venerdì 25 giugno 2010

Agi 25.6.10
RU486: FLAMIGNI, PASSO AVANTI LAICITA' STATO E RISPETTO 194
L'introduzione della RU486 e' un passo avanti in nome della laicita' dello Stato, nel pieno rispetto della legge 194, che auspica l'uso di tecniche piu' moderne e piu' rispettose dell'integrita' fisica e psichica della donna ed e' sicura: i decessi a cui piu' volte si fa riferimento non hanno niente a che vedere con le interruzioni di gravidanza ma con l'uso compassionevole che viene fatto del farmaco in casi particolari di neoplasia incurabile. E' questa l'opinione del ginecologo e membro del Comitato Nazionale di Bioetica (Cnb) Carlo Flamigni che stasera, insieme a Corrado Melega, presenta, alla Festa de L'Unita' alle Terme di Caracalla a Roma, il libro "RU486. Non tutte le streghe sono state bruciate", edito da 'L'asino d'oro'. Con Flamigni, parleranno della scottante materia, la psichiatra Anna Homberg, il magistrato Francesco Dall'Olio e Roberta Agostini della direzione del Pd. La RU486 largamente impiegata negli Usa ed in Europa e' dunque sicura ma soprattutto non richiede ricovero in ospedale, diversamente da quanto disposto in Italia. "Come tutti ormai sanno, questo ricovero e' del tutto inutile: lo ha detto l'OMS, lo ha dichiarato la FDA, lo hanno sottoscritto tutte le maggiori Societa' scientifiche. Inoltre e' un atto illegittimo, il Ministero della Salute non ha alcun diritto di intervenire su questi aspetti della sanita' e i suoi riferimenti alla legge 194 sono del tutto sbagliati, sara' sufficiente un ricorso alla magistratura per coprire ancora una volta di ridicolo i nostri maggiorenti". Il libro poi, presentato al Salone del Libro di Torino, e' "dedicato ai membri del Consiglio Superiore di Sanita' che ha deciso l'obbligo di ricovero per le donne", recita una nota, e spiega tutto quello che c'e' da sapere sulla pillola abortiva. "L'aborto farmacologico non e' una panacea - sostengono Flamigni e Melega - se vivessimo in un Paese normale la RU486 sarebbe molto semplicemente considerata un mezzo alternativo a quelli gia' esistenti. C'e' da chiedersi perche' ci sia un cosi' pervicace accanimento. In effetti, crediamo che il vero bersaglio sia la legge 194, da trent'anni sottoposta ad ogni genere di attacco". (AGI) Red/Pat

l’Unità 25.6.10
Contro una manovra definita «iniqua e depressiva». Cortei in tutte le principali città
Stop di otto ore per i dipendenti pubblici, di quattro per i privati. Fermi bus e metro
«Sulle spalle dei soliti noti»
Oggi sciopero generale Cgil
di Laura Matteucci

La Cgil in piazza con l’opposizione contro una manovra iniqua e depressiva. Disagi per i trasporti, quelli pubblici fermi 4 ore con modalità diverse città per città. Camusso a Bologna. Fassina e Damiano (Pd) a Milano e Roma.

«Contro le scelte politiche del governo e per cambiare una manovra sbagliata e ingiusta», queste le motivazioni dello sciopero generale della Cgil: otto ore per i lavoratori pubblici, quattro per i privati (ma i metalmeccanici della Fiom scioperano per l’intera giornata), con manifestazioni e presidi in molte città. Motivazioni che la presidente di Confindustria Emma Marcegaglia fa finta di non conoscere: «Contro cosa scioperano? chiede retoricamente Contro l’Europa, contro i mercati? La manovra va fatta, anche noi crediamo che alcuni aspetti non vadano bene, ma il saldo deve essere quello». La Cgil rassicura la presidente: c’è sì bisogno di una manovra correttiva, ma quella proposta è «ingiusta e depressiva», fatta sulle spalle dei soliti noti, dice la vice segretaria generale Susanna Camusso, oggi a Bologna per la manifestazione cui parteciperanno anche Pd, Idv, Sel e Popolo viola (il segretario Epifani è in Canada per il congresso della confederazione sindacale internazionale). «La manovra è necessaria continua anche perché per due anni il governo ha negato la crisi senza mettere in atto alcuna misura anticiclica», ma «vorremmo credere che la presidente sappia che non c’è una sola manovra possibile, un solo modo di trovare risorse e di tagliare le spese. La Cgil dunque in piazza con l’opposizione «per cambiare un’operazione che abbatte il Pil dello 0,8%, come certifica Confindustria (0,4% all’anno, ndr) perché il paese ha bisogno di crescere attraverso politiche di stimolo e per l’occupazione». Dito puntato, insomma, contro un provvedimento che non contempla strumenti di sostegno all’occupazione e allo sviluppo, proprio mentre il tasso di disoccupazione è arrivato al 9,1% (dati Istat). Una manovra iniqua perché divide il paese scaricando i costi sui lavoratori, sulle Regioni, sugli Enti locali e sui cittadini più esposti.
In sciopero anche per la libera informazione e la giustizia, contro i tagli alla cultura, allo spettacolo e all’editoria. Nelle piazze sarà letto l’appello per la manifestazione del primo luglio a piazza Navona e che vede la Cgil tra i promotori. In diverse città parleranno lavoratori del mondo dell’informazione e della cultura mentre i lavoratori poligrafici e dell’emittenza privata sciopereranno in concomitanza con la giornata del silenzio del 9 luglio. Con una premessa beneaugurante: «Lo sciopero proclamato paga. Il ministro Tremonti annuncia una retromarcia sugli scatti di anzianità della scuola». Così Corso d’Italia commenta le aperture sugli scatti del personale scolastico.
TRASPORTI DIFFICILI
A Roma manifestazione e corteo fino a piazza Farnese, a Milano comizio in piazza Duomo. A Napoli interviene Fulvio Fammoni (e ci sono anche Vendola e Di Pietro). Liguria (eccezion fatta per La Spezia), Toscana e Piemonte effettueranno lo sciopero il 2 luglio. Numerosi esponenti del Pd partecipano alle manifestazioni promosse: a Milano, tra gli altri ci sarà anche Stefano Fassina, responsabile Economia e lavoro, e a Roma Cesare Damiano, capogruppo in commissione Lavoro della Camera.
Nei trasporti astensione dal lavoro per quattro ore. Per piloti, assistenti di volo e personale di terra degli aeroporti dalle 10 alle 14. Alitalia raccomanda di verificare chiamando lo 800.650055 o collegandosi a www.alitalia.it. Dalle 14 alle 18, lo stop nel trasporto ferroviario: escluse le fasce a maggiore mobilità pendolare (dalle 6 alle 9 e dalle 18 alle 21), circolazione regolare per i treni a media e lunga percorrenza. Il trasporto pubblico locale bus, metro, tram e ferrovie concesse si ferma per 4 ore in fasce orarie diverse da regione a regione, rispettando le fasce di garanzia. Interessati anche navi e traghetti che ritarderanno di 4 ore le partenze, i camion per tutto l’arco della giornata, i portuali per 4 ore per ciascun turno di lavoro, gli addetti alle autostrade per 4 ore al termine di ciascun turno ed il personale dell’Anas per l’intera giornata. Coinvolti anche l’autonoleggio, il soccorso autostradale, le autoscuole, i trasporti funebri. I docenti commissari negli esami di maturità sono stati esonerati dal partecipare.

l’Unità 25.6.10
Il neoministro usa il legittimo impedimento al processo di Milano in cui è imputato
Brancher, stop al processo «Devo pensare al mio ufficio»

l’Unità 25.6.10
Intercettazioni. La posta in gioco
Se si uccide l’articolo 21 della Carta
di Nicola Tranfaglia

Primo esame di storia contemporanea in un’aula universitaria qualsiasi della penisola. Il docente si ferma e chiede agli studenti: come distinguiamo una democrazia dalla dittatura? E ancora precisa:quali sono le libertà elementari che una democrazia garantisce? Uno studente risponde:tra le libertà elementari che la democrazia deve ai cittadini è quella del pensiero e della sua espressione. Il professore insiste: E se così i giornali mettono in piazza gli affari privati di qualcuno? Così si viola la privacy a danno della libertà di ciascuno? Ma, come non manca di ricordare il presidente del Consiglio,siamo tutti spiati. Ma è proprio così?
L’Associazione Nazionale dei Magistrati ricorda che i dati reali smentiscono questa affermazione e afferma che l’anno scorso,nel 2009,sono state intercettate 132mila utenze, riferibili a non più di 35mila persone. E un magistrato siciliano esperto che ha riflettuto da molti anni sulla nostra storia, Roberto Scarpinato ammonisce:«La legge costituisce un gravissimo colpo alle indagini antimafia perché impedisce di scoprire molti reati che poi ci permettono di identificare l’attività mafiosa». Insomma, nel contrasto ormai aperto che divide la maggioranza parlamentare berlusconiana dai pochi che, pur ancora nel Pdl,vorrebbero modificare il disegno di legge sulle intercettazioni telefoniche e rinviarlo a settembre, il disegno di legge va avanti e non c’è da sperare che qualcuno possa fermarlo in dirittura di arrivo. Perciò nelle librerie Feltrinelli sono state raccolte in queste ultime settimane trentamila firme e a Trapani magistrati e cittadini hanno fatto una «notte bianca» per attirare l’attenzione della opinione pubblica sulla distruzione dell’articolo 21 e di altri articoli fondamentali sulle libertà repubblicane. Sembra che pochi si rendano conto fino in fondo della ferita mortale che la legge sulle intercettazioni apporterà al tessuto innovativo della repubblica e, se non ci saranno nei prossimi giorni manifestazioni adeguate alla gravità dell’attacco che il regime populistico berlusconiano vuole assestare alle basi della nostra democrazia, sarà difficile risalire la china di questo abisso. Dobbiamo renderci conto di quello che ci aspetta se la nuova legge passerà. Non si tratta di una battaglia che riguarda soltanto magistrati e giornalisti ma tutti quelli che, negli ultimi settanta anni, hanno goduto di una certa libertà di espressione. In questo senso c’è da sperare che le iniziative già prese dalla Federazione Nazionale della Stampa di ricorrere alla Corte di Giustizia europea e quelle prevedibili dell’opposizione di raccogliere le firme per un nuovo referendum abrogativo possano realizzarsi: quando ai cittadini si limita in maniera così forte la libertà di espressione, il passo verso un regime autoritario diventa decisivo in un momento nel quale il ricordo del fascismo sembra del tutto svanito.

l’Unità 25.6.10
Compagni. Il linguaggio e il messaggio
In un partito dove esista un minimo di solidarietà interna, l’appellativo «compagne e compagni» sarebbe vissuto come una scelta di stile e di sentimento
di Luigi Manconi

Compagni e compagne». Fabrizio Gifuni, attore. «È necessario trovare nuovi serbatoi simbolici». Debora Serracchiani, parlamentare europea del Pd.

