giovedì 8 luglio 2010

l’Unità 8.7.10
Intervista a Massimo Cialente
«Picchiati senza ragione. Il percorso era concordato»
di Jolanda Bufalini

Il sindaco de L’Aquila «In testa alla manifestazione vecchi e famiglie Non chiediamo privilegi. Schifani è rimasto stupito dai nostri problemi»

È la fine di una giornata campale: in testa al corteo, le botte, i posti blocco. Poi l’incontro con il presidente del Senato e quello con i capigruppo di maggioranza e opposizione. Intanto c’è stato l’impegno in piazza del segretario del Pd Bersani: «Per noi L’Aquila è la priorità». Il sindaco de L’Aquila Massimo Cialente sdrammatizza, prendendo in giro l’onorevole Giovanni Lolli, che si è preso una manganellata mentre il corteo era bloccato sotto palazzo Grazioli , e prende in giro anche se stesso: «Mia moglie al telefono ha detto che me ne hanno date poche». Intanto però aspetta notizie. La capogruppo del Pd Anna Finocchiaro, ieri mattina, ha richiesto un incontro sulla vicenda delle tasse che i terremotati dovrebbero, ricominciare a pagare in toto dal 1 ̊ gennaio. «Berlusconi dovrebbe parlarne con Tremonti ma Tremonti non si trova». Dal vertice Pdl a palazzo Grazioli, mentre da sotto arrivava il rumore della protesta, la risposta è stata «valuteremo». A sera, in extremis, palazzo Chigi annuncia che le tasse saranno diluite in dieci anni. Sindaco, si è fatto male? Oggi si è trovato anche di fronte ai manganelli. «No, io sono un po’ acciaccato ma niente di grave, mi dispiace per i ragazzi che si sono presi le manganellate. Eravamo in testa al corteo davanti al posto di blocco. Per mediare, calmare gli animi. Poi c’è stata una carica e le manganellate. Mi dispiace anche per Giovanni Lolli (deputato aquilano del Pd, ndr) che sotto a palazzo Grazioli si è preso una manganellata sulla spalla. Non mi sarei mai aspettato una cosa del genere». Siete arrivati in cinquemila con i pullman. «È il popolo aquilano, gente di tutte le età, c’erano tutti, dagli industriali al sindacato di polizia, professori di scuola e presidi di facoltà, professionisti , istituzioni e sindaci dei paesi colpiti dal sisma, tanti ragazzi , donne e anziani».
Però c’erano i posti di blocco e ci sono state le manganellate. «Io avevo scritto e ho le carte: il percorso da piazza Venezia a Montecitorio passando da piazza di Pietra. Ho i documenti e avevo specificato che ci sarebbero statti vecchi e famiglie, tanto che avevo chiesto ad Alemanno, che lo ha concesso, di far fermare i pullman il più vicino possibile, a piazza Santi Apostoli. Se Marroni le vuole, glie le faccio vedere».
E invece?
«Invece ci hanno menato. Il presidente del consiglio aveva detto che non avrebbe mandato a L’Aquila più nessuno della Protezione civile perché qualche mente fragile avrebbe potuto usare la violenza. Ora sono io che mi trovo a dire agli aquilani di fare attenzione, che a Roma c’è qualche mente fragile che picchia i terremotati».
Come è andato l’incontro con il presidente del Senato, Schifani?
«Mi è sembrato colpito quando gli abbiamo spiegato di questa spada di Damocle che ci pende sulla testa: con il pagamento del 100 per cento di tasse, tributi e arretrati un operaio con una busta paga di mille euro si trova a pagare 240 euro al mese». Cosa avete ottenuto?
«C’è la proposta di Anna Finocchiaro, di diluire in 10 anni , anziché nei 60 mesi attuali, il 40 per cento del dovuto».
I Tg usano il condizionale ma sembra che la proposta sia stata accolta. «Ah, bene. Se la proposta passasse non sarebbe la soluzione a tutti i problemi enormi che abbiamo di fronte per la ricostruzione ma sarebbe una boccata di ossigeno. Una cosa grazie alla quale la notte puoi prendere sonno. Se passa quella proposta, almeno vuol dire che le botte che abbiamo preso sono servite a qualcosa». È una soluzione analoga a quella dell’Umbria, con il 60 per cento di sconto sulle tasse?
«L’Umbria ha iniziato a pagare 12 anni dopo, noi un anno e otto mesi dopo. Ma è meglio di niente. Alessandria, dopo l’alluvione ha avuto il 90 per cento di sconto e anche Foggia, alcuni mesi fa, noi non stiamo certo chiedendo dei privilegi. Il mio calcolo è che sia necessario trovare una copertura di 180 milioni di euro».

l’Unità 8.7.10
Gazzarra fascista fra i banchi del Pdl Botte all’Idv Barbato
I protagonisti: De Angelis, Saltamartini Rampelli... ieri estrema destra oggi parlamentari
Si discute del ddl Meloni e sui soldi per le «comunità giovanili» che in molti sospettano, finirebbero nelle casse dei gruppi amici del ministro della Gioventù
di Mariagrazia Gerina

A sera l’aggredito, ancora incredulo, invoca le immagini del circuito interno per capire da chi è partito il pugno che in piena aula di Montecitorio gli ha fatto mezzo-nero l’occhio. «Trauma contusivo della regione zigomatica e all'occhio destro» e una «cefalea post-traumatica»: 15 giorni di prognosi, recita il certificato medico del deputato Idv Franco Barbato. La squadra di ex An che l’ha circondato minacciosa è tale da lasciare incerti sia l’aggredito che i numerosi deputati-testimoni. «Invoco la moviola, non ero in area di rigore», alza le mani Marcello De Angelis. Non che da bravo rugbista, e da ex militante di Terza posizione, non fosse anche lui nella mischia. «Nessun corpo a corpo», assicura da par suo Fabio Rampelli, ex nuotatore e ala dura del Msi romano, a cui tocca smentire con una nota i sospetti che si affollano su di lui. I testimoni però narrano di un deputato dalla corporatura imponente. Molti non ne ricordano il nome. Qualcuno giura che si tratterebbe di Carlo Nola, deputato ex An di Pavia. Che, in effetti, dice di essere dispiaciuto. Ma di pugni -spiega- non ne ha sferrati. Il suo assicura era «solo un gesto simbolico».
E pensare che tutto era partito da una donna, scatenando persino, nel parapiglia, una questione di genere: chi interviene a fermare una onorevole donna la sottosegretaria alle Pari Opportunità, Barbara Saltamartini, classe 1972, romana, cresciuta nelle fila del Fronte della Gioventù -, partita dai banchi del governo (insieme a due colleghe) contro il malcapitato deputato dell’Idv, reo di aver appena concluso un intervento sgradito alla comunità militante in cui la stessa sottosegretaria è cresciuta?
L’argomento che surriscalda gli animi è il ddl sulle non meglio precisate nuove «comunità giovanili», da foraggiare con un fondo ad hoc di 12 milioni di euro: voluto dal ministro della Gioventù Giorgia Meloni, anche lei cresciuta nel Fronte, e appena impallinato dalla sua stessa maggioranza. Un modo per mettere le mani nel «barile del porco salato», accusa Martino. E per dare soldi a «gruppettari che occupano fabbricati», attacca Mussolini, che pure denuncia di essere stata aggredita dai deputati di An. Il ministro si è appena convinta a battere in ritirata quando l’Idv Barbato prende la parola. «Lei vuole finanziare la sua corrente, la quella di Alemanno e del suo assessore regionale Lollobrigida, che è anche suo parente», tuona il deputato. E le sue parole sono benzina sul fuoco per Barbara Saltamartini. Trattandosi di una donna, i commessi uomini, da regolamento, non possono nemmeno sfiorarla. Mentre le commesse non fanno in tempo a intervenire che alla volta di Barbato sono già partiti i maschi. «La politica non c’entra lì era questione di famiglia, Barbara Saltamartini ha iniziato a fare politica con me quando avevo 15 anni», spiega De Angelis, che quasi veniva alle mani con il capogruppo Fabrizio Cicchitto, costretto a chiedere scusa per il comportamento dei deputati del Pdl: «Era venuto verso di me per rimbrottarmi, ma io gli ho spiegato animatamente che non c’entravo niente».

l’Unità 8.7.10
Vergogna libica. Tripoli accontenta Maroni
Gli eritrei spostati dal lager ai lavori forzati
Il ministro libico della sicurezza annuncia «la liberazione» dei migranti detenuti L’allarme dal carcere: «Non vogliamo restare, rischiamo la deportazione» Il ministro leghista: «Il caso non ci riguarda». Frattini: mediazione frutto nostro
di Umberto De Giovannangeli

Il bluff: l’annuncio spacciato per un successo della mediazione italiana
La realtà: i 250 migranti resteranno sotto stretta osservazione
Dal lager ai campi di lavoro. Dalle torture al ricatto: siete sempre sotto osservazione, alla prossima vi rispediremo in Eritrea. Per le autorità libiche quei 250 eritrei da otto giorni segregati nei centri di detenzione di Mistratah e Brak, cominciavano a essere un problema: le denunce di Ong, associazioni umanitarie, organi di informazione avevano cominciato a smuovere anche i governi più recalcitranti: primo fra tutti, quello italiano. D’altro canto, quei 250 esseri umani, picchiati, sottoposti ad ogni vessazione, cominciavano a far porre seri interrogativi su quell’Accordo di cooperazione Italia-Libia che nel nome degli affari aveva sepolto ogni riferimento al rispetto dei diritti umani.
Qualcosa andava fatto, più per salvare la faccia dei contraenti l’Accordo che per dare un futuro ai 250 deportati. Nel pomeriggio di ieri, l’annuncio da Tripoli: È stato raggiunto l’«accordo di liberazione e residenza in cambio di lavoro» per i circa 250 rifugiati eritrei rinchiusi nel carcere libico di Brak nei pressi di Sebah, nel sud della Libia. A dichiararlo è il ministro della Pubblica Sicurezza libico, generale Younis Al Obeidi, secondo quanto riferito da fonti locali dell’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (Iom). Tale accordo, firmato con il ministero del Lavoro libico, consentirà agli eritrei rinchiusi a Brak, di uscire in cambio di «lavoro socialmente utile in diverse shabie (comuni) della Libia». Da Tripoli a Roma: una conferma del raggiungimento dell’accordo viene dalla sottosegretaria agli Esteri, Stefania Craxi che lascia uno spiragli aperto alla possibilità che qualcuno dei 250 possa essere reinsediato in Italia. Poco prima, sulla vicenda era tornato il titolare del Viminale: «Il governo italiano ribadisce Maroni non ha alcuna responsabilità» nella vicenda dei 250 eritrei detenuti in Libia. «Se si chiede all’Italia di svolgere una missione umanitaria in Libia per questi eritrei sottolinea Maroni il ministro degli Esteri Frattini valuterà, ma noto che da parte dell’Europa e dell’Onu non ci sia stato alcun interessamento e questo è singolare ed incredibile: penso che le istituzioni europee debbano interessarsi e non solo chiedere a noi di farlo».
Pratica archiviata. A Maroni non importa niente che alcuni tra i rifugiati eritrei «sono stati respinti dall’Italia nel 2009 e altri rimpatriati in Libia su richiesta italiana nel corso di quest’anno», come ricorda il presidente del Comitato italiano per i rifugiati Savino Pezzotta che rilancia la proposta di «trasferire i rifugiati in Italia per un loro reinsediamento». «Alcuni tra quelli sottoposti a maltrattamenti da parte delle autorità libiche aggiunge Bjarte Vandvik, segretario generale del Consiglio europeo per i rifugiati e gli esuli sono stati respinti in Libia dall’Italia un anno fa. I rifugiati stanno subendo le conseguenze della violazione degli obblighi legislativi dell’Italia e del silenzio assenso degli Stati membri dell’Ue». «Abbiamo lavorato in silenzio, senza proclami, purtroppo nell’assenza totale e assoluta dell’Europa. Abbiamo chiesto un compromesso, una mediazione e il risultato è arrivato. Siamo soddisfatti», dice il ministro degli Esteri, Franco Frattini ai microfoni del Tg3. «Nessun altro Paese europeo si è mosso» per la vicenda dei rifugiati eritrei, sottolinea il titolare della Farnesina, «noi ci siamo attivati subito e abbiamo ottenuto un risultato». E poi, l’aggiunta, miseramente ironica: «È molto curioso che persone che si dicono torturate e imprigionate avessero telefoni satellitari con cui parlare a mezzo mondo... ». La chiosa finale è degna del passaggio precedente: «È molto facile dire a me piacerebbe Cipro, volevamo andare a Cipro e ci hanno fermato». «Chi lo dimostra?», domanda il ministro aggiungendo che «fino a prova contraria questo non è provato». CNR media ha raggiunto telefonicamente uno dei rifugiati eritrei nel campo di prigionia di Brak poco dopo la notizia della loro «liberazione» da parte del governo libico. Abbiamo saputo stamattina (ieri, ndr) della nostra liberazione dice il prigioniero che si fa chiamare Daniel non vogliamo restare a lavorare in Libia perché questo Paese non ci riconosce lo status di rifugiati politici e in qualsiasi momento potremmo essere deportati in Eritrea». E aggiunge: «Oltre cento di noi volevano raggiungere l’Italia e sono stati respinti dalle autorità italiane. Questo è bene che gli italiani lo sappiano. Non è vero quello che dice il vostro ministro (Maroni, ndr). Noi chiediamo lo status di rifugiati politici. Più della metà di noi durante lo scorso anno ha cercato di venire in Italia ma è stata respinta dalla Guardia costiera senza che neanche ci venissero chiesti i documenti. Poi abbiamo cominciato a girare di prigione in prigione e, alla fine, siamo arrivati a Brak . Da quando siamo stati respinti dalle autorità italiane abbiamo affrontato torture e percosse in ogni prigione dove siamo stati rinchiusi fino ad arrivare qui, nel deserto, in una condizione disumana». E questa la spacciano per «liberazione».

l’Unità 8.7.10
Intervista a Cristopher Hein
«Il caso non è chiuso. Sono rifugiati devono venire in Italia»
Il direttore del Cir: «Non c’è nessuna garanzia per i 250. Possono essere arrestati di nuovo A rischio sono anche i loro familiari in Eritrea»
di U.D.G.

