per Franco Volpi, vittima un anno fa di un incidente mortale sulla sua bici, a cui Massimo Donà ha dedicato il numero di Panta Decalogo (Bompiani, pagg. 670, euro 28) con belle foto di Volpi e Gnoli, i due girovaghi in cerca di testimoni del pensiero.

Repubblica 23.6.10
Scala occupata a Milano lavoratori in piazza a Roma tutti insieme contro il decreto
Battaglia alla Camera per l'ultimo atto del decreto legge sulle fondazioni liriche
di Leandro Palestini

Braccio di ferro alla Camera dei deputati, per l´ultimo atto del decreto legge sulle fondazioni lirico sinfoniche. Quello che porterà drastici tagli alla lirica, che cambierà i connotati ai teatri d´Italia. Il governo ieri ha provato a "blindare" il decreto con la fiducia, ma l´opposizione ha subito minacciato di ricorrere all´ostruzionismo. La maggioranza ha ovviamente i numeri per varare il contestato provvedimento (già licenziato al Senato), ma sconfinando verso la mezzanotte l´opposizione ha fatto capire che avrebbe fatto le barricate in aula, allontanando il voto finale (scontato) accendendo però i riflettori sull´impopolare decreto Bondi. Prova di forza rinviata: oggi si saprà se il governo vuole mettere la fiducia. «Un governo che mette la fiducia anche sul decreto sulle fondazioni liriche è un governo di cartapesta. Autoritario fuori, inesistente dentro» è il commento del senatore Vincenzo Vita (Pd). «Protestare contro il decreto Bondi per il riordino delle fondazioni lirico-sinfoniche è legittimo, ma per me resta incomprensibile» dice Francesco Giro, sottosegretario ai Beni culturali. Dall´Italia dei Valori, Pierfelice Zazzera, capogruppo in Commissione Cultura, accusa il ministro Bondi di essere «di fatto commissariato da Tremonti».
«No al decreto infame». Questa la scritta apparsa ieri sera su di uno striscione appeso sulla facciata della Scala, subito dopo l´assemblea generale tenuta dai lavoratori nel foyer del teatro. Un´occupazione simbolica. Dopo lo sciopero di lunedì, che ha fatto saltare la seconda rappresentazione del Faust di Gounod, le proteste contro la riforma delle fondazioni lirico sinfoniche ora sembrano coinvolgere pure il sovrintendente Stéphane Lissner e il sindaco di Milano, Letizia Moratti. «Continueremo a lavorare con il governo su una politica che sappia valorizzare il Teatro alla Scala», garantisce la Moratti. Ma Sials e Cgil hanno indetto uno sciopero che oggi farà saltare la terza rappresentazione del Faust. La protesta dilaga. Teatri chiusi ieri sera in tutta Italia. È saltato il concerto di chiusura del Maggio Fiorentino. Se il decreto passa, gli scioperi rischiano di bloccare le stagioni estive di Caracalla, San Carlo, Santa Cecilia. In forse le tournée dei prossimi mesi della Scala, a partire da Napoli e Buenos Aires.
Il ministro Sandro Bondi, che in un´intervista alle pagine milanesi di Repubblica ieri ha cercato di placare gli animi, giurando che «il decreto non taglia i fondi alle fondazioni, tantomeno alla Scala», non viene creduto. Ieri pomeriggio, davanti al ministero dei Beni culturali a Roma, decine di lavoratori dei teatri lirici di tutta Italia hanno cantato l´inno di Mameli e il Rigoletto di Verdi. Molti gridavano pure «buffone, buffone». «Continueremo le lotte finché questo decreto con verrà modificato» minaccia Francesco Melis della Uilcom. La protesta è stata replicata davanti alla Camera dei deputati, dove era all´esame il provvedimento. Nascono nuove forme di protesta. Ieri, a Venezia, i lavoratori della Fenice hanno scelto di fare una prova aperta e gratuita del Giro di vite di Benjamin Britten preceduta da una performance sui gradini del teatro (poi il dibattito sui temi della riforma delle fondazioni). E domani, alla prova generale della Scala del balletto Romeo e Giulietta, aperta ai cittadini, verrà chiesto un contributo per i lavoratori precari.

martedì 22 giugno 2010

l’Unità 22.6.10
Un successo. Passato il testimone a 110mila nuovi «resistenti»
«Mi iscrivo all’Anpi perché la Resistenza non sia solo memoria del passato ma esercizio del presente»
La nuova resistenza democratica inizia unendosi ai partigiani dell’Anpi
Se c’è da resistere si va da coloro che la Resistenza la conoscono bene. L’Anpi sta conoscendo una nuova primavera. Presentata ieri una iniziativa per l’adesione di moltissime personalità illustri
di Stefania Scateni

Non è tempo di stare alla finestra. Non è tempo di indifferenza né di ignavia, tantomeno di accidia. È tempo di trasformare lo sconcerto, la rabbia e la paura, di scegliere se continuare ad affannarsi per nuotare in una marmellata culturale e politica che confonde verità e menzogna, libertà e sopruso, sfigurando il tutto in un grande schermo azzurro e piatto, oppure tirarsi fuori dal blob e dare aria al cervello. In poche parole, prendere posizione. C'è bisogno di rivivere il significato morale, prima ancora che politico, dell'antifascismo e della nostra Costituzione democratica. La ricchezza dell'insegnamento che ci arriva dalle donne e gli uomini che si sono schierati e hanno combattuto per costruirla vanno coltivati e ripresi, insegnati, testimoniati di nuovo. Molti ragazzi italiani (come ci ha raccontato il 9 giugno Gabriella Gallozzi su questo giornale) lo hanno fatto iscrivendosi all' Anpi: tanti nuovi “antifascisti”, “volontari per la democrazia” nell’Associazione nazionale dei partigiani che, negli ultimi anni, ha aperto le porte anche a chi la Resistenza non l’ha vissuta. I partigiani hanno passato così il testimone a 110mila nuovi resistenti per continuare a far vivere la memoria della lotta per la democrazia, messa a rischio dalla graduale scomparsa dei protagonisti e dal violento revisionismo di regime. L'Anpi lancia inoltre una campagna con il coinvolgimento di artisti, scrittori e intellettuali. Nata da un'idea di Concita De Gregorio e Dacia Maraini, l’iniziativa è stata presentata ieri nella sede nazionale dell'Associazione.
Dacia Maraini ha citato un discorso agli studenti milanesi di Piero Calamandrei (1955): «Se voi volete andare in pellegrinaggio nel luogo dove è nata la nostra Costituzione, andate nelle montagne dove caddero i partigiani, nelle carceri dove furono imprigionati, nei campi dove furono impiccati. Dovunque è morto un italiano per riscattare la libertà e la dignità, andate lì o giovani, col pensiero, perché li è nata la nostra Costituzione». Concita De Gregorio ha spiegato quanto sia fondamentale parlare ai ragazzi di chi ha combattuto per le libertà di cui godono oggi, e spiegare loro la Costituzione: «Il futuro non è più quello di una volta, è necessario incarnare nel presente lo spirito della Resistenza. Una Resistenza personale, privata, che può coincidere con una forma di Resistenza pubblica, collettiva». Non erano sole ieri mattina all' Anpi. «Mi iscrivo all'Anpi perché la Resistenza non sia solo memoria del passato ma esercizio del presente». Con questa motivazione, scelta per la campagna, si sono iscritti Andrea Camilleri, Giuliano Montaldo, Giancarlo De Cataldo, Romana Petri, Rosetta Loy, Fabrizio Gifuni, Simona Marchini, Sandra Petrignani, Fabio Bussotti, Simone Cristicchi, Fiorella Mannoia, Mario Monicelli,
Neri Marcorè, Emma Dante, Marco Paolini, Gigi Proietti, Moni Ovadia, Ugo Gregoretti, Marco Bellocchio, Giorgia, Monica Guerritore, Sabrina Ferilli, Massimo Carlotto, Emma Dante, Roberta Torre, Irene Grandi, Matteo Garrone, Francesca Archibugi, Valentina Carnelutti, Emanuela Giordano, Beppe Sebaste, Lidia Ravera, Silvia Nono, Flavia Gentili, Italo Spinelli, Francesca Comencini, Cristina Comencini, ellekappa, Staino, Liliana Cavani, Serena Dandini, Riccardo Milani, Piera Degli Esposti, Vincenzo Cerami, Ascanio Celestini, Margherita Hack, Eugenio Finardi, Lucio Villari, Pierluigi Meneghetti, Mario Prosperi, Rossella Or, Lisa Ginzburg, Luca Archibugi, Nadia Urbinati, Roberto Citran. Molti erano presenti, nella stracolma sala dell'Anpi dove a fare gli onori di casa c'erano due partigiani, i vicepresidenti dell'Associazione Armando Cossutta e Marisa Ombra. Giuliano Montaldo ha raccontato quando, il 24 aprile 1945, a Genova stavano stampando la prima Unità del dopoguerra, e con altri fece da “spago” per portare l'edizione agli operai dell'Ansaldo: un solo foglio, titolo “Genova è libera”. Giancarlo De Cataldo lamenta come la sinistra abbia consegnato i simboli alla destra, e sottolinea l'importanza mitopoietica della Resistenza. Le storie sono necessarie, raccontano il mondo e noi stessi. Quanta differenza ci sia tra lo ieri dei partigiani e l'oggi dei «nuovi resistenti» lo spiega Armando Cossutta, quando chiude la conferenza con un ricordo personale. «Oggi combattere per la Costituzione è più difficile di allora. Fui incarcerato, messo al muro insieme a dei compagni per essere fucilati, ma non avevo paura, non avevamo paura. Avevamo la certezza di contribuire a costruire un orizzonte visibile e giusto. Oggi non si vede questa luce all' orizzonte».

