martedì 6 luglio 2010

l’Unità 6.7.10
Intervista a Laura Boldrini
«Dal Darfur alla Somalia. Le crisi umanitarie non fanno notizia»
La portavoce dell’Agenzia Onu per i rifugiati: «Si parla di questi drammi solo quando c’è polemica politica, stampa italiana poco attenta al mondo»
di U. D. G.

L’amara verità è che, sempre più spesso, si parla di situazioni umanitarie solo quando si arriva alla polemica politica. Se manca questa, di per sé la questione umanitaria perde di importanza, tende a scomparire. E’ come se ci fosse bisogno della diatriba politica per accendere i riflettori su vicende che invece meriterebbero indipendentemente attenzione e approfondimento». A sostenerlo è Laura Boldrini, portavoce in Italia dell’Unhcr, l’Agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati. «I media italiani rimarca la portavoce dell’Unhcr hanno accolto e alimentato una equazione spesso veicolata dalla politica, cioè immigrazione = minaccia alla sicurezza...».
Gli appelli disperati lanciati dai 245 eritrei dal lager libico, non sembrano incrinare il Muro dell’indifferenza di molti, la stragrande maggioranza, dei media italiani. Perché?
«Fare uscire delle notizie legate a crisi umanitarie come questa, è una specie di percorso ad ostacoli. La prima prova consiste nel convincere il giornalista che si occupa di questi argomenti e coinvolgerlo al punto che sia poi lui a farsi carico e a far passare il pezzo con il responsabile del servizio. Negli ultimi tempi, poi, è sempre più diffusa la richiesta di avere una esclusiva o una anticipazione, il che finisce per bruciare la notizia con gli altri organi di stampa. Quello che emerge chiaramente è che la stampa italiana è più concentrata sulle questioni interne e sembra trascurare quello che accade nel resto del mondo con delle gravi conseguenze sull’opinione pubblica...». Di nuovo: perché?
«Perché se gli italiani avessero maggiori informazioni sui Paesi di origine dei rifugiati che cercano protezione in Italia, avrebbero maggiore predisposizione e comprensione nei loro confronti...».
Invece?
«Invece della Somalia, dell’Eritrea, del Darfur e di tante altre situazioni, si dice e si scrive troppo poco , addirittura niente per mesi. La triste verità è che sempre più spesso si parla di situazioni umanitarie solo quando si arriva alla polemica politica. Se manca questa, di per sé la questione umanitaria perde di importanza, tende a scomparire, non fa notizia...È come se ci fosse bisogno della diatriba politica per accendere i riflettori su situazioni che invece meriterebbero indipendentemente attenzione e approfondimento. Questa attitudine mediatica può causare un isolamento culturale dell’Italia nel contesto internazionale. Ci sono quotidiani, come Le Monde, che per tradizione hanno l’apertura sulle notizie internazionale, e lo stesso discorso vale per lo spagnolo El Pais o il britannico Guardian. Mi farebbe piacere che anche in Italia si andasse in questa meritoria direzione, offrendo agli italiani una fotografia più allargata, tale da consentire una lettura più ampia dei fatti. E poi c’è un altro aspetto da sottolineare...«.
Qual è questo aspetto?
«Per alcune notizie che anche riguardano il nostro Paese, i media italiani ne parlano solo dopo che queste notizie sono uscite sui giornali stranieri. Voglio aggiungere che in questi anni, per quanto riguarda le questioni migratorie, i media hanno accolto e alimentato una equazione spesso veicolata dalla politica, cioè immigrazione= minaccia alla sicurezza, senza passare attraverso una analisi del cambiamento della società italiana e degli aspetti, soprattutto positivi, di questo fenomeno».
Può fare un esempio in merito?
«Riportare la diminuzione degli sbarchi nel 2009 e la riduzione delle domande di asilo semplicemente come un dato, senza chiedersi che cosa questo implichi in termini di fruibilità del diritto di asilo». È solo questione di sottovalutazione, di provincialismo, o c’è anche la perdita del «diritto all’indignazione»?
«Raccontare le storie altrui, significa farsene carico. Io ho voluto scrivere un libro, “Tutti indietro”, per raccontare anche storie di immigrazione, dando voce a chi arriva. Ad uscirne fuori, è l’altra faccia della medaglia: quella sconosciuta all’opinione pubblica».

il Fatto 6.7.10
Ragion di Stato
Silenzio romano alle urla dal deserto
di Giampiero Gramaglia

Gli sos via sms dal deserto di Libia non fanno suonare le sirene d’allarme né a Palazzo Chigi né alla Farnesina. L’Italia della gente di buona volontà, l’Italia delle organizzazioni non governative rilancia le richieste d’aiuto disperate che arrivano dal centro di detenzione di Braq, vicino a Sebah, nel mezzo del Sahara, dove attualmente la temperature raggiungono i 50 gradi: lì, nudi da giorni, molti coperti del proprio sangue, pestati, feriti, 245 rifugiati eritrei, fra cui 18 donne e bambini, rischiano la vita, in condizioni di detenzione durissime, dopo essere stati trasferiti per punizione dal campo di Misurata. La vicenda è stata segnalata e seguita, in questi giorni, con particolare attenzione dell’Unità. Le voci da Braq sono frammentarie, ma tutte danno un quadro allucinante di maltrattamenti e precarietà: alcuni detenuti per la disperazione avrebbero tentato il suicidio bevendo acido.
Il Cir, il Consiglio italiano dei rifugiati, e altre sigle si fanno megafono dei disperati appelli all’intervento internazionale dei rifugiati eritrei, in particolare “dopo i maltrattamenti subiti negli ultimi giorni”. Ma dai palazzi del Potere, fedeli alla consegna dell’amicizia con il regime del dittatore libico Muhammar Gheddafi e rispettosi del principio di non ingerenza, non vengono echi. Intendiamoci, in casi come questi la discrezione può essere la scelta giusta: proprio il Cir dichiara di “avere motivo di pensare che il governo italiano si stia muovendo”, dopo una telefonata del ministro degli Esteri Franco Frattini al presidente del Cir Savino Pezzotta. E alla Farnesina non si esclude una presa di posizione europea.
Ma non c’è tempo da perdere. Amnesty International denuncia i pericoli cui i rifugiati eritrei andrebbero incontro se fossero ‘deportati’ in patria: “la tortura, la punizione riservata ai colpevoli di ‘tradimento’ e ‘diserzione’” e la vita. Per loro, la cosa più sicura sarebbe il trasferimento in Italia e un’accoglienza nel nostro Paese. Ma siamo ben lontani da una prospettiva del genere: da quando la Libia ha chiuso l’ufficio dell’Onu per i rifugiati a Tripoli, le prospettive di quanti vogliono fuggire a regimi repressivi o semplicemente alla povertà sono peggiorate.
Nell’immediato, le organizzazioni umanitarie chiedono di potere rendere visita al centro di Braq e di potere prestare cure di emergenza agli eritrei feriti e a quanti hanno contratto malattie infettive. Poi c’è la preoccupazione di evitare che siano rimpatriati, nel rispetto del principio internazionale del ‘non respingimento’ verso Paesi a rischio tortura e di maltrattamenti. Un’annunciata visita dell’ambasciata di Eritrea a Tripoli nel centro di Braq è considerata una minaccia di deportazione, o di rappresaglia contro le famiglie dei rifugiati rimaste in Eritrea: dei contatti diplomatici in corso danno notizia fonti dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni a Tripoli. Dal Parlamento, vengono richieste di spiegazioni al ministro Frattini e al ministro dell’interno Alberto Maroni, che, più della situazione in Libia, s’interessa del rischio d’immigrazione via Malpensa: “È la nuova Lampedusa”, dice, in base a uno studio secondo cui con 15mila euro si compra un passaggio aereo da un Paese extracomunitario a un grande scalo Ue – una cifra da capogiro, per i disperati delle carrette del mare’.
“Dobbiamo risolvere il dramma degli eritrei in Libia e dobbiamo anche evitare che casi del genere si ripetano”, afferma il senatore Pd Roberto Di GiovanPaolo. Sotto accusa è l’accordo con la libia, fiore all’occhiello del Governo Berlusconi, perché riduce il flusso dei clandestini, a detrimento, però, dei principi umanitari. “L’intesa con Tripoli non funziona –denuncia Di Giovan-Paolo-: quando venne firmata, perché non si parlò anche di diritti umani?”.
La fase più tragica dell’odissea dei 245 rifugiati eritrei cominciò il 30 giugno: dopo un tentativo di fuga la sera prima, un centinaio di soldati e poliziotti libici, pesantemente armati, fecero irruzione nel centro di detenzione di Misurata. Dopo un pestaggio seguito dal ricovero di 14 detenuti, tutti i malcapitati furono caricati su due container e trasferiti con un viaggio blindato di 12 ore a Sabha. Lì, le condizioni di detenzione sono drammatiche: sovraffollamento, acqua e cibo insufficienti, servizi igienici inadeguati.

il Fatto 6.7.10
Il denaro non ha odore e l’Italia fa affari con il dittatore sudanese
La Camera pronta a ratificare accordi commerciali
di Marco Palomba

Un dittatore tira l’altro, si sa. In principio fu Muhammar Gheddafi, poi il bielorusso Alexander Lukashenko (senza dimenticare il “democratico” Putin), e adesso tocca a Omar al-Bashir, presidente del Sudan in cui vige la sharia, la legge islamica, di vedersi omaggiare con un inaspettato riconoscimento politico dal governo di Silvio Berlusconi. La Camera s’appresta infatti questa settimana a ratificare un accordo commerciale tra Roma e Khartoum, frutto del “Memorandum of Understanding” firmato nel paese africano nel 2005, quando a palazzo Chigi c’era sempre il Cavaliere. Il fatto è che nel frattempo (a marzo del 2009) la Corte penale internazionale ha chiesto l’arresto di al-Bashir – e di qualche altro membro del suo gabinetto - per crimini di guerra e contro l’umanità per le stragi di civili ordinate in Darfur: tra i 180 e i 300mila morti a seconda delle stime, cui vanno aggiunti oltre due milioni e mezzo di sfollati. L’intesa però va ratificata - spiega il governo alle Camere - perché il Sudan “registra ormai da anni una costante crescita economica, il cui tasso è tra i più elevati nell’intero continente africano”. Insomma, pecunia non olet. E gli affari possibili sono parecchi: “La ricostruzione delle aree maggiormente colpite dal conflitto (Stati del Sud e zone centrali), cui è interessato ogni settore del sistema produttivo ed infrastrutturale”, poi “le opportunità derivanti dal fatto che il Sudan presenta zone ricche di risorse naturali”, senza contare la “rilevante produzione petrolifera nelle aree centrali e meridionali”. La Aps Engineering Roma, per esempio, s’è già presa un bell’appalto per una raffineria a Port Sudan, poi c’è la Cmc che costruisce un hotel a Khartoum (80 milioni), Enel Power che lavora alla stazione di pompaggio di Kash el-Girba, Siemens Italia che fornisce sottostazioni elettriche, Euromed e Mefit nel settore delle costruzioni, la Cec International che rifà il manto stradale a Juba per 67 milioni di dollari e altre ancora.
Ancora poca roba, se paragonata a Cina (il primo partner del Sudan), Giappone o Egitto, ma comunque un bel po’ di soldi. Solo che il governo sudanese continua a essere una dittatura criminale e il Paese è ben lontano da quello immaginato dopo l’Accordo di pace del gennaio 2005. Non è un caso che nell’intesa si sprechino le specificazioni sul diritto all’indennizzo di persone o società in caso di “guerra”, “altre forme di conflitto armato”, “rivoluzione”, “rivolta”, “insurrezione o disordini”, come pure in caso di “nazionalizzazioni”, “requisizioni” e “espropriazioni”. Una guerra, peraltro è “un’eventualità non remota”, ha chiarito il relatore del ddl di ratifica, il deputato Renato Farina, già esperto di politica internazionale per Niccolò Pollari. L’anno prossimo, infatti, secondo l’accordo di pace le ricche regioni meridionali voteranno un referendum che potrebbe sancirne il distacco dal resto del Paese, ma al-Bashir e i suoi non hanno alcuna intenzione di farsi sottrarre il loro bancomat. Intanto i tribunali speciali condannano “i terroristi” a morte a pieno ritmo (oltre 60, nel 2009), mentre in Darfur – sostiene il rapporto 2010 di Amnesty International – le violenze si sono intensificate e continuano gli stupri etnici perpetrati dalle milizie controllate dal governo. Una piccola nota di colore: a dieci anni dalla ratifica della Corte penale internazionale, l’Italia non ha ancora adeguato la sua legislazione interna. Tradotto: Roma è una delle poche capitali al mondo in cui al-Bashir potrebbe venire in visita senza essere arrestato.

il Fatto 6.7.10
“Più potere ai referendum tra i lavoratori”
Il segretario della Fiom Maurizio Landini spiega la proposta di legge sulla rappresentanza e l’effetto Pomigliano
di Salvatore Cannavò