A differenza del ministro Maroni, per noi la “pratica” è tutt’altro che chiusa. Ben venga che siano rilasciati, ma questo deve avvenire senza alcuna informazione sui loro dati personali all’ambasciata eritrea. Resta comunque molto importante conoscere i dettagli di questo accordo». A parlare è Cristopher Hein, direttore del Consiglio Italiano dei Rifugiati (Cir).
Il ministro degli Esteri italiano, Franco Frattini, canta vittoria: quello dei 250 eritrei deportati nel lager di Brak, è un caso felicemente chiuso. È davvero così?
«Se c’è un modo perché queste persone possano uscire liberamente dal Centro di detenzione di Brak, sarebbe un’ottima notizia. Tuttavia, non a qualunque costo. Noi non conosciamo i dettagli di questo accordo. A cominciare dalla questione dell’identificazione, e quindi del coinvolgimento dell’Ambasciata eritrea in Libia. Noi sappiamo che veniva e forse viene tutt’ora utilizzato un modulo dove la persona deve formalmente ammettere di aver commesso il reato di espatrio illegale dall’Eritrea e chiedere scusa allo Stato eritreo. Questo ci preoccupa assai...».
Perché?
«Perché sappiamo da tanti documenti e testimonianze dirette, che i familiari rimasti in Eritrea dei 250 reclusi a Brak, saranno oggetto di rappresaglie: come minimo saranno costretti a pagare l’equivalente di circa 3mila euro, e se non lo fanno rischiano la reclusione a tempo indefinito. Tremila euro sono una cifra enorme per la maggior parte delle famiglie in Eritrea. C’è poi una seconda preoccupazione...». Quale?
«Quali tutele avranno queste persone in Libia? Quale garanzie ci saranno che non verranno di nuovo arrestati tra qualche settimana, quando sarà venuta meno l’attenzione sulla loro situazione? Vogliamo ricordare che quei 250 cittadini eritrei non sono migranti economici bensì rifugiati, e come tali non hanno fin qui la possibilità di essere riconosciuti in Libia». Resta la vostra richiesta al governo italiano del loro reinsediamento? «Sì, questa richiesta resta assolutamente in piedi, perché è l’unica, vera soluzione. Ben venga che siano rilasciati, ma questo deve avvenire senza alcuna informazione sui loro dati personali all’ambasciata eritrea. Per questo è molto importante conoscere i dettagli di questo accordo».
Per il ministro Maroni, la «pratica» se mai è stata aperta, si è comunque chiusa. E per il Cir? «Per noi assolutamente no. La questione resta aperta».

l’Unità 8.7.10
Pedofilia. Dopo il sequestro di due cd-rom sul mostro di Marcinelle Interrogato per 10 ore il cardinale Danneels
La Chiesa belga in rivolta: «Nessun legame con Dutroux»
di Marco Mongiello

La Chiesa belga al contrattacco dopo la diffusione della notizia che tra il materiale sequestrato all’arcivescovado ci sarebbero state le foto dei cadaveri delle vittime del mostro di Marcinelle: nessun legame con Dutroux.

La chiesa belga non ha nessun legame con il caso Dutroux, il mostro di Marcinelle arrestato nel 1996 dopo aver rapito e violentato sei ragazzine, uccidendone quattro.
Ieri la conferenza episcopale del Paese ha reagito con una nota indignata alla notizia, divulgata dal quotidiano fiammingo Het Laatste Nieuws, secondo cui tra il materiale sequestrato all’arcivescovado lo scorso 24 giugno ci sarebbero anche le foto dei cadaveri mutilati di Julie e Melissa, le due piccole vittime del pedofilo.
In realtà, ha spiegato il comunicato, si tratta di due cd-rom contenti il materiale del processo Dutroux, già in possesso di giornalisti, politici e altre personalità del Belgio e inviati alla chiesa da una fonte nota ma non rivelata. La stampa locale ha comunque ricostruito che la fonte sarebbe il mensile satirico britannico The Sprout, che nel 2004 avrebbe inviato una copia dei cd-rom all’arcivescovado di Bruxelles per ottenere un com-
mento su una teoria infondata che legherebbe le gerarchie ecclesiastiche al caso del mostro di Marcinelle.
La chiesa belga, dopo essere stata per una giornata al centro delle polemiche e dei sospetti più atroci, ieri è passata al contrattacco puntando il dito contro l’uso strumentale delle rivelazioni alla stampa.
«Sarebbe veramente disdicevole si legge nella nota se un’informazione, che è sotto il segreto professionale e sotto quello dell’istruttoria, fosse stata volontariamente comunicata alla stampa da una persona coinvolta nell’inchiesta allo scopo di creare sensazionalismi». Una decisione che «non contribuirebbe alla serenità dell’inchiesta», hanno aggiunto i vescovi del Belgio, ribadendo la loro disponibilità a «collaborare con la giustizia», ma di voler rispondere «agli inquirenti piuttosto che agli articoli di stampa».
LA POLEMICA
L’avvocato dell’arcivescovado, Fernand Keuleneer, ha inoltre inviato una lettera alla Giustizia chiedendo se le informazioni comparse ieri sul giornale fiammingo provengono «da persone incaricate dell’inchiesta», il «perché sono state rese pubbliche» e «come» i documenti siano finiti negli archivi ecclesiastici.
Anche se smentito il caso ha comunque ripiombato il Belgio negli incubi del passato, riaprendo vecchie ferite e creando un legame tra gli eventi di quindici anni fa e l’attuale scandalo pedofilia della chiesa cattolica.
«Per 24 ore si è creduto che tra i due casi ci fosse una relazione e questo deve essere stato molto doloroso per i genitori delle vittime», ha commentato all’Unità Dirk Depover, direttore della comunicazione dell’associazione antipedofilia «Child Focus», creata nel 1998 dal padre di una delle vittime di Dutroux, la piccola Julie Lejeune. Anche se, ha aggiunto Depover, è «proprio con il caso Dutroux che in Belgio sono cambiate molte cose riguardo alla pedofilia, sono state aggiornate le leggi e si è creata una nuova sensibilità».
Non è un caso che proprio qui sia stata lanciata l’inchiesta per pedofilia più vasta e più severa contro la chiesa che ha fatto infuriare il Vaticano.
Martedì la polizia giudiziaria di Bruxelles ha interrogato per oltre 10 ore l’ex primate del Belgio, il cardinale Godfried Danneels. Dal momento che l’ecclesiastico ha 77 anni all’interrogatorio ha partecipato anche un medico legale, ha riferito ieri il portavoce della procura di Bruxelles, Jos Colpin, smentendo le voci secondo cui l’ex capo della chiesa belga si sarebbe sentito male. Gli inquirenti hanno anche fatto sapere che per il momento il cardinale non è iscritto nel registro degli indagati, ma potrebbe essere riascoltato dai magistrati «alla fine della fase istruttoria». L’inchiesta però non è che all’inizio, ha fatto capire il portavoce. Dopo il sequestro del materiale dell’arcivescovado e dei 475 dossier contenenti le denunce delle vittime alla commissione della conferenza episcopale sugli abusi, ha spiegato Colpin, «ci vorrebbero delle settimane o addirittura mesi per analizzare l’insieme dei documenti».

l’Unità 8.7.10
Intervista alla cantautrice irlandese
Parla Sinéad O’Connor
«Il Papa? Un insulto alla nostra intelligenza»
di Giulia Gentile

BOLOGNA. Dimenticatevi la giovanissima anima inquieta degli anni Ottanta, capelli rasati e volto scavato da un’adolescenza turbolenta segnata dagli abusi, in famiglia e in un collegio di suore. La Sinéad O’Connor che stasera salirà sul palco dell’Arena del mare, a Genova, è una prosperosa quarantatreenne mamma di quattro figli, in testa un cespuglio castano che incornicia il viso florido. Una donna che lotta ogni giorno coraggiosamente contro i suoi demoni, e che oggi non fa mistero di mettere al primo posto «la famiglia, i miei bambini. Quando sei troppo coinvolto nel “music business” è facile perdere di vista le cose importanti della vita. Invece tutto ciò che faccio è scrivere canzoni e cantarle, come altra gente esprime in modo diverso la propria arte».
La sua però è da sempre un’arte di denuncia. Ad iniziare dallo scandalo dei preti pedofili. Nel 1992 strappò l’immagine di Giovanni Paolo II davanti alle telecamere del Saturday Night Live, farebbe lo stesso con la foto di Benedetto XVI? «Resto convinta del fatto che il Papa sia un insulto alla nostra intelligenza. Io credo nei precetti del cristianesimo e nel potere dello Spirito santo, ma non mi pare che chi dovrebbe guidare la Chiesa faccia lo stesso. Se solo avessi convissuto per anni anche solo con il sospetto che qualcuno, nella mia comunità spirituale, compiva degli abusi, non ci avrei dormito la notte. Invece, per decenni nessuno ha detto nulla e gli abusi nelle parrocchie e nei collegi sono proseguiti nell’omertà più totale. Per questo Benedetto XVI dovrebbe dimettersi, o essere messo alla porta: non ha mai collaborato con la commissione d’inchiesta su quanto accadde ad esempio negli istituti religiosi irlandesi. E invece è ancora lì, come i responsabili delle violenze sui minori. Mentre il popolo d’Irlanda è stato oltraggiato dalla noncuranza del Vaticano».
Nel ‘92, il veicolo per lanciare la sua personalissima lotta per «salvare Dio dalla religione» fu l’aggressiva «War» di Bob Marley. Qual è il suo rapporto con lo spiritualissimo reggae del cantante jamaicano? «Quella canzone mi permise di combattere apertamente contro le ingiustizie che mi balzavano agli occhi, di usare la mia arte e la mia popolarità come strumento di denuncia. Alcuni musicisti di grande popolarità fanno canzoni che non esprimono nulla. Ma come si può ignorare i problemi che sono sotto gli occhi di tutti? Al di là di questo, però, ascolto qualunque tipo di musica, dal reggae al pop (ho quattro bambini!) fino alla musica irlandese. In certi momenti amo anche il silenzio».
Dopo l’incredibile boom economico degli anni Novanta, più di altri Paesi europei l’Irlanda oggi è vittima di una violenta recessione economica. «Vivo ancora a Dublino. E sotto i miei occhi, ogni giorno c’è gente che perde la casa, famiglie vittime di un vero e proprio crack costrette a lasciare il Paese in cerca di lavoro. Ma in realtà anche durante gli anni del boom c’erano grossi problemi, guai che ora si sono aggravati come l’abuso di sostanze stupefacenti. Ma l’intero mondo è un disastro, e per questo io continuo a lottare. Per la paura di non essere più in grado, un giorno, di avere un tetto, cibo e vestiti per la mia famiglia». Nel 1989 annunciò pubblicamente il suo supporto all’Irish repubblican army (IRA). Com’è cambiato il suo approccio alla politica? E che ne pensa delle scuse pubbliche del nuovo primo ministro britannico Cameron per i 14 morti nella «Bloody sunday» del 1972?
«Di recente una commissione d’inchiesta ha stabilito cosa accadde, e che le persone assassinate erano innocenti che intendevano solo manifestare pacificamente. E questo è l’importante, per l’opinione pubblica mondiale e prima di tutto per i famigliari delle vittime e la gente della città dove avvenne la strage, Derry».
Parlando ancora di musica, a quando il prossimo lavoro? «Sto registrando un nuovo album che dovrebbe uscire nei primi mesi del 2011. Un misto di tutti i generi musicali che ho composto dal primo disco The lion and the cobra. In certi momenti ho paura che non piacerà a nessuno. Ma poi vado avanti, e continuo a lottare con la mia voce».