Dai, è così, no? Non c’è dubbio che tra le due frasi sopra riportate quella più adeguata ai tempi, moderna e innovativa, anti-ideologica e fin “giovanile”, sia la prima. Ed è certamente la prima a esprimere un maggiore grado di semplicità e un più alto tasso di comunicabilità. È ovvio che non scherzo e, tuttavia, il discorso non può fermarsi qui. Quello della comunicazione è un problema gigantesco, ma che non va affrontato ricorrendo a luoghi comuni. Un esempio. Nella storia recente, Romano Prodi passa per essere il leader meno versato nella comunicazione di massa e meno seducente. Meno capace di un rapporto “erotico” con l’elettore. Forse è vero, ma non si può ignorare che quel suo linguaggio borbottante e, insieme, sottile fino all’insidia di qualcosa che somiglia a un fischio a rovescio (inspirato), lento fino a intorpidirsi e reificato fino alla domesticità, tuttavia a qualcuno (molti) «parlava». Per esempio, a mia madre, ultra ottantenne donna di chiesa, inorridita dalla licenziosità berlusconiana e rassicurata dalla paciosità quasi abbandonica di Prodi. Se ne può dedurre che il messaggio prodiano risultasse efficace presso alcune aree della società nazionale che possiamo definire «periferiche» (sotto il profilo produttivo, sociale e generazionale). Mi si obbietterà: ecche te ne fai di quelle? Il problema è raggiungere gli strati economicamente e culturalmente “centrali”. Qui già emerge un equivoco pericoloso: l’idea che il messaggio e la fonte debbano essere unici e unitari. In altre parole, è Prodi, e solo lui, che avrebbe dovuto rivolgersi, univocamente, all’intera società. Il che può accadere solo in circostanze eccezionali e per figure extra-ordinarie. Come è Berlusconi. Quest’ultimo, in effetti, indirizza il proprio messaggio alla maggioranza della collettività, ne raggiunge una buona parte, e ne persuade una quota significativa. Se non c’hai culo (o carisma, che è pressappoco la stessa cosa, in termini epistemologici), devi adottare una strategia diversa. La debolezza non era “di Prodi”: consisteva piuttosto nell’incapacità di fare del peculiare stile prodiano una tessera della complessiva azione di comunicazione del governo, cui far concorrere Rosy Bindi, Francesco Rutelli, Massimo D’Alema. Ciascuno rivolto al proprio target, col proprio linguaggio e col proprio stile. Si trattava, evidentemente, di un’impresa ardua e dispersiva, ma l’unica consentita nelle circostanze date. Ed è un’indicazione che può valere anche oggi. Ovvero nel momento in cui il messaggio unico e unitario del centro destra, emesso da una sola ed esclusiva fonte – Berlusconi, appunto – si rivela meno efficace e tende a frammentarsi: da qui l’insofferenza dello stesso premier verso “le associazioni e le fondazioni” che pullulano nel Pdl; e da qui, ancora, il fatto che le molte voci (quelle di Umberto Bossi, Giulio Tremonti, Gianfranco Fini) tendano vieppiù a dissociarsi l’una dall’altra, mentre fino a qualche tempo fa si integravano pienamente, “coprendo” funzioni e interessi e culture differenti. Oggi, quella articolazione del Pdl tende a farsi dissociazione. E oggi la dissociazione, che ha afflitto patologicamente il centro sinistra, potrebbe farsi – se lo volesse – pluralità composita e integrata di accenti e di messaggi. Ovviamente è la cosa più difficile del mondo, ma non certo perché troppo diversificate sono le componenti politiche e le ascendenze culturali del Pd, bensì perché incontrollate sono le pulsioni narcisistiche, le vanità mondane, le petulanze sotto culturali. In un partito dove esista un minimo di solidarietà interna, il ricorso all’appellativo “compagne e compagni” verrebbe vissuto esclusivamente come una scelta di stile e di sentimento, così come l’età relativamente giovane (per la verità: assai relativamente) di alcuni potrebbe costituire una risorsa di energie e non un privilegio da vezzeggiare. Lo stesso vale per il linguaggio: ricevo una mail nella quale mi si chiede di «fare avere un feedback» alla richiesta inviatami. L’ho fatto, ma quel «fare avere un feedback» non è altrettanto legnoso e gergale di quanto lo sia un «si deve scadenzare la nostra iniziativa politica sui tempi della crisi?». È certamente vero che «i giovani parlano così», e allora? Si rischia di non rispondere a due quesiti fondamentali: 1) come reagiscono coloro che «non parlano così» all’adozione di un simile linguaggio? 2) siamo proprio sicuri che i giovani che «parlano così» vogliano che «si parli così» anche quando si espone un programma contro il lavoro precario o per la riforma dell’università?

l’Unità 25.6.10
Dopo una maratona anche notturna approvato il decreto sugli enti lirici che torna al Senato
Santa Cecilia. Per protesta l’orchestra non suonerà domani in Vaticano
Alla Scala scioperano, ma Bondi passa alla Camera
di Luca Del Frà

Ostruzionismo dell’Idv, il Pd emenda il provvedimento, ma vota contro. Minacciata la fiducia
Al termine di una seduta fiume (37 ore e 7 minuti) è stato votato ieri alla Camera il decreto Bondi sulle fondazioni lirico sinfoniche, Infuriano le polemiche,il provvedimento dovrà tornare al Senato.

L’hanno già ribattezzata la “Notte dei cristalli della lirica” sul blog dei lavoratori della Scala, ma lo spettacolo è andato in scena a Montecitorio da mercoledì lungo 37 ore di seduta senza interruzio-
ne notturna per approvare il contestatissimo decreto Bondi: si vota giovedì alle 5 di pomeriggio tra volti tesi, facce sfatte dal sonno, nervi a fior di pelle, screzi tra Pdl e Lega, accuse reciproche di tradimento, i deputati dell’opposizione che si dividono. Al termine di una notte insonne Antonio Di Pietro esclama: «È una porcata», mentre il capogruppo del Pd alla Camera Dario Franceschini chiarisce: «È un brutto provvedimento – aggiungendo però – quando in gioco ci sono le sorti dei lavoratori bisogna far valere il senso di responsabilità».
Il decreto che mortifica i grandi teatri lirici – come la Scala, il Maggio fiorentino, il Regio di Torino, il San Carlo di Napoli e l’Orchestra di Santa Cecilia –, è approdato alla Camera qualche giorno fa, dopo che in Senato l’opposizione aveva portato avanti il più possibile l’ostruzionismo per superare i termini di conversione in legge che scadranno il prossimo 29 giugno. Il tempo stringe, perciò martedì la maggioranza minaccia di porre la fiducia: il giorno dopo tuttavia si apre uno spiraglio, il governo accetterebbe di approvare alcuni emendamenti rinunciando alla fiducia, ma pretende la fine dell’ostruzionismo.
DIVISI
L’opposizione si divide: da una parte il Pd, che voterà comunque contro il decreto, ma a fronte di alcuni miglioramenti rinuncia all’ostruzionismo, al contrario l’Idv e alcuni parlamentari del gruppo misto capeggiati da Beppe Giulietti, che vogliono invece vendere cara la pelle sui banchi della Camera cercando di obbligare con l’ostruzionismo il governo a porre la fiducia su una legge per la lirica, atto in sé un po’ grottesco e che non ha precedenti nella storia parlamentare europea.
I parlamentari del Pd della commissione cultura della Camera, forse più accomodanti di quelli del Senato, si sono riuniti mercoledì in tarda mattinata con il sottosegretario Francesco Giro per valutare le correzioni che riguardano il contratto nazionale, gli integrativi e il turn-over. Giunge una telefonata dalla Presidenza del consiglio: «Dietro front, mettiamo la fiducia». Gli emendamenti infatti obbligherebbero a un nuovo passaggio in Senato, dove lunedì, ultimo giorno a disposizione, non è prevista una seduta: convocandola d’urgenza si teme la mancanza del numero legale. Ma Maurizio Gasparri, capogruppo Pdl in Senato, nega il rischio: altra telefonata dalla presidenza del Consiglio a Giro che – nomen est omen – con un nuovo dietro front riapre la riunione sugli emendamenti.
Siamo alle comiche finali: il tempo perso negli stop–and–go spinge a una seduta notturna senza interruzione, nella speranza di arrivare a votare prima della partita della nazionale di ieri. Ma tra la tenuta dei deputati Idv, botte di sonno e di nervosismo e sui banchi del Governo il ministro Bondi solo, fermo e impassibile come la statua del Commendatore, i lavori sono continuati anche mentre l’Italia incassava tre goal dalla Slovacchia – forte anche di buoni teatri lirici che con questo decreto rischiano di diventare meglio dei nostri.
Alla Scala si va avanti con gli scioperi, sabato prossimo si asterrà dal lavoro l’Orchestra di Santa Cecilia e non suonerà in Vaticano, sarebbe stata la prima volta nella sua storia centenaria. Anche negli altri teatri la temperatura sale: a rischio ci sono le tournée internazionali e le stagioni estive. Recondita speranza: al Senato il decreto si areni nuovamente e i tempi scadano.

il Fatto 25.6.10
Madri a metà
di Luigi Galella

“Era un bambolotto così dolce, biondo, occhi celesti... era bellissimo...” La voce della donna è roca e spezzata. Incerta, come la pronuncia della lingua italiana. Come se avesse la bocca impastata e i pensieri che fluttuano lenti e affaticati mentre si ricongiungono al passato. Inquadrata per singoli dettagli del viso, per oscurarne l’identità, ma non l’espressione, il palpito lieve del cuore, negli occhi che s’intravedono brillare quando racconta di suo figlio e del rapporto speciale che li univa: “ legati insieme da una forte emozione”. M. ha oggi 27 anni ed è detenuta nell’ospedale psichiatrico giudiziario di Castiglione delle Stiviere, in provincia di Mantova. Tre anni fa ha ucciso suo figlio, per l' “amore” che gli voleva, convinta che il piccolo fosse indemoniato, per far uscire il male dal suo corpo. Una sorta di “omicidio salvifico”.
“Madri a metà” è un reportage di Silvia Luzi per Current tv (mercoledì, 21.10, Sky 130) in cui ci si accosta al crimine più grande e incomprensibile: l'assassinio del proprio figlio. L’attenzione mediatica sull’infanticidio negli ultimi anni è cresciuta, non i numeri. Probabilmente per effetto del delitto di Cogne, del clamore suscitato e delle tante, troppe “Porta a porta” che ne hanno morbosamente amplificato la suggestione. In quel caso, unico al mondo nella letteratura psichiatrica del fenomeno, una madre ritenuta colpevole per la legge, com’è noto, continua a proclamarsi innocente. Non accade mai che la rimozione giunga a tanto. Si possono dimenticare i particolari del gesto, non la cosa in sé. Com’è avvenuto per una madre quasi trentenne, a Napoli, che aveva un rapporto difficile con un uomo più grande e che a differenza di altri delitti, rappresenta l’esperienza “normale” del figlicidio. Ora lei si dice dispiaciuta per le mamme che ascolteranno la sua “aberrazione”, ma “chi cade, cade anche per non far inciampare quelli che passano dopo”.
Sono le parole che aprono e chiudono l'inchiesta della Luzi. Che tratta un tema di straordinaria intensità, ancorché ignorato, senza mai calcare la mano, senza scivolare nella febbre dell'audience da “frustate al cuore”. Per una scelta che immaginiamo stilisticamente funzionale, l'autrice costruisce la narrazione in forma quasi omodiegetica. Come parte della storia. Dicendo “io”. Ponendo il proprio corpo di donna fra gli altri, che osserva e descrive. Forse inconsciamente quasi per proteggerne la vulnerabilità. Estrema, considerata l’esperienza limite trattata. Che ha risvolti in alcuni casi deliranti e in altri ancor più misteriosamente ordinari. E che si può spiegare attraverso l’analisi sociologica, dell'alienazione indotta dalla civiltà industriale (in Lombardia c’è il maggior numero di questi reati), ma che agli antipodi temporali è anche possibile leggere attraverso il mito di Medea abbandonata e cieca di furore. Figura dell’alterità, “straniera”. Che uccide disperata i propri figli, parte di sé, per riappropriarsi simbolicamente del padre, che l'ha esiliata fuori di sé.

il Fatto 25.6.10
Laicità in croce
di Marco Politi

Da Bagnasco a Berlusconi, da Bertone a Napolitano: in attesa della sentenza definitiva della Corte europea sul crocifisso si moltiplicano gli interventi. Sorge artificialmente lo spettro di giudici decisi a conculcare il sentimento religioso italiano. Ha detto il capo dello Stato che le sentenze europee “devono essere comunque accettate”. Ma ha soggiunto che la “laicità dell’Europa non può essere concepita e vissuta in termini tali da ferire sentimenti popolari e profondi”. In realtà la Corte di Strasburgo, a novembre scorso, ha sancito un principio pacifico in tanti altri Paesi: l’esposizione nelle aule scolastiche del simbolo religioso (per di più unico simbolo esposto) rappresenta una “violazione della libertà dei genitori di educare i figli secondo le loro convinzioni e della libertà di religione degli alunni”. Da allora sono partite pressioni molteplici perché il secondo grado della Corte di Strasburgo sconfessi la prima sentenza. Si è mobilitata la Cei, si è mosso il governo, si sono allertato l’associazionismo cattolico, facendo un gran parlare di identità, tradizioni, libertà. Berlusconi proclama che la decisione “inaccettabile per la stragrande maggiorana degli italiani”, il cardinal Bagnasco chiede il “rispetto della libertà religiosa”, il cardinale Bertone definisce la croce “espressione identitaria, strettamente connessa con la storia e la tradizione dell’Italia come pure dei popoli europei”. In realtà non un solo argomento, portato in campo in questi mesi per difendere la presenza obbligatoria del crocifisso nelle aule e nei tribunali, ha un fondamento. L’Unione europea – tranne la pattuglia isolata di Polonia, Irlanda, Italia e Malta – respinse a schiacciante maggioranza dei suoi 27 stati la menzione delle “radici cristiane” nella propria costituzione. Non fu negazione del ruolo del cristianesimo nella storia europea, bensì rifiuto che da un generico richiamo costituzionale potessero scaturire, direttamente o indirettamente, situazioni di privilegio per una religione. Che l’Europa sovranazionale sia laicista o antireligiosa è falso: infatti il trattato costituzionale prevede un “dialogo permanente” con le varie Chiese.
Falso è anche dire che la sentenza respingerebbe la fede nell’ambito angusto del “recinto privato”.
Il cristianesimo, come ogni altra fede, è totalmente libero di esprimersi collettivamente e visibilmente nelo spazio pubblico e sociale dei paesi Ue. Parlare in Italia di un cristianesimo che rischia di essere conculcato, è una gag.
Ciò che indica la prima sentenza della Corte europea è, correttamente, l’impossibilità che in uno spazio istituzionale come la scuola (o i tribunali) vi sia un simbolo religioso che visivamente rappresenti il supremo principio ispiratore dell’educazione (o della giustizia). Non ci può essere nella società pluralistica contemporanea il dito indice di una sola religione, che all’interno di un’istituzione segni la via da seguire. Perché non è vero che il crocifisso sia nelle aule o nei tribunali “per tradizione”. La croce nei luoghi istituzionali è il retaggio dei secoli in cui il cattolicesimo era religione di stato. E il tentativo di imporne la presenza, anche oggi che la Costituzione e il Concordato hanno eliminato qualsiasi riferimento ad una religione di stato, non ha più nessuna base giuridica. Meno che mai è giustificato il tentativo surrettizio delle gerarchie ecclesiastiche di creare e crearsi uno status privilegiato di “religione di maggioranza”. Peraltro i giovani italiani, come dimostra l’ultima indagine Iard riportata dall’Avvenire, si sentono “cattolici” soltanto al 52 per cento.
Neanche è vero che il cattolicesimo sia un tratto universale dell’identità italiana. Ogni cittadino ha la sua storia, la sua cultura, le sue credenze. Sul piano istituzionale è certo che un solo simbolo, il Tricolore, rappresenta tutti (con buona pace di Bossi) e una sola immagine rappresenta nei luoghi pubblici l’unità della nazione, quella del presidente della Repubblica (Berlusconi se ne faccia una ragione).
Da questo punto di vista rimane insuperabile la chiarezza del principio costituzionale americano (nazione assai religiosa e spesso citata da Benedetto XVI come esempio di laicità positiva), secondo cui lo Stato non può “né favorire né contrastare una religione”. Nelle scuole americane c’è la bandiera a stelle e strisce, non il crocifisso.
C’è un accenno interessante nel recente intervento di Napolitano. Il richiamo ad una una laicità “inclusiva”, disponibile ad accogliere ed amalgamare le “tradizioni più diverse”. Se è così, si abbia il coraggio di lasciare scegliere gli alunni se nella propria classe vogliono una parete neutrale oppure tale da accogliere la pluralità dei simboli religiosi e filosofici, che ciascuno sente consono. O si rispetta la libertà di coscienza come astensione volontaria da qualsiasi marchio o si lascia libera l’espressione di tutti. Decidere, invece, di imporre un simbolo dichiarato unilateralmente valido per tutti è totalitarismo mascherato.