Maurizio Landini è segretario della Fiom da solo un mese ma in questo mese è diventato un personaggio in grado di "bucare il video". Per via della vertenza Pomigliano, certo, ma anche per il suo atteggiamento sereno, per la faccia da bravo ragazzo, per la determinazione con cui finora ha tenuto testa alla Fiat. Solidarizza con la mobilitazione "anti-bavaglio" ma soprattutto si batte contro il bavaglio ai lavoratori. E probabilmente ha riempito un vuoto di rappresentanza che la sinistra non sa colmare. Anche l'iniziativa promossa ieri a Montecitorio, per celebrare la raccolta di firme sulla legge di iniziativa popolare che propone una diversa rappresentanza sindacale e un diverso potere decisionale dei lavoratori, mostra questo vuoto.
Perché avete promosso questa legge popolare e cosa dice il testo che ieri avete presentato al presidente Fini?
La proposta nasce dal fatto che negli ultimi dieci anni ci sono stati tre accordi separati sul Contratto nazionale e uno sul modello contrattuale che ha visto l'esclusione della Cgil. Chi decide davvero? Con il nostro progetto di legge decidono i lavoratori, tramite il referendum, e le rappresentanze (Rsu) chiamate al tavolo delle trattative sono anch'esse elette democraticamente. Inoltre le Rsu vengono estese a tutte le aziende, anche quelle con meno di 15 dipendenti.
C'è un legame con le mobilitazioni nel Paese che chiedono la salvaguardia della Costituzione o dei diritti democratici come la protesta "anti-bavaglio"?
Certo. Anzi, se devo dirlo con uno slogan direi che anche noi ci battiamo contro il bavaglio, quello ai lavoratori. I lavoratori non possono essere oggetto delle trattative sindacali ma soggetto attivo. E la democrazia è uno strumento per dare efficacia alla partecipazione che altrimenti rischia di esplicitarsi solo tramite la Tv. La democrazia e la difesa dei diritti del lavoro sono elementi chiave anche per affrontare la crisi e uscirne, se non c'è maggiore certezza e maggiore stabilità, se restano in campo solo l'insicurezza e la provvisorietà che emergono da Pomigliano resta solo la crisi e le politiche che l'hanno prodotta. E che hanno fallito.
L'amministratore delegato di Fiat, Sergio Marchionne, dice che i sindacati Usa sono più comprensivi.
Capisco che un amministratore delegato non parli mai male dei suoi soci, visto che i sindacati, tramite i Fondi pensione, sono divenuti azionisti della Chrysler dopo il salvataggio di Obama. Il vero problema è che la Fiat non ha mai aperto la trattativa e ha detto soltanto "firmate questo altrimenti non investo".
Ma voi a che condizioni potete firmare. Esiste l'ipotesi di una "firma tecnica"?
Le firme tecniche non esistono. Sulla nostra impostazione hanno votato il Comitato centrale della Fiom, l'assemblea di Pomigliano e l'assemblea nazionale dei delegati Fiat. E tutte all'unanimità. Noi ribadiamo una cosa semplice: se si applica il contratto nazionale, la Fiat ha la garanzia della produzione della Panda a Pomigliano, ha i 18 turni, gli straordinari di 40 ore e anche la possibilità di gestire diversamente le pause. Basta applicare il contratto.
A che cosa non potrete mai rinunciare in un'ipotetica trattativa?
Alla Costituzione, alle leggi e al rispetto del Contratto nazionale, tutti diritti indisponibili. Su Pomigliano la Fiat dovrebbe riflettere seriamente. Un'idea autoritaria che umilia la dignità dei lavoratori la danneggia. La reazione alla sua impostazione non si è vista solo a Pomigliano ma anche a Mirafiori, a Melfi e in altre fabbriche. Se si decide di applicare il Contratto nazionale così com'è noi siamo pronti a firmare. Non a caso a Termini Imerese abbiamo prodotto noi una novità.
A Termini Imerese la Fiat ha deciso che chiuderà lo stabilimento spostando in Polonia la produzione. Che cosa proponete voi?
Se la Fiat ha deciso di dismettere la produzione entro il 2011, allora noi chiediamo che vengano individuati altri produttori di auto, diversi dalla Fiat ovviamente, che si impegnino a rilevare lo stabilimento. Si tratterebbe di un'assunzione di responsabilità sociale.
Con la Cgil il clima è più disteso? Che rapporti avete ora?
Direi che dopo il voto la Cgil si è associata al nostro giudizio: riapertura della trattativa, difesa dei diritti indisponibili. Quello che manca ancora è una continuità della mobilitazione e una maggiore azione della Cgil. Il futuro delle relazioni industriali di questo paese, la stessa possibilità di mantenere in vita un Contratto nazionale di lavoro, si gioca nei prossimi sei mesi. La Cgil deve muoversi ora e non aspettare di rientrare al tavolo del "modello contrattuale" perché ci entrerebbe solo in posizione subordinata.
Cosa chiede questa Fiom alla politica, alle opposizioni?
Di assumere la centralità del lavoro come punto di azione concreto. Al lavoro si sono sempre chiesti sacrifici in nome dell'interesse generale. Poi si è visto che si trattava di interesse privato. Ci sono ingiustizie e ineguaglianze insopportabili: chi parla di tagliare le pensioni ha pensioni da favola; l'evasione fiscale è indecente e allo stesso tempo si fanno leggi per salvare singole persone. È anche la percezione di questa ingiustizia che ha fatto identificare moltissimi lavoratori con la Fiom. Sarebbe ora che anche la politica, l'opposizione, le forze di sinistra, si identificassero con quei lavoratori.

Repubblica 6.7.10
Marco Bellocchio
Stavolta torno in famiglia così nacque la mia ribellione"
Il regista porterà alla Mostra di Venezia "Sorelle Mai", film in sei episodi. Mentre prepara la regia del "Rigoletto" con Placido Domingo in diretta tv mondovisione
di Paolo D’Agostini

ROMA. Marco Bellocchio questa volta non parla di grandi progetti, come è stato Vincere (o quello, ancora nella sua mente, ispirato al caso Englaro). Ma di un «piccolo film», dice lui, «di fantasia, non documentario e tantomeno documentario nostalgico». Appena congedato dalla sala di montaggio, in tempo per consentirgli di dedicarsi al Rigoletto televisivo previsto in mondovisione da Mantova a inizio settembre. E pronto per trovare un posto alla Mostra di Venezia. Il piccolo film, che ha appena deciso di intitolare Sorelle Mai, è lo sviluppo di Sorelle presentato quattro anni fa. Che cosa lo rende interessante per tutti, sorprendentemente personale e creativo, anche se si tratta del risultato delle esercitazioni dell´annuale laboratorio Farecinema che Marco dirige dal ‘97 e tra fine luglio e inizio agosto si rinnoverà a Bobbio, paese natale del regista vicino Piacenza? L´origine di servizio, didattica, è da Bellocchio personalizzata al punto da farne un suo film. Scrigno, una volta in più, delle sue memorie e idiosincrasie nei confronti del natio borgo selvaggio. Le location sono autentiche, compresa la vera casa di famiglia, e i personaggi sono in buona parte affidati ai suoi familiari incluse le due anziane sorelle. Bellocchio dice che la ragione è pratica ed economica. I sei episodi che articolano la storia corrispondono ad altrettante sessioni del seminario. Ma attraverso la presenza in particolare dei due figli di Bellocchio, Pier Giorgio e Elena, colti nel passaggio da un´età all´altra, raccontano anche del restare e dell´andar via dal paese d´origine, del tornare e del ripartire dalla casa di famiglia.
«Ho accettato l´idea di tenere questo laboratorio di regia mettendo dentro all´esperienza qualcosa che mi riguardava e che sentivo, e mi consentisse un atteggiamento non teorico ma di partecipazione e di personale divertimento. Di questo fa parte il piacere di vedere una bambina, mia figlia, crescere dai quattro ai quattordici anni. E seguire l´altro figlio di vent´anni più grande nel corso di una stagione che lo ha segnato. Nella mia storia giovanile c´è stata la ribellione e anche il coraggio del distacco e dell´allontanamento, che non ha lasciato in me rimpianti o sensi di colpa, se non l´inevitabile sentimento del confronto tra il mio destino e quello delle mie sorelle invece rimaste lì. I miei ritorni sono sereni, non intendono riaprire alcun conto con il passato».
Perché il titolo Sorelle Mai?
«Mi è piaciuta questa correzione dell´originale, che era Sorelle. A un certo punto del film viene pronunciato da qualcuno questo cognome, Mai appunto. Mi piaceva l´ambiguità della parola. Riecheggia il mio sentimento che è di distacco e di diversità rispetto alla famiglia d´origine, ma anche di inevitabile appartenenza. Tornando alle motivazioni della mia ribellione, si fondavano sul rifiuto della vita provinciale, della borghesia piacentina, del peso dell´educazione cattolica. Non della mia famiglia».
Ognuno dei sei episodi ha un proprio svolgimento. Ma vi ricorrono situazioni e figure. Le due attempate "sorelle" (vere sorelle di Bellocchio Maria Luisa e Letizia) sono le zie presso le quali cresce la piccola e poi adolescente Elena. Che è figlia di Sara (Donatella Finocchiaro), a sua volta sorella di Giorgio (Pier Giorgio Bellocchio). Lei aspirante attrice a Milano e lui a Roma preso nel vorticoso alternarsi di progetti e sconfitte, effimeri fidanzamenti e fughe da oscuri pericoli, si ritrovano periodicamente nella vecchia casa di paese confrontando i rispettivi alti e bassi.
Arriviamo a Rigoletto, con Placido Domingo. Opera verdiana che aveva già segnato il suo debutto nella regia lirica (dal vivo) nel 2004. Cosa la spinge a questa nuova edizione?
«Mi interessa l´occasione proprio in quanto televisiva, il precedente della regia "vera" era stato insoddisfacente. Mi interessa la possibilità di vedere l´opera attraverso una macchina da presa. Non ho mai nutrito una speciale passione per il melodramma ma ha fatto parte del panorama, della colonna sonora della mia formazione piacentina».
E invece l´idea di un film fondato sui sentimenti suscitati dal caso di Eluana Englaro?
«Non posso dire che sia in piedi, perché ancora non lo è. Resta il desiderio, e sono tuttora alla ricerca di una trama, di fare un film sull´Italia. Avevo anche in mente il titolo, "Italia mia", ma è appena uscito un libro di Vincenzo Cerami intitolato così. Sempre più convinto che il mio modo di fare cinema comporta che le cose più evidenti, scandalose e vergognose che vediamo in giro, debbano essere trasformate. Con la possibilità di riconoscere personaggi reali, però trasfigurati. Non è nel mio Dna la presa diretta, non do il mio meglio. Con tutto il rispetto non potrei fare "Draquila" di Sabina Guzzanti, la denuncia».
Ma le riesce sempre di avere un´opinione, di farsi una convinzione personale su quello che le accade intorno? Per esempio, dall´attualità, sulla vicenda di Pomigliano d´Arco. Torti e ragioni, destra e sinistra, giusto e sbagliato le sono sempre chiari?
«Soffro del fatto che le nostre convinzioni si formano sulle informazioni che riceviamo dal sistema mediatico. Raramente di prima mano. Poi posso solo dire un´altra cosa. Che credo sia ora di riconoscere il principio della diseguaglianza, e del taglio dei privilegi ingiusti ovunque si annidino, naturalmente sulla sacrosanta base del principio di uguaglianza di doveri e opportunità. Ma sono inseguito dal timore di parlare a vanvera delle cose che non conosco da dentro: la riprova ce l´ho dal come sento parlare e dai luoghi comuni che si pensano a proposito del mio ambiente, il cinema, dipinto come covo di parassiti».

Repubblica 7.6.10
Il mio piano per Gaza
di David Grossman

Invece di intestardirsi per anni sul numero e sull´identità dei detenuti di Hamas da liberare o non liberare in cambio del rilascio di Gilad Shalit – detenuti che Israele alla fine libererà in un modo o nell´altro, nell´ambito di questo o quell´accordo – forse conviene che si rivolga ora a Hamas con una proposta molto più ampia e audace?