«Se li conosci li eviti» /1
Avvenire 8.7.10
In Brasile primo ok per lo Statuto del nascituro
di Piero Pirovano

Il nascituro è, tra gli esserei umani, il più debole dei deboli, il più povero dei poveri e proprio per questo necessita di una particolare protezione. È un dato di fatto, che la beata Madre Teresa di Calcutta non si stancava di ri­cordare.
In Italia c’è la proposta, gia­cente in Parlamento, di rico­noscere il nascituro come sog­getto di diritto attribuendogli la capacità giuridica sin dal concepimento, ma una simi­le proposta non rientra nel pacchetto di riforme di cui si parla.
In Brasile invece lo «Statuto del nascituro» è attualmente oggetto di discussione in seno alla Commissione Finanza e Tributi della Camera dei de­putati (relatore il deputato Jo­sé Guimarães), dopo essere stato approvato, alle ore 14.00 del 19 maggio scorso, dalla Commissione per la Sicurez­za sociale e la famiglia.
Il documento approvato è composto da 13 articoli con i quali si intende espressa­mente «proteggere i nascitu­ri », come è scritto nello stes­so art. 1. Relatore è stata So­lange Almeida, deputato fe­derale al primo mandato (dal suo sito – www.solangealmei­da. com – può essere scarica­to il documento in portoghe­se).
Con l’art. 2 si definisce con chiarezza chi è il nascituro: «è l’essere umano concepito, ma non ancora nato».
Quindi con lo Statuto (art. 3) «Si riconosce dal concepi­mento la dignità e natura u­mane del nascituro, dando al­lo stesso piena tutela/prote­zione giuridica».
Quali i doveri della famiglia, della società e dello Stato? L’art. 4 è quanto mai esplici­to: «garantire al nascituri, con priorità assoluta, il diritto al­la vita, alla salute, allo svilup­po, al cibo, alla dignità, al ri­spetto, alla libertà e alla fami­glia, oltre a proteggerlo da o­gni forma di negligenza, di­scriminazione, sfruttamento, violenza, crudeltà e oppres­sione.
L’art. 5 quindi ribadisce: «Nes­sun nascituro sarà sottoposto ad alcuna forma di negligen­za, discriminazione, sfrutta­mento, violenza, crudeltà e oppressione, essendo punito come previsto dalla legge, o­gni attentato, per azione o o­missione, ai loro diritti».
Segue una norma per l’inter­pretazione della legge (art. 6), se legge sarà: «si terrà conto delle finalità sociali a cui è de­stinata, le esigenze del bene comune, i diritti e doveri in­dividuali e collettivi, e la con­dizione peculiare del nascitu­ro come persona in fase di svi­luppo ». «Il nascituro – recita l’art. 7 – deve essere il destinatario di politiche sociali che consen­tano il suo sviluppo sano e ar­monioso e la sua nascita, in condizioni dignitose d’esi­stenza ». Il diritto alla vita ini­zia davvero ad essere al cen­tro della politica! L’assistenza sanitaria sarà as­sicurata ai nascituri (art. 8) dal Sus. il Sistema unico per la sa­lute.
Con l’art. 9 viene introdotto nello Statuto un primo divie­to: «È vietato allo Stato e ai pri­vati di discriminare il nascitu­ro, privandolo di qualsiasi di­ritto, per motivi di sesso, età, etnia, origine, di disabilità fisica o mentale».
Pertanto «il na­scituro avrà a sua disposizio­ne le risorse te­rapeutiche e profilattiche di­sponibili e pro­porzionate per prevenire, cura­re o minimizza­re invalidità o patologie (art.10).
L’articolo 11 è dedicato alla questione della diagnosi pre­natale e al suo scopo: «La dia­gnosi prenatale deve rispetta­re e garantire lo sviluppo, la salute e l’integrità del nasci­turo » e deve essere preceduta dal consenso informato della madre.
Con questo stesso articolo (§ 2) Si vieta «l’uso di metodi per la diagnosi prenatale che cau­sino alla madre o al nascituro, rischi sproporzionati o inuti­li ». Infine lo Statuto, con due ar­ticoli, affronta il caso delle gra­vidanze conseguenza di stu­pri.
L’articolo 12 è al riguardo e­splicito: «È vietato allo Stato o alle persone di provocare dan­ni ai nascituri in virtù di atti commessi dai loro genitori».
Con l’art. 13 si sancisce che «il nascituro concepito a causa di uno stupro avrà assicurati il diritto all’assistenza prena­tale, con accompagnamento psicologico della madre, e il diritto di essere adottato, se la madre lo desidera.
Qualora poi la madre, vittima di stupro, non dovesse avere i mezzi sufficenti per allevare ed educare il bambino, sarà lo Stato a sostenere tutti i costi finché non sia identificato e responsabilizzato il genitore oppure finché il bambino sia adottato

«Se li conosci li eviti» /2 Parola di Papa!
Avvenire 8.7.10
L’udienza del mercoledì
«La libertà è vera se viene riconciliata con la verità»
Su Duns Scoto la catechesi settimanale di Benedetto XVI «I teologi conservino l'umiltà e la semplicità dei piccoli»

Cari fratelli e sorelle, questa mattina - dopo alcune cate­chesi su diversi grandi teolo­gi - voglio presentarvi un’altra figu­ra importante nella storia della teo­logia: si tratta del beato Giovanni Duns Scoto, vissuto alla fine del se­colo XIII. Un’antica iscrizione sulla sua tomba riassume le coordinate geografiche della sua biografia: «l’Inghilterra lo accolse; la Francia lo istruì; Colonia, in Germania, ne con­serva i resti; in Scozia egli nacque». Non possiamo trascurare queste informazioni, anche perché posse­diamo ben poche notizie sulla vita di Duns Scoto. Egli nacque proba­bilmente nel 1266 in un villaggio, che si chiamava proprio Duns, nei pressi di Edimburgo. Attratto dal ca­risma di san Francesco d’Assisi, en­trò nella Famiglia dei Frati minori, e nel 1291, fu ordinato sacerdote. Dotato di un’intelligenza brillante e portata alla speculazione - quell’in­telligenza che gli meritò dalla tradi­zione il titolo di Doctor subtilis ,
«Dottore sottile» Duns Scoto fu in­dirizzato agli studi di filosofia e di teologia presso le celebri Università di Oxford e di Parigi. Conclusa con successo la formazione, intraprese l’insegnamento della teologia nelle Università di Oxford e di Cambrid­ge, e poi di Parigi, iniziando a com­mentare, come tutti i Maestri del tempo, le Sentenze di Pietro Lom­bardo. Le opere principali di Duns Scoto rappresentano appunto il frutto maturo di queste lezioni, e prendono il titolo dai luoghi in cui egli insegnò: Opus Oxoniense (Oxford), Reportatio Cambrigensis (Cambridge), Reportata Parisiensia (Parigi). Da Parigi si allontanò quan­do, scoppiato un grave conflitto tra il re Filippo IV il Bello e il papa Bo­nifacio VIII, Duns Scoto preferì l’e­silio volontario, piuttosto che fir­mare un documento ostile al Som­mo Pontefice, come il re aveva im­posto a tutti i religiosi. Così – per a­more alla Sede di Pietro –, insieme ai Frati francescani, abbandonò il Paese.
Cari fratelli e sorelle, questo fatto ci invita a ricordare quante volte, nella storia del­la Chiesa, i credenti hanno incon­trato ostilità e subito perfino perse­cuzioni a causa della loro fedeltà e della loro devozione a Cristo, alla Chiesa e al Papa. Noi tutti guardia­mo con ammirazione a questi cri­stiani, che ci insegnano a custodire come un bene prezioso la fede in Cristo e la comunione con il suc­cessore di Pietro e, così, con la Chie­sa universale. Tuttavia, i rapporti fra il re di Francia e il successore di Bo­nifacio VIII ritornarono ben presto amichevoli, e nel 1305 Duns Scoto poté rientrare a Parigi per insegnar­vi la teologia con il titolo di Magister regens, oggi si direbbe professore or­dinario. Successivamente, i Supe­riori lo inviarono a Colonia come professore dello Studio teologico francescano, ma egli morì l’8 no­vembre del 1308, a soli 43 anni di età, lasciando, comunque, un nu­mero rilevante di opere.
A motivo della fama di santità di cui godeva, il suo culto si diffuse ben presto nell’Ordine francescano e il venerabile papa Giovanni Paolo II volle confermarlo solennemente bea­to il 20 marzo 1993, definendolo «can­tore del Verbo in­carnato e difensore dell’Immacolata Concezione». In questa espressione è sintetizzato il grande contributo che Duns Scoto ha offerto alla storia della teologia.
Anzitutto, e­gli ha medi­tato sul Mi­stero dell’Incarna­zione e, a differenza di molti pensa­tori cristiani del tempo, ha sostenu­to che il Figlio di Dio si sarebbe fat­to uomo anche se l’umanità non a­vesse peccato. Egli afferma nella «Reportata Parisiensa»: «Pensare che Dio avrebbe rinunciato a tale o­pera se Adamo non avesse peccato sarebbe del tutto irragionevole! Di­co dunque che la caduta non è sta­ta la causa della predestinazione di Cristo, e che - anche se nessuno fos­se caduto, né l’angelo né l’uomo - in questa ipotesi Cristo sarebbe stato ancora predestinato nella stessa maniera' (in III Sent., d. 7, 4). Que­sto pensiero, forse un po’ sorpren­dente, nasce perché per Duns Sco­to l’Incarnazione del Figlio di Dio, progettata sin dall’eternità da par­te di Dio Padre nel suo piano di a­more, è compimento della creazio­ne, e rende possibile ad ogni crea­tura, in Cristo e per mezzo di Lui, di essere colmata di grazia, e dare lo­de e gloria a Dio nell’eternità. Duns Scoto, pur consapevole che, in realtà, a causa del peccato origina­le, Cristo ci ha redenti con la sua Pas­sione, Morte e Risurrezione, ribadi­sce che l’Incarnazione è l’opera più grande e più bella di tutta la storia della salvezza, e che essa non è con­dizionata da nessun fatto contin­gente, ma è l’idea originale di Dio di unire finalmente tutto il creato con se stesso nella persona e nella car­ne del Figlio.
Fedele discepolo di san France­sco, Duns Scoto amava con­templare e predicare il Miste­ro della Passione salvifica di Cristo, espressione dell’amore immenso di Dio, il Quale comunica con gran­dissima generosità al di fuori di sé i raggi della Sua bontà e del Suo a­more (cfr Tractatus de primo prin­cipio, c. 4). E questo amore non si ri­vela solo sul Calvario, ma anche nel­la Santissima Eucaristia, della qua­le Duns Scoto era devotissimo e che vedeva come il sacramento della presenza reale di Gesù e come il sa­cramento dell’unità e della comunione che induce ad a­marci gli uni gli altri e ad amare Dio co­me il Sommo Bene comune (cfr Repor­tata Parisiensia, in IV Sent., d. 8, q. 1, n. 3).
Cari fratelli e sorelle, questa visione teo­logica, fortemente «cristocentrica», ci apre alla contem­plazione, allo stu­pore e alla gratitudi­ne: Cristo è il centro della storia e del cosmo, è Colui che dà senso, di­gnità e valore alla nostra vita! Come a Manila il papa Paolo VI, anch’io oggi vorrei gridare al mondo: «[Cri­sto] è il rivelatore del Dio invisibile, è il primogenito di ogni creatura, è il fondamento di ogni cosa; Egli è il Maestro dell’umanità, è il Redento­re; Egli è nato, è morto, è risorto per noi; Egli è il centro della storia e del mondo; Egli è Colui che ci conosce e che ci ama; Egli è il compagno e l’amico della nostra vita... Io non fi­nirei più di parlare di Lui» ( Omelia, 29 novembre 1970). N on solo il ruolo di Cristo nel­la storia della salvezza, ma anche quello di Maria è og­getto della riflessione del Doctor subtilis . Ai tempi di Duns Scoto la maggior parte dei teologi oppone­va un’obiezione, che sembrava in­sormontabile, alla dottrina secon­do cui Maria Santissima fu esente dal peccato originale sin dal primo istante del suo concepimento: di fatto, l’universalità della Redenzio­ne operata da Cristo, a prima vista, poteva apparire compromessa da una simile affermazione, come se Maria non avesse avuto bisogno di Cristo e della sua redenzione. Per­ciò i teologi si opponevano a questa tesi. Duns Scoto, allora, per far ca­pire questa preservazione dal pec­cato originale, sviluppò un argo­mento che verrà poi adottato anche dal beato papa Pio IX nel 1854, quando definì solennemente il dog­ma dell’Immacolata Concezione di Maria. E questo argomento è quel­lo della «Redenzione preventiva», secondo cui l’Immacolata Conce­zione rappresenta il capolavoro del­la Redenzione operata da Cristo, perché proprio la potenza del suo amore e della sua mediazione ha ot­tenuto che la Madre fosse preserva­ta dal peccato originale. Quindi Ma­ria è totalmente redenta da Cristo, ma già prima della concezione. I Francescani, suoi confratelli, accol­sero e diffusero con entusiasmo questa dottrina, e altri teologi – spesso con solenne giuramento – si impegnarono a difenderla e a per­fezionarla.
A questo riguardo, vorrei met­tere in evidenza un dato, che mi pare importante. Teolo­gi di valore, come Duns Scoto circa la dottrina sull’Immacolata Conce­zione, hanno arricchito con il loro specifico contributo di pensiero ciò che il popolo di Dio credeva già spontaneamente sulla Beata Vergi­ne, e manifestava negli atti di pietà, nelle espressioni dell’arte e, in ge­nere, nel vissuto cristiano. Così la fede sia nell’Immacolata Concezio­ne, sia nell’Assunzione corporale della Vergine era già presente nel po­polo di Dio, mentre la teologia non aveva ancora trovato la chiave per interpretarla nella totalità della dot­trina della fede. Quindi il popolo di Dio precede i teologi e tutto questo grazie a quel soprannaturale sensus fidei , cioè a quella capacità infusa dallo Spirito Santo, che abilita ad ab­bracciare la realtà della fede, con l’u­miltà del cuore e della mente. In questo senso, il popolo di Dio è «ma­gistero che precede», e che poi de­ve essere approfondito e intellet­tualmente accolto dalla teologia. Possano sempre i teologi mettersi in ascolto di questa sorgente della fede e conservare l’umiltà e la sem­plicità dei piccoli! L’avevo ricordato qualche mese fa dicendo: «Ci sono grandi dotti, grandi specialisti, gran­di teologi, maestri della fede, che ci hanno insegnato molte cose. Sono penetrati nei dettagli della Sacra Scrittura… ma non hanno potuto vedere il mistero stesso, il vero nu­cleo... L’essenziale è rimasto nasco­sto! Invece, ci sono anche nel nostro tempo i piccoli che hanno cono­sciuto tale mistero. Pensiamo a san­ta Bernardette Soubirous; a santa Teresa di Lisieux, con la sua nuova lettura della Bibbia 'non scientifi­ca', ma che entra nel cuore della Sa­cra Scrittura» ( Omelia. S. Messa con i Membri della Commissione Teolo­gica Internazionale, 1 dicembre 2009).
Infine, Duns Scoto ha sviluppato un punto a cui la modernità è molto sensibile. Si tratta del te­ma della libertà e del suo rapporto con la volontà e con l’intelletto. Il nostro autore sottolinea la libertà come qualità fon­damentale della vo­lontà, iniziando una impostazione di tendenza volontari­stica, che si svi­luppò in contrasto con il cosiddetto in­tellettualismo ago­stiniano e tomista. Per san Tommaso d’Aquino, che segue sant’Agostino, la li­bertà non può con­siderarsi una qua­lità innata della vo­lontà, ma il frutto della collaborazio­ne della volontà e dell’intelletto. Un’i­dea della libertà in­nata e assoluta col­locata nella volontà che precede l’intel­letto, sia in Dio che nell’uomo, rischia, infatti, di condurre all’idea di un Dio che non sarebbe legato neppure al­la verità e al bene. Il desiderio di sal­vare l’assoluta trascendenza e di­versità di Dio con un’accentuazio­ne così radicale e impenetrabile del­la sua volontà non tiene conto che il Dio che si è rivelato in Cristo è il Dio «logos», che ha agito e agisce pieno di amore verso di noi. Certa­mente, come afferma Duns Scoto nella linea della teologia francesca­na, l’amore supera la conoscenza ed è capace di percepire sempre di più del pensiero, ma è sempre l’a­more del Dio «logos» (cfr Benedet­to XVI, Discorso a Regensburg, Inse­gnamenti di Benedetto XVI, II [2006], p. 261). Anche nell’uomo l’i­dea di libertà assoluta, collocata nel­la volontà, dimenticando il nesso con la verità, ignora che la stessa li­bertà deve essere liberata dei limiti che le vengono dal peccato.
Parlando ai seminaristi roma­ni - l’anno scorso - ricordavo che «la libertà in tutti i tempi è stata il grande sogno dell’umanità, sin dagli inizi, ma particolarmente nell’epoca moderna» ( Discorso al Pontificio seminario romano mag­giore, 20 febbraio 2009). Però, pro­prio la storia moderna, oltre alla no­stra esperienza quotidiana, ci inse­gna che la libertà è autentica, e aiu­ta alla costruzione di una civiltà ve­ramente umana, solo quando è ri­conciliata con la verità. Se è sgan­ciata dalla verità, la libertà diventa tragicamente principio di distru­zione dell’armonia interiore della persona umana, fonte di prevarica­zione dei più forti e dei violenti, e causa di sofferenze e di lutti. La li­bertà, come tutte le facoltà di cui l’uomo è dotato, cresce e si perfe­ziona, afferma Duns Scoto, quando l’uomo si apre a Dio, valorizzando quella disposizione all’ascolto del­la Sua voce, che egli chiama poten­tia oboedientialis : quando noi ci mettiamo in ascolto della Rivela­zione divina, della Parola di Dio, per accoglierla, allora siamo raggiunti da un messaggio che riempie di lu­ce e di speranza la nostra vita e sia­mo veramente liberi.
Cari fratelli e sorelle, il beato Duns Scoto ci insegna che nella nostra vita l’essenziale è credere che Dio ci è vicino e ci a­ma in Cristo Gesù, e coltivare, quin­di, un profondo amore a Lui e alla sua Chiesa. Di questo amore noi sia­mo i testimoni su questa terra. Ma­ria Santissima ci aiuti a ricevere que­sto infinito amore di Dio di cui go­dremo pienamente in eterno nel Cielo, quando finalmente la nostra anima sarà unita per sempre a Dio, nella comunione dei santi.
Soggetto della riflessione del «Doctor subtilis» ha spiegato il Papa furono «il ruolo di Cristo nella storia della salvezza» e «il ruolo di Maria» per cui parlò di «redenzione preventiva»

