mercoledì 30 giugno 2010

l’Unità 30.6.10
CONTRO LA LEGGE BAVAGLIO
Ferrario: «Il Tg1 un’arma di distrazione di massa»
La popolare giornalista dell’ammiraglia Rai condurrà insieme ad Ottavia Piccolo l’inizitiva della Fnsi dal palco di piazza Navona, il 1 luglio dalle 17. Manifestazioni nelle altre città
di Virginia Lori

Ho accettato subito di condurre la manifestazione per la libertà di stampa con entusiasmo, perchè questa legge se passasse, diventerebbe un alibi per chi l'informazione completa già non la dà, come chi ha trasformato il principale telegiornale italiano un'arma di distrazione di massa». Tiziana Ferrario ha motivato così la sua adesione alla manifestazione indetta dalla Fnsi. La giornalista del Tg1 condurrà con Ottavia Piccolo l’iniziativa nazionale che si svolgerà il 1 luglio a Roma dalle 17 in Piazza Navona.
Come Chavez. «Una dichiarazione come quella del premier la poteva fare Chavez o un altro leader di un regime populista», ha intanto reagito Franco Siddi, segretario generale della Fnsi, a Berlusconi che dal Brasile ha invitato a scioperare contro i giornali. «Abbiamo subito un nuovo atto di aggressione, fondato sul principio della libertà invertita. Siamo stufi di questi atti ha continuato Siddi . In questo paese c'è una casta espressa da un potere con un enorme conflitto d'interesse, che vuole proteggere se stessa, considerando l'informazione come nemico. È una deriva molto pericolosa». La manifestazione «contro la legge bavaglio» si svolgerà oltre che a Roma con una Notte Bianca, a Conselice dove c'è il monumento alla libertà di stampa, e in molte città come Milano, Padova, Torino, a Trieste, Latina, Parma, Londra, Parigi. Per Roberto Natale, presidente della Fnsi, con il ddl intercettazioni «l’attacco non è solo al diritto-dovere dei giornalisti di informare ma soprattutto a quello dei cittadini di essere informati». Natale ha sottolineato la grande unità del mondo del giornalismo.
Federazione della stampa e Fieg sono stati ascoltati in commissione giustizia alla camera, nell’ambito delle audizioni accordate alcuni giorni fa dalla presidente Bongiorno. Il presidente della Fieg Carlo Malinconico ha presentato un documeto scritto. «Il ddl sulle intercettazioni, approvato dal Senato, incide ancora pesantemente sulla libertà di informazione, nonostante i miglioramenti apportati». È la valutazione di Malinconico che esprime in particolare «gravi preoccupazioni, per le previsioni normative volte a comprimere la pubblicazione di notizie riguardanti inchieste penali». «In luogo del divieto 'tout court' si prevede ora riconosce Malinconico la possibilità di pubblicare per riassunto, una volta caduto il segreto». Tuttavia resta un «regime incoerente per le intercettazioni», vige il divieto assoluto di pubblicazione, anche se non più coperte da segreto, fino al processo, pena la gravissima sanzione della reclusione da 6 mesi a 3 anni ma manca nel testo del ddl, «un filtro capace di eliminare dal fascicolo processuale le intercettazioni non rilevanti». Se si considera che le intercettazioni sono state limitate ai reati che destano allarme nella pubblica opinione e che manca tale filtro per i contenuti irrilevanti, l'effetto è che per reati gravissimi non sarà possibile dare notizie di circostanze non più coperte da segreto.».

l’Unità 30.6.10
Intervista a Fulvio Fammoni
«La Cgil in prima fila perché è in gioco la libertà del nostro Paese»
Il sindacato domani in piazza: «È doveroso intervenire Il governo legifera senza tener conto della Costituzione»
di Stefano Miliani

Domani, in piazza a Roma contro la legge bavaglio, la Cgil il sindacato ci mette la faccia, è in prima fila. Il perché lo spiega il segretario confederale Fulvio Fammoni. Come mai un sindacato che si occupa di lavoro interviene su una legge su informazione e giustizia? «Intanto ricordo che eravamo anche alla manifestazione del 3 ottobre scorso. Il punto cruciale è che questa legge ha evidenti tratti di incostituzionalità, gli interventi del governo in cui legifera su giustizia, informazione e lavoro senza tener conto della Costituzione sono ormai frequenti, per noi ciò è sbagliato ed è doveroso intervenire. E due temi fondamentali entrano in gioco». Quali? «La giustizia e la libertà di informare. È inaccettabile che il governo intasi il Parlamento con leggi sbagliate senza affrontare e oscurando i grandi problemi della crisi».
Cisl e Uil non ci saranno.
«Ci saranno come promotrici oltre 300 associazioni delle tendenze più diverse, dall’Acli all’Arci. Ci saranno presidi in decine di città italiane. Che Cisl e Uil non vengano è un problema. Peraltro su questi temi hanno sempre svolto iniziative». Come spiega la loro assenza?
«Non so dare una spiegazione razionale. La Federazione della stampa ha tentato un confronto comune che non si è potuto realizzare. Mi auguro che su temi così cruciali si ritorni a iniziative unite. Oltre tutto vedremo ripercussioni pesanti anche sui posti di lavoro».
In che modo?
«Parliamo non solo della Legge bavaglio ma di un insieme molto articolato e grave: parliamo di censure, del mancato finanziamento all’edi-
toria e di tagli a cultura e a spettacolo che faranno perdere migliaia di posti e questo, per un sindacato, è un metro di giudizio essenziale».
E dopo giovedì che succederà?
«Non ci fermeremo, saremo davanti al Parlamento anche se discuteranno la legge ad agosto. Poi prepariamo un ricorso alla Corte Costituzionale e uno alla Corte europea dei diritti dell'uomo».
Questa legge può essere corretta?
«Non si può cercare di limitare danni. Se la approvano durante un processo potranno parlare solo gli imputati ed è assurdo. Per far uscire l'Italia da questa cappa pensiamo a un’iniziativa in Europa in autunno. Potremo proporre un testo sulla libertà di informazione per il Parlamento europeo».

il Fatto 30.6.10
Stefano Rodotà: Ma quale privacy, vogliono il silenzio
“La vera battaglia comincerà subito dopo l’approvazione del testo”
di Luca Telese

Si è mobilitato per la manifestazione di domani senza risparmio. Se non altro perché Stefano Rodotà – giurista, ex garante della privacy, professore di diritto – è convinto che da Piazza Navona possa iniziare un cammino decisivo per l’affermazione della libertà di stampa in questo Paese. Ecco perché in questa intervista Rodotà spiega che non intende tornare sul merito di tutti gli articoli che giudica inammissibili (“Ne abbiamo parlato fino alla nausea”), ma piuttosto sulle cose da fare per continuare la battaglia contro il provvedimento anche dopo l’eventuale approvazione della legge.
Professor Rodotà, cosa si aspetta da questa manifestazione?
Io ci sarò. L’appuntamento, come è noto, nasce da una iniziativa della Federazione nazionale della stampa. Ma è diventata, strada facendo, un punto di incrocio di diversi soggetti: i giornali che si sono opposti a questa legge invereconda, gli editori, i sottoscrittori di un appello promosso anche da chi parla...
Cosa ha prodotto concretamente tutta questa mobilitazione?
Dei risultati tangibili, che hanno completamente cambiato lo scenario in cui quelle norme erano state pensate e presentate in Parlamento.
Berlusconi era convinto di poterle portare a casa prima dell’estate. Ora, invece...
Speriamo che non ci riesca. Io credo che questo movimento abbia dato uno stimolo importante a chi, anche nelle istituzioni, e anche nel centrodestra, ci tengo a precisare, si è opposto a questa legge.
La sento soddisfatta.
Ho la presunzione di dire che se la società civile non si fosse mobilitata, questa legge avrebbe trovato molti meno ostacoli, e sarebbe stata varata così come era stata pensata.
Lei pensa che la legge non sarà approvata nella forma che conosciamo?
Non lo so, e non intendo esercitarmi nei pronostici: credo che una cosa debba essere chiara a tutti. Piazza Navona non sarà un punto di arrivo ma un punto di partenza per il futuro .
In che senso?
Nel senso che la nostra battaglia contro la legge inizierà un minuto dopo l’approvazione del testo.
Qualcuno potrebbe chiedersi: perché l’uomo che ha fondato l’authority sulla privacy scende in campo contro una legge che limita le intercettazioni?
Proprio perché questa legge mette a rischio delle libertà costituzionali, e non ha nulla a che fare con la tutela della riservatezza dei cittadini.
Ovvero?
Se si fosse avuto a cuore questo problema, si sarebbero potute agevolmente stralciare dalla bozza della legge gli articoli che impediscono la pubblicazione di intercettazioni che riguardano dettagli e vicende private di persone non indagate. Credo in questo caso il testo sarebbe stato votato all’unanimità.
Invece?
Invece il cuore del provvedimento sono le norme contro i giornalisti e contro la magistratura. E voglio aggiungere una cosa: il sesto articolo del codice deontologico professionale dell’ordine, che io ho materialmente steso, affronta già questi problemi, e ha già un valore di legge.
Quindi il vero obiettivo è un altro.
Certo. Per il premier, innanzitutto, la chiusura delle falle del suo sistema di difesa, il tentativo di sistemare a posteriori le indiscrezioni e le rivelazioni che possono venire dalla incredibile mole di quelle che possiamo definire le sue frequentazioni femminili....
In che senso lei dice che la battaglia contro la legge “inizia” con l’approvazione?
Sono convinto che appena il testo entrerà in vigore sarà necessario coordinare e assistere il ricorso alla disobbedienza civile che il vostro quotidiano, e tanti altri giornalisti hanno annunciato.
Quale dovrebbe essere la via da seguire, secondo lei, in queste forme di protesta estrema?
Intanto servirà un coordinamento, strettamente tecnico, dei collegi di difesa per chi trasgredirà i divieti di pubblicazione.
E poi?
Subito dopo bisognerà immaginare un percorso e delle mosse che permettano di portare la questione all’attenzione della Corte costituzionale, e, anche, della Corte europea. Poi...
Cosa?
Ci sono altre forme di elusione dei vincoli imposti dal provvedimento. Il primo è la pubblicazione sui siti internazionali, ad esempio quelli che si sono già messi a disposizione, a partire da Reporter sans Frontières.
E poi?
Io credo che un’ottima strada, seguendo uno storico precedente americano, sia quella che ha annunciato Di Pietro: se dei materiali entrano dentro gli atti del Parlamento, o attraverso dichiarazioni dei parlamentari in aula, o attraverso l’inserimento di notizie e dati all’interno delle interrogazioni, nulla può impedirne la citazione. Anche questa via, però, può rivelare delle difficoltà di attuazione.
I parlamentari sarebbero protetti dall’immunità. Ma siamo sicuri che la legge non avrebbe effetto sugli atti di Camera e Senato?
Credo che sia una delle poche cose certe in tutti i Parlamenti del mondo: tutto quello che riguarda il Parlamento non può essere censurato. L’unico vincolo possibile sarebbe togliere la parola a chi parla, o dichiarare inammissibile alcuni atti.
Quindi si può silenziare i parlamentari?
Si aprirebbe un grosso conflitto regolamentare, molto dipenderebbe dai presidenti delle Camere. Ma voglio dire un’ultima cosa...
Prego.
È giusto collegare questa battaglia a quella contro i tagli nelle università che, solo apparentemente, può apparire slegata.
Lei individua un unico filo?
Con il disegno di legge si colpiscono magistrati e giornalisti. Con i tagli alla ricerca e alla cultura tutti coloro che svolgono professioni intellettuali. Se ci pensa è un attacco congiunto alle fonti del sapere critico.
Una strategia unica?
Un moto naturale di chi coltiva tentazioni autocratiche. Si colpiscono tutte le riserve critiche della società. E si punta a ottenere l’effetto finale sperato.
Quale?
Quello di imbavagliare la prima cellula vitale delle moderne società democratiche: l’opinione pubblica. È per dire no a questo tentativo che domani scenderemo in piazza.

il Fatto 30.6.10
“Contro tagli e bavagli”, i giornalisti tornano in piazza
Domani a roma la manifestazione contro il disegno di legge
La FNSI: “Non siamo cagnolini da salotto”
di Silvia D’Onghia

Il palco è quasi pronto, il primo luglio è arrivato. I giornalisti tornano in piazza, dopo la manifestazione del 3 ottobre scorso, per difendere il proprio dovere ad informare e soprattutto il diritto dei cittadini di essere informati, così come prevede la Costituzione. “No al silenzio di Stato” recita lo slogan della Federazione nazionale della Stampa, “contro i tagli e i bavagli alla conoscenza e alla cultura”. Un’iniziativa che ha visto le adesioni dei principali media nazionali (Fatto Quotidiano compreso, naturalmente): sono più di duecento le piattaforme che trasmetteranno sul Web la maratona di piazza Navona, mentre Rainews24, SkyTg24 e Youdem cureranno la diretta televisiva. Ma sono anche tantissimi gli attori della società civile che saranno al fianco dei giornalisti: prima tra tutti la Cgil, che anche per l’appuntamento di ottobre aveva assicurato un grande coinvolgimento di iscritti. Poi il Popolo viola, l’Arci, l’Auser, Legambiente, la Tavola della Pace, la Federazione delle chiese evangeliche, l’Unione degli universitari e la Rete degli Studenti, Giustizia e Libertà e tanti altri. E i partiti: il Pd, l’Idv, SeL, la Federazione della Sinistra, i Verdi e i Grillini. L’appuntamento è alle 17 e si prevede un lungo pomeriggio di interventi e spettacolo. A condurre saranno l’epurata Tiziana Ferrario, che ha fatto sua la definizione del Tg1 come “arma di distrazione di massa”, e Ottavia Piccolo. Sul palco ci saranno anche Ilaria Cucchi e la famiglia Aldrovandi, casi che non sarebbero mai venuti fuori se la legge bavaglio fosse stata in vigore, così come il segretario del Silp Cgil, Claudio Giardullo, a nome di tutti i sindacati di polizia. E poi gli artisti e gli intellettuali, dai Percussionisti di Santa Cecilia ai Têtes de Bois, da Dacia Maraini a Dario Fo (al telefono). “I giornalisti non sono cagnolini da salotto come il potere politico vorrebbe ridurli, ma cani da guardia della verità e dell’informazione”: ieri il segretario della Fnsi, Franco Siddi, dopo aver presentato la manifestazione, è stato sentito in audizione in commissione Giustizia a Montecitorio, dove ha ribadito la contrarietà al ddl e rilanciato la proposta dell’“udienza filtro” che scremi le intercettazioni utili ai fini delle indagini da quelle che invece non hanno rilevanza. Di “filtro” hanno parlato anche gli editori, nel corso della stessa audizione: “Nonostante qualche indiscutibile miglioramento – ha spiegato il presidente della Fieg, Carlo Malinconico – il ddl incide ancora pesantemente sulla libertà di informazione. Perplessità e gravi preoccupazioni, sollevano le previsioni normative volte a comprimere la pubblicazione di notizie riguardanti inchieste penali”.