Una proposta per un´intesa che comprenda il cessate-il-fuoco totale, l´interruzione di tutte le azioni terroristiche da Gaza e la sospensione dell´assedio della Striscia. Un accordo, in cui la questione Gilad Shalit e detenuti di Hamas sia solo uno dei suoi paragrafi, quello che verrà applicato per primo, subito dopo l´apertura del negoziato?
E´ chiaro che nella realtà che ci è nota – cioè nella realtà che siamo stati abituati a vedere come tale – un´idea del genere sembra assurda, ma è davvero così assurda? Davvero lo Stato di Israele e il governo di Hamas non sono in grado di arrivare – con la mediazione di elementi stranieri – a un accordo del genere, parziale ma effettivo? Davvero un accordo del genere sarebbe una "legittimizzazione di un´organizzazione terroristica", come sostengono gli oppositori a qualsiasi contatto con Hamas, o piuttosto si tratterebbe dell´atto sagace di uno stato che agisce con audacia ed elasticità, per migliorare la sua difficile situazione? A proposito, nel negoziato condotto oggi con Hamas non vi è una forma di "legittimazione di un´organizzazione terroristica"? E perché limitarsi solo alla liberazione (per quanto agognata) di Gilad Shalit, quando è possibile – a un prezzo che in definitiva non sarebbe molto più alto del prezzo finale che Israele pagherà in cambio di Gilad Shalit – creare una situazione in cui i risultati ed i vantaggi sarebbero molto più grandi per Israele?
Una pace vera e completa con Hamas Israele non potrà raggiungerla nel prossimo futuro e forse nemmeno in un futuro lontano. Hamas non riconosce Israele e condiziona un accordo di pace all´accettazione da parte dello Stato ebraico del principio del "diritto al ritorno" e del ritiro totale alle linee del 1967, condizioni che non vi è alcuna probabilità che Israele accetti. Ma perché Israele non tenta almeno di arrivare a ciò che è dato arrivare in questa fase, in questa situazione così difficile fra esso e Hamas? Forse, in questo processo, si vedrà che anche Hamas è già maturo – e persino si augura un qualche movimento dentro quella camicia di forza, che ha indossato con il suo rigido rifiuto?
E´ imbarazzante individuare il modulo di comportamento a cui Israele è di volta in volta condannato: come la squalifica totale, per decenni, dell´OLP in quanto interlocutore, come l´evacuazione degli insediamenti di Gush Katif, come il frettoloso ritiro dal Libano nel 2000, come con il caso della flottiglia che ha portato all´interruzione dell´assedio di Gaza – Israele da anni presenta una posizione rigida, ristretta e unilaterale, gonfia sempre di più i muscoli e dichiara che non si tirerà indietro nemmeno di un millimetro, finché, tutto d´un colpo, nell´arco di un giorno o di una notte, la situazione si capovolge di 180 gradi, il terreno – o il mare – gli scivola sotto i piedi ed Israele è costretto a tirarsi indietro lungo tutta la linea, molto più di quanto avrebbe fatto nell´ambito di un dialogo negoziale (ed è ovvio che riceve anche un compenso molto più limitato in cambio delle sue rinunce).
Anche nella storia dolorosa e frustrante di Gilad Shalit, sembra che i fatti conducano a questo punto. Forse questa volta, però, quando le due parti sono intrappolate nelle loro posizioni e all´orizzonte non appare alcuna soluzione, avremo il coraggio di allargare tutto d´un colpo il punto di vista, di liberarci dai condizionamenti fissi e di stabilire, per nostra iniziativa (oh, parola dimenticata!), la portata dell´azione?
Hamas non sarà d´accordo? E´ probabile. Sfidiamolo, forse ci sorprenderà? Hamas è un senz´altro un dominio fanatico, che ha agito più di una volta con sistemi obbrobriosi e inumani, anche nei confronti degli stessi palestinesi. Ma può questo giustificare la totale paralisi israeliana nei suoi confronti? Paralisi che non è per niente una paralisi, visto che, in fin dei conti, vi si svolge un processo in cui Israele è costretto a recedere sempre di più dalle sue posizioni, senza ricevere nulla in cambio, come per il ritiro da Gush Katif e per il caso della flottiglia?
Nessuno tenta di spostare alcunché in questa realtà pietrificata, di iniziare un processo che possa costringere Hamas a cambiare qualcosa nel suo modo di agire – non parlo del suo approccio – nei confronti di Israele. Nessuno fa nulla per migliorare la situazione di Israele: dire "no" non è una politica, è una fissazione della mente. E´, alla fin fine, negare a noi stessi la libertà d´azione.
Le tesi note, presentate al pubblico israeliano come se fossero un assioma consacrato, che il negoziato con Hamas danneggerebbe la leadership palestinese più moderata della Cisgiordania, devono essere anch´esse sottoposte a rinnovato esame: forse anche in questo caso – come in quello dell´assedio di Gaza – si scoprirebbe che da anni ci fanno ingoiare clichés che non si adattano a tutte le sfumature e a tutte le possibilità della realtà? Forse si scoprirebbe che il negoziato con Hamas in vista di un qualche accordo è in grado di spronare gli uomini dell´Autorità Palestinese ad accelerare da parte loro il processo di pace con Israele? E forse si creerebbe una dinamica in grado di mettere in moto un processo di pacificazione nei rapporti fra le due parti nemiche del popolo palestinese, processo senza il quale non si arriverà mai ad un trattato di pace stabile, nemmeno con Abu Mazen ed i suoi seguaci?
Non è assurdo pensare che il modo più efficace di limitare la forza e l´influenza di Hamas a Gaza, riportandolo gradualemente alle sue dimensioni naturali, sia creare condizioni di pace e prosperità e di costruzione della nazione per i palestinesi della Cisgiordania. Se si formulasse – anche fra una parte degli abitanti di Gaza che appoggiano Hamas – una qualche speranza per il proprio futuro, calerebbe automaticamente l´attrattiva del fondamentalismo e del fantismo religioso e nazionalista. Si potrebbe anche arrivare ad immaginare una situazione in cui persino il ritorno a Gaza dei detenuti di Hamas, tutti quanti, fino all´ultimo, non crei immediatamente ed inevitabilmente una realtà in cui tutti riprendano l´attività terroristica. E c´è persino la probabilità che nella nuova situazione creatasi, non siano il terrorismo e la violenza l´unica loro scelta per difetto.
Tutti questi sono pensieri con cui ci si può trovare d´accordo o che si possono cassare, o semplicemente chiudere gli occhi dinanzi a loro. Più che alle proposte stesse, vorrei che lo sguardo fosse rivolto alla loro motivazione: la sensazione che già da alcuni anni Israele sia intrappolato in una paralisi che continua a rallentare i suoi movimenti, fino al punto in cui ogni essere razionale vi riconosce ottundimento e incapacità e persino rarefazione del sano istinto vitale. Questo è il vero pericolo per Israele, molto più distruttivo di tutti i pericoli rappresentati da Hamas.
Già da tempo il primo ministro israeliano avrebbe dovuto prendere in mano il mosaico ingessato e fossilizzato dell´immagine del conflitto, per tentare di creare – con le stesse tessere conosciute, per quanto disperanti – una nuova immagine. Appunto questo è il compito di un leader. E´ difficile capire perché Israele – lo stato più potenze della regione – non tenti di ritornare a dominare il proprio destino, mettendo in moto dei processi, invece di abbandonare, volta dopo volta, il proprio futuro in mani altrui. Perché si intestardisce da decenni a discutere su piccoli particolari, importanti, ma non fatali, invece di tentare di cambiare sostanzialmente il quadro generale? La tendenza tradizionale dei leader israeliani di sollevare senza sosta ragioni e scuse per la mancanza di azione e la loro incapacità di distinguere fra giganti e ombre giganti, fra pericoli reali ed echi di pericoli – alla fine conducono Israele a pronunciare un "no" totale e comprensivo di fronte a tutta la realtà, anche di fronte alle minuscole probabilità che di tanto in tanto vi spuntano. Questo rifiuto insistente è, come dire, ormai al di sopra dei nostri mezzi. In semplici termini di sopravvivenza, non ce lo possiamo permettere: che cosa deve ancora succedere perché ci scuotiamo e ci liberiamo di questo assedio che già da anni ci siamo imposti?
Traduzione di Mila Rathaus Sachs

Repubblica 5.7.10
La pastorale dell’intelligenza
di Joaqìn Navarro-Valls

Molti commentatori, per ovvie ragioni, hanno concentrato la loro attenzione sulla discontinuità che si è creata tra il lungo periodo di governo della Chiesa di Giovanni Paolo II e la nuova stagione aperta da Papa Ratzinger. È chiaro che nessun Pontificato è eguale al precedente, benché tutta l´eredità del passato ricada ogni volta proprio su quell´uomo che è incaricato da duemila anni di portare sulle spalle per un certo tempo il peso di tutta la Chiesa.
Da ciò deriva la difficoltà, per non dire l´impossibilità, a stabilire delle interpretazioni comparative adeguate. Mentre, invece, la biografia personale può aiutare a capire un singolo Papa. E di Benedetto XVI non si può dimenticare la lunga carriera accademica e il percorso intellettuale e teologico straordinario compiuto prima da cardinale e vescovo di Monaco, e poi, con il ruolo ricoperto alla Congregazione per la Dottrina della Fede, come prefetto, collaboratore stretto e intimo amico di Giovanni Paolo II.
Ripensando a questo primo intenso periodo, si devono annoverare le difficoltà che Benedetto XVI ha trovato sul suo cammino, dovendo affrontare nodi che ancora non erano emersi in modo così palese: la crisi dell´Occidente, che ha assunto sempre più i connotati di un devastante relativismo culturale, cui si è aggiunta la difficile gestione dei rapporti ecumenici in un contesto internazionale in repentino cambiamento, nonché i rilevanti problemi interni alla Chiesa, vilipesa dagli attacchi al sacerdozio, dagli scandali della pedofilia e dalla crisi delle vocazioni.
Malgrado tutto, Benedetto XVI si è mostrato perfettamente all´altezza di comprendere ed interpretare con lungimirante lucidità i rischi e le sfide della Chiesa di oggi, mai abbassando la guardia e assicurando una guida sicura al popolo cristiano. E il suo magistero si può riassumere essenzialmente in tre aspetti.
Il primo è l´interpretazione sapiente e dotta che, fin dai primi interventi inaugurali del 2005, il nuovo Papa ha voluto dare all´ufficio apostolico. Nell´omelia tenuta nella Basilica di San Giovanni in Laterano per l´Intronizzazione, ad esempio, il neoeletto si è soffermato a spiegare in modo inusuale il significato degli antichi simboli religiosi che aveva innanzi, così lontani dalla mentalità di oggi ma anche così essenziali per capire la fede di sempre. Benedetto XVI stava facendo in quel modo una duplice operazione ideale. Da un lato, evitava di seguire Giovanni Paolo II in ciò che egli aveva d´inimitabile, ossia lo stile del suo rapporto sensibile e immediato con la gente. Dall´altro, metteva al servizio della Chiesa universale la sua intelligenza, la sua dottrina e la sua saggezza teologica straordinaria. Se Giovanni Paolo II aveva fatto tornare in primo piano la presenza pubblica della religione come pratica di vita moderna e adatta ai tempi, adesso Benedetto XVI era in grado di riproporre brillantemente i significati permanenti e solidi della verità religiosa. Il fine del pensiero di Ratzinger è aprire una riflessione sulla religiosità umana, portandola a livello di consapevolezza matura e razionale. Il bello è che questi due lati sono tra loro perfettamente complementari, così come lo sono gli stessi due pontificati.
Benedetto XVI ha dato una forma sempre più netta a questo suo stile apostolico, il quale si è presentato come una vera e propria pastorale dell´intelligenza. L´espressione, d´altronde, è stata utilizzata dal Papa stesso per spiegare il tipo di criterio che stava seguendo per proporre al mondo intero la fede cristiana.
Un modo molto incisivo per capirne lo sviluppo è quella sorta di grande catechesi universale affidata alle Udienze generali del mercoledì, nelle quali Benedetto XVI ha dipinto a parole le personalità più rilevanti della storia della teologia, dalla prima epoca apostolica. Un esempio poco appariscente forse, ma non meno emblematico del valore importantissimo assunto dalla ratio fidei, cioè dal ruolo della ragione nella religione, nella sua visione intellettuale.
D´altra parte, nell´ormai classico Discorso di Ratisbona egli aveva fatto risaltare già lo strettissimo legame che esiste tra un´articolata lettura del cristianesimo e le radici profonde del dialogo interreligioso ed ecumenico. Uno sforzo che si è ripetuto di continuo, non da ultimo anche nel recentissimo viaggio a Cipro.
Parafrasando il teologo medievale Bonaventura da Bagnoregio, per altro molto amato dal Papa, si può dire che, secondo Benedetto XVI, la fede possiede un primato assoluto nel definire l´essenza del cristianesimo. Solo mediante il credere, infatti, è possibile entrare nel mistero ultimo e inesauribile della verità. Il dialogo tra le diverse confessioni, unito al confronto culturale con i non credenti, è reso possibile invece dall´esistenza di un unico orizzonte razionale comune tra le persone. Perciò la fede ha bisogno sempre della ragione, per comprendere la sua verità e per rendere effettiva l´intesa di chi crede con chi non crede e con chi crede solo in parte o diversamente.
L´aspetto più suggestivo di questa direzione personale è l´esigente ragionamento sui diritti umani. Come già aveva fatto da cardinale, discutendo con Jürgen Habermas oppure in contesti così peculiari come Oxford e New York, il Papa sostiene che la ragione permette ad ognuno di cogliere la dignità superiore della persona, a prescindere da quale sia la cultura e la tradizione d´appartenenza di ciascuno. Si può dire, in fondo, che l´etica costituisce l´approdo finale di un dialogo razionale tra le civiltà.
Negli ultimi mesi a questi due aspetti dello stile di Ratzinger, vale a dire all´intelligenza e all´ecumenismo, si è aggiunta una nuova linea del suo magistero: la grande riflessione sul male morale. In effetti, di fronte all´espandersi mediatico degli scandali relativi alla pedofilia, l´atteggiamento di Benedetto XVI non è stato né difensivo, né evasivo. Anzi, la presenza incontestabile del male, anche nella Chiesa oltre che nella società, ha dato occasione al Papa di riportare al centro del dibattito contemporaneo la questione teologica del peccato. E, pure da questo punto di vista, il suo magistero intellettuale e la sua percezione saggia dei problemi si sono rivelati una risorsa ineguagliabile, capace di amministrare con grande risolutezza pratica e con matura sapienza la vergogna e l´umiliazione arrecate alla Chiesa dagli scandali.
D´altronde, questi crimini commessi non esigono soltanto misericordia e pentimento per essere affrontati, ma anche responsabilità precise, pene severe e rigore inflessibile. "Il perdono non si sostituisce alla giustizia", è stato uno dei suoi pensieri guida. Non è difficile riconoscere il grande equilibrio che Benedetto XVI ha tenuto tra le opposte e sbagliate tendenze a perdonare o a punire. La fede cristiana, infatti, nella sua lunga e collaudata esperienza esorta ad una valutazione integrale ed accurata del mistero inesauribile del male, considerato, al pari del bene, come una tendenza insopprimibile della persona, perché radicata nel cuore stesso del genere umano.