giovedì 24 giugno 2010

Repubblica 24.6.10
Italiani, di costituzione
di Alessandra Longo

Italiani, di Costituzione. E´ il titolo che l´Anpi ha dato alla sua seconda festa nazionale che apre oggi ad Ancona per chiudersi domenica 27. Lavoro, pace, democrazia: di questo si parlerà. I partigiani, dopo anni di solitudine, anche amara, si ritrovano dentro la corrente dei tanti che ci tengono ancora alla Costituzione, oggi sottoposta a continui attacchi. Non un raduno di ex. «E´ una sfida al presente», dice l´attore Marco Paolini. Da Ancona, l´appello è per un «no forte, responsabile, massiccio, a chi intende cancellare la democrazia dal Paese». Un nuovo sito, il blog, forum, spettacoli, il tentativo di rinnovarsi per lasciare il testimone ai giovani: è la missione dell´Anpi 2010, fedele alla lezione della decima brigata Rocco: «Abbiamo imparato a non essere mai indifferenti».

l’Unità 24.6.10
Napolitano sul crocefisso: nessuna interferenza ma decidano i singoli Stati
A giorni la Corte di Strasburgo si pronuncerà sul ricorso italiano contro la sentenza sul divieto di esposizione del crocifisso. Il presidente Napolitano: «La laicità dell’Europa non ferisca sentimenti elementari e profondi».
di Marcella Ciarnelli

Nessuna interferenza. Ma piuttosto una riflessione sollecitata al Capo dello Stato dal presidente di «Umanesimo cristiano». E Napolitano, proprio mentre la Grande Chambre della Corte europea dei diritti dell’uomo si accinge, il 30 giugno, a decidere sulla revisione della sentenza del novembre scorso sull’esposizione del crocifisso negli uffici e scuole pubbliche, su ricorso del governo italiano, non ha mancato di far conoscere il suo pensiero che non deve essere inteso in alcun modo come «un’interferenza nelle competenze proprie di organi giudiziari, in questo caso sovrannazionali, sulla cui saggezza è bene confidare e le cui decisioni definitive devono essere comunque accettate».
Una premessa alla quale il presidente ha fatto seguire la sottolineatura di come lui «più volte e in diverse sedi» abbia avuto modo «di riconoscere la rilevanza pubblica e sociale del fatto religioso e il valore della laicità dello Stato, a garanzia della libertà religiosa e dei rapporti tra confessioni religiose e autorità statuali, nel segno della reciproca autonomia e dell’accettazione del metodo democratico».
Argomenti da affrontare con una visione complessiva perché «i processi di integrazione europea, anche per le difficoltà di diverso genere che stanno incontrando, hanno bisogno di tutte le energie spirituali e culturali degli Stati e delle popolazioni che vi partecipano». Il punto, Napolitano vi fece riferimento nel messaggio alle Camere nel giorno del suo insediamento, è che «la laicità dell’Europa non può essere concepita e vissuta in termini tali da ferire sentimenti popolari elementari e profondi, bensì come disponibilità ad accogliere ed amalgamare le tradizioni più diverse, senza escluderne alcuna, in una logica non più di indifferenza ed esclusione, ma di inclusione e arricchimento reciproco». Di qui, «anche la questione, particolarmente sensibile, dell'atteggia-
mento da tenere nei confronti delle simbologie religiose può essere più opportunamente affrontata secondo il generale principio di sussidiarietà, che ha finora costantemente ispirato la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo dai singoli Stati, che sono in grado di meglio percepirne la valenza in rapporto ai sentimenti diffusi nelle rispettive popolazioni, così come la necessità di bilanciamento tra diverse sensibilità e la salvaguardia di obiezioni di coscienza serie e consistenti in specifiche situazioni». Ascoltare la società civile, questo è l’invito «evitando sterili contrapposizioni e integralismi specialmente nei confronti di simboli che hanno assunto, anche per il riconoscimento di esponenti di altre religioni, significati universali di pace e di tolleranza».
GOVERNO E VATICANO
In vista dell'imminente sentenza interviene anche il presidente del Consiglio. Per Berlusconi la decisione di novembre «è inaccettabile». E ricorda che il ricorso dell’Italia «ha avuto, a vario titolo, l’appoggio di altri Stati europei». Anche il Vaticano, con i cardinali Bagnasco e Bertone, ha ribadito l’inaccettabilità della decisione passata. Aspettando la prossima.

il Fatto 24.6.10
La linea dura
La Fiom esulta: adesso non possono ignorarci
di Salvatore Cannavò

Entri nella sede Fiom e la soddisfazione trapassa i muri. E non parliamo solo di quella dei suoi dirigenti, a cominciare da Maurizio Landini, neosegretario generale, ma anche dei funzionari (non molti per la verità) che ci lavorano. La Fiom ha ottenuto un successo evidente in questo referendum, pur essendo stata molto cauta. Non ha mai dato indicazione di voto per il “No” e, anzi, ha invitato i lavoratori a recarsi alle urne. Il 36 per cento di contrari all’accordo che, tra gli operai, sale al 40 per cento è però molto di più dei consensi (28 per cento) che la stessa Fiom e lo Slai-Cobas (che ha invitato a votare “No”) avevano ottenuto nelle elezioni Rsu del 2006. A comprendere la soddisfazione di Landini aiuta l’irritazione speculare di Sergio Marchionne, l’amministratore delegato Fiat che si aspettava un risultato attorno all’80 per cento.

Landini arriva puntualissimo in conferenza stampa, accompagnato dal responsabile Fiom per il settore auto Enzo Masini, e la prima parola è di ringraziamento “per i lavoratori e le lavoratrici di Pomigliano che hanno voluto dare un messaggio chiarissimo: sì all’investimento Fiat e dunque sì al lavoro ma sì anche ai diritti e alla dignità del lavoro stesso”. Sulla parola “dignità” il segretario Fiom tornerà più volte, facendone l’architrave del suo ragionamento e della prospettiva della Fiom. Che resta quella di non firmare l’accordo separato ma anche di restare disponibile “a riaprire il negoziato se la Fiat vuole”. “Siamo disponibili ad accettare i 18 turni, lo straordinario obbligatorio di 40 ore e anche l’orario di lavoro plurisettimanale – spiega Landini – perché si tratta di elementi che stanno già dentro il contratto nazionale di lavoro. No però alle deroghe al contratto e alle leggi” quelle la Fiom, a maggior ragione dopo questo referendum, non le firmerà mai.

Il contratto nazionale, dunque, resta la bussola dell’organizzazione e anche per questo il 1 luglio, proprio a Pomigliano, si terrà l’assemblea nazionale dei delegati del gruppo Fiat e delle fabbriche metalmeccaniche del sud Italia, “perché la vicenda ha una valenza generale e noi vogliamo rimarcare questo dato”. Del resto, su Pomigliano hanno scioperato Mirafiori, Termini Imerese, anche la Piaggio e ora si tratterà di capire come valorizzare questa disponibilità “inusitata” dei lavoratori.

Anche le ventilate minacce della Fiat di lasciare la produzione in Polonia non scalfiscono il segretario Fiom: “Ognuno si assuma le proprie responsabilità – dice Landini – noi siamo pronti ad assumerci le nostre”.

Insomma, Landini che aveva inaugurato la sua segreteria con una delle trattative più difficili della Fiom si rimette al centro della scena mentre sono costretti a un ruolo da comprimari sia il governo che Fim e Uilm. Che rincorrono da un lato la Fiat, chiedendole di mantenere gli impegni, e dall’altra la stessa Fiom alle cui posizioni replicano con qualche nervosismo: “Si tratta di fregnacce”, dice Raffaele Bonanni della Cisl.

Ma anche nei rapporti con la Cgil le cose un po’ cambiano . Landini non ha voluto alimentare polemiche salvo che con il segretario campano della Cgil, Michele Gravano, che aveva invitato la Fiom a firmare. E preferisce sottolineare l’unità di vedute tra la categoria e la confederazione, dimostrato anche dalla dichiarazione di Susanna Camusso, neo-vicesegretaria generale secondo la quale “il terzo degli operai che ha detto no all’accordo è precisamente quello che dice che i diritti non si cancellano”. Esattamente come dice la Fiom. Ma il referendum rafforza quest’ultima all’interno dell’organizzazione – a nessuno è sfuggita la solidarietà che nella serata del referendum le è giunta dalla Funzione pubblica, appena rientrata nella maggioranza del segretario generale della Cgil Guglielmo Epifani – e costringe comunque a valutare, come dice Landini, “chi ci ha preso e chi no”. A Epifani potrebbero fischiare le orecchie ma è molto lontano dall’Italia, in Canada, al Congresso Mondiale dell’Ituc, la confederazione internazionale dei sindacati.

il Fatto 24.6.10
Maturità, Del Boca: “Da bocciare 
le scelte della Gelmini sui temi”
Lo storico e saggista critica gli argomenti proposti agli studenti per la prima prova
qui
http://www.ilfattoquotidiano.it/2010/06/23/temi-di-maturita-da-bocciare-le-scelte-della-gelmini/

il Fatto 24.6.10
In Israele 222 detenuti senza motivo
“Una violazione dei diritti umani”
Detenuti amministrativi, i fantasmi di Israele “Un massacro mentale contro i diritti umani”
Il caso è stato sollevato dalla Ong israeliana B'Tselem. Per il governo questa misura detentiva viene usata quando non c'è “alternativa”
qui
http://www.ilfattoquotidiano.it/2010/06/21/detenuti-amministrativi-i-fantasmi-di-israele-un-massacro-mentale-contro-i-diritti-umani/

il Fatto 24.6.10
Post indignato
di Piergiorgio Odifreddi
qui
http://www.ilfattoquotidiano.it/2010/06/20/post-indignato/

Repubblica 24.6.10
Despoti e dittatori che umiliano la democrazia
di E.L. Doctorow

La preghiera laica dello scrittore americano E.L. Doctorow in difesa della Dichiarazione universale proclamata dall´Onu nel 1948
Da quando quel documento è stato promulgato, sono stati uccisi dai 13 ai 14 milioni di persone in operazioni di genocidio e di repressione
I massacri sono un infernale ghigno di disprezzo verso la presunzione umana di essere qualcosa di più che un ammasso di carne e sangue