il Fatto 30.6.10
Vaticano, è codice rosso dopo la decisione americana
Di fronte a un crollo inedito e inaudito di credibilità, il Papa blocca il dibattito anche sulle responsabilità passate
di Marco Politi

Sull’orlo del vulcano la Santa Sede sceglie la tattica dello “stare a vedere” dopo il pronunciamento della Corte Suprema Usa e si prepara al catenaccio. In Vaticano si spera che non si arriverà ad una citazione dinanzi ad un tribunale americano del cardinale Segretario di Stato Bertone, del decano del collegio cardinalizio Sodano se non dello stesso Benedetto XVI. La decisione della Corte Suprema di “non decidere” sull’immunità della Santa Sede nei processi di pedofilia (come richiesto dalla stessa amministrazione Obama) apre però la strada ad una situazione molto pericolosa per il Vaticano. Il giudice dell’Oregon può ora andare avanti nell’accertare le specifiche responsabilità degli organi centrali vaticani per quanto riguarda i trasferimenti omertosi del prete-predatore Andrew Ronan (morto nel 1992), spostato via via dalle autorità ecclesiastiche dall’Irlanda a Chicago e infine a Portland, dove continuò ad abusare. Jeff Anderson, l’avvocato principe dei processi per pedofilia negli Usa, preannuncia una richiesta di audizione di Bertone e Sodano. Oltretevere tenteranno a quel punto di chiedere nuovamente l’immunità, augurandosi che la Corte Suprema decida di riconoscere la non processabilità di esponenti di un governo straniero. Ma ciò che sfugge ai prelati vaticani nel giorno di festa del 29 giugno, in cui si esalta l’autorità suprema del papato, è che in Occidente è in corso un gigantesco smottamento di immagine e di prestigio della Chiesa cattolica, non più vista e riverita come potere sovranazionale superiore alle leggi statali.
Gli eventi di questi giorni sono il segno di un passaggio d’epoca. Per sedici secoli, dai tempi dell’Impero romano sotto Costantino, Teodosio II e Giustiniano, la Chiesa si è costruita passo dopo passo un’immunità strutturata a sistema, per cui clero e vescovi mai sottostavano alla giustizia civile. Per cui clero e vescovi erano quasi sempre intoccabili. Per cui la gerarchia ecclesiastica non doveva “rendere conto” a nessuno dei suoi affari interni. I processi negli Stati Uniti degli anni scorsi e le condanne di risarcimento milionario inflitte alle diocesi per i casi di occultamento della pedofilia hanno fatto breccia in questo sistema, le commissioni d’inchiesta statali come in Irlanda lo hanno scosso, la valanga di eventi accaduti nelle ultime ore lo sta frantumando. La Corte Suprema americana non ha ritenuto di concedere automaticamente l’immunità, la giustizia belga (seppure con un’azione spettacolare probabilmente inutile, perché i vescovi belgi avrebbero consegnato egualmente i loro computer e risposto ad interrogatori anche senza il sequestro di nove ore dell’intera conferenza episcopale) ha messo alla gogna la leadership ecclesiastica di una nazione, infine il comunicato vaticano su Propaganda Fide – nel riconoscere gli “errori” della congregazione – sono la testimonianza che il vento è cambiato.
Di colpo la Chiesa cattolica è trascinata dal suo empireo, dal suo essere un “potere al di sopra dei poteri terreni”, ed è obbligata a misurarsi con l’opinione pubblica, con le richieste di rendiconto dei mass media, con le citazioni dinanzi alle magistrature statali. Le prime risposte di papa Ratzinger non sembrano essere all’altezza della nuova sfida. Il coro dei cortigiani, ecclesiastici e non, è già partito esaltando la sua svolta riformatrice, ma la situazione è più complessa. Benedetto XVI sulla piaga di pedofilia ha avuto un grande sussulto morale, improntato a rigore, facendo mea culpa nella Lettera agli Irlandesi, ponendo al centro la sorte delle vittime, esortando alla consegna dei preti colpevoli alla giustizia civile. Ma ora che l’aggravarsi della crisi richiede una risposta di “politica ecclesiastica” il Papa appare esitante. L’operazione-pulizia in Italia – terra che sottosta direttamente alle direttive papali – non è nemmeno partita. La Cei non fornisce risposte sui cento casi di preti abusatori già acclarati e non apre un’inchiesta nazionale per scoprire le vittime non ascoltate.
Di più: lunedì Benedetto XVI ha tappato la bocca al cardinale Schoenborn, che aveva sollevato la questione delle responsabilità del cardinal Soda-no, Segretario di Stato durante il pontificato di Giovanni Paolo II, nel bloccare un’indagine del Sant’Uffizio – allora diretto da Ratzinger – sul cardinale pedofilo austriaco Groer e sul fondatore pedofilo e concubino dei Legionari di Cristo, Marciel Macial. In un comunicato vaticano fuori dall’ordinario Schoenborn è stato costretto a scusarsi per le “interpretazioni date alle sue espressioni”. Con durezza è stato dichiarato che “nella Chiesa, quando si tratta di accuse contro un cardinale, la competenza spetta unicamente al Papa”. Gli altri possono solo fare opera di “consulenza”. E’ un bavaglio al dibattito tra i massimi esponenti della Chiesa proprio nell’ora in cui ce ne sarebbe maggiormente bisogno. Perché Schoenborn non ha sbagliato. Le inchieste su Groer e Macial furono davvero bloccate. Il Fatto è in possesso di una lettera privata di Groer del 1998 in cui il cardinale ammette che la dichiarazione pubblica – con cui non fornì spiegazioni prima di dimettersi – gli fu “sottoposta” alla firma con l’impegno di un “santo silenzio, di un segreto (da osservare)”. E solo dal Vaticano poteva venire l’imposizione al porporato pedofilo di un testo da sottoscrivere sotto obbligo di silenzio. Il bavaglio a Schoenborn vuole bloccare le rivelazioni sugli anni ‘80 e ‘90. La missione del Papa, ha dichiarato ieri Benedetto XVI in San Pietro, è “garanzia di libertà per la Chiesa” nei confronti dei “poteri locali, nazionali o sovranazionali” e di salvaguardia della tradizione cattolica da “errori concernenti la fede e la morale”. Una rocciosa esaltazione del primato papale. E tuttavia, questa sarebbe l’ora di un consulto di Benedetto XVI con il collegio cardinalizio invece dell’isolamento nella riaffermazione del potere supremo. Senza l’apertura di un dibattito trasparente e collettivo sugli errori del passato e le scelte del futuro, la crisi della Chiesa è destinata ad aggravarsi.

l’Unità 30.6.10
Godelieve Halsberghe aveva presieduto la commissione episcopale che vagliava le denunce
La procura di Bruxelles: indaghiamo sugli abusi ma anche su chi li ha permessi e coperti
Scandalo pedofili in Belgio la talpa era l’ex presidente
di Marco Mongiello

Le vittime escono dall’anonimato. Un sociologo e una donna raccontano gli abusi e il dolore subiti da adolescenti. Sul sagrato della cattedrale manifesta l’associazione fiamminga per i diritti umani nella Chiesa.

Una telefonata anonima, documenti che scottano e la decisione di un ex magistrato in pensione di rivolgersi alla polizia. In base agli ultimi sviluppi di una storia che assomiglia davvero ad un thriller di Dan Brown, dietro le perquisizioni di giovedì all'arcidiocesi di Malines-Bruxelles potrebbe esserci Godelieve Halsberghe, l'ex presidente della commissione episcopale incaricata di raccogliere le denunce delle vittime dei preti pedofili.
L'ipotesi ha preso piede dopo l'intervista rilasciata dalla signora Halsberghe al quotidiano fiammingo “Het Nieuwsblad”. L'ex magistrato ha riferito al giornale di aver ricevuto una telefonata anonima in fran-
L’ex magistrato rivela
«Una telefonata perché mettessi al sicuro denunce e documenti»
cese da un uomo che la avvertiva di «fare attenzione» a se stessa e di mettere al sicuro i documenti sui 30 casi di denunce di cui si era occupata negli anni in cui ha presieduto la commissione, dal 2000 al 2008. Da qui la denuncia, con il suggerimento che ci potrebbero essere altri documenti nascosti.
L’INTERVISTA DEI SOSPETTI
Halsberge ha raccontato di avere conservato copie di registrazioni e materiale relativo a colloqui con le vittime e con l'ex primate Godfried Danneels. Il portavoce della procura di Bruxelles, Jean-Marc Meilleur, ha confermato che gli inquirenti «stanno lavorando su un caso specifico e su una dichiarazione specifica», ma non ha voluto indicare la fonte. Ha precisato anche che le indagini non si limitano ai responsabili degli abusi, ma considerano anche quelli che li hanno permessi. «C'è una parte del caso che potrebbe essere contro coloro che hanno commes-
so il crimine ha detto e ci potrebbe anche essere un'altra parte del caso contro coloro che non hanno aiutato qualcuno che era in pericolo».
Alla Halsberge è poi succeduto lo psichiatra Peter Adriaenssens, che si è dimesso lunedì insieme a tutta la commissione, accusando le autorità di averlo usato come «esca» per raccogliere le testimonianze delle vittime che preferivano rivolgersi alla Chiesa piuttosto che alla giustizia. Ora uno di questi, Jan Hertogen, sociologo di 63 anni, è uscito dall'anonimato denunciando gli abusi subiti da adolescente alla procura. In questo modo ha ottenuto il diritto in ad essere informato sugli sviluppi del suo dossier in quanto parte lesa, ha spiegato l'uomo, invitando gli altri a fare la stessa cosa. Ieri inoltre, davanti alla cattedrale Saint Michel a Bruxelles, si è tenuta una manifestazione dell'associazione fiamminga per i diritti umani nella chiesa, guidata dal prete in pensione Rik Devillé, che negli ultimi 18 anni ha raccolto testimonianze su 320 casi di abusi. Secondo alcuni potrebbero esserci le sue rivelazioni dietro l'operazione di polizia di giovedì. I manifestanti hanno chiesto l'istituzione di una commissione di inchiesta parlamentare «neutra, scientifica e indipendente dalla Chiesa». «Sono stata abusata sessualmente quando avevo 13 anni», ha raccontato Linda Opdebeeck, 46 anni, ora sposata e madre di quattro figli, «lui era un prete, insegnante di francese e di religione e gli abusi sono continuati per tre anni».

l’Unità 30.6.10
«Sesso ma segreto sotto l’ombra del Vaticano»
La chiesa cattolica. È l’unica a considerare il sesso proibito, accettabile solo per la procreazione. E dunque è un peccatore che lo fa per piacere
Il saggio: 17 pedofili, 10 incestuosi, 9 stupratori E poi sposati, travestiti, sadici... La doppia morale vaticana e le strane storie dei Pontefici
Intervista a Eric Frattini

Diciassette papi pedofili, dieci incestuosi, dieci ruffiani, nove stupratori. E poi ancora pontefici sposati, omosessua-
li, travestiti, concubinari, sadici, masochisti, voyeur. Nei giorni in cui la moralità della chiesa è messa sempre più spesso in discussione per i continui scandali, ci pensa lo scrittore e professore Eric Frattini ad illustrarci come, in fondo, la sua storia non sia mai stata immacolata.
Pagina dopo pagina, secolo dopo secolo, dai primi versi della Bibbia a Benedetto XVI, nella documentatissima inchiesta «I papi e il sesso» (Ponte alle Grazie editore) sfilano gli indicibili vizi passati all’ombra del Vaticano. Sottaciuti e nascosti, «non c’era Internet dice Frattini ora la Chiesa non può far finta di niente, il Papa ha dovuto condannare pubblicamente la pedofilia ma da cardinale non si comportò in maniera altrettanto esemplare. Lo trovo più efficace con la corruzione, Sepe lo ha allontanato subito».
Che ne pensa dello scandalo pedofilia che ha coinvolto la chiesa negli ultimi mesi? Pensa che il Pontefice stia facendo il possibile?
«Io distinguo il cardinale Ratzinger da papa Benedetto XVI. Riguardo al Belgio, la mia opinione è che gli investigatori si siano mossi come elefanti in una cristalleria. Ma ridicole sono anche le reazioni della Chiesa. Per quanto riguarda la pedofilia dobbiamo ricordare che Giovanni XXIII ha scritto un documento su come nascondere gli abusi sui minori, Giovanni Paolo II ha mantenuto questo approccio e Ratzinger ha aggiunto un allegato nel quale si descrivevano i pederasti non come delinquenti ma come peccatori e questo ha fatto si che aumentasse la “congiura del silenzio”. Non credo alla lettera che ha scritto Papa Benedetto XVI ai prelati d’Irlanda, sono solo intenti. Lo scandalo è scoppiato perché adesso la chiesa si deve confrontare con i nuovi mezzi di comunicazione di massa, con internet. Il Vaticano non poteva più far finta di niente. Quindi il pontefice ha dovuto condannare pedofilia e corruzione. Pensiamo al cardinale Sepe: era uno dei pilastri di Wojtyla ma appena son circolate le voci Ratzinger lo ha mandato a Napoli, un piccolo passo però rivoluzionario»
Nel suo libro scrive: «Nessuna religione al mondo ha mai dibattuto tanto l’intimità sessuale come il cattolicesimo e nessuna ha mai imposto tanto dettagliatamente i suoi codici di comportamento: ancora oggi tolleranza zero verso le copie di fatto, l’aborto, la fecondazione assistita, la contraccezione». Esiste una “doppia morale” nella Chiesa?
«Sicuramente c’è un’ipocrisia di fondo. C’è molto di Dottor Jekyll e Mister Hyde. C’è una morale che parte dalle mura di San Pietro e va verso la piazza, ai fedeli, e una e una che parte dalla basilica e va verso l’interno. La chiesa cattolica in che secolo vive? Me lo chiedo quando alcuni alti prelati paragonano l’omosessualità alla pedofilia o quando insistono nel vietare l’uso del preservativo, mentalità da XVIII o XVII secolo».
Ma questo atteggiamento della Chiesa cattolica è originato forse da una sorta di paura del sesso? «Se ci pensiamo bene la chiesa cattolica è l’unica organizzazione a livello mondiale a considerare il sesso come qualcosa di proibito, da effettuare solo a scopo della procreazione e dunque ritiene chi pratica il sesso solo per piacere un peccatore. Un altro elemento a mio avviso importante è il celibato; se c’è qualcosa che ho imparato scrivendo questo libro è che il vero cancro della chiesa è il celibato. Se ci fosse stato in passato un papa che lo avesse eliminato non si sarebbe arrivati oggi alla situazione di pedofilia che tanto deploriamo, basta confrontarsi con le altre religioni» I suoi precedenti libri sulla chiesa in passato hanno suscitato vibranti polemiche. Si aspetta attacchi anche per questo saggio?
«Scommetto tutto quello che posso che non ci sarà nessuna reazione su questo saggio, come è successo per “L’Entità» (la precedente inchiesta sui servizi segreti del Vaticano, uscita per Fazi lo scorso anno, ndr). Invece l’Opus Dei ha protestato per un mio romanzo, «Il labirinto sull’acqua», attaccandomi violentemente. Raccontavo che forse Pietro non era poi così fantastico mentre Giuda non era così malvagio... non ho mai venduto tanti libri, stavo per dire “grazie a dio”, ma dovrei dire “grazie all’Opus Dei”».

