martedì 29 giugno 2010

l’Unità 29.6.10
Stampa e libertà
Un rischio per tutti i cittadini
di David Sassòli

La vera libertà di stampa è dire alla gente ciò che la gente non vorrebbe sentirsi dire». George Orwell la pensava così. Come mettere freni, limiti, alle libertà? Come regolare una materia che dev’essere pubblica per definizione, nel momento che la giustizia si amministra in nome di tutti? Le intercettazioni pongono problemi certo, ma il governo ha deciso di non risolverli e di imporre un bavaglio. Due i punti di partenza: da quando un atto è pubblico non possono esservi limiti alla diffusione delle informazioni; tutto ciò che non serve al processo dev’essere eliminato. Il governo invece che fa? Colpisce il diritto di cronaca e l’autonomia della magistratura. Sono troppe le intercettazioni? Non so giudicare il troppo o il poco, in un Paese che ogni giorno fa emergere casi di corruzione, attività mafiose, collusioni fra politica, finanza, criminalità e apparati dello Stato. I dati sono allarmanti e ci riferiscono di un’emergenza criminalità che mette in pericolo la sicurezza anche di altri Paesi. Non è un caso che il sottosegretario alla giustizia Usa, Lanny Breuer, abbia ribadito che le intercettazioni sono uno strumento essenziale nella lotta al crimine. Dire no alla legge bavaglio è parlare di grandi valori. Non è un problema di giornalisti e giudici, ma della sicurezza dei cittadini. Il governo ne aveva fatto una bandiera, alimentando paure e fobie, ma ancora una volta cerca di mettere in sicurezza il ceto politico rispetto agli interessi generali. Difficile spiegare in Europa quello che accade in Italia. Difficile raccontare di un Parlamento bloccato da leggi che interessano il premier mentre aumenta la disoccupazione giovanile e le imprese chiudono. Anche per questo saremo giovedì in piazza Navona.

l’Unità 29.6.10
La Corte Suprema americana ignora il ricorso della Santa Sede sugli abusi in Oregon
In Belgio si dimette la commissione interna della Chiesa dopo la polemica sulle perquisizioni
Usa, via libera a processi contro il Vaticano per la pedofilia
di Marco Mongiello

I giudici costituzionali americani hanno deciso di non prendere in considerazione il ricorso del Vaticano che invocava l’immunità. Si apre così la strada ad azioni legali contro i preti accusati di pedofilia.

Il Vaticano può essere processato per la questione pedofilia. È questo il verdetto dei giudici americani che, dopo i guai con la giustizia belga, hanno assestato un altro duro colpo alla Chiesa cattolica.
La Corte Suprema Usa ha deciso di non prendre in esame il ricorso della Santa Sede, che aveva invocato il diritto all'immunità degli Stati Sovrani nel processo contro Andrew Ronan, un prete irlandese responsabile di diversi abusi su minori e ormai deceduto. Così ha rinviato ogni decisione al tribunale dell’Oregon.
IL TRASFERIMENTO
Il Vaticano è considerato civilmente responsabile perché, nonostante fosse a conoscenza delle accuse, si è limitato a trasferire il prete dall'Irlanda a Chicago e poi a Portland, nell'Oregon. Proprio qui, nel 1965, il prete avrebbe molestato la vittima che ha fatto partire il processo. La decisione rende definitiva la sentenza della Corte d'appello e ora, prima che un rappresentante della Santa Sede possa essere chiamato a testimoniare, il tribunale dovrà decidere se il Vaticano può essere considerato un «datore di lavoro» del prete pedofilo. Sulla concessione dell'immunità l'amministrazione Obama aveva fatto sapere di essere disponibile, ma la magistratura ha espresso parere contrario in diversi gradi di giudizio. «Ringraziamo i giudici per il coraggio con cui hanno lasciato che l'azione legale vada avanti», ha dichiarato l'avvocato della vittima, Jeff Anderson, «l'azione della Corte è una risposta alle preghiere di migliaia di sopravvissuti alle molestie sessuali dei preti che finalmente avranno una chance di avere giustizia».
LE POLEMICHE
In Belgio intanto non si placano le polemiche scatenate dalle perquisizioni della polizia che giovedì, durante una riunione plenaria dei vescovi, è intervenuta in forze, ha bloccato tutti per nove ore e ha sequestrato computer, telefonini e agende per far luce sulle denunce di pedofilia contro i preti. Ieri si è dimessa in blocco la commissione della Conferenza episcopale belga che era stata istituita nel 2000 per raccogliere le denunce. «Ci dimettiamo perché la fiducia tra la giustizia e la commissione è stata deteriorata e di conseguenza anche la fiducia tra al commissione e le vittime», ha spiegato Karlinin Demasuer, uno dei membri, polemizzando contro il sequestro dei 475 dossier con le denunce della vittime che si erano rivolte alla commissione perché non volevano ricorrere alla giustizia. Domenica sera il presidente della commissione, lo psichiatra Peter Adriaenssens, aveva preannunciato la sua intenzione di lasciare l'incarico e ieri tutti i membri hanno deciso di seguirlo.
Nel pomeriggio Adriaenssens è stato ascoltato dagli inquirenti, ma la procura di Bruxelles non ha voluto precisare il ragione dell'audizione. Il ministro della Giustizia belga, Stefaan De Clerck, ha annunciato la creazione di un gruppo di lavoro per gestire la questione dei rapporti con le vittime. Il titolare degli Esteri ha invece «invitato» il nunzio apostolico a Bruxelles per un incontro aperto e costruttivo.
Da Roma intanto l'Agenzia di stampa della Cei, la Sir, ha fatto eco alle critiche alla giustizia belga «giustamente» espresse dal Papa e dal Segretario di Stato Vaticano, il cardinale Tarcisio Bertone. A questi si è aggiunto ieri il ministro degli Esteri Frattini che in un commento su Facebook ha puntato il dito contro «l'accanimento senza precedenti, il circuito mediatico globale ispirato dal laicismo senza valori». Mentre su Internet venivano pubblicate queste parole il Papa riceveva l'arcivescovo di Vienna, cardinale Christoph Schoenborn, colpevole di aver criticato l'ex Segretario di Stato Vaticano, il cardinale Angelo Sodano, per aver insabbiato le denunce sulla pedofilia, definendole «chiacchiericcio». Alla fine dell'incontro la Santa Sede ha diffuso un comunicato in cui si ricorda che solo il Papa ha il diritto di criticare un cardinale.

Repubblica 29.6.10
Per Jeff Anderson la decisione dei giudici di Washington è "un´enorme vittoria legale"
"Porterò Benedetto XVI in tribunale" esulta l’avvocato delle vittime americane
Non penso che sarà possibile processare il pontefice, ma cercherò di ottenere la sua deposizione

NEW YORK - L´aveva promesso e lo farà: «Porterò il Papa in tribunale». Ma nel giorno in cui raccoglie la vittoria - «E´ caduto un nuovo muro di Berlino» - Jeff Anderson, 62 anni, l´avvocato delle vittime dei preti negli Stati Uniti, l´uomo che scoprì che anche sua figlia fu abusata da un ex sacerdote, pensa per prima cosa alla prossima mossa: una «missione in Italia» per raccogliere le deposizioni dei cardinali Angelo Sodano e Tarcisio Bertone, che lui ritiene responsabile del cover up, della copertura, dell´insabbiatura dello scandalo pedofilia.
Avvocato, la Corte Suprema non accoglie l´appello del Vaticano. Il suo processo più andare avanti.
«E´ una grande vittoria, una vittoria enorme. Per la storia degli abusi sessuali dei preti è la caduta del muro di Berlino, la caduta della separazione tra la Germania Est e la Germania Ovest, tra l´Est e l´Occidente... «.
Ma che cosa vuol dire in concreto?
«E´ una enorme vittoria legale. Per le vittime di questi crimini è una straordinaria opportunità di avere finalmente giustizia. E di far sì che il Vaticano venga ritenuto responsabile per la sua negligenza: per la sua criminale negligenza. E per il suo ruolo nella copertura dei crimini dei preti».
Eppure non c´è stata sentenza. La Corte si è limitata a non accogliere l´appello del Vaticano.
«Ma è una vittoria enorme che la Corte ci abbia dato il semaforo verde, finalmente il via libera: dopo otto anni di impedimenti sollevati dall´inizio della causa, nel 2002, dopo otto anni di ostacoli».
Davvero a questo punto pensa di portare, come ha annunciato, Papa Ratzinger alla sbarra?
«Sì, questa à una delle cose che faremo. Ma prima cominceremo dal cardinale Sodano e dal cardinale Bertone. Al Papa ci arriveremo. Non voglio certo cominciare da lì: voglio prima raccogliere le loro deposizioni in particolare. Perché loro - uno come segretario di Stato, l´altro come Capo del collegio cardinalizio, sono stati i top guys, i personaggi chiave».
Perché proprio loro?
«Perché nelle loro posizioni sono stati al centro delle coperture per un lungo periodo. Così come lo fu il cardinale Joseph Ratzinger, l´attuale Papa Benedetto, quando aveva responsabilità nella Curia. Lui adesso è il capo supremo e non partirò nell´inchiesta da lui: ma ci arriverò».
Come farà a raccogliere queste deposizioni? Pensa di organizzare degli interrogatori in Italia?
«Sì, dovremo andare in Vaticano, organizzeremo le deposizioni, organizzeremo una missione».
Primo passo, lei dice, Bertone e Sodano. Per arrivare a portare sotto processo il Papa?
«Guardi, cercheremo come ho detto di avere la deposizione anche del Papa. Io non penso che sarà possibile processare il Papa in quanto Papa: ma il Vaticano sì. Per la prima volta avremo la possibilità di fare un processo, qui negli Usa, in cui il Vaticano può essere considerato responsabile nella copertura di quei crimini che sono gli abusi dei preti. E´ soltanto una decisione che riguarda un caso ma apre la porta ad altri casi e soprattutto al principio di responsabilità. E questa è la cosa più importante».
Come si è sentito appena avuta la notizia della decisione della Corte Suprema?
«Estasiato...».
(a. aq.)

il Fatto 29.6.10
La vera laicità? Trattare anche i vescovi come normali cittadini
Le perquisizioni in Belgio insegnano: la legge è uguale per tutti
di Paolo Flores d’Arcais