E.L. DOCTOROW
Secondo la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, così com´è stata ratificata dall´Assemblea Generale delle Nazioni Unite nel 1948, tutti gli individui possiedono in quanto tali un valore e una dignità, e devono essergli riconosciuti diritti uguali e inalienabili in quanto membri della famiglia umana... il diritto alla vita, alla libertà e alla sicurezza della propria persona... il diritto a non essere tenuti in schiavitù o sottoposti a tortura... il diritto a non essere arbitrariamente detenuti o arrestati... il diritto alla libertà di espressione e di opinione... il diritto di procurarsi un´istruzione... il diritto di praticare una religione... di riunirsi pacificamente, di sposarsi per libero consenso, di avere proprietà personali, di ricevere eguale retribuzione per eguale lavoro, di aderire a un sindacato, di essere proprietari delle rispettive creazioni intellettuali e artistiche.
Anche se giuridicamente non sono vincolanti, questi Diritti Umani Dichiarati si dimostrano una scomodità per i governi. Chi sostiene il diritto a riunirsi pacificamente va abbattuto con le armi se sfila in corteo per protestare contro le elezioni truccate, i giornalisti che sostengono il diritto alla libertà di espressione vanno incarcerati o assassinati e le loro rotative distrutte, le donne che vogliono un´istruzione vanno malmenate o riconsegnate ai mariti, ai lavoratori che scioperano bisogna rispondere coi lacrimogeni e i manganelli, e laddove vengono utilizzate la tortura e la detenzione senza processo, si tratta di un espediente necessario.
Inoltre, ad alcune nazioni membre dell´Onu è parso doveroso rifiutare con fermezza l´interferenza esterna in questioni strettamente interne. E dunque, a partire dalla ratifica della Dichiarazione dei Diritti Umani nel 1948, fra i 13 e i 14 milioni di persone con un loro valore e una loro dignità sono state uccise in tutto il mondo in operazioni di genocidio o repressione politica.
Fra i paesi che hanno diligentemente contribuito a raggiungere questa cifra da Olocausto ci sono il Sudan, la Cambogia, la Cina, il Vietnam del Sud, l´Iraq, l´Iran, l´Algeria, il Ruanda, il Congo, il Burundi, l´Indonesia, il Guatemala, il Pakistan, l´Uganda, la Nigeria, il Cile, l´Angola, l´Argentina, l´Afghanistan, El Salvador, la Siria, la Serbia, l´Etiopia.
Quando esaminiamo gli assassinii da prima pagina degli ultimi sessant´anni, i dittatori, i despoti, gli autori di omicidi tribali, i generali, i colonnelli, i ministri della giustizia e i rivoluzionari che hanno posto fine a quelle vite e annientato quelle anime... quando riflettiamo sui torturatori delle repubbliche delle banane, i tiranni delle isole dei Caraibi e del Pacifico, gli ideologi sociopatici dell´Asia, i massacratori africani e i criminali autori della pulizia etnica nei Balcani, e se per buona misura ci aggiungiamo tutti i loro consiglieri, fiancheggiatori, banchieri, fornitori di armi, intermediari di affari e politologi provenienti dall´Occidente democratico... ci rendiamo conto che in quanto individui anch´essi sono membri della famiglia umana che pretendono di essere considerati persone con un valore e una dignità.
E dunque ne possiamo trarre le seguenti conclusioni: Recitare gli articoli della Dichiarazione dei Diritti Umani significa recitare una sorta di preghiera. La preghiera è cautamente indirizzata a Dio in quanto Dio di tutti. Le nostre religioni vengono facilmente politicizzate. Chi brandisce il machete, chi colpisce col manganello, chi spara con l´ak47, uccide con la convinzione di essere nel giusto.
La desacralizzazione dell´umanità compiuta dagli autori dei genocidi rappresenta una terribile umiliazione della nostra specie. Togliere la vita a masse di esseri umani significa togliergli anche l´identità, al punto che la morte di una persona non sembra più rilevante di quella di una formica in un formicaio. I massacri rappresentano un infernale ghigno di disprezzo nei confronti di tutta la presunzione umana: dell´idea di essere qualcosa di più che un ammasso di carne, sangue e ossa. Tanto che tutti noi, credenti o scettici, tremiamo nel contemplare questo dominio del nichilismo. C´è qualcosa di simile allo stesso Satana nello spettro degli innumerevoli cadaveri gettati, di generazione in generazione, in una fossa di profondità abissale.
Non è stato un insieme di istituzioni religiose a proporre la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani per quanto molti dei suoi firmatari abbiano poi defezionato. Possiamo fare commenti sconfortati su questo documento dell´Onu, ma resta il fatto che, a partire dall´eredità morale lasciataci dai testi sacri di migliaia di anni fa, i rari progressi etici della razza umana non sono venuti da iniziative religiose, ma laiche. Uno di questi è il concetto di democrazia, con le libertà che ne derivano. Un altro è la percezione della terra come un ambiente passibile di distruzione. Un altro ancora è il tribunale internazionale per i crimini di guerra. Così come questa Dichiarazione concepita a livello internazionale.
Nella Dichiarazione Universale dei Diritti Umani si profetizza che in futuro questa civiltà diventerà finalmente civile, che la propensione omicida della nostra specie, questo gene malato, questa proteina tossica che da sempre ci tormenta e nutre la terra delle nostre ossa, un giorno forse verrà rimossa dal nostro Dna. Agli ateniesi c´è voluto più di un secolo per inventare la loro democrazia. Questo accadeva mezzo millennio prima di Cristo. I primi segni di democrazia in Occidente apparvero solo con la Magna Carta del 1215, e poi, dopo altri quattrocento anni, in documenti come il Mayflower Compact dei Padri Pellegrini. Il concetto arrivò a caratterizzare gli stati nazionali solo verso la fine del Settecento. Dunque, i grandi progressi morali richiedono un tempo sovrumano, e la preghiera implicita nella Dichiarazione Universale è che ce ne sia abbastanza, di tempo, prima che la negazione dei diritti umani universali si traduca nella distruzione del pianeta.
Traduzione di Martina Testa

Repubblica 24.6.10
Simona Argentieri parla del suo nuovo libro "A qualcuno piace uguale"
Se l'omosessualità non è un destino
di Luciana Sica

L'analista affronta un tema poco trattato: la scelta, a un certo punto della vita, dopo "normali" relazioni eterosessuali, di fare coppia con un partner dello stesso sesso

Piccolo gioco cinefilo, alludendo a quel film di Billy Wilder - A qualcuno piace caldo - dove saggiamente si dichiara: "nessuno è perfetto!", A qualcuno piace uguale è il titolo scelto da Simona Argentieri per il suo nuovo libro in uscita nelle "Vele" di Einaudi (pagg. 132, euro 10). Da sempre provvista di un suo tic per il cinema, la nota psicoanalista è qui molto critica con i vecchi pregiudizi che colpiscono gli omosessuali, ma anche allergica al nuovo conformismo del "politicamente corretto" che tende a banalizzare e soprattutto a dissimulare certe forme più o meno sottili di rifiuto.
Le pagine di A qualcuno piace uguale scorrono veloci, chiare e ben scritte: tutt´altro che rassicuranti, però. «Ammettere che nessuno è perfetto non equivale a dire che tutto va ugualmente bene»: in linea di massima, l´autrice trova molto sospetta l´assenza di "problematizzazione" quando si parla di sessualità in generale, e di omosessualità in particolare.
Il suo è uno sguardo preoccupato sull´incapacità di amare, come spia di patologia, sintomo diffusissimo ma estraneo alle inclinazioni sessuali. E sulla tendenza a proclamare pari dignità per ogni bizzarria, ogni combinazione sentimentale ed erotica: nulla sembra proibito e tutto possibile, anche che a un certo punto della vita si scopra un gusto erotico diverso e si scelga un partner dello stesso sesso. Capita, anzi l´impressione è che capiti sempre più di frequente.
Non solo di questo tema - poco trattato - scrive l´Argentieri nel suo libro, e senza l´ingenuità di sbandierare una qualche certezza, convinta che le generalizzazioni siano sempre improbabili e nel caso del "viraggio" quasi impossibili: «Nel passaggio all´omosessualità, bisognerebbe innanzitutto valutare quale fosse l´assetto della relazione eterosessuale nella prima parte della vita... Non a caso Freud parlava di "sacrifici pulsionali", della rinuncia a una parte di sé».
Oggi molti analisti - di diversi orientamenti teorici - si chiedono soprattutto quanto contano le pressioni culturali al bisogno di adattamento sociale, se non sono un elemento decisivo nella formazione complessiva del soggetto. Che la scelta eterosessuale possa essere conformista, mortificante per la parte passionale dell´erotismo, e l´incontro omosessuale consentire finalmente un´espressione autentica del desiderio, l´Argentieri non lo esclude: «Credo che la minore rigidità delle strutture psicologiche dei nostri giorni permetta davvero in qualche caso una riorganizzazione intrapsichica della propria struttura e una pienezza inedita di emozioni, affetti, passioni».
Se però è declinata al femminile, a volte la scelta omosessuale somiglia a un rimedio alla solitudine, a un ripiegamento su una sorta di amicizia amorosa. In questi rapporti - dice l´Argentieri - la componente passionale non è il primo motore: «Sono le circostanze ambientali e culturali, i fattori di realtà che hanno il loro peso, come una raggiunta autonomia economica, l´aver già realizzato il desiderio di avere figli, magari la delusione nei confronti dell´altro sesso o la valutazione realistica delle opportunità che offre la vita. Una donna non giovanissima può non trovare facilmente un partner etero, mentre in una relazione omosessuale l´aspetto anagrafico non è così determinante».
Dal suo punto di vista, più problematici sembrano gli uomini che, dopo aver fatto coppia con una o più donne, preferiscono apertamente un partner dello stesso sesso: «Sono uomini - anche secondo l´esperienza clinica - che per un lungo tratto della vita "non scelgono", e sono tutt´altro da invidiare perché in genere soffrono e fanno soffrire, vittime di complicazioni e tormenti, artefici di piccoli inferni nella vita quotidiana. Qui le due parti spesso sono scisse: quella eterosessuale si è organizzata in un rapporto stabile mentre quella omosessuale viene vissuta in modo anonimo e furtivo. Se invece le due "quote" si integrano, la sessualità diventa legame, oltre che piacere, e un uomo può orientarsi decisamente alla compagnia di un altro uomo».
Tenendo conto di tanta varietà nella declinazione dei generi, c´è da chiedersi cosa dica oggi la parola "omosessuale": «Non dice proprio niente, è un concetto di poco spessore che non ci dà nessuna informazione sull´organizzazione psicologica di un soggetto. Dietro questa etichetta può esserci davvero di tutto, dalla nevrosi alla perversione, dall´inibizione alla più banale normalità... Gli omosessuali sono fin troppo simili agli eterosessuali, e se proprio sono "diversi", lo sono tra loro».
Senza temere certi cliché, l´Argentieri osa difendere «lo stare in coppia» come una risorsa, un esercizio di conoscenza, una fonte di intimità. Non sottovaluta però le difficoltà profonde di qualunque relazione stabile, insistendo sul problema di riconoscere e tollerare la diversità dell´altro - senza odiarlo.
«In un primo momento dell´attrazione amorosa ci può essere l´illusione che stare con una persona dello stesso sesso sia facilitante, ma ben presto si comprende che la somiglianza anatomica è solo l´aspetto più superficiale del mistero dell´alterità. La psicoanalisi non può rinunciare a interrogarsi sulla qualità dei rapporti che riusciamo a costruire... È anche vero che chi è felice ha sempre ragione: ma questo l´ha scritto Tolstoj, non Freud».

Repubblica 24.6.10
Gli accademici: "Senza finanziamenti, costretti alla questua"
Il grido d'allarme della Crusca

La presidente Maraschio: "In queste condizioni non possiamo programmare nulla"

FIRENZE. È un grido quel foglio. «Gli accademici della Crusca e i soci corrispondenti italiani e stranieri denunciano le condizioni di assoluta precarietà economico-finanziaria dell´istituzione». Seguono quarantasette firme di intellettuali, ricercatori, linguisti fra cui Angelo Stella, Domenico De Robertis, Maria Luisa Altieri Biagi, Maurizio Dardano, Tullio De Mauro e via via tutti gli altri. L´Accademia che ha creato il primo vocabolario del mondo, che è stata dal 1583 il motore di una coscienza linguistica nel paese e che sul suo esempio ha fatto nascere altre storiche accademie in Francia, Spagna e Germania, annaspa nelle incertezze del presente e vede, davanti, un orizzonte sempre più ristretto.
«Per funzionare ci serve un milione di euro e soprattutto una legge che ci riconosca come ente di tutela e valorizzazione della lingua garantendoci una stabilità di risorse che oggi non abbiamo», spiega la presidente Nicoletta Maraschio. Oggi arrivano, come contributo dal Ministero dei Beni Culturali, 190mila euro e altri 50mila dal Comune di Firenze e dalla Regione Toscana: «Ma soltanto per pagare il personale e per il mantenimento della villa medicea di Castello sede dell´Accademia se ne vanno 400mila euro. In queste condizioni non possiamo programmare niente, non possiamo nemmeno acquistare i libri che ci servono e ogni anno è una questua da questa o quella associazione per racimolare soldi e finanziare i progetti di ricerca». Così non si va avanti, dicono gli accademici, da qui l´appello presentato a Palazzo Vecchio con l´assessore alla cultura di Firenze, Giuliano da Empoli che aggiunge: «È straziante che una delle più prestigiose istituzioni culturali del mondo sia costretta di Finanziaria in Finanziaria, a lottare per la sua sopravvivenza quando all´estero c´è una grande domanda di italiano visto che è la quarta o quinta lingua straniera più studiata». Scuote il capo Tullio De Mauro, appena entrato come ordinario nella Crusca: «Gran parte della classe dirigente italiana, compreso l´attuale governo, non considera una priorità investire nella cultura. È così anche per l´università e per la ricerca». Eppure gli studi sulla lingua italiana, sul suo sviluppo e sulla contaminazione, possono aiutarci a capire i fenomeni complessi che avvengono intorno a noi: «Le parole sono perimetri concettuali», ha ricordato la docente bolognese Maria Luisa Altieri Biagi. Se ci fossero finanziamenti adeguati, l´Accademia potrebbe sviluppare alcuni servizi come per esempio lo sportello di consulenza linguistica oppure, ha aggiunto Tullio De Mauro «potrebbe realizzare un nuovo dizionario della lingua contemporanea di cui avremmo sicuramente bisogno, con una descrizione accurata degli usi di migliaia e migliaia di parole che circolano nei testi migliori redatti nella nostra lingua».

