venerdì 2 luglio 2010

Agi 2.7.10
Pd: Donaggio, Lombardi riferimento Libertà e dignità lavoro
Riscoprire la lezione umana e politica di Riccardo Lombardi e' fondamentale specie in una situazione a alto rischio per la tenuta democratica del Paese: Riccardo e' stato ed e' il punto di riferimento insostituibile per difesa della democrazia e la dignita' del lavoro, cui spese un'intera vita. Lo dice la senatrice del Pd, Franca Donaggio che plaude alla riscoperta dell'Ingegnere 'acomunista' da parte del Pd. "Sono stata per trent'anni nella Cgil, il mio ultimo incarico e' stato quello di responsabile delle politiche delle donne, e - precisa orgogliosa - nella componente lombardiana. Fu Bruno Trentin, molto legato a Lombardi, a volermi a Roma: con Fausto Vigevani, un lombardiano doc, sono stati i miei maestri, di cui sento ancora forte la mancanza". Ora il Pd mostra interessa per Lombardi e la Donaggio plaude. "Riscoprire Riccardo vuol dire reimettere nella politica l'etica e la responsabilita' e certi valori come l'onesta', il rigore e la coerenza - aggiunge - che sono qualita' fondamentali per far vivere la democrazia: e in questo Riccardo e' stato un esempio di pulizia per tutti. Oltre che ovviamente portatore di un 'pensiero forte' rivolto sempre a sinistra e al mondo del lavoro". E su questa direttrice il feeling con due dei maggiori sindacalisti della Cgil, Vigevani e Trentin. "E' la storia a dirci - conclude la Donaggio - che le piu' grandi conquiste (le liberta' sindacali, la formazione continua, la dignita' del lavoro, la riduzione dell'orario di lavoro, la partecipazione) per il mondo del lavoro hanno avuto come protagonista Lombardi: fu lui a porre nel 1962 l'esigenza dello Statuto dei Diritti dei Lavoratori attuato poi da Giacomo Brodolini e oggi messo in seria discussione". (AGI) Pat

l’Unità 2.7.10
Desaparecidos. 250 eritrei arrestati sulla rotta di Lampedusa e finiti nel lager libico
La protesta. Gli immigrati rifiutano le generalità, scontri con la polizia: i feriti deportati a Brak
Il pugno duro di Gheddafi sulla rivolta dei senza diritti
di Umberto De Giovannangeli

I «desaparecidos» di Maroni. Centinaia di eritrei respinti a Lampedusa, picchiati in Libia, di cui da giorni non si hanno notizie. La denuncia della comunità eritrea in Italia. I silenzi delle autorità italiane.

La rivolta dei senza diritti si consuma nel silenzio. Il silenzio complice della Comunità internazionale. Il silenzio di un Governo, quello italiano, che ha aperto un credito illimitato al Colonnello di Tripoli.Il silenzio che copre la vergogna dei « desaparecidos» voluti dall’Italia. Un silenzio rotto dalla coraggiosa e documentata denuncia di Fortress Europe e del suo giovane e instancabile animatore, Gabriele Del Grande.
NESSUNA NOTIZIA
Ciò che aspetta i respinti è cosa nota (tranne ai governanti italiani...): rinchiusi in carcere in Libia. Ma adesso rimarca Del Grande il problema è capire che fine faranno. All'alba del 30 giugno Fortress Europe ha perso le loro tracce. Due container sono partiti carichi di 300 persone uomini, donne, bambini lasciandosi alle spalle i cancelli del campo di detenzione di Misratah. Un reparto dell' esercito ha fatto irruzione nelle celle in piena notte. Le ultime telefonate d'allarme sono giunte alle cinque del mattino. Poi il silenzio: tutti i telefonini sono stati sequestrati. I detenuti portati via sono tutti eritrei, uomini e donne, compresi una cinquantina di minorenni e diversi bambini.
Tutti arrestati sulla rotta per Lampedusa, chi respinto in mare nell'ultimo anno e chi fermato nelle retate della polizia libica a Tripoli. «La diaspora eritrea, da Roma e da Tripoli, ci ha chiesto afferma Del Grande di dare la massima diffusione alla notizia, perché il rischio di un'espulsione di massa a questo punto è molto alto». Che a Misratah tirasse una brutta aria lo si era capito da un pezzo. Da quando, tre settimane fa, il governo libico aveva espulso l'Alto Commissariato dei Rifugiati delle Nazioni Unite, che proprio a Misratah aveva regolare accesso da ormai tre anni. Ma i guai sono arrivati nella giornata dell’altro ieri.
I militari libici è sempre Del Grande a denunciarlo hanno consegnato ai detenuti i moduli dell'ambasciata eritrea per l'identificazione. Tutti si sono rifiutati categoricamente di fornire la propria identità all'ambasciata, temendo che fosse il primo passo per un'espulsione collettiva. Al loro rifiuto la tensione è salita, fino a sfociare in una rivolta, con un durissimo scontro con le forze di sicurezza. Qualcuno ha tentato di scavalcare il muro di cinta e fuggire, ma l'evasione è stata presto sventata e la protesta duramente repressa a colpi di manganellate.
APPELLO ACCORATO
Secondo Mussie Zerai, responsabile dell’agenzia Habesha(Ong che si occupa dell’accoglienza dei migranti africani) che da Roma ha potuto raggiungere telefonicamente alcuni detenuti di Misratah, ci sarebbero una trentina di feriti gravi, che sarebbero stati portati via nei container insieme a tutti gli altri. Habesha riferisce anche di tentati suicidi per evitare la compilazione dei moduli di identificazione: «La situazione è drammatica», conferma a l’Unità Zerai. La comunità degli eritrei di Tripoli ha lanciato ieri pomeriggio un allarme per lo stato in cui versano i loro connazionali trasferiti ieri dal Centro di Detenzione di Misurata al carcere di Brak, nella valle dello Shaty, nel Sud della Libia, a circa 75 chilometri da Seba. Dopo una intera di giornata di viaggio all'interno di tre camion-container,gli eritrei sono arrivati al centro di Brak nella serata di ieri. «Li stanno picchiando riferisce un eritreo in contatto con alcuni di loro temono di non sopravvivere». Secondo alcune testimonianze sempre di fonte eritrea, fra loro ci sarebbero anche diversi feriti, che però non avrebbero ancora ricevuto alcuna cura. Intanto le Ong di Tripoli che si occupano di rifugiati, Cir e Iopcr, riferisce una fonte vicina alle associazioni, riceveranno nella giornata di domenica una visita da parte del direttore del Centro di Brak e nei prossimi giorni hanno programmato una visita a Misurata, dove sono rimaste 80 donne eritree e alcuni bambini e poi, almeno questo è nelle loro speranze, una visita a Brak per constatare le condizioni degli eritrei. La diaspora eritrea da anni passa attraverso Lampedusa per chiedere asilo politico in Europa. La situazione ad Asmara si fa di giorno in giorno sempre più grave.
VIOLENZE QUOTIDIANE
Non è da oggi che Fortress Europe documento le violenze che segnano la quotidianità di migliaia di disperati nei «campi di accoglienza» libici. Grazie a Fortress Europe sappiamo, ad esempio, del massacro di Benghazi. Attraverso foto scattate con un cellulare, e sfuggite alla censura, Del Grande ha svelato come la polizia libica ha ucciso sei rifugiati somali a Ganfuda. E sempre grazie a Fortress Europe si è saputo che erano eritrei i passeggeri dell’imbarcazione respinta al largo di Lampedusa il primo luglio di un anno fa. Rifugiati eritrei. Respinti nell’inferno libico dall’Italia di Berlusconi e Maroni.

l’Unità 2.7.10
Silenzio di morte
di Giovanni Maria Bellu

Fino a due anni fa all’inizio dell’estate i titoli sulla «emergenza Lampedusa» riempivano le prime pagine. Quest’anno l’«emergenza» è finita. E il ministro Maroni se ne gloria. Ma tace, come quasi tutti i media, sul costo di questo meschino trionfo in termini di vite umane.
Il costo è la condanna a morte di centinaia di uomini e di donne. I conti sono semplici: dal 2008 al 2009 le domande d’asilo che per la metà venivano accolte si sono dimezzate (da 15.000 a 8000). E il calo continua nel 2010. C’è la sicurezza statistica che alcune migliaia di perseguitati non hanno potuto raggiungere le coste italiane e salvarsi. Alcune migliaia di persone. Una briciola rispetto agli ingressi illegali che infatti, via terra, continuano massicci. I respingimenti hanno bloccato solo i disperati che fuggivano da dittature feroci e dalle guerre.
Per assecondare la propaganda della Lega Nord il governo si è fatto complice di un crimine contro l’umanità. E i media che in passato avevano dato un contributo determinante nella creazione della falsa “emergenza Lampedusa” ora quasi coralmente tacciono.
Ci sono dei bavagli che il sistema dell’informazione si è messa da tempo, senza bisogno di alcuna legge.

l’Unità 2.7.10
«Lo scempio delle regole comincia dalla scuola
Peggio delle leggi vergogna»
L’avvocato e la politologa discutono della «riforma» Gelmini dopo la bocciatura del Tar del Lazio: «Capovolti i principi costituzionali»
di Chiara Affronte

Il 24 giugno il Tar del Lazio accoglie il ricorso di 755 persone tra insegnanti e genitori contro la riforma Gelmini alle scuole superiori: i ricorrenti si appellano al tribunale amminsitrativo considerando illegittimi i tagli e le iscrizioni perché la riforma non ha ancora valore di legge. Il Tar sospende ogni provvedimento fino al 19 luglio, data dell’udienza in cui verrà confermata o meno l’ordinanza. «Un segnale importante», il commento a caldo di Milli Virgilio, legale insieme a Corrado Mauceri dei ricorrenti.
Virgilio, ex assessore alla Scuola della giunta Cofferati, incontra Nadia Urbinati, docente di Scienze Politiche alla Columbia University di New York. E insieme ragionano sulle motivazioni del ricorso e, ancor prima, sullo scenario politico che lo ha determinato. Entrambe partono da un assunto: «Non ci sono solo la legge-bavaglio e le leggi ad personam: con questo governo assistiamo ad una sistematica violazione delle regole democratiche di cui, ciò che si sta facendo nella scuola, è un esempio eclatante».
La riforma Gelmini insomma è «un caso emblematico», per Urbinati: «Dimostra un modo di governo arbitrario», i cui «obiettivi aggiunge Virgilio sono esclusivamente finanziari e di bilancio». Vengono scardinati e capovolti i principi fondamentali: «La scuola viene vista come un servizio, come fosse la sanità, scavalcando completamente la sua finzione istituzionale che assicura il principio di uguaglianza tra le persone», spiega l’avvocato. Si capovolgono le regole della democrazia, e si procede per decreti, «per emergenze». Il caso Bertolaso insegna: «Ma la scuola non è un fatto straordinario», chiarisce la politologa.
Cosa è successo, dal 2008, quando è stata fatta la Finanziaria d’estate? Ricorda Virgilio: «Di quella legge di agosto, l’articolo 64 è un piccolo tassello dedicato alla scuola. Si annuncia: “Entro un anno (il 25 giugno 2009, ndr) faremo i piani dell’offerta formativa e i regolamenti”, di fatto delegando se stessi, autorizzandosi a modificare le leggi». Della serie: il Governo fa e disfa: del Parlamento chissenefrega. In questo caso, però, la cosiddetta emergenza che permette al governo di fare il decreto legge è «il risparmio», Virgilio lo ribadisce e ironizza: «Emergenza tale, che dal 2008 ancora l’operazione non è finita....».
Insomma, «le circolari e i regolamenti assumono forza di legge e un sito internet dove vengono date di volta in volta le informazioni parificato al livello della Gazzetta ufficiale», sbotta l’ex assessore. Immediato il commento della politologa: «Una evidente violazione della divisione dei poteri: il governo diventa autonomo nel legiferare».
I motivi del ricorso al Tar, inattaccabili per l'avvocato, sono sintetizzabili in 5 punti: 1)Il governo dichiara di voler eliminare gli “sprechi” della scuola tagliando 8 miliardi di euro in 3 anni, senza preoccuparsi delle conseguenze che questo taglio ha su un’istituzione che la Costituzione individua (articolo 3-33-34) come lo strumento attraverso cui garantire il principio di uguaglianza; 2) L’uso del decreto legge è previsto dalla Costituzione solo nei casi di urgenza, ma questa operazione non è ancora conclusa, in ben due anni; 3) Il governo delega se stesso a emanare regolamenti che modificano le leggi; 4) Inoltre ha legiferato in materia di competenza regionale; 5) È stato superato il limite di scadenza del 25 giugno 2009: lo schema di decreto interministeriale firmato solo dalla Gelmini non è pubblicato in Gazzetta; 6) si sono violati i principi dell’autonomia scolastica (le iscrizioni sono state fatte su piani formativi irreali, che non si sa quali siano concretamente, non condivisi dai soggetti democraticamente previsti, ndr).
In sostanza, l'obiettivo è chiaro e deve mettere tutti in guardia: «È quello dello smantellamento della scuola pubblica», concordano l’avvocato e la politologa. Un fatto che deve far tremare l'opposizione tanto quanto la legge-bavaglio, parere delle due donne: «Qui emergono tutti gli ingredienti dello stato arbitrario: colpire la scuola pubblica è colpire il diritto di cittadinanza», riflette Urbinati. Che lancia un appello all'opposizione: «Il Pd dovrebbe indire una conferenza stampa e fare di questo tema una questione nazionale. La scuola non può continuare ad essere considerata un fatto secondario nel nostro Paese dove peraltro si riscontrano nuove forme di analfabetismo. L'opposizione lanci una campagna». perché, prosegue Virgilio, «quello che il governo fa nella scuola colpisca l'opinione pubblica tanto quanto la legge-bavaglio».
Questo governo, per la politologa, «non è schizofrenico, ma ha un’idea e la persegue». Il «nemico» numero uno, osserva Urbinati, «è il sociale perché loro sono figli dell’individualismo puro: i poveri fanno gli schiavi a zero diritti e vanno aPomigliano».L’«animaliberistaè una delle due anime del governo Berlusconi: la prima è quella patrimonialista che si occupa degli interessi del premier, l'altra, perseguita da Brunetta, Sacconi e Tremonti, è quella di attacco al sociale», in tutte le sue declinazioni.

Repubblica 2.7.10
Più 1,5% rispetto al 2009 unico dato in controtendenza
Nella scuola dei tagli aumentano i prof di religione
di Salvo Intravaia

È l´unico dato in controtendenza. Per il resto meno cattedre e classi, e precari espulsi
In 12 mesi gli insegnanti di ruolo sono diminuiti del 4%, i bidelli e i tecnici del 6%

ROMA - Per la scuola italiana travolta dai tagli, l´unico segno più è per gli insegnanti di Religione. Il ministero dell´Istruzione ha appena pubblicato l´annuale dossier dal titolo "La scuola statale – sintesi dei dati, anno scolastico 2009/2010": il corposo volume di 342 pagine che contiene tutti i numeri dell´anno appena trascorso. Una pubblicazione di routine, che quest´anno però riserva una sorpresa: in mezzo a tanti segni meno, rispetto al 2008/2009 una delle poche voci che cresce è quella dei docenti di Religione. È lo stesso ministero a certificarlo. Il confronto con un anno fa consegna un quadro della scuola italiana con sacrifici per tutti, dagli alunni disabili ai precari, tranne che per gli insegnanti di Religione. Un dato che appare in netta controtendenza col taglio delle classi e con il lento ma graduale spopolamento delle aule quando sale in cattedra il docente individuato dal vescovo. Quella dei docenti che impartiscono l´unica ora di lezione facoltativa prevista dall´ordinamento scolastico italiano è questione che ha destato sempre polemiche.
Quando nel 2004 l´allora ministro dell´Istruzione, Letizia Moratti, pensò di stabilizzarli attraverso due distinti concorsi il mondo politico-sindacale si spaccò in due. Anche perché tra i titoli necessari per accedere al concorso, riservato a coloro che avevano prestato servizio per almeno 4 anni negli ultimi dieci (dal 1993/1994 al 2002/2003), occorreva essere in possesso dell´idoneità rilasciata dall´ordinario diocesano. Ma il secondo governo Berlusconi non si curò troppo delle polemiche e bandì ugualmente il concorso, che nel settembre 2005 consentì per la prima volta nella storia dello Stato italiano l´immissione in ruolo dei primi 9167 docenti di Religione. Da allora il loro numero è sempre cresciuto, fino alla cifra record (26.326 unità) dell´anno scolastico appena archiviato. I quasi 14 mila prof di ruolo, in leggera flessione rispetto a 12 mesi fa, sono stati abbondantemente compensati dai colleghi precari: 12.446 in tutto. Nel frattempo, la scuola italiana è stata oggetto di tagli senza precedenti. Nel triennio 2009/2012 spariranno 133 mila cattedre per un totale di 8 miliardi di euro. Ma non solo: l´incremento degli alunni disabili (da 175.778 a 181.177 unità) è stato fronteggiato con un taglio netto di oltre 300 cattedre di sostegno. Quasi 37 mila alunni in più sono stati stipati in 4 mila classi in meno. E sono diminuiti persino i plessi scolastici: 92 in meno. È toccato al personale della scuola pagare il prezzo più alto al risanamento dei conti pubblici. In un solo anno gli insegnanti di ruolo sono calati del 4%, senza nessun recupero da parte dei precari che hanno dovuto salutare quasi 14 mila incarichi con relativo stipendio. Per non parlare del personale di segreteria, dei bidelli e dei tecnici di laboratorio: meno 6% in 12 mesi. L´anno appena trascorso ha visto anche il varo della riforma Gelmini per il primo ciclo (scuola elementare e media), col calo delle ore di lezione e del tempo prolungato alla scuola media. Ma è stato anche l´anno delle proteste dei dirigenti scolastici per il taglio ai fondi d´istituto e del congelamento per un triennio (dal 2011 al 2013) degli stipendi degli insegnanti.

l’Unità 2.7.10
La distruzoine della cultura
Decreto Bondi: un nuovo «Fahrenheit 451»?
di Vincenzo Vita