Repubblica 30.6.10
Preti pedofili perché il Papa difende Sodano?
di Vito Mancuso

Ieri il papa ha sottolineato che il pericolo più grande per la Chiesa viene dal fronte interno: "Il danno maggiore lo subisce da ciò che inquina la fede e la vita cristiana dei suoi membri e delle sue comunità". Ma allora perché, due giorni fa, ha pubblicamente umiliato il cardinale Christoph Schönborn, finora il più coraggioso degli uomini di Chiesa nel lottare contro il terribile inquinamento interno che è la pedofilia del clero? Io quasi non volevo crederci, non poteva essere vero che Benedetto XVI, dopo aver più volte affermato di voler fare tutto il possibile per stabilire la verità e perseguire la giustizia nello scandalo pedofilia, avesse costretto l´arcivescovo di Vienna a una specie di Canossa vaticana. Eppure era vero. Benedetto XVI aveva costretto il presule, nonché stimato teologo di orientamento conservatore a lui molto vicino, a una conciliazione forzata con il cardinal Sodano. La logica del potere romano è la forza che ancora domina la Chiesa cattolica.
Quello che però a mente fredda colpisce di più è il disinteresse mostrato dal papa per il merito delle accuse mosse pubblicamente da Schönborn il 28 aprile scorso contro il cardinale Angelo Sodano, Segretario di Stato sotto Giovanni Paolo II, accusandolo di aver insabbiato il caso Groer.
Hans Hermann Groer (1919-2003), monaco benedettino, arcivescovo di Vienna e cardinale, fu costretto a dimettersi nel 1995 per aver molestato un seminarista minorenne (in seguito a suo carico emersero molti altri casi). Immediato successore di Groer nella diocesi di Vienna, Schönborn quando accusava Sodano parlava di cose che conosce molto bene. Ma diceva la verità oppure mentiva? È vero o non è vero che Sodano da Roma ostacolò le indagini di Vienna? Il papa semplicemente non se ne è curato, non è entrato nel merito, alla verità ha preferito la forma ricordando che solo a lui è concesso accusare un cardinale. Così il comunicato ufficiale: "Nella Chiesa, quando si tratta di accuse contro un cardinale, la competenza spetta unicamente al papa". Ma se è così, allora il papa è tenuto ad andare fino in fondo verificando se le accuse di Schönborn a Sodano sono fondate o sono solo calunnie. Lo farà? Non lo farà, per il motivo che dirò alla fine di questo articolo.
Nella predica a conclusione dell´Anno sacerdotale a piazza San Pietro l´11 giugno Benedetto XVI aveva detto di "voler fare tutto il possibile affinché un tale abuso non possa succedere mai più". Alla luce del trattamento riservato a Schönborn queste parole appaiono molto sfuocate, mera retorica di stato. Di che cosa stiamo parlando, infatti? Stiamo parlando (occorre ricordarlo sempre!) di migliaia e migliaia di giovani vittime. Oltre all´Austria scandali sono emersi ovunque. Negli Stati Uniti finora sono stati pagati indennizzi per 1.269 miliardi di dollari, con il conseguente fallimento di non poche diocesi. In Irlanda nel 2009 sono usciti documenti come il Rapporto Murphy e il Rapporto Ryan, quest´ultimo sugli abusi del clero dagli anni ´30 agli anni ´70 (notare: anni ´30, altro che responsabilità della rivoluzione sessuale del postconcilio come scrive Benedetto XVI nella "Lettera ai cattolici irlandesi"): il risultato è che la Chiesa irlandese deve versare 2.100 milioni di euro di risarcimenti. Poi c´è la Germania del papa: abbazia benedettina di Ettal in Alta Baviera, coro di Ratisbona, dimissioni di mons. Mixa vescovo di Augusta per molestie sessuali su minori, collegio Canisius dei gesuiti a Berlino… C´è il Belgio con le dimissioni del vescovo di Bruges per i medesimi tristi motivi e le perquisizioni delle tombe nella cattedrale di Malines con le conseguenti deplorazioni pontificie. Ci sono Polonia, Svizzera, Olanda, Danimarca, Norvegia, Inghilterra, Australia… Don Ferdinando Di Noto, il prete da anni in prima linea contro la pedofilia, simbolo della rettitudine della gran parte dei preti, dichiarava il 18 febbraio scorso che in Italia i casi accertati sarebbero un´ottantina. Da allora, vista la frequenza delle notizie sui giornali, temo che la cifra sia aumentata non poco.
Di fronte a questi dati due cose sono sicure. Primo: se non fosse stato per la forza dei giornali e delle tv tutto sarebbe rimasto sconosciuto e insabbiato; se la Chiesa riuscirà un giorno a fare pulizia al proprio interno lo dovrà alla forza delle scomode verità fatte emergere dalla libera informazione. Secondo: fino a poco tempo fa la linea tenuta dal cardinal Sodano sul caso Groer era la prassi abituale, come appare anche dalla Epistula de delictis gravioribus inviata il 18 maggio 2001 dall´allora cardinal Ratzinger ai vescovi di tutto il mondo che imponeva il secretum Pontificium per tutte le gravi trasgressioni del clero (notare: il caso Groer risale a sei anni prima!). È proprio questa la peculiarità dello scandalo, non tanto la pedofilia di preti e vescovi, quanto l´insabbiamento da parte delle gerarchie, il fatto incredibile che i vertici ecclesiastici sapevano di questi crimini e, per non indebolire il potere politico della Chiesa, tacevano e insabbiavano. Per anni e anni. Per interi decenni è stata preferita l´onorabilità della struttura politica della Chiesa rispetto alla giustizia verso le vittime, e quindi verso Dio. Le dichiarazioni del cardinal Sodano che riduceva a "chiacchiericcio" le accuse erano esattamente in linea con questa politica dell´insabbiare, e l´umiliazione inferta dal papa al cardinale Schönborn per averlo criticato è una conferma che questa politica non è terminata. La subdola peculiarità di questo scandalo mondiale è purtroppo ancora in vita.
Salvare la Chiesa prima di tutto. Prima dei bambini e della loro vita psichica e affettiva. Prima dei genitori e del loro inestirpabile dolore. Prima del senso di giustizia di tutta una società. Prima della giustizia di cui rendere conto davanti a Dio. Prima di tutto, la Chiesa e la sua immagine, e il conseguente potere che ne deriva. Per questo l´ordine era (anzi è, perché altrimenti non si sarebbe salvata l´onorabilità del potente cardinal Sodano) coprire, insabbiare, dissimulare, mentire, negare, comprare. Tra l´ottantina di cardinali della Chiesa solo uno aveva avuto il coraggio e l´onestà di puntare il dito contro il vertice della nomenclatura. Il papa l´ha messo a tacere, l´ha fatto rientrare tra le fila, imponendogli una bella dichiarazione di facciata.
Ma com´è possibile che nella Chiesa tanti crimini siano stati occultati e che all´interesse delle vittime sia stato preferito quello dei loro aguzzini? La risposta a mio avviso consiste nella teologia elaborata lungo i secoli che ha condotto a una vera e propria idolatria della struttura politica della Chiesa, a una sorta di sequestro dell´intelligenza da parte della struttura per affermare se stessa sopra ogni cosa, il cui inizio si può emblematicamente collocare, come già intuito da Dante, nella stesura del falso documento conosciuto come "Donazione di Costantino" da parte della cancelleria papale (documento svelato come falso da Lorenzo Valla nel 1440). Questa teologia ecclesiastica ha condotto a fare dell´obbedienza alla Chiesa gerarchica il segno distintivo dell´essere cattolico: il cattolico è anzitutto colui che obbedisce al papa e ai vescovi. Se non obbedisci, non sei cattolico. Dante non lo sarebbe più, neppure san Paolo, che ebbe l´ardire di opporsi pubblicamente a Pietro, non potrebbe far parte di questa Chiesa cattolica. Al termine degli Esercizi spirituali così Ignazio di Loyola illustrava il rapporto con la verità che deve avere il cattolico: "Quello che io vedo bianco, lo credo nero se lo stabilisce la Chiesa gerarchica".
Da tempo immemorabile la bilancia è il simbolo della giustizia. Su un piatto della bilancia ci sono le vite di migliaia di bambini, ragazzi e giovani irrimediabilmente deturpate da uomini di Chiesa. Sull´altro, che cosa mette la Chiesa? Oggi è costretta a mettere i nomi dei colpevoli, e tantissimi soldi. Ma si ferma qui, e non basta. Essa infatti deve aggiungere se stessa, la struttura di potere che l´ha fatta precipitare in questo abisso. Solo a questa condizione i due piatti possono tornare in equilibrio e generare la vera giustizia, quella che Gesù diceva di cercare sopra ogni altra cosa.

Repubblica 30.6.10
Le ricerche di alcuni studiosi americani smontano l´idea che la distrazione abbia solo effetti negativi Anzi: dalla possibilità di divagare il nostro cervello ottiene spesso dei benefici, inventando e rilassandosi
Meno stress e più creatività le doti della mente vagabonda
I vantaggi avrebbero a che fare con l´evoluzione della nostra specie
di Federico Rampini

NEW YORK Non divagate. Concentratevi. Focalizzate le energie su un obiettivo alla volta. D´ora in avanti quando sentite le raccomandazioni di cui sopra, ignoratele. Nell´interesse vostro e dell´umanità intera. E se nel corso della lettura di questo articolo vi distraete varie volte per pensare ad altro, è un ottimo segno: di creatività, oltre che di salute mentale. Invenzioni scientifiche, capolavori artistici, utopie politiche, tutto questo lo dobbiamo alla nostra capacità di fuggire dalla realtà e sognare a occhi aperti. Lo dimostrano le ricerche compiute da tre gruppi di scienziati, dalla California al Canada. I risultati smontano implacabilmente un secolo di pregiudizi contro i distratti e i sognatori. "Sognare a occhi aperti", come minimo era sinonimo d´indisciplina mentale, scarsa efficienza, incapacità di concludere. Sigmund Freud era ancora più severo, per lui il sognatore diurno era affetto da personalità infantile, in certi casi da nevrosi. Il fenomeno è stato associato anche ai sintomi di psicosi, nei manuali di psichiatria. Una montagna di pregiudizi crolla di fronte alla più recente evidenza scientifica. Sognare a occhi aperti, divagare, lasciare che la propria mente si assenti da quello che stiamo facendo, ha delle funzioni importanti e positive. Anzitutto è una tecnica per sopravvivere, mantenendo l´equilibrio mentale in situazioni inutilmente stressanti. Lo sottolinea l´équipe di ricercatori della University of California-Santa Barbara (Ucsb) diretti da Jonathan Schooler e Jonathan Smallwood. "Quando siamo svegli - dice Smallwood - in media il 30% del tempo lo passiamo a pensare ad altro, la mente va a zonzo e trascura ciò che stiamo facendo. Le punte di distrazione possono raggiungere il 75% del tempo, per esempio se guidiamo su un´autostrada semivuota o siamo bloccati in un ingorgo stradale. Questo è benefico. Senza la capacità di astrarci dal presente la vita sarebbe orribile. La fuga dell´attenzione è una liberazione".
I vantaggi del sognare a occhi aperti hanno addirittura a che vedere con l´evoluzione della nostra specie, secondo un´altra ricerca diretta da Eric Klinger alla University of Minnesota. Nel suo Manuale sull´immaginazione e la simulazione mentale, Klinger spiega che la selezione evolutiva ci ha spinti verso un uso flessibile della nostra attenzione. "Mentre una persona è occupata da un singolo compito - dice lo scienziato - questa facoltà di pensare ad altro mantiene aperto un ventaglio di obiettivi più ampio, lascia intatta la possibilità di perseguire altri scopi". Gli accademici arrivano a giustificare la disattenzione dei loro allievi. Lo studente che durante la lezione si concentra sulla ragazza che gli sta di fronte, forse sta spostando il focus su una missione vitale: la ricerca di una compagna a scopi riproduttivi. Naturalmente ci sono episodi di distrazione solo distruttivi. In alcuni esperimenti, la lettura di Guerra e pace di Tolstoj viene interrotta e la mente va altrove, perché il lettore ha voglia di una sigaretta; oppure perché ha bevuto troppo alcol e questo abbassa la sua attenzione. Ma di per sé il fatto che la lettura di un romanzo sia intervallata da momenti in cui la mente "si assenta", non è negativo. Le cavie di un esperimento di lettura di Jane Austen dimostrano che in mezz´ora ci sono almeno tre episodi di distrazione consapevoli, più altri episodi inconsci di "sogni a occhi aperti".
Kalina Christoff della University of British Columbia sostiene che si alternano ai comandi il nostro "cervello esecutivo", disciplinato e mono-tematico, e una sorta di "cervello di scorta" più sciolto, disinibito, imprevedibile. Il primo tende a riportarci con tutta l´attenzione su ciò che stiamo facendo. Il secondo è il migliore alleato degli inventori, degli artisti, degli spiriti originali. "Per la creatività - dice Jonathan Schooler della Ucsb - è essenziale che la mente possa andare a zonzo, prendersi tanta libertà. Poi però bisogna essere pronti a capire quando è arrivata l´intuizione geniale, e concentrarsi su quella". Se Archimede fosse rimasto a trastullarsi nella sua vasca da bagno, il principio dei corpi immersi nei liquidi oggi non porterebbe il suo nome.

Repubblica 30.6.10
Anna Oliverio Ferraris: una grande risorsa anche in ambito scientifico
"Sognare ad occhi aperti aiuta l´intelligenza emotiva"
intervista di Luciana Sica

«Non solo i vagabondaggi della mente sono utili, ma direi preziosi perché raccolgono emozioni, sentimenti, affetti molto profondi. Un po´ somigliano alle associazioni libere, rimandano l´immagine di un flusso di sogni ad occhi aperti, seppure in uno stato di coscienza». Chi parla è Anna Oliverio Ferraris, ordinaria di Psicologia dello sviluppo alla "Sapienza" di Roma, psicoterapeuta con una sua particolare competenza in fatto di fantasticherie, soprattutto quelle dei bambini.
A cosa può essere utile una perdita provvisoria della realtà?
«A focalizzare problemi, far riemergere ricordi, immaginare il futuro. La mente procede per analogie, per metafore, mettendo in relazione realtà distanti tra loro: è una grande risorsa, alla base della creatività nello stesso ambito scientifico».
Gli psicologi americani fanno esempi più comuni: sarebbe "orribile" non fantasticare quando siamo in mezzo al traffico o costretti a una qualunque mansione noiosa...
«Senz´altro la capacità immaginativa è una risorsa per contenere le tensioni, l´ansia, l´aggressività, le frustrazioni legate alla vita quotidiana. Ma non solo. Uscire dalle solite categorie mentali, dalle regole logiche rigorose, vuol dire lasciare spazio alla nostra intelligenza emotiva».