Da Barcellona a Genova, l’allarme degli intellettuali
Dopo cento-cinquant'anni la spedizione dei mille torna a Genova, dove era partita con Garibaldi. Questa volta però i mille sono degli italiani che vivono all'estero e che si imbarcheranno venerdì 25 giugno da Barcellona sulla “nave dei diritti” per sbarcare il giorno dopo nel capoluogo ligure e dare la sveglia all'Italia berlusconizzata e assuefatta al degrado civile. L'iniziativa, presentata ieri al Parlamento europeo e battezzata “lo sbarco”, è nata fuori dai partiti e senza finanziamenti, grazie ad un gruppo di italiani che vivono a Barcellona «seriamente preoccupati per ciò che avviene in Italia». La cosa si è diffusa su Internet, raccogliendo moltissime adesioni sparsi in Europa e ricevendo l'appoggio di artisti e intellettuali italiani e stranieri come Dario Fo, Alaine Touraine, Franco Battiato, Beppe Grillo, Paolo Flores D'Arcais, Moni Ovadia, Erri De Luca e lo scrittore portoghese José Saramago deceduto venerdì scorso. MA. MON.

l’Unità 22.6.10
Migrare, nasce un portale per una nuova cultura

Un «contenitore messo a disposizione della società civile»: così Shukri Said, italiana di origine somala, ha presentato oggi il nuovo portale «www.migrare.ue», un'iniziativa dell'associazione Migrare di cui è segretaria e portavoce. Un sito che attraverso una «informazione corretta» vuole contribuire ad affrontare la «battaglia» culturale per l'integrazione. Perchè in Italia, ha spiegato la deputata radicale Rita Bernardini intervenuta alla Camera alla presentazione, c'è «un'informazione menzognera» che «fomenta i sentimenti negativi nei confronti dell'altro, del diverso».
E questo, per la parlamentare, vale soprattutto per le televisioni, sia pubbliche che private. C'è un «paradosso tutto italiano», ha aggiunto l'ex senatore Luigi Manconi, che consiste nel fatto che da noi «c'è meno razzismo ma anche meno integrazione». La maggior parte della popolazione immigrata, insomma, resta fuori dal sistema dei diritti e della cittadinanza: sono pochi, ad esempio, i professionisti stranieri, o i quartieri misti. Il nuovo portale, ha sottolineato il deputato del Pd Jean Leonard Touadi, cerca di ribaltare la «politica della paura» fomentata da mass media e politici. Migrare.eu porta avanti tra l'altro una campagna sul rilascio e il rinnovo dei permessi di soggiorno, e chiede che chi nasce in Italia sia cittadino italiano, che si ponga fine ai respingimenti indiscriminati di chi ha diritto all'asilo, che la sanatoria di colf e badanti sia estesa anche ad altre categorie di lavoratori, che agli immigrati sia riconosciuto il diritto di voto amministrativo.

l’Unità 22.6.10
Colloquio a Fabrizio Gifuni
«Ho detto che la cultura sta morendo, su questo nessuno ha da obiettare?»
L’attore finito oggetto di una polemica per aver usato la parola «compagno» al Palalottomatica: una tragicommedia. E invece bisogna ascoltare e ragionare
di Alberto Crespi

Un’intera nottata / Buttato vicino / A un compagno / Massacrato / Con la bocca / Digrignata / Volta al plenilunio / Con la congestione / Delle sue mani / Penetrata / Nel mio silenzio / Ho scritto / Lettere piene d’amore / Non sono mai stato / Tanto / Attaccato alla vita».
Questa è Veglia, poesia di Giuseppe Ungaretti scritta su Cima Quattro il 23 dicembre 1915, durante la prima guerra mondiale. Contiene la parola «compagno». Attendiamo con ansia una mozione di qualche giovane del Pd per prendere le distanze dal poeta.
Non siamo impazziti. E Veglia non è un’idea nostra. Ieri abbiamo chiamato Fabrizio Gifuni per commentare il can-can seguito al suo intervento di sabato al Palalottomatica, concluso con le fatidiche parole «Compagni e compagne, è tanto che volevo dirlo...». Gifuni, che è un bravissimo attore (e che per inciso, in carriera, ha benissimo interpretato Alcide De Gasperi in un film per la televisione), non credeva alle sue orecchie e non voleva nemmeno parlarne. Poi ha accettato di far due chiacchiere con l’Unità, giornale letto ancora da molti «compagni». E ha voluto raccontarci una telefonata che aveva chiuso pochi minuti prima di parlare con noi (ieri il suo telefonino era rovente).
«Mi hanno chiamato diverse persone non per esprimermi solidarietà, non esageriamo, ma per condividere un po’ di stupore, di costernazione. Fra queste Corrado Stajano, che mi ha ricordato appunto la poesia di Ungaretti Veglia. Se ti va di citarla, sappi che fa piacere anche a me: se avessi tirato fuori Pavese, o Quasimodo, avrei rinfocolato gli animi, qualcuno avrebbe gridato: ecco, i soliti bolscevichi. Ungaretti non era un bolscevico e soprattutto era un poeta ermetico, che misurava le parole e sapeva dar loro il giusto peso. Secondo Stajano Veglia è la più bella poesia che contenga la parola ‘compagno’. Dopo averla riletta, mi sembra di potergli dare ragione». Siamo anche noi doppiamente
contenti di citare Ungaretti perché siamo d’accordo con Gifuni quando afferma che la polemica seguita al suo intervento è un clamoroso esempio di informazione deviata. Ci spieghiamo – anzi, facciamolo spiegare a lui: «Premesso che non faccio parte del Pd e non ho in tasca la tessera di nessun partito, io sono stato chiamato a intervenire, da attore e da cittadino, su un tema preciso: i tagli alla cultura. Ho espresso 5-6 pensieri, forse stupidi, o male articolati, che esprimono il disagio profondo di chi lavora in questo campo, oggi, in Italia. Beh, avessi sentito una parola di commento, anche di dissenso, nel merito. No: all’interno del mio intervento, sono state estrapolate due parole che corrispondevano a una virgola, a un segno d’interpunzione... si analizza una frase aggrappandosi a una virgola e ignorando il soggetto, il predicato verbale, il complemento oggetto...».
Allora, Fabrizio, visto che parliamo di cultura, diamo un senso a Ungaretti e ai poeti come lui e ripartiamo dal soggetto. La cultura. Vogliamo ridare centralità ai pensieri e ribadire cosa davvero hai detto, in quell’intervento, prima di rivolgerti ai compagni e alle compagne? «Il grido di dolore per i tagli imposti dal governo alla cultura è usurato. Il problema non va affrontato a compartimenti stagni. Guai se il cinema difendesse il cinema, la lirica la lirica, e così via: sarebbe l’ennesima guerra fra poveri. La battaglia per la cultura dev’essere unitaria. Bisogna rimettere al centro del dibattito alcune parole d’ordine. Non aver paura di dire che la cultura, lo studio, la scuola, la ricerca scientifica sono il tessuto connettivo di una democrazia. Non sono parole vuote. Sono parole con un peso specifico enorme. Pensare che invece siano sinonimo di ‘tempo libero’ è grave. Se passa un simile concetto, i tagli diventano logici: c’è crisi, mancano soldi dovunque, dove si taglia? Nel superfluo! Ma la cultura non è superflua, è anzi alla radice del concetto stesso di democrazia: nell’Atene di Pericle si andava la mattina in senato, il pomeriggio al mercato, la sera a teatro, e queste tre attività avevano tutte la stessa importanza, contribuivano alla crescita della polis. Ora: mi si può dire che sbaglio, si può discutere. Mi si può rispondere: Gifuni ha torto, la cultura fa parte del superfluo, del ‘di più’ rispetto alle necessità della vita. Ma non si può tralasciare totalmente il senso di un discorso e aggrapparsi alla parola ‘compagni’ per innescare una polemica».
Polemica che, ovviamente, non ti aspettavi... «Per carità, l’avessi saputo... forse l’avrei detto ugualmente! Perché ho la sensazione di aver sottoposto questi militanti ad una sorta di test involontario. Mi rattrista che la reazione sia arrivata da giovani esponenti del Pd. Mi viene da risponder loro: ma lo sapete, che nel nome della parola ‘compagno’ c’è gente che è andata in galera, che addirittura ha sacrificato la vita? Ma forse sarebbe una reazione, a mia volta, esagerata. Preferisco quindi un’altra risposta: cerchiamo di non essere pavloviani! Mi spiego: la rabbia suscitata dalle mie parole mi sembra una reazione pavloviana che scatta in modo automatico all’ascolto di certe parole. Allora, proviamo ad andare al di là delle parole. Proviamo ad ascoltare le opinioni altrui, a valutarle, e nel caso a contraddirle con argomenti validi. Purtroppo sembra che nessuno, nella politica italiana, sia più abituato ad ascoltare e a ragionare. È più facile buttarla in tragicommedia».
O in commedia all’italiana, aggiungiamo noi. E ci viene in mente la Magnani, che in Mamma Roma di Pasolini sgrida il figlio che non le obbedisce dicendogli «ahò, che te metti a fa’ er compagno?».
È una citazione meno alta di Ungaretti, ma forse può servire.

l’Unità 22.6.10
Cari nativi
«Se voi siete il futuro il futuro non c’è»
La lettera di una «nativa» in disaccordo con gli altri «nativi». «Con questa inutile polemica avete danneggiato il Pd, un’azienda vi avrebbe cacciato...»
di Cecilia Alessandrini

Gentilissimi Giovani Dirigenti nativi del PD, anche io sono una giovane nativa del Pd, ma sono una semplice militante, non sono una dirigente e vivo in Emilia Romagna a Bologna per la precisione. Impiego quotidianamente una parte del mio tempo libero nell'impegno politico nella speranza che questo serva, in futuro, a sconfiggere il berlusconismo imperante nel nostro paese e a restituire un po' di dignità politica all' Italia. Non lo faccio solo per me, lo faccio soprattutto per i miei futuri figli, lo faccio perché un giorno voglio poter guardare i più giovani negli occhi e poter dire loro che io ho fatto tutto il possibile, tutto quello che le mie forze intellettuali e fisiche mi hanno permesso di fare per evitare che il mio paese, il loro paese, andasse alla rovina, esattamente come fecero molti anni fa i partigiani di tutti i colori politici che ci restituirono la libertà. Sarà per questo impegno quotidiano che non ho tempo di offendermi se qualcuno mi chiama compagna io che il Pci l'ho conosciuto solo attraverso i libri. Sarà perché vado a servire sia alle «Feste dell'Unità» a Bologna, dove si è deciso di mantenere alla festa del partito il vecchio nome, sia alla «Festa Democratica» di Sassuolo dove invece il nome è stato cambiato ma la sostanza è rimasta la stessa. Certo, forse, andrei a servire ai tavoli con meno entusiasmo ad una Festa denominata «Democratic Party» come mi si dice si chiami la Festa del PD a Roma; onestamente sa più di «Amici di Maria De Filippi» che della Festa di un partito che ha a cuore i diritti dei più deboli. Mi piacerebbe ricordarvi l'etimologia della parola «compagno» ( cum panis), ma sarebbe inutile perché è chiaro che il problema che esprimete non è filologico, ma legato al richiamo al lessico marxista che questa parola evoca ed il rapporto del Pd con la tradizione marxista è un problema lungo e complesso che va analizzato nelle sedi adeguate e quindi vi dico solo che dopo la vostra lettera sono molto sconfortata e preoccupata per una serie di ragioni molto poco filosofiche.
1)Speravo che i giovani dirigenti del Pd fossero impegnati, come lo siamo noi militanti, in cose più serie del disquisire sulla pronunciabilità o meno di una parola che, comunque, non ha in sé nulla di offensivo.
2)Era proprio necessaria questa discussione dopo una manifestazione riuscita bene ed anche originale nel suo svolgimento? In questi giorni avevo ricevuto da diverse persone un ritorno positivo sull'evento di Sabato. Qualcuno mi aveva scritto dicendomi che «dopo il discorso di Bersani l'avevamo recuperato come elettore». Questa mattina nella prima e-mail che ho aperto qualcun altro mi diceva che questa polemica l'aveva schifato. Ottimo lavoro cari giovani dirigenti nativi del Pd! Qualcuno vi chiederà conto del danno che avete procurato al lavoro che noi militanti facciamo tutti i giorni per le strade, nei circoli ed alle innominabili Feste dell'Unità? Se fossimo in un'azienda privata avrebbero già provveduto a mandarvi a casa...
3)Se questa è la nuova classe dirigente del Pd credo che le cose, per noi, possano solo peggiorare.
Concludo narrando un bellissimo episodio della vita di Sandro Pertini. Un giorno da Presidente della Repubblica incontrò una scolaresca ed uno dei bambini gli chiese «Presidente, chi è il suo migliore amico?» Pertini rispose: «Il mio migliore amico era Antonio Gramsci anche se lui era comunista ed io socialista». Chi conosce la storia sa cosa significa questa risposta e chi ha orecchi per intendere intenda.