Tra i temi della manifestazione di ieri a piazza Navona e in tante altre piazze d’Italia, vi era anche quello serio e drammatico della crisi della lirica e dei teatri d’opera. Il decreto Bondi convertito la settimana scosa in legge col voto definitivo di Palazzo Madama ha inferto un grave colpo alla cultura italiana. Il testo, ancorché sia stato arato da qualche emendamento nel corso del viaggio tra Senato e Camera, rimane inaccettabile e viziato da evidenti profili di illegittimità costituzionale.
Innanzitutto, la “forma decreto”, che poteva essere evitata presentando un disegno di legge, secondo i termini discussi un anno fa in Commissione cultura del Senato: non c’era infatti alcuna urgenza.
Punto cruciale, è quello relativo al ruolo delle Regioni. L’articolo 117 della Costituzione assegna loro un ruolo molto specifico e la riforma del Titolo V della Costituzione aveva dato proprio alle Regioni specificamente una fisionomia del tutto diversa da quella che si evince dall’articolato del decreto, ormai diventato legge. Vi è una evidente sottrazione di potestà e di ruolo. Inoltre, si fa rinvio a un regolamento, che si tende a definire “rafforzato”, che confligge proprio con la natura dei rapporti tra Stato e Regioni. Si può supporre che qualche Regione farà ricorso e il fragile testo molto difficilmente resisterà alle obiezioni della Corte costituzionale.
È bene ricordare che questo Governo è al suo cinquantasettesimo decreto-legge e che sono state richieste ben trentaquattro fiducie. La decretazione d’urgenza non è più un’eccezione, come dovrebbe essere secondo la Costituzione quanto una sorta di commissariamento dell’attività del Parlamento, ridotto a spettatore, a semplice audience, come di moda nell’ambito di un governo televisivo.
Questa legge anticostituzionale fa il paio con tanti tagli in corso d’opera alle attività culturali, alle attività dei saperi, alle attività dell’informazione: una sorta di novello «Fahrenheit 451». Il settore lirico-sinfonico merita una riforma, una legislazione moderna, evoluta e adatta al secolo della conoscenza e della multimedialità. Così non è. La legge Bondi ci riporta indietro, toglie anche quel poco di buono che era nella normativa pregressa, la rende forse inapplicabile e, anche per questo, a poco valgono alcuni ritocchi se il contesto rimane quello.
«Tagli e bavagli» era il tema della mobilitazione di Roma di ieri, promossa dalla Fnsi e da Articolo21. Tagli ai saperi (l’Eti è sciolto, gli Enti culturali dimezzati nel finanziamento), alla scuola (mannaia Gelmini-Tremonti) e all’informazione (le proposte liberticide sulle intercettazioni). Non si parlerà, non si studierà: non si canterà nemmeno?
Vincenzo Vita è vicepresidente della Commissione Cultura del Senato

Repubblica 2.7.10
Firenze, l'allarme della direttrice: "Mancano i fondi, a novembre scelgo la pensione"
"La biblioteca nazionale in rovina, Io me ne vado"
di Laura Montanari

Non si possono più catalogare i volumi. Non c´è il personale per i turni: verrà ridotto l´accesso al pubblico. E sono stati cancellati molti abbonamenti alle riviste

FIRENZE. I libri non li spolverano più da quattro anni perché mancano i soldi per farlo. Per la stessa ragione hanno cancellato decine di abbonamenti a riviste e tagliato gli acquisti di volumi stranieri. Da tempo è anche sospesa la conversione del catalogo da cartaceo ad elettronico col risultato che, di sei milioni di libri, soltanto due e mezzo sono i titoli online. Gli altri si ricercano come nel secolo scorso, scorrendo a mano gli schedari. Il declino della Biblioteca Nazionale di Firenze è scritto sui muri di certi corridoi, dove l´intonaco porta ancora l´ombra delle luci al neon levate dieci anni fa. Nei magazzini di questa che è la più grande biblioteca italiana, giacciono parcheggiati 200mila volumi che aspettano di essere catalogati dal personale che non c´è perché, dei 500 dipendenti che lavoravano qui negli anni ‘90, di economia in economia, oggi ne sono rimasti 195 con un´età media che vira ai sessanta. Il 10 per cento di quella montagna di arretrato sarà smaltito grazie al finanziamento di una fondazione bancaria, il resto giacerà negli scatoloni, in attesa di nuovi benefattori. Così l´accumulo cresce: «Ci arrivano 70mila volumi l´anno e riusciamo a catalogarne 40mila» spiega la direttrice Antonia Ida Fontana. Ha appena annunciato che a fine novembre lascia, andrà in pensione: «E´ un addio amaro. Siamo così in pochi che da metà luglio saremo costretti a chiudere l´accesso al pubblico per tre pomeriggi la settimana. Non era mai successo».
La crisi di questo monumento del sapere e della nostra memoria scritta, si legge a tante voci: una, è quella degli appelli che intellettuali e visitatori ogni tanto mandano ai giornali denunciando l´emergenza. «E´ come se il ministero dei Beni culturali non si rendesse conto del valore che ha la Biblioteca Nazionale di Firenze» spiega Franco Contorbia, docente di letteratura e frequentatore dell´emeroteca. La più ricca collezione di giornali d´Europa si trova in parte in una sede decentrata, in un magazzino al Forte Belvedere dove non c´è nemmeno una sala di lettura aperta al pubblico e dove due volte la settimana un pulmino sale lassù con la lista delle richieste per prestiti o consultazioni da esaudire. «Il confronto con le analoghe biblioteche di Londra o di Parigi è mortificante - dice Paul Ginsborg, docente di Storia contemporanea, altro assiduo frequentatore della Nazionale - A Firenze appena entri nell´edificio avverti una sensazione di degrado che poi ritrovi, per esempio, nelle sedie rotte, nella stoffa che si lascia andare sulle sedute della sala consultazione». Oppure nelle infiltrazioni d´acqua della rotonda Magliabechiana, o nei pavimenti pieni di toppe dell´area della distribuzione, quattro piani di balconi circolari che il pubblico non vede e dove lo scorrimano in legno che, lungo le scale è incerottato con il nastro isolante, sembra una metafora della provvisorietà. I numeri raccontano il resto: «Dal ministero ci arrivano due milioni e mezzo di euro, erano il doppio soltanto cinque anni fa» spiega la direttrice. La Nazionale raccoglie per missione, tutto quello che viene pubblicato nel Paese: conserva quello che stampiamo, è la testimonianza del nostro passaggio, un villaggio di 6 milioni di libri sistemato su 120 chilometri di scaffali per capire le cose che abbiamo attraversato, la storia, la letteratura, le scienze, i pensieri, le mode, i linguaggi e la complessità del mondo. Eppure negli ultimi anni non riesce più a tenere il passo e catalogare tutti i libri che riceve. «E´ una cosa gravissima - aggiunge Ginsborg, - Il personale fa il possibile, ma sono sempre di meno e non c´è un passaggio generazionale: quelli che vanno in pensione hanno un patrimonio di 40 anni di conoscenza dei fondi librari, che sanno dove mettere le mani e come esaudire le richieste dei ricercatori, non lasciano eredi per via dei tagli. Hanno grosse responsabilità i governi che hanno abbandonato la biblioteca in questo modo». Qui dove sono conservati gli autografi di Galileo, lo Zibaldone di Boccaccio, i tarocchi del Mantegna, il manoscritto di Pinocchio, 600 libri d´artista (Klee, Matisse, Picasso, Chagall…) e migliaia di pezzi unici.
Altro problema, gli spazi: la biblioteca cresce di due chilometri di scaffali l´anno. L´ala nuova sarà pronta dopo l´estate e basterà per soli quattro anni, poi bisognerà avviare i cantieri in una delle vicine caserme in disuso. Intanto si tira avanti come si può, con le macchinette del caffè al posto del bar (chiuso da vent´anni) e col loggiato che dà su Santa Croce affittato, per rastrellare soldi, agli sponsor di turno, in genere per le cene del Rotary. A quelli della moda invece no: «Ci hanno detto: o rimbiancate, o per le sfilate e le feste, non ci interessa».

Repubblica 2.7.10
La Fracci polemica: "Io all´Opera? Dipende da Muti e lorsignori"
Contro la riforma Bondi niente tournée alla Scala e a Roma saltano le ‘prime´
di Laura Serloni e Mariella Tanzarella

ROMA - Sale la tensione alla Scala, dove i lavoratori hanno messo in cantiere ben undici giorni di sciopero. Nel teatro milanese non solo si combatte il decreto di riforma appena approvato in Parlamento, ma si profila anche un braccio di ferro con il sovrintendente Lissner. Salta la prima del Barbiere di Siviglia di venerdì 9 e nuovi scioperi minacciano le tournée estive. Ieri i lavoratori del teatro hanno decretato un altro sciopero per venerdì prossimo, l´ottavo dall´inizio delle proteste. E saranno discusse nei prossimi giorni nuove modalità di lotta, che potrebbero far saltare le trasferte previste per il 21, 22 e 23 luglio a Pompei con i Carmina Burana e quella a Buenos Aires dal 25 agosto al primo settembre con l´Aida in forma di concerto diretta da Barenboim, con un pacchetto complessivo di undici giorni di sciopero. Particolarmente accesi i toni dell´assemblea e «forti malumori» nei confronti di Stéphane Lissner, che mercoledì sera, dopo che il Faust era andato in scena di nuovo con orchestrali e coro in jeans e maglietta per protesta, aveva annunciato a sorpresa di considerarla «una giornata di sciopero», e dunque di non voler pagare i lavoratori.
Stesso clima all´Opera di Roma. «Un atto irresponsabile e autolesionista» ha definito il ministro Bondi lo sciopero dei lavoratori che in segno di protesta hanno fatto saltare il balletto Romeo e Giulietta e l´apertura della stagione estiva. «Mi sarei aspettato un atteggiamento più responsabile -ha aggiunto il ministro - ora che si deve riscrivere il regolamento per le fondazioni liriche». Ma la protesta continua. Alle Terme di Caracalla salteranno tutte le "prime": dall´Aida al Rigoletto.
Tutto questo mentre all´Opera si continua a trattare per portare il maestro Riccardo Muti alla direzione artistica. «Stiamo ragionando sul contratto: i termini sono condivisi ma, certo, la conferma si avrà solo con la firma», conferma il sovrintendente Catello De Martino. Al di là di un saluto di cortesia, durante la presentazione del cartellone estivo delle Terme di Caracalla, è stata gelida l´atmosfera tra il sindaco Gianni Alemanno e la direttrice in uscita del corpo di ballo dell´Opera, Carla Fracci. E se il primo cittadino definisce «determinante» la collaborazione della Fracci, la ballerina ha dubbi sul futuro. «Finisce qui il lavoro che ho svolto in questi dieci anni. Ora c´è una compagnia conosciuta a livello mondiale, un patrimonio. Ma bisogna vedere se se ne rendono conto "lorsignori", visto che a teatro non ci vengono». E quanto alla sua collaborazione con tono risentito aggiunge: «Io ho chiesto di poter lavorare alla creazione di una compagnia internazionale ma dipende tutto anche dall´arrivo di Muti, uomo con i suoi pregi ma con un modo d´essere che vuole stare sempre al centro».

l’Unità 2.7.10
L’uccisione di Maria e Livia spinge di nuovo a riflettere sul tema della violenza maschile Si parla di stalking, si denunciano veline e velinismo ma intanto nulla sembra cambiare
Uomini che odiano le donne
di Silvia Ballestra

Due elementi colpiscono nell’ennesima giornata di follia omicida contro le donne. Il fatto che Gaetano De Carlo, a poche ore l’una dall’altra, abbia ucciso ben due ex fidanzate, e che l’assassino fosse uno “stalker” conclamato. Non un raptus, non qualcosa di inatteso. Con Maria Montanaro la relazione era finita da poco, Livia Balcone, invece, sua compagna in un passato non vicinissimo, era già da un po’ vittima delle sue persecuzioni. Minacce, molestie e anche un’aggressione, che l’avevano spinta a depositare ben sette denunce contro quest’uomo pericoloso, fargli togliere il porto d’armi. C’era in corso un processo che però non è bastato a fermarlo, così al dolore di amici e parenti delle vittime si aggiunge la frustrazione. Un’impotenza che coglie anche chi si occupa di queste questioni da tempo poiché si ha la sensazione che, nonostante la presa di coscienza del problema “femminicidio” di questi ultimi anni, le cifre della cronaca sembrano inarrestabili. La legge sullo stalking, da noi, è recente ed è presto per fare bilanci ma è certamente un passo avanti, il riconoscimento di un problema, l’ultimo campanello d’allarme. Ora, è vero che, sebbene sembrino rispondere a un copione, a un preciso profilo criminale, questi delitti hanno a che fare con specifiche patologie, dinamiche, rapporti. Solitudini, ossessioni, desideri insoddisfatti. Ma non dipendono solo dalle singole storie personali e familiari: chiamano in causa anche la condizione socio-culturale, e dunque politica, di un Paese intero.
Da tempo, ormai, da più parti, si sottolinea come il corpo delle donne sia oggetto delle più diverse forme di violenza e sopruso. Ciò che solo qualche anno fa sembrava indicibile, liquidato come argomento polveroso e “vetero”, ci è stato ora raccontato e mostrato, analizzato e denunciato anche nella sua versione più attuale: la mercificazione continua del corpo della donna – buono per vendere di tutto – è talmente martellante e presente da non poter più essere negata o liquidata con argomentazioni leggere da commedia all’italiana. Da anni si parla di veline e velinismo, si parla di monnezza sottoculturale, di modelli deleteri, di certe trasmissioni orrende che sviliscono le donne, ma da quel versante nulla cambia. Pupe, veline e bonazze in costume continuano a occupare l’etere e lo spazio con ammiccamenti e promesse irraggiungibili.
Ci siamo indignate, indignati, abbiamo scritto che tutto si tiene, che considerare le donne come merci da possedere e esibire non è dignitoso per nessuno e non può restare senza conseguenze. Nel frattempo abbiamo scoperto che da noi le donne sono usate anche come benefit nella corruzione dei potenti. Chissà allora se una legge sulle persecuzioni può bastare o non servirebbe, pure, un cambiamento più generale, uno scatto d’orgoglio.
Una recente classifica della qualità della vita nelle città, accanto a qualità, quantità e efficienza dei servizi, livello dell’offerta culturale, ha posto come parametro anche il numero di omicidi e violenze domestiche: non sarà un caso che fra le prime venticinque non c'è nessuna città italiana.

Repubblica 2.7.10
Le ossessioni
Molestie, pedinamenti, aggressioni. Che talvolta, come è accaduto a Torino, finiscono in tragedia. Ecco cosa trasforma la passione in un incubo
di Maria Novella De Luca

È come se dal silenzio fosse affiorato un mondo di dolore fino ad ora nascosto e taciuto. Due milioni e settecentomila donne hanno subito in Italia molestie e persecuzioni da ex mariti, ex amanti, ex fidanzati. E da quando nel febbraio del 2009 è entrata in vigore la legge che istituisce e dunque punisce il resto di stalking, in pochi mesi ci sono state 7000 denunce e 1200 arresti. Testimonianza di quanto il fenomeno, ancora sommerso, sia esteso, trasversale ai ceti, annidato negli ambienti più diversi. Le vittime di questo "amore molesto", che da persecuzione si può trasformare in omicidio, sono nel 78,94% dei casi donne, e nel 21,06% uomini, e ogni giorno 17 persone vengono denunciate per molestie reiterate, reato punito oggi con la reclusione da 6 mesi a 4 anni. Persecutori, cacciatori: raccontare l´universo (e l´Italia) dello stalking, vuol dire entrare in buio di ossessioni e di paure, di vittime aggredite e violate, che vivono con il terrore di uscire di casa, di alzare il telefono, di portare al parco i propri bambini, di ogni angolo dove potrebbe nascondersi l´aggressore.
Come accadeva a Maria Montanaro, che aveva 36 anni, e a Sonia Balcone, che di anni ne aveva 43 e una figlia di 5, prima che il loro ex, Gaetano De Carlo, si trasformasse da stalker implacabile in serial killer, ammazzandole una dopo l´altra in un´unica sola giornata, e avrebbe continuato ad uccidere se non fosse stato fermato. Poi De Carlo, ex carrozziere che viveva a Cremona, braccato e inseguito si è sparato un proiettile alla tempia con la sua 7,65. Un lucido piano omicida perché quelle due donne "non fossero più di nessuno". È questa la spinta, spiegano gli psicologi, che può trasformare un ex in un persecutore e poi in un killer. «Un desiderio di possesso così estremo da portare all´assassinio e poi alla morte di sé - dice Anna Costanza Baldry, docente di Psicologia alla seconda università di Napoli - perché tanto l´oggetto amato non c´è più, e allora a che vale vivere?».
Da poco più di un anno in Italia è in vigore la legge anti-stalking, tenacemente voluta dal ministro per le Pari opportunità Mara Carfagna. E qualcosa sta lentamente cambiando, anche se complessivamente i numeri degli omicidi (tutti di donne) avvenuti per mano di ex mariti o ex compagni, in Italia continuano ad aumentare, passando dai 100 del 2006 ai 119 del 2009, e soltanto nei casi registrati dalla cronaca. «Rattrista vedere che questa volta la giustizia non sia arrivata in tempo, prima che accadesse l´irreparabile, perché il senso della legge sullo stalking è innanzitutto quello di prevenire gesti più gravi - commenta infatti con amarezza il ministro Carfagna -. Mi rincuora però sapere che oggi, finalmente, le vittime di stalking hanno gli strumenti per liberarsi dall´incubo. Ci sono riusciti in tanti: in poco più di dodici mesi, infatti, vi sono stati 1.216 arresti a fronte di oltre 7mila denunce». E forse, chissà, le cose sarebbero potute andare diversamente se davvero De Carlo, denunciato ben 7 volte per molestie, di fronte ai giudici ci fosse arrivato davvero, ma la sua decisione omicida ha preceduto l´udienza davanti al Gup di Cremona, che si sarebbe dovuta tenere nel novembre prossimo. Eppure, ragiona il ministro Carfagna, «che la legge funzioni lo dimostra paradossalmente questa assurda storia, perché oggi, a poco più di 12 mesi dall´introduzione nel Codice del reato di stalking, ci trovavamo alla vigilia di un processo».
«Eravamo una famiglia splendida», dice sconvolto e tra le lacrime Guido Olivari, marito di Sonia Balcone, che adesso dovrà crescere da solo la sua bimba di 5 anni. «De Carlo non si faceva sentire da un anno, dopo l´ultima denuncia speravamo che ci avrebbe lasciati tranquilli». E invece è in questi mesi antecedenti al processo che forse è maturato il suo piano. Perché, come dicono giudici, esperti, psicologi, in questo "tempo scoperto" può accadere di tutto. Giovanna Fava è una delle avvocate del Forum delle donne giuriste ed è tra le autrici di un saggio edito da FrancoAngeli "Stalking e violenza alle donne". «Il tempo che intercorre tra le indagini preliminari e il processo è davvero pericoloso per le vittime. Perché i loro persecutori sono a piede libero, possono trovarle, aggredirle, e non sempre le forze dell´ordine riescono a proteggerle. Come in questo caso: se il processo si fosse celebrato per direttissima forse le due donne sarebbero ancora vive. La verità è che la legge sullo stalking oggi ci dà uno strumento in più per contrastare un fenomeno drammatico, dove le vittime sono in piccola parte anche uomini, ma poi ciò che manca è la tutela di chi è perseguitato». «Troppo spesso ancora - aggiunge Giovanna Fava - le denunce di molestie vengono sottovalutate, spesso gli aggressori non vengono arrestati in tempo. So che il ministero per le Pari opportunità sta facendo dei corsi di formazione per le forze di polizia. È giusto, perché in Italia noi non abbiamo ancora le lenti giuste per vedere e prevenire questo tipo di reati».
Reati gravi. Tanto che per lo stalking sono previste, ancora, le intercettazioni telefoniche. Fondamentali. Basta leggere una delle tante denunce per capire quanto spesso le vittime vengano perseguitate, ad ogni ora del giorno e della notte, su telefoni cellulari e fissi, costrette a cambiare schede, numeri e a sobbalzare a ogni squillo. «Che il governo faccia sul serio lo dimostra il fatto - aggiunge Mara Carfagna - che ho chiesto e ottenuto che, emendando il disegno di legge attualmente in discussione, questo reato fosse inserito nell´elenco di quelli per i quali saranno sempre consentite le intercettazioni telefoniche».
Ma che cosa trasforma un uomo (e raramente una donna) con cui si è avuta una relazione in un persecutore? Anna Costanza Baldry, oltre ad essere docente di psicologia, è responsabile da oltre due anni dello sportello anti-stalking Astra della Provincia di Roma. «La nuova legge è perfettibile, però il dato di fatto è che oggi in Italia è possibile difendersi. Da un punto di vista psicologico, lo stalking, anche nei casi più estremi, deriva raramente da una patologia mentale. I persecutori sono lucidi, sanno cosa fanno. È che non riescono ad accettare di aver perso il dominio sulla persona che una volta gli era accanto». «E spesso - racconta Baldry, autrice del libro "Dai maltrattamenti all´omicidio" - già in coppia questi uomini si dimostravano gelosi, possessivi, incapaci di accettare che la donna avesse una vita autonoma... Quando poi la storia finisce, le tentano tutte. Fanno capire alla vittima di non poter vivere senza di lei, alternano minacce a dichiarazioni d´amore, regali ad aggressioni. E spesso le vittime sono confuse, arrivano addirittura a ritirare la querela. Questo a mio parere è un punto debole della legge». Visto che è ormai evidente quanto una persona perseguitata possa essere manipolata. «Infatti - conclude Anna Costanza Baldry - ogni volta che una donna vittima di stalking viene da noi, allo sportello Astra, quello che consigliamo è di non cedere mai alle richieste di colloquio, non accettare l´ultimo incontro, ma di cercare una casa protetta».
In realtà difendersi dallo stalking è un´operazione complessa. Come dimostrano le esperienze e le leggi di Paesi che prima del nostro, dall´Austria alla Germania, hanno istituto il reato di persecuzione e molestia reiterata. Non è sempre facile dimostrare in tribunale di essere vittime di stalking. «Per questo come legali - conclude Giovanna Fava - ciò che noi consigliamo alle donne è di tenere un diario di tutto ciò che accade, per documentare ogni tentativo di contatto da parte dello stalker. E poi, ed è la cosa più difficile, bisogna interrompere ogni contatto, non accettare ma nemmeno rispedire lettere o regali, gesti che potrebbero essere interpretati come apertura di comunicazione. Quindi coinvolgere nella propria battaglia la famiglia, gli amici, e soprattutto le forze dell´ordine. Perché uno stalker rifiutato può uccidere». È la cronaca di questi giorni.