l’Unità 8.7.10
Giornali, tv, radio e Internet in silenzio contro il bavaglio
di Roberto Monteforte

Domani i giornali non saranno in edicola, black out anche per l’informazione radiotelevisiva e per i siti internet. Sarà la «fragorosa» giornata del silenzio indetta dalla Fnsi contro la legge «bavaglio». Siddi: sciopero necessario

Domani sarà la giornata del silenzio contro la «legge bavaglio», il ddl Alfano sulle intercettazioni. Oggi scioperano i giornalisti della carta stampata. Domani sarà il turno di quelli di radio, televisioni, dei siti on line, degli uffici stampa. L’obiettivo è quello di rendere il più possibile «fragorosa» e «partecipata» la «giornata del silenzio» indetta dalla Fnsi con l’adesione convinta dell’Ordine dei giornalisti, contro la legge che «rischia di mettere a tacere tutto il sistema dell’informazione italiano» e contro i tagli della «manovra» di Tremonti all’editoria: un altro pesante «bavaglio» alla libertà di informazione. Oggi incroceranno le braccia anche i poligrafici aderenti alla Cgil e domani per la prima volta sciopererà anche il popolo della «rete»: i siti web non saranno aggiornati. Non sarà in edicola neanche il Manifesto, che è una cooperativa editoriale.
«Una scelta obbligata e senza alternative in mancanza di fatti nuovi che avrebbero potuto far cadere le ragioni della protesta» ha spiegato ieri il segretario generale della Fnsi, Franco Siddi, rispondendo anche a chi ha ipotizzato strumenti di lotta diversi ha ricordato che lo sciopero è stato proclamato dopo diversi momenti di mobilitazione. «Lo sciopero è un mezzo e non un fine che per noi resta quello di far arretrare una legge sbagliata». La protesta per difendere il diritto dei cittadini ad essere informati, ha assicurato, andrà avanti sino alla denuncia alla Corte europea per i diritti dell’uomo. «Sappiamo che alcuni giornali, per condizioni ideologiche o questioni di militanza, non aderiranno allo sciopero. Noi ci appelliamo perchè questa è una battaglia di tutti. Quanto più una protesta è fragorosa più il risultato è forte». In più ha ricordato a chi chiedeva maggiore «fantasia» e forme di protesta alternative, che la proclamazione di uno sciopero che coinvolge il servizio pubblico può essere disdetto solo in presenza di fatti nuovi che «non ci sono stati». Vi è stato il tentativo di cercare d’intesa con gli editori altre forme di protesta, ma non è stato possibile realizzarle per tempo. Per la Fnsi lo sciopero resta lo strumento di lotta unificante e più efficace della categoria, segno della sua «autonomia» in un’azione di «resistenza civile» che ha come obiettivo non un semplice aggiustamento della legge, ma lo stralcio dell'informazione dal ddl sulle intercettazioni.

Repubblica 8.7.10
La richiesta di convocare l’assemblea del partito "estinto" nel 2007 per dare vita al Pd
Bianco e il fantasma-Margherita "Un guaio se gli ex ds ci imitano"
Ho comunque il dovere di dire che i disagi tra i democratici sono forti. E che non si affrontano mettendoci il coperchio
di G. C.

ROMA - «Forse non convocherò l´Assemblea della Margherita per parlare di politica, perché sto riscontrando più "no" che "sì", però non è mettendoci il coperchio che si affrontano i tanti disagi nel Pd». Enzo Bianco, leader dei "liberal" democratici, è anche il presidente dell´Assemblea nazionale della Margherita, il partito che con i Ds ha dato vita tre anni fa ai Democratici ma che solo nel 2011 si scioglierà giuridicamente e del tutto.
Quindi, presidente Bianco, tanto rumore per nulla?
«Ho ricevuto oltre ottanta richieste di convocare l´Assemblea nazionale della Margherita, non possono essere ignorate».
Ma se anche gli ex Ds decidessero di far risorgere il loro partito, cosa accadrebbe?
«Sarebbe certo un problema serio... Non dobbiamo far rivivere i partiti del passato, però personalmente ho il dovere di verificare se convocare l´Assemblea è opportuno o meno. Ho registrato che alcuni autorevoli ex Dl - Marini, Franceschini, Bindi, Letta - sono contrari. Sentirò anche altri e rifletterò ancora qualche giorno: non farò nulla che possa apparire come un atto ostile al Pd, lungi da me. Se saranno sempre più i "no" che i "sì", riporrò questa richiesta nel cassetto. Ma...».
Ma?
«Ho il dovere di dire che, se anche la convocazione dell´Assemblea della Margherita non si facesse, ho registrato molto disagio, un termine che usa pure Gentiloni, persona acuta e accorta. Del resto l´avevo già detto a Bersani in direzione: il Pd manca di colpo d´ala. La nostra sfida è un partito di centrosinistra in cui convivono le posizioni tradizionali della sinistra e quelle più moderate sia cattoliche che liberali. Invece nel Pd ciascuno tira fuori il suo vessillo. Ci si appassiona al dibattito sull´uso della parola "compagno" e i popolari ritrovano l´anima discutendo dell´espulsione dei massoni».
Anche sulla collocazione internazionale del partito è tornato il tormentone polemico.
«Invece di lavorare a un´Internazionale democratica, c´è qualcuno che ha in mente di fare aderire il Pd al Pse. Su questo punto, riconvocare la Margherita sarebbe d´obbligo, secondo quanto stabilimmo prima di scioglierci. Anche come presidente dei liberal del partito devo segnalare una sofferenza: quando Fassino parla del Pd come erede della tradizione di De Gasperi e dell´eurocomunismo di Berlinguer, mi domando come mai dimentica Luigi Einaudi e cancella Ugo La Malfa».

Repubblica 8.7.10
Le correnti
In un partito, che non è un´azienda o una caserma, sono segno di vitalità. Ma possono degenerare trasformarsi in bande spudoratamente intente alla lottizzazione e diffondere l’antipolitica qualunquista
Il difficile equilibrio tra disciplina e pluralismo
La differenza è democrazia
di Carlo Galli

È, quella delle correnti, una metafora. Sta ad indicare che come nel grande spazio liscio del mare, così anche in un partito vi sono fiumi, privi di rive ma non di identità (quella napoletana di Gava era la "corrente del Golfo"). Indica insomma, quella figura retorica, il rapporto fra unità e differenza, fra il Tutto e la Parte, fra unità e divisione. Un rapporto che – insieme a quelle di comando/obbedienza, di amico/nemico, di interno/esterno – è una dimensione costitutiva della politica. E che riguarda anche lo Stato; il quale infatti, rispetto ai partiti, sta in una relazione analoga a quella che c´è fra un partito e le sue correnti: è un Intero, ovvero è il prevalere delle logiche dell´unità, poiché le divisioni non rescindono le radici del Tutto (tranne che non nascano guerre civili, o secessioni: in questi casi l´Uno muore, o meglio si moltiplica in diverse unità separate). Eppure, l´Uno non è tanto compatto da non essere attraversato da differenze organizzate, che pretendono di essere riconosciute come interne all´unità, ma distinte.
Gli Stati e i partiti totalitari, che fanno dell´unità un dogma, non tollerano "differenze"; quanto più alto è l´obiettivo della politica – riscrivere i destini del mondo, ovvero rifare l´uomo, attraverso la lotta di classe o il conflitto razziale – tanto più le correnti interne sono viste come tradimenti, come oggettivi indebolimenti dell´azione contro il nemico esterno. E vengono bollate come "cricche", frazionismi, scissionismi, gruppi antipartito, congiure; e spazzate via con sanguinose epurazioni – a volte vengono addirittura inventate, per regolare i conti con i concorrenti politici –. La storia del Novecento è costellata di queste dinamiche: feroci nei totalitarismi, vivaci nelle democrazie in cui la politica si incivilisce ma – a destra, al centro, a sinistra – conserva la tensione fra Parte e Tutto.
Ma perché è inevitabile che si formino "parti"? Perché, anzi, il formarsi delle correnti è segno che un partito è davvero politico e non un´azienda o una caserma, in cui non vi sono "correnti" ma "cordate" di carrieristi? Perché altrimenti il mare sarebbe una morta palude; ovvero, perché la politica ha a che fare con la pluralità del mondo; e quindi come lo Stato deve articolarsi in partiti per essere democratico, così all´interno di uno stesso partito, se questo non è una proprietà privata, non possono non manifestarsi differenze di opinione e di accenti; non possono non operare interessi materiali distinti; non possono non esistere personalità – diverse per stili, carattere, ambizioni – che a loro volta si circondano di persone che trovano utile essere "targate" come appartenenti a una corrente, e in quanto tali partecipare alla spartizione e alla distribuzione delle spoglie.
Inevitabili, e anzi segno di vitalità politica, le correnti possono degenerare, trasformarsi in bande, spudoratamente intente alla lottizzazione, all´affarismo, al saccheggio, alla pugnalata alla schiena, e compromettere quindi l´unità, l´efficienza, la riconoscibilità di un partito, o di uno Stato. Lo abbiamo visto, lo vediamo, e ne patiamo le conseguenze, anche col progressivo diffondersi di un´antipolitica qualunquistica. Ma non c´è formula che possa determinare una volta per tutte il giusto rapporto fra disciplina e pluralismo, fra Tutto e Parte, fra Unità e Differenze. La politica è un´arte più che una scienza, ed esige più sensibilità e prudenza che calcolo proprio perché ha a che fare con quella complessità della vita di cui anche le differenze – le correnti – fanno parte, nel bene e nel male.