l’Unità 22.6.10
La censura arriva su internet
di Ireo Bono

In questi giorni il Senato ha approvato il cosiddetto pacchetto sicurezza con un emendamento del senatore D’Elia (UDC) identificato dall’art. 50bis: repressione di apologia od istigazione a delinquere compiuta a mezzo internet. Questa settimana il testo approderà alla Camera diventando l’art. 60. In pratica in base a questo emendamento se un qualunque cittadino dovesse invitare attraverso un blog a disobbedire (o criticare?) ad una legge che ritiene ingiusta, i providers dovranno bloccare il blog ed il blogger sarebbe soggetto ad una pena che prevede il carcere. Mi pare che questa sia una legge liberticida e che stia passando nel silenzio dei mezzi d’informazione.

l’Unità 22.6.10
Che fare
Opposizione unita per fermare la destra eversiva
di Cesare Salvi
Portavoce della federazione della sinistra

Il governo Berlusconi sta dispiegando un’offensiva antidemocratica e antisociale senza precedenti. Ai ripetuti e costanti attacchi agli organi di garanzia come la Corte Costituzionale e all’indipendenza della Magistratura si aggiunge ora la volontà di mettere mano anche alla Prima Parte della Costituzione, alterando l’equilibrio tra libertà di iniziativa economica e utilità sociale.
La legge bavaglio manifesta la volontà di colpire la libertà di informazione e l’attività di repressione dei reati per salvaguardare l’impunità delle classi dirigenti. La manovra del governo contiene numerosi elementi di iniquità sociale, oltre ad essere del tutto inadeguata a contrastare la recessione economica e i rischi di crisi finanziaria dello Stato.
Particolarmente grave è l’attacco al settore pubblico, alla scuola, alle funzioni sociali delle regioni e dei comuni. Il testo Fiat su Pomigliano, comunque lo si giudichi per altri aspetti, contiene un vulnus molto grave all’art. 40 della Costituzione, attribuendo all’azienda il diritto di licenziare i lavoratori in caso di scioperi. Di fronte a questo insieme inquietante di fatti, la mobilitazione e la protesta non può essere affidata esclusivamente ai soggetti direttamente colpiti, né è sufficiente che le singole forze di opposizione agiscano ciascuna per se, dando qualche volta l’impressione di essere più interessate ad acquisire consensi sulle proprie posizioni che a concorrere a una mobilitazione del Paese con l’obiettivo di sconfiggere i disegni antidemocratici e antisociali del centrodestra.
E non credo si possa immaginare che le divisioni, pure esistenti, all’interno della maggioranza possano frenare l’attività eversiva di questo governo.
È necessario per l’Italia che i partiti di opposizione assumano una iniziativa comune che, rispettando le legittime diversità di posizioni programmatiche, si batta unitariamente a difesa dei valori e dei diritti sanciti dalla nostra Costituzione, e, su questa base, si impegnino insieme nella mobilitazione e nella protesta.
Con quali alleanze e con quali leadership affrontare le prossime elezioni politiche è un tema certamente di grande rilievo. Ma è meno urgente rispetto al dovere di reagire contro il rischio di passività politica, che può diffondere nel Paese il convincimento di un’opposizione debole, divisa e incapace di contrapporsi efficacemente alle azioni del governo.
L’opposizione unita può dare invece un importante segnale di fiducia e di speranza ai milioni di italiane e di italiani che ci chiedono di sconfiggere questo governo, di impedire che la compressione delle libertà e dei diritti sociali e l’attacco alla Costituzione siano portati a compimento.

Repubblica 22.6.10
Quell’attacco postumo a Saramago
risponde Corrado Augias
Caro Augias, anche se viene sempre meno la voglia di scandalizzarsi, non posso fare a meno di provare vergogna per il tremendo attacco che l'Osservatore Romano ha dedicato a José Saramago dopo la morte. Un intervento pieno di livore. Un tempo la Chiesa sapeva distinguere tra peccato e peccatore affidava a Dio "misericordioso" anche l'anima di coloro che considerava irrecuperabili peccatori. La Chiesa di oggi, al centro di scandali di ogni genere, ha perso la tradizionale prudenza ed è diventata una protagonista attiva del penoso dibattito dei nostri giorni che consiste, sempre, nella demonizzazione dell'avversario, senza preoccuparsi per nulla, in particolare con Saramago, del fatto che, il pericoloso avversario, è passato a miglior (o peggior) vita, non avendo, perciò, possibilità di replica.
Antonio Cammelli Firenze cammelli.a@tiscali.it

Ha molto colpito l'attacco post mortem ad uno scrittore premio Nobel che ha onorato l'arte sua, quali che fossero le sue idee in materia religiosa. Anche in altre materie, peraltro. Per esempio sulla politica dello Stato d'Israele, da lui condannata senza mezzi termini suscitando anche in questo caso aspre reazioni. Capisco il nervosismo di un paese in questo momento in forti difficoltà. Ma l'organo ufficiale della Chiesa cattolica, che si vuole ispirata direttamente dal Cielo, avrebbe potuto argomentare con più misericordia verso un morto. Saramago vedeva nella diffusione del Male nel mondo una delle prove dell'inesistenza di Dio. Quanto meno del Dio della teologia cattolica. E' un problema antico, più volte affrontato anche da grandi spiriti, mai risolto. Credo irrisolvibile. Francesco Leporino (gransole@gransole.net) mi ricorda che: « L'uomo Saramago ha detto: "La bontà è una delle forme più alte di intelligenza!". Strappare al Cristianesimo il monopolio della bontà e iscriverlo in un pensiero illuminista, farne una categoria dell'intelligenza (e non del timor di dio) è stata una verità semplice e rivoluzionaria». Francesco de Goyzueta da Napoli (fdegoyzueta@ extratel.it) scrive: « Saramago, grande voce civile che si è appena spenta, ha detto: "Dev'essere duro vivere quando il potere politico e quello imprenditoriale si riuniscono. Non invidio la sorte degli italiani, però alla fine è nella volontà degli elettori mantenere questo stato di cose o cambiarlo". Veemente dunque, ma anche rispettoso della democrazia». Fulvio Bossino scrive: « Complimenti al Vaticano, tramite il suo organo di stampa introduce contro Saramago un nuovo genere letterario: dopo l'elogio funebre abbiamo finalmente l'insulto funebre». Andrea Sillioni (Bolsena) è secco: «Fa rabbrividire una Chiesa che teme ancora, nel duemila, l'intellettualità atea e materialista».

lunedì 21 giugno 2010

l’Unità 21.6.10
Dopo la manifestazione di Roma contro la manovra, nel partito si apre una nuova fase
Le piccole schermaglie non cancellano il plauso raccolto dal discorso del segretario Bersani
Il day after del Palalottomatica L’entusiasmo della base Pd
di Maria Zegarelli

Il giorno dopo il Palalottomatica Bersani insiste: «Mani cuore e cervello nei problemi della gente». Penati: «Con il suo intervento di ieri ha colto nel segno. Questa manovra non piace a nessuno».

Basta con le polemiche interne, «il paese ha bisogno di noi» ragion per cui il Pd deve mettere «mani, cuore e cervello» nei problemi della gente e riannodare i fili con la società. Pier Luigi Bersani sente che il cambio di passo è segnato, che si è usciti dal dibattito tutto interno al Pd, è convinto che adesso la priorità sia «trasformare la rabbia» che c’è nel Paese e in tanti cittadini delusi e sfiancati «in energia positiva». Ma sa anche che nel Pd la polemica è sempre dietro l’angolo, per questo il giorno dopo la manifestazione di Roma, non replica ai mal di pancia che pure si registrano in qualche democratico.
Beppe Fioroni, per esempio, era poco convinto della manifestazione contro la manovra e poco ha gradito gli accenti troppo «di sinistra», mentre in diversi hanno provato fastidio per quel «compagni e compagne» pronunciato dall’attore Gifuni. C’è anche chi ha notato tra gli assenti Franco Marini insi-
nuando prese di distanza, ma il presidente era in Finlandia, come hanno fatto sapere i suoi collaboratori, da dove è rientrato soltanto ieri pomeriggio.
L’ENTUSIASMO DI FACEBOOK
Su Facebook, intanto, l’entusiasmo per questa nuova linea del partito è alle stelle, «era ora», «finalmente Pier Luigi incomincia a sparare a zero, meglio tardi che mai».
«Ieri Bersani ha colpito nel segno dimostrando che si tratta di una manovra sbagliata e dannosa che non risolve i problemi del paese e non lo aiuta a ripartire dice Filippo Penati, capo della segreteria politica -. Non piace veramente a nessuno, tanto che neanche Berlusconi la difende preferendo attaccare l'opposizione per distogliere l’attenzione e fare un appello all’unità della sua maggioranza». Un messaggio «forte e chiaro» quello partito dal Palalottomatica, secondo Maria Pia Garavaglia:«Il Pd è una realtà viva di questo Paese che può dare un grande contributo a farlo uscire dalla crisi. Siamo in un’epoca post-industriale e molto dipenderà dalla capacità di leadership di Bersani di saper fare fronte alle sfide che in questa era si aprono». L’imprenditore Diego Della Valle, infine, si dice d’accordo con la proposta del segretario di chiederedipiùachiadipiù.
Critiche da Rodolfo Viola che, se apprezza «la voglia di fare proposte concrete e alternative per il Paese», annota che nessuna di queste parli a al mondo delle partite Iva o dei “piccoli”. Il Pd, dice Viola, deve decidere se «professionisti, artigiani, commercianti fanno parte dei complessi interessi sociali che devono essere valorizzati e tutelati».