Repubblica 2.7.10
Siena, polemiche per l´opera dell´artista libanese Alì Hassoun
Simboli islamici sulla Madonna il drappo del Palio irrita la Curia

SIENA - È polemica a Siena sul drappellone dipinto dall´artista libanese Alì Hassoun, che stasera andrà in premio alla contrada vincitrice del Palio di luglio intitolato alla Madonna di Provenzano. L´Arcidiocesi promuove San Giorgio con la kefiah, ma non la mezzaluna dell´Islam sulla corona della Vergine Maria. E l´autorità religiosa locale chiede, per il futuro, di essere «resa partecipe» nella commissione e nella realizzazione dell´opera perché sia «rispettata l´iconografia tradizionale del Palio, che è oggetto di devozione, benedetto e esposto in chiesa».
«L´opera di Hassoun - secondo l´Arcidiocesi - richiama con immediatezza l´effigie della Madonna di Provenzano e il guerriero sottostante può essere identificato con San Giorgio che uccide il drago-Satana. Più problematico è l´inserimento sulla corona della Vergine della Mezzaluna, simbolo dell´Islam, e della stella di Davide, effigie dell´Ebraismo. Anche l´inserimento di una citazione del Corano si presta a discussione, in quanto per i musulmani Maria è semplicemente madre di un profeta, e non madre di Dio». Ieri Hassoun è tornato a difendere la sua opera: «È a favore del dialogo tra culture. Il demone sotto San Giorgio rappresenta il terrorismo e l´ignoranza».
(ma.bo.)

Repubblica 2.7.10
Il viagra rosa? Roba da maschi
di Natalia Aspesi

Il Viagra per signore, per ora non ancora in commercio, certo sarebbe una manna: per gli uomini, ovviamente, che potrebbero illudersi di essere loro, con il loro fascino, ad assatanare una partner altrimenti sfuggente e sbuffante. La sociologa-antropologa americana Camille Paglia ha dato su "Repubblica" una spiegazione storica-economica-politica del perché la farmacologia non troverà mai un Viagra femminile. Ma ci sono anche ragioni meno colte, da posta del cuore, a rendere antipatico un simile farmaco: si avrà pure il diritto di non averne voglia e quindi di lasciar perdere, oppure si dovrà pensarlo come a un lavoro, a un dovere, a una necessità, cui adattarsi appunto con una pillola? Certo ci sono signorine in varie carriere scalate mediante anziani per niente appetitosi ma potenti, che giusto per una promozione più veloce potrebbero lusingarli con scintille da Viagra rosa. Ma si sa che in questi casi da secoli le donne hanno la grande arma della finzione che oltretutto, a differenza della pillola arrappante, non fa venire la nausea, neppure se il potente è nauseabondo.


l’Unità 2.7.10
Domani il Pride a Roma Un bacio collettivo apre il corteo

Conto alla rovescia per il pride di Roma, dopo una stagione di aggressioni come non si era vista prima. Ad aprire il corteo che partirà domani alle 16.30 dalla Piramide per arrivare in piazza Venezia passando per la gay street, un bacio collettivo, segno che ogni bacio è una rivoluzione. Nell’attesa non mancano le polemiche. «Roma è gay»: la frase provocatoria comparsa ieri in alcune strade della capitale farà discutere. Mentre è emblematico l’invito rivolto dalle colonne del Secolo a Berlusconi: apra le porte di palazzo Chigi ai gay, sull'esempio del premier Tory, David Cameron, che ha ospitato la festa di apertura del Pride londinese a Downing Street. Ci sono anche a destra lesbiche, gay e trans e sfileranno a Roma (www.Romapride2010.it). La prideweek è iniziata lunedì con incontri culturali e feste. Intanto per la prima volta le divisioni dentro il movimento gay hanno superato la cortina dei contatti interni per approdare ai media. A mancare sarà il circolo Mario Mieli, in prima fila nelle edizioni passate, in seguito a tensioni esplose nella fase organizzativa. Il rischio è di esporre la parata ad una sorta di prova del fuoco: il popolo dei manifestanti riuscirà ad andare oltre e a ribadire che il pride è di tutti? Ce la farà a manifestare per la conquista dei diritti lasciando a casa le tensioni delle associazioni? Tra i tanti inviti a non dividersi citiamo “Nuova Proposta” gruppo di gay credenti: c’è chi aspetta un segno di speranza, saremo al pride come “obbligo di servizio”. Il grande tema sono le discriminazioni delle quali portano i segni sulla pelle i tre portavoce: Mattia Cinquegrani, il ragazzo di 23 anni insultato e aggredito sull’autobus N8 la notte tra il 24 e il 25 aprile, Luana Ricci, musicista licenziata dopo 18 anni di servizio nella diocesi di Lecce perché trans e Esther Ascione, 21 anni di Anguillara Sabazia vittima di episodi di omofobia. Mentre la Polverini non ha detto un “no” deciso a chi le ha chiesto lumi su una sua eventuale partecipazione, finora hanno aderito al Pride il governatore della Puglia Nichi Vendola, Vladimir Luxuria, Paola Concia, Sabrina Impacciatore, Elio Germano e Marisa Laurito.

l’Unità 2.7.10
«Non dimentichiamo che siamo un Paese di immigrati, dobbiamo avere coraggio»
Usa, 11 milioni di clandestini Obama: non possiamo cacciarli
di Virginia Lori

Undici milioni di clandestini in terra americana. Barack Obama non vuole girare la testa dall’altra parte. «Non possiamo mandarli a casa», dice al Paese lanciando la nuova sfida sul tema rovente dell’immigrazione.

È la nuova sfida di un presidente che sa cosa significhi «immigrato». Quello dell'immigrazione è uno «dei temi fondamentali» di questa generazione, e l'America «non deve dimenticare di essere un Paese di emigranti»: ad affermarlo è il presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, che ieri alla Ameri-
can University di Washington è intervenuto per presentare le nuove linee politiche per una «riforma complessiva» delle leggi che in Usa regolano l'immigrazione.
SFIDA EPOCALE
Questa amministrazione «si rifiuta di ignorare le sfide fondamentali del nostro tempo» dice Obama, sottolineando che dopo la riforma sanitaria, la riforma finanziaria, la nuova politica energetica, la sua amministrazione intende affrontare una riforma complessiva dell'immigrazione. Una battaglia di civiltà. Un sistema di regole sull'immigrazione che funzioni «non è solo un tema di carattere politico o economico, è anche un tema di carattere morale», af-
ferma Obama. Per una riforma dell' immigrazione «all'altezza del nostro tempo», «l'America deve ricordarsi di essere una terra di immigrati», e rifarsi alla storia di milioni di americani giunti «in questa terra di opportunità dall'Olanda, dall'Italia, dalla Polonia, da altri Paesi europei»: in questi termini Obama ha invitato il Congresso ad affrontare la questione immigrazione. «È tempo di avere coraggio ha detto -, di porre in secondo piano gli interessi politici di parte» e cercare, insieme, di mettere a punto «un sistema funzionale e giusto» ispirato a quegli stessi valori da cui l'America deriva. Nel suo discorso Obama è stato comunque molto attento a non usare la parola sanatoria, vista come il fumo negli occhi dai repubblicani, anzi affermando che l'idea di dare automaticamente a tutti i clandestini lo «lo status legale» è «ingiusta e poco saggia». Ma, ha poi sottolineato, come possa essere ingiusto dal punto di vista morale «punire persone che stanno cercando solo di guardagnarsi da vivere». «È impossibile pensare di mandare a casa 11 milioni di persone, che sono strettamente integrate nel tessuto economico dell'America», sottolinea Obama. Nello stesso tempo «ogni Paese ha il diritto e il dovere di avere il pieno controllo dei suoi confini»; e gli immigrati illegali «non devono pensare che se varcano i confini illegalmente non subiranno per questo alcuna conseguenza».
VALORI E PRAGMATISMO
Per quanto riguarda i confini, Obama ricorda come ora siano più controllati di 20 anni fa e che intende continuare ad impegnarsi in questa direzione. Ma anche aggiunto che il problema non si può risolvere solo costruendo barriere sempre più alte e aumentato il numero di pattuglie: «I nostri confini sono troppo vasti per risolvere il problema solo con barriere e pattuglie, non funzionerà». «Per fermare l'immigrazione illegale dobbiamo riformare il nostro sistema che non funziona dell'immigrazione legale ha detto il presidente la domanda è se abbiamo il coraggio e la volontà politica di far passare la legge al Congresso e avere finalmente la riforma». Obama ha ricordato come la controversa legge approvata dall'Arizona abbia drammaticamente portato alla ribalta la questione: il Paese si è diviso, «alcuni hanno sostenuto la legge, altri l'hanno criticata lanciando boicottaggi, ma tutti condividono la frustrazione per un sistema che non funziona». «La magggioranza democratica è pronta ad andare avanti» afferma Obama, che è forte anche del sostegno, secondo i sondaggi, della maggioranza degli americani e di molte associazioni civili Usa, quelle religiose in testa. Ora la palla passa ai repubblicani, senza il cui sostegno la legge non potrà passare al Senato. È tempo di scelte coraggiose e di un Paese che non alzi Muri divisori: è la nuova sfida di Obama.

l’Unità 2.7.10
Bimbi in Cisgiordania
L’inferno dimenticato dell’infanzia murata
44%. Sono i bambini in Cisgiordania che patiscono la diarrea causa mortalità infantile
60.000. Sono i bambini impediti a raggiungere le loro scuole a causa del Muro nei Territori
220. Sono i bambini morti per restrizioni imposte da Israele nella seconda intifada
322. Sono i bambini palestinesi uccisi a Gaza durante l’operazione «Piombo Fuso»
Non solo Gaza. Il rapporto di Save the Children alza il velo sulle condizioni di vita nella West Bank: mancano cibo e medicine, le scuole sono fatiscenti Le voci dal campo profughi: «Sono palestinese. È questa la mia colpa?»
di Umberto De Giovannangeli

Una infanzia «murata». Quella dei bambini palestinesi di Cisgiordania. Una condizione meno conosciuta ma non per questo meno grave di quella dei bambini di Gaza. Anzi, per certi aspetti, l’infanzia «murata» dei bambini palestinesi di Cisgiordania è ancora più disperata di quella dei bambini condannati a crescere in quella prigione a cielo aperto di nome Gaza. Ad accendere i riflettori sui bambini di Cisgiordania è Save the Children nel suo rapporto aggiornato sulla povertà infantile nei Territori.
Gli autori del documento evidenziano il deteriorarsi della situazione nella cosiddetta zona C della Cisgiordania, quella rimasta sotto il controllo diretto di Israele anche dopo la nascita dell'Autorità nazionale palestinese (Anp). E puntano il dito contro le restrizioni imposte alla gente che ci vive e la carenza d'infrastrutture di base: la cui manutenzione affermano è ostacolata dalle autorità israeliane. Nel rapporto si fa riferimento al pessimo stato di case, scuole, sistemi fognari e strade in gran parte della zona C, nonché al persistente disagio di migliaia di persone che continuano a vivere in tende e senza accesso ad acque pulite. L'uso dei terreni agricoli risulta inoltre negato, a causa di confische o di ragioni di sicurezza invocate dai militari, a numerose famiglie. In tale contesto, stima Save the Children, il 79% delle comunità residenti nella zona C della Cisgiordania vive oggi in una situazione di «nutrimento carente». Una percentuale, particolarmente alta fra i beduini, che si rivela addirittura superiore al 61% registrato nella Striscia di Gaza, da oltre tre sottoposta da Israele a uno stringente blocco dei confini. Parallelamente si segnala un «picco di crisi» nella diffusione delle malattie infantili. La diarrea principale causa di morte fra i piccoli sotto i 5 anni nel mondo colpisce oggi il 44% dei bambini della zona C, sottolinea il rapporto. Mentre i ritardi nella crescita sono due volte più frequenti che a Gaza e i casi di malnutrizione patologica riguardano ormai un bambino su 10.
Il rapporto denuncia poi le limitazioni d'accesso imposte a varie organizzazioni umanitarie in parte della zona C e chiede a Israele d'allargare le maglie, oltre che di mettere fine a demolizioni di case palestinesi e confische di terre. Quanto all'Anp, sollecita maggiori sforzi per convogliare investimenti e aiuti in quest'area. «La comunità internazionale ha giustamente focalizzato di recente la sua attenzione sulle sofferenze delle famiglie di Gaza, ma la triste condizione dei bambini della zona C non può essere ignorata», rimarca Salam Kanaan, responsabile di Save the Children nei Territori palestinesi. Osservando che «il miglioramento della situazione» economica complessiva nel resto della Cisgiordania non può cancellare «le sofferenze e l'incremento di povertà e malnutrizione» fra le comunità più esposte.
Storie di sofferenza. La sofferenza al di là del Muro. Quando dobbiamo trasferire d'urgenza un bambino da Betlemme a Gerusalemme racconta suor Erika, impegnata nel Baby Hospital di Betlemme bisogna chiedere una montagna di permessi. Basta un dubbio e l'ambulanza viene rimandata indietro ». E quando tutto è in ordine? «Il check point non può essere attraversato da un’ambulanza palestinese: il bambino deve essere trasportato a piedi, magari col respiratore, fino all'autolettiga israeliana incaricata di portarlo fino all'ospedale».
Stefano Apuzzo, Serena Baldini e Barbara Archetti hanno realizzato un libro bellissimo, toccante: Lettere al di là del Muro. Dai bambini dei campi profughi palestinesi (I libri di Gaia). Il libro contiene le lettere piu belle e toccanti dei bambini che vivono nei campi profughi palestinesi alle porte di Gerusalemme. Le loro famiglie furono espulse dai villaggi natii alla nascita dello Stato di Israele nel 1948 e dopo l’occupazione illegale dei Territori Palestinesi nel 1967.
Cosa significa per dei bambini crescere ingabbiati da un muro di cemento altro 9 metri, senza la possibilità di non uscire mai dai campi in assenza della “carta blu”? Lettere al di là del muro è un testo di bambini palestinesi che si raccontano senza remore e paure, una testimonianza unica e preziosa. Marah ha 14 anni, questa è la sua lettera: «Sono una ragazza di 14 anni del campo di Qalandja. Chiedo al mondo arabo, al mondo occidentale e a tutti gli esseri umani sulla terra: che colpa ha l’infanzia per essere uccisa così in Palestina? Io sono nata in Palestina, è questa la mia colpa? E ancora, sono nata in una zona ancora più piccola della Palestina, un campo profughi. Che colpa ne ho io se gioco con una pietra o un fucile, al posto di giocare con una bambola o una macchinina? Che colpa ne ho io se mangio una volta sola al posto che tre? Che colpa ne ho io se abito con tutta la mia famiglia in una sola stanza con un bagno ed una cucina? Dove sono la mia stanza, la mia bambola, la mia vita? Perché devo giocare per la strada, ma non in un campo giochi? La mia colpa è essere palestinese? Essere bambina costretta a vivere in questo posto occupato? O forse la mia colpa è non riuscire a togliermi di dosso questa occupazione? Io non riesco a trovare qualcuno che risponda alle mie domande, ma io continuo a vivere la mia vita in questo piccolo posto nonostante tutto, perché io appartengo a questo campo e sono orgogliosa di questo campo, perché è il mio Paese, è la mia patria ed è il posto dove morirò...».
Iman Juhaleen ha 12 anni. Ma una maturità da adulta: La mia vita nel campo è molto normale perché mi ci sono abituata. Ci sono persone buone e persone cattive perché le dita di una mano non sono tutte uguali, sono diverse. Ci sono i buoni e quelli che non lo sono, la gente che vive in questo campo è così. Nel campo vive tantissima gente e ci sono tanti centri e scuole, medici, negozi e la clinica dell’Unrwa (l’agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati palestinesi, ndr) , che da quando è stato costruito il campo ha la direzione dei servizi, ed i negozi di arredamento e di elettrodomestici e le farmacie e i venditori di vestiti e i fornai, tutto quello che serve. Grazie a Dio ci mancano solo alcune cose che considero poco importanti, come la pulizia delle strade. Se la gente si aiutasse e si impegnasse di più il campo sarebbe più pulito, per noi e i nostri figli e per tutta la società, io e le mie amiche discutiamo di questo argomento. Visto che siamo un popolo istruito e colto dobbiamo risolvere i nostri problemi e non aspettare che vengano risolti da altri. La nostra situazione è più difficile che nel passato per la presenza del Muro di separazione razziale che ci circonda da tutti i lati, siamo diventati come un uccello in gabbia. È questo il grosso problema che affrontiamo. Quando ci sono delle difficoltà prego tutti gli abitanti del campo di affrontarle insieme, mano per mano. Purtroppo, quando vado fuori dal campo, nelle città vicine, vedo che non ci sono gli stessi problemi, mi auguro con tutto il cuore di diventare come loro. Perché siamo capaci di migliorare la nostra situazione, continueremo e riusciremo a fare molto con la volontà. Nel futuro vorrei essere una giornalista e vorrei diventare importante. ..». Per decine e decine di chilometri il Muro in Cisgiordania supera gli otto metri di altezza (il doppio del Muro di Berlino). Quel Muro divide migliaia di bambini palestinesi dalle loro scuole. Distrugge il loro presente. Cancella la speranza nel loro futuro.