mercoledì 23 giugno 2010

Repubblica 23.6.10
"Il discorso su Matteotti fu l'ultimo colpo alle libertà"
Gli storici: la frase di Mussolini usata fuori contesto
L’Anpi denuncia l’accostamento "capzioso" con Togliatti, Moro e Giovanni Paolo II
di Michele Smargiassi

Un tema "revisionista"? No, molto peggio: un tema insensato. Gli storici bocciano la traccia storica dell´esame di maturità sul "Ruolo dei giovani nella storia e nella politica". Tra i quattro "documenti" proposti agli studenti come base di lavoro c´è anche una citazione di Benito Mussolini, accostata ad altre di Palmiro Togliatti, Aldo Moro e Giovanni Paolo II, e questo fa infuriare l´Anpi (oltre a un´associazione studentesca e qualche esponente Pd) che denuncia l´accostamento «singolare e capzioso» tra i quattro personaggi storici. Ma il problema non è quello, per gli studiosi. Il pasticcio è puramente scientifico. Citazioni astratte, incoerenti tra loro, non storicizzate: morale, un invito alla retorica. «Mussolini è un oggetto storico, nessuno scandalo nel far lavorare gli studenti su un suo testo», concede Claudio Pavone, storico della Resistenza, ma subito accusa: «mi pare orribile però che si sia scelta una citazione che, tagliata in quel modo, può persino apparire seducente». Eppure è un brano del famigerato discorso con cui Mussolini in Parlamento si assunse la responsabilità dell´omicidio Matteotti; ma uno studente particolarmente studioso lo poteva dedurre solo dalla data, 3 gennaio 1925. «Sì, ma chi non riesce a risalire a quel contesto storico di sopraffazione rischia di prendere per buona, perfino esaltante, la retorica strumentale con cui Mussolini usò il concetto di giovinezza. Accostare quella frase ad altre citazioni sotto un titolo generico, mi pare faccia parte di un certo modo pericoloso di depoliticizzare il fascismo».
Anche per Emilio Gentile, allievo di Renzo De Felice e studioso dell´ideologia fascista, non c´è nessun problema a proporre citazioni del Duce, anzi: «Partire da Mussolini per un´analisi storica dell´uso del mito giovanilista nella cultura politica italiana mi sembra addirittura obbligatorio. È quella specifica citazione che trovo completamente sbagliata». Alternative? «Il Mussolini del ´19, del fascismo nascente, dell´ideologia vitalista, del mito della giovinezza. Anzi, per dirla tutta, avrei trovato più stimolanti citazioni di leader politici giovani che parlano di giovani: Italo Balbo, Antonio Gramsci, Piero Gobetti... I personaggi scelti invece sono tutti leader anziani (uno, papa Wojtyla, non è neanche un leader in senso proprio) che parlano di gioventù da un´ottica di potere». Sbagliato soprattutto far parlare il Mussolini della crisi Matteotti: «Quello è il discorso con cui dà l´ultimo colpo alle libertà politiche in Italia, il tema della giovinezza è per lui ormai solo uno strumento retorico. La trovo una citazione fuorviante proprio rispetto alla traccia, per trattarla adeguatamente bisognerebbe partire non dai giovani ma dalla nascita di una dittatura. Anche ammesso che uno studente si ricordi il delitto Matteotti, il suo tema sarà comunque "fuori tema"».
Guido Crainz, autore di "Autobiografia di una repubblica", è della stessa idea: «Se uno studente è capace di inquadrare bene quel momento storico e decifrare la funzione retorica della frase di Mussolini, certo, va promosso col massimo dei voti. Ma mi pare già tanto se chi ha svolto questo tema è riuscito a distinguere i contesti storici delle affermazioni di Mussolini, Togliatti, Moro. In realtà io temo che tutto si riduca a un esercizio di divagazione, dove all´esaminando è richiesto semplicemente di parlare della sua personale idea di gioventù, pescando qualche appoggio in queste quattro frasi». Insomma, un tema "televisivo", è la conclusione, «da talk show a ruota libera. Un´altra conferma del modo in cui la scuola insegna la storia: come un eterno presente sul quale esercitare un po´ di digressioni personali».
«Va bocciato chi ha escogitato una traccia così grottesca»: il più severo di tutti è Giovanni De Luna, che divide i suoi interessi fra periodo fascista e dopoguerra. «Quattro citazioni messe assieme col manuale Cencelli, o la par condicio televisiva: il fascista, il comunista, il democristiano, il religioso, un tema bilanciato per quote proporzionali...». Scelti i quattro personaggi solo per ragioni di equilibrio, il confronto diventa astratto. Ma uno studente non deve saper contestualizzare? «Cavare qualcosa dall´accostamento tra quattro fenomeni storici lontani e così diversi uno dall´altro (l´avvio del totalitarismo, la ricostruzione postbellica, il dopo-´68 e i papa-boys) sarebbe arduo anche per uno storico. Per uno studente di liceo, temo resti solo la scappatoia della retorica».

l’Unità 23.6.10
Lo strappo di Pomigliano inaugura Fabbrica Italia ma per Fiat è solo l’inizio
La saturazione degli impianti, i 18 turni, la compressione dei diritti per recuperare produttività è il modello che Fiat applicherà in tutte le fabbriche
di Rinaldo Gianola

Il voto di Pomigliano d’Arco, con tutto il suo carico di tensioni , speranze e purtroppo divisioni tra i lavoratori, non è la conclusione contrastata di un percorso. È, invece, solo la prima tappa di «Fabbrica Italia» il progetto che Sergio Marchionne ha delineato per la Fiat da qui al 2014, una sfida totale, industriale e anche culturale, al mondo del lavoro, alla politica, alle istituzioni.
Dopo il referendum, se il Lingotto confermerà l’investimento di 700 milioni di euro e non metterà in campo altre impreviste soluzioni, niente sarà più lo stesso nelle relazioni industriali in casa Fiat, ma si può facilmente immaginare che sulla strada del recupero di competitività attraverso la compressione dei diritti contrattuali e costituzionali dei lavoratori si avvieranno molte altre aziende. Il mondo sembra andare al contrario: in Cina gli operai scioperano e protestano per ottenere salari dignitosi e migliori condizioni di lavoro, in Italia invece in nome di una non ben definita modernità smantelliamo le conquiste sindacali, civili frutto di lotte decennali.
Se davvero partirà il progetto di Pomigliano (Marchionne non ha sciolto la riserva) poi toccherà a Mirafiori, a Melfi, a Cassino, alla Sevel. Per Termini Imerese, invece, la Fiat non ha lasciato speranze: «Sarebbe una pazzia non chiuderla» ha sentenziato Marchionne. Il modello Pomigliano, se sarà implementato, verrà poesteso alle altre fabbriche italiane, probabilmente sarà calibrato sulle esigenze produttive e organizzative di ciascuna fabbrica da Torino alla Basilicata. Inutile dire che il timore del “contagio”, dell’estensione del programma di Marchionne da Pomigliano alle altre fabbriche preoccupa migliaia di dipendenti. Perchè nessuno, tanto meno i sindacati, si oppone a perseguire nuovi, ambiziosi obiettivi di produzione, ma quello che giustamente allarma è che questo possa avvenire a scapito del sistema di garanzie, dei diritti dei lavoratori.
D’altra parte è inutile farsi illusioni. Il clima politico, la linea del governo, il tifo della Confindustria, anche le timidezze della sinistra, tutto pare concorrere per favorire il successo del “ricatto” della Fiat: vi offro il lavoro, zitti e fate come dico io. Marchionne vuole un cambiamento radicale dell’organizzazione del lavoro e delle relazioni industriali, la sua ambizione è trasferire in Italia il modello della fabbrica Tychy, in Polonia. In sintesi queste sono le condizioni preliminari che il Lingotto esige per investire in Italia: 18 turni settimanali per tutti gli impianti, revisione degli accordi sindacali, piena flessibilità della forza lavoro, contenimento del costo del lavoro, pieno utilizzo degli ammortizzatori sociali. Con questa dote Marchionne è pronto a fare la sua parte e a concedere una speranza alle fabbriche, ai lavoratori italiani con investimenti di circa 20 miliardi di euro in cinque anni.
La Fiat intende portare la produzione di auto in Italia dalle 650mila unità del 2009 a 1,4 milioni nel 2014, una cifra che rappresenterà circa un quarto dell’intera produzione Fiat-Chrysler stimata in 6 milioni di vetture. Il raddoppio della produzione avverrà tramite la saturazione degli impianti esistenti, più turni, più produttività. I numeri non lasciano dubbi. Mirafiori, la storica cattedrale dei metalmeccanici, tra cinque anni avrà una capacità produttiva di oltre 300 mila vetture con una saturazione degli impianti che passerà dal 64% all’88%. A Cassino la produzione passerà da 100mila a 400mila auto. Melfi, il “prato verde” del sogno della fabbrica non conflittuale, produrrà almeno 400mila vetture. A Pomigliano, se i lavoratori fanno i bravi e seguono Marchionne, ci sarà la Nuova Panda, 250mila auto all’anno. La Sevel di Val di Sangro passerà da 100mila a 250mila veicoli. Obiettivi ambiziosi, forse temerari che, se conseguiti, consentiranno a Fiat Auto di raddoppiare il fatturato da 26 a 51 miliardi di euro.
Davanti a un disegno industriale, di potere, di questa dimensione. di questa forza risultano quasi marginali le osservazioni, le critiche, le lotte di chi cercando un lavoro e un reddito per vivere non dimentica i diritti e la dignità. Ma oggi l’Italia è questa. Ora vedremo cosa farà Marchionne.

l’Unità 23.6.10
Più diritti e salari, in Cina ondata di scioperi. Ieri il turno di Denso (Toyota)
Le prime proteste scoppiate a metà maggio tra i lavoratori della Honda e tollerate dal regime di Pechino che in questo modo alimenta la domnda interna. Lunghini: «Ma in Cina vige già la dittatura del mercato».
di Giuseppe Vespo

Continua l’ondata di scioperi nelle fabbriche straniere in Cina. Ieri è toccato agli operai della Denso Corporation del gruppo Toyota bloccare lo stabilimento di componenti per auto nel sud del Paese per chiedere maggiori diritti e aumenti salariali.
MOBILITAZIONI
Partite a metà maggio nelle fabbriche della Honda, in poche settimane le rivendicazioni dei lavoratori cinesi si stanno estendendo in molte zone industrializzate della Cina. In alcuni casi con successo. Alla Honda gli operai hanno ottenuto aumenti salariali tra il 15 ed il 24 per cento. Mentre nelle due filiali Toyota di Tianjin, città portuale del nord, i lavoratori sono tornati sulle linee di montaggio dopo aver scioperato nel fine settimana. L’azienda ha affermato che si sta ancora «discutendo» e non è chiaro se sia stato già raggiunto un accordo sugli aumenti di stipendio. Ma ormai indientro non si torna. Nei giorni scorsi scene simili si sono viste anche nelle fabbriche che producono componenti per Iphone e Ipod.
Oggi in Cina chi lavora nell’industria manifatturiera guadagna tra i 900 ed i 1500 yuan, ovvero tra 107 e 180 euro al mese. Troppo poco per un operaio che comincia a guardare ai colleghi dei Paesi industrializzati, meglio pagati e meno produttivi. Da qui le proteste, seguite in negli ultimi mesi anche dalla stampa di regime. Mentre lo stesso governo pare che abbia assunto un atteggiamento più tollerante rispetto a quelche tempo fa.
«È un fenomeno molto interessante», sostiene Giorgio Lunghini, economista e professore di Economia Politica all’Istituto Universitario di Studi Superiori di Pavia. «È la testimonianza di come la Cina, che per anni si è retta sui salari bassi per sostenere la sua macchina industriale, stia invertendo la rotta». Sono due le cause di questo processo, secondo l’economista. «Da una parte il rischio che le tensioni sociali si allarghino tanto da diventare incontrollabili. Dall’altra l’idea che i salari più alti possano rilanciare il consumo interno, che potrebbe così sostituirsi alle esportazioni. Come è avvenuto negli Usa ai tempi di Ford». Insomma, anche la Cina ha scoperto le potenzialità del suo mercato.
E mentre lì si sciopera per conquistare dei diritti da noi ci si mobilita per tutelarli. «Non credo però che sia possibile accostare la vicenda di Pomigliano alle crescenti rivendicazioni degli operai cinesi», chiude Lunghini. «A Pomigliano è in atto un ricatto che azzera le conquiste sindacali di decenni e lo Statuto dei lavoratori. Un fatto nuovo e grave. In Cina vige già la dittatura del mercato».