Repubblica 21.6.10
La Sinistra ritrovi se stessa
di Marc Lazar

Il Pd ha organizzato una grande manifestazione per protestare contro una «manovra ingiusta e sbagliata», per criticare il governo e proporre le sue soluzioni economiche e sociali.
Il Pd assolve alla sua funzione di partito d´opposizione in una democrazia, come anche quando denuncia con forza, insieme ad altre formazioni, la «legge bavaglio». Con questa iniziativa, la direzione del Pd persegue anche altri obbiettivi: mobilitare i suoi iscritti per dare un senso e uno scopo alle loro azioni quotidiane, compattare le diverse sensibilità del partito, che hanno semmai la tendenza a litigare fra loro, rivolgersi ai cittadini mostrando determinazione e convincendoli della serietà delle proprie proposte. Quanto al segretario, Bersani, si sforza attraverso questa iniziativa di affermare la sua autorità all´interno del partito e costruire la sua reputazione di principale oppositore del presidente del Consiglio.
Ma questa manifestazione non può mascherare l´anemia politica e culturale del Pd. In un momento in cui la crisi obbliga i grandi partiti politici a uno sforzo d´immaginazione per rispondere ai dubbi dei cittadini, questa anemia spiega in parte la scarsa credibilità politica, i risultati elettorali negativi e il basso livello nei sondaggi del Pd. Quaranta o cinquant´anni fa, le sinistre italiane erano più o meno impotenti sul piano politico, ma avevano un´enorme e variegata creatività culturale, grazie agli scambi, difficili ma intensi, tra intellettuali, partiti e sindacati. Era così al Pci, con la rete degli Istituti Gramsci, e anche al Psi, in particolare negli anni 60 e 70 intorno alla rivista Mondo operaio, che polemizzava con i comunisti contribuendo a intaccare la loro egemonia culturale sulla sinistra. Diverse personalità esercitarono una forte influenza, come ad esempio Norberto Bobbio, Lelio Basso, Vittorio Foa, Bruno Trentin ecc. Le analisi delle mutazioni del capitalismo, della classe operaia, del lavoro, dell´Unione Sovietica, del socialismo, del sindacalismo o della democrazia spesso divergevano, ma alimentavano il dibattito. Oggi in gran parte quelle analisi sono superate (tranne Bobbio). L´inerzia attuale del dibattito all´interno della sinistra italiana ha diverse spiegazioni. La tradizione socialista è stata progressivamente dissipata a partire dagli anni 80, con il Psi che ha dimenticato il lavoro realizzato nel decennio precedente dagli intellettuali a lui vicini sul riformismo, la socialdemocrazia, la modernizzazione dell´Italia o il totalitarismo comunista. Quando il partito è scomparso, negli anni 90, si è trascinato dietro gran parte della tradizione intellettuale socialista o l´ha tendenzialmente, e ingiustamente, screditata. La trasformazione del Pci nel Pds, poi nei Ds e infine nel Pd ha fatto precipitare il gruppo che l´ha pilotata in un dilemma: proclamarsi fieri di essere stati comunisti comporta un prezzo in termini elettorali, ma rinnegare le proprie convinzioni precedenti è difficilmente sostenibile. Divisi al riguardo, gli ex comunisti non sanno più bene che cosa fare della propria storia e della propria tradizione. L´ascesa in politica di Berlusconi ha polarizzato tutta l´attenzione e le energie della sinistra. La conseguenza è che i dibattiti che la attraversano ruotano intorno a tematiche essenzialmente politiche: scongiurare i pericoli per la democrazia (ma senza riuscire, nelle due occasioni in cui il centrosinistra è stato al potere, a mettere a punto una legge sul conflitto d´interessi), trovare un sistema elettorale adeguato, rifiutare le riforme istituzionali proposte dal presidente del Consiglio, che rischierebbero di rafforzare il potere esecutivo, e proporne altre. E la creazione del Pd nel 2007 invece di incoraggiare il dibattito ha contribuito paradossalmente a soffocarlo.
Il Pd ambiva a rappresentare un crogiolo delle sue varie componenti, quelle provenienti dal Pci, dal Psi e dalla Dc, senza trascurare l´ingrediente ecologista. Questo melting pot è fallito. Oltre alle rivalità personali, ai confronti fra diverse sensibilità, alle enormi difficoltà generate dalla fusione degli apparati di partito e dalla delicata spartizione dei posti, il Pd, per tenere insieme i diversi iscritti e definire la propria identità, ha scelto il minimo denominatore comune. Il risultato è stato un partito senza leader forte, dalla strategia tentennante, caratterizzato da un basso profilo e che fatica a nascondere un abissale vuoto culturale. Su tutti gli argomenti scottanti, economici, politici e sociali (in particolare la bioetica e la laicità), il partito si sforza innanzitutto di non collassare sotto il peso delle sue divergenze.
Certo, le varie sensibilità hanno i loro intellettuali e i loro esperti, anche di altissimo livello (basti pensare a Michele Salvati), che lavorano nelle fondazioni, come la Fondazione democratica o Italianieuropei. Ma generalmente queste fondazioni, pur lasciando libertà ai propri membri, sono al servizio innanzitutto di un leader, nel primo caso Veltroni e nel secondo D´Alema. Questo significa che non contribuiscono minimamente all´elaborazione collettiva di una cultura di partito. Obnubilato dal comportamento da adottare riguardo a Silvio Berlusconi, oscillante tra un´opposizione intransigente e la ricerca del compromesso, il Pd ha poco da dire sulle mutazioni della società italiana, sull´Europa e sulla globalizzazione.
Il suo deficit di elaborazione culturale paralizza il resto della sinistra. Al di fuori del Pd ci sono numerose riviste di centrosinistra espressione di tradizioni e generazioni diverse. Ma – e questo forse è uno degli elementi nuovi -, le loro produzioni, le loro polemiche e i cantieri che esplorano sembrano riuscire minimamente a influenzare il dibattito del Pd, e ancor meno il suo orientamento politico. La circolazione tradizionale fra partito e intellettuali è entrata più o meno in corto circuito, con i due mondi, quello dei politici e quello degli intellettuali, che conducono vite parallele, si ignorano quando addirittura non si criticano a vicenda, anche se tutto questo non impedisce che occasionalmente ci siano dei punti d´incontro o una strumentalizzazione degli intellettuali da parte dei politici. Il risultato è che la sinistra italiana oggi non rappresenta più una fonte d´ispirazione per il resto della sinistra europea.
Eppure, in un momento in cui Silvio Berlusconi è in declino e la sua egemonia politica e culturale si sgretola, il Pd ha tutte le carte in mano per apportare un contributo fondamentale alla riflessione in corso a sinistra. Occupa un posto centrale nell´opposizione. Il progetto iniziale da cui è nato era una risposta ingegnosa al fallimento storico e alla crisi della socialdemocrazia classica. Il Pd ambiva a svolgere la funzione di un laboratorio e a inventare un altro riformismo. Tocca a lui riallacciare il legame con questa ambizione annodando i fili di un dialogo e di un confronto con le forze vive della sinistra italiana ed europea.
(Traduzione di Fabio Galimberti)

Repubblica 21.6.10
"Non accettiamo la parola compagni"
Giovani pd contestano il vocabolario comunista. Bersani. "Un pretesto"
di Giovanna Casadio

ROMA - Colpa sua, di Fabrizio Gifuni, che ha interpretato tra l´altro Alcide De Gasperi in tv ma che sabato - invitato da Bersani alla mobilitazione anti-manovra del Pd al Palalottomatica - ha concluso un appassionato discorso sui tagli alla cultura con le antiche parole d´ordine della sinistra: «Compagne e compagni...è tanto che volevo dirlo!». Liberatorio. I militanti democratici presenti si sono spellati le mani. Eccetto quelli che ieri hanno deciso di protestare. Un gruppo di giovanissimi ha scritto a Bersani una lettera di fuoco. Per noi «nativi del Pd», cioè estranei alla tradizione comunista e a quella democristiana, «le parole compagni, festa dell´Unità, sono concetti che rispettiamo per la tradizione che hanno avuto ma che non rientrano nel nostro pensare politico e che facciamo fatica ad accettare... questo trapassato non ha noi come destinatari». Luca Candiano, uno dei firmatari (con Veronica Chirra, Matteo Cinalli, Sante Calefati e Marino Ceci, ventenni o poco più, giovani Democratici) sostiene che «è un´aria che si respira dall´inizio della segreteria Bersani» e che li fa sentire «fuoriposto», anche se non è una minaccia ad andarsene. Fanno eco Lucio D´Ubaldo, senatore, e Giorgio Merlo: per entrambi, ex Ppi, «con i Gifuni di turno il Pd si disegna un ruolo di eterna opposizione».
Anche il veltroniano Stefano Ceccanti su Facebook apre un dibattito sul tema: «Il leader dei cristiano sociali Gorrieri, agli stati generali del 1998 in cui nacquero i Ds, suscitò proteste chiedendo che la si smettesse di chiamarsi "compagni" così che ciascuno si sentisse a casa propria. Noi qui - commenta Ceccanti - torniamo al Pds e al Pci. Se l´avesse fatto un operaio nostalgico...ma lo dice Gifuni, è l´estremismo dei ricchi e uno specchio delle difficoltà del Pd destinato a essere minoranza».
Gifuni trasecola: «Pensavo che fossero parole ancora pronunciabili, né volevo suggerire linea o nostalgie. Ci si chiama così anche nella vita, mi è venuto dal cuore. Non ho tessere di partito, neppure del Pd». Dopo l´applauditissimo intervento, si sono complimentati con lui: «Bravo, hai avuto coraggio». Coraggio di denunciare «il genocidio culturale», credeva l´attore, figlio di Gaetano, ex segretario generale del Quirinale. Invece il coraggio gli serve ora che è finito nel tritacarne delle divisioni del Pd e degli attacchi del Pdl. Gasparri gli consiglia di occuparsi dei «parenti giardinieri». «Che tristezza», replica lui. «La parola compagno esiste», aveva assicurato Bersani a un operaio sardo. E adesso dalla segreteria sull´intera vicenda affermano: «È solo un pretesto». Pure Prodi non disdegnava parlare di «compagni». E Ivan Scalfarotto sbotta: «Lasciateci chiamare compagni che è parola piena di sentimento e solidarietà. La mancanza di innovazione sta nel fatto che D´Alema e Marini siano ancora dirigenti dai tempi di Pci e Dc. Gifuni è stato bravissimo». Debora Serracchiani: «Io voglio che al Pd vengano a dire amici, fratelli, compagni e che noi ascoltiamo cosa dicono».

Repubblica 21.6.10
Le contese democratiche tra archeo-politica e nostalgia ideologica
Nel 2007 il leader della Margherita Rutelli cercò la parola compagno nelle Sacre scritture I dc si chiamavano tra loro "amici" I neofascisti preferivano "camerati"
di Filippo Ceccarelli