Repubblica 7.6.10
Maternità hi-tech
Ovociti nel congelatore e menopausa calcolata essere mamme per sempre
di Elvira Naselli

Al congresso della Società europea di riproduzione un sondaggio rileva che la maggioranza delle giovani donne è disposta a conservare i propri gameti per fare un figlio quando non intralcerà la carriera E uno studio sugli ormoni predice quando finisce la fertilità

Che cosa farebbe una donna se potesse sapere già a vent´anni quando andrà in menopausa? E come reagirebbe se potesse congelare gli ovociti a ventidue per diventare mamma magari a quaranta e oltre? Ovviamente è difficile dare una risposta a queste domande. La scienza però offre già delle opzioni. Al ventiseiesimo congresso dell´Eshre, la società europea di Riproduzione umana ed embriologia, che si è appena concluso a Roma, tra i tanti studi presentati, ha avuto grande risalto la ricerca della giovane dottoressa iraniana Fahimeh Ramezani Tehrani, professore di Medicina all´università Shahid Beheshti di Teheran. Lei e il suo team ritengono di poter stabilire, anche se con una certa approssimazione, l´età in cui una donna andrà in menopausa utilizzando il dosaggio dell´ormone antimulleriano (Amh), considerato spia della funzionalità ovarica.
Dopo aver prelevato campioni di sangue a 266 donne tra venti e 49 anni, già reclutate in un altro studio, i ricercatori hanno dosato la concentrazione di Amh, ripetendo il test per altre due volte a intervalli di tre anni. «Abbiamo poi sviluppato un modello statistico per stimare l´età della menopausa - ha spiegato Tehrani in una sessione plenaria - riuscendo a dimostrare una correlazione tra età della menopausa stimata e livello di Amh. Per esempio se una ventenne ha almeno 4.5 nanogrammi per millimetro di ormone Amh, è prevedibile che vada in menopausa a più di cinquant´anni. Ora occorre uno studio più ampio»
Sempre all´Eshre un´altra giovane dottoressa britannica, Srilatha Gorthy, del Centro per la medicina riproduttiva di Leeds, ha presentato i risultati di un´indagine svolta tra circa 200 studentesse sul fenomeno del social freezing, ovvero della possibilità del prelievo e del congelamento dei propri ovociti in giovane età per utilizzarli più avanti nel tempo. Nonostante fosse chiaro il costo economico, circa 3.500 euro, e quello fisico - gli ovociti vengono prelevati dopo un´iperstimolazione ovarica e successivamente utilizzati con tecniche di procreazione assistita - otto studentesse di medicina e quattro di sport su dieci si sono dette pronte a iniziare questo percorso per assicurarsi una gravidanza futura con ovociti giovani. Per non rinunciare alla carriera.
«È sbagliato dare false speranze - ragiona Emilio Arisi, ginecologo del comitato scientifico della Sigo, la società italiana di ginecologia ed ostetricia - l´ormone Amh si dosa in pochi centri, non c´è esperienza e il costo è alto. Difficile pensare di poterlo usare a breve». Sul social freezing, invece, Antonio Lanzone, responsabile dell´unità di Ginecologia disfunzionale al policlinico universitario Gemelli di Roma, fa un altro ragionamento. «L´Italia è leader nella tecnica di vitrificazione dell´ovocita - precisa - ma un conto è consigliarla a persone che stanno per intraprendere terapie oncologiche e hanno poche altre possibilità di scelta, altra cosa è suggerirla a donne sane. Per almeno due motivi: perché su 100 ovociti scongelati le possibilità di avere bambini sono tra il 4 e il 7%. E poi perché gli ovociti sarebbero giovani, ma la gravidanza sarebbe comunque portata avanti da una donna più anziana. Non è un problema etico ma di messaggio medico sbagliato che dà false sicurezze. E che spinge lontano dall´idea di una gravidanza naturale».

Repubblica 7.6.10
La metà delle confezioni è acquistata da ragazze under venti Ma aborti e gravidanze sono in aumento tra le teenager
Pillola del giorno dopo il record alle adolescenti
Gli anticoncezionali di ultima generazione non provocano più aumenti di peso e ritenzione idrica
di Carla Etzo

CAGLIARI. Sono le adolescenti le maggiori utilizzatrici della pillola del giorno dopo in Italia: oltre il 50% delle confezioni acquistate in Italia va alle under 20 (secondo Bayer Schering Pharma nel 2008 sono state vendute complessivamente 381mila confezioni ma fino ad aprile 2009 si è registrato un calo del 4,7%). Tra le giovanissime aumentano anche le maternità che, secondo i dati Istat, sono passate da 9.583 nel 2007 a 10.194 l´anno successivo. Nel 2008 le italiane sotto i 16 anni che hanno partorito erano 902 (700 nel 2007).
I numeri sono emersi pochi giorni fa a Cagliari, durante il congresso nazionale dedicato all´evoluzione ventennale delle scienze ginecologiche ed ostetriche: oltre seicento esperti che hanno condiviso la necessità di rafforzare, anche attraverso finanziamenti adeguati, l´educazione sessuale nelle scuole e di coinvolgere, attraverso la formazione, i medici di base. «Questi dati dimostrano soprattutto una cosa: i giovani arrivano al primo rapporto sessuale senza una preparazione adeguata e senza alcuna protezione – spiega Gian Benedetto Melis, direttore della Clinica ostetrica e ginecologica dell´Università di Cagliari – Comunque la pillola del giorno dopo non è un farmaco abortivo: inibisce l´attività ovarica. Ha una quantità inferiore di ormoni rispetto alle pillole da 28-30 giorni, non contiene estrogeni e quindi ci sono meno rischi di trombosi. In più è un progestinico che ha effetti protettivi in caso di insorgenza di una gravidanza come dimostra l´utilizzo di queste sostanze nelle terapie per la minaccia di aborto».
La Sardegna ha il primato italiano di utilizzo della pillola come anticoncezionale (28,6% dei casi, quasi il doppio rispetto alla media nazionale che è del 16,3) ma anche un minore numero di aborti (in costante calo in tutta Italia, secondo il ministero della Salute). L´interruzione volontaria di gravidanza è bassa soprattutto tra le giovanissime: se il tasso nazionale si attesta a 9,16 casi per mille, tra le donne sarde si ferma a 5,55 casi, mentre sono 3,7 i casi su mille tra le adolescenti isolane. «Merito di una collaudata informazione contraccettiva che si è sviluppata anche in relazione alla necessità di controllare la diffusione di numerose malattie genetiche», spiega Melis. Che invita ad abbattere alcuni pregiudizi ancora forti sugli effetti negativi degli anticoncezionali ormonali: «Aumento di peso e ritenzione idrica non sono più un problema. Le pillole di ultima generazione hanno anzi effetti positivi anche sotto questo punto di vista».

il Fatto 6.7.10
Urbanesimo
Aymonino. Fantasia nella città
È scomparso l’architetto che reinventò i Musei capitolini e realizzò il complesso del Monte Amiata nel quartiere Gallaratese di Milano
di Luca Zevi

Carlo Aymonino era uomo di grandissimo fascino e calore umano, anzitutto. Uomo indipendente, senza che ciò comportasse in alcun modo il tenersi in disparte dai diversi agoni, da quello professionale a quello accademico a quello politico; intellettuale impegnato nello studio dei fenomeni architettonici e urbani soprattutto ai fini di un’elaborazione metodologica dell’agire progettuale concreto; artista di talento, prima ancora che architetto, sempre attento a riversare la sua vena creativa nell’attività sul campo; personalità di spicco e carismatica, eppure sempre attratta e frequentemente promotrice di collaborazioni fortunate con altri colleghi, con un indomito “spirito di squadra” giovanile che lo ha accompagnato fino agli ultimi giorni.
Proveniva da una borghesia romana consolidata, eppure non esitò, negli anni dell’immediato dopoguerra, ad aderire al Partito comunista, che meglio gli sembrava poter interpretare un processo di rinnovamento del nostro paese attento alle esigenze delle masse popolari. Della comoda “vulgata comunista”, però, non prese nulla: né l’appiattimento del linguaggio architettonico su una considerazione puramente quantitativa dei bisogni umani, né la sottomissione della spazialità urbana a qualsivoglia partitura urbanistica, né l’inibizione della creatività progettuale di fronte al “peso” della storia. Quando gli sembrò che queste distorsioni stessero prevalendo nella cultura di sinistra – come nel celebre “Le origini dell’urbanistica moderna” di Leonardo Benevolo –, non esitò a scatenare una polemica aperta con il tutt’oggi illuminante libello “Origini e sviluppo della città moderna”. Quando gli sembrò che il sacrosanto rispetto delle città storiche stesse degenerando in una sorta di feticismo del passato, destinato a mortificare il diritto/dovere a una presenza dell’architettura moderna anche dentro la storia – come nell’altrettanto celebre “La nuova cultura delle città” di Pierluigi Cervellati –, non esitò a stigmatizzare quelle tendenze tanto a livello teorico, quanto nella pratica urbanistica e architettonica, soprattutto all’interno delle due città storiche nelle quali si trovò più intensamente a operare, Pesaro e Roma. Giovanissimo, si impossessò rapidamente dei contributi di tutti gli “ismi” del Movimento Moderno, senza mai abbracciarne incondizionatamente nessuno. Capiva che qualunque esasperazione ideologica era fatalmente destinata a mortificare la complessità del fare architettonico. Per questo scelse un itinerario ostinatamente sperimentale, che lo condusse di volta in volta alla ricerca del linguaggio più idoneo al singolo tema progettuale. Una duttilità lontanissima da qualsivoglia forma di eclettismo, tant’è che è veramente difficile non riconoscere la sua mano dietro alle fattezze dei suoi edifici. Ciò è vero già nelle realizzazioni del primo periodo, dalle palazzine romane, ansiose di contestare l’impianto scatolare, alle case popolari degli anni ’50 a Matera e a Roma, dove la ripresa di alcuni temi propri all’architettura tradizionale mai sconfina in vernacolarismo. È ancor più vero in una realizzazione matura come il complesso “Monte Amiata” nel quartiere Gallaratese di Milano, dove la pulsione a offrire alle masse popolari una spazialità urbana di “classica” grandezza lo conduce a una geniale reinterpretazione di tipologie antiche profondamente impregnata della domanda di frantumazione volumetrica e di caratterizzazione individuale propria al nostro tempo. Una reinterpretazione moderna ben lontana tanto dalla deprimente riproposizione banalizzata di stilemi del passato che caratterizza il corpo di fabbrica concesso generosamente in progettazione all’amico Aldo Rossi nello stesso “Monte Amiata”, quanto dalla “pornografia linguistica” di un pur talentuosissimo collega come Ricardo Bofill. Si impegnò subito nell’attività accademica con grande intensità. Lo guidava in questa scelta il bisogno profondo di sottoporre la propria esuberanza espressiva a una disciplina metodologica capace di fare di ogni singola operazione concreta un tassello della costruzione corale di una “città dell’uomo”. Il contesto culturale dell’Istituto Universitario di Architettura di Venezia, fondato da Giuseppe Samonà, gli fornì l’habitat ideale per quelle elaborazioni sul rapporto fra tipologia urbana e morfologia edilizia che ancora oggi sono alla base di ogni serio approccio progettuale alla città consolidata. Una produttività didattica e di ricerca che non si limitava agli ambiti dell’insegnamento e della ricerca, ma si estendeva entusiasticamente anche alle incombenze di gestione amministrativa, nel desiderio profondo di costruire un’università davvero capace di rispondere alla domanda di una società in profonda evoluzione. Uno “spirito di servizio” che lo condusse all’accettazione nientemeno che della carica di Rettore dello stesso IUAV, in barba a interessi professionali, attività di ricerca e anche “qualità della vita”.
Quando finalmente decise di tornare nella sua città, fu spinto dalla temeraria scommessa di fare del centro storico di Roma un grande cantiere di progettazione moderna del più prestigioso ambiente urbano antico. Una scommessa che condivise tanto con il compianto Sindaco Luigi Petroselli, quanto con il Sovrintendente alle Antichità Adriano La Regina: un terzetto che, lanciata la parola d’ordine “archeologia e progetto”, tentò di riportare a nuovo splendore l’area archeologica centrale di Roma, anche attraverso la cancellazione delle offese che il regime fascista le aveva inferto. Un tentativo di cui Carlo si rese “esecutore materiale”, trasformando una struttura burocratica come un Assessorato in studio professionale appassionato e infaticabile, come mai si era visto e probabilmente si vedrà. Molti gli effetti positivi che la città di Roma ha tratto dal breve ma intenso passaggio politico-amministrativo di Carlo Aymonino. Una partitura “non finita” che egli ha voluto sottoscrivere personalmente con la copertura del Giardino Romano all’interno dei Musei Capitolini, un’operazione tanto delicata quanto discussa, da lui condotta comunque, come sempre, con la più grande generosità.

l’Unità 6.7.10
Pecora nera
Storie dal manicomio tra realtà e fantasia
di Ascanio Celestini

In questi giorni finisco di montare la ripresa video dello spettacolo Pecora Nera e incomincio le riprese della versione cinematografica. Sono passati otto anni dalle prime interviste che ho fatto attorno al tema dell’istituzione psichiatrica e incomincio a rimettere i pezzi. Pezzi di quasi-diario che appunto su un taccuino accanto a residui di semi-racconti che ho ascoltato, scritto e spesso scartato o dimenticato.