Repubblica 30.6.10
Date una lingua alla politica
Quando il potere è una questione di parole
di Carlo Galli

Da Canfora a Mancuso, da Rodotà a Nadia Urbinati un ciclo di incontri per spiegare il valore del lessico
Il linguaggio delle istituzioni e dei cittadini non è chiacchiera vana ma il canale privilegiato dell´opinione pubblica

È un luogo comune – ma è anche pieno di verità – che la politica consista nell´agire, nei fatti. La politica ha a che fare con gli uomini, dal punto di vista dell´oggettività del potere, della saldezza delle istituzioni, della forza degli interessi. Ma al tempo stesso alla politica è essenziale la dimensione della parola, del pensiero, della rappresentazione, della narrazione: non sono mai esistiti poteri o interessi che non dovessero mediarsi e legittimarsi attraverso saperi; e che non corressero il rischio di confrontarsi con altri saperi, critici. La politica si dà nel potere e nella parola, nell´oggettività e nella soggettività, nel fare e nel dire. E quindi il linguaggio politico pesa, fa esso stesso ‘politica´. Il linguaggio del potere e dei contropoteri, delle istituzioni e dei cittadini, non è chiacchiera vana: è il modo d´essere di una politica che non può non passare attraverso gli uomini, attraverso la loro opinione pubblica. L´alternativa sarebbe una politica tanto perentoriamente oggettiva da passare sopra gli uomini, sulle loro teste; una politica indisponibile alla parola umana, come le leggi fisiche della natura. Un´alternativa illogica, poiché ciò che ha a che fare con gli uomini sarebbe estraneo agli uomini.
E quindi un´iniziativa – come quella che inizia il 1 luglio, a cura della Provincia di Roma, di "la Repubblica" e dell´Editore Laterza –, che mette a tema Le parole della politica, va nella direzione, assai opportuna, di dar vita a una riflessione sui grandi temi della politica, così come vengono detti e nominati nelle grandi parole del lessico politico corrente, in quelle parole che sono la trama del discorso pubblico. Ovviamente, nessuno pensa di dare, delle parole della politica, una definizione in qualche modo univoca, scientifica: in quelle parole si è depositata la storia di ieri, e vive la nostra passione (o apatia) politica di oggi. Quello che l´iniziativa si propone è semmai di offrire elementi di chiarezza, perché le parole della politica siano dette con libertà, ma anche con una qualche consapevolezza.
A partire, naturalmente, dalla coppia oppositiva ‘politica-antipolitica´. Il cui secondo termine è cambiato di significato, e da ‘opposizione alla buona politica´ (qual era il suo valore originario) oggi si usa nel senso di ‘contrarietà alla politica´, estraneità, indifferenza alla politica, fuga dalla politica in generale; una sorta di qualunquismo, in cui i singoli si chiudono, politicamente disperati. Oppure un´ideologica pretesa che la politica sia inutile, una truffaldina complicazione di questioni semplici, che – se non esistessero quei parassiti che sono i politici – potrebbero benissimo essere risolte col buon senso pratico, con la competenza tecnica, oppure con l´armonia automatica del mercato.
Questa accezione del termine, in realtà, fa torto sia alle soggettive intenzioni di quasi tutti coloro che – per reazione alla declinante condizione della politica, oggi – si definiscono (o, più spesso, vengono definiti) ‘antipolitici´, sia alla storia e alla stessa logica: non è mai esistita una teorizzazione dell´estraneità alla politica (dall´otium degli antichi, all´Anarca di Jünger) che non avesse un implicito significato politico, di protesta contro una politica tanto cattiva da costringere il soggetto alla secessione per mettere in salvo la propria libertà. Anche l´antipolitica è essa stessa politica, è catturata dalla politica, fuori della quale c´è solo il dio o la bestia.
Ed è politica precisamente in quanto è ‘contrarietà alla cattiva politica´; in quanto cioè mette in evidenza l´interno elemento di crisi, di incompiutezza, di inadeguatezza, di impossibilità, che appartiene a ogni sforzo di costruire un ordine politico, di dare forma politica stabile alla complessità e alla molteplicità della vita associata. In realtà, insomma, è proprio l´antipolitica a custodire (almeno implicitamente) un progetto politico, e a definire ‘antipolitica´ quella che è oggi la politica ufficiale. Nell´antipolitica vengono insomma alla luce – che gli ‘antipolitici´ lo vogliano, o no – gli elementi essenziali della politica: la polemicità (il conflitto), la questione dell´ordine, l´esigenza del pubblico consenso. Ovvero il rapporto amico/nemico, il nesso comando/obbedienza, la relazione privato/pubblico. Appunto, lo stare insieme di realtà e di norma, di fatti e parole, di azioni e pensieri.
La politica non ha un´essenza in senso proprio, e infatti è stata definita in ogni modo possibile: arte regia e follia, demone e destino, energia del conflitto esistenziale e assalto al cielo, sfida lanciata all´insensatezza dell´umane sorti e Spirito oggettivo, nobile arte e lucida scienza (per tacere di altre e più espressive definizioni, come quella, a suo tempo celebre, proposta dall´allora ministro Rino Formica). In realtà la politica è indefinibile perché, nonostante la sua oggettività, non è un oggetto: è un orizzonte, una qualità intrinseca al nostro esistere associati. Si è nella politica, ma non si stringe mai la politica in modo definitivo, perché si dà storicamente e spazialmente, non naturalmente. Perché è una risposta – sempre mutevole – alle domande che necessariamente sorgono dalla vita collettiva: qual è l´origine del potere fra gli uomini e quali sono le ragioni dell´obbedienza e della rivolta; quali sono le istituzioni in cui il potere si manifesta; quali sono i soggetti che hanno parte (e quale?) al potere; quali sono i discorsi (e chi li fa) con cui il potere viene legittimato e criticato, e in quale rapporto stanno con altri discorsi che investono anch´essi radicalmente la dimensione umana, come l´etica, la religione, il diritto.
Che molte delle risposte moderne date a queste domande non siano più fungibili, che grande parte del personale politico sia inadeguato, che il discorso pubblico balbetti, che cinismo e apatia dilaghino, che lo spirito civico e pubblico sia quasi assente, è appunto la crisi della politica. Ma da questa crisi si esce con un´antipolitica positiva e non rassegnata – cioè con la critica e con l´assunzione di responsabilità – nel segno dell´impegno e non della rinuncia. Come si potrebbe, del resto, rinunciare a rispondere a quelle domande? Se non rispondiamo noi, qualcun altro risponderà al nostro posto, presumibilmente contro di noi. La politica è una domanda ineludibile, è un appello che è un destino. E la risposta – parziale e incompleta come tutte le cose umane – dovrà essere data. Da tutti. L´arte della politica del resto, secondo Platone, appartiene a tutti gli uomini per decisione divina. Nel bene e nel male, fa parte della nostra umanità; è un dovere verso noi stessi.

Repubblica 30.6.10
Lo studioso parla del filosofo tedesco a un master in Economia e Politica
La lezione di Cacciari "Marx va riletto"
"A parlarci oggi non è il profeta politico ma l´attento analista del capitalismo"
di Simonetta Fiori

Marx è stato dato per morto più volte, però non si riesce a seppellirlo. La letteratura su di lui conosce una felice rinascita, tra saggi, riedizione di testi, nuove biografie come quella di Nicolao Merker. A riproporlo oggi – al Teatro Parenti di Milano, per la presentazione di un master in Economia e Politica dell´Università San Raffaele – è Massimo Cacciari, frequentatore delle sue opere sin dai tempi lontani dell´operaismo. «Il Marx capace ancora di parlarci non è né il profeta politico né l´intellettuale ideologico. È invece l´analista del destino del capitalismo, inteso come un formidabile sistema sociale e culturale che produce una spinta smisurata verso la creazione di nuovi bisogni».
Nel suggerire questa definizione, Cacciari spiega due cose distinte. Intanto la ragione della scelta di Marx, economista e filosofo della storia, per presentare un nuovo master di economia che per la prima volta in Italia è aperto solo ai laureati delle facoltà umanistiche (diretto da Angelo Panebianco, vi partecipano anche Michele Salvati e Alberto Martinelli). In secondo luogo, nel "vero Marx" scelto da Cacciari è sottintesa una polemica con un´interpretazione dell´economia come "scienza della natura", idea invalsa soprattutto dopo l´implosione dei regimi del "socialismo realizzato" che dicevano di ispirarsi al marxismo. «Il busto di Marx è finito ingiustamente in soffitta e si è affermato un modello dell´economia come scienza della natura, come se la critica marxiana non fosse mai esistita. Chi non comprende la natura sociale del capitalismo, e dunque riduce l´economia a ratio ragionieristica, va incontro a esiti fallimentari». Si crede illusoriamente che la crisi finanziaria sia una patologia del capitalismo, mentre essa appartiene alla sua fisiologia. «Il ciclo economico capitalistico coinvolge soggetti sociali sempre diversi – il soggetto che dispone dei mezzi finanziari, quello che lavora con le macchine, il consumatore – ed è quindi impossibile prevederne un´armonizzazione. Questo fa sì che la crisi sia immanente in ogni momento del ciclo: è sempre aperta».
Il Marx che Cacciari recupera non è tanto quello del Capitale ma l´autore de I lineamenti fondamentali della critica dell´economia politica, «là dove egli vede il meccanismo della valorizzazione del valore, ossia la creazione del profitto, non tanto nel pluslavoro ma nella potenza del cervello sociale, nella scienza e nella tecnica, ossia nella capacità dell´organizzazione capitalistica di creare ininterrottamente nuovi bisogni». Ma cosa avrebbe detto Marx agli operai di Pomigliano? La risposta di Cacciari appare molto lontana dai tempi della rivista Classe operaia. «Oggi avrebbe invocato disincanto e realismo, come nel discorso pronunciato nel 1871 agli operai di Parigi. Bisogna saper accettare la sconfitta e con intelligenza condurre la ritirata, in modo da non trasformarla in una rotta. Non mi sembra però che siano in tanti ad ascoltarne la lezione».

l’Unità 30.6.10
Dario Fo «Correggio? Figlio di un vu cumprà»
Arte & teatro Benedettini che odorano di eresia, un po’ di eliocentrismo e persino un’ammucchiata: il ‘500 e il grande pittore nelle parole del Nobel
intervista di Toni Jop

Ma lo sai che il nostro Correggio era figlio di un ‘vu comprà?», no, e magari era iscritto al Pci? «Beato lo spirito dell’ignoranza, sei al centro dei nostri tempi». Un momento! Ci hai raccontato storie di luoghi e artisti di serie A, adesso pubblichi un libro e allestisci uno spettacolo dedicato al Correggio, ammetterai che, almeno nella graduatoria del sapere popolare, stiamo affrontando un piano dell’arte che sta ben sotto il suo altezzoso roof garden? «Ecco, questa mia povera parola illuminerà le coscienze offuscate come la tua: perché Correggio è un gigante e per vari motivi, Correggio è un precursore, Correggio è ‘moderno’ come pochissimi. Infine... altrettanto pochi artisti sono stati dimenticati a lungo com’è accaduto a lui che non lo meritava...». Vada per Correggio, professor Dario Fo, ci piacerebbe una bella parabola epica per il nostro eroe, la storia del babbo vu cumprà promette bene, poi?
«A Bologna esisteva una scuola che si chiamava “scuola degli studi poveri”. Era una università, una di quelle che il ministro Gelmini brucerebbe, permetteva di studiare ai figli delle persone che non avevano denaro, i poveri insomma. Antonio Allegri, e cioè il Correggio, la frequentò. Era curiosissimo, assetato di conoscenza, studiava con grande serietà...».
Come in genere i figli dei ‘vu comprà’... «Esatto. Il padre era un ambulante, ma conviene ricordare brevemente in quale contesto si cala la sua avventura intellettuale e artistica. Per esempio: una quarantina d’anni prima della sua nascita accade un fatto decisi-
vo per la qualità della circolazione delle idee nell’alta Italia: la morte dell’ultimo Visconti». Lo vedi? I potenti sono molto importanti quando muoiono...
«Buono. A quel punto, nel vuoto di potere che si apre, i milanesi buttano a pedate tutti i tirapiedi del duca, è la rivoluzione lombarda. Parma diventa repubblica, Modena diventa repubblica. Il ribaltone dura due anni ma in quei due anni succede un’iraddiddio. Dalla Germania è scesa la stampa che passa da Venezia e dilaga più sotto, la circolazione del pensiero è vorticoso, si edifica, nasce il teatro guarda caso
in Lombardia e nel Veneto, non a Roma o a Firenze come verrebbe da credere. E dove il pensiero spettina l’immobilità delle forme cristallizzate, origina la crisi, fonte di ogni bellezza. Persino nella Chiesa accadono cose non conformi, per esempio in casa dei benedettini, ordine che ha avuto un ruolo primario nella fondazione dell’Italia comunale e che, dopo una lunga sonnolenza, tornano ad affacciarsi alla ribalta spinti da un antidogmatismo pericolosamente in odor di eresia ma che è figlio del sapere, della conoscenza, dello studio che prediligono come percorso di vita. E saranno proprio i benedettini gli sponsor del Correggio, loro gli faranno da culla dopo averlo adottato per la qualità della sua conoscenza e per la vitalità del suo sapere».
Loro gli fanno da culla, ma parecchi artisti a lui contemporanei gli faranno ombra, non è così? «A noi così sembra, ma è solo apparenza. Perché se è vero che attorno al Correggio operano Leonardo, Tiziano, Michelangelo, Giorgione e Raffaello ed è una compagnia che farebbe tremare le vene dei polsi a chiunque, Correggio era stimato dai suoi contemporanei come uno dei maggiori artisti esistenti al mondo. Sul mercato valeva moltissimo, i suoi dipinti costavano cifre altissime e lo pagavano anche in maiali, staglie di grano, case e terreni...».
E in dischi di Little Tony...
«Pochi, non aveva il giradischi. Però pensa che lo hanno accusato di aver copiato da Michelangelo e ancora oggi c’è qualcuno che lo sostiene ma: il Correggio dipinge lo sterminato affresco della cupola del Duomo di Parma 340 metri quadri dieci anni prima della Cappella Sistina, il Giudizio Universale è di diaciassette anni dopo. È vero che era una spugna, assorbiva, rielaborava, digeriva e produceva. Tra l’altro con una velocità pazzesca: è campato 45-46 anni e ha fatto a tempo a sfornare centinaia di opere su vari supporti...».
Torniamo ai dischi, e cioè alla riproduzione: era venuto il suo tempo, non è «Con l’avvento della stampa, inizia la serialità; si facevano incisioni a valanga, ogni pittore realizzava da sé le copie di tutti i quadri e di tutti gli affreschi. La serialità infrange il mito della irriproducibilità dell’opera d’arte, sposta l’asse di rotazione del pensiero, così come faceva il movimento di ricerca che lavorava all’ipotesi dell’eliocentrismo, altro bello scossone di quei tempi. E il fulcro di questa bella eresia è in Lombardia e gira attorno a Parma, Padova, Bologna...». Ma era una “tarma”: gli altri giravano il mondo mentre lui se ne stava chiuso nel suo quadrilatero padano (ops!)... «E dove doveva andare? Era al centro dell’area ciclonica del sapere: per descriverlo, basta tracciare una circonferenza neppure tanto estesa con la punta del compasso a Bologna. Ecco anche, forse, perché non è mai andato a Roma, semmai altri da Roma sono venuti da lui per copiare, studiare quello che stava facendo».
E ne combinava di tutti i colori: le sue donne, nei lavori non commissionati da ecclesiastici, sono spinte da una intensità fortemente erotica...
«Ti vedo timido. Correggio per certi versi può essere inteso come l’inventore della pittura sex porno, sviluppa il percorso della sensualità. Aveva incontrato, andandoci a sbattere contro, una ragazzina meravigliosa, Girolama molto più giovane di lui. Se ne innamorò e lei di lui, il suo volto e il suo corpo sono riprodotti decine di volte nei suoi quadri, ecco perché quell’intensità...».
Benedettini o no, ha avuto la sue rogne col potere... «Ovvio: a un certo punto, mentre affrescava la cupola del Duomo facendo vorticare in orbita circolare tutto quello che gli andava attorno a Cristo, era venuto in mente a qualcuno che così non andava, che bisogna distruggere quel tormentone irriverente. Sembra che sia intervenuto in sua difesa Tiziano che avrebbe detto: dovreste invece riempire d’oro il cupolone per ripagare Correggio del suo magnifico lavoro. Muore giovane dopo essere vissuto in una ammucchiata fantastica di una trentina di persone, figli compresi. Un coccolone. Fine».
Porterai questa bella storia in tv?
Non interessa alla tv. La venderò in edicola. Chi vorrà, l’ascolterà in piazza. Vado.