Archeo-politica, proto-invocazioni, vetero-linguaggi e dispute ideologiche fuori tempo massimo. Non che la questione paia destinata a mutare il paesaggio dell´opposizione tra la manovra e la legge-bavaglio, ma ad alcuni giovani del Partito democratico non è piaciuto per niente che l´altro giorno, durante la manifestazione del Palalottomatica, Fabrizio Gifuni abbia esordito con uno squillante: "Care compagne e compagni".
E perciò, non riconoscendosi in quella formula, hanno scritto a Bersani «perché vorremmo renderti cosciente del nostro disagio di fronte a parole e comportamenti che guardano in maniera ingiustificatamente romantica al passato». Si tratta di espressioni anche rispettabili, ma a loro giudizio «trapassate».
Vero è che sabato scorso Gifuni ha un po´ caricato la faccenda del "compagne e compagni" aggiungendo con la dovuta enfasi: «Vi chiamo così perché era tanto che volevo dirlo», motivazione che è suonata quasi liberatoria e come tale accolta da applausi scroscianti. A tale proposito va detto che i giovani del Pd romano, cui si sono ieri aggiunti esponenti di derivazione margheritina, quindi di ex osservanza popolare e perciò prima ancora democristiana, hanno trascurato la circostanza che ormai stabilmente al giorno d´oggi si fa ricorso alla gente di spettacolo per far partire la macchina emotiva, riscaldare la platea e magari prolungare l´evento con qualche curiosità del giorno dopo.
Eppure, posto che l´attore Gifuni ha svolto egregiamente il suo mestiere e anche il suo compito per così dire fusionale, è vero che la parola "compagno" viene dal latino delle corporazioni medievali ("cum panis", colui con cui si divide il cibo), ma da almeno un secolo sta piantata nella tradizione marxista. E se pure c´è qualche dubbio che quest´ultima sia oggi viva e vegeta, basta pensare agli inni del movimento operaio e dell´ultrasinistra - "Su fratelli, su compagni", "Compagni, avanti il gran partito", "Compagni, dai campi e dalle officine" - per comprendere il disappunto di chi quel mondo ha perfino combattuto e adesso se lo ritrova in casa con i suoi simboli e tutto l´armamentario espressivo.
Nostalgia. Pretesti. Perdita di tempo. Ma la questione non è nuovissima. Così, mentre a sinistra la parola fu a lungo veicolo di scomuniche ("Non è più un compagno") e ambiguità ("Compagni che sbagliano") nelle Acli degli anni 70, dove già convivevano marxisti e cristiani, la formula rituale d´inizio comizio si articolò in un articolato: "Compagni e amici" - e con questo titolo c´è pure un libro di Gabriele Ghepardi (Coines 1976).
Del resto "amici", sia pure con la dovuta ipocrisia, si chiamavano fra loro i dc; così come i neofascisti vicendevolmente si nominarono a lungo "camerati". Il termine "compagno" vivacchiò per tutti gli anni 80´ per poi sfumare nel decennio seguente, a riprova dell´erosione delle culture politiche e delle relative appartenenze. L´ipotesi è che fu la tecnologia, oltre al crollo ideologico, a dismettere l´uso di un termine che presupponeva un calore di vicinanza, un guardarsi in faccia, una reciprocità di rapporti. Quando i leader della sinistra approdarono in televisione non c´era la loro pur vasta tribù ad ascoltarli, ma sterminate masse di pubblico, non più "compagni". Pare di ricordare che fu D´Alema, allora presidente, a rifiutare per primo l´appellativo che incautamente gli aveva rivolto un povero segretario di sezione ds degradatosi a figurante in qualche Ballarò.
Dopo di che la parola fu in qualche modo subissata da un´onda di varia e beffarda dissacrazione, dai "Compagni di merende" (copyright Filippo Mancuso) fino al "Compagno Fini". Ma nessun colpo di grazia, come si intende anche oggi, ha impedito che nei tronconi costituitivi dell´imminente Pd, partito subito disponibile a spendersi e lacerarsi nelle più bislacche e autolesionistiche controversie, si riaprisse periodicamente la questione dei compagni o non compagni.
In questo senso vale rammentare che nel 2007 il leader della Margherita Francesco Rutelli concesse il suo benestare all´uso di "compagno", ma non senza aver commissionato un´indagine sulla parola nelle Sacre Scritture. La squadretta di filologi rutelliani scovò oltre cento ricorrenze. La più significativa era nel libro del Siracide: "Non è forse un grande dolore quando il compagno diventa un nemico?". Che si adatti abbastanza bene proprio a Rutelli, uscito dal Pd, dice molto sul potere delle parole e sulle vendette che a volte tengono in serbo.

Intervista a Mila Spicola
l’Unità 21.6.10
«Oggi è la scuola la vera emergenza democratica di questo Paese»

Erano due anni che aspettavo quell’abbraccio dal Partito democratico». Il giorno dopo il l Palalottomatica Mila Spicola, l’insegnante di Palermo che ha raccolto gli applausi calorosi dei democratici arrivati a Roma, è ottimista: «Il Pd ha finalmente capito che la scuola deve essere al centro della politica». L’abbraccio più lungo Bersani l’ha dedicato proprio a lei. Un successone ieri. «Quell’abbraccio l’ha dedicato alla scuola e di questo sono felice perché per due anni è stato un argomento quasi dimenticato dal partito. Francesca Puglisi, responsabile scuola nell’esecutivo Pd, invece, ha mostrato un interesse reale, ci siamo visti insieme ad altri insegnanti molte volte mettendo in piedi un lavoro importante. Si è finalmente capito che la scuola è la vera emergenza democratica del Paese: se molliamo su questo potranno passare tutte le leggi bavaglio o comprimere qualunque diritto perché si perderebbe la capacità di esercizio critico, di socializzazione sana».
Ieri Fabrizio Gifuni ha definito la televisione, citando Pasolini, la nuova forma di fascismo. Esagerato? «Niente affatto, oggi la nostra agenzia educativa concorrente è la televisione. Ogni giorno in classe devo combattere con i miei ragazzi che puntano tutti a fare i ballerini, che mi chiedono di commentare “Amici” e quando rispondo che non ho la televisione mi guardano stupiti. In Sicilia noi ci battiamo per il tempo pieno non soltanto per togliere i ragazzi dalla strada, ma anche per sottrarli alla televisione».
Lei diventò «famosa» per una lettera scritta ad un quotidiano sul fondo schiena che prevale su tutto, anche su due lauree. «Quella lettera la scrissi d’impulso, leggendo un articolo sul Financial Times, ma la mia lotta quotidiana da sempre è per una scuola migliore, inclusiva. Sono stata precaria all’università per quindici anni, quando ho ottenuto il posto nella scuola media ho scelto di tornare a Palermo, nei quartieri dove è più complesso insegnare. Oggi insegno alla Quasimodo, nel quartiere Oreto, dove convivono realtà sociali diverse. In Sicilia c’è davvero il Vietnam, in molti luoghi lo Stato è ancora visto come un nemico».
Lei ha chiesto: cosa aspettate a scendere in piazza?. Lo chiedo a lei, cosa aspettano? «Qui la gente si accorge se ti batti nel loro interesse e sono con te, ma è molto più complesso riuscire a coinvolgerli in una battaglia che è anche politica. Per questo un partito come il Pd deve avere la forza di rimettere al centro proprio questo tema e far sentire agli 800mila insegnanti e alle famiglie che non sono soli». M.ZE.

l’Unità 21.6.10
La guerra della destra alla Ru486
di Gloria Buffo

Il nostro non è un paese abituato a trattare bene le donne. E così passa sotto silenzio l’accanimento verso le italiane di questo governo che non solo vuole alzare l’età pensionabile e tagliare i servizi ma ostacola, ancora una volta la libertà (e la salute) delle donne.
La vicenda della pillola RU486 è emblematica. In un paese dove c’è una buona legge, la 194, che ha dimezzato il ricorso all’aborto e dove, per l’alto numero di medici obiettori, è facile incappare in lunghe liste di attesa, l’arrivo di un farmaco che può sostituire un intervento chirurgico dovrebbe essere un sollievo. Non è la panacea di tutti i mali ma è un metodo sperimentato da molti anni in tanti paesi ed è un’alternativa, in molti casi, per le donne e per i medici. Qui, invece, diventa una via crucis. Per ragioni politiche ed ideologiche, l’Agenzia per il Farmaco, il Ministero, il Consiglio Superiore di Sanità, l’indagine parlamentare ad hoc, partoriscono un iter lunghissimo che non è riservato a nessun altro farmaco. Deve essere ben chiaro: anche se è meno «glamour» della legge bavaglio e dell’attacco alla magistratura (entrambi gravissimi), siamo di fronte a un fatto inconcepibile.
In Italia la destra fa la guerra ad una medicina. Gli stessi che volevano fosse gratis e per tutti la cura Di Bella, priva di qualsiasi validazione scientifica, adesso non vogliono la RU486. Altro che il ’68 o il «sei politico», qui c’è il «farmaco politico»! Cura Di Bella sì, pillola abortiva no. E senza un solo argomento scientifico o giuridico: la RU486, infatti, viene adoperata nel rispetto pieno della 194. Non contenti, i campioni del «farmaco politico», una volta ammesso per forza questo preparato, hanno cominciato la guerriglia sulla sua somministrazione. E, per ostacolarla, hanno inventato l’obbligo del ricovero per tre giorni, intromettendosi in una scelta, che compete al medico e alla donna. Cota e Zaia, appena eletti presidenti di regione, hanno tuonato contro la RU486, la Polverini ne impedisce l’uso, altre regioni si adeguano, per fortuna non tutte. È ora di sollevare scandalo per il fatto che ciò che è normale e utile alla salute di tutte le donne qui viene impedito. Accade anche per la fecondazione assistita, per la pillola del giorno dopo, spesso per la legge 194. Sinistra Ecologia Libertà vuole contribuire a rendere visibile questo scandalo e ha messo a disposizione un telefono 331.3937224 per denunciare abusi, arbitri, lacune e disservizi in questa materia. Si chiama «Salute e Libertà», due obiettivi che in Italia sono diventati difficili, soprattutto per le donne. Non pensiate, non pensiamo, che sia solo il Vaticano ad ostacolare il principio, civile e umanissimo, della scelta e della libertà. C’è una destra che si nutre di una idea perversa della morale, su cui tra l’altro non ha alcun titolo o coerenza da rivendicare. Riprendiamoci quello che ci è dovuto.

l’Unità 21.6.10
25 giugno 2 luglo 2010
Contro una manovra sbagliata, per lo sviluppo e l’occupazione
Sciopero generale CGIL

La manovra economica del governo è grave, perché toglierà spazio a qualsiasi ipotesi di ripresa. È iniqua e sbagliata: sbagliata, perché non vi sono provvedimenti di sostegno all’occupazione, alla crescita e allo sviluppo; iniqua, perché divide il paese caricando i costi della manovra stessa sui lavoratori dipendenti, pubblici e privati, sulle regioni, gli enti locali e sui cittadini più deboli ed esposti. Sono queste le ragioni dello sciopero generale proclamato dalla CGIL per venerdì prossimo 25 giugno nella maggior parte delle regioni, e per venerdì 2 luglio in Liguria, Toscana e Piemonte. Il segretario generale della CGIL, Guglielmo Epifani, ha espresso molto chiaramente, in una intervista all’Unità, le ragioni della confederazione: “Non contestiamo – ha detto – la necessità di intervenire per correggere i conti pubblici, anche se lo si fa per colpa del governo che ha sbagliato le previsioni e sottovalutato la crisi. Ma non è condivisibile una manovra di tagli pesanti, fatti senza equità, senza pensare allo sviluppo, all’innovazione, all’occupazione”. “Pagano – ha aggiunto il leader CGIL – i lavoratori pubblici e della scuola e anche del settore privato, pagano i lavoratori in mobilità che solo in parte potranno andare in pensione senza incappare nello slittamento delle finestre. Pagano i cittadini, perché i dieci miliardi tolti a regioni e comuni avranno come conseguenza un taglio dei servizi alle persone. Al contrario, non pagano un centesimo i cittadini che guadagnano da 150 mila euro l’anno in su, che possiedono barche, patrimoni, case lussuose, ville, così come non paga nulla l’impresa”. Lo sciopero sarà, in linea di massima, di otto ore (e quindi per l’intera giornata) nei settori pubblici e di quattro ore nel settore privato. In Emilia Romagna, Lombardia, Abruzzo, Marche, Molise e Umbria, e nella provincia di Cagliari, lo sciopero sarà di otto ore sia nei settori pubblici sia in quelli privati. In Calabria l’astensione sarà di otto ore, oltre che nel pubblico, nei settori del lavoro portuale e delle costruzioni. Il 2 luglio lo sciopero sarà di otto ore in tutti i settori in Toscana. Alla luce del differimento dello sciopero del trasporto pubblico locale e nelle ferrovie, la Filt CGIL ha annunciato la partecipazione allo sciopero generale nella giornata del 9 luglio. Lo sciopero sarà di otto ore anche in numerose categorie del terziario, della distribuzione, dei servizi e del turismo, e nel settore domestico. I servizi essenziali saranno ovunque garantiti. Manifestazioni si svolgeranno in molte città italiane con cortei e comizi dei leader della CGIL.O

l’Unità 21.6.10
In Italia nuove prove generali del conflitto capitale e lavoro
Alla radice del braccio di ferro non c’è la produttività ma la politica. La globalizzazione non ha portato più diritti ma più bassi salari. Non esiste una rete sindacale internazionale
di Loretta Napoleoni