La “laicità positiva” è l’invenzione lessicale, da neolingua orwelliana, con cui il presidente francese Sarkozy nel dicembre del 2007, puntava a ridimensionare la laicità laica, la laicità coerente, ma potremmo anche dire la laicità senza aggettivi, della tradizione francese. Nella neolingua di “1984” di Orwell, infatti, le parole vengono piegate dal regime del Grande Fratello a significare l’opposto di quello che hanno sempre voluto dire.
Per fortuna dal 26 giugno 2010, esiste in Europa un’altra versione di “laicità positiva”, in cui l’aggettivo “positivo” ha in effetti il significato di “positivo” (buono, favorevole, costruttivo, proficuo, leggo nel dizionario dei sinonimi). L’interpretazione autentica dell’unico senso che può avere in una democrazia liberale l’espressione “laicità positiva” l’hanno data i gendarmi belgi inviati dal procuratore di Bruxelles a perquisire le sedi della conferenza episcopale e a sequestrare ogni documento utile per portare in giudizio i preti pedofili di quel paese fin qui sfuggiti alla giustizia.
I vescovi, che erano riuniti in assemblea, sono stati trattati esattamente come sarebbero stati trattati i membri di qualsiasi altra potente organizzazione su cui pendesse il sospetto di avere con il proprio comportamento sottratto alla legge, per anni e anzi decenni, dei pericolosi criminali. Per tutte le ore della perquisizione (nove, per l’esattezza) è stato loro impedito di uscire dall’edificio e di usare il telefono portatile. Di comunicare, insomma, con possibili complici. Nessun democratico può perciò parlare di “fatto inaudito e grave… di cui non ci sono precedenti neanche nei regimi comunisti di antica esperienza”, se un vescovo viene trattato esattamente come ogni altro cittadino. Il cardinale Tarcisio Bertone – segretario di Stato di Papa Benedetto XVI – invece lo ha fatto, evidentemente ignaro che in una democrazia “la legge è eguale per tutti”. Gli aveva già risposto in anticipo l’ex premier del Belgio, Yves Leterme, ricordando che “chi ha commesso abusi deve essere perseguito e condannato secondo la legge belga” e aggiungendo che le investigazioni “sono la prova che in Belgio esistono poteri separati tra Stato e Chiesa”. Yves Leterme non è un “comunista di antica esperienza” ma un democratico-cristiano. Per il quale evidentemente conta anche la prima parte della definizione, a differenza del cardinal Bertone. Fa dunque una figura assai meschina, democraticamente parlando, Joseph Ratzinger, sceso a dar manforte (“sorprendenti e deplorevoli modalità delle perquisizioni” ) al cardinal Bertone proprio mentre il portavoce della Procura di Bruxelles respingeva l’aggressione del cardinale segretario di Stato con un perentorio “le perquisizioni sono state condotte da professionisti che conoscono molto bene il loro lavoro e che rispettano i diritti delle persone”. È dunque evidente che la questione della laicità è oggi per l’Europa una questione centrale e ineludibile. Per il Papa vale la logica che, quando in una vicenda sono implicati dei preti (e Dio non voglia vescovi o cardinali), “la giustizia faccia il suo corso”, ma “nel rispetto della reciproca specificità e autonomia” di Stato e Chiesa. Frase in apparenza innocua, che dovrebbe andare da sé, traduzione burocratica del più eloquente “dare a Cesare quel che è di Cesare, e a Dio quel che è di Dio”, se non fosse per il fatto che il Papa pretende di essere poi lui a decidere se e quando lo Stato prevarichi, se e quando un membro della gerarchia debba rispondere a un magistrato. Pretende di essere lui, insomma, e non un tribunale civile, a decidere quali siano i confini tra le due giurisdizioni.
Si dirà però che non si possono trattare i vescovi di un paese come dei “sospetti” di compiacenza o addirittura omertà verso dei criminali (in questo caso dei pedofili), e che il comportamento della giustizia belga è dunque “non si sa se grottesco o ignobile” (Vittorio Messori). Obiezione francamente spericolata, visto il precedente del vescovo di Bayeux-Lisieux monsignor Pierre Pican, condannato a 3 mesi con la condizionale dalla giustizia francese per essersi rifiutato di testimoniare sulle attività pedofile, a lui note, di un prete della sua diocesi, e che per questo modo omertoso di “rispettare la reciproca specificità e autonomia” tra Stato e Chiesa ricevette, tramite il cardinal Castrillón Hoyos, l’encomio entusiasta e solenne di Giovanni Paolo II. Proprio mentre il Belgio (tradizionalmente cattolico) spiegava con i fatti cosa debba significare “laicità positiva”, la Corte costituzionale tedesca legalizzava definitivamente l’eutanasia passiva, annullando la condanna di un avvocato che aveva consigliato a un proprio cliente di tagliare il tubo della flebo di un suo parente tenuto in “vita” artificialmente e contro la sua volontà. La Chiesa luterana ha approvato la sentenza, quella cattolica no, per “la sensazione che la differenza tra eutanasia attiva e passiva non sia stata presa sufficientemente in considerazione”. E in effetti, in un quadro di laicità davvero positiva il passo successivo – logicamente e giuridicamente inevitabile – è il diritto alla decisione sovrana di ciascuno sul proprio fine vita. Se, come ha stabilito la Corte costituzionale tedesca, “il paziente può decidere di rifiutare trattamenti di prolungamento artificiale della vita anche in caso di morte non imminente”, perché evidentemente non considera più la sua “vita umana” ma disumana tortura, non si vede perché per porre fine alla tortura non possa chiedere interventi attivi. Nel cattolico Belgio infatti, come nella protestante Olanda, ciò è già possibile.
Il Belgio, come hanno di mostrato le recenti elezioni, vive un momento carico di problemi politici non invidiabili. Ma sotto il profilo della laicità è indubbio che oggi sarebbe necessario “più Belgio” in ogni paese d’Europa.

l’Unità 29.6.10
Chiesa preoccupata per l’8 per mille:
calo del 4 per cento
Il timore è che gli scandali possano influire nelle scelte di chi in questi giorni sta decidendo le donazioni del 730. Poche settimane fa l’allarme della Cei per i gettiti 2005, 2006, 2007
di C. Fus.

Una risposta, certo. Una presa di posizione chiara, anche. Ma nelle puntualizzazioni e nelle ammissioni che ieri il Vaticano ha voluto fare a proposito del ruolo di Propaganda Fide nell’inchiesta su sistema gelatinoso e cricca c’è anche chi intravede un ten-
tativo di salvare il salvabile in tempi di 730 e Unico e dichiarazioni dei redditi e gettito Irpef. In una parola: un tentativo di tamponare la continua, seppur lenta, emorragia di donazioni tramite 8 per mille.
Il Concordato stabilisce che lo Stato deve aiutare anche economicamente la Chiesa. L’autostrada delle offerte è nelle dichiarazioni dei redditi dei circa quaranta milioni di contribuenti italiani e nella destinazione del loro 8 per mille. Ora, ai primi di giugno l’Assemblea dei Vescovi (conclusa il 28 maggio) ha diffuso una nota preoccupata da cui «risulta che nel 2007 le firme a favore della Chiesa cattolica sono state l’85,01 per cento del totale, contro l’86,05% del 2006 e l’89,82% del 2005». Quasi il quattro per cento in meno in tre anni. Il dato definitivo del 2008 non è ancora disponbile, quello del 2009 può essere integrato fino a settembre di quest’anno. Non sono disponibili cifre ufficiali ma il trend è in costante diminuzione. Le dichiarazioni dei redditi del 2010 sono in corso d’opera ed è chiaro che Santa Sede e Cei sono in apprensione sull’entità del gettito di quest’anno. Un anno sicuramente molto particolare per la Chiesa da qualche mese sulle prime pagine di tutto il mondo per lo scandalo pedofilia. E nelle ultime settimane anche per gli affari della cricca che avrebbero avuto Propaganda Fide e il suo patrimonio immobiliare al centro di un ipotizzato scambio di favori. Se è impossibile trovare conferme ufficiali, la tendenza al calo delle firme per la Chiesa sembra essere confermato dalle prime ricognizioni tra Caf e studi di commercialisti. Nella relazione ai vescovi presentata dal Segretario generale della Cei, monsignor Mariano Crociata ha spiegato che «nel 2007 alla Chiesa cattolica sono andate 14.839.143 adesioni, 95.104 in meno rispetto all’anno precedente». Un calo, quindi, sia percentuale che assoluto. A cui, però, sempre nel 2007, ha corrisposto un aumento delle entrate grazie al maggior gettito fiscale e quindi del denaro versato alla Chiesa dallo Stato. Grazie al gettito fiscale 2007, nel 2010 alla Chiesa sono andati 1.067 milioni di euro, contro i 967 del 2009, quasi cento milioni in più. Il gettito fiscale è purtroppo calato negli ultimi due anni. Se viene sommato alla sfiducia figlia degli scandali, lo saranno anche le offerte alla Chiesa cattolica. Il gettito dell’8 per mille è così ripartito: 20% in beneficienza; 35% per gli stipendi del clero, il 45% per le esigenze del culto.

Repubblica 29.6.10
L’anticipazione. Il saggio di Prosperi sul cattolicesimo in Italia
L’età moderna e la religione
di Adriano Prosperi

Questa è la fase storica in cui si delineano le forme rituali e istituzionali

Anticipiamo un brano dell´introduzione di al suo "Eresie e devozioni. La religione italiana in età Moderna", raccolta di studi storici pubblicata da "Edizioni di Storia e Letteratura"

Queste ricerche riguardano una fase storica di conflitti religiosi nati dai contrasti e dai dubbi su quale dovesse essere la religione della popolazione della penisola. Solo il modo e i mezzi con cui furono regolati i rapporti di forza dovevano decidere i lineamenti futuri di tale religione, quelli che dovevano diventare abituali e familiari alle generazioni dei secoli successivi. Il campo dove si è svolto il lavoro è quello compreso tra la fine del ‘400 e l´età del Concilio di Trento e della Controriforma. Un´età lontana nel tempo ma fin troppo vicina per una ragione molto semplice: l´unità del popolo italiano ha una radice nel cattolicesimo tridentino e nella pratica sociale delle forme rituali e istituzionali in cui si esprime l´appartenenza a una religione. L´Italia appariva a Alessandro Manzoni «una d´altare»: e la definizione continua a risultare esatta. Così come accadeva ieri ai coscritti dell´esercito nazionale di leva, ancor oggi gli italiani continuano a essere censiti meccanicamente come cattolici a prescindere dalle loro convinzioni e dalle pratiche in cui si manifesta la loro religiosità, anzi evitando in ogni modo di inquietarne il senso di conformità per non dire il conformismo di quella religione «sociologica» che ha preso da secoli il posto della scelta di coscienza individuale. Hanno ragione i teologi cattolici quando ci ricordano che nessuno nasce cristiano perché, a differenza di ebrei e islamici, è il battesimo individuale a rendere cristiano chi lo riceve. Ma in Italia - e non solo in Italia - il battesimo non è più da secoli la scelta dell´adulto che si converte, come lo fu per Sant´Agostino. In Italia e nelle società a maggioranza cattolica il battesimo si amministra ai neonati ed è, insieme alla prima comunione, al matrimonio e ai funerali, un rito di passaggio entrato nel costume collettivo dal quale ci si può dissociare solo a prezzo di scelte meditate e socialmente impopolari. L´«altare» manzoniano è un sistema di riti e di pratiche che inquadrano la vita sociale senza richiedere lo sforzo di una scelta consapevole di fede personale. Intorno alla chiesa si svolgono forme politiche e sociali di solidarietà e di controllo la cui genesi o giustificazione religiosa ha cessato da tempo di sembrare problematica e di richiedere un consenso meditato dei singoli. Proprio per questo valore di cemento sociale il cattolicesimo italiano appare come un tesoro di incalcolabile valore a chi tenta la scalata al potere politico coi mezzi democratici del voto o col plebiscito e i sondaggi d´opinione: da ciò nascono quelle che a prima vista possono apparire come strane contraddizioni, qual è la difesa da parte di movimenti e partiti neopagani della presenza del crocifisso nei luoghi pubblici (scuole, aule di giustizia) o quella dell´insegnamento obbligatorio della religione cattolica nella scuola pubblica. Chi sostiene scelte del genere lo fa in nome della trasformazione ormai avvenuta di quei simboli religiosi in arredi civili e di quei precetti teologici in un misto di cultura popolare e norme di buona creanza. Questo è il prezzo pagato dalla Chiesa cattolica per iscriversi nell´ambiente italiano come un dato di natura più che di cultura.
Non è stata una scelta esclusiva e riservata all´Italia. Anche in altri paesi e in altre culture la Chiesa come potere e come cultura ha proposto una scelta di questo genere, perseguendo la politica dei concordati e offrendosi come garante della pubblica tranquillità e dell´obbedienza del popolo ai poteri costituiti. Come osservò Fiodor Dostoevskij, un ritorno di Gesù Cristo sulla terra incontrerebbe sempre il fermo diniego di un qualche Grande Inquisitore in nome della tutela dell´ordine pubblico e dell´assetto esistente. Né si deve invidiare la condizione di quei paesi dove una minoranza cristiana soffre intolleranze e persecuzioni. Ma il problema nasce quando la presenza egemonica di una confessione religiosa si traduce in pulsioni di intolleranza e di prevaricazione sui diritti individuali dei cittadini. In altre culture europee l´eredità delle guerre di religione ha lasciato nella costituzione politica e nella coscienza pubblica un sedimento importante che in Italia è mancato: la concezione dello spazio pubblico come distinto e separato dalle private convinzioni religiose. Su quel terreno è nata una cultura dei diritti che oggi, attraverso gli organismi internazionali, scopre quotidiane occasioni di conflitto con la prassi prima e più ancora che col diritto vigente in Italia, dove l´ingresso nella Costituzione repubblicana di solenni affermazioni in materia di diritti stenta a tradursi in regole effettive.
La questione si riapre oggi per il semplice fatto che la religione cattolica come forza collettiva governata da autorità centrali è scossa in profondità dal conflitto tra l´assetto arcaico di un corpo sacerdotale gerarchicamente ordinato e determinato a guidare i comportamenti e le convinzioni dei singoli e, dall´altro lato, quell´apertura ai valori affermatisi anche in Italia contro di esso - la libertà di coscienza, la difesa dei diritti individuali di disporre della propria vita - che si è diffusa tra i laici cattolici e si è fatta strada tra le voci e nei documenti del concilio Vaticano II.


l’Unità 29.6.10
L’appello. Le «Lettere dal carcere» vengano adottate come testo nelle ultime classi delle superiori
Cara Gelmini. Tra i firmatari Fo, Consolo, Loy, Agosti: scritti cruciali per la storia e la cultura italiana
Gramsci, un classico per la scuola come (e più di) Dante e Manzoni
di Bruno Gravagnuolo

Le «Lettere dal carcere» accanto a Leopardi, Dante, Manzoni etc? Certo: è il contenuto di un appello che non ha niente di ideologico: quella di Gramsci è una figura essenziale per la comprensione del ‘900 italiano.

