domenica 11 luglio 2010

l’Unità 11.7.10
Dopo la Libia, il Sudan
Affari con al-Bashir incriminato all’Onu
di Umberto De Giovannangeli

La buona notizia: la ratifica è stata rinviata. La brutta: è solo un rinvio. Perché quell’Accordo «imbarazzante» è ancora sul tavolo. È l’Accordo di cooperazione economica tra l’Italia e il Sudan. L’Accordo denuncia Matteo Mecacci, parlamentare radicale eletto nel Gruppo Pd alla Camera definisce «i rapporti commerciali e finanziari, e dunque politici, anche con il Governo Sudanese nonostante sia guidato da un Presidente ricercato dalla Corte Penale Internazionale (istituita a Roma nella sede della Fao nel 1998) per crimini commessi nella regione del Darfur dove, nonostante la stipula di accordi tra le parti in conflitto che vengono regolarmente smentiti, si è verificata e continua a verificarsi una delle peggiori catastrofi umanitarie degli ultimi decenni...».
Le informazioni sulle gravissime violazioni dei diritti umani compiute dal Governo sudanese in Darfur rimarca Mecacci possono essere così sintetizzate: 1) la repressione violenta da parte del Governo sudanese dei movimenti ribelli in Darfur secondo le Nazioni Unite ha prodotto dal 2003 oltre 2,7 milioni di sfollati e rifugiati, e tra i 180 e i 300 mila morti; 2) le responsabilità dirette del Governo Sudanese in questa vera e propria campagna di sterminio hanno portato alla incriminazione non solo del Presidente al-Bashir da parte della Corte Penale Internazionale che, va sottolineato, ha iniziato le indagini su mandato del Consiglio di Sicurezza dell’Onu (il che significa senza l’opposizione dei suoi 5 membri permanenti), ma anche di altri esponenti governativi e di leader dei movimenti ribelli; 3) dopo l’incriminazione di al-Bashir da parte della Corte Penale Internazionale, 13 organizzazioni umanitarie internazionali che assistevano i rifugiati sono state espulse dal Darfur, aggravando una situazione già tragica; 4) allo stesso modo, dopo la richiesta di l’arresto di al-Bashir secondo il rapporto di Amnesty International 2010 sul Sudan, il Governo ha intensificato la repressione nei confronti di organizzazioni umanitarie, dei difensori dei diritti umani e degli oppositori politici, repressione che ha portato tra l’altro a più di 60 nuove condanne a morte 54 emesse da Tribunali Speciali antiterrorismo. 5) sempre secondo il Rapporto 2010 di Amnesty International nei campi di rifugiati in Darfur le violenze sulle donne, inclusi gli stupri, da parte delle milizie controllate dal Governo sudanese continuano in modo imperterrito. Se a tutto ciò si aggiunge che, dopo 10 anni dalla ratifica, e nonostante numerose iniziative parlamentari, l’Italia non ha ancora adeguato la legislazione interna a quella della Corte Penale Internazionale (e dunque il nostro Paese non sarebbe in grado di arrestare al-Bashir se si trovasse sul territorio italiano), la valenza politica di questo accordo diviene chiarissima, poiché il Paese che più ha voluto la nascita della Corte Penale Internazionale adesso è il primo a legittimare politicamente il maggiore e più importante imputato di quella stessa istituzione.