La globalizzazione ha prodotto un fenomeno nuovo nel mercato del lavoro, che gli economisti definiscono la corsa dei salari verso il basso. Grazie alla delocalizzazione la forza lavoro a disposizione del capitale occidentale si è raddoppiata. Dall’Est europeo fino al sud est asiatico, l’impresa ha così usufruito di salari decrescenti. Ciò significa che quello minimo percepito, ad esempio in Cina, è diventato un metro di comparazione internazionale. Si chiama «arbitraggio globale del lavoro», lo spostamento della produzione da un paese all’altro in base al costo del lavoro.
La corsa dei salari verso il basso ha messo in ghiacciaia il costo del lavoro in occidente, e spesso per evitare la delocalizzazione i sindacati hanno accettato condizioni monetarie che non coprivano l’aumento del costo della vita. Ciò significa che in termini reali, e cioè al netto dell’inflazione, oggi il salario medio dell’operaio occidentale è più basso che vent’anni fa.
Naturalmente non era questo l’obiettivo che ci si prefiggeva globalizzando. Il fenomeno ha messo in aperta concorrenza tutti i lavoratori senza però creare la rete di connessione tra i sindacati. I lavoratori della Fiat polacchi non hanno alcun collegamento con quelli di Pomigliano, e scoprono il potenziale trasferimento della fabbrica dai giornali. Ci troviamo quindi in presenza di una concorrenza sleale. A detta dei polacchi fino alla scorsa settimana il ministro dell’economia negava che la Fiat avesse intenzione di spostare la produzione in Polonia. Ma non basta. La Fiat ha ottenuto finanziamenti dalla Ue per produrre la Panda in Polonia, accordi che ora dovrà infrangere. È vero che queste cose non succedono da nessun altra parte al mondo, difficile infatti trovare un’impresa che per riportare la produzione in patria rompa accordi internazionali ed imponga ai lavoratori di abrogare la Costituzione per accettare condizioni di lavoro «a la cinese».
Molti si domanderanno se dietro questa strategia non ci sia un fine politico che nulla abbia a che vedere con la globalizzazione. In termini economici viene spontaneo domandarsi che senso ha trasferirsi da una fabbrica che funziona bene a Pomigliano. Forse dietro questo braccio di ferro ci sono problemi strutturali, di imprese che da decenni sopravvivono solo grazie all’abbattimento dei costi di produzione, problemi oggi pressanti. La corsa dei salari verso il basso sta infatti per raggiungere il traguardo, già in Cina le lotte operaie costringono l’impresa a farli gravitare, è solo questione di tempo ma anche nel resto del mondo succederà lo stesso. A quel punto sarà difficile per le imprese contenere le richieste di aumento dei salari reali e sociali.
È dunque possibile che in Italia si stiano svolgendo le prove generali di un braccio di ferro tra capitale e lavoro che potrebbe vedere riaccendersi le lotte operaie in occidente dovunque esista un’industria che produce solo grazie a condizioni particolari. Ed è anche probabile che ciò succeda perché sullo fondo c’è una crisi del debito sovrano, che equivale a dire che lo stato si trova nell’impossibilità di iniettare, come sempre, in queste industrie contante sotto forma di sovvenzioni.
Se questo è vero allora il problema è strutturale e non ha nulla a che vedere con la globalizzazione. In Germania o in Giappone operai e sindacati dell’auto non vengono messi alle strette come da noi, la Merkel non chiede l’abrogazione degli articoli costituzionali sul lavoro. Né in Germania e né in Giappone ci si lamenta della scarsa produttivita della manodopera, ma ricordiamolo in questi paesi le assunzioni non avvengono su sollecitazione politica. Tutti gli operai scrutatori di Pomigliano che durante le elezioni hanno preso il permesso hanno presentato regolare certificato con firma di politici. Domandiamolo a loro se erano veramente nei seggi non al sindacato. Se questa analisi è corretta allora alla radice del braccio di ferro non c’è la produttività ma politica, ed impresa e sindacato faranno bene a tenerlo presente.

Repubblica 21.6.10
Chi svuota la Costituzione
di Stefano Rodotà

In questa stagione torbida le prove di decostituzionalizzazione si susseguono e si infittiscono. Per la prima volta nella storia della Repubblica un governo vuole modificare un articolo della parte iniziale della Costituzione, l´articolo 41.
Una norma contigua, l´articolo 40 che disciplina il fondamentale diritto di sciopero, viene messo concretamente in discussione dal documento della Fiat riguardante i lavoratori di Pomigliano d´Arco. Non a caso dall´attuale maggioranza si è affermato perentoriamente che è venuto il momento di cambiare lo stesso articolo 1, considerandosi anacronistico che si parli di «una Repubblica democratica fondata sul lavoro». Ancora il Governo propone di modificare l´articolo 118, altri ritengono che si deve porre mano all´articolo 81 e si è addirittura pubblicamente sostenuto che si debba ammettere il referendum sulle leggi tributarie, escluso dall´articolo 75. In questo clima si dice apertamente che deve cadere il tabù della prima parte della Costituzione, e che è tempo di cambiarne persino i principi fondamentali. Ho parlato di decostituzionalizzazione, e non di modifiche, perché siamo di fronte a tentativi dichiarati di liberarsi della Costituzione. Sembra così giungere a compimento un vecchio progetto, che attraversa tutta la storia della Repubblica e che finora era stato sventato. Il caso dell´articolo 41 illustra bene lo stato delle cose. In questi giorni sono state ricordate la genesi e la portata della norma: storia nota, consegnata da anni a studi impeccabili, che smentiscono sia la tesi di una sua ascendenza comunista, sia quella dell´impossibilità di introdurre regole più flessibili per le imprese senza modificare quell´articolo. L´ignoranza della storia sta divenendo una sua continua falsificazione. Non si leggono gli atti dell´Assemblea costituente né la giurisprudenza costituzionale, si inventano inesistenti "vuoti" costituzionali, che dovrebbero essere colmati con le parole "mercato" e "concorrenza", necessarie perché l´Italia si allinei all´Europa e all´ultima generazione di costituzioni. Un´altra falsificazione. La concorrenza non figura più tra i principi di base del Trattato europeo di Lisbona: piaccia o no, questo è il risultato di una iniziativa di Sarkozy, che l´ha confinata in uno dei tanti protocolli che accompagnano il Trattato. Tutte le costituzioni europee prevedono il diritto dei poteri pubblici di regolare il funzionamento del mercato e quando questa parola compare, come nella costituzione spagnola, la si accompagna con la previsione esplicita del potere dello Stato di sottoporla a pianificazione. E ricordo per l´ennesima volta quel che è scritto nella costituzione tedesca: "La proprietà impone obblighi. Il suo uso deve al tempo stesso servire al bene della collettività" (art. 14); "la proprietà terriera, le ricchezze naturali e i mezzi di produzione possono essere trasferiti, ai fini della socializzazione, alla collettività o essere sottoposti a altre forme di economia collettiva mediante una legge che determini il modo e la misura dell´indennizzo").
Peraltro, bisogna pure ricordare che l´articolo 41 si apre con le parole "l´iniziativa economica privata è libera", che sono una evidente descrizione del mercato. Diventa così evidente il carattere strumentale e ideologico dell´operazione che si sta conducendo intorno all´articolo 41. Si addita questa norma come un ostacolo per fornire alla maggioranza un alibi per la sua perdurante incapacità di dare regole ragionevoli e per giustificare spallate pubbliche o private. Si cerca un collante per una maggioranza a pezzi, e si apre un inquietante scenario. Se la modifica costituzionale andrà in porto, sarà inevitabile un referendum su di essa e i costumi ormai noti del Presidente del consiglio lo indurranno a esasperare i toni, a gridare che si deve scegliere tra libertà e collettivismo, a evocare tutti i possibili "spiriti animali", facendo sempre più terra bruciata, spazzando via ogni ragionevolezza, immergendoci sempre più profondamente nella regressione culturale.
Di questa regressione cogliamo ogni giorno i segni. Si ripropone una identificazione tra mercato e libertà che ignora persino la polemica che divise Croce e Einaudi, e che ci riporterebbe ai tempi in cui Adolphe Thiers, nel 1831, scriveva che "alla proprietà non possono darsi giudici migliori di essa stessa". Si cade in contraddizione proponendo modifiche dell´articolo 41 insieme alla rievocazione dell´economia sociale di mercato. Si ignora una realtà nella quale la crisi finanziaria ha provocato autocritiche anche da parte di sacerdoti del mercato come Richard Posner. Si trascura proprio la planetaria discussione in corso sulle regole del mercato. E così non ci si accorge che proprio lì, nell´articolo 41, si trovano le indicazioni per collocare l´azione economica dei privati nella sua giusta dimensione, subordinandola agli ineludibili principi di dignità, libertà e sicurezza e riconoscendo che il mercato non è uno spazio separato della società. O siamo tornati a Margaret Thatcher e al suo "la società non esiste"?
Sui rischi dell´altra modifica annunciata dal Governo, quella dell´articolo 118, ha già richiamato l´attenzione Salvatore Settis. L´intenzione di sottrarsi alle lungaggini nella materia urbanistica, in nome dell´efficienza, può portarci a travolgere le garanzie necessarie per la tutela del territorio e del paesaggio, di cui parla esplicitamente l´articolo 9 della Costituzione, che così verrebbe fortemente depotenziato. Ma può il bisogno di efficienza travolgere ogni garanzia? È quello che dobbiamo chiederci davanti a quella forma di decostituzionalizzazione di fonte privata rappresentata dalla limitazione del diritto di sciopero contenuta nel documento della Fiat. L´articolo 40 della Costituzione, infatti, prevede che le modalità del diritto di sciopero possano essere regolate solo dalla legge. Siamo di fronte a un diritto indisponibile, necessario perché la democrazia non si fermi "ai cancelli della fabbrica" e che, se pure venisse negato in un solo caso, perderebbe la sua universalità e potrebbe essere negato in ogni altra situazione. Per contrastare gli abusi, se provati, esistono altre vie e altri strumenti.
La lotta per i diritti, dunque, riguarda ormai anche l´ambito dell´economia, si aggiunge alle rivendicazioni riguardanti il diritto della persona di governare liberamente la propria vita ed alla opposizione contro la legge bavaglio. Queste non sono iniziative figlie di una "egemonia borghese" da respingere in nome dei diritti del lavoro. Sul terreno costituzionale l´indebolimento pure di un solo diritto ha effetti negativi su tutti gli altri.
La decostituzionalizzazione deve essere fermata perché sta accompagnando la decomposizione del paese, le dà forma, la legittima. Ma, proprio perché violentemente aggredita, la Costituzione sta generando anticorpi sociali che la difendono in forme nuove e efficaci, che hanno messo in difficoltà gli aggressori, come dimostra la vicenda della legge bavaglio. Insistiamo.