Sarà dura con la Gelmini, ma la notizia c’è e vale la pena tentare: le Lettere dal carcere di Antonio Gramsci come testo italiano del 900 nelle ultime classi degli Istituti superiori. La notizia è un appello, lanciato giorni fa, durante la cerimonia di conferimento del «Premio Gramsci-Ales 2009» su un’idea della vincitrice per la letteratura: la scrittrice ed ex insegnante Margherita Pinna. E l’appello per le Lettere gramsciane a scuola è stato già sottoscritto da centinaia di firme di adesione, fra le quali quelle di Dario Fo e Franca Rame, Vincenzo Consolo, Rosetta Loy, Paola Capriolo, Silvano Agosti, Renzo Rossellini, Valerio Magrelli, Giancarlo Nanni, Giuliano Montaldo, Leo Gullotta, Bianca Pitzorno, Renato Minore, per citarne alcuni.
Parterre variegato che si va via via arricchendo, di critici, scrittori, registi, attori, giornalisti. Per una battaglia «impossibile» di questi tempi leghisti e berlusconiani, nei quali c’è da scommetterci, subito da destra e dal fronte moderato si griderà alla solita operazione ideologica vetero-comunista e zdanoviana.
E invece quell’appello, rettamente inteso, è sacrosanto, o quantomeno utile. Poiché intanto richiama l’attenzione su una pagina splendida di storia italiana. Pagina letteraria e politica di tale significato generale da travalicare ogni steccato ideologico. Infatti in quelle lettere scritte dal 1926 al 1937, anno della morte del prigioniero, è condensata una straordinaria Odissea morale, intrecciata alla tragedia del fascismo e a quella del totalitarismo sovietico. Nelle cui maglie un uomo soloe davvero non è retorica schiacciato dai macigni della storia, osò pensare, resistere, immaginare il passato e il futuro. E persino intessere amicizia e amore da lontano, con i figli quasi a lui sconosciuti, la moglie, la madre, la sorella, i compagni di cui si fidava, e i compagni e gli italiani del futuro anteriore, che sarebbero venuti dopo di lui.
Cosa c’è in quelle lettere pubblicate per la prima volta da Togliatti per Einaudi nel 1947, quel Togliatti geniale di cui pure Gramsci diffidava almeno dal 1926, quando il Migliore appoggiò la repressione di Stalin contro Trotzki? Lo abbiamo detto, in parte. Innanzitutto, in una fitta trama con la cognata Tatiana, i familiari e l’economista Sraffa, la volontà di resistere all’annientamento fascista. E a quello della malattia, che in carcere comprimevano la sua mente. Ma il tutto, ecco il punto, senza risentimento, né autocompiacimenti eroici. Nella piena e «normale» assunzione di responsabilità da parte di Gramsci del suo destino «autodestinato»: ovvio, scriveva più o meno alla madre, che uno come me e con le sue scelte finisca così di questi tempi... E il prigioniero annotava ancora, proprio in una delle sue lettere, e in una pagina dei Quaderni (sempre «dal carcere») che ambiva ad essere un «uomo medio», che «ha le sue convinzioni profonde e non le baratta per niente al mondo». Perché «uomo medio»? Non solo per virtù antiretorica e disdegno delle pose. Ma per una ragione più profonda, legata al motivo ispiratore di tutta la sua opera. E cioè: essere «medi» per Gramsci era la sola possibilità di capire la storia, vicenda grandiosa e «terra-terra». Dove le idee sono briciole e semi sminuzzati che muovono nel quotidiano le menti di milioni e milioni di individui, inconsapevoli o semiconsapevoli. Ecco, essere «medi» per Gramsci, significava stare nel cuore delle cose, per farsene una ragione e convertirla in azione volta al mutamento e alla liberazione.
E però non c’era nelle Lettere solo il disperato tentativo di «Nino» di restare lucido e autocostruirsi ancora, malgrado il degrado feroce a cui lo sottoponevano gli aguzzini italiani (e anche i compagni italiani e staliniani a Turi, che lo trattarono come un traditore). C’era pure il programma di una grande opera a futura memoria: I Quaderni. Con il loro sommario dispiegato: «gli intelletuali italiani», «linguistica comparata», «il teatro di Pirandello», «la letteratura popolare». Programma che benché non eseguito e solo abbozzato, andrà al di là di uno studio carcerario per distrarsi e resistere. E quel disegno è un’intera filosofia politica. Ricavata dallo studio storico del «come» le idee diventano potenza materiale e simbolica. Finalizzato a un obiettivo: l’autoliberazione dei ceti subalterni dal dominio proprietario e borghese. Senza nulla buttare della grande eredità borghese o dei meriti «a metà» del Risorgimento. Nonché dei pregi della grande filosofia nazionale: Croce e Gentile (ma Gramsci apprezzava anche Sorel, Nietzsche e Bergson). E ancora, nello scrigno delle Lettere: la ricerca di uno stile espressivo. Di una lingua degna di essere parlata, veicolo di emozioni e relazioni. La lingua come potenza espressiva che inserisce i sentimenti in un destino comune: di amicizia, amore e lotta. E poi i richiami alle fiabe, di cui Gramsci era conoscitore, per arrivare alla mente e ai fantasmi dei bambini, e per parlare al loro cuore di «persone». E i richiami al dialetto, sardo e non solo, cellula formativa essenziale per Gramsci, italiano cosmopolita persuaso che senza radici emotive personali non c’è spinta vitale verso un mondo di tutti. Infine, Gramsci e suoi compagni e l’amaro dissidio col Togliatti tatticamente staliniano.
L’altra grandezza raccontata delle Lettere: restare fedeli ai compagni, anche se questi ti mollano. Fedeli per sé, per loro e per tutti noi venuti dopo. Sì dunque a Gramsci, accanto a Dante, Manzoni, Leopardi, Machiavelli. A scuola sarebbe una prima linea formidabile.

l’Unità 29.6.10
De Sade? Un filosofo rivoluzionario che predisse Freud
Il «divino marchese» colmò un vuoto della Rivoluzione francese: il diritto di ogni essere umano di soddisfare le proprie pulsioni sessuali
di Renato Barilli

Abbiamo già evocato l’ombra di Sade, a proposito del quadrilatero impostato dal Laclos di cui, del resto, il Divino marchese (1740-1814) fu quasi un perfetto coetaneo, però con l’avvertenza che per passare dall’uno all’altro bisogna capovolgere la visuale: il male che i protagonisti delle Relazioni pericolose tramano incessantemente è partorito nell’oscurità, nei recessi della mente, o appunto affi dato al segreto epistolare, perché, se venisse rivelato, si meriterebbe la condanna unanime della casta nobiliare ancora pienamente insediata al potere.
Sade invece ne farebbe i requisiti di un insegnamento obbligatorio, all’altezza degli assunti generali della sua fi losofi a. In altre parole, egli è un filosofo, il terzo grande del Settecento francese, dopo Voltaire e Rousseau, magari con l’aggiunta a latere di Diderot, ma anche con la conseguenza (già verifi cata nei casi precedenti) che queste prestazioni di autori filosofi, benché assai alte nel profi lo generale della cultura del secolo, strappano esiti alquanto minori, in sede specifi camente narrativa.
Così è anche nel caso di Sade, in cui la narrazione è schematica, ripetitiva, esattamente come avveniva nei romanzi a tesi voltairiani, non nella Giulia rousseauiana, dove semmai il limite sta in una retorica troppo paludata e diffusa, che però sa fare il giusto posto anche alle ragioni del sentimento.
Ma dunque, in sostanza, questi filosofi narratori vanno giudicati, e stimati, in primo luogo per la profondità dei rispettivi messaggi teorici, nei cui confronti la narrazione assume un compito ancillare. E profondo, radicale è senza dubbio il messaggio lanciato da Sade, nella sua unilateralità, nella sua oltranza quasi maniacale. In fondo, egli è venuto per porre rimedio ai gravissimi limiti che il senno del poi, partorito nel corso dell’Ottocento e più ancora del Novecento, ha scoperto negli immortali principi del 1789, che magari immortali sono davvero, e tuttora validi, ma appaiono reticenti e incompleti su tanti fronti. C’è in essi un totale vuoto e silenzio per quanto riguarda i diritti del quarto stato, cioè del proletariato, che prima ancora di esercitare una libertà di pensiero o ottenere un’uguaglianza giuridica e politica, avrebbe voluto essere liberato dai bisogni materiali, avere pane a suffi cienza, lavoro decoroso e a ritmi sostenibili. Sia ben chiaro che di rivendicazioni del genere l’opera di Sade non si occupa per nulla, apparendo ancora intenta a mettere in scena i rappresentanti della nobiltà, aristocratici con le borse floride, così da poter praticare un costume sessuale totalmente libero. Ma appunto questo è l’altro versante che la Rivoluzione francese non ha affatto toccato: il diritto spettante a ogni essere umano di soddisfare le pulsioni sessuali, l’eros primario da cui è dominato, senza prescrivergli limiti e censure artifi ciose. Ovviamente, la Rivoluzione francese, anche nelle predicazioni pur liberatorie di Voltaire e di Rousseau, non dava posto né a Marx né a Freud (...).
E beninteso, come già accennato, non c’è Marx nelle elucubrazioni del Divino marchese, ma un Freud anticipato di quasi un secolo, con una perentorietà e un estremismo che poi non ritroveremo nel padre della psicoanalisi. Freud verrà per diagnosticare la presenza insopprimibile del continente oscuro dell’Es, dell’eros, della libido, ma pure ad ammonire che la civiltà consiste nel trovare un giusto equilibrio, tra quelle spinte e le censure, che pure ci devono essere, se si vogliono alimentare gli alti costi del progresso. Sade ha l’estremismo del primo scopritore, che non si concede freni, getta sul tavolo l’intera posta, con assoluta univocità.