Dal diario di Ascanio
Saliamo da Alberto. Adriano gli dice che stiamo per fare il film, che tra qualche settimana iniziamo. Che giriamo al 18. «Il 18 non va bene» dice Alberto «ci stavano gli alcolisti». «Però il 18 è quello che è rimasto uguale dagli anni ’60» gli dice Adriano. Infatti alla fine degli anni ’90 quando ancora c’era rimasto qualcuno ci portavano la gente per fargli vedere cos’è il manicomio. Dice Adriano che dopo che l’hanno trasformato in padiglione per gli alcolisti c’era rimasto qualche criminale. Insomma qualcuno che era stato internato prima della trasformazione. Pure all’ospedale dove stava mio padre era successo così. C’era una vecchia seduta sulla sedia a rotelle. Stava all’entrata. Una mattina arrivo presto e la vedo che si spinge la sedia da sola. Che sta sulla sedia a rotelle, ma cammina bene. L’infermiere mi spiega che fino a qualche anno fa il reparto oncologia non c’era. C’era un reparto per vecchi. Era una specie di ospizio. Quando c’hanno messo quelli col tumore non sono riusciti a portare via tutti i vecchi. Ce ne sono rimasti due. Un uomo e una donna. InCinema e Teatro In alto un’immagine dal set La pecora nera. A sinistra una scena tratta dallo spettacolo
Dice che gli tolgono un dente e ci fabbricano un’altro Nicola come lui e lo mandano in giro per strada. Lo mandano al supermercato al posto di lui a comprarsi la cocacola e la pepsicola per fare i rutti a pagamento. Col dente clonato ci fanno un altro Nicola che gli arrivano in abbonamento le riviste di donne che leccano gli uomini nudi. Nicola dice «prima i cinesi erano contadini comunisti che andavano in bicicletta. Comunisti ciclisti che pistavano l’uva coi piedi, che invece di andare a messa la domenica facevano la festa dell’Unità. Invece di pregare Dio e mangiarsi l’ostia, loro ballavano il liscio e cuocevano salsicce e gnocco fritto. Poi sono arrivati i marziani e gli sono entrati dentro». Il marziano ha incominciato a comandare lui. Adesso il cinese è comunista soltanto di fuori. C’ha i piedi di contadino che pista l’uva, ma invece fa il vino con la chimica marziana e lo mette nel tetrapack. Il cinese fa il Tavernello che costa soltanto un euro al supermercato e in televisione dicono che c’ha un ottimo rapporto qualità-prezzo, ma è solo un vino marziano. In televisione fanno vedere il cinese con la bandiera rossa, ma la festa dell’Unità è una copertura. Dietro alla falce e martello ci sta il cinese che prega una specie di dio-verde-spaziale. L’infermiere gli dice «io mi faccio certe belle dormite che mi potrebbero levare tutti i denti, metterci la dentiera cinese e non mi sveglio lo stesso. Con una ventina di denti miei ci avranno fatto un bel po’ di infermieri. Forse a me mi hanno già clonato».
Nicola dice che gli infermieri non li clonano. Nel mondo spaziale che stanno costruendo non gli servono gli infermieri che fanno i padroncini nell’istituto dei matti. Dice che i marziani vengono sul nostro pianeta e i padroncini sono loro e c’hanno bisogno solo di qualche povero scemo come Nicola. Qualche malatino che lavora e sta zitto. Nicola dice che scannano l’infermiere e ci fanno la scatoletta di tonno sott’olio. La scatoletta col tonno e la bomba messa da Unabomber, il pazzo che fa scoppiare la gente al supermercato. E martedì prossimo un altro infermiere se ne andrà al supermercato con lo sconto del 20% a comprare quel tonno per saltare in aria anche lui. In quel mondo basta una pasticca marziana. Non serve manco di legare al letto e fare elettroshock e iniezioni. A una certa ora passa il cinese marziano, i matti interrompono il lavoro, prendono la pasticca e poi ricominciano a lavorare.somma c’era questa donna che si spingeva la carrozzina da sola nel reparto di oncologia uomini. Era un avanzo. E infatti i matti del 18 che non si riusciva a chiudere alla fine degli anni ’90 venivano chiamati «residui manicomiali». Alberto non è un residuo. Lui nel ’90 è uscito. Ma perché c’era entrato? Era morto il padre. La madre c’aveva due figli. La sorella stava dalle monache e lui dai preti. Poi è stato preso con una specie di adozione da una famiglia di «benefattori», così li chiama lui. Ma i benefattori non se la sono sentita di tenerlo. L’hanno portato dal medico del manicomio.
A quel tempo «facevano l’elettroshock pure ai sassi» dicono sempre gli infermieri quando parlano degli anni ’40 e ’50, ma persino quel medico abituato a elettrizzare la gente non se l’è sentita di dire che Alberto era matto. Eppure al manicomio c’è finito lo stesso. C’è finito perché era orfano e se non lo chiudevano lì l’avrebbero chiuso da qualche altra parte. In qualche altra istituzione sorella del manicomio. Franco Basaglia ci comincia un capitolo di un libro par-
lando di scuola, famiglia, galera, lager, chiesa, caserma, ospedale, fabbrica come istituzioni sorelle. «Sono istituzioni basate sulla netta divisione dei ruoli: la divisione del lavoro (servo e signore, maestro e scolaro, datore di lavoro e lavoratore, medico e malato, organizzatore e organizzato). Ciò significa che quello che caratterizza le istituzioni è la netta divisione tra chi ha il potere e chi non ne ha».
Chi è senza famiglia avrà una nuova famiglia. Si chiamerà manicomio o caserma, ma sarà la sua famiglia. Alberto era senza padre. Quando gli è morta pure la madre è finito al manicomio. Al mammicomio.
Bonus track dallo spettacolo
L’istituto ha fatto la convenzione col supermercato. Il martedì mattina l’infermiere c’ha lo sconto del 20% e va a fare la spesa coi matti che possono uscire.
Nicola non dorme mai. Dice «se mi addormento i cinesi mi tolgono un dente e mi clonano».

l’Unità 6.7.10
L’intervento
L’anima è una farafalla
Per Platone quelle dei defunti svolazzano intorno alle tombe e ai monumenti
«Psyché» ecco come la sognamo noi umani
di Francesca Rigotti

Partiamo dall’ultimo libro di Gad Lerner: il titolo, Scintille, evoca la prima metafora dell’anima, la scintilla animae; la figura in copertina invece rappresenta una farfalla che sembra fatta apposta per lanciare un richiamo alla seconda metafora, l’anima farfalla che come la scintilla tende verso l’alto, non perché sia della stessa natura del fuoco, ma grazie alle ali. Sulle più antiche opere d’arte del patrimonio della grecità, le pitture vascolari, l’anima o psyché, compare come piccola figura umana nuda e alata. Quell’esserino con le ali è l’anima in quanto sosia spirituale dell’uomo, suo alter-ego, Doppelgänger, éidolon, avatar. Intorno alle tombe, scriveva Platone riprendendo una credenza popolare, le anime dei defunti oscillano «svolazzando attorno ai monumenti e sepolcri». L’aria è piena di questi esserini che si vedono quando un raggio di sole attraversa quello che nel nostro disincanto chiamiamo pulviscolo atmosferico, ma che Democrito e i Pitagorici immaginavano formato da infiniti éidola. Lo scrive Aristotele nel De anima, mentre lo stesso, nella Storia degli animali, nota che col termine psyché si designa sia l’anima sia la farfalla: il paragone è rafforzato dalla metamorfosi dell’animale che si libera dall’involucro e ne emerge con nuove ali splendide e vibranti. È certo che per gli antichi greci come per il pensiero giudaico-cristiano, la farfalla rappresenta l’anima, anche se questo significato convive accanto a quello della voluttà, del piacere-desiderio, della cupiditas presente nel nome di Cupìdo, Eros, Amore. L’immagine della farfalla-anima, è ripresa da Dante nel Purgatorio (X, 124-6); gli uomini, vuol significare il poeta, sono esseri superbi e ignoranti, transitori e difettivi, destinati però a dare vita all’anima, che invece è immortale e partecipe della natura degli angeli, e si innalza senza finzioni e senza ripari al cospetto della giustizia di Dio, e così lo dice: non v’accorgete voi che noi sian vermi nati a formar l’angelica farfalla, che vola alla giustizia sanza schermi? Accanto a questa, la farfalla-voluttà, e voluptas, si noti, è il nome della figlia che nasce dall’unione di Amore e Psiche nella favola omonima riportata all’interno delle Metamorfosi di Apuleio. Le ali della voluttà, le stesse ali di Amore anche nelle celebri opere di Canova, sono quelle che permettono a un personaggio di Mozart, cherubino, di volare di fiore in fiore, ovvero di donna in donna, ne Le nozze di Figaro, nell’aria del «farfallone amoroso», dove né Mozart né Lorenzo da Ponte avvertivano nel termine «farfallone» quell’aria un po’ greve che percepiamo noi nell’accrescitivo maschile. Un ultimo riferimento alla prima immagine, la farfalla dell’anima, anzi il baco da seta dell’anima, verrà ora proposto, sia per il suo valore intrinseco sia per aprire un varco all’ingresso dell’ultima metafora, la lira dell’anima. È l’immagine proposta da Teresa d’Avila per tentare di descrivere il cuore di quell’esperienza particolare che è l’unione mistica dell’anima umana con Dio, quella cioè di una farfalla speciale che gli antichi abitanti del Mediterraneo non conoscevano, cioè il baco da seta. La metafora/allegoria di Teresa d’Avila è contenuta in un testo intitolato Il castello interiore, dove il grande elemento simbolico, oltre al castello, è el gusano, il baco, de seda. All’inizio della storia il baco è un semino che «es a manera de granos de pimienta pequeños», simile cioè a un granellino di pepe. Che però non ho mai visto, aggiunge a sua discolpa l’autrice, perciò «se in quel che scrivo ci fosse qualche inesattezza, non è colpa mia». Col caldo, prosegue Teresa, i semini cominciano ad avere vita e ad alimentarsi delle foglie di gelso, e quando sono diventati dei robusti vermoni cominciano a filare da se stessi un filo e fanno «dei bozzoli ben compatti dove si rinchiudono» (y hacen unos capuchillos muy apretados, adonde se encierran). Nel bozzolo è la casa del gusano che è la casa dell’anima e dove l’anima vive in Cristo/Dio. Dio si fa sentire in questa forma di unione e quando il piccolo verme dell’anima, grazie all’orazione, muore alle cose dell’uomo, si cambia in una farfallina bianca: «lo stato di un’anima che esce da qui, dopo essere rimasta immersa nella grandezza di Dio e tanto unita a lui...non si riconosce». Certo che no, perché ora l’anima non è più un brutto verme ma una «mariposita blanca muy graciosa», che può volare alto, trasformata, e rendersi utile facendo del bene ad altre anime.
A Teresa d’Avila, che aveva eliminato persino le calzature dai piedi delle sue monache, non interessavano gli abiti di seta e non è sul filo di seta che si appoggia l’allegoria. Il filo però c’è perché è servito per filare il bozzolo nel quale il baco da seta, come molte altre specie di bachi, si rinserra. Come ci sono fili nel terzo oggetto o cosa su cui poggia l’ultima metafora dell’anima, dopo la scintilla e la farfalla, la lira.