Repubblica 21.6.10
Escono i "Quaderni laici": saggi e documenti sui grandi temi di oggi
La libertà di coscienza e il dibattito pubblico
La discussione su alcuni argomenti non riguarda solo i rapporti con la Chiesa, ma è una questione aperta che va dalla bioetica all´aborto, fino alla difesa delle minoranze religiose
di Massimo L. Salvadori

Nel marzo 1947 l´Assemblea costituente diede voce ai diversi punti di vista circa la decisione se recepire o no nella Costituzione repubblicana i Patti lateranensi del 1929. Nel dibattito intervennero tra i favorevoli Dossetti, La Pira, De Gasperi e Togliatti, tra i non favorevoli Calamandrei, Nenni e Croce; e il voto di 350 sì contro 149 no sancì la vittoria dei primi sui secondi. Inutile dire che gli interventi decisivi nello schieramento che decretò la continuità della politica religiosa dal fascismo alla repubblica furono quelli di De Gasperi, il quale invocò il diritto ad un regime privilegiato per la Chiesa romana fondato sul dato statistico secondo cui la stragrande maggioranza degli italiani si dichiarava cattolica, e di Togliatti, che fece appello alla necessità di respingere il pericolo di un conflitto religioso che avrebbe minato l´unità delle masse lavoratrici. Calamandrei protestò con estremo vigore che «i Patti lateranensi realizzano uno Stato confessionale», in inconciliabile contrasto con «il diritto di uguaglianza di tutti i cittadini, la libertà di religione, la libertà di coscienza».
Sono passati oltre sessant´anni dal varo della Costituzione, che Bobbio e Pierandrei dissero aver conferito al nostro Stato un carattere semi-laico, e da anni si afferma che è opportuno cambiarla in questo e quell´aspetto. Ma una revisione dei rapporti tra lo Stato e la Chiesa cattolica – solo parzialmente modificati dal compromesso raggiunto con il Concordato del 1984 – che dia allo Stato un volto compiutamente e coerentemente laico è un obiettivo che viene ignorato da tutti i maggiori partiti, interessati a non toccare il Vaticano detentore di grandi privilegi e dotato di una determinante influenza sulla politica nazionale. A porselo sono soltanto gruppi minoritari, accusati perciò di essere fastidiosi "laicisti" ovvero disturbatori della quiete pubblica. Ciò nonostante, non passa giorno senza che i problemi della laicità o non laicità tocchino in maniera profonda la vita della collettività e delle singole persone. Sono in ballo – per limitarci ad alcuni tra i temi più importanti – le quote di risorse pubbliche attribuite alla Chiesa cattolica, l´insegnamento della religione nelle scuole, il diritto di famiglia, le coppie di fatto, l´approccio alla bioetica, l´aborto, la fine della vita, la libertà di nuove minoranze religiose come anzitutto quella islamica ridotta ai margini. Bisogna far comprendere anche agli italiani che la difesa della laicità costituisce una componente cruciale delle loro libertà.
E proprio per dare un contributo a questa battaglia è iniziata a Torino, presso la casa editrice Claudiana, la pubblicazione semestrale dei Quaderni laici, promossa dal Centro di Documentazione, Ricerca e Studi sulla Cultura Laica "Piero Calamandrei", in collegamento con la Consulta Torinese per la Laicità delle Istituzioni e con altre associazioni consimili. Della rivista sono usciti il numero zero e il numero uno, il primo dedicato a Costituzione, laicità e democrazia, il secondo a Natura, vita, persone, corpi, ai quali hanno collaborato Bellini, Di Giovine, Flamigni, Garrone, Giorello, Lariccia, Monti, Piazza, Pocar, Remotti, Rodotà, Sbarberi, Viano, Volli, Zagrebelsky e chi scrive. Ciò che anima la rivista che si propone – di pubblicare saggi, ricerche e dossier di documenti – lo ha chiarito Viano nella sua Introduzione ai Quaderni: «Il riconoscimento che quella della laicità è una questione aperta e urgente della nostra vita pubblica, che non può restare in attesa di operazioni politiche o trasformazioni sociali capaci di risolverla automaticamente».
Non si tratta soltanto di offrire testimonianze di spirito di laicità, ma di opporsi fattivamente a chi la laicità contrasta con l´intento di ridurla a parola vuota praticamente inefficace. Ha scritto bene in proposito Rodotà nel suo libro Perché laico: «Non è tempo di laicità flebile, timida, devota. È tempo, pieno e difficile, di laicità senza aggettivi o, se vogliamo comunque definirla, semplicemente democratica».

Repubblica 21.6.10
Jiulia Kristeva
Solo un nuovo umanesimo può fermare il nichilismo"

Domani sarà a Massenzio dove leggerà un testo su Santa Teresa d´Avila: "Il suo esempio ci serve anche oggi, contro l´integralismo e il vuoto di valori"

PARIGI. «Il bisogno di credere è un bisogno prepolitico e prereligioso, sul quale poggia il desiderio di sapere. Riconoscendo l´importanza di tale bisogno, noi atei possiamo favorire il dialogo tra credenti e non credenti, per combattere da un lato il nichilismo e dall´altro l´integralismo». Linguista e psicanalista, saggista e romanziera, Julia Kristeva, dopo Il genio femminile, la trilogia dedicata a Hannah Arendt, Melanie Klein e Colette, ha pubblicato Bisogno di credere (Donzelli), un testo in cui, pur senza rinunciare alle sue convinzioni figlie dell´illuminismo, si confronta con l´universo della fede. Un dialogo che attraversa anche Teresa mon amour. Santa Teresa d´Avila: l´estasi come un romanzo (Donzelli), un libro a metà strada tra romanzo e saggio, che analizza la personalità e gli scritti della santa spagnola del XVI secolo. Proprio di Teresa d´Avila, la studiosa francese parlerà domani alla Basilica di Massenzio in chiusura del Festival Letterature. «Ho iniziato ad occuparmi di Teresa quasi per caso, scoprendo un personaggio estremamente complesso, ricco e attuale», spiega Kristeva, in questo momento alle prese con la stesura di un nuovo romanzo. «Oggi lo scontro di religioni è una realtà che non possiamo ignorare. Il dialogo quindi è necessario. L´Europa – forse perché ha conosciuto la violenza e l´orrore legati alle religioni, dalle crociate alla Shoah – ha intrapreso, prima con l´illuminismo e in seguito con le scienze umane, un percorso di attraversamento della religione. Non per ghigliottinarla, come ha fatto la Rivoluzione francese, o per rinchiuderla nei gulag, come è accaduto in Unione Sovietica, ma per tentare di "transvalutarla", come direbbe Nietzsche. Attraverso il caso concreto di Teresa, io ho cercato di dare il mio contributo a questo percorso di attraversamento».
Per questo, Monsignor Gianfranco Ravasi l´ha invitata a partecipare al dialogo tra credenti e non credenti. Le sembra un´opportunità?
«Oggi, più ancora del dialogo interreligioso, occorre promuovere il dialogo tra chi crede e chi no, soprattutto in Europa. Appartengo a coloro che, per dirla con Tocqueville e Hannah Arendt, hanno reciso il filo della tradizione. Mi considero una discendente dell´illuminismo e della secolarizzazione che ci hanno messo in guardia contro i rischi della religione: la nevrosi, le illusioni, gli abusi, le guerre. Il filo reciso della tradizione ci ha consentito di muoverci verso la libertà, senza la quale non ci sarebbero il mondo della scienza né quello dell´arte, l´avventura dell´impresa né quella dei nuovi amori. Il filo reciso della tradizione è una conquista importante, ma occorre evitare la deriva verso un nichilismo senza valori e senza autorità. Ecco perché abbiamo bisogno di "transvalutare" la tradizione. Vale a dire ripensarla e attraversala, cercando di trarne tutto ciò che può essere positivo per noi contemporanei. Ciò vale per tutta la tradizione, le tre religioni monoteistiche, ma anche la cultura classica, il taoismo o il confucianesimo».
A chi spetta questo compito?
«Agli intellettuali, ma anche agli artisti, visto che considero la letteratura e le arti delle vere e proprie forme di pensiero. Senza il confronto con la tradizione rischiamo di perderci in un nichilismo depressivo. Sul piano della religione, tale confronto ci consente di capire che la fede non è solamente un vicolo cieco, come diceva Diderot. Condannando la fede, la filosofia dell´illuminismo ha privato il bisogno di conoscenza di un fondamento importante. Per me il bisogno di credere è il fondamento del sapere. È una necessità antropologica che la storia delle religioni ha capitalizzato attraverso le varianti cristiana, islamica, ebraica, taoista. Noi atei dobbiamo riscoprire le radici di tale bisogno, favorendo in questo modo il dialogo tra credenti e non credenti, un dialogo alla pari dove ciascuno possa spiegare e difendere le proprie posizioni».
Il bisogno di credere come si manifesta in Teresa d´Avila?
«Teresa vive una fede sovrannaturale, che esalta il legame amoroso nascosto nella fede. Lo esalta in maniera ideale, ma anche concretamente con tutte le fibre del suo corpo di donna, come testimonia la statua del Bernini nella chiesa romana di Santa Maria della Vittoria. Teresa si esilia nell´alterità divina, rivelando una profondità estrema della vita psichica, che Lacan è stato il primo a mettere in evidenza, parlando del piacere femminile. Nelle sue estasi non c´è solo la felicità dell´incontro con Dio, ma tutta la violenza del piacere, l´annullamento di se stessi e del proprio corpo. Mettendo per iscritto i suoi stati di estasi, Teresa riesce però ad allontanare la loro dimensione mortuaria. Più li descrive, più diventa lucida, agendo nel mondo in maniera concreta».
Nell´abbandono dell´estasi, Dio – per Teresa – cessa d´essere un´entità esterna, diventando una realtà interiore e immanente. È così?
«Nel suo viaggio verso l´altro, Teresa indica un dato importante per la cultura europea. Perché l´io esista, il cogito di Descartes non è sufficiente. L´io ha bisogno dell´altro da sé, con il quale instaura un legame indispensabile. L´io e l´altro s´identificano, si confondono e si portano a vicenda. Teresa crea tale legame con la divinità. Per lei la trascendenza diventa immanenza. In questo modo si colloca sulla via dell´umanesimo cristiano che darà luogo l´umanesimo moderno. Proprio perché Dio e l´infinito sono in lei, Teresa diventa una persona e un linguaggio infinito. Anche per questo affascinò tanto Leibniz».
È per questo che lei la considera una nostra contemporanea?
«Certo. Teresa è una donna eccezionale, un genio femminile che ha innovato la fede cattolica, anticipando la rivoluzione barocca. La sua esperienza parla alle donne moderne e in particolare a quelle che si consacrano alla creazione artistica, lavorando con le immagini e il linguaggio».
Lei è stata una delle voci del femminismo francese. Teresa d´Avila può interessare le femministe?
«Oggi il ritorno della tradizione e la centralità della maternità rimettono in discussione le conquiste del femminismo. Ciò è vero soprattutto quando la maternità è prigioniera delle preoccupazioni materiali e sanitarie. Teresa c´insegna che occorre riuscire a pensare dal punto di vista dell´altro. Non dobbiamo proiettare sui figli i nostri desideri, le nostre angosce, i nostri bisogni, ma considerarli come un altro da sé, cercando di sviluppare la loro alterità. In questa prospettiva, le donne saranno all´avanguardia della civiltà. Come ha fatto Teresa, ogni donna deve cercare di essere singolare. Occorre rifondare l´umanesimo in una direzione che stimoli le singolarità. E´ questo l´insegnamento di Teresa».

l’Unità 21.6.10
Il comico confessa le sue «questioni di salute mentale» in occasione di «Impazzire si può»
A Trieste un convegno sul tema della «guarigione» e un codice etico per i giornalisti
Vergassola: «Noi, quelli che... il Lexotan lo teniamo in tasca»
di Dario Vergassola

La «confessione» di Dario Vergassola ai microfoni di «La terra è blu» di Radio Fragola Trieste e Radio Popolare Milano, programma ideato e condotto da Massimo Cirri con Agnese Ermacora e Antonello Dinapoli.