il Riformista 8.7.10
Che senso ha parlare della Margherita?
di Peppino Caldarola, ex direttore dell’Unità

Mi piacerebbe capire che cosa sta accadendo nel Pd. Ogni tanto c’è un bagliore di fuoco. Prima sulla parola “compagni” poi sul socialismo europeo. Ora all’ordine del giorno c’è la convocazione dell’assemblea della Margherita. Quel partito non c’è più ma la sua assemblea esiste. È un nuovo mistero glorioso. Tuttavia non vedo lo scandalo. Se quelli che stavano assieme poco tempo fa decidono di rivedersi non c’è niente di male. Accade anche fra vecchio compagni di scuola. Generalmente è un sintomo di nostalgia e di vecchiaia. Si sa che le rimpatriate sono la cosa più triste che si possa organizzare. Non mi sfugge evidentemente il significato politico di questa convocazione. Il guaio è che nel Pd non si capisce più qual è il tema in discussione. Sui principali dossier aperti dalla situazione politica non vedo traccia di dibattito. Si sente dire, però, che gli ex popolari vivono un momento di malessere e soprattutto che il disagio investe i cattolici democratici. Non è roba da poco. Visto da fuori il Pd sembra un partito imbranato. È di moda dire che non fa opposizione, ma non è vero. È vero però che non morde e che la sua immagine è ancora troppo debole. Di questo bisognerebbe discutere. Invece quelli della Margherita ci propongono di interrogarci sul loro disincanto. Spesso si ha l’impressione che mentre la politica vera spinge da un lato, il dibattito nei partiti va per suo conto. Le nomenclature si combattono in modo incomprensibile. Ma ci volete spiegare che sta succedendo?

l’Unità 8.7.10
L’anniversario
I morti di Reggio Emilia Una lezione per la sinistra
Un convegno a cinquant’anni dalla strage. La battaglia di allora suggerisce l’agenda sindacale e politica di oggi: difesa della democrazia e dei lavoratori
di Stefano Morselli

Ed il nemico attuale è ancora e sempre uguale...». Il Teatro Ariosto ha davanti a sé la piazza in cui, il 7 luglio 1960, polizia e carabinieri uccisero Lauro Farioli, Ovidio Franchi, Marino Serri, Emilio Reverberi, Afro Tondelli e ferirono un’altra ventina di lavoratori. Dentro il teatro cinquant’anni dopo una strage che segnò la storia d’Italia la Cgil propone, più che una commemorazione, un’agenda sindacale e politica per le battaglie di oggi.
In sala non c’è Fausto Amodei, autore della canzone dedicata ai morti di Reggio Emilia, ma il senso delle parole dei relatori richiama quei versi. «Continuano a confrontarsi due Italie scandisce Marco Revelli, storico e sociologo -. Dietro Tambroni, c’era un blocco sociale e culturale che non aveva mai accettato la Resistenza e la Costituzione, che cercava di fermare il rinnovamento del Paese. Quel blocco, sconfitto nel 1960, ha continuato a manifestarsi in tutte le pagine oscure del nostro recente passato. E continua adesso, con il tentativo di demolire le istituzioni democratiche e i valori costituzionali, a partire dai diritti dei lavoratori».
La difesa del lavoro, dunque, diventa tutt’uno con la difesa della Costituzione. «L’articolo uno osserva Aldo Tortorella, ex partigiano, dirigente del Pci, oggi senza partito che parla del lavoro è il vero bersaglio del filo nero tra i tempi di Tambroni e i nostri». Alfredo Reichlin, altro padre nobile della sinistra, insiste in videoconferenza su questo tema: «Ogni colpo al lavoro non è solo un colpo ai sindacati: è un colpo alla democrazia. La modernizzazione ha riaperto in modo drammatico una nuova questione sociale. La civile convivenza tra le classi sociali è minacciata dalla precarizzazione e da fenomeni di semischiavitù».
Mirto Bassoli, segretario della Camera del Lavoro, ricorda i fronti dello scontro sui diritti: legge sull’arbi trato, modifica dell’articolo 41 della Costituzione, statuto dei lavoratori. E poi Pomigliano, la pretesa di imporre deroghe alle leggi, ai contratti, perfino all’articolo 40 della Costituzione sul diritto di sciopero. «Il Paese non è libero dice Bassoli se non è libero il lavoro». Da questo principio, la Cgil non intende arretrare: lo ripetono al microfono Loredana, Iman, Giovanni, Giorgia, giovani delegati delle Rsu. Hanno anche qualcosa da dire ai partiti della sinistra: «Ci state lasciando soli, non ci sentiamo rappresentati».
Tasto dolente al quale non si sottrae Reichlin. Lui ha sostenuto la nascita del Pd, ma ammette: «La sinistra non sta occupando questo campo di azione. Senza una nuova rappresentanza sociale, non può esistere una nuova sinistra politica». Autocritica, seppure su diverso versante, anche da Roberto Natale, presidente della Federazione nazionale stampa: «Sul lavoro l’informazione non ha fatto il suo dovere». Intanto, c’è un’altra emergenza, la legge bavaglio: «La contrasteremo in tutte le sedi. E siamo pronti alla disobbedienza civile e professionale».
Lotta senza quartiere la promette anche Carla Cantone, dirigente nazionale della Cgil: «Chi vuole distruggere la Costituzione non è un semplice avversario politico. È un nemico della libertà e della democrazia. Lo combatteremo con la stessa decisione dei giovani di quel luglio 1960».

l’Unità 8.7.10
Il ministro Alfano presenta una «riformicchia» in manovra. I cancellieri diventano magistrati
Colpo di mano sul processo civile. Giustizia solo per ricchi
Alfano presenta una mini-riforma del processo civile, che depotenzia i giudici. Protestano le opposizioni: è incostituzionale. Aumentano i balzelli per i ricorsi in appello e in cassazione. Giustizia per l’élite.
di Bianca Di Giovanni

Nelle ultime concitate ore di esame della manovra in commissione al Senato arriva anche una mini-riforma del processo civile. Tanto per trasformare il disordine in caos completo. Mentre il governo litiga e tenta di placare le proteste dei cittadini, allungando i tempi dei lavori parlamentari (la manovra arriverà in Aula solo martedì e la fiducia sarà votata giovedì), il ministro Angelino Alfano in persona si presenta in commissione Bilancio per annunciare la sua «riformicchia». Il testo prevede tra l’altro che gli ausiliari potranno decidere le sorti dei processi civili, e che i cancellieri potranno raccogliere le prove. Due funzioni oggi affidate ai giudici. In sostanza si indebolisce il processo, si attenuano le garanzie per i cittadini. Nel frattempo altri balzelli si impongono ai cittadini che chiedono giustizia: sale a 500 euro il contributo per i ricorsi in Cassazione, mentre aumenta del 50% il contributo unificato per le impugnazioni davanti a tribunale e corte d’appello. Come dire: la giustizia è roba da ricchi.
REAZIONI
Le disposizioni di Alfano sul processo civile hanno provocato la decisa protesta dei senatori, che hanno chiesto la sospensione dell’esame e la convocazione della Commissione Giustizia, titolata ad esaminare la materia. «Non si vede come una riforma del processo civile possa essere fatta all’interno della manovra dichiara Felice Casson Quanto al merito, le misure mi paiono molto gravi. Senza contare che anche i cancellieri mancano, quindi non si vede come si possa accelerare la giustizia civile dando più compiti a loro. Sul processo civile è stata presentata una proposta di legge, in quella sede andrà valutata la riforma». Andrea Orlando e Cinzia Capano del Pd accusano il fatto che «l’emendamento nega il diritto ad un processo giusto innanzi ad un giudice predeterminato per legge in tutti i processi civili. Con queste misure si premiano di fatto i giudici pigri. Inoltre, destinando a magistrati in pensione il ruolo di ausiliari, si danneggiano i giovani». «L'emendamento presentato dal Governo alla manovra sul processo civile è davvero una vergogna perchè, così facendo, il vero obiettivo che si vuole raggiungere è quello di privatizzare la giustizia civile», commenta il deputato Pd Lanfranco Tenaglia.
Le misure mettono in fibrillazione anche la maggioranza. Tant’è che in commissione Giustizia si era pronti a votare unanimemente un invito al ritiro. Ma il centrodestra ha interrotto i lavori ed ha deciso di contattare Alfano. Al rientro, la posizione dei senatori di maggioranza era radicalmente cambiata: hanno stilato e votato un parere favorevoli a certe condizioni. Le opposizioni si sono mantenute sulle loro posizioni iniziali. invito al ritiro. Dunque, l’emendamento resta e oggi sarà esaminato dalla commissione Bilancio. «È stato un fulmine a ciel sereno commenta la senatrice Silvia Della Monica Non capiamo perché Alfano si ostini a insistere».
Una valanga di altri emendamenti si è abbattuta ieri sul decreto, mentre Giulio Tremonti si è vantato in conferenza stampa di essere riuscito a riformare le pensioni con un emendamento senza provocare proteste. Chissà in che mondo vive. Arrivano le modifiche fiscali chieste dalla Confindustria, viene cancellata la disposizione sulle tredicesime, si finanzia un fondo per la sicurezza con uno stanziamento di 80 milioni per ciascuno dei due anni. Restano i pesanti tagli al pubblico impiego: anche gli 007 vengono colpiti, con un piano di snellimento che prevede 570 prepensionamenti. Nella conferenza dei capigruppo la maggioranza e il relatore assicurano che la fiducia sarà chiesta sul testo della commissione: nessuna novità dell’ultim’ora nel maxiemendamento. Più volte presentato, ma alla fine ritirato, anche un emendamento che prevedeva un taglio agli stipendi Rai.

l’Unità 8.7.10
Macché veleno Cleopatra fu vittima di Ottaviano
di Benedetto Marzullo

Un recente scoop (la Repubblica, 28 giugno, p. 37) proclama che «Non fu l’aspide, Cleopatra morì bevendo cicuta». Due studiosi, ovviamente americani, lo assicurano: un antichista, col debito sostegno di un tossicologo. Induttivamente, essi escludono che la regina ricorresse al veleno, consapevole che il tossico, tuttavia sperimentato a quel tempo (nel bene e nel male), «avrebbe procurato una...morte, ma solo dopo sofferenze atroci, salvo complicazioni, un salvataggio inatteso. Ripiegò quindi su una pozione di oppio e cicuta (!), addirittura lasciò istruzioni di (per) costruire la leggenda del morso del serpente, per restare nel ricordo della eternità». Espedienti di sorprendente vacuità: ingiuriosi per una regina, per una donna, dotata di senno, in verità di autentico senso della storia, di leggendario talento. «Menzogna gigante (in italiano gigantesca), ma via che cosa non si perdona a una donna bellissima e geniale», conclude tollerante l’articolista. La parola «genialità» non basta per fare storia, tanto meno per accreditarla, farisaicamente.
Che Cleopatra sia morta è indiscutibile, fantasioso però che provvedesse personalmente ad imbastire un copione da operetta, attuandone regia ed interpretazione. Della sua esistenza avventurosa, femminilmente chisciottesca (sembra il prototipo della drag queen), poteva dirsi soddisfatta: avrebbe continuato imperturbata ad esibirla (e a goderne), salvo eventi imprevedibili. Culmine delle sue aspirazioni era un impero planetario, miraggio della intera dinastia, ostinatamente perseguito dal suo capostipite Alessandro, meritamente designato Magno, stroncato anche lui dalla morte (naturale?) a poco più di trent’anni, in congiunture in apparenza non diverse dalla straordinaria Cleopatra: essi tentano una impresa ecumenica, fantasmagorica per l’Occidente, destinata a travolgerli. La dimensione, straordinaria, ma femminile di Cleopatra, risulterà delirante: della vicenda si impadronirà il cinema, i ristretti confini drammaturgici vengono forzati dalla ingorda filmografia, a riattivare se non esacerbare la commozione provvederanno sopravvenuti: spesso incauti studiosi, avventurieri massmediatici.
Non resta che rinunciare ad affabulatorie divagazioni, ritornare alle fonti, per quanto trasmesse da testimoni postumi, talvolta perplessi, superficiali. Plutarco (il maggiore, un secolo più tardi) di continuo avverte della aleatoria tradizione. Tra romanzeschi dettagli, riferisce che la regina, dopo una estrema visita dello sfortunato Antonio, rimpiange tra le innumerevoli sofferenze la stragrande brevità del tempo vissuto lontana (?) da lui, provvede ad una energica toilette: si abbandona tuttavia ad un banchetto «sontuoso» (Plutarco non saprebbe usare più acconcia sommarietà). Solo interrotto all’arrivo di un pastore, che le consegna il cesto dei fatidici fichi (abbondano, del resto, in Egitto), licenzia tutti, salvo le rituali due ancelle, scrive un biglietto ad Ottaviano. Che arriva, fulmineamente. Intuisce la tragedia, spalanca le porte, la catastrofe è compiuta: Cleopatra giace morta, su un letto ovviamente d’oro, regalmente addobbata.
Delle figliole, una era spirata ai suoi piedi, l’altra semisvenuta, il capo rovesciato, cercava di acconciarle il diadema sulla testa. Qualcuno potrebbe dirle, irritato: «Stai facendo bene, ragazza?» E lei: «Anzi benissimo, come si addice a chi discende da tanta dinastia». Non disse altro, crollò ai piedi del letto. Il duetto appare dovuto all’ingegno di Plutarco, farisaico pennaiolo.
Le vittime della sceneggiata sono indissolubilmente tre, un impreveduto eccidio: unico il mandante, identici gli esecutori, due involontari testimoni. Ad ordinarlo è indubitabilmente il giovane Ottaviano, definitivamente sbarra le porte dell’Oriente, lo riunisce con l’Occidente. Verrà consacrato col risonante nome di Augusto (27 a. C.), il primo degli imperatori romani: a dispetto di Cleopatra, della sua stravolgente bellezza.