Avvenire 6.7.10
Anima, le ali della psiche
Lo psichiatra Smeraldi: «Fede al vertice dell’attività cerebrale»
L’indagine clinica sui meccanismi della nostra mente e quella religiosa sulla sua tensione verso Dio non sono necessariamente contrapposte, anzi: rinunciando a facili schematismi ideologici, la collaborazione può essere proficua per entrambi i filoni
di Enrico Smeraldi


Chi pensasse che la 'scienza del­la mente' e la 'scienza dell’a­nima' irreconciliabili opposti, quasi due nemici che, nel migliore dei casi si ignorano, nel peggiore si com­battono, probabilmente ha una visio­ne stereotipata e riduttiva della realtà. L’idea di un contraddittorio tra psi­chiatra e teologia non è del tutto nuo­va: nel 1933 Adler, figura di spicco del­la nascente psichiatria dinamica, ave­va scritto un libro su questo tema con il pa­store luterano Jahn, li­bro che venne subito distrutto dal potere nazista. Anche Pierre Janet aveva progetta­to un testo sulla psi­cologia della religio­ne, purtroppo mai realizzato. Questo te­stimonia la presenza di aree di competenza comune, anche se – ed è proprio questo ad essere in­teressante – le soluzioni offerte ai que­siti sono molteplici e per il versante psi­chiatrico anche in relazione a significati e riflessioni generate dalla evoluzione scientifica. D’altra parte, il presente tentativo nasce in un ambito di clinica psichiatrica più che di psicologia.
Personalmente, oltre alla possibile col­laborazione, vedo più di un punto di contatto tra teologia e psichiatria. Vor­rei iniziare sottolineandone due. Il pri­mo è rappresentato dalle domande di fondo che entrambe si pongono. Il mondo della religione, o della teologia, quando entra in comunicazione con gli uomini, parte da alcune domande alle quali si propone di dare una rispo­sta. Sono le domande essenziali per o­gni vita umana: chi siamo, che senso ha la nostra vita, quali sono i valori sui quali si basa la nostra esistenza, qual è il destino che ci aspetta. Ebbene, que­ste stesse domande sono anche il pun­to di partenza della psichiatria. Poiché è difficile parlare con un malato che si pone problemi esistenziali – e i malati psichici se li pongono – senza con­frontarsi con questi interrogativi fon­damentali. Infatti solo gradatamente e lentamente la spiritualità viene distin­guendosi da ciò che è semplicemente psichico, come in una sorta di scala di attività mentali superiori: pensiero concettuale, volere deliberato, creati­vità artistica, riflessione filosofica e, in ultimo, esperienza religiosa.
Vi è poi un altro forte punto di contat­to tra psichiatria e teologia, che defini­rei 'della costruzione'. Intendo dire che i malati (ma l’affermazione riguar­da anche tutti noi) costruiscono psi­cologicamente la religiosità, intesa co­me continua propensione verso la sfe­ra divina e soprannaturale. In questa accezione, l’oggetto non è quindi la re­ligione in sé, ma l’intreccio di struttu­re e processi psichici attraverso i quali il soggetto, durante il percorso di co­struzione della propria identità perso­nale, si relaziona con il divino e la reli­gione che incontra nel suo ambiente sociale e culturale. Sia l’adesione di fe­de sia il rifiuto ateo può essere studiato e capito in psicologia come funzione della persona, dei suoi di­namismi intrapsichi­ci e delle loro risolu­zioni. In termini psi­cologici puri, anche una scelta di ateismo è una forma di reli­giosità.
Di là a quello che può essere il proprio credo personale, tutti si pongono il pro­blema del divino, tutti cercano qual­cosa che sfugge al controllo, che ha re­gole diverse dalla razionalità pura e semplice. Non amo la scelta in negati­vo che spesso gli psichiatri fanno, eli­minando la questione: anche se non se ne parla il problema esiste, quanto è innegabile che esiste un’esperienza re­ligiosa. E i malati psichici quell’espe­rienza la vivono e, quando possibile, ne parlano. Nella loro prospettiva la prassi psichiatrica proposta può, quin­di risultare appiattita e impoverita ri­spetto a dalle esigenze che, al contra­rio, sono spesso amplificate dai conte­nuti patologici. Così accade che quando uno psichia­tra ha una sua fede religiosa molti col­leghi lo considerano strano e gli chie­dono come fa a conciliarla con la psi­chiatria, mentire i pazienti che ne so­no consapevoli lo trovano del tutto na­turale. 


Avvenire 6.7.10
«C’è una scala di attività mentali superiori: pensiero concettuale, creatività artistica, riflessione filosofica ed esperienza religiosa»
«La sanità e lo sviluppo armonico del sé sono obiettivi comuni alle due tradizioni, quella medica e quella teologica»
Il teologo Coda: «Convergere verso il bene dell’uomo»
di Piero Coda



Quando si parla dell’anima e della mente, del loro signifi­cato essenziale e della loro interazione, credo si possa a­prire un vasto e proficuo spazio di dia­logo, tra il teologo e lo psichiatra. Ov­viamente, se e in quanto questi due concetti vengono riferiti – almeno in una prima approssimazione, biso­gnosa poi di essere adeguatamente precisata e approfondita – a due 'og­getti' di esperienze e di intelligenza certo diversi l’uno dall’al­tro e tra loro distinti, ma di cui al tempo stesso è necessario cogliere e studiare la correlazione.
Io, ad esempio, in­tendo per anima, nel senso della filosofia classica e più preci­samente, della tradizione religiosa cri­stiana, quella dimensione dell’essere umano che conferisce a esso unità e identità in virtù della sua sporgenza eccentrica, rispetto al mondo, sul mi­stero di Dio. Mentre, guardando alla psicologia nel senso moderno del ter­mine e alle neuroscienze, intendo per mente quel territorio del nostro esi­stere in cui interagiscono la sostanza materiale e biologica con quella psi­chica e cognitiva. Quando i due con­cetti sono intesi in questa prospetti­va – pur in una varietà di approcci e di comprensioni che può essere mol­to diversificata – tra il teologo e lo psi­chiatra si stabilisce un comune terre­no d’interesse di ricerca e di dialogo. E ciò – lo esprimo dal mio punto di vi­sta – innanzitutto perché il teologo si occupa di una tradizione di origine religiosa e di natura religiosa che ha una finalità precisa: quella di essere al servizio della maturazione e della rea­lizzazione integrale della persona, guardando alla decisività del suo rap­porto con Dio e, in Dio, con tutto il re­sto. Il che – per quanto concerne la sanità e lo sviluppo armonico del sé – è anche lo scopo della psichiatria. Il teologo cristiano in realtà muove dal­l’esperienza di fede in un evento che è, allo stesso tempo, per lui inaudito, e umanissimo: il farsi uomo del figlio di Dio, Parola del Padre rivolta defi­nitivamente al mondo, che dischiu­de all’uomo l’orizzonte realistico e in­tegrale della sua straordinaria voca­zione. Di conseguenza, tutto ciò che vi è di autenticamente umano, ha per il teologo un significato immensa­mente importante: proprio perché Gesù, in esso si apre e si compie nel­la relazione al divino, che come tale lo rispetta e lo introduce in una at­tuazione di sé che colma le sue aspi­razioni più originarie e radicali. D’al­tra parte, il teologo vede con grande interesse quel profilo nuovo e speci­fico di lettura dell’esperienza antro­pologica che la tradizione psicoana­litica e psichiatrica hanno rinvenuto, e di cui diventa importante e prezio­so avvalersi per approfondire la co­noscenza di quel mi­stero che l’uomo è a se stesso, e delle di­namiche della sua avventura.
Una teologia che sia autenticamente teo­logia, se non altro per i due motivi non ap­pena enunciati, deve quindi essere positi­vamente attenta al­l’apporto che viene dalla ricerca e dal­le acquisizioni dello psicoanalista o dello psichiatra. Essendo al tempo stesso consapevole dell’apporto ori­ginale e indispensabile che essa è chiamata in prima persona a offrire nella decifrazione del mistero del­l’uomo. Un apporto che, a ben vede­re, si indirizza in una duplice direzio­ne. Da un lato, di incontra con un ap­proccio filosofico e metafisico all’e­sistenza umana che lo vede irriduci­bile ai dinamismi materiali, psichici e sociali in cui si incarna: perché fon­data da e aperta a un’esperienza del trascendente. E, dall’altro, si sviluppa secondo una modalità specifica in quando nasce dall’intelligenza di ciò che rappresenta per l’esistenza uma­na l’esperienza inedita che ha fatto irruzione nella storia con l’evento di Gesù Cristo, esperienza che continua a vivere e a dare frutti nella pratica di coloro che condividono come Chie­sa la sequela di Gesù.

lunedì 5 luglio 2010

l’Unità 5.7.10
Intervista a Amos Luzzatto
«Non giriamo la testa. L’indifferenza è un virus, lo dimostra la Shoah»
«Noi ebrei abbiamo sperimentato sulla nostra pelle il principio nefasto del non tocca a me»
L’ex presidente degli ebrei italiani: «Giusto l’appello dell’Unità. L’immigrazione non è un fatto di ordine pubblico. Servono ponti e non Muri»
di U.D.G.

L’indifferenza. Il voltare la testa dall'altra parte “tanto non tocca a me...”, tutto questo noi ebrei lo abbiamo sperimentato sulla nostra pelle con la Shoah. L'indifferenza è un virus letale per la coscienza civile di un individuo, di una comunità, di un Paese. E lo è anche pensare che il tema dell'immigrazione sia in primo luogo un problema di ordine pubblico e non invece, come dovrebbe essere, un problema di soccorso pubblico; d'integrazione e non di respingimenti, di “ponti” da realizzare e non di “muri” da innalzare. Ed è per tutto ciò che trovo lodevole e condivisibile l'iniziativa assunta da l'Unità a favore dei 245 cittadini eritrei detenuti, in condizioni degradate e degradanti, in un carcere libico». Ad affermarlo è una delle figure più rappresentative dell'ebraismo italiano: Amos Luzzatto. «Occorre afferma l’ex presidente dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane sviluppare una iniziativa che metta l’accoglienza ai bisognosi al centro della nostra attenzione e al centro anche degli accordi internazionali che l’Italia sottoscrive». In questa battaglia di civiltà, rileva Luzzatto, un ruolo di primo piano devono averlo i media che «non sono solo espressione dell’opinione pubblica ma al tempo stesso la formano». Duecentoquaranta esseri umani, tra i quali donne e bambini, sono da giorni detenuti in condizioni disperate, sottoposti a violenze fisiche e psicologiche, in un lager libico. Cosa c'è dietro l'indifferenza che circonda questa tragedia?
«C'è il principio, nefasto, che non tocca a me e quindi giro la testa dall'altra parte; un modo di pensare e di
agire che ha avuto il suo peso ai tempi delle deportazioni della Shoah. È un clima, un atteggiamento che non sono ancora passati. L'indifferenza alimenta il pregiudizio e viceversa. Per questo ritengo che un appello all' opinione pubblica quale quello lanciato da l'Unità sia importante e doveroso sostenerlo, soprattutto se è vero che si tratta di persone che, almeno in parte, avrebbero diritto all' asilo politico».
L'indifferenza si rispecchia anche, tranne lodevoli eccezioni, anche sui media. «Un fatto davvero preoccupante. I media, al tempo stesso, esprimono e formano l'opinione pubblica. Sottovalutare o addirittura tacere su eventi drammatici come questo non contribuisce certo a formare una coscienza civica più matura e aperta». Questa indifferenza significa che i più deboli, gli indifesi, fanno meno notizia di altro e altri...
«Non si tratta solo dei più deboli. Si tratta di tutti coloro che non hanno influenza su quello che si ritiene essere l'interesse concreto e materiale del nostro Paese».
Ma non è nell'interesse del nostro Paese salvaguardare i diritti umani in Paesi, come la Libia, con cui l'Italia ha sottoscritto un Accordo di cooperazione?
«Sì, dovrebbe esserlo...».
Ma cosa lo impedisce?
«Due cose: la prima, inafferrabile, è la cultura con la quale si analizza e si reagisce alle notizie internazionali. Questa cultura generale, anch'essa in buona parte indotta, induce molto spesso all'indifferenza e ad una malintesa neutralità. C'è poi un secondo aspetto sul quale ho difficoltà a pronunciarmi...». In cosa consiste questo aspetto? «C'è da chiedersi fino a che punto la nostra politica estera presti attenzione a fatti come quello che l'Unità ha contribuito a far emergere».
La vicenda dei 245 cittadini eritrei riporta di attualità il tema dell'immigrazione. È pensabile poter affrontare e risolvere questo fenomeno solo in termini di ordine pubblico e di sicurezza?
«Direi proprio di no. E lo dico non sottovalutando affatto la questione della sicurezza. Il fenomeno dell'immigrazione non è prioritariamente un problema di ordine pubblico, ma di soccorso pubblico. Finché non si opera questo cambiamento profondo di angolo di giudizio, problemi come quello di cui stiamo parlando, si moltiplicheranno».
Solidarietà. E un termine che ha ancora un senso compiuto, reale, un suo diritto di cittadinanza in Italia? «Io credo di sì, ma ritengo anche che non trovi ancora i canali più adeguati per esprimersi in maniera efficiente, incisiva. È un problema di canali di comunicazione e di iniziativa da costruire, mettendo l'accoglienza ai bisognosi al centro della nostra attenzione e anche degli accordi internazionali che l'Italia sottoscrive».

l’Unità 5.7.10
«Italiani, ribellatevi. O sarete responsabili come nelle colonie»
Dagmawi, protagonista del film di Segre «Come un uomo sulla terra», racconta in prima persona l’inferno della Libia
di Dagmawi Yimer