Repubblica 29.6.10
In treatment
"Attori magici e grande scrittura il segreto di una serie di culto"
Parla l´israeliano Hagai Levi che ha creato il telefilm interpretato nella versione americana da Gabriel Byrne
di Leonetta Bentivoglio

ROMA. STORIE dell´anima per una tivù "diversa", di asciuttezza radicale, affidata a segni nitidi e taglienti. Ritratti di persone in un interno, davanti a un terapista che ha il volto empatico e malinconico di Gabriel Byrne, confessano cicatrici e ricordi usando solo la forza delle parole. Hit anti-spettacolare, formula anomala divenuta fenomeno sociale. In Treatment, serie tivù acclamata in mezzo mondo (è in corso di fattura la terza stagione), sta generando un´onda lunga di adattamenti in più paesi, vogliosi della loro terapia. «Forse accade perché oggi è diffuso il bisogno d´ascolto», sostiene lo scrittore e regista Hagai Levi, che ha inventato lo psico-serial israeliano Be´Tipul, modello-base da cui è nato In Treatment. «Pensi ai talk show televisivi, dove tutti parlano e nessuno ascolta. Un ascolto attivo e vibrante è già un passo verso la verità. In un´epoca di crisi le parole, e gli effetti che producono, rivendicano più che mai la loro importanza», prosegue Levi, giunto in Italia nell´ambito di un ciclo di inviti a grandi creatori di serie tivù organizzato come premessa del RomaFiction Fest (dal 5 al 10 luglio).
Quando e come ha ideato il suo fortunatissimo progetto?
«In Israele sono cresciuto in un Kibbutz dov´era stata avviata una sperimentazione psicoterapeutica per i bambini, e a cinque anni vi ho partecipato perché soffrivo d´ansia e crisi di panico. Poi anche in seguito mi sono sottoposto a psicoterapie. Ho anche studiato per tre anni psicologia, e lavorando come regista mi sono accorto subito che le scene che mi riuscivano meglio erano quelle dei dialoghi con ampio uso di primi piani. Così ho pensato a una serie che seguisse in tempo reale gli incontri tra uno psicoterapeuta e i suoi pazienti, uno al giorno nell´arco di una settimana, col venerdì dedicato a una seduta del terapista analizzato dal supervisore. Idea per me irresistibile, eppure nessuno mi dava retta».
Non trovava produttori?
«Mi respingevano dicendo: a chi può interessare questa roba intellettuale? Tra l´altro il progetto non era dispendioso, come ho verificato girando a mie spese due episodi pilota: bastavano due attori e un appartamento. Finché la Hbo ha deciso di fare la serie programmandola di notte».
La risposta del pubblico è stata immediata?
«Quasi. Nella prima settimana sono uscite buone recensioni, e già alla terza tutti parlavano del programma. Be´Tipul è diventato presto una moda, al punto che in Israele c´è stato un forte incremento delle psicoterapie. Credo che la chiave del successo stia nell´alto livello della scrittura, oltre che nella scelta di attori magici, capaci di trasmettere davvero una interiorità. Il terapista in Israele è Assi Dayan, figlio del generale Moshe: interprete di grande intelligenza che lavora anche come sceneggiatore e film-maker».
Come ha costruito concretamente la serie?
«Formando un buon team di registi e scrittori e dandomi il ruolo di show-runner, cioè di coordinatore delle diverse energie creative. Ogni personaggio ha il suo sceneggiatore personale, che è artefice del vissuto di quel paziente, fondamentale per la terapia. Di ciascun episodio, pensato sempre come un play in tre atti, ci sono diverse stesure, e in Israele io provvedevo a quella conclusiva tenendo conto del punto di vista del terapeuta, essendo ogni autore coinvolto nella prospettiva esclusiva del proprio paziente. Quando Rodrigo García, figlio dello scrittore García Marquez e regista, ha comprato il format negli Stati Uniti, mi ha voluto come consulente. Ora sono in corso tredici adattamenti in altrettanti paesi, Italia inclusa».
Come si può far viaggiare i personaggi in contesti diversi da quello israeliano senza modificare fisionomie e comportamenti?
«I ruoli devono adattarsi al territorio. Esempio: c´è il pilota che ha traumi devastanti da affrontare, avendo provocato una strage di bambini. In Israele quest´uomo ha un padre sopravvissuto all´Olocausto, e la figura paterna, di peso enorme per l´inside del pilota, andava riprodotta nell´edizione Usa, dove il pilota torna dalla guerra in Iraq. Ne abbiamo quindi fatto un nero il cui padre è stato vittima della violenza del Ku Klux Klan. Quanto alla versione italiana, il pilota sarà un agente operativo in un´unità anti-mafia: in ogni paese va identificata una ferita centrale che imprima autenticità alla serie».

Repubblica 29.6.10
Mario “Trevi
“Da Jung a Fellini amo le zone d’ombra”
di Antonio Gnoli

"Bisogna diffidare degli uomini completamente trasparenti e luminosi Credo che ognuno di noi debba accettare il proprio lato oscuro"
Ha ottantasette anni ed è uno dei grandi psicoanalisti italiani Il suo eccentrico maestro è stato l´ebreo tedesco Ernst Bernhard

ROMA. Sulla grande scrivania, dietro la quale Mario Trevi siede, non ci sono oggetti né libri, né ricordi. E´ una superficie libera come una pianura, come un foglio di carta. Sulla quale si notano le grandi mani che ogni tanto vi vengono poggiate. Trevi ha da qualche mese compiuto 87 anni, è uno dei grandi psicoanalisti italiani. Le cronache lo definiscono di scuola junghiana. Ma credo che nel suo metodo, nella sua analisi ci sia qualcosa di più e di diverso. Mentre parla con voce lievemente bassa, penso che quest´uomo sia soprattutto abituato ad ascoltare. Ha un tono affabile, perfino mite. Le parole non sovrastano i concetti e le storie che egli racconta. E´ schivo e ordinato, acuto ed essenziale.
Ha una moglie e una figlia - due psichiatre - e un figlio, Emanuele, che è un noto e bravo scrittore. Anni fa, padre e figlio diedero vita a una bellissima conversazione, che poi divenne un libro (Invasioni controllate, Castelvecchi). Mi colpiva di quell´incontro la disponibilità reciproca, l´apertura massima, l´intesa al limite della complicità. «Ho avuto Emanuele a 42 anni e lui, quando è diventato adulto mi ha spesso vissuto come il vecchio padre da proteggere. Lo trovo bello. Ma immagino che dovrò parlare soprattutto di me», dice con tranquillità.
Dottor Trevi, ci dica qualcosa delle sue origini.
«Sono nato ad Ancona, mia madre era una langarola. Ricordo la casa della nonna materna, un palazzotto che ereditammo, non so come, dal quale si vedevano tutte le Alpi. Mio padre era ingegnere. Aveva lavorato in Africa e fu fatto prigioniero dagli inglesi durante la guerra. Morì poco dopo il suo ritorno ad Ancona. La vita per noi, si complicò. Diventammo poveri, anche in seguito alle leggi razziali. Studiavo e mi mantenevo con i lavori più umili. Mi laureai a Bologna, in filosofia con una tesi su Berdjaev. Ricordo che i miei amici mi prendevano in giro dicendomi: come fai ad occuparti di Berdjaev e insieme ad essere iscritto al partito comunista?».
Berdjaev era un intellettuale russo che Lenin cacciò via dopo la rivoluzione. In effetti il Pci l´avrebbe potuta accusare di connivenza con il pensiero borghese e reazionario. Come affrontò la questione?
«Semplicemente uscendo dal partito nel 1948. Cominciava a infastidirmi la versione edulcorata dell´educazione marxista su come si dovevano leggere i libri. Erano le direttive di Zdanov».
Ma secondo lei che cosa accadde nella testa di molti intellettuali che accettarono quel tipo di imposizione ideologica?
«Semplicemente ribadivano il bisogno di fede e di una verità incontrovertibile».
Una fede religiosa, al punto che un partito, come quello comunista, poteva essere considerato una chiesa?
«Sì, qualsiasi fede ha un fondo nascosto, inconscio, di tipo religioso. Fede implica abbandono del bisogno del giudizio critico, rispetto alla parte cui si è aderito».
Uscito dal Pci, cosa fece?
«Continuavo a lavorare e a studiare. Ebbi la fortuna a un certo punto di essere trasferito a Roma in un ufficio di carattere finanziario. Ricordo che stabilii un patto con il direttore: avrei prodotto lo stesso lavoro degli altri colleghi in un tempo più breve, dedicando il resto della giornata lavorativa a quello che volevo. Fu un accordo segreto e intelligente. Poi, mi pare nel 1964-65, ci fu un concorso per insegnare nei licei e lo vinsi. Girai in varie scuole d´Italia, l´ultima fu a Formia. Facevo tutti i giorni avanti e indietro con Roma».
Ma quando nacque il suo interesse per la psicoanalisi?
«Nei primi anni romani frequentavo un gruppo di amici, tutti più o meno contagiati da Freud e Jung. E col tempo mi accorsi di patire nei loro riguardi una sorta di nevrosi di adattamento. Sentii parlare di uno psicologo ebreo tedesco, un certo Ernst Bernhard, che era riuscito a sfuggire a Hitler e si era rifugiato in Italia. Dove in seguito fu rinchiuso in un campo di concentramento. Quando finì la guerra Bernhard si stabilì definitivamente nel nostro paese. La sua storia mi incuriosiva».
Accennava al suo primo incontro con lui.
«Sì, andai a trovarlo. Abitava in una casa meravigliosa dalle parti di San Luigi dei Francesi. E fin dal primo momento sentii in lui una personalità paterna. Stetti in analisi per tre anni. Poi, grazie anche al consiglio di un´amica, gli chiesi se accettava di prendermi per un´analisi didattica e fu così che intrapresi la professione di psicoanalista».
C´è differenza tra fare l´analisi a un paziente e farla didatticamente a un allievo?
«Differenze tecniche non ce ne sono. Ma di clima sì. Nell´analisi didattica ci si sente più vicini e questo consente forse un approfondimento maggiore. Dico forse perché sul momento non ci si accorge di nulla. Solo a posteriori si capisce che la didattica ha portato qualcosa di nuovo».
Bernhard era molto legato a Jung?
«Non in modo così evidente come si è cercato di mostrare. Tra loro non ci fu un grande contatto. Nel suo travagliato passaggio da Berlino a Roma, Bernhard si fermò a Zurigo, ma non credo che egli fece una vera analisi con Jung. Era già un medico specializzato in pediatria e proveniva da un lavoro serio svolto con un freudiano di Berlino. Insomma, credo fosse dotato di un certo eclettismo».
So che leggeva anche la mano. Come giudica quella sua inclinazione?
«Diciamo che l´accettai, perché sentivo che la ragione e la coscienza critica avevano in lui un peso che poteva compensare sia il ricorso all´astrologia che alla chiromanzia. Naturalmente mi chiese di fare l´oroscopo. Gli risposi che non conoscevo esattamente la mia data di nascita. Perché, sebbene ufficialmente fossi nato il 3 aprile, mio padre temo avesse sbagliato giorno».
Ma Bernhard era o no uno junghiano? Gli aspetti insoliti che lei mette in luce indurrebbero al sì.
«Si dichiarava junghiano, ma era un meraviglioso interprete dell´immaginazione, soprattutto onirica. In ogni caso con me non esagerava gli aspetti misticheggianti che pure in Jung sono presenti».
Con Bernhard fecero analisi molti artisti e letterati, tra cui Manganelli e Fellini. C´è un motivo particolare per cui si rivolgevano a lui?
«Bernhard era dotato di un´intuizione formidabile. Credo che questo affascinasse le persone dotate di talento artistico. Io divenni amico di Fellini negli ultimi anni della sua vita. Un giorno mi cercò e al momento non ne compresi la ragione. Scherzando mi capitò più volte di chiederglielo. Su questo punto evitava di rispondermi. Poi, ho capito che mi aveva cercato perché ero il più vecchio allievo di Bernhard e lui voleva, attraverso me, assorbire gli ultimi sprazzi di quel mondo e di quella intelligenza».
L´intelligenza di Fellini era maliziosa e innocente. Non trova?
«Con lui la verità sembrava inglobata in una sfera ironica. Sapeva essere molto piacevole e divertente. I nostri rapporti non andarono però mai al di là del lei. Ogni tanto proponeva di darci del tu. Ma la mia timidezza, e anche la sua in fondo, non consentivano un passaggio dal rispettoso lei al confidenziale tu».
Negli ultimi anni della sua vita Fellini lavorò poco e credo che ne soffrì molto. Lasciava intuire qualcosa del suo stato d´animo?
«Avvertivo il disagio e ascoltavo le sue lamentele. Credo provasse una forte delusione per il modo in cui il cinema lo stava abbandonando. La malattia aggravò il quadro. E la sua morte fu un grande dolore per me e mia moglie che lo aveva conosciuto».
A proposito del dolore, che cosa pensa dell´indicazione junghiana che lo psicoanalista deve entrare in empatia con la sofferenza del paziente?
«Non esagererei questo aspetto della terapia junghiana. La sopportazione del dolore del paziente è un problema per tutti gli psicoterapeuti. E quando c´è un coinvolgimento empatico il problema si aggrava. Direi che è l´esperienza che deve guidare l´analista».
Come trattano Freud e Jung l´inconscio?
«Per Freud l´inconscio è il luogo della rimozione. L´uomo non sopporta determinati pensieri, immagini, pulsioni e li rimuove. Jung oltre a questo vede un inconscio collettivo. Ma aggiungerei che partendo da qui si rischia di non capire nulla delle loro differenze. Il primo problema, sul quale Jung si scontra con il maestro, è nel riconoscimento che la personalità dello psicologo, come costruttore di teorie psicologiche, entra inevitabilmente nelle teorie stesse. L´idea junghiana anticipa in qualche modo l´ermeneutica».
Certamente Freud era più distaccato, anche nel modo di interpretare i sogni.
«Diversamente da Freud, Jung era giunto alla conclusione che i sogni non possono essere ridotti alla soddisfazione fantasmatica di un desiderio rimosso legato alle pulsioni. Glielo dice un uomo che ha 87 anni, che continua a sognare e proprio in questa età, quando è difficile trovare soddisfazione ai desideri pulsionali, fa i sogni più belli».
Lei trascrive i suoi sogni?
«L´ho fatto per molti anni, con precisione e pazienza, al tempo dell´analisi didattica. Ma occorrerebbe farlo sempre, perché se non lo si appunta immediatamente, il sogno inevitabilmente scompare».
Non ritiene che nell´interpretazione di un sogno ci sia un certo grado di arbitrarietà?
«Diciamo pure di tradimento. Che fare? Consiglio di accettarlo come si accetta un amico che a volte ci ruba qualche oggetto. Pazienza».
Lei ha lavorato sul concetto di "ombra", si tratta del lato oscuro della persona?
«Sì, ma detto così non si capisce il suo valore nell´ambito della psicoterapia. L´ombra comprende non solo le pulsioni rimosse ma ogni lato oscuro dell´esistenza. Anche la parte di scacco che noi dobbiamo ogni giorno sopportare».
E queste ombre come si manifestano?
«Nel sogno, ad esempio, attraverso la personificazione. Nessuno di noi può liberarsi del tutto da pulsioni innominabili. Però la maturità ci aiuta a riconoscerle. Non possiamo isolare da noi quest´ombra. Possiamo stabilire dei patti, non di alleanza ma di accettazione».
Dobbiamo imparare a convivere con la parte meno evidente di noi. Lei ha scritto che un uomo senza ombra è un uomo senza spessore.
«Bisogna diffidare degli uomini completamente trasparenti o luminosi».
La letteratura ha molto scritto sull´ombra e il doppio. Pensi a quel prototipo creato da Stevenson con Dottor Jeckyll e Mister Hyde.
«Stevenson era un vittoriano legato a una morale solida e pregevole. Una volta avanzai un´ipotesi scherzosa: immaginai un dottor Jeckyll coerente che si concilia con mister Hyde. Ne conclusi che entrambi avevano la loro funzione nella vita».
Com´è una sua giornata?
«Mi alzo presto e vengo nel mio studio che ancora mi trasmette molta serenità. Quando non faccio le cose serie, come occuparmi degli altri, c´è la lettura. Sono un lettore onnivoro, disordinato. Avendo fatto un paio di anni di matematica ho conservato il gusto per i libri scientifici. Raramente guardo la televisione, e sempre solo la sera, a volte con mia moglie facciamo qualche commento. E´ raro trovare programmi che ci piacciano».
Televisione volgare, italiani volgari?
«La volgarità – sotto le forme più diverse: il denaro facile, il sesso postribolare, la corruzione – è l´ombra del nostro paese. Ma non esagererei nel demonizzarla. Nei momenti di vera crisi gli italiani sono sempre risultati al di sopra del giudizio espresso su di loro».