Sul rinvio della ratifica dell’Accordo interviene Italians for Darfur: «Siamo lieti di apprendere che il Governo abbia accolto la richiesta dell’onorevole Gianni Vernetti a nome dell’Intergruppo “Italia-Darfur” di rinviare la ratifica dell’Accordo tra Sudan e Italia in Commissione e ci auguriamo che questo sia un primo passo verso una nuova policy nei confronti di un Paese che continua a violare impunemente i diritti umani», rimarca l’associazione in una nota. Ma la speranza è tutta da costruire. Perché, a quanto risulta a l’Unità, la ratifica dell’Accordo è solo rinviata di qualche settimana, al massimo a settembre. «Questo provvedimento arriva in una fase delicata del conflitto in Darfur sottolinea Antonella Napoli, presidente di Italians for Darfur che rischia di riprendere con grande violenza. Avere uno strumento a disposizione per fare pressioni sul Governo sudanese, affinché freni l’escalation di violenza in Darfur e in altre aree del Sudan, riveste un’importanza cruciale». «Soprattutto aggiunge la presidente dell’associazione a fronte del rischio del ritiro della missione di pace dispiegata nella regione, come paventato da un comunicato delle Nazioni Unite che ha annunciato la possibile sospensione di numerosi programmi di aiuto alle popolazioni del Sudan finché il Governo sudanese non si spenderà in misure concrete di controllo e protezione dei convogli umanitari internazionali».
Oltre 400.000 darfuriani denuncia l’associazione «rischiano di non ricevere le razioni alimentari, da cui dipendono per la sopravvivenza, a causa delle proibitive condizioni di sicurezza, peggiorate dopo gli ultimi pesanti scontri tra forze governative e forze ribelli nel centro e nord Darfur, che hanno tagliato i principali nodi stradali dell’area. Dall’anno scorso, 17 operatori umanitari sono stati rapiti, e 27 peacekeepers dell’Unamid hanno perso la vita dal 2008 ad oggi... ». «Solo con pressioni diplomatiche e commerciali su Khartoum conclude la nota sarà possibile dar corso in modo efficace alla missione e fermare il conflitto in atto in Darfur che ha già causato oltre 300.000 vittime e costretto alla fuga 2milioni e mezzo di persone». Per questo il ritiro della ratifica dell’Accordo è un primo passo ma non basta. «Il Sudan non può essere trattato come un Paese qualunque incalza Vernetti, presidente dell’Intergruppo Italia-Sudan che riunisce oltre 70 deputati di tutte le forze politiche dal 2003 è in corso il conflitto del Darfur che ha finora provocato oltre 250.000 vittime e 2 milioni e mezzo di profughi». «La Corte Penale Internazionale ha emesso un mandato di arresto nei confronti del presidente del Sudan al-Bashir ricorda ancora Vernetti considerato il diretto responsabile dei massacri della popolazione civile compiuti dalle milizie dei Janjaweed sostenute dall’esercito regolare sudanese». Ma per il Governo italiano questo mandato di cattura appare un «dettaglio» insignificante rispetto agli affari da mettere in piedi con il Sudan di al-Bashir. La «diplomazia degli affari» esaltata dal Cavaliere si prepara a un nuovo colpo. I disperati del Darfur possono continuare a morire...