Repubblica 23.6.10
"Compagni" per unire e non per dividere
Corrado Augias risponde a Vittorio Emiliani

Caro Augias, dalla discussione sull'uso del termine "compagni" nel Pd sembra che lo stesso sia nato col Partito comunista. Niente di meno vero. Nasce col primo socialismo nell'Ottocento e quel primo socialismo è, in Italia, libertario. La sua divulgazione di massa viene certamente potenziata dal successo di cori come l'Inno dei lavoratori Su fratelli, su compagne , parole di Filippo Turati, musica di Amintore Galli, e siamo nel 1886, all'epoca del Partito operaio. Nei partiti aderenti all'Internazionale socialista ci si è sempre chiamati così. Un po' di storia non farebbe male. Oltre tutto i partiti comunisti non ci sono praticamente più.
Vittorio Emiliani Roma

Nel 1963 uscì il film di Mario Monicelli I compagni , giudicato non dei suoi migliori e tuttavia un "affresco spettacolare, divertito e malinconico sul nascente movimento operaio" (Mereghetti). Soprattutto, per ciò che interessa in questa altrettanto malinconica polemica: "Una commossa rievocazione del socialismo torinese agli inizi del secolo". Il termine "compagni", come ricorda Vittorio Emiliani, viene dal socialismo italiano di fine Ottocento. Quel film, sia detto per la cronaca, si guadagnò comunque la candidatura all'Oscar per la migliore sceneggiatura (Age, Scarpelli, Monicelli). Mi ha scritto Luisa Goglio (lu.go@fastwebnet.it): «Voto Pd senza essere mai stata comunista, eppure la parola compagni non mi offende. Compagni sono coloro che condividono un percorso. Mi rattrista questo continuo puntualizzare, spia, forse, di una temperatura troppo bassa nel Pd». Mi ha scritto Nelli Scilabra (nelliscilabra@hotmail.it): « Sono una giovane convinta che la passione, la fatica e la determinazione dei giovani possano cambiare il mondo. Quali giovani hanno potuto sollevare una questione tanto inutile e fuori luogo? Chi sono questi giovani che hanno tempo da perdere piuttosto che occuparsi di università, disoccupazione, scuola, legge bavaglio, discariche e rifiuti, Fiat, crisi economica, mala sanità? Mi sento offesa». Indirizzandosi all'Anpi di Treviso, Mario Rigoni Stern ha scritto (inviandomene copia): «Cari compagni, sì, compagni, nome bello e antico, che non dobbiamo lasciare in disuso; deriva dal latino "cum panis", accomuna coloro che mangiano lo stesso pane. Coloro che lo fanno condividono anche l'esistenza, con tutto ciò che comporta: gioia, lavoro, lotta e anche sofferenze. Noi della Resistenza siamo compagni, perché abbiamo sì diviso il pane quando si aveva fame ma anche insieme vissuto il pane della libertà, così difficile da conquistare e mantenere». La prossima volta gli autonominati "giovani del Pd" dovrebbero dedicare qualche ora a leggere un po' di pagine di storia prima di aprire bocca.

Repubblica 23.6.10
Così vivono i filosofi
Il ‘900 con gli occhi dei pensatori
di Umberto Galimberti

Il figlio di Heidegger che parla del padre, di Jünger e di Schmitt. Albert Hofmann che racconta come scoprì l´Lsd
Raccolti in volume gli articoli e le interviste di Antonio Gnoli e Franco Volpi ai grandi testimoni del secolo
Un intreccio fra la riflessione e l´esistenza. In primo piano gli studiosi che da sponde anche opposte hanno descritto il tracollo dei valori occidentali
Gadamer assisté affascinato alle lezioni dell´autore di "Essere e tempo", ma se ne allontanò quando il maestro cavalcò il nazionalsocialismo

La crisi dei nostri giorni non ci avrebbe colto impreparati se solo avessimo letto e prestato attenzione a quei pensatori del Novecento che, su sponde filosofiche e politiche opposte e spesso tra loro in conflitto, avevano descritto il tracollo dei valori su cui l´Occidente aveva costruito se stesso, e il dispiegarsi di quel teatro dove il nichilismo, "l´ospite inquietante" annunciato da Nietzsche, dettava a tutti gli attori la loro nuova parte.
Oggi è possibile rimediare a questa lacuna con la lettura di un libro, I filosofi e la vita, (Bompiani, pagg. 214, euro 10,50) scritto da Antonio Gnoli e dal compianto e caro amico Franco Volpi, in cui sono raccolti una serie di articoli e le interviste che gli autori fecero ai filosofi del Novecento, o, se defunti, ai loro figli che ne custodiscono la memoria e gli epistolari. Ne risulta un interessante intreccio, dove il pensiero filosofico si contamina con le vicende della vita, ivi compresa la vita del filosofo, che talvolta ne condiziona il pensiero e talvolta lo lascia imperturbato nelle sue analisi lucide e penetranti.
È il caso di Heidegger, di cui Franco Volpi ha curato le traduzioni delle sue opere per Adelphi, che dissolve la metafisica dell´Occidente, decreta la fine della centralità dell´uomo nella storia, annuncia l´avvento della tecnica che ridurrà gli uomini a "im-piegati" degli apparati tecnici, quando non a semplice materia prima, «la più importante materia prima (die wichtigste Rohstoff)». L´intervista è al figlio Hermann Heidegger che rievoca i rapporti di suo padre col grande giurista tedesco Carl Schmitt, e soprattutto con Ernst Jünger, i cui scritti giovanili piacquero all´intellighentia nazista, anche se Jünger, come peraltro testimonia anche Hannah Arendt, nazista non lo fu mai.
È lo stesso Jünger a confermarlo nell´intervista rilasciata, in prossimità del suo centesimo compleanno, in cui ricorda che ebbe salva la sua vita grazie a Hitler, lettore dei suoi libri giovanili, contro il parere di Goebbels e Göring che volevano la sua testa. A Carl Schmitt, padrino di suo figlio Alessandro, Jünger un giorno chiese se avesse un mitra in cantina. E a Schmitt che gli chiedeva perché, Jünger rispose: «Perché lei ha pronunciato la sentenza: il Führer crea il diritto. Una frase, dal punto di vista politico molto pericolosa». E poi una profezia: «In questo evo il poeta dovrà andare in letargo. Ciò vuol dire che le azioni sono più importanti della poesia e del pensiero che le cantano e le riflettono. Sarà un evo molto propizio per la tecnica, ma sfavorevole alla cultura».
Cambiando scenario, un´intervista al novantenne Albert Hofmann, scienziato svizzero, chimico di professione e umanista per passione, che scoprì l´Lsd e, a partire dalla sua scoperta, prese a leggere «il modo in cui l´Occidente ha guardato e vissuto la propria instabilità e precarietà». Nato per un utilizzo psichiatrico, l´Lsd fu nominato "psichedelico" perché «atto a manifestare la psiche». Hofmann lo assumeva insieme a Jünger per «potenziare la sensibilità e sperimentare quel sentimento oceanico che ci fa sentire tutt´uno col mondo». A sentire Hofmann, anche Platone, Pausania, Marco Aurelio conoscevano l´uso di allucinogeni, come ad esempio il kykeon, la bevanda psicotropa impiegata nei misteri di Eleusi.
Non di droghe, ma di vino era appassionato Hans-Georg Gadamer che, all´arrivo di Volpi e Gnoli recatisi nella sua casa per intervistarlo, offre una bottiglia di eccellente Montepulciano. Gadamer era sulla soglia dei cent´anni, ma non aveva dimenticato quella frase che leggiamo nel Simposio di Platone. "In vino veritas". A fianco di tutti i grandi pensatori tedeschi: Husserl, Scheler, Hartmann. Heidegger, Gadamer, già a vent´anni, vive con scetticismo la fiducia che allora si nutriva nei confronti della scienza e della tecnica, e dopo aver letto le Considerazioni di un impolitico di Thomas Mann, prese a riflettere sulla distanza che si era venuta a creare tra «i valori spirituali della Kultur umanistica rispetto a quelli materiali della moderna Zivilisation».
Con Marcuse, Horkheimer, Ritter, Löwith, Hans Jonas e Leo Strauss, anche Gadamer assiste alle lezioni di Heidegger restandone affascinato, ma discostandosi quando il maestro pensò di «promuovere un rinnovamento dell´università cavalcando, con un´incredibile e inimmaginabile ingenuità, il movimento nazionalsocialista», quasi a sottolineare che non sempre la vita accompagna la grandezza del pensiero, ma anche che la grandezza del pensiero può trovarsi in uomini "pavidi" come Heidegger. Ad Heidegger va comunque riconosciuto il merito, osserva Gadamer, di aver individuato per primo e con più lucidità di tutti che «il progresso tecnico, nel bene e nel male, è diventato il nostro destino». E alla domanda: «Quale sistema politico assegnare alla tecnica per contenerla?», la risposta di Gadamer è: «La democrazia? Chissà».
Franco Volpi e Antonio Gnoli girarono in macchina tutta la Germania per intervistare i testimoni del pensiero del Novecento. Dobbiamo essere grati a questo loro peregrinare che ci consente di conoscere, per voce diretta, la loro interpretazione del secolo appena concluso. Scrive Gnoli: «La caratteristica assolutamente definitiva dei morti è la loro assenza. Ma essi tornano sotto altra forma, come un debito che abbiamo contratto con la loro vita che si è chiusa». E questo vale non solo per i grandi filosofi intervistati, ma anche per Franco Volpi, vittima un anno fa di un incidente mortale sulla sua bici, a cui Massimo Donà ha dedicato il numero di Panta Decalogo (Bompiani, pagg. 670, euro 28) con belle foto di Volpi e Gnoli, i due girovaghi in cerca di testimoni del pensiero.

Repubblica 23.6.10
Scala occupata a Milano lavoratori in piazza a Roma tutti insieme contro il decreto
Battaglia alla Camera per l'ultimo atto del decreto legge sulle fondazioni liriche
di Leandro Palestini

Braccio di ferro alla Camera dei deputati, per l´ultimo atto del decreto legge sulle fondazioni lirico sinfoniche. Quello che porterà drastici tagli alla lirica, che cambierà i connotati ai teatri d´Italia. Il governo ieri ha provato a "blindare" il decreto con la fiducia, ma l´opposizione ha subito minacciato di ricorrere all´ostruzionismo. La maggioranza ha ovviamente i numeri per varare il contestato provvedimento (già licenziato al Senato), ma sconfinando verso la mezzanotte l´opposizione ha fatto capire che avrebbe fatto le barricate in aula, allontanando il voto finale (scontato) accendendo però i riflettori sull´impopolare decreto Bondi. Prova di forza rinviata: oggi si saprà se il governo vuole mettere la fiducia. «Un governo che mette la fiducia anche sul decreto sulle fondazioni liriche è un governo di cartapesta. Autoritario fuori, inesistente dentro» è il commento del senatore Vincenzo Vita (Pd). «Protestare contro il decreto Bondi per il riordino delle fondazioni lirico-sinfoniche è legittimo, ma per me resta incomprensibile» dice Francesco Giro, sottosegretario ai Beni culturali. Dall´Italia dei Valori, Pierfelice Zazzera, capogruppo in Commissione Cultura, accusa il ministro Bondi di essere «di fatto commissariato da Tremonti».
«No al decreto infame». Questa la scritta apparsa ieri sera su di uno striscione appeso sulla facciata della Scala, subito dopo l´assemblea generale tenuta dai lavoratori nel foyer del teatro. Un´occupazione simbolica. Dopo lo sciopero di lunedì, che ha fatto saltare la seconda rappresentazione del Faust di Gounod, le proteste contro la riforma delle fondazioni lirico sinfoniche ora sembrano coinvolgere pure il sovrintendente Stéphane Lissner e il sindaco di Milano, Letizia Moratti. «Continueremo a lavorare con il governo su una politica che sappia valorizzare il Teatro alla Scala», garantisce la Moratti. Ma Sials e Cgil hanno indetto uno sciopero che oggi farà saltare la terza rappresentazione del Faust. La protesta dilaga. Teatri chiusi ieri sera in tutta Italia. È saltato il concerto di chiusura del Maggio Fiorentino. Se il decreto passa, gli scioperi rischiano di bloccare le stagioni estive di Caracalla, San Carlo, Santa Cecilia. In forse le tournée dei prossimi mesi della Scala, a partire da Napoli e Buenos Aires.
Il ministro Sandro Bondi, che in un´intervista alle pagine milanesi di Repubblica ieri ha cercato di placare gli animi, giurando che «il decreto non taglia i fondi alle fondazioni, tantomeno alla Scala», non viene creduto. Ieri pomeriggio, davanti al ministero dei Beni culturali a Roma, decine di lavoratori dei teatri lirici di tutta Italia hanno cantato l´inno di Mameli e il Rigoletto di Verdi. Molti gridavano pure «buffone, buffone». «Continueremo le lotte finché questo decreto con verrà modificato» minaccia Francesco Melis della Uilcom. La protesta è stata replicata davanti alla Camera dei deputati, dove era all´esame il provvedimento. Nascono nuove forme di protesta. Ieri, a Venezia, i lavoratori della Fenice hanno scelto di fare una prova aperta e gratuita del Giro di vite di Benjamin Britten preceduta da una performance sui gradini del teatro (poi il dibattito sui temi della riforma delle fondazioni). E domani, alla prova generale della Scala del balletto Romeo e Giulietta, aperta ai cittadini, verrà chiesto un contributo per i lavoratori precari.