lunedì 28 giugno 2010

Il 1 luglio tutti insieme a Piazza Navona
L’APPELLO DELLA FNSI Cresce di ora in ora la mobilitazione per la manifestazione contro la «legge bavaglio» indetta della Federazione nazionale della stampa. E oggi l’Unità avvia il suo conto alla rovescia verso il 1 luglio. Invitiamo i nostri lettori a essere in piazza con noi. Per la libertà di tutti.

l’Unità 28.6.10
Dove va la sinistra europea
Gli Stati generali a Grenoble: riaffermare il primato della politica, lotta alle crescenti disparità di reddito e alle derive finanziarie
di Sandro Gozi

Il rinnovamento? Che cos’è, dopo tutto? E’ stato il filo rosso degli “Stati Generali del Rinnovamento”, incontri e scambi organizzati da Libération e Le Nouvel Observateur à Grenoble. Rinnovamento del centrosinistra francese ed europeo, attorno ai temi d’attualità: le pensioni, la povertà, l’esclusione, la crisi europea, la laicità. Rinnovamento attorno a nuovi valori di cui abbiamo dibattuto con deputati – come François Hollande, Jean-Luc Benhamias, Eva Joly, Jean-François Kahn, Pierre Moscovici, Dominique Voynet giornalisti, tra cui Laurent Joffrin e Max Armanet e rappresentanti di tante associazioni francesi. In un momento di confronto con sarkozysmo e berlusconismo, gli Stati generali hanno rappresentato l’occasione di riflettere ad un’alternativa politica, sociale e citoyenne. Un’alternativa che deve coinvolgere tutte le forze di opposizione: democratici, socialdemocratici, radicali, ecologisti, liberali di sinistra.
Di fronte alla crisi, dobbiamo mostrare coraggio. Coraggio innanzitutto di rimettersi in discussione, partendo dagli errori del centrosinistra europeo. Gli ostacoli sono tanti: eccessiva personalizzazione della politica, veduta corta, oblio dell’interesse generale, dipendenza dall’ultimo sondaggio o dall’imminente elezione locale.
Reagire significa riassumere le proprie responsabilità politiche, rendere conto dei risultati raggiunti, capacità di portare gli elettori dove non andrebbero spontaneamente. Significa uscire dall’individualismo. Nelle “mediacrazie” come l’Italia, presa a modello di ciò che altri paesi europei non devono diventare, è forte la tentazione di vedere, a destra come a sinistra, degli istrioni monopolizzare tutto lo spazio pubblico. Di qui la necessità di uscire dall’antipolitica, che si sta manifestando in tanti paesi europei e che non rivoluzionaria ma reazionaria, un senza alternative. Significa ridare fiducia alla gente, ai movimenti, alla società civile, riconoscendo che è sulle gambe delle persone e non attraverso le leggi che viaggiano i veri cambiamenti. Arrestare il degrado sociale e l’erosione della cittadinanza; organizzare il nostro rifiuto collettivo: costruire un nuovo progressismo europeo. Tutto ciò richiede tempo, non si risolve tutto in un discorso, in un dibattito televisivo, in una manifestazione. Richiede partecipazione pubblica e democratica, un ampio dibattito in tutte le dimensioni della sfera pubblica.
Votare non basta. Solo la partecipazione e la libera informazione garantiscono che tutti possano veramente “pesare” nel dibattito pubblico. Solo la consapevolezza garantisce pluralismo e democrazia. Sfide di società da affrontare insieme, politica, movimenti e cittadini. Oggi infatti la politica, i partiti, non possono più, da soli, cambiare la società. Se la politica non può più tutto, la politica è però dappertutto. E’ chiamata a scegliere, a risolvere i problemi immediati, ad anticipare quelli che sorgeranno. A proporre un’alternativa partendo dalle nuove esigenze della gente.
Riaffermare in modo radicale la promozione di diritti civili, sulla base del principio della libera scelta, per costruire una famiglia, scegliere di curarsi, scegliere di diventare cittadino di un paese. Lottare in modo duro contro le oligarchie e le corporazioni economiche, contro tutti i conflitti di interesse. Non si tratta poi di salvare il capitalismo – si salva da solo – né di rifondarlo, ma di collocare al centro il lavoro e la produzione reale.
Il nuovo centro sinistra europeo deve riaffermare il primato della politica, la lotta contro le crescenti disparità di reddito e le derive finanziarie dell’economia e deve globalizzare la politica. I mercati globali, la mobilità dei capitali, le evoluzioni tecnologiche hanno fortemente indebolito il potere di intervento dello stato. Pressati dai nuovi populismi e nazionalismi, indeboliti dalla timidezza e dalle incertezze degli europeisti, non abbiamo impedito la frammentazione dell’Europa in tante piccole patrie chiuse e impotenti. Democratici, socialdemocratici, verdi, liberali di sinistra insieme devono superare le loro divisioni in Europa e costruire nuove alleanze per una vera democrazia sovranazionale europea.

Repubblica 28.6.10
L'eversione quotidiana
di Stefano Rodotà

I fatti di questo periodo obbligano a concludere che l´attuale fase politica e istituzionale deve essere pure definita come quella dell´"eversione quotidiana". Questo nuovo dato di realtà può essere colto se si riflette su una domanda che molti hanno fatto negli ultimi tempi: vi è una differenza tra il tempo di Mani pulite e la nuova ondata corruttiva che è davanti ai nostri occhi?
Questa differenza esiste, ed è profonda. Non siamo soltanto di fronte al prepotente ritorno di una corruzione alla quale l´azione giudiziaria aveva cercato di porre un argine.

e che aveva sostanzialmente le sue radici in un bisogno della politica di "approvvigionarsi" di risorse finanziarie, con ovvie contiguità con il mondo degli affari e arricchimenti privati che accompagnavano il flusso di denaro verso i partiti. Oggi le cose sono diverse, e il caso Brancher, ultimo tra i tanti, lo illustra nel modo più eloquente.
Si è nominato un ministro soltanto per provvederlo di uno "scudo istituzionale", che potesse sottrarlo all´accertamento delle sue eventuali responsabilità penali. Ecco il cambiamento. Mentre i comportamenti del passato rimanevano comunque nell´area dell´illegalità, ora si costruisce una "legalità speciale" che serve a far rientrare in un´area lecita quel che dovrebbe invece rimanerne fuori. Si distorce così il significato del ricorso alla legge, non più garanzia ma scappatoia. E all´ombra di questa legge distorta si pratica l´eversione quotidiana, uno stillicidio di comportamenti che stravolgono il funzionamento delle istituzioni e dell´intera vita pubblica. Certo, si è evitata almeno la conseguenza più scandalosa dell´affare Brancher, il ricorso al legittimo impedimento per sottrarsi al processo, grazie alle proteste dell´opinione pubblica e di una parte del mondo politico, accompagnate in modo decisivo dai potenti anticorpi istituzionali prodotti dall´azione del Presidente della Repubblica. Ma proprio l´intera ricostruzione dei fatti rivela altri aspetti inquietanti, che mettono radicalmente in dubbio la possibilità che Brancher rimanga al suo posto di ministro. Inoltre, questo caso non è isolato, né rappresenta una eccezione, visto che trova la sua origine in una delle più clamorose leggi fatte per la persona di Silvio Berlusconi, appunto quella sul legittimo impedimento.
Ma il fondamento della nuova eversione non è qui soltanto, come testimonia tutto quello che è emerso intorno alla protezione civile, alle grandi opere, alla gestione di vere o presunte emergenze, alla privatizzazione del pubblico perseguita attraverso la creazione di società per azioni. Le vicende scandalose non sono l´effetto esclusivo di "deviazioni" personali. Sono rese possibili proprio dall´esistenza massiccia di una legalità speciale, di leggi congegnate per far crescere l´opacità dei comportamenti pubblici, oltre che di ordinanze sottratte a ogni controllo, che hanno sconvolto il sistema delle fonti del diritto, che hanno creato sacche di oscurità e di arbitrio, denunciate istituzionalmente nelle ultime settimane in particolare dalla Corte dei conti e dall´Autorità di vigilanza sui lavori pubblici.
Dalla lotta alla corruzione si è passati alla manipolazione istituzionale, che ha come fine proprio quello di legittimare formalmente comportamenti che ogni giorno cancellano ogni confine tra pubblico e privato, che fanno apparire superflua la moralità pubblica, che consentono tranquille e stupefacenti ammissioni di uso privato del potere da parte di personalità pubbliche. È questa l´eversione quotidiana, che corrompe istituzioni e costume, e così fa venir meno quella fiducia dei cittadini che è un carburante indispensabile per il buon funzionamento della macchina democratica. Mentre ai tempi di Mani pulite si tentava almeno di bonificare il terreno sul quale era fiorita la corruzione, oggi invece il terreno istituzionale viene pazientemente concimato perché comportamenti nella sostanza illeciti possano essere praticati legittimamente e alla luce del sole. Proprio la trasparenza impudica, che sfida con la sua esibizione legalità e rispetto dei cittadini, attribuisce a queste vicende un carattere eversivo.
È così nato un nuovo "mostruoso connubio" tra politica, amministrazione e affari che fa impallidire quello denunciato nel 1880 da Silvio Spaventa, del quale vale la pena di citare alcune parole. «La protezione giuridica e la protezione civile, chiamando così tutti gli altri beni che i cittadini hanno diritto di chiedere allo Stato, oltre alla tutela del diritto, dev´essere intera, eguale, imparziale, accessibile a tutti, anche sotto un governo di parte. L´amministrazione dev´essere secondo la legge e non secondo l´arbitrio e l´interesse di partito; e la legge deve essere applicata a tutti con giustizia ed equanimità verso tutti». La maggior gravità della situazione di oggi, rispetto ai tempi di Spaventa e di Mani pulite, sta nel fatto che l´eversione quotidiana fa sì che neppure la legge possa essere invocata, non avendo la funzione di perseguire giustizia e eguaglianza, ma quella, opposta, di offrire impunità e privilegio.
È evidente che con l´eversione quotidiana la democrazia non può convivere. E troppi guasti italiani derivano sempre di più dal fatto che questa convivenza è durata troppo a lungo.