giovedì 1 luglio 2010

l’Unità 1.7.10
La Germania e le scelte di fine vita
La bioetica e il resto dell’Europa
di Maurizio Mori

Ormai l’idea che alla fine della vita gli interessati debbano scegliere sulla propria sorte è un fiume in piena che travolgerà le resistenze dei più accaniti vitalisti. A metà febbraio è stata l’Inghilterra a cambiare le regole sul morire, e lo ha fatto con un semplice atto amministrativo: il direttore generali delle indagini penali si è limitato a dire che la nuova normativa senza aprire all’eutanasia (attiva) mette al centro di eventuali indagini la motivazione della persona sospettata invece che le modalità della morte. In altre parole, si vuole evitare che la morte di chicchessia sia indotta per malvagità o per qualche motivo oscuro (“darker motive”) contro la volontà dell’interessato, più che il semplice fatto che sia “indotta” o no. Anche se da noi, in Italia, la notizia non ebbe grande rilievo, la realtà è che in Inghilterra il suicidio assistito volontario non è più reato.
Ora è la volta della Germania, visto che il 25 giugno la Corte federale di giustizia ha assolto i protagonisti della sospensione di nutrizione e idratazione artificiali di una donna che aveva espresso la volontà di non esservi sottoposta. In pratica il riconoscimento pieno del diritto di sospendere qualsiasi trattamento, nutrizione inclusa. Non si tratta affatto di eutanasia, ossia di atto teso a provocare la morte, né si è nella situazione di limbo dell’Inghilterra in cui ci si limita a controllare l’assenza di motivi oscuri. Ma se si considera che la Germania sul tema del fine vita ha un nervo scoperto, la sentenza è un importante passo in avanti che opera chiarezza. Si colloca in linea con quanto stabilito anche dalla nostra magistratura nei casi Welby ed Englaro.
In sé, quindi, nulla di straordinario. Solo un chiarimento dovuto che, come affermato dal ministro della Giustizia, «crea certezza legale», anche perché le volontà anticipate costituiscono una garanzia per pazienti e medici. Eppure, Avvenire ha presentato la notizia con sdegno: «Berlino “apre” all’eutanasia» quasi fosse una sbandata improvvisa e imprevista. Da una parte fa tenerezza l’impegno e l’insistenza posti dai cattolici nel cercare di far credere che il “male” abiti solo all’estero da cui arrivano le notizie choc. Dall’altra fa rabbia sentire il sottosegretario signora Roccella ripetere che la legge liberticida sul fine vita in discussione in Parlamento è necessaria e urgente perché la nostra magistratura non è stata prudente e perché si moltiplicano i registri comunali dei testamenti biologici. Credono davvero Roccella e i suoi amici cattolici che una legge basti a isolare il Paese dal resto dell’Europa come è stato al tempo della controriforma?
Maurizio Mori è presidente della Consulta di Bioetica onlus e docente all’Università di Torino.

l’Unità 1.7.10
Preti pedofili negli Usa Primo processo al Vaticano
I vertici vaticani possono essere processati per gli abusi sessuali commessi dai preti negli Usa. Così ha stabilito la Corte Suprema. E subito in California il difensore di una vittima dei preti pedofili denuncia la Santa Sede.
di Gabriel Bertinetto

Il Vaticano può essere processato. La Corte Suprema americana lunedì scorso ha detto sì alla richiesta di un avvocato di Minneapolis, che assiste le vittime di abusi sessuali commessi da preti pedofili. La sentenza riguarda una causa in particolare, intentata da un ex-chierichetto dell’Oregon, molestato negli anni sessanta dal sacerdote irlandese Andrew Ronan. Ma è chiaro che il precedente fissato dal massimo organo di giustizia statunitense potrebbe innescare una reazione a catena.
DURO COLPO
Per la Santa Sede il colpo è duro. I suoi legali avevano chiesto che fosse riconosciuta ai rappresentanti del Vaticano all’estero l’immunità che, secondo la legge degli Usa, sarebbe prerogativa degli Stati sovrani. La Corte Suprema si è rifiutata di applicare questa sorta di privilegio extraterritoriale e ha concesso il nullaosta a procedere. Vuol dire, afferma il presidente
del Tribunale Vaticano, Giuseppe Della Torre, che ci considerano una «corporation, una multinazionale». Ma ogni Chiesa nazionale «ha una sua propria autonomia -afferma Della Torre, secondo il quale «è contradditorio considerare da un lato la Chiesa una corporation, dall’altro intrattenere con la Santa Sede relazioni diplomatiche».
Imbarazzo oltre Tevere. Piena soddisfazione a Los Angeles, dove l’avvocato Jeff Anderson, incassato il successo nella causa dell’Oregon, passa all’attacco e denuncia il Vaticano per un’altra dolorosa storia di violenze sessuali. Protagonista padre Jim, alias Titian Miani, un salesiano di 83 anni, che nel corso della sua attività pastorale, «ha fatto almeno 13 vittime, e malgrado ciò ha continuato a svolgere il suo servizio».
ABUSI INSABBIATI
Anderson accusa i vertici della Santa Sede, i superiori dell’ordine salesiano, e i vescovi responsabili di una scuola a Bellflower, in California, di avere insabbiato il caso. Padre Jim fu arrestato nel 2003 per un caso di pedofilia poi caduto in prescrizione, ma aveva alle spalle altre tre denunce riguardanti fatti avvenuti negli anni quaranta, quando era un seminarista. Sono i ripetuti abusi subiti da un ragazzo di 13 anni, prima durante un ritiro spirituale in Italia, poi in un collegio a Edmonton in Canada, e poi nella diocesi di Stockton, in California, allora diretta dal cardinale Roger Mahoney.
L’avvocato sostiene che «il Vaticano era stato avvertito, ma il Papa e la congregazione per la dottrina della fede non rimossero» il religioso. Anzi a Bellflower fu incaricato dei rapporti con gli studenti senza che né gli allievi né le famiglie fossero avvertiti» delle sue malefatte. In quella scuola abusò di quattro minorenni fra cui un ragazzo di 15 anni e le sue due sorelline.
«Per molti anni -incalza Andersongli ordini religiosi con base a Roma hanno trasferito con impunità all’estero i sacerdoti pedofili per evitare di fare i conti con la giustizia».
La Chiesa rischia di essere condannata a pagare pesanti risarcimenti. Proprio ieri un giudice del Delaware ha aperto alle vittime di preti pedofili un fondo di investimento da 120 milioni di dollari amministrato dalla diocesi di Wilmington in bancarotta. A Boston l'arcidiocesi ha messo in vendita beni ecclesiastici tra cui il palazzo dell'Arcivescovo per pagare gli indennizzi. Nel 2008 la Società salesiana di Los Angeles accettò di pagare 19 milioni e mezzo di dollari per chiudere 17 vertenze.
Ma l’avvocato Anderson sostiene che per il momento, più ancora dei soldi che può ottenere a vantaggio dei suoi assistiti, gli interessa che escano dagli archivi vaticani i nomi dei preti pedofili ancora segreti.

il Fatto 1.7.10
Le magliette a strisce salvarono la Carta
I ragazzi di Genova e il bastone di Tambroni
di Annibale Paloscia

Sono passati 50 anni da quel 30 giugno 1960 quando i “ragazzi in maglietta a strisce” insorsero a Genova salvando la Costituzione e la democrazia. Oggi il libro di Annibale Paloscia, “Al tempo di Tambroni” (Mursia editore) ripercorre una delle pagine più drammatiche del Dopoguerra. Lo stralcio che pubblichiamo è tratto dal capitolo XXV.
Quella mattina sono le donne genovesi a fare la prima mossa. Arrivano in migliaia al sacrario dei caduti della Resistenza portando mazzi di fiori. “Tonnellate di fiori” scrive con enfasi un cronista. Alle 12 comincia lo sciopero generale. Si sospende il lavoro nelle fabbriche, negli uffici, al porto. Alle 15:30 si forma il corteo in piazza della Nunziata. La folla riempie la lunga via XX Settembre. Secondo la polizia i manifestanti sono trentamila. I cronisti li valutano tra cinquantamila e centomila. La marcia si conclude in piazza della Vittoria, dove la folla ascolta in silenzio il discorso del segretario della Camera del Lavoro Bruno Pigna. Un folto gruppo di ragazzi con le magliette a strisce si ferma in piazza De Ferrari e occupa lo spazio intorno alla grande vasca di bronzo eretta nel 1934 per celebrare le guerre coloniali italiane. Vicino alla fontana era schierato da ore un reparto di polizia col compito di sorvegliare gli accessi alla zona recintata con i cavalli di Frisia. All’improvviso la mischia, gli scontri, il fuggi-fuggi, gli inseguimenti. Vengono date diverse versioni. La questura di Genova sostiene che i poliziotti hanno reagito a un’aggressione. Giordano Bruschi, partigiano e capo del sindacato dei marittimi, smentisce l’aggressione contro la polizia. “Al massimo un lancio di monetine”.
L’impiego dell’idrante sicuramente è l’errore iniziale della forza pubblica. La polizia che, per proteggere il congresso missino, aveva imprigionato il centro di Genova con reticolati e mezzi blindati, avrebbe dovuto tollerare i fischi e gli slogan di quei ragazzi stanchi di tutti i divieti. Al primo errore ne segue uno più grave: quello di lanciare i poliziotti all’inseguimento dei ragazzi per completare la punizione a colpi di manganello. [...] Lì intorno c’è il gran labirinto dei caruggi, che offre ai manifestanti il terreno adatto per respingere le cariche e fare assalti di sorpresa. Nei vicoli le magliette a strisce ricevono solidarietà e il loro numero si moltiplica. Arrivano anche rinforzi di portuali che, venendo dal luogo di lavoro, si sono portati gli uncini usati per agganciare le balle.
Le cariche alla cieca e i lanci di lacrimogeni coinvolgono migliaia di persone di ritorno dalla manifestazione, con la conseguenza che tutto il centro diventa area di scontri. I reparti che presidiavano piazza De Ferrari sono ormai frammentati, sotto una pioggia di pietre, gambe di tavolini, materiale edilizio di ogni tipo. I celerini lottano corpo a corpo, ma quando i loro avversari diventano cinquemila sono costretti a fuggire. Nei vicoli sono bombardati di oggetti lanciati dai tetti e dalle finestre. Non hanno mascherine di protezione contro i loro stessi fumogeni. Alcune jeep sono incendiate, un capitano della celere viene gettato nella vasca di piazza De Ferrari. [...] Alle 18:30 succede un episodio che fa infuriare gli ufficiali del secondo reparto Celere di Padova, temuto per la brutalità. Mentre gli uomini di questo reparto sono bombardati con sassi e tegole, un reparto dei carabinieri, che segue la situazione senza muoversi dalla sua posizione, viene applaudito dalle “magliette a strisce”. Alcuni carabinieri si lasciano prendere sottobraccio dai ragazzi usciti dai caruggi, si parla, si scherza. L’ispettore del corpo degli agenti di PS scrive al capo della polizia: “Vedemmo con sbalordimento prima e con indignazione poi, alcuni carabinieri avanzare sulla piazza, in mezzo ai dimostranti, come in una parata”. L’ufficiale denuncia “l’arcinoto atteggiamento dei carabinieri”. Avverte che se perdurasse, “le nostre valorose, pazienti ed educate guardie, nell’espletamento dei loro duri istantanei interventi, potrebbero coinvolgere, contro volontà, i carabinieri nello stesso trattamento riservato ai facinorosi”.
La maggior parte dei manifestanti scesi in piazza durante lo sciopero generale erano lavoratori e impiegati, uomini e donne, che da settimane, appena usciti dalle fabbriche e dagli uffici, andavano alle riunioni in cui si decidevano le iniziative contro il congresso missino. Per questa massa di cittadini, che non si aspettavano le violenze, né erano preparati a difendersi, fu più difficile evitare le manganellate, gli idranti e i lacrimogeni. [...] Dopo tre ore e mezzo di scontri, verso le 19:30, il presidente dell’Anpi Gimelli sale su una camionetta della polizia, gira per i quartieri, e con un megafono lancia appelli a cessare gli scontri. Poco dopo si torna a camminare nelle strade di Genova senza caroselli di jeep, senza idranti e lacrimogeni, senza ragazzi che tirano pietre. Centonove agenti ricorrono a cure in ospedale. In serata la Camera del Lavoro proclama un nuovo sciopero generale di 24 ore nella provincia per il 2 luglio, in concomitanza con l’apertura del congresso missino. Nel comunicato si dà la colpa degli incidenti alla polizia per il “brutale intervento a manifestazione sciolta”. A Roma si convoca subito il Senato. Il ministro dell’Interno Spataro rovescia sui comunisti tutta la responsabilità dei disordini di Genova. Il senatore Gaetano Barbareschi, segretario della Federazione socialista genovese, gli risponde: “Lei ci spaventa per la mancanza assoluta di conoscenza dei fatti”. Ricorda che la protesta contro il congresso missino unisce tutti i partiti antifascisti “compresa una parte notevole della Democrazia cristiana”. Denuncia la irresponsabilità del governo “perché non si convoca il congresso del Movimento sociale a dieci metri di distanza dal sacrario dei caduti partigiani”.

Repubblica 1.7.10
Compagni
Dall’utopia al tabù tutti sono diventati ex
di Nello Ajello

È stato un termine che indicava appartenenza e militanza. Adesso invece il suo utilizzo è un casus belli che provoca polemiche e imbarazzi Stare seduto lì in quell´aula con i suoi compagni, e i suoi capi, non era inutile. Anche lì serviva Era un compagno proletario, anche lui pensionato, che però non aveva né casa né famiglia Mi hanno consegnato qui un biglietto: "Compagno non commentare le tue poesie"

«Compagno». Ecco una parola che non sopporta sinonimi. Ha attraversato l´intera utopia del marxismo. È risuonata per decenni nei raduni della sinistra. È passata dalle labbra di Amadeo Bordiga e di Antonio Gramsci a quelle di Ignazio Silone. Ha animato i comizi di Nenni e di Saragat. La scandirono per una vita Togliatti, Secchia o Di Vittorio. Da quel vocabolo – «compagni» – Vittorini e Calvino soffrirono a distaccarsi, mentre Marco Pannella lo adottava in un senso tutto suo. E oggi quel termine è più che altro un pro-memoria: il solo, forse, che ci dica qualcosa su ciò che s´era convenuto di chiamare le «masse».
Fra entusiasmi, anatemi, trionfi, rovesci.
«Su fratelli, su compagni, – su, venite in fitta schiera», esortava un tempo l´Inno dei lavoratori, firmato da Filippo Turati. E oggi? Oggi la schiera non troppo fitta dei militanti della sinistra ha deciso di resuscitarla, quella parola, come stiamo per raccontare. Ma è una resurrezione necessariamente breve, su uno sfondo che non potrebbe essere più diverso da quello che aveva quando dirsi «compagno» rappresentava un segno di riconoscimento e sottolineava l´appartenenza a una genealogia di cui si onoravano senza tregua i supremi modelli. «Come ebbe ad affermare il compagno Lenin», «lo ha bene spiegato il compagno Stalin»: ecco una coppia di frasi che, nella scuola del partito comunista alle Frattocchie, era adottata per reprimere i dubbi.
Una sfida interessante potrebbe essere quella di trovare, nella pubblicistica comunista, l´espressione «ex-compagno». Deve esservi comparsa di rado. Nei partiti comunisti si entrava e basta. Le loro porte erano sorvegliate dai Capi. Su chi le varcava in uscita, gravava una patente d´indegnità: non più il «compagno» ma il «rinnegato». Quando lo scrittore Elio Vittorini, primi anni Cinquanta, manifestò il proprio disagio a condividere il «credo» comunista, Togliatti si disse stupito. «Era venuto con noi», scrisse su Rinascita «perché credeva che fossimo liberali, invece siamo comunisti. Perché non farselo spiegare prima?». Dal partito liberale (era sottinteso) ci si può allontanare con reciproci saluti. Da noi, no: o sei un compagno o non sei niente.
Dal caso Silone (1930) alla radiazione degli aderenti al Manifesto (1969), la casa dove abitano i compagni non contemplerà restauri. Solo più tardi, a quel venerando sostantivo potrà seguire qualche aggiunta: «compagni di strada» (come a dire, catecumeni a metà) o, più avanti ancora, «compagni che sbagliano». È già l´alba del terrorismo, la fine d´un sogno.
Ma passiamo all´oggi, tanto meno drammatico ma a suo modo agitato. Nel tornare in discussione due settimane fa, la parola «compagno» ha assunto qui in Italia le sembianze d´un casus belli.
A pronunziarla sabato 19 giugno, durante un raduno al Palalottomatica dell´Eur, è stato un bravo attore. Si chiama Fabrizio Gifuni. Di recente ha incarnato De Gasperi in tv. È figlio di quel mandarino della Repubblica, a nome Gaetano, che fu il gran consigliere di Scalfaro e poi di Ciampi sul Colle.
«Compagne e compagni, è tanto che volevo dirlo», ha esordito Fabrizio. Gli premeva denunziare il trattamento punitivo che il governo riserva alla cultura. E a quel suo incipit hanno fatto subito seguito i commenti, i plausi, i dinieghi. Essi non riguardano naturalmente la cultura, ma quel vocabolo risuscitato: «compagni».
Un´occasione per sfogarsi? Una scusa per abbandonarsi al prediletto masochismo? È difficile interpretare umori così istintivi. A riempire i giornali e il web di reazioni a catena è stata una fetta cospicua dei progressisti nostrani. Si va da quei cinque giovani «democratici» romani che hanno rifiutato la definizione di «compagni», scrivendo a Bersani di essere nati in contemporanea con il Pd (li hanno subito definiti i «nativi») all´opposta opinione di quella loro coetanea che, impegnata nell´attività di partito, confessa all´Unità: «Non ho il tempo di offendermi se qualcuno mi chiama compagna». E il Pd sembra dividersi intorno alla parola. Il senatore Stefano Ceccanti vorrebbe abolirla. Alludendo ai «nativi», il deputato europeo Leonardo Domenici, sbotta: «Anche i giovani possono dire delle cretinate». Debora Serracchiani propone una ricetta complicata: «Occorre trovare nuovi serbatoi simbolici». E al vertice del partito? Rosi Bindi si schiera con Gifuni.
Enrico Letta trova «stridente» quel suo appello. Beppe Fioroni incalza: «Compagni? Parola da archiviare». Degno di archiviazione, secondo Bersani, è l´intero argomento: «Basta finire sui giornali con polemiche inutili».
Un concerto di voci. Un caso assai «partecipato». In tema di partecipazione, circolava nella Parigi del ‘68 un aforisma sotto forma di coniugazione. Suonava così: «Je participe, tu participes, il participe, nous participons, vous participez, ils profitent». Trasportata la canzoncina qui e ora, è facile scoprire a chi possa alludere il verbo conclusivo. Basta registrare l´annoiata benevolenza con cui qualche giornale contrario alla sinistra ha commentato il caso del giugno 2010. «Chiamatevi compagni, vi resta solo questo», titolava Libero. Ma poi scriveva, dubbioso: «Hanno forse ragione quei ragazzini agnostici» (i «nativi», s´intuisce) a rifiutare la parola «compagno», «ultimo resto ingombrante e osceno di una chiesa che fu».
Un´altra volta, figlioli, state più attenti.