martedì 22 giugno 2010

l’Unità 22.6.10
Un successo. Passato il testimone a 110mila nuovi «resistenti»
«Mi iscrivo all’Anpi perché la Resistenza non sia solo memoria del passato ma esercizio del presente»
La nuova resistenza democratica inizia unendosi ai partigiani dell’Anpi
Se c’è da resistere si va da coloro che la Resistenza la conoscono bene. L’Anpi sta conoscendo una nuova primavera. Presentata ieri una iniziativa per l’adesione di moltissime personalità illustri
di Stefania Scateni

Non è tempo di stare alla finestra. Non è tempo di indifferenza né di ignavia, tantomeno di accidia. È tempo di trasformare lo sconcerto, la rabbia e la paura, di scegliere se continuare ad affannarsi per nuotare in una marmellata culturale e politica che confonde verità e menzogna, libertà e sopruso, sfigurando il tutto in un grande schermo azzurro e piatto, oppure tirarsi fuori dal blob e dare aria al cervello. In poche parole, prendere posizione. C'è bisogno di rivivere il significato morale, prima ancora che politico, dell'antifascismo e della nostra Costituzione democratica. La ricchezza dell'insegnamento che ci arriva dalle donne e gli uomini che si sono schierati e hanno combattuto per costruirla vanno coltivati e ripresi, insegnati, testimoniati di nuovo. Molti ragazzi italiani (come ci ha raccontato il 9 giugno Gabriella Gallozzi su questo giornale) lo hanno fatto iscrivendosi all' Anpi: tanti nuovi “antifascisti”, “volontari per la democrazia” nell’Associazione nazionale dei partigiani che, negli ultimi anni, ha aperto le porte anche a chi la Resistenza non l’ha vissuta. I partigiani hanno passato così il testimone a 110mila nuovi resistenti per continuare a far vivere la memoria della lotta per la democrazia, messa a rischio dalla graduale scomparsa dei protagonisti e dal violento revisionismo di regime. L'Anpi lancia inoltre una campagna con il coinvolgimento di artisti, scrittori e intellettuali. Nata da un'idea di Concita De Gregorio e Dacia Maraini, l’iniziativa è stata presentata ieri nella sede nazionale dell'Associazione.
Dacia Maraini ha citato un discorso agli studenti milanesi di Piero Calamandrei (1955): «Se voi volete andare in pellegrinaggio nel luogo dove è nata la nostra Costituzione, andate nelle montagne dove caddero i partigiani, nelle carceri dove furono imprigionati, nei campi dove furono impiccati. Dovunque è morto un italiano per riscattare la libertà e la dignità, andate lì o giovani, col pensiero, perché li è nata la nostra Costituzione». Concita De Gregorio ha spiegato quanto sia fondamentale parlare ai ragazzi di chi ha combattuto per le libertà di cui godono oggi, e spiegare loro la Costituzione: «Il futuro non è più quello di una volta, è necessario incarnare nel presente lo spirito della Resistenza. Una Resistenza personale, privata, che può coincidere con una forma di Resistenza pubblica, collettiva». Non erano sole ieri mattina all' Anpi. «Mi iscrivo all'Anpi perché la Resistenza non sia solo memoria del passato ma esercizio del presente». Con questa motivazione, scelta per la campagna, si sono iscritti Andrea Camilleri, Giuliano Montaldo, Giancarlo De Cataldo, Romana Petri, Rosetta Loy, Fabrizio Gifuni, Simona Marchini, Sandra Petrignani, Fabio Bussotti, Simone Cristicchi, Fiorella Mannoia, Mario Monicelli,
Neri Marcorè, Emma Dante, Marco Paolini, Gigi Proietti, Moni Ovadia, Ugo Gregoretti, Marco Bellocchio, Giorgia, Monica Guerritore, Sabrina Ferilli, Massimo Carlotto, Emma Dante, Roberta Torre, Irene Grandi, Matteo Garrone, Francesca Archibugi, Valentina Carnelutti, Emanuela Giordano, Beppe Sebaste, Lidia Ravera, Silvia Nono, Flavia Gentili, Italo Spinelli, Francesca Comencini, Cristina Comencini, ellekappa, Staino, Liliana Cavani, Serena Dandini, Riccardo Milani, Piera Degli Esposti, Vincenzo Cerami, Ascanio Celestini, Margherita Hack, Eugenio Finardi, Lucio Villari, Pierluigi Meneghetti, Mario Prosperi, Rossella Or, Lisa Ginzburg, Luca Archibugi, Nadia Urbinati, Roberto Citran. Molti erano presenti, nella stracolma sala dell'Anpi dove a fare gli onori di casa c'erano due partigiani, i vicepresidenti dell'Associazione Armando Cossutta e Marisa Ombra. Giuliano Montaldo ha raccontato quando, il 24 aprile 1945, a Genova stavano stampando la prima Unità del dopoguerra, e con altri fece da “spago” per portare l'edizione agli operai dell'Ansaldo: un solo foglio, titolo “Genova è libera”. Giancarlo De Cataldo lamenta come la sinistra abbia consegnato i simboli alla destra, e sottolinea l'importanza mitopoietica della Resistenza. Le storie sono necessarie, raccontano il mondo e noi stessi. Quanta differenza ci sia tra lo ieri dei partigiani e l'oggi dei «nuovi resistenti» lo spiega Armando Cossutta, quando chiude la conferenza con un ricordo personale. «Oggi combattere per la Costituzione è più difficile di allora. Fui incarcerato, messo al muro insieme a dei compagni per essere fucilati, ma non avevo paura, non avevamo paura. Avevamo la certezza di contribuire a costruire un orizzonte visibile e giusto. Oggi non si vede questa luce all' orizzonte».

Da Barcellona a Genova, l’allarme degli intellettuali
Dopo cento-cinquant'anni la spedizione dei mille torna a Genova, dove era partita con Garibaldi. Questa volta però i mille sono degli italiani che vivono all'estero e che si imbarcheranno venerdì 25 giugno da Barcellona sulla “nave dei diritti” per sbarcare il giorno dopo nel capoluogo ligure e dare la sveglia all'Italia berlusconizzata e assuefatta al degrado civile. L'iniziativa, presentata ieri al Parlamento europeo e battezzata “lo sbarco”, è nata fuori dai partiti e senza finanziamenti, grazie ad un gruppo di italiani che vivono a Barcellona «seriamente preoccupati per ciò che avviene in Italia». La cosa si è diffusa su Internet, raccogliendo moltissime adesioni sparsi in Europa e ricevendo l'appoggio di artisti e intellettuali italiani e stranieri come Dario Fo, Alaine Touraine, Franco Battiato, Beppe Grillo, Paolo Flores D'Arcais, Moni Ovadia, Erri De Luca e lo scrittore portoghese José Saramago deceduto venerdì scorso. MA. MON.

l’Unità 22.6.10
Migrare, nasce un portale per una nuova cultura

Un «contenitore messo a disposizione della società civile»: così Shukri Said, italiana di origine somala, ha presentato oggi il nuovo portale «www.migrare.ue», un'iniziativa dell'associazione Migrare di cui è segretaria e portavoce. Un sito che attraverso una «informazione corretta» vuole contribuire ad affrontare la «battaglia» culturale per l'integrazione. Perchè in Italia, ha spiegato la deputata radicale Rita Bernardini intervenuta alla Camera alla presentazione, c'è «un'informazione menzognera» che «fomenta i sentimenti negativi nei confronti dell'altro, del diverso».
E questo, per la parlamentare, vale soprattutto per le televisioni, sia pubbliche che private. C'è un «paradosso tutto italiano», ha aggiunto l'ex senatore Luigi Manconi, che consiste nel fatto che da noi «c'è meno razzismo ma anche meno integrazione». La maggior parte della popolazione immigrata, insomma, resta fuori dal sistema dei diritti e della cittadinanza: sono pochi, ad esempio, i professionisti stranieri, o i quartieri misti. Il nuovo portale, ha sottolineato il deputato del Pd Jean Leonard Touadi, cerca di ribaltare la «politica della paura» fomentata da mass media e politici. Migrare.eu porta avanti tra l'altro una campagna sul rilascio e il rinnovo dei permessi di soggiorno, e chiede che chi nasce in Italia sia cittadino italiano, che si ponga fine ai respingimenti indiscriminati di chi ha diritto all'asilo, che la sanatoria di colf e badanti sia estesa anche ad altre categorie di lavoratori, che agli immigrati sia riconosciuto il diritto di voto amministrativo.

l’Unità 22.6.10
Colloquio a Fabrizio Gifuni
«Ho detto che la cultura sta morendo, su questo nessuno ha da obiettare?»
L’attore finito oggetto di una polemica per aver usato la parola «compagno» al Palalottomatica: una tragicommedia. E invece bisogna ascoltare e ragionare
di Alberto Crespi

Un’intera nottata / Buttato vicino / A un compagno / Massacrato / Con la bocca / Digrignata / Volta al plenilunio / Con la congestione / Delle sue mani / Penetrata / Nel mio silenzio / Ho scritto / Lettere piene d’amore / Non sono mai stato / Tanto / Attaccato alla vita».
Questa è Veglia, poesia di Giuseppe Ungaretti scritta su Cima Quattro il 23 dicembre 1915, durante la prima guerra mondiale. Contiene la parola «compagno». Attendiamo con ansia una mozione di qualche giovane del Pd per prendere le distanze dal poeta.
Non siamo impazziti. E Veglia non è un’idea nostra. Ieri abbiamo chiamato Fabrizio Gifuni per commentare il can-can seguito al suo intervento di sabato al Palalottomatica, concluso con le fatidiche parole «Compagni e compagne, è tanto che volevo dirlo...». Gifuni, che è un bravissimo attore (e che per inciso, in carriera, ha benissimo interpretato Alcide De Gasperi in un film per la televisione), non credeva alle sue orecchie e non voleva nemmeno parlarne. Poi ha accettato di far due chiacchiere con l’Unità, giornale letto ancora da molti «compagni». E ha voluto raccontarci una telefonata che aveva chiuso pochi minuti prima di parlare con noi (ieri il suo telefonino era rovente).
«Mi hanno chiamato diverse persone non per esprimermi solidarietà, non esageriamo, ma per condividere un po’ di stupore, di costernazione. Fra queste Corrado Stajano, che mi ha ricordato appunto la poesia di Ungaretti Veglia. Se ti va di citarla, sappi che fa piacere anche a me: se avessi tirato fuori Pavese, o Quasimodo, avrei rinfocolato gli animi, qualcuno avrebbe gridato: ecco, i soliti bolscevichi. Ungaretti non era un bolscevico e soprattutto era un poeta ermetico, che misurava le parole e sapeva dar loro il giusto peso. Secondo Stajano Veglia è la più bella poesia che contenga la parola ‘compagno’. Dopo averla riletta, mi sembra di potergli dare ragione». Siamo anche noi doppiamente
contenti di citare Ungaretti perché siamo d’accordo con Gifuni quando afferma che la polemica seguita al suo intervento è un clamoroso esempio di informazione deviata. Ci spieghiamo – anzi, facciamolo spiegare a lui: «Premesso che non faccio parte del Pd e non ho in tasca la tessera di nessun partito, io sono stato chiamato a intervenire, da attore e da cittadino, su un tema preciso: i tagli alla cultura. Ho espresso 5-6 pensieri, forse stupidi, o male articolati, che esprimono il disagio profondo di chi lavora in questo campo, oggi, in Italia. Beh, avessi sentito una parola di commento, anche di dissenso, nel merito. No: all’interno del mio intervento, sono state estrapolate due parole che corrispondevano a una virgola, a un segno d’interpunzione... si analizza una frase aggrappandosi a una virgola e ignorando il soggetto, il predicato verbale, il complemento oggetto...».
Allora, Fabrizio, visto che parliamo di cultura, diamo un senso a Ungaretti e ai poeti come lui e ripartiamo dal soggetto. La cultura. Vogliamo ridare centralità ai pensieri e ribadire cosa davvero hai detto, in quell’intervento, prima di rivolgerti ai compagni e alle compagne? «Il grido di dolore per i tagli imposti dal governo alla cultura è usurato. Il problema non va affrontato a compartimenti stagni. Guai se il cinema difendesse il cinema, la lirica la lirica, e così via: sarebbe l’ennesima guerra fra poveri. La battaglia per la cultura dev’essere unitaria. Bisogna rimettere al centro del dibattito alcune parole d’ordine. Non aver paura di dire che la cultura, lo studio, la scuola, la ricerca scientifica sono il tessuto connettivo di una democrazia. Non sono parole vuote. Sono parole con un peso specifico enorme. Pensare che invece siano sinonimo di ‘tempo libero’ è grave. Se passa un simile concetto, i tagli diventano logici: c’è crisi, mancano soldi dovunque, dove si taglia? Nel superfluo! Ma la cultura non è superflua, è anzi alla radice del concetto stesso di democrazia: nell’Atene di Pericle si andava la mattina in senato, il pomeriggio al mercato, la sera a teatro, e queste tre attività avevano tutte la stessa importanza, contribuivano alla crescita della polis. Ora: mi si può dire che sbaglio, si può discutere. Mi si può rispondere: Gifuni ha torto, la cultura fa parte del superfluo, del ‘di più’ rispetto alle necessità della vita. Ma non si può tralasciare totalmente il senso di un discorso e aggrapparsi alla parola ‘compagni’ per innescare una polemica».
Polemica che, ovviamente, non ti aspettavi... «Per carità, l’avessi saputo... forse l’avrei detto ugualmente! Perché ho la sensazione di aver sottoposto questi militanti ad una sorta di test involontario. Mi rattrista che la reazione sia arrivata da giovani esponenti del Pd. Mi viene da risponder loro: ma lo sapete, che nel nome della parola ‘compagno’ c’è gente che è andata in galera, che addirittura ha sacrificato la vita? Ma forse sarebbe una reazione, a mia volta, esagerata. Preferisco quindi un’altra risposta: cerchiamo di non essere pavloviani! Mi spiego: la rabbia suscitata dalle mie parole mi sembra una reazione pavloviana che scatta in modo automatico all’ascolto di certe parole. Allora, proviamo ad andare al di là delle parole. Proviamo ad ascoltare le opinioni altrui, a valutarle, e nel caso a contraddirle con argomenti validi. Purtroppo sembra che nessuno, nella politica italiana, sia più abituato ad ascoltare e a ragionare. È più facile buttarla in tragicommedia».
O in commedia all’italiana, aggiungiamo noi. E ci viene in mente la Magnani, che in Mamma Roma di Pasolini sgrida il figlio che non le obbedisce dicendogli «ahò, che te metti a fa’ er compagno?».
È una citazione meno alta di Ungaretti, ma forse può servire.