Repubblica 28.6.10
Anche la Conferenza episcopale prende le distanze: "I prelati sono stati trattati bene"
Bruxelles respinge le accuse dal Vaticano "critiche eccessive"
I rapporti tra la Santa sede e governo sono tesi dal 1989, dopo il sì all´aborto
Nel 2009 il premier criticò apertamente papa Ratzinger per la sua opposizione ai preservativi
di Andrea Bonanni

BRUXELLES - Il Belgio non si piega di fronte all´ira del Vaticano. Anzi, si profila un nuovo braccio di ferro tra Bruxelles e Roma. Perfino la Conferenza episcopale belga, direttamente colpita dalle perquisizioni relative a casi di pedofilia ordinate dalla procura di Bruxelles, prende le distanze dagli anatemi del segretario di Stato, Tarcisio Bertone. Le accuse contro la magistratura, qui, non sono ordinaria amministrazione come in Italia.
Poco prima che venisse reso noto il tenore della lettera di solidarietà inviata dal Papa ai vescovi belgi, il ministro della giustizia Stefaan De Clerck aveva giudicato «un po´ eccessive» le critiche di Bertone all´operato della giustizia belga. «Non bisogna farne un caso diplomatico», ha detto il Guardasigilli, pur sapendo che l´ambasciatore del Belgio era già stato convocato in Vaticano per ricevere la protesta formale della Santa sede. In particolare De Clerck ha contestato l´accusa di Bertone secondo cui i vescovi erano stati «sequestrati» per nove ore nel palazzo arcivescovile di Mechelen senza cibo né acqua: «È falso dire che non hanno ricevuto da mangiare o da bere».
Il ministro, come aveva già fatto il capo del governo belga dimissionario, Yves Leterme, ha sostanzialmente difeso l´operato dei giudici. Ha detto di non essersi stupito per la perquisizione ordinata nel palazzo arcivescovile. Quanto al sequestro dei 475 dossier su casi di pedofilia in seno alla Chiesa che erano in possesso della commissione indipendente creata dalla Conferenza episcopale, De Clerck ha ironizzato sul fatto che «questa commissione prendeva tempo, forse un po´ troppo tempo, per organizzarsi».
Se il governo belga cerca di calmare gli animi e difende l´operato dei giudici, è la stessa Conferenza episcopale belga a prendere le distanze da Bertone. Il portavoce dell´arcivescovado di Mechelen-Bruxelles, Eric De Beukelaer, ha confermato che i vescovi sono stati «trattati bene». Le dichiarazioni del segretario di stato vaticano, ha detto De Beukelaer, «sono un commento personale fatto sull´onda dell´emozione». In generale la Chiesa belga, tradizionalmente più aperta del Vaticano e in questo caso più consapevole della profonda irritazione presente nel Paese per l´esplodere dei casi di pedofilia, evita di polemizzare con la giustizia o di dare in qualsiasi modo l´impressione di voler proteggere i suoi membri colpevoli di abusi.
Ma non è certo questa la prima volta che i rapporti tra il Vaticano e il Belgio si fanno tesi. La rottura si può far risalire al 1989, quando il parlamento belga approvò la legislazione sull´aborto. Il cattolicissimo re Baldovino, allora sul trono, invocò l´obiezione di coscienza e si rifiutò di firmare la legge. Ma il Parlamento non mollò e Baldovino dovette dimettersi da re per un giorno, in modo che il primo ministro firmasse la legge al suo posto. Da allora Baldovino è considerato un esempio in Vaticano, esempio che è stato anche garbatamente rinfacciato al suo successore, re Alberto, il quale non si è fatto scrupolo di firmare la legalizzazione dell´eutanasia, quella dei matrimoni omosessuali e quella che liberalizza la ricerca sugli embrioni: tutte leggi che hanno fatto imbestialire il Vaticano.
Ma se Roma è irritata con Bruxelles, anche il Belgio non ha lesinato le critiche a questo Papa. Nel 2009, dopo una dura risoluzione votata dal Parlamento, il governo belga sollevò una protesta formale per le dichiarazioni di Benedetto XVI contro il preservativo, proprio mentre stava per recarsi nell´Africa flagellata dall´Aids. E più recentemente, è stato l´allora primo ministro belga e oggi presidente del Consiglio Ue Herman Van Rompuy a criticare pubblicamente le dichiarazioni negazioniste di un vescovo lefebvriano a cui il Papa ha revocato la scomunica.

Repubblica 28.6.10
Lo Stato laico e il crocifisso
di Chiara Saraceno

«La laicità dell´Europa non può essere concepita e vissuta in termini tali da ferire sentimenti popolari e profondi, bensì come disponibilità ad accogliere e amalgamare le tradizioni più diverse, senza escluderne alcuna, in una logica non già di indifferenza ed esclusione, ma di inclusione e arricchimento reciproco». E «nella laicità dello Stato bisogna riconoscere la rilevanza pubblica e sociale del fatto religioso». Queste le parole del Capo dello stato interrogato sulla questione della presenza del crocifisso nei luoghi pubblici, accolte con grande favore da chi si appresta a dare battaglia contro la sentenza della corte europea.
Per quanto condivisibile nella sottolineatura di quanto di inclusiva e rispettosa della pluralità religiosa sia la definizione di laicità offerta da Napolitano, nella sua parzialità si presta in effetti a interpretazioni per lo meno ambigue. Laicità, infatti, non coincide semplicemente con pluralismo religioso, pur essendone la indispensabile pre-condizione. Piuttosto riguarda la rinuncia a far valere – soprattutto nello spazio pubblico e su questioni che hanno rilevanza per tutti – posizioni e argomentazioni motivate religiosamente. Non solo perché, se le religioni sono più d´una, esse possono avere posizioni contrastanti su uno o un altro argomento. Piuttosto perché, in una società democratica e laica, nessuna motivazione religiosa, per quanto nobile, può valere come criterio di regolazione valido per tutti. Ovvero non si tratta solo o tanto di consentire a tutti di far valere le proprie credenze e motivazioni religiose come guida del proprio comportamento personale. Si tratta di creare spazi in cui la ragione del confronto e della partecipazione non sia quella della appartenenza religiosa.
La questione della legittimità della esposizione del crociefisso negli spazi pubblici di uno stato che si definisce laico sta tutta qui. Per quanto nobile e importante sia la tradizione religiosa di cui il crocifisso è simbolo, esso non può marcare lo spazio pubblico, come tale di tutti. Tanto più non dovrebbe marcare quel particolare spazio pubblico che è la scuola: il luogo della formazione educativa, in cui si dovrebbe imparare non solo a rispettare le appartenenze e valori di ciascuno, ma anche a confrontarsi nonostante le proprie diverse appartenenze, per costruire appartenenze comuni – inclusa l´"identità italiana", che certo non può essere identificata con l´adesione al crocifisso, come sostiene il cardinal Bertone. E neppure si può spostare il discorso, rilevando che si tratta di un simbolo ormai divenuto sovra-religioso, simbolo di pace, universalità e tolleranza, come pure appare tra le righe nella dichiarazione di Napolitano ed anche del cardinal Bagnasco. Non è vero storicamente. Soprattutto, l´eventuale verità di questa affermazione sta nel consenso altrui, di coloro che non hanno nella croce il segno della propria appartenenza religiosa o non religiosa. Non può essere affermata autoritativamente.
La differenza tra uno stato laico democratico ed uno confessionale sta nella protezione dello spazio pubblico da pretese di "marcatura" sia religiosa che mono-ideologica (atea, marxista, o altro). Ciò non significa indifferenza rispetto alla rilevanza pubblica del "fatto religioso". E neppure che non si debba parlare di religione e religioni a scuola (cosa diversa dall´educazione religiosa, che anzi dovrebbe essere lasciata agli spazi propri delle istituzioni religiose). Piuttosto, la salvaguardia di uno spazio pubblico libero da marcature religiose, mentre legittima la pluralità di forme in cui il "fatto religioso" può esprimersi, consente anche una presa di distanza critica, una riflessione su ciò che di questo "fatto", delle forme in cui si manifesta, è accettabile e congruente con una società democratica fondata sul rispetto della libertà e della dignità individuale e che cosa no.
Ma forse è proprio questo che fa paura ai difensori ad oltranza del crocifisso negli spazi pubblici, a coloro che già dichiarano che faranno le barricate. Ancora più del pluralismo religioso, temono la verifica critica delle proprie motivazioni e "ragioni".

Repubblica 28.6.10
Niente sesso siamo americane
L'impietosa analisi di una femminista storica sugli Usa che discutono il Viagra rosa
di Camille Paglia

Negli Usa il mercato del nuovo farmaco vale 4 miliardi "Non ne ho voglia" più che una malattia un grande business Il Viagra rosa, la pillola che dovrebbe stimolare il desiderio femminile, fa discutere medici e psicologi. Ma il calo della libido, sostiene Camille Paglia, non c´entra nulla con la chimica: al contrario, è il risultato di una dilagante cultura dell´efficientismo che attanaglia il ceto medio bianco