Mi appello al governo italiano e a quello libico, in nome di tutti gli eritrei, i somali e gli etiopi che in questo momento stanno soffrendo in Libia. So benissimo cosa vuol dire essere nelle mani della polizia libica. Uso le ultime parole che mi rimangono, perché anche le parole finiscono quando non avviene nessun cambiamento. Io l'ho vissuto sulla mia pelle: i maltrattamenti nelle carceri libiche, gli schiaffi, le bastonate, gli insulti dei poliziotti libici. Anche io sono stato deportato dentro un container, durante un giorno e mezzo di viaggio, verso il carcere di Kufrah, con altre 110 persone, ammucchiate come sardine. Con noi c'erano anche otto donne e un bambino eritreo di quattro anni. Si chiamava Adam. Chissà che fine ha fatto quel bambino, chissà se è riuscito a salvarsi dalla trappola italo libica, chissà se sua mamma non è stata violentata dai poliziotti libici davanti a lui... Se è sopravvissuto, ormai avrà otto anni, e comincerà a capire piano piano che razza di mondo è riservato a lui e a tanti altri come lui.
Veniamo da paesi dove l'Italia non ha ancora fatto i conti con i suoi massacri durante il periodo coloniale e dove ancora oggi, dopo mezzo secolo, usa i libici per combattere gli eritrei, come all'epoca delle colonie usava gli eritrei per combattere i libici. È vero che la libertà di questi miei fratelli minaccia il benessere dei cittadini europei? È vero quindi che un accordo per il gas e il petrolio vale di più delle vite umane e della loro libertà naturale? Perché l'Italia, da paese civile, non ha previsto nell'accordo con la Libia il minimo rispetto dei diritti "inviolabili" degli esseri umani invece di chiudere un occhio e vantarsi di aver bloccato l'emigrazione via mare? Mi ricorda la stessa ipocrisia con cui Mussolini fece credere al suo popolo che l'Italia avesse stravinto sugli abissini senza dire nulla sui mezzi che avevano portato a quelle vittorie, ovvero tonnellate e tonnellate di gas utilizzate senza pietà per sterminare i civili. Il tono del governo è lo stesso, oggi come allora, ed è la stessa la reazione della gente.
Se ripenso a Adam il bambino di quattro anni che era con noi sul container, mi chiedo: quale era la sua colpa? Mi ricordo che ogni tanto l'autista del container (Iveco) si fermava per mangiare o per i suoi bisogni, mentre 110 persone urlavano per il caldo infernale del Sahara, per la mancanza d'aria, che a malapena entrava mentre il camion era in movimento. Il piccolo Adam lo tenevamo vicino al buco da dove entrava un po' d'aria da respirare... mentre chi si trovava in fondo al container si agitava disperatamente, urlava, piangeva. È possibile vedere ancora deportazioni di massa dentro i container?
Quando ci hanno arrestato poi, i libici non ci hanno chiesto perché fossimo in Libia e cosa volessimo. Eravamo semplicemente la preda dei poliziotti, eravamo donne da stuprare e uomini da bastonare. Pochi giorni fa ho incontrato una persona che lavora a Tripoli e mi ha detto che tra gli ultimi respinti in mare verso la Libia c'era una ragazza di 22 anni che è stata violentata dai poliziotti libici appena arrestata. Alla fine è riuscita a evadere, corrompendo una guardia, ma ora è incinta e non vuole far nascere un figliastro di cui non conosce nemmeno il padre... Perché tutto questa indifferenza verso la sofferenza degli altri, oltretutto provocata dall'Italia stessa? Dov'è la "civiltà" di un paese che finanzia un soggetto terzo per eseguire il lavoro sporco e lavarsene le mani come Pilato? Quando smetterà l'Italia di essere il "mandante" di queste violenze?
Guarda caso poi, dopo la "deportazione" i poliziotti libici ci vendettero per 30 dinari a testa (circa 18 euro) agli intermediari che poi ci riportarono sulla costa.
Anche noi abbiamo dei genitori che piangono pensando alle sofferenze che viviamo. Ma anche noi avremo giustizia per tutto quello che stiamo subendo. Oggi paghiamo il prezzo che i vostri governi hanno deciso di pagare per far godere al "popolo" la sicurezza energetica. Ma le lacrime e il sangue versato non saranno dimenticati. Uso le ultime parole che mi sono rimaste, l'ultima energia dopo due anni di battaglia su questo tema ma spero di poterlo avere ancora. Ho girato l'Italia, partecipando a centinaia di incontri e di proiezioni (di "Come un uomo sulla terra", ndr.) e ringrazio tutti coloro che mi hanno fatto vedere la loro indignazione e la loro vergogna di essere rappresentati da questi governi ipocriti.
Ma mi chiedo: se io che grido da qui non ho ascolto, figuriamoci i miei fratelli che stanno nella bocca del lupo. Ma continuo a gridare lo stesso e dico: Italia tu che sei civile e potente guarda queste persone e ricordati cosa hai fatto ai loro nonni.

Repubblica 5.7.10
L´incoerenza e il paradosso ecco il sale della vita
di Salman Rushdie

Perché i paradossi sono il sale della vita. E della letteratura
Anticipiamo il testo che lo scrittore leggerà il 10 luglio alla Milanesiana Un omaggio alla ricchezza nascosta nelle nostre incoerenze

Nella commedia di Tom Stoppard, Jumpers, il personaggio eponimo, il filosofo Sir Archibald Jumpers, chiede ai suoi studenti perché, secondo loro, la gente credeva che il sole girasse attorno alla terra. Uno di loro risponde che forse è perché sembra che sia il sole a girare attorno alla terra. "E come sarebbe," gli chiede Sir Archibald, "se sembrasse che fosse la terra a girare attorno al sole?" Si tratta di una splendida battuta che sortisce il suo effetto a scoppio ritardato, suscitando una risata sempre più fragorosa man mano che il pubblico si rende conto che sarebbe esattamente la stessa cosa, perché, dopo tutto, è proprio quello che sta succedendo. È la risata del paradosso, senza il quale la letteratura, e la vita, sarebbero gravemente menomate; a dire il vero, alcuni critici hanno affermato che il legame fra la poesia e il paradosso è talmente intimo che sono la stessa cosa.
La storia del paradosso comincia con la Bibbia, dove l´idea del concepimento verginale incarna la natura paradossale della fede, e continua fino a oggi, dove la più superficiale delle ricerche sulla letteratura della cultura pop rivela studi sul "Paradosso dei Beatles" (e cioè che erano giovani ribelli che entrarono rapidamente a far parte dell´establishment ricevendo l´onorificenza di membri dell´ordine dell´Impero britannico).
Nonché sul "Paradosso di Oprah Winfrey" (ovvero il fatto che, mentre dispensa consigli sulle nostre vite, come se fosse una componente della nostre famiglie, rimane distaccata, misteriosa ed estranea) e sul "Paradosso di Eminem" (ossia il fatto che è e allo stesso tempo non è il vero Slim Shady).
Don Chisciotte è un paradosso in sella a un cavallo sfiancato, il cavaliere errante le cui peregrinazioni smontano l´idea stessa di cavaliere errante, il cavalleresco idiota la cui follia rivela la follia più grande dell´ideale cavalleresco. Il detective Erik Lönnrot nel racconto di Borges La morte e la bussola risolve l´enigma di una misteriosa serie di omicidi e capisce dove e quando avverrà l´omicidio successivo, solo per scoprire, troppo tardi per potersi salvare, che sarà la prossima vittima e che gli altri crimini sono stati commessi per condurlo sulla scena del delitto. Oscar Wilde, che disse di poter resistere a tutto eccetto che alla tentazione, incarna i paradossi dell´edonismo. E nel romanzo di Joseph Heller Gold!, il personaggio dell´assistente presidenziale, Ralph Newsome, l´avatar delle disonestà in politica, parla esclusivamente per ossimori, frasi la cui fine contraddice l´inizio: «Questo Presidente vi appoggerà finché dovrà». «Vogliamo andare avanti il più velocemente possibile con questa faccenda, anche se dovremo procedere lentamente». «Questo Presidente non vuole dei leccapiedi. Ciò che vogliamo sono uomini indipendenti e integri che, una volta che avremo preso le nostre decisioni, concorderanno con ognuna di esse».
A mio avviso, il paradosso più bello è la famosa espressione verso la fine di Il canto di me stesso di Whitman.

Forse che mi contraddico?
Benissimo, allora vuol dire che mi contraddico.
(Sono vasto, contengo moltitudini.)

Salem Sinai, verso l´inizio del mio romanzo I figli della mezzanotte, evoca questa idea nella dichiarazione di ispirazione volutamente whitmaniana: «Per comprendermi, dovrete anche voi inghiottire tutto quanto». Il romanzo che segue costituisce il tentativo di attenersi alle istruzioni di Salem e di inghiottire, se non il mondo, almeno un subcontinente.
La natura umana è contraddittoria, e l´io umano è una cosa capiente e multiforme, «un mostro caotico e informe», se posso appropriarmi della descrizione di Henry James di alcuni generi di romanzo. Noi possiamo avere, e abbiamo, molte personalità simultaneamente; possiamo mostrarci dolci coi nostri figli, ma duri coi nostri dipendenti, possiamo amare Dio e odiare gli esseri umani, possiamo preoccuparci per l´ambiente e ciononostante lasciare le luci accese quando usciamo di casa, possiamo essere persone tranquille che la passione per la squadra del cuore trasforma in individui aggressivi e ogni tanto persino in hooligan. E per quanto possiamo desiderare fortemente difendere la sovranità del nostro io individuale – un´idea nata nel Rinascimento fiorentino che forse rappresenta il dono più grande dell´Italia alla civiltà mondiale – in realtà quell´io è sovrano e al tempo stesso invaso da altre personalità. È sia autonomo che non autonomo. Nessuno di noi viene al mondo con la testa vuota. Portiamo con noi il bagaglio del nostro patrimonio, sia biologico che culturale, ed esso ci limita e al contempo ci apre delle possibilità, ci paralizza e al contempo ci affranca. Possiamo ritenerci liberi di scegliere, e moralmente responsabili delle nostre scelte, ed è giusto considerarci tali, ma non tocca solo a noi stabilire il modo in cui elaboriamo quelle scelte, e proprio quelle particolari scelte che sentiamo di dover fare.
Pertanto siamo creature paradossali, sia individuali che sociali, sia del nostro tempo che immerse nel flusso della storia. Siamo mortali ma, come la Cleopatra di Shakespeare, nutriamo desideri immortali; e la contraddizione è la nostra linfa vitale. Si possono trarre grandi benefici sociali da queste ampie definizioni dell´io, perché maggiore è il numero delle individualità che abitano il nostro io, più facile sarà trovare un punto d´incontro con altre nature umane multiple e molteplici. Possiamo essere di fedi diverse ma tifare per la stessa squadra. Tuttavia viviamo in un´epoca in cui siamo esortati a ridurre e limitare sempre di più la nostra individualità, a comprimere la nostra multidimensionalità dentro la camicia di forza di un´identità nazionale, etnica, tribale o religiosa a una dimensione. Ora che ci penso, questo potrebbe essere il male da cui hanno origine tutti gli altri mali del nostro tempo. Perché quando soccombiamo a un tale rimpicciolimento, quando permettiamo una semplificazione per cui diventiamo meramente serbi, croati, musulmani, indù, allora per noi diventa facile riconoscere nell´altro l´avversario, il Diverso, e i punti cardinali stessi della bussola cominciano ad azzuffarsi, Est e Ovest si scontrano, così come Nord e Sud.
La letteratura non ha mai perso di vista ciò che il nostro rissoso mondo cerca di costringerci a dimenticare. La letteratura si pasce della contraddizione, e nei romanzi e nelle poesie noi cantiamo la nostra complessità umana, la nostra capacità di essere, simultaneamente, sia sì che no, sia questo che quello, senza avvertire il minimo disagio. L´equivalente arabo dell´espressione «c´era una volta» è «kan ma kan», che tradotto significa: «Era così, non era così». Questo grande paradosso è alla base di tutte le opere di narrativa. La narrativa è esattamente quel luogo in cui le cose sono così e non sono così, in cui esistono mondi in cui crediamo profondamente pur sapendo che non esistono, non sono mai esistiti e mai esisteranno. E questa bella complicazione non è mai stata tanto importante quanto nella nostra epoca di eccessiva semplificazione.
I diritti sono stati assolti dalla Milanesiana. © 2010, Salman Rushdie.
Published by arrangement with The Wylie Agency (traduzione di Licia Vighi)

Repubblica 5.7.10
Il Belpaese della disuguaglianza metà ricchezza al 10% degli italiani
La crisi ha aumentato le distanze sociali. Classe media frantumata
Peggio di noi, tra le nazioni svilup-pate, solo Messico Turchia, Portogallo Usa e Polonia
Al Lazio il primato della regione più diseguale d´Italia Il Friuli quella messa meglio
Gli italiani più ricchi hanno un reddito dodici volte superiore a quello dei più poveri
di Roberto Mania