l’Unità 8.7.10
Cartoline dal Sudafrica
I carcerati che tifano per i loro carcerieri
di Marco Bucciantini

Il ragazzino nero gioca sul prato del lungomare di Città del Capo. Ha la maglia arancione di Sneijder, e para i comodi tiri del
padre, Ralph Bakkies, un signore di 46 anni con la fronte spaziosa e poca barba sul mento e sulle guance. Quella fu la maglia anche di Hendrik Verwoerd, per dirne uno: non giocava nella squadra di Cruyff, ma fu leader nel National Party che segregò Ralph, i suoi genitori, la sua famiglia di 23 persone. Però Ralph e suo figlio tifano Olanda. Martedì sera lo stadio era ammantato di arancione. Molti erano venuti da Amsterdam, altri sono gli olandesi di centesima generazione, gli afrikaner, e prima ancora boeri (significa “contadini”, perché vennero 4 secoli fa a coltivare la terra e allevare bestiame per sfamare i naviganti della Compagnia delle Indie Orientali che doppiavano il Capo di Buona Speranza denutriti e malati). Ma la gran parte del tifo era dei neri sudafricani di questa penisola che fu selvaggia e respingente, fino all’arrivo dell’esploratore Jan van Riebeeck, partito da Rotterdam con tre navi, lunghi riccioli neri e baffi a manubrio: fondò Città del Capo.
I giornali di ieri scrivevano: “L’Olanda vince nella sua città madre”. Non c’era sudditanza, nel titolo. Se la storia si fa a spanne, e spesso a scuola si studia così, gli ex carcerati stanno forsennatamente tifando per i carcerieri, sindrome studiata dalla psicanalisi. Ma la storia è un’altra: “L’apartheid è finito”, fa Sibabalwe, tassista di colore che fino a 15 anni fa lavorava l’orto di casa, e la sua strada finiva lì. “Gli inglesi, sono stati gli inglesi”, ripete, e distingue fra coloni e invasori. I britannici incarognirono la vicenda, massacrando i boeri e separando quelle che sembrarono loro troppe etnie per vivere in pace: queste terre deserte furono “imbastardite”, olandesi e inglesi le popolarono dei loro schiavi di continenti diversi. Nel 1948 gli afrikaner ereditarono questo abbozzo di segregazione e ne fecero ignobile politica di governo. Ma i neri di Città del Capo sono in pace e prendono la storia per la coda: gli olandesi hanno denunciato l’apartheid, e fu uno loro discendente, Frederick Willem de Klerk, a scarcerare Mandela e chiudere così il secolo breve.
Poco più in là, verso l’aeroporto, i neri delle township non sanno nemmeno com’è finita la partita perché chi ha fame non può essere in pace.
l’Unità 8.7.10
Questa violenza
di Luigi Manconi

Una giornata di ordinaria violenza istituzionale. Dentro e fuori il Palazzo, dentro e fuori Alle ore 15.45 di ieri, 7 luglio 2010, il ministro per i rapporti con il Parlamento nel corso del question time, rispondeva così agli interrogativi posti da Livia Turco: all’origine della tragedia dei 245 tra eritrei e somali rinchiusi nel carcere di Brak, vi sarebbe «un equivoco». Ai profughi sarebbe stato sottoposto un questionario per essere avviati a «lavori socialmente utili», ma gli eritrei e somali si sarebbero rifiutati, temendo che, attraverso quella procedura, venissero rimpatriati a forza. Da qui il trasferimento, in condizioni disumane, nel carcere di Brak.
Il grottesco infortunio di questa risposta del Governo, che riduce un autentico dramma umanitario alle dimensioni piccine di un fraintendimento, ha segnato questa giornata di ordinaria violenza istituzionale. E, infatti, che cosa è più violento tra il comportamento brutale della polizia nei confronti dei cittadini de L’Aquila che manifestavano a Roma e la menzogna sulla sorte di quegli uomini in fuga da regimi totalitari? E, ancora, c’è qualcosa di più violento dell’ottusa indifferenza nei confronti di quei disabili che vedono ridursi drasticamente sussidi già miserevoli e previdenze economiche tanto esigue da risultare oltraggiose? Se osservata attraverso questi fatti e attraverso lo sguardo di tanti soggetti deboli, terre-
motati o disabili o fuggiaschi quella di ieri può sembrare davvero una giornata da fine regime. Dalla sudaticcia rincorsa a rattoppare, rappezzare, rappattumare una manovra che fa acqua da tutte le parti allo sfarinarsi di una maggioranza, tanto più imponente sulla carta quanto più goffa e arrancante nei fatti, dal ricorso irresponsabile alle forze dell’ordine (minacciate, a loro volta, da tagli micidiali) all’ostentato cinismo, nei confronti di quel principio universale che è il diritto d’asilo, si ha la sensazione di un sistema di potere che si avvia a un irreparabile declino.
Sarebbe un errore credere che questo significhi, quasi automaticamente, l’inizio di un tempo nuovo. La fine del berlusconismo è destinata a passare attraverso una crisi lunga e devastante, che non si limiterà a logorare i suoi protagonisti, ma che avrà effetti velenosi e conseguenze debilitanti per l’intera società. Per dirne una, la campagna ideologica contro lo straniero e quel sistema di interdizioni e divieti, obblighi e sanzioni che, tramite delibere di amministrazioni locali, intendono disciplinare la vita sociale, non sono revocabili né in breve tempo né attraverso semplici azioni positive. I guasti, e che guasti, hanno inciso in profondità nella mentalità condivisa, nelle relazioni sociali e nei modelli di vita. Proprio per questo è fondamentale che, da subito e in ogni spazio agibile, si operi per affermare un punto di vista diverso. La vicenda dei cittadini de L’Aquila è così importante proprio perché dimostra come la cosiddetta “politica del fare” si riduca a un osceno esercizio di retorica, dove tra effetti speciali e cotillon si cancella la vita vera delle perone. E la vicenda degli eritrei è, sì, una questione umanitaria, ma è anche molto di più: è in gioco la vita di quei profughi e, insieme, la nostra civiltà giuridica.

mercoledì 7 luglio 2010

l’Unità 7.7.10
Eritrei detenuti in Libia
Il Consiglio d’Europa chiede conto all’Italia
Frattini non risponde ma, assieme a Maroni, manda una lettera al “Foglio”: «Mediazione in corso con Tripoli». Che, intanto, picchia i prigionieri feriti
di Umberto De Giovannangeli

Non è più il silenzio dell’imbarazzo. È molto di più. E di più grave: è il silenzio dei complici. Il silenzio del governo italiano nei confronti dei disperati appelli che giungono dal carcere di Brak, nel sud della Libia, dove sono segregati oltre 200 eritrei. Picchiati, torturati, senza cibo, acqua, assistenza medica. «Abbiamo bisogno di ottenere lo status di rifugiati, perché stiamo morendo nel deserto». È la richiesta di aiuto lanciata da uno dei segregati raggiunto da CNRmedia. «Siamo a Brak, vicino al confine con il Niger. Siamo in una prigione sotterranea. Ci torturano a tutte le ore. Ci insultano, ci picchiano, ci torturano. La tortura è frequente, tutto è frequente..». «Alcuni di noi prosegue il racconto erano stati arrestati perché già abitavano in Libia, altri sono stati presi nelle città, altri ancora sono stati respinti dall’Italia lo scorso anno. Anche se avrebbero avuto il diritto di essere accolti come rifugiati sono stati respinti...».
Respinti dall’Italia. Abbandonati al loro destino. Un destino di sofferenza, forse di morte. «Tra di noi racconta uno dei segregati ci sono anche 18 donne e bambini. Ad alcune persone sono state spezzate le braccia, gambe, hanno le teste rotte. Le torture sono state molto pesanti...». Testimonianze drammatiche. Come quella raccolta da don Mussie Zerai, sacerdote eritreo, responsabile dell’ong Habesha, un’associazione che si occupa di accoglienza dei migranti africani: «I feriti (diciotto) che hanno chiesto di essere curati denuncia Zerai per tutta risposta sono stati picchiati selvaggiamente... E mentre venivano malmenati, le guardie gridavano loro: è quello che meritate per esservi ribellati alle nostre leggi...».
Aiuto richiesto, aiuto negato. «Siamo qui senza speranza dice a CNRmedia uno dei disperati di Brak senza alcun tipo di aiuto... Nessuno può venirci a vedere, nessuno viene a proteggerci... Abbiamo il diritto di essere riconosciuti come rifugiati, abbiamo bisogno di aiuto da parte della comunità internazionale proprio qui e ora. Perché stiamo morendo nel deserto.... Incalza Amnesty International: a seguito dell’Accordo di amicizia, partenariato e cooperazione concluso nell’agosto 2008 tra Italia e Libia, a partire dal maggio 2009, le autorità italiane hanno trasferito in Libia migranti e richiedenti asilo intercettati in mare. Secondo i dati del governo italiano rileva Amnesty tra maggio e settembre 2009, 834 persone intercettate o soccorse in mare sono state portate in Libia. Lo stesso governo italiano ha comunicato al Comitato europeo contro la tortura che tra le persone «riconsegnate» alla Libia vi erano decine di donne, almeno una delle quali in stato di gravidanza e diversi minori.
L’Italia sotto osservazione. Con due lettere inviate lo scorso 2 luglio al ministro degli Esteri, Franco Frattini, e al ministro degli Interni, Roberto Maroni il cui testo è stato reso noto solo ieri il Commissario ai diritti umani del Consiglio d’Europa, Thomas Hammarberg, ha chiesto al governo italiano di «collaborare al fine di chiarire con urgenza la situazione con il governo libico». Secondo i numerosi rapporti ricevuti dal Commissario Hammarberg prima del trasferimento dei 250 eritrei da un campo di detenzione all’altro, «il gruppo sarebbe stato sottoposto a maltrattamenti da parte della polizia libica, e molte delle persone detenute sarebbero rimaste gravemente ferite». Sempre in base ai rapporti ricevuti scrive Hammarberg nella lettera tra i migranti, che rischierebbero ora l’espulsione verso l’Eritrea o il Sudan, vi sarebbero anche dei richiedenti asilo, e il gruppo includerebbe anche persone che sono state ricondotte in Libia dopo essere state intercettate in mare mentre cercavano di raggiungere l’Italia. «Data la recente decisione delle autorità libiche di porre fine alle attività dell’Unhcr nel Paese, è divenuto estremamente difficile avere conferme sull’accuratezza di questi rapporti», scrive il commissario che, vista la «serietà delle accuse», domanda all’Italia di collaborare al fine di «chiarire con urgenza la situazione con il governo libico». La risposta arriva... via Il Foglio. «In queste ore scrivono Frattini e Maroni in una lettera al quotidiano di Giuliano Ferrara è in corso una delicata mediazione sotto la nostra egida, mediazione che stiamo finalizzando, per poter arrivare all’identificazione dei cittadini eritrei, i quali, è bene saperlo, timorosi di farsi identificare rendono impossibile la definizione del loro status, e poter loro offrire un’occupazione, nella stessa Libia, contro il rischio e la paura del rimpatrio».
Da Mosca, Frattini fa sapere che Tripoli « ha già dato segnali di importante disponibilità» per fare chiarezza sulla sorte di 250 eritrei detenuti in Libia». «Il contributo dell’Italia non è mai mancato e non mancherà afferma il titolare della Farnesina ma lo faremo nei modi che portano al risultato e non in quelli che servono a far pubblicità a qualcuno, senza ottenere il risultato». «Il risultato insiste si ottiene guardando cosa sta accadendo, chiedendo la collaborazione delle autorità libiche, perché la Libia è uno Stato sovrano e noi rifiutiamo l’approccio colonialista che alcuni sembrerebbero indicare». Controreplica: «L’Italia ricorda Hammarberg ha il dovere di vigilare sul rispetto dei diritti umani e di evitare di rinviare migranti, inclusi richiedenti asilo, in Paese dove rischiano di essere torturati o maltrattati».

l’Unità 7.7.10
Fotografia di una speranza
di Igiaba Scego

Il dramma dei 245 rifugiati trasferiti dal centro di detenzione di Misurata al centro di Sebha non mi fa dormire. Penso a quanti stanno marcendo (letteralmente!) nei lager libici finanziati dall’Italia. Gente del mio Corno D’Africa, ragazzi e ragazze che hanno l’età di mia nipote Ambra. Ora mia nipote ha concluso la sua maturità, è felice, pensa alle vacanze. Ma se fosse nata a Mogadiscio come sua madre e sua nonna ora cosa ne sarebbe di lei? Forse si troverebbe a Sebha. L’occidente delega alla Libia il lavoro sporco e vende sottobanco armi al Corno D’Africa. Le coste poi sono state sommerse dai rifiuti tossici. Le dittature e le guerre del Corno sono anche il frutto di queste cattive politiche occidentali. Da una parte all’Occidente piace ballare il waka waka di Shakira, dall’altra chiude gli occhi davanti a violazioni dei diritti umani. Stavo pensando a questo quando mi è arrivata la mail di Speranza Casillo con il link alle foto che aveva scattato il primo Luglio al consolato somalo (http://www.flickr. com/photos/speranzacasillo). Mi sono commossa. Al consolato la diaspora somala di Roma ha voluto commemorare i 50 anni dell’indipendenza. Non era una festa (per un somalo c’è poco da festeggiare) ma uno stare insieme. Speranza ha colto con le sue fotografie l’anelito dei somali di voler ritornare a quel giorno del 1960. Donne bellissime, signori dal viso intenso. Ma è il volto dei ragazzi a smuovere l’anima. Ragazzi che hanno preso i barconi per Lampedusa prima dei respingimenti, ragazzi che hanno assaggiato la durezza delle carceri libiche. Ragazzi che nonostante tutto riescono ancora a sorridere. Quando gli ospiti importanti se ne sono andati i ragazzi hanno preso possesso del consolato. Hanno ballato fino allo sfinimento. È stato un giorno lieto. Per molti il primo dopo tanto tempo.