Le donne avranno presto un loro Viagra? Recentemente una commissione della Food and Drug Administration (l´ente federale che autorizza la vendita dei farmaci, ndt) ha bocciato la richiesta di commercializzazione del Flibanserin, un farmaco destinato alle donne con difficoltà di libido, ma mettendone in risalto i potenziali benefici e chiedendo un approfondimento della ricerca. Diverse compagnie farmaceutiche sarebbero già molto avanti nello sviluppo di un farmaco di questo genere.
Il concetto implicito è che una nuova pillola, al di là degli effetti collaterali imprevisti, è necessaria per curare il disagio sessuale che sembra dilagare in tutti gli Stati Uniti. Ma questi problemi di apatia sessuale riflettono una realtà medica o nascono dalle ansie ipercarrieristiche della borghesia bianca? Negli anni ‘50, la "frigidità" femminile era attribuita al conformismo sociale e al puritanesimo religioso.
Ma dopo la rivoluzione sessuale degli anni ‘60, la società americana è diventata sempre più secolarizzata, con i mass media che trasudano sesso.
Il vero colpevole viene dall´Ottocento, ed è la proprietà borghese. Quando la rispettabilità si trasformò nel valore centrale della classe media, censura e repressione diventarono la norma. La pruderie vittoriana mise fine alla scanzonata schiettezza sessuale (sia degli uomini che delle donne) dell´era agraria, una licenziosità raccontata dalle commedie di Shakespeare fino al romanzo inglese del Settecento. I pedanteschi anni ‘50, che cancellarono dalla memoria culturale le flappers, le ragazze emancipate dell´Era del Jazz, furono semplicemente un ritorno alla normalità.
Solo il diffuso movimento New Age, ispirato a pratiche asiatiche focalizzate sulla natura, ha preservato la visione radicale della moderna rivoluzione sessuale. Ma il potere concreto è nelle mani della tecnocrazia carrieristica dell´America, che cresce sull´humus delle scuole di élite, con la loro visione ideologica del genere in quanto costrutto sociale.
Nel regno circospetto dei colletti bianchi, uomini e donne sono intercambiabili e svolgono lo stesso tipo di lavori intellettuali. La fisicità è soppressa, nello spazio igienizzato degli uffici le voci sono smorzate e i gesti contingentati. Gli uomini devono autocastrarsi, mentre le donne ambiziose posticipano il momento della procreazione. L´androginia è affascinante nell´arte, ma nella vita reale può portare a noia e stagnazione, che nessuna pillola può curare.
Nel frattempo, la vita familiare ha messo i maschi borghesi in una situazione difficile; non sono altro che ingranaggi di una macchina domestica diretta dalle donne. Le mamme contemporanee sono virtuosistici supermanager di una complessa organizzazione incentrata sulla cura e il trasporto dei bambini. Ma non è così facile passare con uno schiocco di dita dal controllo apollineo all´estasi dionisiaca.
Non che i mariti offrano grandi stimoli: visivamente, gli uomini americani rimangono eterni ragazzi, come dimostrano le magliette larghe, i pantaloncini cascanti e le scarpe da ginnastica che indossano dalla scuola materna fino alla mezza età. I sessi, che un tempo occupavano mondi intrigantemente distinti, risentono dell´eccesso di conoscenza reciproca, la maledizione della quotidianità.
Non resta più alcun mistero.
La forza primordiale della sessualità si è sfilacciata anche nella cultura popolare americana. Quando era in vigore il tanto bistrattato codice di condotta degli studi cinematografici, Hollywood produceva film che sprizzavano flirt e romanticismo da tutti i pori. Ma dagli anni ‘70 in poi è arrivata la nudità, e quella tensione sessuale che montava gradualmente è andata perduta. Una generazione di cineasti smarrì l´abilità dell´allusione sofisticata. La situazione è peggiorata negli anni ‘90, quando Hollywood cominciò a saccheggiare i videogiochi trasformando le donne in supereroine pneumatiche da fumetto e androidi fantascientifici, figure di fantasia senza la complessità psicologica o le esigenze erotiche delle donne reali.
Come se non bastasse, grazie alla cultura della borghesia bianca, che privilegia i corpi efficienti a quelli voluttuosi, le attrici americane si sono desessualizzate, confondendo uno sterile atletismo con il potere femminile. Il loro aspetto attuale, affinato a suon di Pilates, è un corpo teso e nervoso, arti sottili e fianchi stretti da ragazzo abbinati a seni amplificati. Un vivo contrasto con il gusto latino e afroamericano che tende verso la florida silhouette e i fianchi abbondanti di una Beyoncé.
Che l´energia sessuale sia legata alla classe sociale lo suggerisce forse lo straordinario successo dei piccanti completi di biancheria intima Victoria´s Secret fra i ceti bassi e mediobassi multirazziali, perfino nei centri commerciali dei sobborghi residenziali, che puntano soprattutto sulla borghesia bianca. La musica country, con la sua storia di radicamento nelle aree rurali del Sud e del Sudovest degli Stati Uniti, è ancora piena di scenari spinti, dove i sessi rimangono dinamicamente polarizzati secondo vecchi schemi.
Sull´altro versante, la musica rock, un tempo apripista della liberazione sessuale, non scoppia di salute. Il rythm and blues dei neri, nato nel Delta del Mississippi, fu il motore delle grandi band di hard rock degli anni ‘80, che riempivano le loro cover di pezzi blues con elettrizzanti immagini sessuali. L´ipnotica versione di «Little Red Rooster» di Willie Dixon eseguita dai Rolling Stones, con il suo stuzzicante esibizionismo fallico, è di una sensualità sconvolgente.
Ma con l´enorme successo commerciale del rock, il blues ha cessato di esercitare un´influenza diretta sui giovani musicisti, che si limitavano a imitare i grandi chitarristi bianchi senza esplorare le radici del genere musicale. Poco a poco, il rock ha perso la sua viscerale crudezza e la sua seducente sensualità. Il rock delle grandi star, con il suo pubblico di bianchi benestanti, ormai è tutto superego e niente io.
Negli anni ‘80, la musica leggera sfoggiava una serie intrigante di bellezze pop come Deborah Harry, Belinda Carlisle, Pat Benatar e una Madonna seducentemente piena. Dopo, invece, Madonna è diventata borghese e scheletrica. L´accolita dance di Madonna, Lady Gaga, con la sua inclinazione compulsiva all´eccesso, è una montatura di alta qualità senza un grammo di autentico erotismo.
Le compagnie farmaceutiche non troveranno mai il santo Graal di un viagra femminile, non in questa cultura proiettata e prosciugata da valori borghesi. Le inibizioni rimangono cocciutamente interiori. E la lussuria è qualcosa di troppo impetuoso per lasciarla al farmacista.
(Copyright New York Times/La Repubblica. Traduzione
di Fabio Galimberti)

Repubblica 28.6.10
Negli Usa il mercato del nuovo farmaco vale 4 miliardi
"Non ne ho voglia" più che una malattia un grande business
di Angela Aquaro

Il Viagra rosa, la pillola che dovrebbe stimolare il desiderio femminile, fa discutere medici e psicologi. Ma il calo della libido, sostiene Camille Paglia, non c´entra nulla con la chimica: al contrario, è il risultato di una dilagante cultura dell´efficientismo che attanaglia il ceto medio bianco

Leggere attentamente le avvertenze, per la verità farebbe passare qualsiasi voglia: affaticamento, mal di testa, vertigini, nausea, infezioni urinarie, sinusite e, accidenti, perfino diarrea. Siamo proprio sicuri che convenga ingoiare la pillola? Il tribunale della Fda - la Food and Drug Administration - non ha ancora emesso il verdetto anche se due commissioni hanno detto due volte "no". Ma la commercializzazione del Girosa - la pasticca che già nel nome si candida a Viagra Rosa - non è più soltanto questione medica e scientifica: è già battaglia culturale.
Il farmaco del desiderio femminile divide ovviamente prima di tutto le donne.
Ma dopo la rivoluzione sessuale degli anni ‘60, la società americana è diventata sempre più secolarizzata, con i mass media che trasudano sesso.
Il vero colpevole viene dall´Ottocento, ed è la proprietà borghese. Quando la rispettabilità si trasformò nel valore centrale della classe media, censura e repressione diventarono la norma. La pruderie vittoriana mise fine alla scanzonata schiettezza sessuale (sia degli uomini che delle donne) dell´era agraria, una licenziosità raccontata dalle commedie di Shakespeare fino al romanzo inglese del Settecento. I pedanteschi anni ‘50, che cancellarono dalla memoria culturale le flappers, le ragazze emancipate dell´Era del Jazz, furono semplicemente un ritorno alla normalità.
Solo il diffuso movimento New Age, ispirato a pratiche asiatiche focalizzate sulla natura, ha preservato la visione radicale della moderna rivoluzione sessuale. Ma il potere concreto è nelle mani della tecnocrazia carrieristica dell´America, che cresce sull´humus delle scuole di élite, con la loro visione ideologica del genere in quanto costrutto sociale.
Nel regno circospetto dei colletti bianchi, uomini e donne sono intercambiabili e svolgono lo stesso tipo di lavori intellettuali. La fisicità è soppressa, nello spazio igienizzato degli uffici le voci sono smorzate e i gesti contingentati. Gli uomini devono autocastrarsi, mentre le donne ambiziose posticipano il momento della procreazione. L´androginia è affascinante nell´arte, ma nella vita reale può portare a noia e stagnazione, che nessuna pillola può curare.
Nel frattempo, la vita familiare ha messo i maschi borghesi in una situazione difficile; non sono altro che ingranaggi di una macchina domestica diretta dalle donne. Le mamme contemporanee sono virtuosistici supermanager di una complessa organizzazione incentrata sulla cura e il trasporto dei bambini. Ma non è così facile passare con uno schiocco di dita dal controllo apollineo all´estasi dionisiaca.
Non che i mariti offrano grandi stimoli: visivamente, gli uomini americani rimangono eterni ragazzi, come dimostrano le magliette larghe, i pantaloncini cascanti e le scarpe da ginnastica che indossano dalla scuola materna fino alla mezza età. I sessi, che un tempo occupavano mondi intrigantemente distinti, risentono dell´eccesso di conoscenza reciproca, la maledizione della quotidianità.
Non resta più alcun mistero.
La forza primordiale della sessualità si è sfilacciata anche nella cultura popolare americana. Quando era in vigore il tanto bistrattato codice di condotta degli studi cinematografici, Hollywood produceva film che sprizzavano flirt e romanticismo da tutti i pori. Ma dagli anni ‘70 in poi è arrivata la nudità, e quella tensione sessuale che montava gradualmente è andata perduta. Una generazione di cineasti smarrì l´abilità dell´allusione sofisticata. La situazione è peggiorata negli anni ‘90, quando Hollywood cominciò a saccheggiare i videogiochi trasformando le donne in supereroine pneumatiche da fumetto e androidi fantascientifici, figure di fantasia senza la complessità psicologica o le esigenze erotiche delle donne reali.
Come se non bastasse, grazie alla cultura della borghesia bianca, che privilegia i corpi efficienti a quelli voluttuosi, le attrici americane si sono desessualizzate, confondendo uno sterile atletismo con il potere femminile. Il loro aspetto attuale, affinato a suon di Pilates, è un corpo teso e nervoso, arti sottili e fianchi stretti da ragazzo abbinati a seni amplificati. Un vivo contrasto con il gusto latino e afroamericano che tende verso la florida silhouette e i fianchi abbondanti di una Beyoncé.
Che l´energia sessuale sia legata alla classe sociale lo suggerisce forse lo straordinario successo dei piccanti completi di biancheria intima Victoria´s Secret fra i ceti bassi e mediobassi multirazziali, perfino nei centri commerciali dei sobborghi residenziali, che puntano soprattutto sulla borghesia bianca. La musica country, con la sua storia di radicamento nelle aree rurali del Sud e del Sudovest degli Stati Uniti, è ancora piena di scenari spinti, dove i sessi rimangono dinamicamente polarizzati secondo vecchi schemi.
Sull´altro versante, la musica rock, un tempo apripista della liberazione sessuale, non scoppia di salute. Il rythm and blues dei neri, nato nel Delta del Mississippi, fu il motore delle grandi band di hard rock degli anni ‘80, che riempivano le loro cover di pezzi blues con elettrizzanti immagini sessuali. L´ipnotica versione di «Little Red Rooster» di Willie Dixon eseguita dai Rolling Stones, con il suo stuzzicante esibizionismo fallico, è di una sensualità sconvolgente.
Ma con l´enorme successo commerciale del rock, il blues ha cessato di esercitare un´influenza diretta sui giovani musicisti, che si limitavano a imitare i grandi chitarristi bianchi senza esplorare le radici del genere musicale. Poco a poco, il rock ha perso la sua viscerale crudezza e la sua seducente sensualità. Il rock delle grandi star, con il suo pubblico di bianchi benestanti, ormai è tutto superego e niente io.
Negli anni ‘80, la musica leggera sfoggiava una serie intrigante di bellezze pop come Deborah Harry, Belinda Carlisle, Pat Benatar e una Madonna seducentemente piena. Dopo, invece, Madonna è diventata borghese e scheletrica. L´accolita dance di Madonna, Lady Gaga, con la sua inclinazione compulsiva all´eccesso, è una montatura di alta qualità senza un grammo di autentico erotismo.
Le compagnie farmaceutiche non troveranno mai il santo Graal di un viagra femminile, non in questa cultura proiettata e prosciugata da valori borghesi. Le inibizioni rimangono cocciutamente interiori. E la lussuria è qualcosa di troppo impetuoso per lasciarla al farmacista.
(Copyright New York Times/La Repubblica. Traduzione
di Fabio Galimberti)

domenica 27 giugno 2010

«La verità? È quella che non vediamo...»
l’Unità 27.6.10
Metti un giorno con Saramago
di Vanni Roncisvalle