Repubblica 1.7.10
I funerali di Berlinguer
di Guido Crainz

Forse l´ultimo momento in cui ci si chiamò così furono i funerali di Enrico Berlinguer, nel 1984 L´ultima occasione in cui la "gente comunista" occupò pienamente la scena, nel dolore e nell´orgoglio Alla fine degli anni ´ 70 il declino di una comunità Il popolo degli orfani

Quando iniziò ad appannarsi la «forza propulsiva» della parola? Il passaggio dall´ultima fase espansiva al declino è in realtà molto breve. Negli «anni ´68» il suo fascino dilaga ben oltre le fila tradizionali del movimento operaio ma l´inversione di tendenza non tarda molto: la crisi è evidente ben prima del 1989, e si avverte già nel declinare degli anni settanta. Nella stagione del terrorismo gli assassinii dei «compagni che sbagliano» recano il primo colpo mortale ed evocano al tempo stesso crimini del passato ancor più tragici ed enormi, compiuti in nome dell´idea. Incrinano certezze e rimozioni. «Un compagno non può averlo fatto», diceva la canzone dedicata a Pino Pinelli all´indomani della strage di Piazza Fontana: allora era profondamente vero ma pochi anni dopo i compagni lo avrebbero realmente fatto. Ancor peggio stavano facendo i compagni del Vietnam: il paese che era stato centrale per il tumultuoso volgersi a sinistra di una generazione diventava l´immagine e la rivelazione devastante di una menzogna storica. E il dissenso dell´Est iniziava, sia pur con molta fatica, a trovare interlocutori meno insensibili che in passato.
«Non abbiamo più niente, compagni, siamo orfani», scriveva Lotta continua il 31 dicembre del 1977. Di lì a poco rimarrà solo l´essere orfani, e la parola era ormai accerchiata anche su altri versanti. Lo slogan più diffuso e più limpido degli «anni ‘68» era stato «operai e studenti uniti nella lotta»: per il «movimento del 1977» gli operai sono diventati i "garantiti", quasi una comunità di privilegiati. Per la prima volta un movimento di sinistra vedeva nella classe operaia non il punto di riferimento di una vasta comunità di compagni ma un disvalore. E gli operai stessi, lo registravano allora le inchieste di Giulio Girardi, sentivano appannarsi quel senso di comunanza. Nel 1980 la «marcia dei quarantamila» della Fiat, con la sua capacità di rappresentare umori che andavano ben al di là dei "capi" e degli impiegati, verrà solo a chiudere duramente il cerchio.
In quello stesso anno dall´interno del Psi di Bettino Craxi prendevano forte impulso anche altri processi che a quella parola avrebbero irrimediabilmente attentato. Non solo e non tanto per il crescente prender le distanze dai simboli e dai riti del primo socialismo quanto per il progressivo privilegiare i ceti emergenti rispetto a quelli sofferenti e, più ancora, per quella vera e propria "mutazione genetica" del partito che verrà ampiamente alla luce molto prima di Mani pulite.
Anche altri processi travolgono però l´idea stessa di un´appartenenza collettiva. Già nel 1978, nel momento più cupo degli «anni di piombo», il trionfo de La febbre del sabato sera annuncia il "riflusso" che avrebbe caratterizzato gli anni ottanta. «Non so più a chi non credere», dice un personaggio di Altan, ed erano davvero molte le identità, le speranze e le idee che rifluivano. Forse l´ultimo grande momento in cui ci si chiamò compagni senza ombre o reticenze furono i funerali di Enrico Belinguer, nel 1984: l´ultima occasione in cui il "popolo comunista" e, più in generale, il popolo di sinistra occupò pienamente la scena, nel dolore e nell´orgoglio. Profondamente diverso, certo, da quello che aveva invaso Roma alla morte di Palmiro Togliatti, eppure ancora reale: ancora una folla di compagni. A ben vedere, le immagini e le interviste raccolte allora da una nutrita schiera di registi ci riconsegnano, ben prima del 1989, un mondo in via di scomparsa. Ci aiutano, anche, a riflettere su di esso e sulla nostra storia.

Repubblica 1.7.10
Quell´Arte di classe
di Filippo Ceccarelli

«Ogni movimento rivoluzionario è romantico per definizione» scriveva Antonio Gramsci. Ebbene, di questa rivoluzione romantica o di questo romanticismo rivoluzionario, il tributo più ardente e insistito alla parola «compagni», l´energia più estesa e vibrante si deve a Majakovskij.
È specialmente nella sua poesia che l´appellativo o l´interiezione acquista potenza letteraria e tonante: «Compagni! Sulle barricate!/ Barricate di cuori e di anime». Altro che materialismo storico: «Siamo uguali. Compagni d´una massa operaia./ Proletari di corpo e di spirito». Nella sua Lettera aperta agli operai, Majakovskij conquista l´attenzione ben al di là delle circostanze della storia: «Compagni, il duplice incendio della guerra e della rivoluzione ha devastato la nostra anima e le nostre città». Nel suo appello agli artisti e agli intellettuali l´evocazione risuona ultimativa: «Compagni, date un´arte nuova,/ tale che tragga la repubblica dal fango».
Fino all´estremo della sua vita, fino all´ultimo biglietto, scritto prima di farsi saltare le cervella: «Mamme, sorelle, compagni, perdonatemi». E ancora, come rivolgendosi a un´entità personale, tragica illusione da poeta: «Compagno governo, la mia famiglia è Lili Brik».
Ecco. A cercare «compagni» come fonte d´ispirazione artistica, si rischia oggi di rimanere con un nobile pugno di cenere tra le mani. Libri, film, quadri: così inattuali, così stranianti, così ambigui, a volte. Spunta dallo scaffale, reparto terrorismo, Compagna luna (Feltrinelli, 1998): l´ha scritto in prigione Barbara Balzerani, la più spietata brigatista. Ma è un volume lontano mille miglia, una vertigine di anni e di senso, da Il compagno di Pavese, romanzo vivo di riscatto (1947). Eppure, quando Pavese prese a interessarsi al mito, gli intellettuali comunisti la presero così male da fargli appuntare nei suoi diari: «Pavese non è un buon compagno. Discorsi d´intrighi dappertutto. Losche mene, che sarebbero poi i discorsi di quelli che ti stanno più a cuore».
I buoni compagni. O i compagni buoni – che non era proprio la stessa cosa, ma in fondo sì. Comunque quelli che tra la nascita e la morte, solo attraverso quell´appellativo, diedero dignità alla loro condizione attraverso la lotta. Quelli, per dire, che già due secoli orsono affrontavano lo sguardo del pubblico nel Quarto Stato di Pellizza da Volpedo. O quelli immortalati da Monicelli nel 1963 in un film, I compagni appunto, reso ancora più epico dalla straordinaria fotografia di Peppino Rotunno. Quelle scarne figure, infine, sagome d´acrilico rosso con chiavi inglesi e cartelli, che dopo il Sessantotto Mario Schifano volle intitolare Compagni, compagni – e che una truce leggenda anti-gruppettara voleva foderassero a mo´ di boiserie le pareti della sala da pranzo della casa romana dell´Avvocato Agnelli.
Compagno sì, compagno no, compagno un cazzo cantava nel frattempo Ricky Gianco. Eppure c´è una bellissima definizione che con i dovuti aggiornamenti sembra resistere all´usura del tempo. La ricordava giorni fa sul Manifesto Alessandro Portelli e forse ancora vale perché, più che da un ideologo, viene dal più grande studioso di antropologia culturale, Ernesto De Martino, che così spiegò la passione dei suoi studi: «Io entravo nelle case dei contadini pugliesi come un "compagno", come un cercatore di uomini e di umane dimenticate istorie, che al tempo stesso spia e controlla la sua propria umanità, e che vuol rendersi partecipe, insieme agli uomini incontrati, della fondazione di un mondo migliore, in cui migliori saremmo diventati tutti, io che cercavo e loro che ritrovavo».

mercoledì 30 giugno 2010

l’Unità 30.6.10
CONTRO LA LEGGE BAVAGLIO
Ferrario: «Il Tg1 un’arma di distrazione di massa»
La popolare giornalista dell’ammiraglia Rai condurrà insieme ad Ottavia Piccolo l’inizitiva della Fnsi dal palco di piazza Navona, il 1 luglio dalle 17. Manifestazioni nelle altre città
di Virginia Lori

Ho accettato subito di condurre la manifestazione per la libertà di stampa con entusiasmo, perchè questa legge se passasse, diventerebbe un alibi per chi l'informazione completa già non la dà, come chi ha trasformato il principale telegiornale italiano un'arma di distrazione di massa». Tiziana Ferrario ha motivato così la sua adesione alla manifestazione indetta dalla Fnsi. La giornalista del Tg1 condurrà con Ottavia Piccolo l’iniziativa nazionale che si svolgerà il 1 luglio a Roma dalle 17 in Piazza Navona.
Come Chavez. «Una dichiarazione come quella del premier la poteva fare Chavez o un altro leader di un regime populista», ha intanto reagito Franco Siddi, segretario generale della Fnsi, a Berlusconi che dal Brasile ha invitato a scioperare contro i giornali. «Abbiamo subito un nuovo atto di aggressione, fondato sul principio della libertà invertita. Siamo stufi di questi atti ha continuato Siddi . In questo paese c'è una casta espressa da un potere con un enorme conflitto d'interesse, che vuole proteggere se stessa, considerando l'informazione come nemico. È una deriva molto pericolosa». La manifestazione «contro la legge bavaglio» si svolgerà oltre che a Roma con una Notte Bianca, a Conselice dove c'è il monumento alla libertà di stampa, e in molte città come Milano, Padova, Torino, a Trieste, Latina, Parma, Londra, Parigi. Per Roberto Natale, presidente della Fnsi, con il ddl intercettazioni «l’attacco non è solo al diritto-dovere dei giornalisti di informare ma soprattutto a quello dei cittadini di essere informati». Natale ha sottolineato la grande unità del mondo del giornalismo.
Federazione della stampa e Fieg sono stati ascoltati in commissione giustizia alla camera, nell’ambito delle audizioni accordate alcuni giorni fa dalla presidente Bongiorno. Il presidente della Fieg Carlo Malinconico ha presentato un documeto scritto. «Il ddl sulle intercettazioni, approvato dal Senato, incide ancora pesantemente sulla libertà di informazione, nonostante i miglioramenti apportati». È la valutazione di Malinconico che esprime in particolare «gravi preoccupazioni, per le previsioni normative volte a comprimere la pubblicazione di notizie riguardanti inchieste penali». «In luogo del divieto 'tout court' si prevede ora riconosce Malinconico la possibilità di pubblicare per riassunto, una volta caduto il segreto». Tuttavia resta un «regime incoerente per le intercettazioni», vige il divieto assoluto di pubblicazione, anche se non più coperte da segreto, fino al processo, pena la gravissima sanzione della reclusione da 6 mesi a 3 anni ma manca nel testo del ddl, «un filtro capace di eliminare dal fascicolo processuale le intercettazioni non rilevanti». Se si considera che le intercettazioni sono state limitate ai reati che destano allarme nella pubblica opinione e che manca tale filtro per i contenuti irrilevanti, l'effetto è che per reati gravissimi non sarà possibile dare notizie di circostanze non più coperte da segreto.».

l’Unità 30.6.10
Intervista a Fulvio Fammoni
«La Cgil in prima fila perché è in gioco la libertà del nostro Paese»
Il sindacato domani in piazza: «È doveroso intervenire Il governo legifera senza tener conto della Costituzione»
di Stefano Miliani

Domani, in piazza a Roma contro la legge bavaglio, la Cgil il sindacato ci mette la faccia, è in prima fila. Il perché lo spiega il segretario confederale Fulvio Fammoni. Come mai un sindacato che si occupa di lavoro interviene su una legge su informazione e giustizia? «Intanto ricordo che eravamo anche alla manifestazione del 3 ottobre scorso. Il punto cruciale è che questa legge ha evidenti tratti di incostituzionalità, gli interventi del governo in cui legifera su giustizia, informazione e lavoro senza tener conto della Costituzione sono ormai frequenti, per noi ciò è sbagliato ed è doveroso intervenire. E due temi fondamentali entrano in gioco». Quali? «La giustizia e la libertà di informare. È inaccettabile che il governo intasi il Parlamento con leggi sbagliate senza affrontare e oscurando i grandi problemi della crisi».
Cisl e Uil non ci saranno.
«Ci saranno come promotrici oltre 300 associazioni delle tendenze più diverse, dall’Acli all’Arci. Ci saranno presidi in decine di città italiane. Che Cisl e Uil non vengano è un problema. Peraltro su questi temi hanno sempre svolto iniziative». Come spiega la loro assenza?
«Non so dare una spiegazione razionale. La Federazione della stampa ha tentato un confronto comune che non si è potuto realizzare. Mi auguro che su temi così cruciali si ritorni a iniziative unite. Oltre tutto vedremo ripercussioni pesanti anche sui posti di lavoro».
In che modo?
«Parliamo non solo della Legge bavaglio ma di un insieme molto articolato e grave: parliamo di censure, del mancato finanziamento all’edi-
toria e di tagli a cultura e a spettacolo che faranno perdere migliaia di posti e questo, per un sindacato, è un metro di giudizio essenziale».
E dopo giovedì che succederà?
«Non ci fermeremo, saremo davanti al Parlamento anche se discuteranno la legge ad agosto. Poi prepariamo un ricorso alla Corte Costituzionale e uno alla Corte europea dei diritti dell'uomo».
Questa legge può essere corretta?
«Non si può cercare di limitare danni. Se la approvano durante un processo potranno parlare solo gli imputati ed è assurdo. Per far uscire l'Italia da questa cappa pensiamo a un’iniziativa in Europa in autunno. Potremo proporre un testo sulla libertà di informazione per il Parlamento europeo».

il Fatto 30.6.10
Stefano Rodotà: Ma quale privacy, vogliono il silenzio
“La vera battaglia comincerà subito dopo l’approvazione del testo”
di Luca Telese

Si è mobilitato per la manifestazione di domani senza risparmio. Se non altro perché Stefano Rodotà – giurista, ex garante della privacy, professore di diritto – è convinto che da Piazza Navona possa iniziare un cammino decisivo per l’affermazione della libertà di stampa in questo Paese. Ecco perché in questa intervista Rodotà spiega che non intende tornare sul merito di tutti gli articoli che giudica inammissibili (“Ne abbiamo parlato fino alla nausea”), ma piuttosto sulle cose da fare per continuare la battaglia contro il provvedimento anche dopo l’eventuale approvazione della legge.
Professor Rodotà, cosa si aspetta da questa manifestazione?
Io ci sarò. L’appuntamento, come è noto, nasce da una iniziativa della Federazione nazionale della stampa. Ma è diventata, strada facendo, un punto di incrocio di diversi soggetti: i giornali che si sono opposti a questa legge invereconda, gli editori, i sottoscrittori di un appello promosso anche da chi parla...
Cosa ha prodotto concretamente tutta questa mobilitazione?
Dei risultati tangibili, che hanno completamente cambiato lo scenario in cui quelle norme erano state pensate e presentate in Parlamento.
Berlusconi era convinto di poterle portare a casa prima dell’estate. Ora, invece...
Speriamo che non ci riesca. Io credo che questo movimento abbia dato uno stimolo importante a chi, anche nelle istituzioni, e anche nel centrodestra, ci tengo a precisare, si è opposto a questa legge.
La sento soddisfatta.
Ho la presunzione di dire che se la società civile non si fosse mobilitata, questa legge avrebbe trovato molti meno ostacoli, e sarebbe stata varata così come era stata pensata.
Lei pensa che la legge non sarà approvata nella forma che conosciamo?
Non lo so, e non intendo esercitarmi nei pronostici: credo che una cosa debba essere chiara a tutti. Piazza Navona non sarà un punto di arrivo ma un punto di partenza per il futuro .
In che senso?
Nel senso che la nostra battaglia contro la legge inizierà un minuto dopo l’approvazione del testo.
Qualcuno potrebbe chiedersi: perché l’uomo che ha fondato l’authority sulla privacy scende in campo contro una legge che limita le intercettazioni?
Proprio perché questa legge mette a rischio delle libertà costituzionali, e non ha nulla a che fare con la tutela della riservatezza dei cittadini.
Ovvero?
Se si fosse avuto a cuore questo problema, si sarebbero potute agevolmente stralciare dalla bozza della legge gli articoli che impediscono la pubblicazione di intercettazioni che riguardano dettagli e vicende private di persone non indagate. Credo in questo caso il testo sarebbe stato votato all’unanimità.
Invece?
Invece il cuore del provvedimento sono le norme contro i giornalisti e contro la magistratura. E voglio aggiungere una cosa: il sesto articolo del codice deontologico professionale dell’ordine, che io ho materialmente steso, affronta già questi problemi, e ha già un valore di legge.
Quindi il vero obiettivo è un altro.
Certo. Per il premier, innanzitutto, la chiusura delle falle del suo sistema di difesa, il tentativo di sistemare a posteriori le indiscrezioni e le rivelazioni che possono venire dalla incredibile mole di quelle che possiamo definire le sue frequentazioni femminili....
In che senso lei dice che la battaglia contro la legge “inizia” con l’approvazione?
Sono convinto che appena il testo entrerà in vigore sarà necessario coordinare e assistere il ricorso alla disobbedienza civile che il vostro quotidiano, e tanti altri giornalisti hanno annunciato.
Quale dovrebbe essere la via da seguire, secondo lei, in queste forme di protesta estrema?
Intanto servirà un coordinamento, strettamente tecnico, dei collegi di difesa per chi trasgredirà i divieti di pubblicazione.
E poi?
Subito dopo bisognerà immaginare un percorso e delle mosse che permettano di portare la questione all’attenzione della Corte costituzionale, e, anche, della Corte europea. Poi...
Cosa?
Ci sono altre forme di elusione dei vincoli imposti dal provvedimento. Il primo è la pubblicazione sui siti internazionali, ad esempio quelli che si sono già messi a disposizione, a partire da Reporter sans Frontières.
E poi?
Io credo che un’ottima strada, seguendo uno storico precedente americano, sia quella che ha annunciato Di Pietro: se dei materiali entrano dentro gli atti del Parlamento, o attraverso dichiarazioni dei parlamentari in aula, o attraverso l’inserimento di notizie e dati all’interno delle interrogazioni, nulla può impedirne la citazione. Anche questa via, però, può rivelare delle difficoltà di attuazione.
I parlamentari sarebbero protetti dall’immunità. Ma siamo sicuri che la legge non avrebbe effetto sugli atti di Camera e Senato?
Credo che sia una delle poche cose certe in tutti i Parlamenti del mondo: tutto quello che riguarda il Parlamento non può essere censurato. L’unico vincolo possibile sarebbe togliere la parola a chi parla, o dichiarare inammissibile alcuni atti.
Quindi si può silenziare i parlamentari?
Si aprirebbe un grosso conflitto regolamentare, molto dipenderebbe dai presidenti delle Camere. Ma voglio dire un’ultima cosa...
Prego.
È giusto collegare questa battaglia a quella contro i tagli nelle università che, solo apparentemente, può apparire slegata.
Lei individua un unico filo?
Con il disegno di legge si colpiscono magistrati e giornalisti. Con i tagli alla ricerca e alla cultura tutti coloro che svolgono professioni intellettuali. Se ci pensa è un attacco congiunto alle fonti del sapere critico.
Una strategia unica?
Un moto naturale di chi coltiva tentazioni autocratiche. Si colpiscono tutte le riserve critiche della società. E si punta a ottenere l’effetto finale sperato.
Quale?
Quello di imbavagliare la prima cellula vitale delle moderne società democratiche: l’opinione pubblica. È per dire no a questo tentativo che domani scenderemo in piazza.