l’Unità 30.6.10
I libri dei migranti
di Igiaba Scego

Il 29 mattina la lettura dei giornali mi ha regalato una sorpresa. Sul Messaggero Walter Pedullà ha dedicato un bell’arti-
colo alla letteratura italiana che ha radici altrove. Dovete sapere che la letteratura scritta dai migranti e dai figli di migranti in Italia è stata sempre poco considerata, se non addirittura snobbata proprio da quella accademia che doveva darle manforte. Gli unici ad occuparsene sono stati dipartimenti di confine come la letteratura comparata, la pedagogia interculturale e gli studi di genere con una forte propensione ai post-colonial studies. I dipartimenti di italianistica invece hanno sempre tenuto una certa distanza. I testi dei migranti e dei figli dei migranti venivano considerati fenomeni circensi, un po’ come l’elefante che si tiene in equilibrio con una zampa sola. Ho sentito accademici dire “ma questa non è vera letteratura e poi non è italiana”. Questo mi ha sempre lasciato perplessa. In che lingua è scritta, di grazia? In ostrogoto? Ormai testi di migranti e di figli di migranti circolano, vengono letti, fanno mercato, fanno tendenza. Siamo passati dal bel Io venditore di elefanti di Pap Khouma, uscito 20 anni fa, agli exploit di Amara Lakhous, Anilda Brahimi, Randha Ghazi e Nicolai Lilin. Walter Pedullà è in buona compagnia in questa riscoperta, per fortuna. A Palermo Domenica Perrone, Natale Tedesco e l’intera equipe di Specchio di carta, laboratorio del romanzo contemporaneo (http://lospecchiodicarta.unipa.it/) hanno dedicato l’anno al mio romanzo. Era la prima volta di un libro scritto da una figlia di migrante. «Era per dare un segno», ha detto Perrone, «questi testi sono in tutto e per tutto letteratura italiana». Sostenere questo è segno di aver preso coscienza che l’Italia è di fatto plurale. Almeno ora si potrà dire in letteratura che l’Italia non respinge più. Per il resto purtroppo non si può dire altrettanto.

il Fatto 30.6.10
Ignoranti, altro che maturi
Secondo uno studio dell’Invalsi i temi dei ragazzi sono in media da bocciare
di Caterina Perniconi

Meritocrazia è la parola di cui il ministro Mariastella Gelmini si riempie di più la bocca. Ma alla prova del nove, gli studenti più bravi non sono così bravi come sembra dai loro voti. Il rapporto sull’andamento del tema d’italiano all’esame di Stato dell’anno scolastico 2008/09, elaborato dall’ “Invalsi” – I’stituto nazionale per la valutazione del sistema educativo – in collaborazione con l’Accademia della Crusca e anticipato dal Fatto Quotidiano, dimostra come i temi della maturità siano di un livello molto più basso rispetto alle valutazioni date dagli insegnanti, tentati dal non abbassare i livelli curriculari degli studenti. In una scuola falcidiata dai tagli, i professori non hanno più gli strumenti e le ore necessarie per portare i ragazzi ad un livello d’apprendimento alto. E secondo l’ordinario di pedagogia sperimentale dell’Università di Roma tre, Benedetto Vertecchi, “le società autoritarie basano il loro consenso sul basso livello di conoscenza della lingua”. L’allarme dunque è suonato.
Il risultato complessivo della correzione dei 545 elaborati relativi alla prova di italiano, che sarà pubblicato oggi sul sito dell’Invalsi, mette in luce la scarsa padronanza dell’uso scritto della lingua dei ragazzi al termine della scuola superiore, dopo 13 anni di istruzione. La rilevazione ha esaminato quattro competenze: testuale, grammaticale, lessicale-semantica e ideativa. E in tutte e quattro è stato registrato un voto medio complessivo inferiore alla sufficienza. Il caso relativamente meno grave riguarda la competenza grammaticale, nella quale “solo” il 54 per cento degli elaborati riceve un voto insufficiente. Il caso più preoccupante è quello della competenza lessicale-semantica che, nel 63 per cento degli elaborati, è giudicata al di sotto del livello di sufficienza. Una quota importante dei compiti (tra il 20 e il 30 per cento) riceve un voto appena accettabile, mentre la quota delle eccellenze è estremamente ridotta tra il 2,8 e il 5 per cento. E la differenza non è particolarmente sensibile nemmeno rispetto al tipo di istituto frequentato.
Il voto medio dei ragazzi provenienti dai licei è appena sufficiente, con una variabilità paragonabile a quella che si registra per tutte le scuole, e la quota dei temi eccellenti è piuttosto esigua. Solo nella competenza ideativa si raggiunge il 10 per cento. Nelle altre si registrano valori tra il 5,2 e il 6,7 per cento. Negli istituti tecnici la percentuale di elaborati giudicati insufficienti varia da un minimo di 67,9 per cento nella competenza grammaticale ad un massimo del 75,5 per cento in quella lessicale-semantica. In nessuno dei quattro ambiti sono presenti temi considerati eccellenti. Nel giudizio dei correttori quindi, la gran parte degli allievi degli istituti tecnici, che pure sotto altri profili si dimostrano buone scuole, non raggiunge un livello sufficiente di padronanza della lingua.
Ancora più preoccupante è la situazione dei ragazzi che frequentano gli istituti professionali: più dell’80 per cento dei loro compiti sono considerati insufficienti dai correttori in tutte e quattro le competenze. E paragonando i voti con quelli delle commissioni, il divario è ampio. “La valutazione delle prime prove, fatta sempre da docenti che hanno fatto parte delle commissioni della maturità, conferma e aggrava il fenomeno della scarsa conoscenza della lingua italiana da parte dei maturandi – spiega Vertecchi – e come competenza linguistica deve essere considerata la sintesi di interazioni complesse, che si stabiliscono nell’insieme delle esperienze di bambini e ragazzi. Al momento, sul livello di tali interazioni incide in misura determinante il linguaggio dei mezzi di comunicazione sociale, a partire dalla televisione”.
Per il professore ed esperto internazionale “la scuola italiana non appare in grado di contrastare la prevalenza di modelli che il più delle volte si caratterizzano per l’uso di un lessico limitato, di una grammatica povera, di una sintassi sommaria”. E il rischio di una deriva c’è: “Le società autoritarie basano il loro consenso sul basso livello di conoscenza della lingua, e qualcuno dovrebbe porsi il problema, visto che la scuola non è in grado di recuperare rispetto ai messaggi di bassa lega dei mezzi di comunicazione di massa”.

martedì 29 giugno 2010

l’Unità 29.6.10
Stampa e libertà
Un rischio per tutti i cittadini
di David Sassòli

La vera libertà di stampa è dire alla gente ciò che la gente non vorrebbe sentirsi dire». George Orwell la pensava così. Come mettere freni, limiti, alle libertà? Come regolare una materia che dev’essere pubblica per definizione, nel momento che la giustizia si amministra in nome di tutti? Le intercettazioni pongono problemi certo, ma il governo ha deciso di non risolverli e di imporre un bavaglio. Due i punti di partenza: da quando un atto è pubblico non possono esservi limiti alla diffusione delle informazioni; tutto ciò che non serve al processo dev’essere eliminato. Il governo invece che fa? Colpisce il diritto di cronaca e l’autonomia della magistratura. Sono troppe le intercettazioni? Non so giudicare il troppo o il poco, in un Paese che ogni giorno fa emergere casi di corruzione, attività mafiose, collusioni fra politica, finanza, criminalità e apparati dello Stato. I dati sono allarmanti e ci riferiscono di un’emergenza criminalità che mette in pericolo la sicurezza anche di altri Paesi. Non è un caso che il sottosegretario alla giustizia Usa, Lanny Breuer, abbia ribadito che le intercettazioni sono uno strumento essenziale nella lotta al crimine. Dire no alla legge bavaglio è parlare di grandi valori. Non è un problema di giornalisti e giudici, ma della sicurezza dei cittadini. Il governo ne aveva fatto una bandiera, alimentando paure e fobie, ma ancora una volta cerca di mettere in sicurezza il ceto politico rispetto agli interessi generali. Difficile spiegare in Europa quello che accade in Italia. Difficile raccontare di un Parlamento bloccato da leggi che interessano il premier mentre aumenta la disoccupazione giovanile e le imprese chiudono. Anche per questo saremo giovedì in piazza Navona.

l’Unità 29.6.10
La Corte Suprema americana ignora il ricorso della Santa Sede sugli abusi in Oregon
In Belgio si dimette la commissione interna della Chiesa dopo la polemica sulle perquisizioni
Usa, via libera a processi contro il Vaticano per la pedofilia
di Marco Mongiello

I giudici costituzionali americani hanno deciso di non prendere in considerazione il ricorso del Vaticano che invocava l’immunità. Si apre così la strada ad azioni legali contro i preti accusati di pedofilia.

Il Vaticano può essere processato per la questione pedofilia. È questo il verdetto dei giudici americani che, dopo i guai con la giustizia belga, hanno assestato un altro duro colpo alla Chiesa cattolica.
La Corte Suprema Usa ha deciso di non prendre in esame il ricorso della Santa Sede, che aveva invocato il diritto all'immunità degli Stati Sovrani nel processo contro Andrew Ronan, un prete irlandese responsabile di diversi abusi su minori e ormai deceduto. Così ha rinviato ogni decisione al tribunale dell’Oregon.
IL TRASFERIMENTO
Il Vaticano è considerato civilmente responsabile perché, nonostante fosse a conoscenza delle accuse, si è limitato a trasferire il prete dall'Irlanda a Chicago e poi a Portland, nell'Oregon. Proprio qui, nel 1965, il prete avrebbe molestato la vittima che ha fatto partire il processo. La decisione rende definitiva la sentenza della Corte d'appello e ora, prima che un rappresentante della Santa Sede possa essere chiamato a testimoniare, il tribunale dovrà decidere se il Vaticano può essere considerato un «datore di lavoro» del prete pedofilo. Sulla concessione dell'immunità l'amministrazione Obama aveva fatto sapere di essere disponibile, ma la magistratura ha espresso parere contrario in diversi gradi di giudizio. «Ringraziamo i giudici per il coraggio con cui hanno lasciato che l'azione legale vada avanti», ha dichiarato l'avvocato della vittima, Jeff Anderson, «l'azione della Corte è una risposta alle preghiere di migliaia di sopravvissuti alle molestie sessuali dei preti che finalmente avranno una chance di avere giustizia».
LE POLEMICHE
In Belgio intanto non si placano le polemiche scatenate dalle perquisizioni della polizia che giovedì, durante una riunione plenaria dei vescovi, è intervenuta in forze, ha bloccato tutti per nove ore e ha sequestrato computer, telefonini e agende per far luce sulle denunce di pedofilia contro i preti. Ieri si è dimessa in blocco la commissione della Conferenza episcopale belga che era stata istituita nel 2000 per raccogliere le denunce. «Ci dimettiamo perché la fiducia tra la giustizia e la commissione è stata deteriorata e di conseguenza anche la fiducia tra al commissione e le vittime», ha spiegato Karlinin Demasuer, uno dei membri, polemizzando contro il sequestro dei 475 dossier con le denunce della vittime che si erano rivolte alla commissione perché non volevano ricorrere alla giustizia. Domenica sera il presidente della commissione, lo psichiatra Peter Adriaenssens, aveva preannunciato la sua intenzione di lasciare l'incarico e ieri tutti i membri hanno deciso di seguirlo.
Nel pomeriggio Adriaenssens è stato ascoltato dagli inquirenti, ma la procura di Bruxelles non ha voluto precisare il ragione dell'audizione. Il ministro della Giustizia belga, Stefaan De Clerck, ha annunciato la creazione di un gruppo di lavoro per gestire la questione dei rapporti con le vittime. Il titolare degli Esteri ha invece «invitato» il nunzio apostolico a Bruxelles per un incontro aperto e costruttivo.
Da Roma intanto l'Agenzia di stampa della Cei, la Sir, ha fatto eco alle critiche alla giustizia belga «giustamente» espresse dal Papa e dal Segretario di Stato Vaticano, il cardinale Tarcisio Bertone. A questi si è aggiunto ieri il ministro degli Esteri Frattini che in un commento su Facebook ha puntato il dito contro «l'accanimento senza precedenti, il circuito mediatico globale ispirato dal laicismo senza valori». Mentre su Internet venivano pubblicate queste parole il Papa riceveva l'arcivescovo di Vienna, cardinale Christoph Schoenborn, colpevole di aver criticato l'ex Segretario di Stato Vaticano, il cardinale Angelo Sodano, per aver insabbiato le denunce sulla pedofilia, definendole «chiacchiericcio». Alla fine dell'incontro la Santa Sede ha diffuso un comunicato in cui si ricorda che solo il Papa ha il diritto di criticare un cardinale.