Lisbona. ... Ci sbrigammo in due ore, nel fantastico Parco dell’Estrella. «La storia è al centro di ogni mio libro», disse Saramago. Coppie di anziani giocatori di scacchi improvvisavano partite sedendo a cavalcioni sulle panchine. Come tutti gli anziani che hanno acquistato fama dopo la maturità Saramago aveva molte cose da dire in pubblico; aveva un bel timbro di voce; ma nessuno di quei giocatori levò mai il capo verso di noi, gli eredi dei conquistadores di metà del nuovo mondo, degli «scopritori» come Cabral; nessuno si distrasse a sentire di Fernao Mendes Pinto e delle sue storie di naufragi.
«La storia che ci hanno insegnato ha un obbiettivo normalmente politico, normalmente ideologico. Come loro sfidandosi con gli scacchi vi è un procedimento mentale che porta ad un logica soluzione. La sconfitta dei bianchi la vittoria dei neri e viceversa. L’errore sta nel ritenere che quello sia l’unico risultato possibile o meglio, che quello sia l’unico schema mentale per giungere a quel risultato. Invece gli schemi sono infiniti; fluttuano nell’universo per incanalarsi nella storia. È a quel punto che la storia è verità».
LA PERCEZIONE DELLA VERITÀ
«E la letteratura?» «Quando scava nella storia è buona letteratura». «E i poeti?». «A due passi da qui abita una poetessa; si chiama Sophia Andresen de Mello; prestando ascolto, nella conchiglia dei suoi versi si può sentire l’eco delle Lusiadi... Beh, tre quarti della costituzione portoghese, all’indomani della Rivoluzione dei Garofani, li ha scritti lei. Fatto questo tornò ad occuparsi di poesia e nessuno la chiamò più per compiti che non fossero di un poeta».
«Cioè?»
«Percepire la realtà. Ossia la verità, quella che non vediamo».
«La verità è che i poeti non servono più il giorno dopo la rivoluzione?»
«Esatto».
Ne emerse, senza farne parola in modo specifico una distanza abissale con Pessoa.
Letteratura e verità nella patria di uno come Pessoa che della verità in letteratura non sapeva proprio che farsene. «Secondo me», aggiunse Josè Saramago, «dobbiamo chiederci che cosa è vero e a che cosa serve soprattutto la storia».
Suonò mezzogiorno e filammo verso la Rua de Combos. Il monumento ad Eca de Queiros, l’autore di Il prete Amaro. Esempio mirabile di come si fa un prete in letteratura. Il marmoreo signore in redingote e pince nez che si affacciava da dietro un nudo femminile come tenesse un sermone.
«Quella è la verità...». Vi era da chiedergli perché uno scrittore che di professione è un inventore di fole deve essere immortalato avvinto alla «nuda verità». Non lo chiesi ma Saramago, percettivo, indicò quell’insieme inquietante che ci sovrastava: «Quei due rafforzano il mio concetto».
Che escludeva il documentario di Wim Wenders su Lisbona. Il ‘mitico’ tram 28. E la saudade, rimpianto, per aver lasciato che Colombo avesse scoperto l’America in nome delle Loro Maestà i reale di Spagna; un’occasione persa dopo tutto il lavoro che aveva fatto Dom Enrique il Navigatore. Poi, otto anni dopo del 1492 si dovettero accontentare del Brasile. «Niente scoperte» disse Saramago. «Conquiste imperialistiche».

Repubblica 27.6.10
Inchiesta sulla pedofilia, Vaticano durissimo: "Vescovi sequestrati come nei regimi comunisti"
Bertone attacca il Belgio "Blitz inaudito anti-pedofilia"
Ma Bruxelles andrà avanti con le indagini
di Marco Ansaldo

CITTÀ DEL VATICANO Rabbia in Vaticano per le modalità della perquisizione della polizia nella sede della Conferenza episcopale belga, ordinata dalla magistratura che conduce un´inchiesta sulla pedofilia. Il segretario di Stato, cardinale Tarcisio Bertone, è duro: «Non ci sono precedenti, nemmeno nei regimi comunisti di antica esperienza». Convocato l´ambasciatore di Bruxelles presso la Santa Sede, al quale è stato espresso «il rammarico» per l´azione dei giudici.

CITTÀ DEL VATICANO «Per il sequestro dei vescovi durante la perquisizione della polizia nella sede della Conferenza episcopale belga non ci sono precedenti. Nemmeno nei regimi comunisti di antica esperienza».
C´è rabbia e sgomento in Vaticano per il caso che sta contrapponendo la Santa Sede al Belgio. E le parole pronunciate dal segretario di Stato, cardinale Tarcisio Bertone, danno la misura dell´indignazione che si respira oggi Oltretevere. A sconcertare, oltre alla perquisizione di tutti i vescovi belgi riuniti nella Sede episcopale, sono soprattutto i modi usati nell´inchiesta, arrivata a scoperchiare persino le tombe di due cardinali eminenti, come Suenens e Van Roey, alla vana ricerca di documenti non trovati durante la macabra indagine. Un´azione che ambienti religiosi criticamente definiscono «da Codice da Vinci».
Ma assieme allo sgomento c´è la voglia di reagire con determinazione. Il primo giorno è trascorso, come spiega il direttore della Sala stampa vaticana, padre Federico Lombardi, alla ricerca di «elementi per una presa di posizione precisa». Esaurita la fase esplorativa è stato quindi il momento di un passo ufficiale con la convocazione, da parte del "ministro degli Esteri" vaticano, Dominique Mamberti, dell´ambasciatore di Bruxelles presso la Santa Sede, al quale è stato espresso il «rammarico» per l´azione della magistratura belga. Ieri, infine, è intervenuto lo stesso "primo ministro" vaticano, Bertone appunto, a manifestare in maniera pubblica il pensiero del governo del Papa.
«Questo è un fatto inaudito e grave», ha detto il cardinale segretario di Stato durante un convegno all´università Lumsa. Che ha così continuato, con tono indignato: «Al di là della condanna della pedofilia, l´irruzione e il sequestro dei vescovi per nove ore, senza bere né mangiare... Non sono mica bambini». A conferma dell´ufficialità della protesta, le parole di Bertone sono state subito pubblicate con evidenza sulla prima pagina dell´Osservatore romano. Già al mattino Avvenire, il quotidiano dei vescovi italiani, aveva scritto che «violare tombe di cardinali in una cattedrale, pur con i crismi della legge, è un gesto che sa di violenza».
La Procura belga ha respinto le accuse lanciate dal segretario di Stato vaticano. Ai vescovi, ha detto il portavoce Jean-Marc Meilleur, è stata data la possibilità di mangiare e bere, e le perquisizioni sono state condotte «da professionisti che conoscono molto bene il loro lavoro e che rispettano i diritti delle persone».
Ma ora la Chiesa belga potrebbe decidere di avviare un´azione legale, secondo quando annunciato dal portavoce della Conferenza episcopale locale, Eric de Buekelaer. Intanto, fino a quando la magistratura non ordinerà il dissequestro dei computer, l´attività dell´arcivescovado di Machelen-Bruxelles, quartier generale della Chiesa in Belgio, resterà paralizzata. I giudici intendono prima esaminare con attenzione tutto il materiale acquisito per indagare chi può essersi reso colpevole di abusi sessuali su minori, oltre ai 475 fascicoli di testimonianze su casi di pedofilia.
Davanti all´ira del Vaticano il Belgio non sembra scomporsi, e la maggior parte dei media mostra anzi di appoggiare l´azione della magistratura. In un Paese di antica tradizione cattolica, ma dove la laicità dello Stato è sacrosanta e inviolabile e la pedofilia è un incubo (come dimostrano esempi eclatanti del passato fuori dal circuito religioso, vedi il "mostro di Marcinelle" Marc Dutroux) molti giornali riconoscono che le iniziative prese con le perquisizioni nell´arcivescovado e nella cripta della cattedrale di Saint-Rombaut sono state «sproporzionate», scrive Der Standaard. La giustizia, però, ha lanciato si legge su De Morgen un «segnale chiaro: la Chiesa non è al di sopra della legge».
«L´idea che circola qui spiega a Repubblica il professor Charles-Ferdinand Nothomb, vice presidente vicario dell´Istituto Internazionale Jacques Maritaine, molto attento al mondo cattolico è che il nuovo governo voglia preparare una commissione indipendente da quella già istituita dalla Chiesa sulla questione pedofilia. La mia impressione è che il partito socialista intenda muoversi in maniera aggressiva nei confronti dei vescovi cattolici».

Esempli cattolici. Se non si lasciano ammazzare come Maria Goretti un po’ complici i bambini dvono essere per forza...
«1902: il 5 luglio, con la scusa di farsi rammendare dei vestiti, Alessandro attirò Maria in casa e tentò un'ultima volta di violentare la bambina undicenne. Di fronte alle sue grida ed alla sua disperata resistenza al «brutto peccato»[2], la ferì più volte con un punteruolo in legno»
Avvenire 27.6.10
Maria Goretti, da 60 anni una luce per i giovani
di Laura Badaracchi

http://it.wikipedia.org/wiki/Maria_Goretti

NETTUNO (ROMA). Un anniversario significativo, celebrato per ricordare una delle più giovani sante della Chiesa: sessant’anni fa, il 24 giugno dell’Anno santo che cadeva a metà del secolo scorso, Pio XII presiedeva in piazza San Pietro la liturgia di canonizzazione della undicenne Maria Goretti. Nel Santuario di Nettuno a lei dedicato la ricorrenza è stata celebrata con una Messa giovedì, mentre ieri sera l’associazione Corale di San Marco di Latina ha tenuto un concerto in suo onore. In prossimità della memoria liturgica che cade il 6 luglio, sabato 3 luglio è in programma il pellegrinaggio notturno a piedi – giunto ormai alla 24ª edizione – che parte da Nettuno per arrivare domenica 4 all’alba a Le Ferriere, presso la casa di Marietta che è anche il luogo del suo martirio avvenuto nel 1902. Ricordando il giorno in cui Maria venne proclamata santa, il passionista padre Giovanni Alberti, rettore del Santuario di Nettuno, elenca alcuni eventi legati a quello storico pomeriggio del 1950: data l’affluenza di circa 500 mila persone, la celebrazione fu anticipata di un giorno e organizzata all’aperto. E non era mai successo che a una canonizzazione fosse presente la madre della nuova santa, l’allora 84enne Assunta Carlini. «Era buona e brava... ma che sarebbe diventata santa!», dichiarò l’anziana. Tra i presenti, anche Alessandro Serenelli, che pugnalò la ragazzina perché non acconsentì al suo tentativo di violenza; perdonato da mamma Assunta, dopo aver scontato trent’anni di carcere, diventò terziario in un convento di frati cappuccini, dove morì nel 1970. Quel giorno a onorare Marietta – ricorda padre Alberti – c’erano anche il presidente della Repubblica Luigi Einaudi e il primo ministro Alcide De Gasperi. «In questa vita di umile fanciulla possiamo ammirare non solo uno spettacolo degno del cielo, ma ancora degno di essere considerato e ammirato in questo nostro secolo – evidenziò il Pontefice durante l’omelia –. Imparino i padri e le madri come bisogna educare rettamente, santamente e fortemente i figli affidati loro da Dio». E nel messaggio inviato da Giovanni Paolo II il 6 luglio 2002, centenario della morte di Marietta, all’allora vescovo di Albano, Agostino Vallini, il Papa additava l’esempio della santa soprattutto ai giovani «per la sua vicenda spirituale, per la forza della sua fede, per la capacità di perdonare il suo aguzzino», indicandola come «una ragazza alla quale lo Spirito di Dio donò il coraggio di restare fedele alla vocazione cristiana sino al supremo sacrificio della vita. La giovane età, la mancanza di istruzione scolastica e la povertà dell’ambiente in cui viveva non impedirono alla grazia di manifestare in lei i suoi prodigi. Anzi, proprio in tali condizioni apparve in modo eloquente la predilezione di Dio per le persone umili».
La questione dell’età, in effetti, rallentò il processo canonico, fa notare il rettore del Santuario di Nettuno, ma alla fine «la Chiesa si pronunciò per la maturità e la consapevolezza dei progetto di vita di Maria Goretti», anche se la sua storia «rimane quella tipica di una preadolescente». Una ragazzina che non è «la santa brava cinque minuti», chiarisce padre Alberti: «Le ultime 24 ore della sua esistenza ne hanno messo in chiaro il filo conduttore, costruito in una manciata di anni interamente vissuti alla luce del Vangelo, con una radicalità che non conosce i tanti 'distinguo' dei cosiddetti cristiani adulti». Farne memoria, quindi, «vuol dire trovare energie per credere sempre alla novità dello Spirito».
Nel 1950 Pio XI dichiarava santa la ragazza undicenne morta per sfuggire a una tentata violenza. E indicava la sua figura come modello di educazione cristiana.