il Fatto 30.6.10
“Contro tagli e bavagli”, i giornalisti tornano in piazza
Domani a roma la manifestazione contro il disegno di legge
La FNSI: “Non siamo cagnolini da salotto”
di Silvia D’Onghia

Il palco è quasi pronto, il primo luglio è arrivato. I giornalisti tornano in piazza, dopo la manifestazione del 3 ottobre scorso, per difendere il proprio dovere ad informare e soprattutto il diritto dei cittadini di essere informati, così come prevede la Costituzione. “No al silenzio di Stato” recita lo slogan della Federazione nazionale della Stampa, “contro i tagli e i bavagli alla conoscenza e alla cultura”. Un’iniziativa che ha visto le adesioni dei principali media nazionali (Fatto Quotidiano compreso, naturalmente): sono più di duecento le piattaforme che trasmetteranno sul Web la maratona di piazza Navona, mentre Rainews24, SkyTg24 e Youdem cureranno la diretta televisiva. Ma sono anche tantissimi gli attori della società civile che saranno al fianco dei giornalisti: prima tra tutti la Cgil, che anche per l’appuntamento di ottobre aveva assicurato un grande coinvolgimento di iscritti. Poi il Popolo viola, l’Arci, l’Auser, Legambiente, la Tavola della Pace, la Federazione delle chiese evangeliche, l’Unione degli universitari e la Rete degli Studenti, Giustizia e Libertà e tanti altri. E i partiti: il Pd, l’Idv, SeL, la Federazione della Sinistra, i Verdi e i Grillini. L’appuntamento è alle 17 e si prevede un lungo pomeriggio di interventi e spettacolo. A condurre saranno l’epurata Tiziana Ferrario, che ha fatto sua la definizione del Tg1 come “arma di distrazione di massa”, e Ottavia Piccolo. Sul palco ci saranno anche Ilaria Cucchi e la famiglia Aldrovandi, casi che non sarebbero mai venuti fuori se la legge bavaglio fosse stata in vigore, così come il segretario del Silp Cgil, Claudio Giardullo, a nome di tutti i sindacati di polizia. E poi gli artisti e gli intellettuali, dai Percussionisti di Santa Cecilia ai Têtes de Bois, da Dacia Maraini a Dario Fo (al telefono). “I giornalisti non sono cagnolini da salotto come il potere politico vorrebbe ridurli, ma cani da guardia della verità e dell’informazione”: ieri il segretario della Fnsi, Franco Siddi, dopo aver presentato la manifestazione, è stato sentito in audizione in commissione Giustizia a Montecitorio, dove ha ribadito la contrarietà al ddl e rilanciato la proposta dell’“udienza filtro” che scremi le intercettazioni utili ai fini delle indagini da quelle che invece non hanno rilevanza. Di “filtro” hanno parlato anche gli editori, nel corso della stessa audizione: “Nonostante qualche indiscutibile miglioramento – ha spiegato il presidente della Fieg, Carlo Malinconico – il ddl incide ancora pesantemente sulla libertà di informazione. Perplessità e gravi preoccupazioni, sollevano le previsioni normative volte a comprimere la pubblicazione di notizie riguardanti inchieste penali”.

il Fatto 30.6.10
Vaticano, è codice rosso dopo la decisione americana
Di fronte a un crollo inedito e inaudito di credibilità, il Papa blocca il dibattito anche sulle responsabilità passate
di Marco Politi

Sull’orlo del vulcano la Santa Sede sceglie la tattica dello “stare a vedere” dopo il pronunciamento della Corte Suprema Usa e si prepara al catenaccio. In Vaticano si spera che non si arriverà ad una citazione dinanzi ad un tribunale americano del cardinale Segretario di Stato Bertone, del decano del collegio cardinalizio Sodano se non dello stesso Benedetto XVI. La decisione della Corte Suprema di “non decidere” sull’immunità della Santa Sede nei processi di pedofilia (come richiesto dalla stessa amministrazione Obama) apre però la strada ad una situazione molto pericolosa per il Vaticano. Il giudice dell’Oregon può ora andare avanti nell’accertare le specifiche responsabilità degli organi centrali vaticani per quanto riguarda i trasferimenti omertosi del prete-predatore Andrew Ronan (morto nel 1992), spostato via via dalle autorità ecclesiastiche dall’Irlanda a Chicago e infine a Portland, dove continuò ad abusare. Jeff Anderson, l’avvocato principe dei processi per pedofilia negli Usa, preannuncia una richiesta di audizione di Bertone e Sodano. Oltretevere tenteranno a quel punto di chiedere nuovamente l’immunità, augurandosi che la Corte Suprema decida di riconoscere la non processabilità di esponenti di un governo straniero. Ma ciò che sfugge ai prelati vaticani nel giorno di festa del 29 giugno, in cui si esalta l’autorità suprema del papato, è che in Occidente è in corso un gigantesco smottamento di immagine e di prestigio della Chiesa cattolica, non più vista e riverita come potere sovranazionale superiore alle leggi statali.
Gli eventi di questi giorni sono il segno di un passaggio d’epoca. Per sedici secoli, dai tempi dell’Impero romano sotto Costantino, Teodosio II e Giustiniano, la Chiesa si è costruita passo dopo passo un’immunità strutturata a sistema, per cui clero e vescovi mai sottostavano alla giustizia civile. Per cui clero e vescovi erano quasi sempre intoccabili. Per cui la gerarchia ecclesiastica non doveva “rendere conto” a nessuno dei suoi affari interni. I processi negli Stati Uniti degli anni scorsi e le condanne di risarcimento milionario inflitte alle diocesi per i casi di occultamento della pedofilia hanno fatto breccia in questo sistema, le commissioni d’inchiesta statali come in Irlanda lo hanno scosso, la valanga di eventi accaduti nelle ultime ore lo sta frantumando. La Corte Suprema americana non ha ritenuto di concedere automaticamente l’immunità, la giustizia belga (seppure con un’azione spettacolare probabilmente inutile, perché i vescovi belgi avrebbero consegnato egualmente i loro computer e risposto ad interrogatori anche senza il sequestro di nove ore dell’intera conferenza episcopale) ha messo alla gogna la leadership ecclesiastica di una nazione, infine il comunicato vaticano su Propaganda Fide – nel riconoscere gli “errori” della congregazione – sono la testimonianza che il vento è cambiato.
Di colpo la Chiesa cattolica è trascinata dal suo empireo, dal suo essere un “potere al di sopra dei poteri terreni”, ed è obbligata a misurarsi con l’opinione pubblica, con le richieste di rendiconto dei mass media, con le citazioni dinanzi alle magistrature statali. Le prime risposte di papa Ratzinger non sembrano essere all’altezza della nuova sfida. Il coro dei cortigiani, ecclesiastici e non, è già partito esaltando la sua svolta riformatrice, ma la situazione è più complessa. Benedetto XVI sulla piaga di pedofilia ha avuto un grande sussulto morale, improntato a rigore, facendo mea culpa nella Lettera agli Irlandesi, ponendo al centro la sorte delle vittime, esortando alla consegna dei preti colpevoli alla giustizia civile. Ma ora che l’aggravarsi della crisi richiede una risposta di “politica ecclesiastica” il Papa appare esitante. L’operazione-pulizia in Italia – terra che sottosta direttamente alle direttive papali – non è nemmeno partita. La Cei non fornisce risposte sui cento casi di preti abusatori già acclarati e non apre un’inchiesta nazionale per scoprire le vittime non ascoltate.
Di più: lunedì Benedetto XVI ha tappato la bocca al cardinale Schoenborn, che aveva sollevato la questione delle responsabilità del cardinal Soda-no, Segretario di Stato durante il pontificato di Giovanni Paolo II, nel bloccare un’indagine del Sant’Uffizio – allora diretto da Ratzinger – sul cardinale pedofilo austriaco Groer e sul fondatore pedofilo e concubino dei Legionari di Cristo, Marciel Macial. In un comunicato vaticano fuori dall’ordinario Schoenborn è stato costretto a scusarsi per le “interpretazioni date alle sue espressioni”. Con durezza è stato dichiarato che “nella Chiesa, quando si tratta di accuse contro un cardinale, la competenza spetta unicamente al Papa”. Gli altri possono solo fare opera di “consulenza”. E’ un bavaglio al dibattito tra i massimi esponenti della Chiesa proprio nell’ora in cui ce ne sarebbe maggiormente bisogno. Perché Schoenborn non ha sbagliato. Le inchieste su Groer e Macial furono davvero bloccate. Il Fatto è in possesso di una lettera privata di Groer del 1998 in cui il cardinale ammette che la dichiarazione pubblica – con cui non fornì spiegazioni prima di dimettersi – gli fu “sottoposta” alla firma con l’impegno di un “santo silenzio, di un segreto (da osservare)”. E solo dal Vaticano poteva venire l’imposizione al porporato pedofilo di un testo da sottoscrivere sotto obbligo di silenzio. Il bavaglio a Schoenborn vuole bloccare le rivelazioni sugli anni ‘80 e ‘90. La missione del Papa, ha dichiarato ieri Benedetto XVI in San Pietro, è “garanzia di libertà per la Chiesa” nei confronti dei “poteri locali, nazionali o sovranazionali” e di salvaguardia della tradizione cattolica da “errori concernenti la fede e la morale”. Una rocciosa esaltazione del primato papale. E tuttavia, questa sarebbe l’ora di un consulto di Benedetto XVI con il collegio cardinalizio invece dell’isolamento nella riaffermazione del potere supremo. Senza l’apertura di un dibattito trasparente e collettivo sugli errori del passato e le scelte del futuro, la crisi della Chiesa è destinata ad aggravarsi.

l’Unità 30.6.10
Godelieve Halsberghe aveva presieduto la commissione episcopale che vagliava le denunce
La procura di Bruxelles: indaghiamo sugli abusi ma anche su chi li ha permessi e coperti
Scandalo pedofili in Belgio la talpa era l’ex presidente
di Marco Mongiello

Le vittime escono dall’anonimato. Un sociologo e una donna raccontano gli abusi e il dolore subiti da adolescenti. Sul sagrato della cattedrale manifesta l’associazione fiamminga per i diritti umani nella Chiesa.

Una telefonata anonima, documenti che scottano e la decisione di un ex magistrato in pensione di rivolgersi alla polizia. In base agli ultimi sviluppi di una storia che assomiglia davvero ad un thriller di Dan Brown, dietro le perquisizioni di giovedì all'arcidiocesi di Malines-Bruxelles potrebbe esserci Godelieve Halsberghe, l'ex presidente della commissione episcopale incaricata di raccogliere le denunce delle vittime dei preti pedofili.
L'ipotesi ha preso piede dopo l'intervista rilasciata dalla signora Halsberghe al quotidiano fiammingo “Het Nieuwsblad”. L'ex magistrato ha riferito al giornale di aver ricevuto una telefonata anonima in fran-
L’ex magistrato rivela
«Una telefonata perché mettessi al sicuro denunce e documenti»
cese da un uomo che la avvertiva di «fare attenzione» a se stessa e di mettere al sicuro i documenti sui 30 casi di denunce di cui si era occupata negli anni in cui ha presieduto la commissione, dal 2000 al 2008. Da qui la denuncia, con il suggerimento che ci potrebbero essere altri documenti nascosti.
L’INTERVISTA DEI SOSPETTI
Halsberge ha raccontato di avere conservato copie di registrazioni e materiale relativo a colloqui con le vittime e con l'ex primate Godfried Danneels. Il portavoce della procura di Bruxelles, Jean-Marc Meilleur, ha confermato che gli inquirenti «stanno lavorando su un caso specifico e su una dichiarazione specifica», ma non ha voluto indicare la fonte. Ha precisato anche che le indagini non si limitano ai responsabili degli abusi, ma considerano anche quelli che li hanno permessi. «C'è una parte del caso che potrebbe essere contro coloro che hanno commes-
so il crimine ha detto e ci potrebbe anche essere un'altra parte del caso contro coloro che non hanno aiutato qualcuno che era in pericolo».
Alla Halsberge è poi succeduto lo psichiatra Peter Adriaenssens, che si è dimesso lunedì insieme a tutta la commissione, accusando le autorità di averlo usato come «esca» per raccogliere le testimonianze delle vittime che preferivano rivolgersi alla Chiesa piuttosto che alla giustizia. Ora uno di questi, Jan Hertogen, sociologo di 63 anni, è uscito dall'anonimato denunciando gli abusi subiti da adolescente alla procura. In questo modo ha ottenuto il diritto in ad essere informato sugli sviluppi del suo dossier in quanto parte lesa, ha spiegato l'uomo, invitando gli altri a fare la stessa cosa. Ieri inoltre, davanti alla cattedrale Saint Michel a Bruxelles, si è tenuta una manifestazione dell'associazione fiamminga per i diritti umani nella chiesa, guidata dal prete in pensione Rik Devillé, che negli ultimi 18 anni ha raccolto testimonianze su 320 casi di abusi. Secondo alcuni potrebbero esserci le sue rivelazioni dietro l'operazione di polizia di giovedì. I manifestanti hanno chiesto l'istituzione di una commissione di inchiesta parlamentare «neutra, scientifica e indipendente dalla Chiesa». «Sono stata abusata sessualmente quando avevo 13 anni», ha raccontato Linda Opdebeeck, 46 anni, ora sposata e madre di quattro figli, «lui era un prete, insegnante di francese e di religione e gli abusi sono continuati per tre anni».

l’Unità 30.6.10
«Sesso ma segreto sotto l’ombra del Vaticano»
La chiesa cattolica. È l’unica a considerare il sesso proibito, accettabile solo per la procreazione. E dunque è un peccatore che lo fa per piacere
Il saggio: 17 pedofili, 10 incestuosi, 9 stupratori E poi sposati, travestiti, sadici... La doppia morale vaticana e le strane storie dei Pontefici
Intervista a Eric Frattini

Diciassette papi pedofili, dieci incestuosi, dieci ruffiani, nove stupratori. E poi ancora pontefici sposati, omosessua-
li, travestiti, concubinari, sadici, masochisti, voyeur. Nei giorni in cui la moralità della chiesa è messa sempre più spesso in discussione per i continui scandali, ci pensa lo scrittore e professore Eric Frattini ad illustrarci come, in fondo, la sua storia non sia mai stata immacolata.
Pagina dopo pagina, secolo dopo secolo, dai primi versi della Bibbia a Benedetto XVI, nella documentatissima inchiesta «I papi e il sesso» (Ponte alle Grazie editore) sfilano gli indicibili vizi passati all’ombra del Vaticano. Sottaciuti e nascosti, «non c’era Internet dice Frattini ora la Chiesa non può far finta di niente, il Papa ha dovuto condannare pubblicamente la pedofilia ma da cardinale non si comportò in maniera altrettanto esemplare. Lo trovo più efficace con la corruzione, Sepe lo ha allontanato subito».
Che ne pensa dello scandalo pedofilia che ha coinvolto la chiesa negli ultimi mesi? Pensa che il Pontefice stia facendo il possibile?
«Io distinguo il cardinale Ratzinger da papa Benedetto XVI. Riguardo al Belgio, la mia opinione è che gli investigatori si siano mossi come elefanti in una cristalleria. Ma ridicole sono anche le reazioni della Chiesa. Per quanto riguarda la pedofilia dobbiamo ricordare che Giovanni XXIII ha scritto un documento su come nascondere gli abusi sui minori, Giovanni Paolo II ha mantenuto questo approccio e Ratzinger ha aggiunto un allegato nel quale si descrivevano i pederasti non come delinquenti ma come peccatori e questo ha fatto si che aumentasse la “congiura del silenzio”. Non credo alla lettera che ha scritto Papa Benedetto XVI ai prelati d’Irlanda, sono solo intenti. Lo scandalo è scoppiato perché adesso la chiesa si deve confrontare con i nuovi mezzi di comunicazione di massa, con internet. Il Vaticano non poteva più far finta di niente. Quindi il pontefice ha dovuto condannare pedofilia e corruzione. Pensiamo al cardinale Sepe: era uno dei pilastri di Wojtyla ma appena son circolate le voci Ratzinger lo ha mandato a Napoli, un piccolo passo però rivoluzionario»
Nel suo libro scrive: «Nessuna religione al mondo ha mai dibattuto tanto l’intimità sessuale come il cattolicesimo e nessuna ha mai imposto tanto dettagliatamente i suoi codici di comportamento: ancora oggi tolleranza zero verso le copie di fatto, l’aborto, la fecondazione assistita, la contraccezione». Esiste una “doppia morale” nella Chiesa?
«Sicuramente c’è un’ipocrisia di fondo. C’è molto di Dottor Jekyll e Mister Hyde. C’è una morale che parte dalle mura di San Pietro e va verso la piazza, ai fedeli, e una e una che parte dalla basilica e va verso l’interno. La chiesa cattolica in che secolo vive? Me lo chiedo quando alcuni alti prelati paragonano l’omosessualità alla pedofilia o quando insistono nel vietare l’uso del preservativo, mentalità da XVIII o XVII secolo».
Ma questo atteggiamento della Chiesa cattolica è originato forse da una sorta di paura del sesso? «Se ci pensiamo bene la chiesa cattolica è l’unica organizzazione a livello mondiale a considerare il sesso come qualcosa di proibito, da effettuare solo a scopo della procreazione e dunque ritiene chi pratica il sesso solo per piacere un peccatore. Un altro elemento a mio avviso importante è il celibato; se c’è qualcosa che ho imparato scrivendo questo libro è che il vero cancro della chiesa è il celibato. Se ci fosse stato in passato un papa che lo avesse eliminato non si sarebbe arrivati oggi alla situazione di pedofilia che tanto deploriamo, basta confrontarsi con le altre religioni» I suoi precedenti libri sulla chiesa in passato hanno suscitato vibranti polemiche. Si aspetta attacchi anche per questo saggio?
«Scommetto tutto quello che posso che non ci sarà nessuna reazione su questo saggio, come è successo per “L’Entità» (la precedente inchiesta sui servizi segreti del Vaticano, uscita per Fazi lo scorso anno, ndr). Invece l’Opus Dei ha protestato per un mio romanzo, «Il labirinto sull’acqua», attaccandomi violentemente. Raccontavo che forse Pietro non era poi così fantastico mentre Giuda non era così malvagio... non ho mai venduto tanti libri, stavo per dire “grazie a dio”, ma dovrei dire “grazie all’Opus Dei”».