Repubblica 29.6.10
Per Jeff Anderson la decisione dei giudici di Washington è "un´enorme vittoria legale"
"Porterò Benedetto XVI in tribunale" esulta l’avvocato delle vittime americane
Non penso che sarà possibile processare il pontefice, ma cercherò di ottenere la sua deposizione

NEW YORK - L´aveva promesso e lo farà: «Porterò il Papa in tribunale». Ma nel giorno in cui raccoglie la vittoria - «E´ caduto un nuovo muro di Berlino» - Jeff Anderson, 62 anni, l´avvocato delle vittime dei preti negli Stati Uniti, l´uomo che scoprì che anche sua figlia fu abusata da un ex sacerdote, pensa per prima cosa alla prossima mossa: una «missione in Italia» per raccogliere le deposizioni dei cardinali Angelo Sodano e Tarcisio Bertone, che lui ritiene responsabile del cover up, della copertura, dell´insabbiatura dello scandalo pedofilia.
Avvocato, la Corte Suprema non accoglie l´appello del Vaticano. Il suo processo più andare avanti.
«E´ una grande vittoria, una vittoria enorme. Per la storia degli abusi sessuali dei preti è la caduta del muro di Berlino, la caduta della separazione tra la Germania Est e la Germania Ovest, tra l´Est e l´Occidente... «.
Ma che cosa vuol dire in concreto?
«E´ una enorme vittoria legale. Per le vittime di questi crimini è una straordinaria opportunità di avere finalmente giustizia. E di far sì che il Vaticano venga ritenuto responsabile per la sua negligenza: per la sua criminale negligenza. E per il suo ruolo nella copertura dei crimini dei preti».
Eppure non c´è stata sentenza. La Corte si è limitata a non accogliere l´appello del Vaticano.
«Ma è una vittoria enorme che la Corte ci abbia dato il semaforo verde, finalmente il via libera: dopo otto anni di impedimenti sollevati dall´inizio della causa, nel 2002, dopo otto anni di ostacoli».
Davvero a questo punto pensa di portare, come ha annunciato, Papa Ratzinger alla sbarra?
«Sì, questa à una delle cose che faremo. Ma prima cominceremo dal cardinale Sodano e dal cardinale Bertone. Al Papa ci arriveremo. Non voglio certo cominciare da lì: voglio prima raccogliere le loro deposizioni in particolare. Perché loro - uno come segretario di Stato, l´altro come Capo del collegio cardinalizio, sono stati i top guys, i personaggi chiave».
Perché proprio loro?
«Perché nelle loro posizioni sono stati al centro delle coperture per un lungo periodo. Così come lo fu il cardinale Joseph Ratzinger, l´attuale Papa Benedetto, quando aveva responsabilità nella Curia. Lui adesso è il capo supremo e non partirò nell´inchiesta da lui: ma ci arriverò».
Come farà a raccogliere queste deposizioni? Pensa di organizzare degli interrogatori in Italia?
«Sì, dovremo andare in Vaticano, organizzeremo le deposizioni, organizzeremo una missione».
Primo passo, lei dice, Bertone e Sodano. Per arrivare a portare sotto processo il Papa?
«Guardi, cercheremo come ho detto di avere la deposizione anche del Papa. Io non penso che sarà possibile processare il Papa in quanto Papa: ma il Vaticano sì. Per la prima volta avremo la possibilità di fare un processo, qui negli Usa, in cui il Vaticano può essere considerato responsabile nella copertura di quei crimini che sono gli abusi dei preti. E´ soltanto una decisione che riguarda un caso ma apre la porta ad altri casi e soprattutto al principio di responsabilità. E questa è la cosa più importante».
Come si è sentito appena avuta la notizia della decisione della Corte Suprema?
«Estasiato...».
(a. aq.)

il Fatto 29.6.10
La vera laicità? Trattare anche i vescovi come normali cittadini
Le perquisizioni in Belgio insegnano: la legge è uguale per tutti
di Paolo Flores d’Arcais

La “laicità positiva” è l’invenzione lessicale, da neolingua orwelliana, con cui il presidente francese Sarkozy nel dicembre del 2007, puntava a ridimensionare la laicità laica, la laicità coerente, ma potremmo anche dire la laicità senza aggettivi, della tradizione francese. Nella neolingua di “1984” di Orwell, infatti, le parole vengono piegate dal regime del Grande Fratello a significare l’opposto di quello che hanno sempre voluto dire.
Per fortuna dal 26 giugno 2010, esiste in Europa un’altra versione di “laicità positiva”, in cui l’aggettivo “positivo” ha in effetti il significato di “positivo” (buono, favorevole, costruttivo, proficuo, leggo nel dizionario dei sinonimi). L’interpretazione autentica dell’unico senso che può avere in una democrazia liberale l’espressione “laicità positiva” l’hanno data i gendarmi belgi inviati dal procuratore di Bruxelles a perquisire le sedi della conferenza episcopale e a sequestrare ogni documento utile per portare in giudizio i preti pedofili di quel paese fin qui sfuggiti alla giustizia.
I vescovi, che erano riuniti in assemblea, sono stati trattati esattamente come sarebbero stati trattati i membri di qualsiasi altra potente organizzazione su cui pendesse il sospetto di avere con il proprio comportamento sottratto alla legge, per anni e anzi decenni, dei pericolosi criminali. Per tutte le ore della perquisizione (nove, per l’esattezza) è stato loro impedito di uscire dall’edificio e di usare il telefono portatile. Di comunicare, insomma, con possibili complici. Nessun democratico può perciò parlare di “fatto inaudito e grave… di cui non ci sono precedenti neanche nei regimi comunisti di antica esperienza”, se un vescovo viene trattato esattamente come ogni altro cittadino. Il cardinale Tarcisio Bertone – segretario di Stato di Papa Benedetto XVI – invece lo ha fatto, evidentemente ignaro che in una democrazia “la legge è eguale per tutti”. Gli aveva già risposto in anticipo l’ex premier del Belgio, Yves Leterme, ricordando che “chi ha commesso abusi deve essere perseguito e condannato secondo la legge belga” e aggiungendo che le investigazioni “sono la prova che in Belgio esistono poteri separati tra Stato e Chiesa”. Yves Leterme non è un “comunista di antica esperienza” ma un democratico-cristiano. Per il quale evidentemente conta anche la prima parte della definizione, a differenza del cardinal Bertone. Fa dunque una figura assai meschina, democraticamente parlando, Joseph Ratzinger, sceso a dar manforte (“sorprendenti e deplorevoli modalità delle perquisizioni” ) al cardinal Bertone proprio mentre il portavoce della Procura di Bruxelles respingeva l’aggressione del cardinale segretario di Stato con un perentorio “le perquisizioni sono state condotte da professionisti che conoscono molto bene il loro lavoro e che rispettano i diritti delle persone”. È dunque evidente che la questione della laicità è oggi per l’Europa una questione centrale e ineludibile. Per il Papa vale la logica che, quando in una vicenda sono implicati dei preti (e Dio non voglia vescovi o cardinali), “la giustizia faccia il suo corso”, ma “nel rispetto della reciproca specificità e autonomia” di Stato e Chiesa. Frase in apparenza innocua, che dovrebbe andare da sé, traduzione burocratica del più eloquente “dare a Cesare quel che è di Cesare, e a Dio quel che è di Dio”, se non fosse per il fatto che il Papa pretende di essere poi lui a decidere se e quando lo Stato prevarichi, se e quando un membro della gerarchia debba rispondere a un magistrato. Pretende di essere lui, insomma, e non un tribunale civile, a decidere quali siano i confini tra le due giurisdizioni.
Si dirà però che non si possono trattare i vescovi di un paese come dei “sospetti” di compiacenza o addirittura omertà verso dei criminali (in questo caso dei pedofili), e che il comportamento della giustizia belga è dunque “non si sa se grottesco o ignobile” (Vittorio Messori). Obiezione francamente spericolata, visto il precedente del vescovo di Bayeux-Lisieux monsignor Pierre Pican, condannato a 3 mesi con la condizionale dalla giustizia francese per essersi rifiutato di testimoniare sulle attività pedofile, a lui note, di un prete della sua diocesi, e che per questo modo omertoso di “rispettare la reciproca specificità e autonomia” tra Stato e Chiesa ricevette, tramite il cardinal Castrillón Hoyos, l’encomio entusiasta e solenne di Giovanni Paolo II. Proprio mentre il Belgio (tradizionalmente cattolico) spiegava con i fatti cosa debba significare “laicità positiva”, la Corte costituzionale tedesca legalizzava definitivamente l’eutanasia passiva, annullando la condanna di un avvocato che aveva consigliato a un proprio cliente di tagliare il tubo della flebo di un suo parente tenuto in “vita” artificialmente e contro la sua volontà. La Chiesa luterana ha approvato la sentenza, quella cattolica no, per “la sensazione che la differenza tra eutanasia attiva e passiva non sia stata presa sufficientemente in considerazione”. E in effetti, in un quadro di laicità davvero positiva il passo successivo – logicamente e giuridicamente inevitabile – è il diritto alla decisione sovrana di ciascuno sul proprio fine vita. Se, come ha stabilito la Corte costituzionale tedesca, “il paziente può decidere di rifiutare trattamenti di prolungamento artificiale della vita anche in caso di morte non imminente”, perché evidentemente non considera più la sua “vita umana” ma disumana tortura, non si vede perché per porre fine alla tortura non possa chiedere interventi attivi. Nel cattolico Belgio infatti, come nella protestante Olanda, ciò è già possibile.
Il Belgio, come hanno di mostrato le recenti elezioni, vive un momento carico di problemi politici non invidiabili. Ma sotto il profilo della laicità è indubbio che oggi sarebbe necessario “più Belgio” in ogni paese d’Europa.

l’Unità 29.6.10
Chiesa preoccupata per l’8 per mille:
calo del 4 per cento
Il timore è che gli scandali possano influire nelle scelte di chi in questi giorni sta decidendo le donazioni del 730. Poche settimane fa l’allarme della Cei per i gettiti 2005, 2006, 2007
di C. Fus.

Una risposta, certo. Una presa di posizione chiara, anche. Ma nelle puntualizzazioni e nelle ammissioni che ieri il Vaticano ha voluto fare a proposito del ruolo di Propaganda Fide nell’inchiesta su sistema gelatinoso e cricca c’è anche chi intravede un ten-
tativo di salvare il salvabile in tempi di 730 e Unico e dichiarazioni dei redditi e gettito Irpef. In una parola: un tentativo di tamponare la continua, seppur lenta, emorragia di donazioni tramite 8 per mille.
Il Concordato stabilisce che lo Stato deve aiutare anche economicamente la Chiesa. L’autostrada delle offerte è nelle dichiarazioni dei redditi dei circa quaranta milioni di contribuenti italiani e nella destinazione del loro 8 per mille. Ora, ai primi di giugno l’Assemblea dei Vescovi (conclusa il 28 maggio) ha diffuso una nota preoccupata da cui «risulta che nel 2007 le firme a favore della Chiesa cattolica sono state l’85,01 per cento del totale, contro l’86,05% del 2006 e l’89,82% del 2005». Quasi il quattro per cento in meno in tre anni. Il dato definitivo del 2008 non è ancora disponbile, quello del 2009 può essere integrato fino a settembre di quest’anno. Non sono disponibili cifre ufficiali ma il trend è in costante diminuzione. Le dichiarazioni dei redditi del 2010 sono in corso d’opera ed è chiaro che Santa Sede e Cei sono in apprensione sull’entità del gettito di quest’anno. Un anno sicuramente molto particolare per la Chiesa da qualche mese sulle prime pagine di tutto il mondo per lo scandalo pedofilia. E nelle ultime settimane anche per gli affari della cricca che avrebbero avuto Propaganda Fide e il suo patrimonio immobiliare al centro di un ipotizzato scambio di favori. Se è impossibile trovare conferme ufficiali, la tendenza al calo delle firme per la Chiesa sembra essere confermato dalle prime ricognizioni tra Caf e studi di commercialisti. Nella relazione ai vescovi presentata dal Segretario generale della Cei, monsignor Mariano Crociata ha spiegato che «nel 2007 alla Chiesa cattolica sono andate 14.839.143 adesioni, 95.104 in meno rispetto all’anno precedente». Un calo, quindi, sia percentuale che assoluto. A cui, però, sempre nel 2007, ha corrisposto un aumento delle entrate grazie al maggior gettito fiscale e quindi del denaro versato alla Chiesa dallo Stato. Grazie al gettito fiscale 2007, nel 2010 alla Chiesa sono andati 1.067 milioni di euro, contro i 967 del 2009, quasi cento milioni in più. Il gettito fiscale è purtroppo calato negli ultimi due anni. Se viene sommato alla sfiducia figlia degli scandali, lo saranno anche le offerte alla Chiesa cattolica. Il gettito dell’8 per mille è così ripartito: 20% in beneficienza; 35% per gli stipendi del clero, il 45% per le esigenze del culto.

Repubblica 29.6.10
L’anticipazione. Il saggio di Prosperi sul cattolicesimo in Italia
L’età moderna e la religione
di Adriano Prosperi

Questa è la fase storica in cui si delineano le forme rituali e istituzionali

Anticipiamo un brano dell´introduzione di al suo "Eresie e devozioni. La religione italiana in età Moderna", raccolta di studi storici pubblicata da "Edizioni di Storia e Letteratura"