Repubblica 7.7.10
"Malati, senza cibo e torturati qui in Libia siamo sepolti vivi"
L’appello di uno dei rifugiati: "Tirateci fuori dall´inferno"
"È scoppiata un´epidemia di dissenteria, rischiamo di contagiarci tutti"
di Daniele Mastrogiacomo

ROMA - «Possiamo parlare pochi minuti. E´ molto pericoloso. La polizia può arrivare da un momento all´altro. Ci controllano in continuazione. Per loro controllo significa picchiarci a sangue, con i bastoni, scariche elettriche. Ci danno cibo avariato e acqua piena di fango. Siamo in pericolo, temiamo di non farcela: molti sono ammalati, è scoppiata un´epidemia di dissenteria, rischiamo di contagiarci tutti. Ormai abbiamo smesso anche di gridare. Siamo davvero allo stremo. Non abbiamo alternativa: restare sepolti qui sotto o finire di nuovo in Eritrea. In ogni caso, morire».
La voce del rifugiato arriva a tratti. E´ quasi un sussurro. Arriva dal cuore della Libia, dal centro di detenzione di Braq, 75 chilometri da Sebha, regione desertica centromeridionale. Lo chiameremo Mohammed, ma è un nome di fantasia. Svelare la propria identità è troppo pericoloso. Questione di vita e di morte. Basta poco per sparire, magari sotto metri di sabbia del deserto. Abbiamo ottenuto il numero di uno dei due cellulari. La linea si prende con difficoltà. Ma alla fine, dopo alcuni tentativi e sms rassicuranti, ci risponde la voce di un uomo. Una voce «da dentro». Una testimonianza diretta del dramma che stanno vivendo oltre 200 eritrei e somali, immigrati e rifugiati. Una storia assurda ma emblematica di come la politica dei respingimenti possa produrre delle ingiustizie: violazioni dei diritti internazionali dei rifugiati sanciti dalle Nazioni unite e sottoscritte anche dall´Italia. L´Italia degli accordi con la Libia.
«Adesso siamo in 205», ci racconta Mohammed. «Divisi in une stanze: 101 in una e 104 in un´altra. Tutti uomini. Dormiamo in piedi. Non riusciamo neanche a muoverci. Ci sono molti feriti e chi non resiste perde i sensi ma è sorretto dagli altri corpi. Se qualcuno crolla è spacciato: finire per terra significa restare soffocati. Veniamo dalla Somalia e dall´Eritrea. Come tanti altri volevamo andare in Italia, in Europa e poi magari in Canada. Molti tra noi erano già arrivati nel vostro Paese. Ma poi siamo stati trasferiti in Libia, nonostante avessimo tutti i requisiti per ottenere l´asilo politico. Respinti e basta, senza alcuna verifica. Siamo rimasti in Libia per un anno e sei mesi. Ci hanno rinchiusi nel Centro di accoglienza di Misurata: un centro molto bello, tenuto bene, dove era possibile anche uscire. Le donne per fare la spesa, i bambini per giocare e studiare, gli uomini per andare a lavorare nei cantieri edili. Poi è cambiato tutto, di colpo. Forse perché è stato chiuso l´ufficio dell´Unhcr. Niente più visite, niente più controlli medici, niente assistenza. Niente più uscite. Il centro è diventato una vera prigione. La vita, per i pochi che riuscivano a lavorare all´esterno, è diventata ancora più dura. Vessazioni, insulti, diritti inesistenti. Hanno smesso anche di pagarci sui cantieri. La sera del 29 giugno è scoppiata una rivolta. Ci hanno messo davanti un foglio nel quale accettavamo di rientrare in Eritrea. Sappiamo leggere: c´era scritto esattamente così. Non avevamo alternative: l´Eritrea per noi significa torture e carcere. Molti hanno tentato una fuga, in trenta ci sono riusciti. Gli altri, dopo una battaglia durata fino all´alba con la polizia e i gruppi speciali, sono stati picchiati selvaggiamente, infilati in alcuni container e trasferiti in mezzo al deserto. Solo gli uomini, le donne sono rimaste a Misurata. Il viaggio è avvenuto di giorno e può immaginare in quali condizioni. Molti sono svenuti durante il trasferimento. Mancava l´aria, non c´è stato il tempo di prendere dell´acqua potabile. Nelle brevi soste - prosegue il rifugiato - colpivamo disperati sulle pareti infuocate del container. Le guardie aprivano e picchiavano con bastoni e mazze di ferro. C´erano molti feriti, avevano bisogno di cure. Altri stavano male, cominciavano i sintomi della dissenteria. Il viaggio è durato tutto il giorno. Ci hanno detto che è stata una punizione. Quando siamo arrivati a Braq faceva buio. Altri colpi, altre bastonate. Sembravamo un branco di animali. Sporchi, laceri, bruciati dal calore impossibile, ammassati gli uni sugli altri. Ci hanno chiuso in queste due stanze e ci hanno messo davanti lo stesso foglio nel quale accettavamo di essere rimpatriati in Eritrea. Abbiamo protestato, noi siamo dei rifugiati politici. Lo siamo da oltre due anni. La risposta è stato un altro pestaggio. Qualcuno, da Misurata, ha dato l´allarme. Abbiamo nascosto un paio di cellulari. Riusciamo ad usarli a fatica».
«Vogliamo avere fiducia - conclude Mohammed - vogliamo aggrapparci a tutto, vogliamo vivere. Siamo dei sepolti vivi, senza medicine, con delle condizioni igieniche terribili, tra la sporcizia, gli escrementi, poco cibo e pochissima acqua. L´Italia deve reagire, deve premere sul governo libico. Siamo gente che è fuggita con le famiglie, i bambini, le nostre donne da un paese che ci ha condannato. Chiediamo un po´ di luce in questo tunnel buio e disumano. Chiediamo solo di poter vivere. Devo chiudere, arrivano i poliziotti. Spero di sentirla di nuovo, spero di superare anche questa notte».

il Fatto 7.7.10
Nella gabbia di Ponte Galeria, dove gli immigrati “scompaiono”
Nel Cie alle porte di Roma l’identificazione è spesso impossibile
di Lorenzo Di Pietro

“Sembra una grande simulazione di sicurezza”. É la prima impressione di Leoluca Orlando, con noi a visitare il Cie – Centro di Identificazione ed Espulsione – di Ponte Galeria. “Si è costruito un sistema che consente di tenere per 6 mesi delle persone dentro dei veri e propri carceri, con la scusa delle identificazioni, pur avendo riscontrato che se un immigrato non viene identificato nei primi 15 giorni, o nel primo mese, non verrà identificato nei restanti 5 mesi”. Una detenzione “lunga ed estenuante”, osserva, “in contrasto con diritti universalmente riconosciuti”. Gli ex Cpt ospitano gli immigrati non in regola al fine di procedere, appunto, all'identificazione e al successivo rimpatrio. Nella delegazione presente ieri in visita anche il deputato Fabio Evangelisti, il garante dei detenuti della Regione Lazio Angiolo Marroni, l'avvocato Gianpiero Vincenzo Ahmad, esperto di diritti umani e membro dell'assemblea generale della moschea di Roma, la giornalista Livia Parisi e la mediatrice culturale Carmela Menzella. A guidare la visita all'interno della struttura il vice prefetto, inviato dal ministero, un funzionario di polizia e il Direttore di Auxilium, la cooperativa che ha sottratto alla Croce Rossa l'appalto per la gestione delle mense, dell'infermeria, dell'assistenza psicologica e degli altri servizi. Il centro che ospita oggi 90 uomini e 93 donne, Più o meno la metà della capienza massima del centro. Circa 42 euro al giorno, il costo per singolo “ospite”, ma sarebbe meglio dire detenuto, per un costo annuo pari a circa 3 milioni di euro. Senza calcolare come costo principale quello delle forze dell'ordine quotidianamente impiegate. Tante, a giudicare dal via-vai di camionette, pullman e mezzi. Soldi spesi bene? Secondo il vice prefetto, circa il 60% degli ospiti viene rimpatriato. “Una percentuale che potrebbe essere maggiore”, sostiene, “se ci fosse la collaborazione dei consolati e delle ambasciate”, che invece, pare, non collaborano ai riconoscimenti. La quasi totalità degli ospiti, precisano i funzionari, ha già avuto precedenti penali. Tutto si presenta pulito e ordinato: la visita era stata ampiamente annunciata. Diversamente, è impossibile entrare per chi non è parlamentare. Si inizia con l'infermeria. Quattro signore straniere in camice e una detenuta cinese incinta cercano di comunicare usando un vocabolario. Non si capiscono. La donna dice di non conosce i caratteri latini. Nel breve frangente del nostro passaggio, la Menzella si offre: “io parlo cinese” e tenta di tradurre, ma la invitano a seguire la delegazione, “motivi di sicurezza”. La sezione maschile è un grande spazio separato da sbarre ovunque, che dividono piccoli spazi rettangolari: ciascuno è una cella. Gli ospiti capiscono che c'è qualcuno e vogliono parlare. Un ragazzo marocchino si rivolge a Orlando raccontando la sua storia. Ha una moglie e un figlio in Italia, dice, vorrebbe poter uscire per recuperare il suo stipendio e tornare al suo Paese. Lavorava in nero come panettiere. Tra gli ospiti ce n'è uno molto speciale. Khalid Ibrahim Mahmoud. Che ha scontato 26 anni di carcere per essere stato a capo del “Abu Nidal”, il commando che nel 1985 apri il fuoco all'imbarco della compagnia aerea israeliana El Al, uccidendo 13 persone. Passò alla storia come “strage di Fiumicino”. In 26 anni di carcere non era stato identificato. Ora è al Cie. Ma se queste persone sono già state in carcere, dove hanno scontato una pena, come mai per l'identificazione vengono chiuse nuovamente in una struttura che è, a tutti gli effetti, carceraria? È quanto si chiede Evangelisti: “È l'ennesima furbata del governo Berlusconi, fare della propaganda sulla pelle di cittadini che hanno soltanto la colpa di non avere documenti irregolari. Qui si scopre però anche un'altra realtà – continua strutture servono, più che per i clandestini, per gli ex detenuti” come afferma lo stesso vice prefetto.
Quando stiamo per andare si crea un assembramento: tutti vogliono parlare e raccontare la loro storia, ma restano dietro le sbarre, tra le quali infilano le braccia quasi a cercare di afferrarci. E ci chiamano. Ma si procede, seguendo i funzionari. La mensa sembra ben organizzata, i pasti sono confezionati. “Ogni 15 giorni un responsabile parla con i rappresentanti dei vari gruppi etnici per equilibrare la scelta dei cibi”, ci viene fatto sapere. La moschea invece, è una stanza con un po' di tappeti stesi a terra. Usciamo mentre dall'altoparlante si sente intonare il richiamo alla preghiera delle 12.
La giornalista Livia Parisi ha scattato qualche fotografia, ma se ne sono accorti. Le intimano di cancellarle: deve farlo. Restano le immagini dei cancelli, fotografate all'uscita. E una giovane nigeriana, che esce dopo due mesi di detenzione, si guarda intorno per capire dov'è. E se ne va.