l’Unità 22.6.10
Cari nativi
«Se voi siete il futuro il futuro non c’è»
La lettera di una «nativa» in disaccordo con gli altri «nativi». «Con questa inutile polemica avete danneggiato il Pd, un’azienda vi avrebbe cacciato...»
di Cecilia Alessandrini

Gentilissimi Giovani Dirigenti nativi del PD, anche io sono una giovane nativa del Pd, ma sono una semplice militante, non sono una dirigente e vivo in Emilia Romagna a Bologna per la precisione. Impiego quotidianamente una parte del mio tempo libero nell'impegno politico nella speranza che questo serva, in futuro, a sconfiggere il berlusconismo imperante nel nostro paese e a restituire un po' di dignità politica all' Italia. Non lo faccio solo per me, lo faccio soprattutto per i miei futuri figli, lo faccio perché un giorno voglio poter guardare i più giovani negli occhi e poter dire loro che io ho fatto tutto il possibile, tutto quello che le mie forze intellettuali e fisiche mi hanno permesso di fare per evitare che il mio paese, il loro paese, andasse alla rovina, esattamente come fecero molti anni fa i partigiani di tutti i colori politici che ci restituirono la libertà. Sarà per questo impegno quotidiano che non ho tempo di offendermi se qualcuno mi chiama compagna io che il Pci l'ho conosciuto solo attraverso i libri. Sarà perché vado a servire sia alle «Feste dell'Unità» a Bologna, dove si è deciso di mantenere alla festa del partito il vecchio nome, sia alla «Festa Democratica» di Sassuolo dove invece il nome è stato cambiato ma la sostanza è rimasta la stessa. Certo, forse, andrei a servire ai tavoli con meno entusiasmo ad una Festa denominata «Democratic Party» come mi si dice si chiami la Festa del PD a Roma; onestamente sa più di «Amici di Maria De Filippi» che della Festa di un partito che ha a cuore i diritti dei più deboli. Mi piacerebbe ricordarvi l'etimologia della parola «compagno» ( cum panis), ma sarebbe inutile perché è chiaro che il problema che esprimete non è filologico, ma legato al richiamo al lessico marxista che questa parola evoca ed il rapporto del Pd con la tradizione marxista è un problema lungo e complesso che va analizzato nelle sedi adeguate e quindi vi dico solo che dopo la vostra lettera sono molto sconfortata e preoccupata per una serie di ragioni molto poco filosofiche.
1)Speravo che i giovani dirigenti del Pd fossero impegnati, come lo siamo noi militanti, in cose più serie del disquisire sulla pronunciabilità o meno di una parola che, comunque, non ha in sé nulla di offensivo.
2)Era proprio necessaria questa discussione dopo una manifestazione riuscita bene ed anche originale nel suo svolgimento? In questi giorni avevo ricevuto da diverse persone un ritorno positivo sull'evento di Sabato. Qualcuno mi aveva scritto dicendomi che «dopo il discorso di Bersani l'avevamo recuperato come elettore». Questa mattina nella prima e-mail che ho aperto qualcun altro mi diceva che questa polemica l'aveva schifato. Ottimo lavoro cari giovani dirigenti nativi del Pd! Qualcuno vi chiederà conto del danno che avete procurato al lavoro che noi militanti facciamo tutti i giorni per le strade, nei circoli ed alle innominabili Feste dell'Unità? Se fossimo in un'azienda privata avrebbero già provveduto a mandarvi a casa...
3)Se questa è la nuova classe dirigente del Pd credo che le cose, per noi, possano solo peggiorare.
Concludo narrando un bellissimo episodio della vita di Sandro Pertini. Un giorno da Presidente della Repubblica incontrò una scolaresca ed uno dei bambini gli chiese «Presidente, chi è il suo migliore amico?» Pertini rispose: «Il mio migliore amico era Antonio Gramsci anche se lui era comunista ed io socialista». Chi conosce la storia sa cosa significa questa risposta e chi ha orecchi per intendere intenda.

l’Unità 22.6.10
La censura arriva su internet
di Ireo Bono

In questi giorni il Senato ha approvato il cosiddetto pacchetto sicurezza con un emendamento del senatore D’Elia (UDC) identificato dall’art. 50bis: repressione di apologia od istigazione a delinquere compiuta a mezzo internet. Questa settimana il testo approderà alla Camera diventando l’art. 60. In pratica in base a questo emendamento se un qualunque cittadino dovesse invitare attraverso un blog a disobbedire (o criticare?) ad una legge che ritiene ingiusta, i providers dovranno bloccare il blog ed il blogger sarebbe soggetto ad una pena che prevede il carcere. Mi pare che questa sia una legge liberticida e che stia passando nel silenzio dei mezzi d’informazione.

l’Unità 22.6.10
Che fare
Opposizione unita per fermare la destra eversiva
di Cesare Salvi
Portavoce della federazione della sinistra

Il governo Berlusconi sta dispiegando un’offensiva antidemocratica e antisociale senza precedenti. Ai ripetuti e costanti attacchi agli organi di garanzia come la Corte Costituzionale e all’indipendenza della Magistratura si aggiunge ora la volontà di mettere mano anche alla Prima Parte della Costituzione, alterando l’equilibrio tra libertà di iniziativa economica e utilità sociale.
La legge bavaglio manifesta la volontà di colpire la libertà di informazione e l’attività di repressione dei reati per salvaguardare l’impunità delle classi dirigenti. La manovra del governo contiene numerosi elementi di iniquità sociale, oltre ad essere del tutto inadeguata a contrastare la recessione economica e i rischi di crisi finanziaria dello Stato.
Particolarmente grave è l’attacco al settore pubblico, alla scuola, alle funzioni sociali delle regioni e dei comuni. Il testo Fiat su Pomigliano, comunque lo si giudichi per altri aspetti, contiene un vulnus molto grave all’art. 40 della Costituzione, attribuendo all’azienda il diritto di licenziare i lavoratori in caso di scioperi. Di fronte a questo insieme inquietante di fatti, la mobilitazione e la protesta non può essere affidata esclusivamente ai soggetti direttamente colpiti, né è sufficiente che le singole forze di opposizione agiscano ciascuna per se, dando qualche volta l’impressione di essere più interessate ad acquisire consensi sulle proprie posizioni che a concorrere a una mobilitazione del Paese con l’obiettivo di sconfiggere i disegni antidemocratici e antisociali del centrodestra.
E non credo si possa immaginare che le divisioni, pure esistenti, all’interno della maggioranza possano frenare l’attività eversiva di questo governo.
È necessario per l’Italia che i partiti di opposizione assumano una iniziativa comune che, rispettando le legittime diversità di posizioni programmatiche, si batta unitariamente a difesa dei valori e dei diritti sanciti dalla nostra Costituzione, e, su questa base, si impegnino insieme nella mobilitazione e nella protesta.
Con quali alleanze e con quali leadership affrontare le prossime elezioni politiche è un tema certamente di grande rilievo. Ma è meno urgente rispetto al dovere di reagire contro il rischio di passività politica, che può diffondere nel Paese il convincimento di un’opposizione debole, divisa e incapace di contrapporsi efficacemente alle azioni del governo.
L’opposizione unita può dare invece un importante segnale di fiducia e di speranza ai milioni di italiane e di italiani che ci chiedono di sconfiggere questo governo, di impedire che la compressione delle libertà e dei diritti sociali e l’attacco alla Costituzione siano portati a compimento.

Repubblica 22.6.10
Quell’attacco postumo a Saramago
risponde Corrado Augias
Caro Augias, anche se viene sempre meno la voglia di scandalizzarsi, non posso fare a meno di provare vergogna per il tremendo attacco che l'Osservatore Romano ha dedicato a José Saramago dopo la morte. Un intervento pieno di livore. Un tempo la Chiesa sapeva distinguere tra peccato e peccatore affidava a Dio "misericordioso" anche l'anima di coloro che considerava irrecuperabili peccatori. La Chiesa di oggi, al centro di scandali di ogni genere, ha perso la tradizionale prudenza ed è diventata una protagonista attiva del penoso dibattito dei nostri giorni che consiste, sempre, nella demonizzazione dell'avversario, senza preoccuparsi per nulla, in particolare con Saramago, del fatto che, il pericoloso avversario, è passato a miglior (o peggior) vita, non avendo, perciò, possibilità di replica.
Antonio Cammelli Firenze cammelli.a@tiscali.it

Ha molto colpito l'attacco post mortem ad uno scrittore premio Nobel che ha onorato l'arte sua, quali che fossero le sue idee in materia religiosa. Anche in altre materie, peraltro. Per esempio sulla politica dello Stato d'Israele, da lui condannata senza mezzi termini suscitando anche in questo caso aspre reazioni. Capisco il nervosismo di un paese in questo momento in forti difficoltà. Ma l'organo ufficiale della Chiesa cattolica, che si vuole ispirata direttamente dal Cielo, avrebbe potuto argomentare con più misericordia verso un morto. Saramago vedeva nella diffusione del Male nel mondo una delle prove dell'inesistenza di Dio. Quanto meno del Dio della teologia cattolica. E' un problema antico, più volte affrontato anche da grandi spiriti, mai risolto. Credo irrisolvibile. Francesco Leporino (gransole@gransole.net) mi ricorda che: « L'uomo Saramago ha detto: "La bontà è una delle forme più alte di intelligenza!". Strappare al Cristianesimo il monopolio della bontà e iscriverlo in un pensiero illuminista, farne una categoria dell'intelligenza (e non del timor di dio) è stata una verità semplice e rivoluzionaria». Francesco de Goyzueta da Napoli (fdegoyzueta@ extratel.it) scrive: « Saramago, grande voce civile che si è appena spenta, ha detto: "Dev'essere duro vivere quando il potere politico e quello imprenditoriale si riuniscono. Non invidio la sorte degli italiani, però alla fine è nella volontà degli elettori mantenere questo stato di cose o cambiarlo". Veemente dunque, ma anche rispettoso della democrazia». Fulvio Bossino scrive: « Complimenti al Vaticano, tramite il suo organo di stampa introduce contro Saramago un nuovo genere letterario: dopo l'elogio funebre abbiamo finalmente l'insulto funebre». Andrea Sillioni (Bolsena) è secco: «Fa rabbrividire una Chiesa che teme ancora, nel duemila, l'intellettualità atea e materialista».