ROMA - Don Paolo Gessaga la spiega così, quasi con uno slogan pubblicitario: «La povertà non è più "senza fissa dimora"». La povertà è accanto a noi. Diffusa e afona, al pari della diseguaglianza. «È meno apparente, ma è più profonda», aggiunge il sacerdote che ha fondato la catena degli empori della Caritas. Dalla sua parrocchia di San Benedetto in via del Gazometro a Roma, nel quartiere popolare Ostiense, questo cinquantenne arrivato dal varesotto, vede, e tocca, da vicino le nuove povertà e le nuove diseguaglianze, coda velenosa della Terza Depressione mondiale come l´ha chiamata il premio Nobel per l´economia Paul Krugman. La crisi ha accentuato le diseguaglianze e frantumato anche la middle class italiana. Siamo diventati tutti americani. E l´Italia, in termini di reddito, è un paese sempre più diseguale: ricchi e poveri, giovani e anziani, uomini e donne, nord e sud. L´eguaglianza non c´è più, né si ricerca, e le distanze si allargano. Lo dice Don Paolo, lo certificano l´Ocse e la Banca d´Italia. Peggio di noi, tra le nazioni cosiddette sviluppate, solo il Messico, la Turchia, il Portogallo, gli Stati Uniti e la Polonia.
E forse non è neanche più un caso che l´indice per misurare il tasso di diseguaglianza nella distribuzione del reddito sia stato definito nel secolo passato da uno statistico-economista italiano: Corrado Gini. Forse era già quello un segno premonitore. Ecco, il "coefficiente Gini" ci dice quanto siamo peggiorati. E peggioreremo ancora se è vero che la discesa ha subito un´accelerazione con la recessione precedente, quella dei primi anni Novanta. Meno profonda di questa e più celere nell´abbandonarci, però. «L´esperienza del 1992-93 quando l´economia italiana attraversò una fase severamente negativa, suggerisce che a una crisi economica può seguire un persistente aggravamento della diseguaglianza», ha scritto l´economista della Sapienza di Roma Maurizio Franzini, nel suo recente libro "Ricchi e poveri" (Università Bocconi editore). Basterà aspettare i prossimi mesi.
Più basso è l´indice Gini più eguale è la società. Il nostro indice Gini arriva a 35. In Polonia è 37, negli Stati Uniti 38, in Portogallo 42, in Turchia 43 e in Messico 47. La Francia ha un coefficiente del 28 per cento e la Germania, nonostante gli effetti della riunificazione est-ovest, è al 30. In alto i paesi dell´uguaglianza, l´Europa del nord: la Danimarca e la Svezia con un coefficiente Gini del 23 per cento.
C´è anche un altro modo per misurare la diseguaglianza, dividendo la popolazione in decili: il 10 per cento più ricco e il 10 per cento più povero per poi calcolare quante volte il reddito del primo gruppo supera il secondo. Anche qui siamo messi male, malissimo: gli italiani più ricchi hanno un reddito superiore di dodici volte quello dei più poveri. Certo, in Messico questo rapporto sale a 45, ma nella vecchia Europa ci supera solo la Gran Bretagna con un rapporto che sfiora il 14, mentre la Germania è al 6,9, la Spagna al 10,3, la Svezia al 6,2. Conclusione di una ricerca dell´Ires appena uscita ("Un paese da scongelare", di Aldo Eduardo Carra e Carlo Putignano, edito da Ediesse): «In Italia i ricchi sono più ricchi, il ceto medio è più povero e i poveri sono molto più poveri». E così, in un decennio le diseguaglianze si sono accresciute di oltre cinque punti. Il coefficiente Gini era 29 nel 1991, poi è salito al 34 nel 1993. E ora - si è visto - è al 35. Ma nulla fa pensare che si fermi lì. Anzi: tutto fa pensare il contrario. Altri paesi - la Spagna, per esempio - si sono mossi in direzione esattamente opposta.
La ricchezza è saldamente nelle mani di pochi e lì ci rimane, impedendo la mobilità sociale, condizionando le carriere, costruendo pezzo per pezzo una parte della nostra gerontocrazia. Secondo l´ultimo dato della Banca d´Italia contenuto nella periodica indagine su "I bilanci delle famiglie italiane", il 10 per cento delle famiglie più ricche possiede quasi il 45 per cento dell´intera ricchezza netta delle famiglie. Un livello rimasto sostanzialmente invariato negli ultimi quindici anni.
Partecipiamo non sempre consapevolmente a un processo di divaricazione che spinge la classe media verso il basso, i super-ricchi verso l´alto e affonda i più poveri. «Che oggi sono anche in giacca e cravatta, basta guardare come sono cambiate le persone che almeno una volta al giorno vengono a mangiare alla Caritas», racconta Don Paolo da quello che è un osservatorio strategico anche perché Roma è fondamentale nell´attribuire al Lazio il primato negativo della regione più diseguale d´Italia con il 33,9 di coefficiente Gini. Pesano, nella Capitale, ma non solo qui, il caro-casa e la precarietà del lavoro. In alto, la regione italiana dell´eguaglianza è il Friuli Venezia Giulia, regione a statuto speciale, laboriosa e dal benessere diffuso. L´eguaglianza è anche questo. E, probabilmente, è anche uno dei fattori che porta la provincia di Trieste a un triplo primato: l´età media più elevata tra le province del nord-est, la più alta percentuale di anziani oltre il 65 anni (30,2 per cento), e l´incidenza più elevata di residenti con 80 anni e più (11,2 per cento). Anche nel 2028 - secondo la Fondazione Nord-Est - Trieste manterrà i primati. Perché l´eguaglianza - è la tesi originale che Richard Wilkison e Kate Pickett illustrano nel loro "La misura dell´anima" (Feltrinelli) - migliora «il benessere psicologico di tutti noi». Di più, secondo i due studiosi: «Tanto la società malata quanto l´economia malata hanno le proprie origini nell´aumento della diseguaglianza». E infatti due economisti come Jean-Paul Fitoussi e Joseph Stiglitz pensano che all´origine della grande crisi provocata dai mutui subprime ci sia proprio l´aumento delle diseguaglianza che, ad un certo punto, ha fatto implodere il sistema finanziario.
Di certo tra i frutti di questa "economia malata" ci sono i working poor, i lavoratori poveri, più tute blu che colletti bianchi, ma ci sono anche - lo abbiamo visto - gli impiegati, la classe di mezzo. Un fenomeno che in Italia non avevano ancora conosciuto in queste dimensioni ma che è anch´esso conseguenza di una diseguaglianza crescente. Tra gli operai i "poveri" sono il 14,5 per cento. Percentuale che si impenna fino a sfiorare il 29 per cento nelle regioni meridionali. Il "caso Pomigliano" ha fatto riscoprire la classe operaia e anche la distanza abissale di reddito tra l´amministratore delegato della Fiat, Sergio Marchionne, e i suoi turnisti: il primo guadagna 435 volte di più dei secondi.
Nemmeno la recessione è stata, ed è, uguale per tutti. I giovani stanno pagando più caro. È l´Istat che lo certifica nel suo Rapporto annuale: «La crisi ha determinato nel 2009 una significativa flessione dei giovani occupati (300 mila in meno rispetto all´anno precedente), i quali hanno contribuito per il 79 per cento al calo complessivo dell´occupazione». Un giovane su tre è senza lavoro. Un giovane - ricordano Tito Boeri e Vincenzo Galasso nel loro "Contro i giovani" (Mondadori) - guadagna il 35 per cento in meno di chi ha tra i 31 e i 60 anni (era il 20 per cento negli anni Ottanta). Ecco: così, partendo dal basso, si costruisce un paese diseguale.

Repubblica 5.7.10
Bruxelles, appello del ministro della Giustizia Stefaan De Clerck
"La Chiesa deve risarcire le vittime dei preti pedofili"

BRUXELLES - La chiesa belga deve prendere iniziative per incontrare le vittime degli abusi sessuali commessi da preti, e per risarcirle in modo adeguato. È quanto chiede il ministro uscente della Giustizia Stefaan De Clerck. Il risarcimento «potrebbe essere un indenizzo pecuniario, ma la Chiesa dovrebbe studiare caso per caso il modo migliore per dare alle vittime un risarcimento di quanto hanno subito», ha dichiarato De Clerck al quotidiano fiammingo «Het Nieuwsblad». Il ministro riferisce che la grande maggioranza dei 475 dossier sequestrati durante le ultime perquisizioni, il 24 giugno scorso negli uffici della commissione Adriaenssens (creata nell´ambito della chiesa per il trattamento delle vittime di pedofilia) riguarda fatti che risalgono a 30, 40 e 50 anni. Fatti che quindi non possono essere perseguiti dalla giustizia in quanto reati prescritti. Per De Clerck dunque è la Chiesa che dovrebbe assumere l´iniziativa di andare incontro alle vittime: «Se non è possibile applicare la giustizia, la Chiesa deve incontrare le vittime, testimoniare loro rispetto e confessare gli errori commessi», suggerisce De Clerck. Ciò può essere fatto in modi diversi: con la punizione dei preti colpevoli, il loro licenziamento, il versamento di un indennizzo alla vittima. «Gli abusi sessuali su bambini non potranno mai essere cancellati, ma un risarcimento economico - rileva De Clerck - potrà favorire il processo di riparazione».
Una posizione, quella di De Clerck, condivisa da gran parte dei magistrati belgi, molti dei quali sospettano che la Chiesa fiamminga abbia voluto sistematicamente coprire i sacerdoti pedofili. Intanto è stato confermato che il cardinale Godfried Danneels, ex primate del Belgio, sarà presto interrogato. Durante il blitz della polizia del 24 giugno scorso all´arcivescovado di Bruxelles, era stata perquisita infatti anche l´abitazione di Danneels, in carica dal 1979 al 2009. Danneels sarebbe chiamato in causa per il caso di abuso di un minore da parte del vescovo di Bruges, Roger Vangheluwe.

Repubblica 5.7.10
Ora anche il divorzio può diventare contagioso
di Enrico Franceschini

Lo afferma una ricerca dei sociologi e degli psicologi delle università di Harvard, Brown e California Aumenta fino al 75 per cento la probabilità di dirsi addio quando parenti o conoscenti fanno altrettanto

Separarsi è contagioso si imitano gli amici single
Il test durato 32 anni su un campione di entrambi i sessi ha dimostrato che le coppie sono meno condizionate in presenza di figli

Chi va con lo zoppo, impara a zoppicare, afferma il vecchio proverbio. Vale anche per chi va con i divorziati. Avere un amico, parente o collega che divorzia, aumenta considerevolmente la probabilità che una coppia si separi, secondo uno studio scientifico pubblicato in questi giorni.
In altre parole, sostengono gli autori della ricerca, il divorzio è «contagioso»: proprio come un virus. Condotto da sociologi e psicologi di tre importanti università americane (Harvard, Brown e la University of California), lo studio ha riscontrato che il divorzio di un amico intimo o di un parente stretto accresce di un incredibile 75 per cento le chances di divorziare tra chi lo conosce. Il divorzio di un «amico di un amico», di un conoscente, di un collega che si conosce solo di vista, aumenta la probabilità di divorziare del 33 per cento. La presenza dei figli ha un effetto moderatore su questa forma di «contagio sociale», come la definiscono gli scienziati statunitensi: l´influenza di un divorzio nella cerchia ristretta di amici si riduce in proporzione al numero di bambini che una coppia ha. Insomma, più figli si hanno, minore è l´effetto di vedere che amici e colleghi si separano. Il divorzio non ha bisogno di avvenire nelle vicinanze: anche la fine di un matrimonio a migliaia di chilometri di distanza, ma in una coppia di amici o parenti, può spingere a fare altrettanto.
Gli studiosi americani hanno basato le loro rivelazioni su statistiche riguardanti un ampio gruppo di persone di entrambi i sessi per un periodo di ben 32 anni. «Il divorzio andrebbe studiato e compreso come un fenomeno collettivo che si estende ben al di là di coloro che ne rimangono direttamente coinvolti», si conclude la ricerca, diretta da Rose McDermott, James Fowler e Nicholas Christakis, docenti di sociologia e psicologia nelle tre prestigiose università americane. Commentando lo studio, un giornale britannico, l´Observer, trova un immediato riscontro della teoria in un noto gruppo di amici: il «Primrose Hill set», ossia il gruppo di attori, cantanti e celebrità, tutti sposati, che vivevano nel quartiere alla moda di Primrose Hill, a Londra. Jude Law e Sadie Frost, Noel Gallagher e Meg Mathews, Liam Gallagher e Patsy Kensit, «avevano tutto, erano ricchi, belli, famosi e ottimi amici», osserva il domenicale, «eppure oggi nessuno di loro è ancora in coppia». Liam Gallagher e Patsy Kensit hanno divorziato nel 2000, Noel Gallagher e Meg Mathews nel 2001, Jude Law e Sadie Frost nel 2003. Si può obiettare che le celebrità divorziano più spesso. Ma la teoria del «divorzio contagioso» trova un´altra conferma nel comportamento di tante coppie sposate che, quando qualcuno dei loro amici si separa, interrompono ogni rapporto con i divorziati e in generale si guardano bene dall´invitare a cena dei single divorziati. Finora si pensava che fosse per non avere un «cattivo esempio» (o una piacevole tentazione) davanti agli occhi. Adesso è chiaro: cercano disperatamente di evitare il contagio.

l’Unità 5.7.10 pag.3
5 risposte da Nichi Vendola
di Camilla Furia

Presidente Regione Puglia
1. Manovra economica
In Italia abbiamo toccato quota 120 miliardi di euro di evasione fiscale e 60 miliardi di corruzione. E il Governo si accanisce sul mondo degli invalidi e su chi si stava affacciando alla finestra per andare in pensione.
2. Lavoro pubblico
Il Governo si accanisce sui lavoratori statali che prendono 1.200 euro al mese. Si accanisce sul welfare. Mette le dita negli occhi dei più poveri.
3. Recessione
Questa manovra è terribilmente iniqua e recessiva perché non chiama in causa i grandi patrimoni, le grandi rendite.
4. Crisi
Questa crisi che il Governo Berlusconi nasconde da due anni, ma che l’Istat ha ben fotografato, quando terminerà avrà lasciato sull’asfalto una vittima; un’intera generazione che rischia di non trovare più una collocazione nel mondo produttivo.
5. Deporre le armi
Le dispute introspettive all’interno delle tante sinistre non hanno più senso. Bisogna deporre le armi di una contesa intestina e nevrotica per armarsi d’intelligenza e capire il perché della sconfitta civile, culturale e sociale della sinistra per mettere in piedi il cantiere dell’alternativa a un berlusconismo che declina ma che può fare ancora molti danni al Paese.