Queste ricerche riguardano una fase storica di conflitti religiosi nati dai contrasti e dai dubbi su quale dovesse essere la religione della popolazione della penisola. Solo il modo e i mezzi con cui furono regolati i rapporti di forza dovevano decidere i lineamenti futuri di tale religione, quelli che dovevano diventare abituali e familiari alle generazioni dei secoli successivi. Il campo dove si è svolto il lavoro è quello compreso tra la fine del ‘400 e l´età del Concilio di Trento e della Controriforma. Un´età lontana nel tempo ma fin troppo vicina per una ragione molto semplice: l´unità del popolo italiano ha una radice nel cattolicesimo tridentino e nella pratica sociale delle forme rituali e istituzionali in cui si esprime l´appartenenza a una religione. L´Italia appariva a Alessandro Manzoni «una d´altare»: e la definizione continua a risultare esatta. Così come accadeva ieri ai coscritti dell´esercito nazionale di leva, ancor oggi gli italiani continuano a essere censiti meccanicamente come cattolici a prescindere dalle loro convinzioni e dalle pratiche in cui si manifesta la loro religiosità, anzi evitando in ogni modo di inquietarne il senso di conformità per non dire il conformismo di quella religione «sociologica» che ha preso da secoli il posto della scelta di coscienza individuale. Hanno ragione i teologi cattolici quando ci ricordano che nessuno nasce cristiano perché, a differenza di ebrei e islamici, è il battesimo individuale a rendere cristiano chi lo riceve. Ma in Italia - e non solo in Italia - il battesimo non è più da secoli la scelta dell´adulto che si converte, come lo fu per Sant´Agostino. In Italia e nelle società a maggioranza cattolica il battesimo si amministra ai neonati ed è, insieme alla prima comunione, al matrimonio e ai funerali, un rito di passaggio entrato nel costume collettivo dal quale ci si può dissociare solo a prezzo di scelte meditate e socialmente impopolari. L´«altare» manzoniano è un sistema di riti e di pratiche che inquadrano la vita sociale senza richiedere lo sforzo di una scelta consapevole di fede personale. Intorno alla chiesa si svolgono forme politiche e sociali di solidarietà e di controllo la cui genesi o giustificazione religiosa ha cessato da tempo di sembrare problematica e di richiedere un consenso meditato dei singoli. Proprio per questo valore di cemento sociale il cattolicesimo italiano appare come un tesoro di incalcolabile valore a chi tenta la scalata al potere politico coi mezzi democratici del voto o col plebiscito e i sondaggi d´opinione: da ciò nascono quelle che a prima vista possono apparire come strane contraddizioni, qual è la difesa da parte di movimenti e partiti neopagani della presenza del crocifisso nei luoghi pubblici (scuole, aule di giustizia) o quella dell´insegnamento obbligatorio della religione cattolica nella scuola pubblica. Chi sostiene scelte del genere lo fa in nome della trasformazione ormai avvenuta di quei simboli religiosi in arredi civili e di quei precetti teologici in un misto di cultura popolare e norme di buona creanza. Questo è il prezzo pagato dalla Chiesa cattolica per iscriversi nell´ambiente italiano come un dato di natura più che di cultura.
Non è stata una scelta esclusiva e riservata all´Italia. Anche in altri paesi e in altre culture la Chiesa come potere e come cultura ha proposto una scelta di questo genere, perseguendo la politica dei concordati e offrendosi come garante della pubblica tranquillità e dell´obbedienza del popolo ai poteri costituiti. Come osservò Fiodor Dostoevskij, un ritorno di Gesù Cristo sulla terra incontrerebbe sempre il fermo diniego di un qualche Grande Inquisitore in nome della tutela dell´ordine pubblico e dell´assetto esistente. Né si deve invidiare la condizione di quei paesi dove una minoranza cristiana soffre intolleranze e persecuzioni. Ma il problema nasce quando la presenza egemonica di una confessione religiosa si traduce in pulsioni di intolleranza e di prevaricazione sui diritti individuali dei cittadini. In altre culture europee l´eredità delle guerre di religione ha lasciato nella costituzione politica e nella coscienza pubblica un sedimento importante che in Italia è mancato: la concezione dello spazio pubblico come distinto e separato dalle private convinzioni religiose. Su quel terreno è nata una cultura dei diritti che oggi, attraverso gli organismi internazionali, scopre quotidiane occasioni di conflitto con la prassi prima e più ancora che col diritto vigente in Italia, dove l´ingresso nella Costituzione repubblicana di solenni affermazioni in materia di diritti stenta a tradursi in regole effettive.
La questione si riapre oggi per il semplice fatto che la religione cattolica come forza collettiva governata da autorità centrali è scossa in profondità dal conflitto tra l´assetto arcaico di un corpo sacerdotale gerarchicamente ordinato e determinato a guidare i comportamenti e le convinzioni dei singoli e, dall´altro lato, quell´apertura ai valori affermatisi anche in Italia contro di esso - la libertà di coscienza, la difesa dei diritti individuali di disporre della propria vita - che si è diffusa tra i laici cattolici e si è fatta strada tra le voci e nei documenti del concilio Vaticano II.


l’Unità 29.6.10
L’appello. Le «Lettere dal carcere» vengano adottate come testo nelle ultime classi delle superiori
Cara Gelmini. Tra i firmatari Fo, Consolo, Loy, Agosti: scritti cruciali per la storia e la cultura italiana
Gramsci, un classico per la scuola come (e più di) Dante e Manzoni
di Bruno Gravagnuolo

Le «Lettere dal carcere» accanto a Leopardi, Dante, Manzoni etc? Certo: è il contenuto di un appello che non ha niente di ideologico: quella di Gramsci è una figura essenziale per la comprensione del ‘900 italiano.

Sarà dura con la Gelmini, ma la notizia c’è e vale la pena tentare: le Lettere dal carcere di Antonio Gramsci come testo italiano del 900 nelle ultime classi degli Istituti superiori. La notizia è un appello, lanciato giorni fa, durante la cerimonia di conferimento del «Premio Gramsci-Ales 2009» su un’idea della vincitrice per la letteratura: la scrittrice ed ex insegnante Margherita Pinna. E l’appello per le Lettere gramsciane a scuola è stato già sottoscritto da centinaia di firme di adesione, fra le quali quelle di Dario Fo e Franca Rame, Vincenzo Consolo, Rosetta Loy, Paola Capriolo, Silvano Agosti, Renzo Rossellini, Valerio Magrelli, Giancarlo Nanni, Giuliano Montaldo, Leo Gullotta, Bianca Pitzorno, Renato Minore, per citarne alcuni.
Parterre variegato che si va via via arricchendo, di critici, scrittori, registi, attori, giornalisti. Per una battaglia «impossibile» di questi tempi leghisti e berlusconiani, nei quali c’è da scommetterci, subito da destra e dal fronte moderato si griderà alla solita operazione ideologica vetero-comunista e zdanoviana.
E invece quell’appello, rettamente inteso, è sacrosanto, o quantomeno utile. Poiché intanto richiama l’attenzione su una pagina splendida di storia italiana. Pagina letteraria e politica di tale significato generale da travalicare ogni steccato ideologico. Infatti in quelle lettere scritte dal 1926 al 1937, anno della morte del prigioniero, è condensata una straordinaria Odissea morale, intrecciata alla tragedia del fascismo e a quella del totalitarismo sovietico. Nelle cui maglie un uomo soloe davvero non è retorica schiacciato dai macigni della storia, osò pensare, resistere, immaginare il passato e il futuro. E persino intessere amicizia e amore da lontano, con i figli quasi a lui sconosciuti, la moglie, la madre, la sorella, i compagni di cui si fidava, e i compagni e gli italiani del futuro anteriore, che sarebbero venuti dopo di lui.
Cosa c’è in quelle lettere pubblicate per la prima volta da Togliatti per Einaudi nel 1947, quel Togliatti geniale di cui pure Gramsci diffidava almeno dal 1926, quando il Migliore appoggiò la repressione di Stalin contro Trotzki? Lo abbiamo detto, in parte. Innanzitutto, in una fitta trama con la cognata Tatiana, i familiari e l’economista Sraffa, la volontà di resistere all’annientamento fascista. E a quello della malattia, che in carcere comprimevano la sua mente. Ma il tutto, ecco il punto, senza risentimento, né autocompiacimenti eroici. Nella piena e «normale» assunzione di responsabilità da parte di Gramsci del suo destino «autodestinato»: ovvio, scriveva più o meno alla madre, che uno come me e con le sue scelte finisca così di questi tempi... E il prigioniero annotava ancora, proprio in una delle sue lettere, e in una pagina dei Quaderni (sempre «dal carcere») che ambiva ad essere un «uomo medio», che «ha le sue convinzioni profonde e non le baratta per niente al mondo». Perché «uomo medio»? Non solo per virtù antiretorica e disdegno delle pose. Ma per una ragione più profonda, legata al motivo ispiratore di tutta la sua opera. E cioè: essere «medi» per Gramsci era la sola possibilità di capire la storia, vicenda grandiosa e «terra-terra». Dove le idee sono briciole e semi sminuzzati che muovono nel quotidiano le menti di milioni e milioni di individui, inconsapevoli o semiconsapevoli. Ecco, essere «medi» per Gramsci, significava stare nel cuore delle cose, per farsene una ragione e convertirla in azione volta al mutamento e alla liberazione.
E però non c’era nelle Lettere solo il disperato tentativo di «Nino» di restare lucido e autocostruirsi ancora, malgrado il degrado feroce a cui lo sottoponevano gli aguzzini italiani (e anche i compagni italiani e staliniani a Turi, che lo trattarono come un traditore). C’era pure il programma di una grande opera a futura memoria: I Quaderni. Con il loro sommario dispiegato: «gli intelletuali italiani», «linguistica comparata», «il teatro di Pirandello», «la letteratura popolare». Programma che benché non eseguito e solo abbozzato, andrà al di là di uno studio carcerario per distrarsi e resistere. E quel disegno è un’intera filosofia politica. Ricavata dallo studio storico del «come» le idee diventano potenza materiale e simbolica. Finalizzato a un obiettivo: l’autoliberazione dei ceti subalterni dal dominio proprietario e borghese. Senza nulla buttare della grande eredità borghese o dei meriti «a metà» del Risorgimento. Nonché dei pregi della grande filosofia nazionale: Croce e Gentile (ma Gramsci apprezzava anche Sorel, Nietzsche e Bergson). E ancora, nello scrigno delle Lettere: la ricerca di uno stile espressivo. Di una lingua degna di essere parlata, veicolo di emozioni e relazioni. La lingua come potenza espressiva che inserisce i sentimenti in un destino comune: di amicizia, amore e lotta. E poi i richiami alle fiabe, di cui Gramsci era conoscitore, per arrivare alla mente e ai fantasmi dei bambini, e per parlare al loro cuore di «persone». E i richiami al dialetto, sardo e non solo, cellula formativa essenziale per Gramsci, italiano cosmopolita persuaso che senza radici emotive personali non c’è spinta vitale verso un mondo di tutti. Infine, Gramsci e suoi compagni e l’amaro dissidio col Togliatti tatticamente staliniano.
L’altra grandezza raccontata delle Lettere: restare fedeli ai compagni, anche se questi ti mollano. Fedeli per sé, per loro e per tutti noi venuti dopo. Sì dunque a Gramsci, accanto a Dante, Manzoni, Leopardi, Machiavelli. A scuola sarebbe una prima linea formidabile.

l’Unità 29.6.10
De Sade? Un filosofo rivoluzionario che predisse Freud
Il «divino marchese» colmò un vuoto della Rivoluzione francese: il diritto di ogni essere umano di soddisfare le proprie pulsioni sessuali
di Renato Barilli

Abbiamo già evocato l’ombra di Sade, a proposito del quadrilatero impostato dal Laclos di cui, del resto, il Divino marchese (1740-1814) fu quasi un perfetto coetaneo, però con l’avvertenza che per passare dall’uno all’altro bisogna capovolgere la visuale: il male che i protagonisti delle Relazioni pericolose tramano incessantemente è partorito nell’oscurità, nei recessi della mente, o appunto affi dato al segreto epistolare, perché, se venisse rivelato, si meriterebbe la condanna unanime della casta nobiliare ancora pienamente insediata al potere.
Sade invece ne farebbe i requisiti di un insegnamento obbligatorio, all’altezza degli assunti generali della sua fi losofi a. In altre parole, egli è un filosofo, il terzo grande del Settecento francese, dopo Voltaire e Rousseau, magari con l’aggiunta a latere di Diderot, ma anche con la conseguenza (già verifi cata nei casi precedenti) che queste prestazioni di autori filosofi, benché assai alte nel profi lo generale della cultura del secolo, strappano esiti alquanto minori, in sede specifi camente narrativa.
Così è anche nel caso di Sade, in cui la narrazione è schematica, ripetitiva, esattamente come avveniva nei romanzi a tesi voltairiani, non nella Giulia rousseauiana, dove semmai il limite sta in una retorica troppo paludata e diffusa, che però sa fare il giusto posto anche alle ragioni del sentimento.
Ma dunque, in sostanza, questi filosofi narratori vanno giudicati, e stimati, in primo luogo per la profondità dei rispettivi messaggi teorici, nei cui confronti la narrazione assume un compito ancillare. E profondo, radicale è senza dubbio il messaggio lanciato da Sade, nella sua unilateralità, nella sua oltranza quasi maniacale. In fondo, egli è venuto per porre rimedio ai gravissimi limiti che il senno del poi, partorito nel corso dell’Ottocento e più ancora del Novecento, ha scoperto negli immortali principi del 1789, che magari immortali sono davvero, e tuttora validi, ma appaiono reticenti e incompleti su tanti fronti. C’è in essi un totale vuoto e silenzio per quanto riguarda i diritti del quarto stato, cioè del proletariato, che prima ancora di esercitare una libertà di pensiero o ottenere un’uguaglianza giuridica e politica, avrebbe voluto essere liberato dai bisogni materiali, avere pane a suffi cienza, lavoro decoroso e a ritmi sostenibili. Sia ben chiaro che di rivendicazioni del genere l’opera di Sade non si occupa per nulla, apparendo ancora intenta a mettere in scena i rappresentanti della nobiltà, aristocratici con le borse floride, così da poter praticare un costume sessuale totalmente libero. Ma appunto questo è l’altro versante che la Rivoluzione francese non ha affatto toccato: il diritto spettante a ogni essere umano di soddisfare le pulsioni sessuali, l’eros primario da cui è dominato, senza prescrivergli limiti e censure artifi ciose. Ovviamente, la Rivoluzione francese, anche nelle predicazioni pur liberatorie di Voltaire e di Rousseau, non dava posto né a Marx né a Freud (...).
E beninteso, come già accennato, non c’è Marx nelle elucubrazioni del Divino marchese, ma un Freud anticipato di quasi un secolo, con una perentorietà e un estremismo che poi non ritroveremo nel padre della psicoanalisi. Freud verrà per diagnosticare la presenza insopprimibile del continente oscuro dell’Es, dell’eros, della libido, ma pure ad ammonire che la civiltà consiste nel trovare un giusto equilibrio, tra quelle spinte e le censure, che pure ci devono essere, se si vogliono alimentare gli alti costi del progresso. Sade ha l’estremismo del primo scopritore, che non si concede freni, getta sul tavolo l’intera posta, con assoluta univocità.