Ho avuto le mie questioni di salute mentale, e me ne vanto, ne sono fiero. In fondo chi non ha mai avuto un piccolo disagio, anche minimo, è sempre un po' più antipatico, un po' più rozzo, un po' più duro. E quindi non solo ammetto i disagi miei, ma me la tiro anche un po', come se portassi eroiche ferite di battaglia ...
La mia «iniziazione» all'ansia risale ai tempi di gioventù, quando al primo giramento di testa mi son chiesto: «Che sarà? Morirò? Avrò qualche malattia strana?». Insomma, mi son lanciato in uno screening da manuale dell’ipocondriaco, e naturalmente questa china ansiosa è andata di pari passo con la depressione, come di regola succede ... La sera entravo al pronto soccorso e dicevo «ho un infarto»: me ne son venuti circa venti al mese, di infarti, e ogni volta, mentre andavo all’ospedale, ricordo che mi davano delle ottime gocce, non di Lexotan però, di Valium normale, che in effetti sa di chewing gum ... «È arrivato Vergassola», si dicevano appena entravo, e intanto portavano il carrellino dell'elettrocardiogramma, mi rilassavano un po’, e me lo facevano: sempre inutile, naturalmente. Ma intanto era partita la mia rincorsa all’ansia e al panico.
IL BRUNETTA MALTESE
«Se vai a lavorare passa tutto», mi dicevano qualche volta: un classico, probabilmente. Ma io a lavorare ci andavo, solo che non sapevo spiegare quello che mi stava succedendo. E d’altra parte, come si fa a spiegare ai propri genitori, che nel mio caso lavavano le scale e andavano a scaricare, che si sta male senza un perché? Ero quello privilegiato, io, avevo la macchina e facevo lo statale, e se in casa dicevo «sto male» e mi chiedevano «cosa c'hai?», cosa potevo rispondergli?
«Niente. Sto male, ma non capisco perché». E loro mi rispondevano, «ma se non fai una mazza, come fai a star male?». Poveracci, forse i miei rifiutavano l’idea di avere un figlio un po' problematico, figurarsi, ero anche uno «statale», facevo il marinaio di coperta all'arsenale militare a La Spezia e mi consideravo una specie di reincarnazione di Corto Maltese. Sarà perché «corto» mi si addice abbastanza, diciamo il «Brunetta maltese». Certo, era una situazione pesante quella, uno spazio militare chiuso e ristretto, roba da crisi di claustrofobia. Non era un lavoro faticoso, o fisico: in fondo, come dice Brunetta, noi statali non siamo poi così oberati di lavoro. Solo in caso di guerra saremmo diventati operativi, e se Dio vuole non ce n’è mai stato bisogno. Però nel quotidiano era una dimensione alienante e aveva innescato i suoi meccanismi perversi ... Ricordo bene le serate in cui io pensavo di essere solo un po' triste, e invece chissà, forse era una sorta di depressione ... Magari anche lieve, però tutte quelle notti in macchina a sentire le cassette ... Oddio, se uno sta anche benissimo e mette Lolli è impossibile che non gli venga la depressione, un po' come gli Intillimani che hanno rovinato la sinistra ...
Allora frequentavo un bar dove eravamo tutti un po' così, diciamo ... ignorantelli, e questo tipo di malattia era trattata con sufficienza: dicevano, «se non hai niente cosa rompi le balle ...» Ma alla fine ho visto che altri facevano capolino un po’ come me, ci si parlava e con un’occhiata scoprivamo di avere tutti il Lexotan in tasca ... Come essere parte di un associazione segreta, ti accorgi che più sei e meglio è ...
E poi c’era l’ansia a quattro ruote a bordo della mia macchinetta, la 127. Facevo il tratto La Spezia Sarzana, 15 chilometri, e mi prendeva una strana paura, come non mi fidassi di me al volante. Una specie di bizzarra auto prevenzione: lo stesso mi succedeva i mesi in cui cercavo casa per sposarmi ed evitavo di vedere gli appartamenti che superavano il secondo piano. Pensavo, se fra due anni mi sento male poi che succede da quell’altezza ...
Un sintomo evidente di insicurezza ... Ma poi, finalmente, ho cominciato a fare questo lavoro da pelandrone in cui vai e ti racconti alla gente. Ho preso la macchina e ho cominciato ad andare verso Milano, la sera, con la nebbia. Mi aspettavano allo Zelig, quando lo Zelig era ancora un bar, e la mattina dopo dovevo presentarmi al lavoro, magari tornando alle cinque, alle sette ... E facevo la Cisa, che per me era un viaggio oscuro e tenebroso con i monti, la nebbia... Con tutti i miei ansiolitici in macchina che sembravo una farmacia ambulante. Però m'è servito quel periodo, è stata veramente terapeutica la possibilità di girare e raccontare al pubblico cose mie, senza vergognarmi. E ho imparato che, in questo genere di cose, è più facile riconoscersi che prendere le distanze.

l’Unità 21.6.10
È in Italia il terapeuta familiare Jesper Juul per lanciare il Family-lab a sostegno dei genitori
Alla base di tutto la critica ai metodi pedagogici che mirano a creare cittadini obbedienti
W la famiglia senza tetto né legge
di Manuela Trinci

Si chiama Jesper Juul, è danese e si batte contro i tradizionali metodi pedagogici. È in Italia col nuovo libro «La famiglia che vogliamo» e col progetto «Family-lab» (www.family-lab.com.)

Una voce morbida, calda, dal ritmo veloce. Mani grandi come uno zio d’America e una bella pancia
rotonda, accogliente come un cuscino. Jesper Juul si presenta così, placido e rassicurante, come un abitante del paese dei cerchi. Danese, terapeuta della famiglia, autore di vari libri, tra cui gli imperdibili long-seller: Il bambino è competente (Feltrinelli, 2001), e Ragazzi, a tavola! (Feltrinelli 2005), Juul è da un paio di mesi in Italia per presentare la sua ultima fatica La famiglia che vogliamo (Urra) e lanciare i Family-lab (www.family-lab.com), un progetto familiare al servizio dei ge-
nitori, peraltro già molto diffuso in Europa (Germania, Austria, Danimarca, Svezia ecc...).
PER MAMMA E PAPA’
Con una premessa importante. Il celebre terapeuta non crede affatto che esistano metodi «educativi» esterni che garantiscono il successo o che sia possibile istruirsi o qualificarsi come padre e madre frequentando corsi. Tuttavia, questa «officina di famiglia», a fronte della grande solitudine dei genitori di oggi, tra conversazioni, dialoghi, serate a tema, riescono ad offrire «ispirazione, counselling e soprattutto condivisione». Un progetto elastico, dove ai genitori, «costruttivamente insicuri e consapevoli», si propone la ricerca di altri modi di fare, di altre scelte possibili e si valorizzano sogni e voglie per raggiungere la famiglia che si desidera. Perché la famiglia che Juul vuole è un luogo di mediazione, di negoziati, di rispetto reciproco, di incoraggiamento dell'individualità. Un luogo senza recinzioni, di soggetti imperfetti e volenterosi, di errori, di incontri e di scontri.
ABBASSO LE REGOLE
Alla base di tutto, una fortissima critica sia ai metodi pedagogici più tradizionali basati su regole e regolamentazioni con l’obiettivo di creare futuri cittadini obbedienti quanto acefali, sia all’attuale potentissima manipolazione che, a tutto tondo, viene usata sui bambini tanto da violarne l’integrità emozionale ed esistenziale. E via anche dal vocabolario del versatile analista il sostantivo «educazione», sostituito dall' espressione «guida empatica».
Il bambino, sostiene Juul, nasce competente e dispone già di nozioni, valori e criteri di valutazione che orientano concretamente la sua esperienza. Il neonato è un sentimentale: neuroscienze e osservazioni psicoanalitiche lo confermano da anni. Comunemente, invece, ci si comporta con lui come se fosse una specie di tabula rasa su cui i genitori devono imprimere le conoscenze necessarie per un regolare sviluppo umano e sociale. Sembra difficile impostare da subito un rapporto paritario, fra soggetti. Il piccolo è un «centro attivo di competenze», collabora. Occorre osservarlo. E non basta incoraggiare, sostenere, facilitare il bambino; è indispensabile anche aiutarlo in situazione sociale come la nostra, più orientata verso il «fare» e il «non pensiero» a «esistere», a «sentirsi bene con se stesso».
Quelle di Jesper Juul sono idee semplici: stare di più tutti insieme, con cellulari, televisioni e computer spenti! Nessuno è un’isola, e allora cucinare, in maniera attenta e creativa, con i figli si rivela una gran risorsa. Le famiglie hanno bisogno di valori più sostanziali del «veloce, a buon mercato e facile». Anche per affrontare i problemi individuali c’è necessità di valori: pari dignità, integrità, autenticità, responsabilità come pure il ruolo di leadership dei genitori o la solidarietà sociale, nella scuola, dappertutto.
Ma non disdegna Juul di sovvertire bonariamente, di conferenza in conferenza, tanti luoghi comuni: la paghetta? E perché mai! Nelle relazioni gratuite d'amore, in cui c'è rispetto, l'aiuto lo si dà volentieri senza chiedere nulla in cambio! E i genitori? Che dire? Sempre d’accordo di fronte ai ragazzini? Solo se la famiglia è autoritaria replica, ancora, Juul. Diversamente non c'è alcun bisogno di essere d'accordo. I bambini non sono turbati dalle nostre differenze ma dai nostri litigi sulle differenze!
In ogni modo tranquilli: né i family-lab né i suoi libri si presentano come un prontuario terapeutico, anzi. Jesper Juul è il primo a suggerire, sornione, che «se con i vostri figli fate qualcosa che funziona e che è diverso da quello che dico io, continuate a fare come state facendo!»