Repubblica 30.6.10
Preti pedofili perché il Papa difende Sodano?
di Vito Mancuso

Ieri il papa ha sottolineato che il pericolo più grande per la Chiesa viene dal fronte interno: "Il danno maggiore lo subisce da ciò che inquina la fede e la vita cristiana dei suoi membri e delle sue comunità". Ma allora perché, due giorni fa, ha pubblicamente umiliato il cardinale Christoph Schönborn, finora il più coraggioso degli uomini di Chiesa nel lottare contro il terribile inquinamento interno che è la pedofilia del clero? Io quasi non volevo crederci, non poteva essere vero che Benedetto XVI, dopo aver più volte affermato di voler fare tutto il possibile per stabilire la verità e perseguire la giustizia nello scandalo pedofilia, avesse costretto l´arcivescovo di Vienna a una specie di Canossa vaticana. Eppure era vero. Benedetto XVI aveva costretto il presule, nonché stimato teologo di orientamento conservatore a lui molto vicino, a una conciliazione forzata con il cardinal Sodano. La logica del potere romano è la forza che ancora domina la Chiesa cattolica.
Quello che però a mente fredda colpisce di più è il disinteresse mostrato dal papa per il merito delle accuse mosse pubblicamente da Schönborn il 28 aprile scorso contro il cardinale Angelo Sodano, Segretario di Stato sotto Giovanni Paolo II, accusandolo di aver insabbiato il caso Groer.
Hans Hermann Groer (1919-2003), monaco benedettino, arcivescovo di Vienna e cardinale, fu costretto a dimettersi nel 1995 per aver molestato un seminarista minorenne (in seguito a suo carico emersero molti altri casi). Immediato successore di Groer nella diocesi di Vienna, Schönborn quando accusava Sodano parlava di cose che conosce molto bene. Ma diceva la verità oppure mentiva? È vero o non è vero che Sodano da Roma ostacolò le indagini di Vienna? Il papa semplicemente non se ne è curato, non è entrato nel merito, alla verità ha preferito la forma ricordando che solo a lui è concesso accusare un cardinale. Così il comunicato ufficiale: "Nella Chiesa, quando si tratta di accuse contro un cardinale, la competenza spetta unicamente al papa". Ma se è così, allora il papa è tenuto ad andare fino in fondo verificando se le accuse di Schönborn a Sodano sono fondate o sono solo calunnie. Lo farà? Non lo farà, per il motivo che dirò alla fine di questo articolo.
Nella predica a conclusione dell´Anno sacerdotale a piazza San Pietro l´11 giugno Benedetto XVI aveva detto di "voler fare tutto il possibile affinché un tale abuso non possa succedere mai più". Alla luce del trattamento riservato a Schönborn queste parole appaiono molto sfuocate, mera retorica di stato. Di che cosa stiamo parlando, infatti? Stiamo parlando (occorre ricordarlo sempre!) di migliaia e migliaia di giovani vittime. Oltre all´Austria scandali sono emersi ovunque. Negli Stati Uniti finora sono stati pagati indennizzi per 1.269 miliardi di dollari, con il conseguente fallimento di non poche diocesi. In Irlanda nel 2009 sono usciti documenti come il Rapporto Murphy e il Rapporto Ryan, quest´ultimo sugli abusi del clero dagli anni ´30 agli anni ´70 (notare: anni ´30, altro che responsabilità della rivoluzione sessuale del postconcilio come scrive Benedetto XVI nella "Lettera ai cattolici irlandesi"): il risultato è che la Chiesa irlandese deve versare 2.100 milioni di euro di risarcimenti. Poi c´è la Germania del papa: abbazia benedettina di Ettal in Alta Baviera, coro di Ratisbona, dimissioni di mons. Mixa vescovo di Augusta per molestie sessuali su minori, collegio Canisius dei gesuiti a Berlino… C´è il Belgio con le dimissioni del vescovo di Bruges per i medesimi tristi motivi e le perquisizioni delle tombe nella cattedrale di Malines con le conseguenti deplorazioni pontificie. Ci sono Polonia, Svizzera, Olanda, Danimarca, Norvegia, Inghilterra, Australia… Don Ferdinando Di Noto, il prete da anni in prima linea contro la pedofilia, simbolo della rettitudine della gran parte dei preti, dichiarava il 18 febbraio scorso che in Italia i casi accertati sarebbero un´ottantina. Da allora, vista la frequenza delle notizie sui giornali, temo che la cifra sia aumentata non poco.
Di fronte a questi dati due cose sono sicure. Primo: se non fosse stato per la forza dei giornali e delle tv tutto sarebbe rimasto sconosciuto e insabbiato; se la Chiesa riuscirà un giorno a fare pulizia al proprio interno lo dovrà alla forza delle scomode verità fatte emergere dalla libera informazione. Secondo: fino a poco tempo fa la linea tenuta dal cardinal Sodano sul caso Groer era la prassi abituale, come appare anche dalla Epistula de delictis gravioribus inviata il 18 maggio 2001 dall´allora cardinal Ratzinger ai vescovi di tutto il mondo che imponeva il secretum Pontificium per tutte le gravi trasgressioni del clero (notare: il caso Groer risale a sei anni prima!). È proprio questa la peculiarità dello scandalo, non tanto la pedofilia di preti e vescovi, quanto l´insabbiamento da parte delle gerarchie, il fatto incredibile che i vertici ecclesiastici sapevano di questi crimini e, per non indebolire il potere politico della Chiesa, tacevano e insabbiavano. Per anni e anni. Per interi decenni è stata preferita l´onorabilità della struttura politica della Chiesa rispetto alla giustizia verso le vittime, e quindi verso Dio. Le dichiarazioni del cardinal Sodano che riduceva a "chiacchiericcio" le accuse erano esattamente in linea con questa politica dell´insabbiare, e l´umiliazione inferta dal papa al cardinale Schönborn per averlo criticato è una conferma che questa politica non è terminata. La subdola peculiarità di questo scandalo mondiale è purtroppo ancora in vita.
Salvare la Chiesa prima di tutto. Prima dei bambini e della loro vita psichica e affettiva. Prima dei genitori e del loro inestirpabile dolore. Prima del senso di giustizia di tutta una società. Prima della giustizia di cui rendere conto davanti a Dio. Prima di tutto, la Chiesa e la sua immagine, e il conseguente potere che ne deriva. Per questo l´ordine era (anzi è, perché altrimenti non si sarebbe salvata l´onorabilità del potente cardinal Sodano) coprire, insabbiare, dissimulare, mentire, negare, comprare. Tra l´ottantina di cardinali della Chiesa solo uno aveva avuto il coraggio e l´onestà di puntare il dito contro il vertice della nomenclatura. Il papa l´ha messo a tacere, l´ha fatto rientrare tra le fila, imponendogli una bella dichiarazione di facciata.
Ma com´è possibile che nella Chiesa tanti crimini siano stati occultati e che all´interesse delle vittime sia stato preferito quello dei loro aguzzini? La risposta a mio avviso consiste nella teologia elaborata lungo i secoli che ha condotto a una vera e propria idolatria della struttura politica della Chiesa, a una sorta di sequestro dell´intelligenza da parte della struttura per affermare se stessa sopra ogni cosa, il cui inizio si può emblematicamente collocare, come già intuito da Dante, nella stesura del falso documento conosciuto come "Donazione di Costantino" da parte della cancelleria papale (documento svelato come falso da Lorenzo Valla nel 1440). Questa teologia ecclesiastica ha condotto a fare dell´obbedienza alla Chiesa gerarchica il segno distintivo dell´essere cattolico: il cattolico è anzitutto colui che obbedisce al papa e ai vescovi. Se non obbedisci, non sei cattolico. Dante non lo sarebbe più, neppure san Paolo, che ebbe l´ardire di opporsi pubblicamente a Pietro, non potrebbe far parte di questa Chiesa cattolica. Al termine degli Esercizi spirituali così Ignazio di Loyola illustrava il rapporto con la verità che deve avere il cattolico: "Quello che io vedo bianco, lo credo nero se lo stabilisce la Chiesa gerarchica".
Da tempo immemorabile la bilancia è il simbolo della giustizia. Su un piatto della bilancia ci sono le vite di migliaia di bambini, ragazzi e giovani irrimediabilmente deturpate da uomini di Chiesa. Sull´altro, che cosa mette la Chiesa? Oggi è costretta a mettere i nomi dei colpevoli, e tantissimi soldi. Ma si ferma qui, e non basta. Essa infatti deve aggiungere se stessa, la struttura di potere che l´ha fatta precipitare in questo abisso. Solo a questa condizione i due piatti possono tornare in equilibrio e generare la vera giustizia, quella che Gesù diceva di cercare sopra ogni altra cosa.

Repubblica 30.6.10
Le ricerche di alcuni studiosi americani smontano l´idea che la distrazione abbia solo effetti negativi Anzi: dalla possibilità di divagare il nostro cervello ottiene spesso dei benefici, inventando e rilassandosi
Meno stress e più creatività le doti della mente vagabonda
I vantaggi avrebbero a che fare con l´evoluzione della nostra specie
di Federico Rampini

NEW YORK Non divagate. Concentratevi. Focalizzate le energie su un obiettivo alla volta. D´ora in avanti quando sentite le raccomandazioni di cui sopra, ignoratele. Nell´interesse vostro e dell´umanità intera. E se nel corso della lettura di questo articolo vi distraete varie volte per pensare ad altro, è un ottimo segno: di creatività, oltre che di salute mentale. Invenzioni scientifiche, capolavori artistici, utopie politiche, tutto questo lo dobbiamo alla nostra capacità di fuggire dalla realtà e sognare a occhi aperti. Lo dimostrano le ricerche compiute da tre gruppi di scienziati, dalla California al Canada. I risultati smontano implacabilmente un secolo di pregiudizi contro i distratti e i sognatori. "Sognare a occhi aperti", come minimo era sinonimo d´indisciplina mentale, scarsa efficienza, incapacità di concludere. Sigmund Freud era ancora più severo, per lui il sognatore diurno era affetto da personalità infantile, in certi casi da nevrosi. Il fenomeno è stato associato anche ai sintomi di psicosi, nei manuali di psichiatria. Una montagna di pregiudizi crolla di fronte alla più recente evidenza scientifica. Sognare a occhi aperti, divagare, lasciare che la propria mente si assenti da quello che stiamo facendo, ha delle funzioni importanti e positive. Anzitutto è una tecnica per sopravvivere, mantenendo l´equilibrio mentale in situazioni inutilmente stressanti. Lo sottolinea l´équipe di ricercatori della University of California-Santa Barbara (Ucsb) diretti da Jonathan Schooler e Jonathan Smallwood. "Quando siamo svegli - dice Smallwood - in media il 30% del tempo lo passiamo a pensare ad altro, la mente va a zonzo e trascura ciò che stiamo facendo. Le punte di distrazione possono raggiungere il 75% del tempo, per esempio se guidiamo su un´autostrada semivuota o siamo bloccati in un ingorgo stradale. Questo è benefico. Senza la capacità di astrarci dal presente la vita sarebbe orribile. La fuga dell´attenzione è una liberazione".
I vantaggi del sognare a occhi aperti hanno addirittura a che vedere con l´evoluzione della nostra specie, secondo un´altra ricerca diretta da Eric Klinger alla University of Minnesota. Nel suo Manuale sull´immaginazione e la simulazione mentale, Klinger spiega che la selezione evolutiva ci ha spinti verso un uso flessibile della nostra attenzione. "Mentre una persona è occupata da un singolo compito - dice lo scienziato - questa facoltà di pensare ad altro mantiene aperto un ventaglio di obiettivi più ampio, lascia intatta la possibilità di perseguire altri scopi". Gli accademici arrivano a giustificare la disattenzione dei loro allievi. Lo studente che durante la lezione si concentra sulla ragazza che gli sta di fronte, forse sta spostando il focus su una missione vitale: la ricerca di una compagna a scopi riproduttivi. Naturalmente ci sono episodi di distrazione solo distruttivi. In alcuni esperimenti, la lettura di Guerra e pace di Tolstoj viene interrotta e la mente va altrove, perché il lettore ha voglia di una sigaretta; oppure perché ha bevuto troppo alcol e questo abbassa la sua attenzione. Ma di per sé il fatto che la lettura di un romanzo sia intervallata da momenti in cui la mente "si assenta", non è negativo. Le cavie di un esperimento di lettura di Jane Austen dimostrano che in mezz´ora ci sono almeno tre episodi di distrazione consapevoli, più altri episodi inconsci di "sogni a occhi aperti".
Kalina Christoff della University of British Columbia sostiene che si alternano ai comandi il nostro "cervello esecutivo", disciplinato e mono-tematico, e una sorta di "cervello di scorta" più sciolto, disinibito, imprevedibile. Il primo tende a riportarci con tutta l´attenzione su ciò che stiamo facendo. Il secondo è il migliore alleato degli inventori, degli artisti, degli spiriti originali. "Per la creatività - dice Jonathan Schooler della Ucsb - è essenziale che la mente possa andare a zonzo, prendersi tanta libertà. Poi però bisogna essere pronti a capire quando è arrivata l´intuizione geniale, e concentrarsi su quella". Se Archimede fosse rimasto a trastullarsi nella sua vasca da bagno, il principio dei corpi immersi nei liquidi oggi non porterebbe il suo nome.

Repubblica 30.6.10
Anna Oliverio Ferraris: una grande risorsa anche in ambito scientifico
"Sognare ad occhi aperti aiuta l´intelligenza emotiva"
intervista di Luciana Sica

«Non solo i vagabondaggi della mente sono utili, ma direi preziosi perché raccolgono emozioni, sentimenti, affetti molto profondi. Un po´ somigliano alle associazioni libere, rimandano l´immagine di un flusso di sogni ad occhi aperti, seppure in uno stato di coscienza». Chi parla è Anna Oliverio Ferraris, ordinaria di Psicologia dello sviluppo alla "Sapienza" di Roma, psicoterapeuta con una sua particolare competenza in fatto di fantasticherie, soprattutto quelle dei bambini.
A cosa può essere utile una perdita provvisoria della realtà?
«A focalizzare problemi, far riemergere ricordi, immaginare il futuro. La mente procede per analogie, per metafore, mettendo in relazione realtà distanti tra loro: è una grande risorsa, alla base della creatività nello stesso ambito scientifico».
Gli psicologi americani fanno esempi più comuni: sarebbe "orribile" non fantasticare quando siamo in mezzo al traffico o costretti a una qualunque mansione noiosa...
«Senz´altro la capacità immaginativa è una risorsa per contenere le tensioni, l´ansia, l´aggressività, le frustrazioni legate alla vita quotidiana. Ma non solo. Uscire dalle solite categorie mentali, dalle regole logiche rigorose, vuol dire lasciare spazio alla nostra intelligenza emotiva».

Repubblica 30.6.10
Date una lingua alla politica
Quando il potere è una questione di parole
di Carlo Galli

Da Canfora a Mancuso, da Rodotà a Nadia Urbinati un ciclo di incontri per spiegare il valore del lessico
Il linguaggio delle istituzioni e dei cittadini non è chiacchiera vana ma il canale privilegiato dell´opinione pubblica

È un luogo comune – ma è anche pieno di verità – che la politica consista nell´agire, nei fatti. La politica ha a che fare con gli uomini, dal punto di vista dell´oggettività del potere, della saldezza delle istituzioni, della forza degli interessi. Ma al tempo stesso alla politica è essenziale la dimensione della parola, del pensiero, della rappresentazione, della narrazione: non sono mai esistiti poteri o interessi che non dovessero mediarsi e legittimarsi attraverso saperi; e che non corressero il rischio di confrontarsi con altri saperi, critici. La politica si dà nel potere e nella parola, nell´oggettività e nella soggettività, nel fare e nel dire. E quindi il linguaggio politico pesa, fa esso stesso ‘politica´. Il linguaggio del potere e dei contropoteri, delle istituzioni e dei cittadini, non è chiacchiera vana: è il modo d´essere di una politica che non può non passare attraverso gli uomini, attraverso la loro opinione pubblica. L´alternativa sarebbe una politica tanto perentoriamente oggettiva da passare sopra gli uomini, sulle loro teste; una politica indisponibile alla parola umana, come le leggi fisiche della natura. Un´alternativa illogica, poiché ciò che ha a che fare con gli uomini sarebbe estraneo agli uomini.
E quindi un´iniziativa – come quella che inizia il 1 luglio, a cura della Provincia di Roma, di "la Repubblica" e dell´Editore Laterza –, che mette a tema Le parole della politica, va nella direzione, assai opportuna, di dar vita a una riflessione sui grandi temi della politica, così come vengono detti e nominati nelle grandi parole del lessico politico corrente, in quelle parole che sono la trama del discorso pubblico. Ovviamente, nessuno pensa di dare, delle parole della politica, una definizione in qualche modo univoca, scientifica: in quelle parole si è depositata la storia di ieri, e vive la nostra passione (o apatia) politica di oggi. Quello che l´iniziativa si propone è semmai di offrire elementi di chiarezza, perché le parole della politica siano dette con libertà, ma anche con una qualche consapevolezza.
A partire, naturalmente, dalla coppia oppositiva ‘politica-antipolitica´. Il cui secondo termine è cambiato di significato, e da ‘opposizione alla buona politica´ (qual era il suo valore originario) oggi si usa nel senso di ‘contrarietà alla politica´, estraneità, indifferenza alla politica, fuga dalla politica in generale; una sorta di qualunquismo, in cui i singoli si chiudono, politicamente disperati. Oppure un´ideologica pretesa che la politica sia inutile, una truffaldina complicazione di questioni semplici, che – se non esistessero quei parassiti che sono i politici – potrebbero benissimo essere risolte col buon senso pratico, con la competenza tecnica, oppure con l´armonia automatica del mercato.
Questa accezione del termine, in realtà, fa torto sia alle soggettive intenzioni di quasi tutti coloro che – per reazione alla declinante condizione della politica, oggi – si definiscono (o, più spesso, vengono definiti) ‘antipolitici´, sia alla storia e alla stessa logica: non è mai esistita una teorizzazione dell´estraneità alla politica (dall´otium degli antichi, all´Anarca di Jünger) che non avesse un implicito significato politico, di protesta contro una politica tanto cattiva da costringere il soggetto alla secessione per mettere in salvo la propria libertà. Anche l´antipolitica è essa stessa politica, è catturata dalla politica, fuori della quale c´è solo il dio o la bestia.
Ed è politica precisamente in quanto è ‘contrarietà alla cattiva politica´; in quanto cioè mette in evidenza l´interno elemento di crisi, di incompiutezza, di inadeguatezza, di impossibilità, che appartiene a ogni sforzo di costruire un ordine politico, di dare forma politica stabile alla complessità e alla molteplicità della vita associata. In realtà, insomma, è proprio l´antipolitica a custodire (almeno implicitamente) un progetto politico, e a definire ‘antipolitica´ quella che è oggi la politica ufficiale. Nell´antipolitica vengono insomma alla luce – che gli ‘antipolitici´ lo vogliano, o no – gli elementi essenziali della politica: la polemicità (il conflitto), la questione dell´ordine, l´esigenza del pubblico consenso. Ovvero il rapporto amico/nemico, il nesso comando/obbedienza, la relazione privato/pubblico. Appunto, lo stare insieme di realtà e di norma, di fatti e parole, di azioni e pensieri.
La politica non ha un´essenza in senso proprio, e infatti è stata definita in ogni modo possibile: arte regia e follia, demone e destino, energia del conflitto esistenziale e assalto al cielo, sfida lanciata all´insensatezza dell´umane sorti e Spirito oggettivo, nobile arte e lucida scienza (per tacere di altre e più espressive definizioni, come quella, a suo tempo celebre, proposta dall´allora ministro Rino Formica). In realtà la politica è indefinibile perché, nonostante la sua oggettività, non è un oggetto: è un orizzonte, una qualità intrinseca al nostro esistere associati. Si è nella politica, ma non si stringe mai la politica in modo definitivo, perché si dà storicamente e spazialmente, non naturalmente. Perché è una risposta – sempre mutevole – alle domande che necessariamente sorgono dalla vita collettiva: qual è l´origine del potere fra gli uomini e quali sono le ragioni dell´obbedienza e della rivolta; quali sono le istituzioni in cui il potere si manifesta; quali sono i soggetti che hanno parte (e quale?) al potere; quali sono i discorsi (e chi li fa) con cui il potere viene legittimato e criticato, e in quale rapporto stanno con altri discorsi che investono anch´essi radicalmente la dimensione umana, come l´etica, la religione, il diritto.
Che molte delle risposte moderne date a queste domande non siano più fungibili, che grande parte del personale politico sia inadeguato, che il discorso pubblico balbetti, che cinismo e apatia dilaghino, che lo spirito civico e pubblico sia quasi assente, è appunto la crisi della politica. Ma da questa crisi si esce con un´antipolitica positiva e non rassegnata – cioè con la critica e con l´assunzione di responsabilità – nel segno dell´impegno e non della rinuncia. Come si potrebbe, del resto, rinunciare a rispondere a quelle domande? Se non rispondiamo noi, qualcun altro risponderà al nostro posto, presumibilmente contro di noi. La politica è una domanda ineludibile, è un appello che è un destino. E la risposta – parziale e incompleta come tutte le cose umane – dovrà essere data. Da tutti. L´arte della politica del resto, secondo Platone, appartiene a tutti gli uomini per decisione divina. Nel bene e nel male, fa parte della nostra umanità; è un dovere verso noi stessi.