l’Unità 7.7.10
Il fascismo? Sdoganato dalla sinistra!
di Bruno Gravagnuolo

Fa bene Pierluigi Battista sul Corriere di Lunedì scorso in Particelle elementari, a invitare la destra a non fare più del vittimismo sulle «chiusure» culturali antifasciste in materia di storia memorialistica, letteratura etc., visto che ormai «Mussolini è entrato nell’empireo dello Strega», con la vittoria di Antonio Pennacchi. Invito però un po’ pleonastico. Perché ormai, a parte Gasparri, e sopite le ultime fiammate di Pansa, non è che la destra intigni più di tanto a fare del vittimismo e basta. Ci sono Fini con la Fondazione Fare futuro, Marcello Veneziani, Buttafuoco, Il Secolo, più svariati Think Tank di destra e liberal-conservatori, a fare la loro parte senza tanta acrimonia risentita, su torti e rimozioni subite. Quanto a Berlusconi, s’è inventato da tempo la Nuova Repubblica Presidenziale, che va al di là della «pur giusta Resistenza» e del «pur giusto antifascismo di ieri», avendo egli di mira un’altra Costituzione...Insomma la destra non se ne sta con le mani in mano a pestare l’acqua nel mortaio. E le sue guerre le conduce senza più prendere di petto l’antifascismo. Alla Pansa , alla Pera o alla Gasparri (sennò va a sbattere...). Ecco perché è pleonastico l’invito di Battista e un po’ tardivo. Così come banali ci paiono altresì certe battute contro l’eterna «sinistra culturale», al solito per Battista fatta di «arcigni sacerdoti ortodossi». Che nei decenni trascorsi avrebbero «allestito argini» e «con meticolosa prudenza». Contro la memoria del fascismo, i suoi tratti di «epopea popolare», i nessi con l’identità e la storia nazionale e quant’altro. Argini che sempre a detta di Battista oggi «smottano», come la vittoria del Pennacchi sulla Pianura Pontina e dintorni dimostrerebbero. Ma quali argini! La verità è un’altra. È stata proprio la sinistra culturale a sdoganare certe cose. La cultura europea di destra: Schmitt e lo Heidegger politico, Gentile, Evola, Eliade, etc. E il fascismo stesso come «biografia della nazione»: dall’urbanistica, ai Littoriali, al consenso, all’immaginario, al «lungo viaggio», al fascismo di sinistra. De Felice (per Einaudi) viene dalla lezione gramsciana e togliattiana. E anche il cinema fascista fu sdoganato dalla critica di sinistra, a cominciare da Alessandrini e dal celebrato Blasetti fascista, che girò Terra madre, guarda caso storia di un borghese di città che riscopre le «radici», divenendo imprenditore agrario della bonifica pontina. Ben prima di Pavone sul 1943-45, ci fu tutto un lavorìo «revisionista». Da sinistra, mica da destra! Inclusi film, memoriali, romanzi e storie di vita. Il fascismo? Lo ha sdoganato la cultura antifascista. Altro che censure e arcigni sacerdoti!

il Fatto 7.7.10
Indietro tutta
Scudo totale per il capo dello Stato, retromarcia Pd
L’irritazione del Quirinale, partito in confusione
di Wanda Marra

Retromarcia. Il Pd ieri, dopo il pezzo del Fatto quotidiano, ha ritirato l’emendamento-scandalo al Lodo Alfano con il quale avrebbe regalato al presidente della Repubblica uno scudo totale rispetto ai reati penali, presentato dal senatore e costituzionalista Stefano Ceccanti. Una scelta brusca (ci sono volute meno di 24 ore) per uscire dall’ennesimo pasticcio che avrebbe provocato incalcolabili reazioni a catena. A raccontarlo sono gli stessi membri della presidenza dei Democratici di Palazzo Madama (la presidente Finocchiaro, il vicepresidente vicario Luigi Zanda e i vicepresidenti Felice Casson e Nicola La-torre), che, una volta venuti a conoscenza dell’emendamento, si sono incontrati, hanno parlato con Ceccanti e l’hanno invitato a ritirarlo. Motivazione ufficiale: non era un testo della Presidenza che addirittura “non ne sapeva nulla”, come spiega lo stesso Zanda. Perché Ceccanti “non lo aveva concordato con il gruppo”. Dichiarano esplicitamente dallo staff della Finocchiaro, senza nascondere l’irritazione, di essere venuti a conoscenza di questo testo solo dopo la lettura del Fatto. E che la marcia indietro è stata immediata: anche perché, oltre al merito, questa modifica andava contro la strategia decisa dal Pd, che al Lodo Alfano ha deciso di presentare solo emendamenti soppressivi, visto che lo considera inemendabile.
Da non sottovalutare, poi, l’imbarazzo a cui si sarebbe esposto il Quirinale. Viene da chiedersi, infatti, perché il Capo dello Stato dovrebbe aver bisogno di uno scudo come questo. Tant’è vero che fonti interne al Pd raccontano di un Napolitano “preoccupato” dal possibile effetto boomerang della proposta. Preoccupazione ancora più comprensibile, visto che in qualche modo un emendamento del genere l’avrebbe finito per equiparare Berlusconi. Dal canto suo, il Colle si dichiara estraneo sia alla presentazione dell’emendamento, sia al suo ritiro. Tanto più che trattandosi di legge costituzionale non è richiesta neanche la firma del capo dello Stato. Una smentita categorica. Ma che comunque lascia qualche ombra a rileggere quanto scritto dal costituzionalista Michele Ainis (consigliere del Quirinale) sulla Stampa del 2 luglio, a proposito del Lodo Alfa-no: “Il vero errore sta nel voto a maggioranza semplice con cui le Camere decideranno l’autorizzazione a procedere verso il capo dello Stato”, che sarebbe “un improprio voto di fiducia” o “un’arma di ricatto”.
Intanto, lui, Ceccanti, costretto in prima persona alla marcia indietro senza possibilità di appello, si difende e ribadisce le sue ragioni. Diceva il suo emendamento: “Al di fuori dei casi previsti dall’articolo 90 della Costituzione (alto tradimento e attentato alla Costituzione, ndr), il presidente della Repubblica durante il suo mandato non può essere perseguito per violazioni alla legge pena-le”. Secondo Ceccanti questo era l’unico modo per evitare che il Quirinale potesse essere messo sotto processo dalla maggioranza parlamentare, magari a lui avversa. Perché l’articolo 1 del Lodo Alfano permetterebbe al Parlamento di dare il via libera, in seduta con-giunta, ad eventuali inchieste della magistratura sul presidente della Repubblica. Ceccanti insiste sul concetto di “riduzione del danno” alla base del suo comportamento e ribadisce la sua posizione. Ma poi spiega che ha dovuto chinare la testa per evitare “strumentalizzazioni mediatiche”. Tutta colpa del Fatto, verrebbe da dire. Che “concepisce l’opposizione in maniera lefebvriana”, risponde lo stesso costituzionalista. E anche se nessuno ci sta a parlare esplicitamente di “processo” a Ceccanti, quel che è certo è che le ferme e autonome convinzioni del senatore hanno provocato una brutta mattinata ai suoi colleghi di partito. “Era inopportuno insistere spiega Latorre era un pasticcio. Ed era un modo di fare un favore a Berlusconi, che non aspetta altro”. D’altra parte, gli stessi firmatari non hanno esitato a fare un passo indietro. “Ho detto io stesso a Ceccanti di ritirare il suo testo spiega Casson quando mi sono reso conto delle gravi controindicazioni che conteneva, prefigurando un foro privilegiato per il Capo dello Stato”. E ammettendo così che, seppur avesse firmato il testo, non sapeva bene cosa ci fosse dentro. A dimostrare lo sbandamento del Pd anche le dichiarazioni di Donatella Ferranti, capogruppo in Commissione Giustizia alla Camera, che si scaglia contro l’estensione voluta dal Pdl nel lodo Alfano affinché lo scudo valga anche per i “fatti antecedenti all'assunzione della funzione”. Un po’ quello che voleva Ceccanti per il Capo dello Stato.

Repubblica 7.7.10
Richiesta accompagnata da 87 firme: dobbiamo discutere del nostro disagio politico dentro il Pd
"Sì all´assemblea", risorge la Margherita accuse tra i democratici: voglia di fantasmi
Marini boccia l´iniziativa, ma cresce il timore che il terzo polo peschi nel partito
di Giovanna Casadio

ROMA - Chi non muore si rivede. E la Margherita, che fu di Rutelli, potrebbe riunirsi di nuovo con l´intenzione, tutta politica, di "processare" il Pd e con il rischio, concreto, di una scissione. Il pallino sta nelle mani di Enzo Bianco, presidente dei "margheriti" che si sciolsero nel 2007, come i Ds, per fondare appunto i Democratici. Bianco ha ricevuto ben 87 richieste, tra mail e telefonate, per «parlare di politica» in quell´assemblea che ha ancora i poteri del congresso del partito fino al giugno 2011, quando lo scioglimento sarà formale. Spiega che si muoverà con i piedi di piombo, perché nell´opposizione non c´è bisogno di divisioni né di salti all´indietro. Ma valuterà: «Potrei convocarla, sì. Vedremo quando e mi consulterò comunque con Marini, Bindi, Franceschini, Letta, Soro... mentre Parisi sta insistendo e anche Fioroni e Gentiloni sono favorevoli». Anche per l´area liberal, di cui Bianco è esponente, qualche problema nel Pd di Bersani c´è.
Parisi, il super-ulivista, preme per un chiarimento: «Indietro non si torna, non si sveglia la Margherita dal suo sonno giusto e profondo, ma l´assemblea sarebbe utile per valutare se il Pd risponde alle aspettative». Secondo coloro che si iscrivono tra gli insoddisfatti non corrisponde più alla sfida originaria. Ad esempio, Beppe Fioroni, ex Ppi, che invita a «non sottovalutare» le richieste di convocazione dell´Assemblea della Margherita, soprattutto quando vengono dai territori. «C´è certamente un malessere, però non sarei d´accordo ad affrontarlo in questi termini, anche se il Pd non suscita più le speranze iniziali», dice Ermete Realacci. Gentiloni invece precisa la sua posizione: «L´Assemblea va convocata su bilancio, patrimonio e sulla collocazione internazionale del Pd, perché noi deliberammo che non saremmo mai entrati in Europa nel Pse. Su altre questioni politiche sarebbe un errore, come se risorgesse Lazzaro».
Va detto che Rutelli - leader della Margherita, co-fondatore del Pd che ha abbandonato dando per fallito il progetto, ora fautore di un "terzo polo" e capo dell´Api (Alleanza per l´Italia) - ha molto interesse a un´Assemblea politica. Bocciata invece da Franco Marini, storico leader Ppi: «Chi si riunisce? I fantasmi? La Margherita non c´è più». Sulle barricate Rosy Bindi («Basta guardare indietro»), Dario Franceschini («È un partito che non esiste più»), Marina Sereni («Un errore riesumare il passato»). Dagli ex ds arrivano gli inviti a non fare e dire «sciocchezze» (Ugo Sposetti), però anche la comprensione del veltroniano Walter Verini («Risposta sbagliata ma il disagio nel Pd c´è»). «Il maldipancia è così esteso che si riesumano i morti», osserva Luigi Lusi che ha in mano la cassa della Margherita. La paura democratica è che le sirene del "terzo polo" peschino anche qui.

Repubblica 7.7.10
L´inutile aumento dei prof di religione
risponde Corrado Augias

Gentile dott. Augias, i docenti di religione, retribuiti dallo Stato ma giudicati idonei dal vescovo, sono aumentati. Vale la pena ricordare qualche altro elemento che caratterizza la posizione di questi docenti: è vietato accorpare gli studenti di più classi, cosa prevista invece per gli insegnamenti curricolari, minimi gli obblighi didattici, scatti biennali di stipendio aboliti per tutti gli altri insegnanti e sostituiti da scaglioni di cui la recente finanziaria prevede il congelamento. Da quest'anno è stato persino riconosciuto il credito scolastico, preludio ad una probabile introduzione del voto numerico che costituirebbe una grave discriminazione ai danni di chi non si avvale e di chi non può svolgere attività alternativa perché i soldi non ci sono. Da docente di storia devo inoltre constatare, negli studenti che si avvalgono dell'insegnamento della religione cattolica, l'enorme ignoranza delle nozioni di storia del cristianesimo e delle nozioni teologiche di base. Una sinistra laica e moderna avrebbe potuto impegnare il mondo della scuola e della cultura su questo deplorevole stato delle cose.
Maria Francesca Gulotta, liceo artistico di Brera (Milano) fgulot@libero.it

La posizione dei prof di religione è (al di là del possibile valore dei singoli) assurda e incostituzionale. L'art. 33 della Carta detta: «l'arte e la scienza sono libere e libero ne è l'insegnamento». Nel caso della 'religione' non è così. Idoneità ed eventuale revoca sono nelle mani dei vescovi. Il prof. Remo Cacitti (Storia del Cristianesimo, Statale Milano) mi faceva osservare che l'insegnamento della religione è stato dismesso dallo Stato e appaltato alla chiesa cattolica in tutte le scuole di ogni ordine e grado, ad eccezione dell'università. In questo modo: «la catechesi confessionale si è sostituita all'insegnamento pubblico, poiché la prima deve conformarsi a un sistema teologico, il dogma, l'altro è, come sancito nella carta fondamentale, libero». Cacitti faceva questo esempio: «di fronte alle attestazioni evangeliche secondo cui Gesù aveva quattro fratelli e alcune sorelle (Mc 6,3 par), il prof di religione può, in buona e formata coscienza, farsi persuaso che si tratti di veri e propri fratelli e sorelle, ma non potrà mai insegnarlo, pena la revoca dall'insegnamento per difformità dalla dottrina cattolica». La conseguenza, come osserva anche la prof Gulotta, è la profonda ignoranza degli italiani in materia religiosa, la superficialità di conoscenze limitate a pochi eventi leggendari vagamente edificanti. Mentre dall'università escono giovani molto preparati che non potranno utilizzare le loro conoscenze «poiché nessun laureato in queste discipline può andare liberamente a insegnare ciò per cui è stato formato».