Repubblica 29.6.10
In treatment
"Attori magici e grande scrittura il segreto di una serie di culto"
Parla l´israeliano Hagai Levi che ha creato il telefilm interpretato nella versione americana da Gabriel Byrne
di Leonetta Bentivoglio

ROMA. STORIE dell´anima per una tivù "diversa", di asciuttezza radicale, affidata a segni nitidi e taglienti. Ritratti di persone in un interno, davanti a un terapista che ha il volto empatico e malinconico di Gabriel Byrne, confessano cicatrici e ricordi usando solo la forza delle parole. Hit anti-spettacolare, formula anomala divenuta fenomeno sociale. In Treatment, serie tivù acclamata in mezzo mondo (è in corso di fattura la terza stagione), sta generando un´onda lunga di adattamenti in più paesi, vogliosi della loro terapia. «Forse accade perché oggi è diffuso il bisogno d´ascolto», sostiene lo scrittore e regista Hagai Levi, che ha inventato lo psico-serial israeliano Be´Tipul, modello-base da cui è nato In Treatment. «Pensi ai talk show televisivi, dove tutti parlano e nessuno ascolta. Un ascolto attivo e vibrante è già un passo verso la verità. In un´epoca di crisi le parole, e gli effetti che producono, rivendicano più che mai la loro importanza», prosegue Levi, giunto in Italia nell´ambito di un ciclo di inviti a grandi creatori di serie tivù organizzato come premessa del RomaFiction Fest (dal 5 al 10 luglio).
Quando e come ha ideato il suo fortunatissimo progetto?
«In Israele sono cresciuto in un Kibbutz dov´era stata avviata una sperimentazione psicoterapeutica per i bambini, e a cinque anni vi ho partecipato perché soffrivo d´ansia e crisi di panico. Poi anche in seguito mi sono sottoposto a psicoterapie. Ho anche studiato per tre anni psicologia, e lavorando come regista mi sono accorto subito che le scene che mi riuscivano meglio erano quelle dei dialoghi con ampio uso di primi piani. Così ho pensato a una serie che seguisse in tempo reale gli incontri tra uno psicoterapeuta e i suoi pazienti, uno al giorno nell´arco di una settimana, col venerdì dedicato a una seduta del terapista analizzato dal supervisore. Idea per me irresistibile, eppure nessuno mi dava retta».
Non trovava produttori?
«Mi respingevano dicendo: a chi può interessare questa roba intellettuale? Tra l´altro il progetto non era dispendioso, come ho verificato girando a mie spese due episodi pilota: bastavano due attori e un appartamento. Finché la Hbo ha deciso di fare la serie programmandola di notte».
La risposta del pubblico è stata immediata?
«Quasi. Nella prima settimana sono uscite buone recensioni, e già alla terza tutti parlavano del programma. Be´Tipul è diventato presto una moda, al punto che in Israele c´è stato un forte incremento delle psicoterapie. Credo che la chiave del successo stia nell´alto livello della scrittura, oltre che nella scelta di attori magici, capaci di trasmettere davvero una interiorità. Il terapista in Israele è Assi Dayan, figlio del generale Moshe: interprete di grande intelligenza che lavora anche come sceneggiatore e film-maker».
Come ha costruito concretamente la serie?
«Formando un buon team di registi e scrittori e dandomi il ruolo di show-runner, cioè di coordinatore delle diverse energie creative. Ogni personaggio ha il suo sceneggiatore personale, che è artefice del vissuto di quel paziente, fondamentale per la terapia. Di ciascun episodio, pensato sempre come un play in tre atti, ci sono diverse stesure, e in Israele io provvedevo a quella conclusiva tenendo conto del punto di vista del terapeuta, essendo ogni autore coinvolto nella prospettiva esclusiva del proprio paziente. Quando Rodrigo García, figlio dello scrittore García Marquez e regista, ha comprato il format negli Stati Uniti, mi ha voluto come consulente. Ora sono in corso tredici adattamenti in altrettanti paesi, Italia inclusa».
Come si può far viaggiare i personaggi in contesti diversi da quello israeliano senza modificare fisionomie e comportamenti?
«I ruoli devono adattarsi al territorio. Esempio: c´è il pilota che ha traumi devastanti da affrontare, avendo provocato una strage di bambini. In Israele quest´uomo ha un padre sopravvissuto all´Olocausto, e la figura paterna, di peso enorme per l´inside del pilota, andava riprodotta nell´edizione Usa, dove il pilota torna dalla guerra in Iraq. Ne abbiamo quindi fatto un nero il cui padre è stato vittima della violenza del Ku Klux Klan. Quanto alla versione italiana, il pilota sarà un agente operativo in un´unità anti-mafia: in ogni paese va identificata una ferita centrale che imprima autenticità alla serie».

Repubblica 29.6.10
Mario “Trevi
“Da Jung a Fellini amo le zone d’ombra”
di Antonio Gnoli

"Bisogna diffidare degli uomini completamente trasparenti e luminosi Credo che ognuno di noi debba accettare il proprio lato oscuro"
Ha ottantasette anni ed è uno dei grandi psicoanalisti italiani Il suo eccentrico maestro è stato l´ebreo tedesco Ernst Bernhard

ROMA. Sulla grande scrivania, dietro la quale Mario Trevi siede, non ci sono oggetti né libri, né ricordi. E´ una superficie libera come una pianura, come un foglio di carta. Sulla quale si notano le grandi mani che ogni tanto vi vengono poggiate. Trevi ha da qualche mese compiuto 87 anni, è uno dei grandi psicoanalisti italiani. Le cronache lo definiscono di scuola junghiana. Ma credo che nel suo metodo, nella sua analisi ci sia qualcosa di più e di diverso. Mentre parla con voce lievemente bassa, penso che quest´uomo sia soprattutto abituato ad ascoltare. Ha un tono affabile, perfino mite. Le parole non sovrastano i concetti e le storie che egli racconta. E´ schivo e ordinato, acuto ed essenziale.
Ha una moglie e una figlia - due psichiatre - e un figlio, Emanuele, che è un noto e bravo scrittore. Anni fa, padre e figlio diedero vita a una bellissima conversazione, che poi divenne un libro (Invasioni controllate, Castelvecchi). Mi colpiva di quell´incontro la disponibilità reciproca, l´apertura massima, l´intesa al limite della complicità. «Ho avuto Emanuele a 42 anni e lui, quando è diventato adulto mi ha spesso vissuto come il vecchio padre da proteggere. Lo trovo bello. Ma immagino che dovrò parlare soprattutto di me», dice con tranquillità.
Dottor Trevi, ci dica qualcosa delle sue origini.
«Sono nato ad Ancona, mia madre era una langarola. Ricordo la casa della nonna materna, un palazzotto che ereditammo, non so come, dal quale si vedevano tutte le Alpi. Mio padre era ingegnere. Aveva lavorato in Africa e fu fatto prigioniero dagli inglesi durante la guerra. Morì poco dopo il suo ritorno ad Ancona. La vita per noi, si complicò. Diventammo poveri, anche in seguito alle leggi razziali. Studiavo e mi mantenevo con i lavori più umili. Mi laureai a Bologna, in filosofia con una tesi su Berdjaev. Ricordo che i miei amici mi prendevano in giro dicendomi: come fai ad occuparti di Berdjaev e insieme ad essere iscritto al partito comunista?».
Berdjaev era un intellettuale russo che Lenin cacciò via dopo la rivoluzione. In effetti il Pci l´avrebbe potuta accusare di connivenza con il pensiero borghese e reazionario. Come affrontò la questione?
«Semplicemente uscendo dal partito nel 1948. Cominciava a infastidirmi la versione edulcorata dell´educazione marxista su come si dovevano leggere i libri. Erano le direttive di Zdanov».
Ma secondo lei che cosa accadde nella testa di molti intellettuali che accettarono quel tipo di imposizione ideologica?
«Semplicemente ribadivano il bisogno di fede e di una verità incontrovertibile».
Una fede religiosa, al punto che un partito, come quello comunista, poteva essere considerato una chiesa?
«Sì, qualsiasi fede ha un fondo nascosto, inconscio, di tipo religioso. Fede implica abbandono del bisogno del giudizio critico, rispetto alla parte cui si è aderito».
Uscito dal Pci, cosa fece?
«Continuavo a lavorare e a studiare. Ebbi la fortuna a un certo punto di essere trasferito a Roma in un ufficio di carattere finanziario. Ricordo che stabilii un patto con il direttore: avrei prodotto lo stesso lavoro degli altri colleghi in un tempo più breve, dedicando il resto della giornata lavorativa a quello che volevo. Fu un accordo segreto e intelligente. Poi, mi pare nel 1964-65, ci fu un concorso per insegnare nei licei e lo vinsi. Girai in varie scuole d´Italia, l´ultima fu a Formia. Facevo tutti i giorni avanti e indietro con Roma».
Ma quando nacque il suo interesse per la psicoanalisi?
«Nei primi anni romani frequentavo un gruppo di amici, tutti più o meno contagiati da Freud e Jung. E col tempo mi accorsi di patire nei loro riguardi una sorta di nevrosi di adattamento. Sentii parlare di uno psicologo ebreo tedesco, un certo Ernst Bernhard, che era riuscito a sfuggire a Hitler e si era rifugiato in Italia. Dove in seguito fu rinchiuso in un campo di concentramento. Quando finì la guerra Bernhard si stabilì definitivamente nel nostro paese. La sua storia mi incuriosiva».
Accennava al suo primo incontro con lui.
«Sì, andai a trovarlo. Abitava in una casa meravigliosa dalle parti di San Luigi dei Francesi. E fin dal primo momento sentii in lui una personalità paterna. Stetti in analisi per tre anni. Poi, grazie anche al consiglio di un´amica, gli chiesi se accettava di prendermi per un´analisi didattica e fu così che intrapresi la professione di psicoanalista».
C´è differenza tra fare l´analisi a un paziente e farla didatticamente a un allievo?
«Differenze tecniche non ce ne sono. Ma di clima sì. Nell´analisi didattica ci si sente più vicini e questo consente forse un approfondimento maggiore. Dico forse perché sul momento non ci si accorge di nulla. Solo a posteriori si capisce che la didattica ha portato qualcosa di nuovo».
Bernhard era molto legato a Jung?
«Non in modo così evidente come si è cercato di mostrare. Tra loro non ci fu un grande contatto. Nel suo travagliato passaggio da Berlino a Roma, Bernhard si fermò a Zurigo, ma non credo che egli fece una vera analisi con Jung. Era già un medico specializzato in pediatria e proveniva da un lavoro serio svolto con un freudiano di Berlino. Insomma, credo fosse dotato di un certo eclettismo».
So che leggeva anche la mano. Come giudica quella sua inclinazione?
«Diciamo che l´accettai, perché sentivo che la ragione e la coscienza critica avevano in lui un peso che poteva compensare sia il ricorso all´astrologia che alla chiromanzia. Naturalmente mi chiese di fare l´oroscopo. Gli risposi che non conoscevo esattamente la mia data di nascita. Perché, sebbene ufficialmente fossi nato il 3 aprile, mio padre temo avesse sbagliato giorno».
Ma Bernhard era o no uno junghiano? Gli aspetti insoliti che lei mette in luce indurrebbero al sì.
«Si dichiarava junghiano, ma era un meraviglioso interprete dell´immaginazione, soprattutto onirica. In ogni caso con me non esagerava gli aspetti misticheggianti che pure in Jung sono presenti».
Con Bernhard fecero analisi molti artisti e letterati, tra cui Manganelli e Fellini. C´è un motivo particolare per cui si rivolgevano a lui?
«Bernhard era dotato di un´intuizione formidabile. Credo che questo affascinasse le persone dotate di talento artistico. Io divenni amico di Fellini negli ultimi anni della sua vita. Un giorno mi cercò e al momento non ne compresi la ragione. Scherzando mi capitò più volte di chiederglielo. Su questo punto evitava di rispondermi. Poi, ho capito che mi aveva cercato perché ero il più vecchio allievo di Bernhard e lui voleva, attraverso me, assorbire gli ultimi sprazzi di quel mondo e di quella intelligenza».
L´intelligenza di Fellini era maliziosa e innocente. Non trova?
«Con lui la verità sembrava inglobata in una sfera ironica. Sapeva essere molto piacevole e divertente. I nostri rapporti non andarono però mai al di là del lei. Ogni tanto proponeva di darci del tu. Ma la mia timidezza, e anche la sua in fondo, non consentivano un passaggio dal rispettoso lei al confidenziale tu».
Negli ultimi anni della sua vita Fellini lavorò poco e credo che ne soffrì molto. Lasciava intuire qualcosa del suo stato d´animo?
«Avvertivo il disagio e ascoltavo le sue lamentele. Credo provasse una forte delusione per il modo in cui il cinema lo stava abbandonando. La malattia aggravò il quadro. E la sua morte fu un grande dolore per me e mia moglie che lo aveva conosciuto».
A proposito del dolore, che cosa pensa dell´indicazione junghiana che lo psicoanalista deve entrare in empatia con la sofferenza del paziente?
«Non esagererei questo aspetto della terapia junghiana. La sopportazione del dolore del paziente è un problema per tutti gli psicoterapeuti. E quando c´è un coinvolgimento empatico il problema si aggrava. Direi che è l´esperienza che deve guidare l´analista».
Come trattano Freud e Jung l´inconscio?
«Per Freud l´inconscio è il luogo della rimozione. L´uomo non sopporta determinati pensieri, immagini, pulsioni e li rimuove. Jung oltre a questo vede un inconscio collettivo. Ma aggiungerei che partendo da qui si rischia di non capire nulla delle loro differenze. Il primo problema, sul quale Jung si scontra con il maestro, è nel riconoscimento che la personalità dello psicologo, come costruttore di teorie psicologiche, entra inevitabilmente nelle teorie stesse. L´idea junghiana anticipa in qualche modo l´ermeneutica».
Certamente Freud era più distaccato, anche nel modo di interpretare i sogni.
«Diversamente da Freud, Jung era giunto alla conclusione che i sogni non possono essere ridotti alla soddisfazione fantasmatica di un desiderio rimosso legato alle pulsioni. Glielo dice un uomo che ha 87 anni, che continua a sognare e proprio in questa età, quando è difficile trovare soddisfazione ai desideri pulsionali, fa i sogni più belli».
Lei trascrive i suoi sogni?
«L´ho fatto per molti anni, con precisione e pazienza, al tempo dell´analisi didattica. Ma occorrerebbe farlo sempre, perché se non lo si appunta immediatamente, il sogno inevitabilmente scompare».
Non ritiene che nell´interpretazione di un sogno ci sia un certo grado di arbitrarietà?
«Diciamo pure di tradimento. Che fare? Consiglio di accettarlo come si accetta un amico che a volte ci ruba qualche oggetto. Pazienza».
Lei ha lavorato sul concetto di "ombra", si tratta del lato oscuro della persona?
«Sì, ma detto così non si capisce il suo valore nell´ambito della psicoterapia. L´ombra comprende non solo le pulsioni rimosse ma ogni lato oscuro dell´esistenza. Anche la parte di scacco che noi dobbiamo ogni giorno sopportare».
E queste ombre come si manifestano?
«Nel sogno, ad esempio, attraverso la personificazione. Nessuno di noi può liberarsi del tutto da pulsioni innominabili. Però la maturità ci aiuta a riconoscerle. Non possiamo isolare da noi quest´ombra. Possiamo stabilire dei patti, non di alleanza ma di accettazione».
Dobbiamo imparare a convivere con la parte meno evidente di noi. Lei ha scritto che un uomo senza ombra è un uomo senza spessore.
«Bisogna diffidare degli uomini completamente trasparenti o luminosi».
La letteratura ha molto scritto sull´ombra e il doppio. Pensi a quel prototipo creato da Stevenson con Dottor Jeckyll e Mister Hyde.
«Stevenson era un vittoriano legato a una morale solida e pregevole. Una volta avanzai un´ipotesi scherzosa: immaginai un dottor Jeckyll coerente che si concilia con mister Hyde. Ne conclusi che entrambi avevano la loro funzione nella vita».
Com´è una sua giornata?
«Mi alzo presto e vengo nel mio studio che ancora mi trasmette molta serenità. Quando non faccio le cose serie, come occuparmi degli altri, c´è la lettura. Sono un lettore onnivoro, disordinato. Avendo fatto un paio di anni di matematica ho conservato il gusto per i libri scientifici. Raramente guardo la televisione, e sempre solo la sera, a volte con mia moglie facciamo qualche commento. E´ raro trovare programmi che ci piacciano».
Televisione volgare, italiani volgari?
«La volgarità – sotto le forme più diverse: il denaro facile, il sesso postribolare, la corruzione – è l´ombra del nostro paese. Ma non esagererei nel demonizzarla. Nei momenti di vera crisi gli italiani sono sempre risultati al di sopra del giudizio espresso su di loro».