Repubblica 30.6.10
Lo studioso parla del filosofo tedesco a un master in Economia e Politica
La lezione di Cacciari "Marx va riletto"
"A parlarci oggi non è il profeta politico ma l´attento analista del capitalismo"
di Simonetta Fiori

Marx è stato dato per morto più volte, però non si riesce a seppellirlo. La letteratura su di lui conosce una felice rinascita, tra saggi, riedizione di testi, nuove biografie come quella di Nicolao Merker. A riproporlo oggi – al Teatro Parenti di Milano, per la presentazione di un master in Economia e Politica dell´Università San Raffaele – è Massimo Cacciari, frequentatore delle sue opere sin dai tempi lontani dell´operaismo. «Il Marx capace ancora di parlarci non è né il profeta politico né l´intellettuale ideologico. È invece l´analista del destino del capitalismo, inteso come un formidabile sistema sociale e culturale che produce una spinta smisurata verso la creazione di nuovi bisogni».
Nel suggerire questa definizione, Cacciari spiega due cose distinte. Intanto la ragione della scelta di Marx, economista e filosofo della storia, per presentare un nuovo master di economia che per la prima volta in Italia è aperto solo ai laureati delle facoltà umanistiche (diretto da Angelo Panebianco, vi partecipano anche Michele Salvati e Alberto Martinelli). In secondo luogo, nel "vero Marx" scelto da Cacciari è sottintesa una polemica con un´interpretazione dell´economia come "scienza della natura", idea invalsa soprattutto dopo l´implosione dei regimi del "socialismo realizzato" che dicevano di ispirarsi al marxismo. «Il busto di Marx è finito ingiustamente in soffitta e si è affermato un modello dell´economia come scienza della natura, come se la critica marxiana non fosse mai esistita. Chi non comprende la natura sociale del capitalismo, e dunque riduce l´economia a ratio ragionieristica, va incontro a esiti fallimentari». Si crede illusoriamente che la crisi finanziaria sia una patologia del capitalismo, mentre essa appartiene alla sua fisiologia. «Il ciclo economico capitalistico coinvolge soggetti sociali sempre diversi – il soggetto che dispone dei mezzi finanziari, quello che lavora con le macchine, il consumatore – ed è quindi impossibile prevederne un´armonizzazione. Questo fa sì che la crisi sia immanente in ogni momento del ciclo: è sempre aperta».
Il Marx che Cacciari recupera non è tanto quello del Capitale ma l´autore de I lineamenti fondamentali della critica dell´economia politica, «là dove egli vede il meccanismo della valorizzazione del valore, ossia la creazione del profitto, non tanto nel pluslavoro ma nella potenza del cervello sociale, nella scienza e nella tecnica, ossia nella capacità dell´organizzazione capitalistica di creare ininterrottamente nuovi bisogni». Ma cosa avrebbe detto Marx agli operai di Pomigliano? La risposta di Cacciari appare molto lontana dai tempi della rivista Classe operaia. «Oggi avrebbe invocato disincanto e realismo, come nel discorso pronunciato nel 1871 agli operai di Parigi. Bisogna saper accettare la sconfitta e con intelligenza condurre la ritirata, in modo da non trasformarla in una rotta. Non mi sembra però che siano in tanti ad ascoltarne la lezione».

l’Unità 30.6.10
Dario Fo «Correggio? Figlio di un vu cumprà»
Arte & teatro Benedettini che odorano di eresia, un po’ di eliocentrismo e persino un’ammucchiata: il ‘500 e il grande pittore nelle parole del Nobel
intervista di Toni Jop

Ma lo sai che il nostro Correggio era figlio di un ‘vu comprà?», no, e magari era iscritto al Pci? «Beato lo spirito dell’ignoranza, sei al centro dei nostri tempi». Un momento! Ci hai raccontato storie di luoghi e artisti di serie A, adesso pubblichi un libro e allestisci uno spettacolo dedicato al Correggio, ammetterai che, almeno nella graduatoria del sapere popolare, stiamo affrontando un piano dell’arte che sta ben sotto il suo altezzoso roof garden? «Ecco, questa mia povera parola illuminerà le coscienze offuscate come la tua: perché Correggio è un gigante e per vari motivi, Correggio è un precursore, Correggio è ‘moderno’ come pochissimi. Infine... altrettanto pochi artisti sono stati dimenticati a lungo com’è accaduto a lui che non lo meritava...». Vada per Correggio, professor Dario Fo, ci piacerebbe una bella parabola epica per il nostro eroe, la storia del babbo vu cumprà promette bene, poi?
«A Bologna esisteva una scuola che si chiamava “scuola degli studi poveri”. Era una università, una di quelle che il ministro Gelmini brucerebbe, permetteva di studiare ai figli delle persone che non avevano denaro, i poveri insomma. Antonio Allegri, e cioè il Correggio, la frequentò. Era curiosissimo, assetato di conoscenza, studiava con grande serietà...».
Come in genere i figli dei ‘vu comprà’... «Esatto. Il padre era un ambulante, ma conviene ricordare brevemente in quale contesto si cala la sua avventura intellettuale e artistica. Per esempio: una quarantina d’anni prima della sua nascita accade un fatto decisi-
vo per la qualità della circolazione delle idee nell’alta Italia: la morte dell’ultimo Visconti». Lo vedi? I potenti sono molto importanti quando muoiono...
«Buono. A quel punto, nel vuoto di potere che si apre, i milanesi buttano a pedate tutti i tirapiedi del duca, è la rivoluzione lombarda. Parma diventa repubblica, Modena diventa repubblica. Il ribaltone dura due anni ma in quei due anni succede un’iraddiddio. Dalla Germania è scesa la stampa che passa da Venezia e dilaga più sotto, la circolazione del pensiero è vorticoso, si edifica, nasce il teatro guarda caso
in Lombardia e nel Veneto, non a Roma o a Firenze come verrebbe da credere. E dove il pensiero spettina l’immobilità delle forme cristallizzate, origina la crisi, fonte di ogni bellezza. Persino nella Chiesa accadono cose non conformi, per esempio in casa dei benedettini, ordine che ha avuto un ruolo primario nella fondazione dell’Italia comunale e che, dopo una lunga sonnolenza, tornano ad affacciarsi alla ribalta spinti da un antidogmatismo pericolosamente in odor di eresia ma che è figlio del sapere, della conoscenza, dello studio che prediligono come percorso di vita. E saranno proprio i benedettini gli sponsor del Correggio, loro gli faranno da culla dopo averlo adottato per la qualità della sua conoscenza e per la vitalità del suo sapere».
Loro gli fanno da culla, ma parecchi artisti a lui contemporanei gli faranno ombra, non è così? «A noi così sembra, ma è solo apparenza. Perché se è vero che attorno al Correggio operano Leonardo, Tiziano, Michelangelo, Giorgione e Raffaello ed è una compagnia che farebbe tremare le vene dei polsi a chiunque, Correggio era stimato dai suoi contemporanei come uno dei maggiori artisti esistenti al mondo. Sul mercato valeva moltissimo, i suoi dipinti costavano cifre altissime e lo pagavano anche in maiali, staglie di grano, case e terreni...».
E in dischi di Little Tony...
«Pochi, non aveva il giradischi. Però pensa che lo hanno accusato di aver copiato da Michelangelo e ancora oggi c’è qualcuno che lo sostiene ma: il Correggio dipinge lo sterminato affresco della cupola del Duomo di Parma 340 metri quadri dieci anni prima della Cappella Sistina, il Giudizio Universale è di diaciassette anni dopo. È vero che era una spugna, assorbiva, rielaborava, digeriva e produceva. Tra l’altro con una velocità pazzesca: è campato 45-46 anni e ha fatto a tempo a sfornare centinaia di opere su vari supporti...».
Torniamo ai dischi, e cioè alla riproduzione: era venuto il suo tempo, non è «Con l’avvento della stampa, inizia la serialità; si facevano incisioni a valanga, ogni pittore realizzava da sé le copie di tutti i quadri e di tutti gli affreschi. La serialità infrange il mito della irriproducibilità dell’opera d’arte, sposta l’asse di rotazione del pensiero, così come faceva il movimento di ricerca che lavorava all’ipotesi dell’eliocentrismo, altro bello scossone di quei tempi. E il fulcro di questa bella eresia è in Lombardia e gira attorno a Parma, Padova, Bologna...». Ma era una “tarma”: gli altri giravano il mondo mentre lui se ne stava chiuso nel suo quadrilatero padano (ops!)... «E dove doveva andare? Era al centro dell’area ciclonica del sapere: per descriverlo, basta tracciare una circonferenza neppure tanto estesa con la punta del compasso a Bologna. Ecco anche, forse, perché non è mai andato a Roma, semmai altri da Roma sono venuti da lui per copiare, studiare quello che stava facendo».
E ne combinava di tutti i colori: le sue donne, nei lavori non commissionati da ecclesiastici, sono spinte da una intensità fortemente erotica...
«Ti vedo timido. Correggio per certi versi può essere inteso come l’inventore della pittura sex porno, sviluppa il percorso della sensualità. Aveva incontrato, andandoci a sbattere contro, una ragazzina meravigliosa, Girolama molto più giovane di lui. Se ne innamorò e lei di lui, il suo volto e il suo corpo sono riprodotti decine di volte nei suoi quadri, ecco perché quell’intensità...».
Benedettini o no, ha avuto la sue rogne col potere... «Ovvio: a un certo punto, mentre affrescava la cupola del Duomo facendo vorticare in orbita circolare tutto quello che gli andava attorno a Cristo, era venuto in mente a qualcuno che così non andava, che bisogna distruggere quel tormentone irriverente. Sembra che sia intervenuto in sua difesa Tiziano che avrebbe detto: dovreste invece riempire d’oro il cupolone per ripagare Correggio del suo magnifico lavoro. Muore giovane dopo essere vissuto in una ammucchiata fantastica di una trentina di persone, figli compresi. Un coccolone. Fine».
Porterai questa bella storia in tv?
Non interessa alla tv. La venderò in edicola. Chi vorrà, l’ascolterà in piazza. Vado.

l’Unità 30.6.10
I libri dei migranti
di Igiaba Scego

Il 29 mattina la lettura dei giornali mi ha regalato una sorpresa. Sul Messaggero Walter Pedullà ha dedicato un bell’arti-
colo alla letteratura italiana che ha radici altrove. Dovete sapere che la letteratura scritta dai migranti e dai figli di migranti in Italia è stata sempre poco considerata, se non addirittura snobbata proprio da quella accademia che doveva darle manforte. Gli unici ad occuparsene sono stati dipartimenti di confine come la letteratura comparata, la pedagogia interculturale e gli studi di genere con una forte propensione ai post-colonial studies. I dipartimenti di italianistica invece hanno sempre tenuto una certa distanza. I testi dei migranti e dei figli dei migranti venivano considerati fenomeni circensi, un po’ come l’elefante che si tiene in equilibrio con una zampa sola. Ho sentito accademici dire “ma questa non è vera letteratura e poi non è italiana”. Questo mi ha sempre lasciato perplessa. In che lingua è scritta, di grazia? In ostrogoto? Ormai testi di migranti e di figli di migranti circolano, vengono letti, fanno mercato, fanno tendenza. Siamo passati dal bel Io venditore di elefanti di Pap Khouma, uscito 20 anni fa, agli exploit di Amara Lakhous, Anilda Brahimi, Randha Ghazi e Nicolai Lilin. Walter Pedullà è in buona compagnia in questa riscoperta, per fortuna. A Palermo Domenica Perrone, Natale Tedesco e l’intera equipe di Specchio di carta, laboratorio del romanzo contemporaneo (http://lospecchiodicarta.unipa.it/) hanno dedicato l’anno al mio romanzo. Era la prima volta di un libro scritto da una figlia di migrante. «Era per dare un segno», ha detto Perrone, «questi testi sono in tutto e per tutto letteratura italiana». Sostenere questo è segno di aver preso coscienza che l’Italia è di fatto plurale. Almeno ora si potrà dire in letteratura che l’Italia non respinge più. Per il resto purtroppo non si può dire altrettanto.

il Fatto 30.6.10
Ignoranti, altro che maturi
Secondo uno studio dell’Invalsi i temi dei ragazzi sono in media da bocciare
di Caterina Perniconi

Meritocrazia è la parola di cui il ministro Mariastella Gelmini si riempie di più la bocca. Ma alla prova del nove, gli studenti più bravi non sono così bravi come sembra dai loro voti. Il rapporto sull’andamento del tema d’italiano all’esame di Stato dell’anno scolastico 2008/09, elaborato dall’ “Invalsi” – I’stituto nazionale per la valutazione del sistema educativo – in collaborazione con l’Accademia della Crusca e anticipato dal Fatto Quotidiano, dimostra come i temi della maturità siano di un livello molto più basso rispetto alle valutazioni date dagli insegnanti, tentati dal non abbassare i livelli curriculari degli studenti. In una scuola falcidiata dai tagli, i professori non hanno più gli strumenti e le ore necessarie per portare i ragazzi ad un livello d’apprendimento alto. E secondo l’ordinario di pedagogia sperimentale dell’Università di Roma tre, Benedetto Vertecchi, “le società autoritarie basano il loro consenso sul basso livello di conoscenza della lingua”. L’allarme dunque è suonato.
Il risultato complessivo della correzione dei 545 elaborati relativi alla prova di italiano, che sarà pubblicato oggi sul sito dell’Invalsi, mette in luce la scarsa padronanza dell’uso scritto della lingua dei ragazzi al termine della scuola superiore, dopo 13 anni di istruzione. La rilevazione ha esaminato quattro competenze: testuale, grammaticale, lessicale-semantica e ideativa. E in tutte e quattro è stato registrato un voto medio complessivo inferiore alla sufficienza. Il caso relativamente meno grave riguarda la competenza grammaticale, nella quale “solo” il 54 per cento degli elaborati riceve un voto insufficiente. Il caso più preoccupante è quello della competenza lessicale-semantica che, nel 63 per cento degli elaborati, è giudicata al di sotto del livello di sufficienza. Una quota importante dei compiti (tra il 20 e il 30 per cento) riceve un voto appena accettabile, mentre la quota delle eccellenze è estremamente ridotta tra il 2,8 e il 5 per cento. E la differenza non è particolarmente sensibile nemmeno rispetto al tipo di istituto frequentato.
Il voto medio dei ragazzi provenienti dai licei è appena sufficiente, con una variabilità paragonabile a quella che si registra per tutte le scuole, e la quota dei temi eccellenti è piuttosto esigua. Solo nella competenza ideativa si raggiunge il 10 per cento. Nelle altre si registrano valori tra il 5,2 e il 6,7 per cento. Negli istituti tecnici la percentuale di elaborati giudicati insufficienti varia da un minimo di 67,9 per cento nella competenza grammaticale ad un massimo del 75,5 per cento in quella lessicale-semantica. In nessuno dei quattro ambiti sono presenti temi considerati eccellenti. Nel giudizio dei correttori quindi, la gran parte degli allievi degli istituti tecnici, che pure sotto altri profili si dimostrano buone scuole, non raggiunge un livello sufficiente di padronanza della lingua.
Ancora più preoccupante è la situazione dei ragazzi che frequentano gli istituti professionali: più dell’80 per cento dei loro compiti sono considerati insufficienti dai correttori in tutte e quattro le competenze. E paragonando i voti con quelli delle commissioni, il divario è ampio. “La valutazione delle prime prove, fatta sempre da docenti che hanno fatto parte delle commissioni della maturità, conferma e aggrava il fenomeno della scarsa conoscenza della lingua italiana da parte dei maturandi – spiega Vertecchi – e come competenza linguistica deve essere considerata la sintesi di interazioni complesse, che si stabiliscono nell’insieme delle esperienze di bambini e ragazzi. Al momento, sul livello di tali interazioni incide in misura determinante il linguaggio dei mezzi di comunicazione sociale, a partire dalla televisione”.
Per il professore ed esperto internazionale “la scuola italiana non appare in grado di contrastare la prevalenza di modelli che il più delle volte si caratterizzano per l’uso di un lessico limitato, di una grammatica povera, di una sintassi sommaria”. E il rischio di una deriva c’è: “Le società autoritarie basano il loro consenso sul basso livello di conoscenza della lingua, e qualcuno dovrebbe porsi il problema, visto che la scuola non è in grado di recuperare rispetto ai messaggi di bassa lega dei mezzi di comunicazione di massa”.