l’Unità 11.7.10
L’Italia ha un debito con le ex colonie. Di cui rigetta i profughi
Con la ricca Libia, accordi da 5 miliardi di dollari. Nulla invece per Eritrea, Somalia, Etiopia. A questi migranti si nega addirittura il diritto di asilo secondo il Trattato di Ginevra
di Shukri Said

L’orrendo frutto dell’accordo sui respingimenti tra Italia e Libia, alla fine, ha mostrato il suo grado di maturazione spargendo il suo succo amaro sul capo di quasi tutti gli italiani perché l’arco di coloro che a quell’accordo hanno prestato il consenso è stato molto più ampio di quanto ci si sarebbe aspettato. Il messaggio in bottiglia costituito da un sms ha permesso al mondo di conoscere la fine che fanno gli abitanti dei Paesi subsahariani orientali respinti dall’Italia senza alcuna selezione tra gli aventi diritto all’asilo e imprigionati nei lager libici in mezzo al deserto tra malattie e torture, con poco cibo, poca acqua, niente igiene e un caldo pazzesco.
Quanto si è appreso da quell’sms non è affatto una sorpresa, ma la conferma dell’esito annunciato all’indomani della ratifica di quell’accordo tra Italia e Libia e massimamente temuto dalla sua attuazione, quando il 15 maggio 2009 l’Italia donò le prime due motovedette alla Libia proprio per il pattugliamento della frontiera mediterranea. La vergogna di quell’accordo stigmatizzato da tanti della società civile italiana, dall’Ue e dall’Onu, ora ricade su tutti noi e ci impone una riflessione.
Le vittime dei respingimenti sono soprattutto eritrei, somali ed etiopi. Popoli che, con quello libico, sono appartenuti alle colonie italiane di cui il Fascismo fu tanto orgoglioso da proclamarsi Impero proprio in virtù di esse. L’Italia ha espressamente riconosciuto di aver provocato danni con l’occupazione dei territori africani. Lo attesta il trattato con la Libia alla quale si attribuiscono ben 5 miliardi di dollari di indennizzi. Nulla, però, è stato sin qui previsto per gli altri Paesi occupati nell’epoca coloniale, tanto meno per quelli dell’Africa Italiana Orientale istituita nel 1938 accorpando Eritrea, Somalia ed Etiopia e da cui provengono in gran parte quei profughi respinti in mare dalla Libia cui il Governo Berlusconi ha appaltato la blindatura della frontiera a sud.
Anche la conciliazione con il passato coloniale, dunque, si conferma una scelta ad personam, prevedendo il risarcimento in favore della sola Libia, ricca di petrolio e gas, ed a scapito dei Paesi più deboli. Metodo coerente con gli altri dell’attuale Governo: debole con i forti e forte con i deboli.
L’Italia deve immediatamente modificare le sue scelte e farsi carico dei disperati delle sue ex colonie. Inoltre, più di ogni altro Paese, deve farsi carico di intervenire nelle ex colonie per favorire la loro riorganizzazione ed il miglioramento delle condizioni di vita dei loro abitanti. Questo sarebbe certamente il modo migliore per attenuare la pressione dell’immigrazione che proprio da quei Paesi mira ad arrivare al nostro quale più familiare tra tutti gli altri, sia per lingua che per tradizioni.
È assolutamente inaccettabile, invece, non solo rimanere inerti rispetto alla gravità delle condizioni in cui versano i Paesi dell’ex A.I.O. del 1938, mentre si china la testa dinanzi al Colonnello Gheddafi, ma addirittura rigettare in mare i profughi di quei Paesi evitando accuratamente di accertarne il diritto all’asilo secondo i principi del Trattato di Ginevra.
Tutti gli altri Stati che hanno avuto un passato da colonizzatori si sono fatti carico dei problemi dei territori occupati dopo il riconoscimento dell’indipendenza. L’Inghilterra li ha mantenuti tuttora associati nel Commonwealth, cioè nel benessere comune, in cui si è stabilito un libero o preferenziale diritto di migrazione da un Paese ad un altro. La Francia ammise sul proprio territorio, e con la cittadinanza francese, circa un milione e mezzo di pieds noirs che lasciavano i Paesi del Maghreb che nel 1962 conquistarono l’indipendenza e mantenne per decenni facilitazioni alla libera circolazione con le ex colonie .
Partecipando al colonialismo al pari di tutte le grandi nazioni dell’epoca, l’Italia volle mostrare al mondo di valere quanto le altre grandi potenze, ma quando si è trattato di assumersi le responsabilità che il colonialismo comportava, l’Italia non solo non ha riconosciuto nessuna facility ai cittadini delle ex colonie al momento di adottare i flussi di lavoratori extracomunitari, ma addirittura ha elevato alle sue frontiere il muro dei respingimenti indiscriminati.

il Fatto 11.7.10
Asli, l’eritrea che ci insegna la CostituzioneNata in Italia, combatte per difendere la democrazia
di Nando Dalla Chiesa

Finale Ligure. Pullulare. Quel verbo le piace da morire. Le piace guardarsi intorno a ogni manifestazione per dire che gli italiani ribelli alle indecenze, ai bavagli e ai furti delle cricche “pullulano”. Che sono tanti. Che vale la pena battersi. Un matrimonio perfetto tra il nostro dizionario e i buoni principi morali che le ha inculcato sua madre, eritrea arrivata in Italia negli anni Settanta. Asli Haddas ha la pelle bruna e una foresta di capelli crespi. E’ nata a Milano e dà bene l’idea del paese che stiamo diventando. Multietnico nel modo più bizzarro. Dove tocca a una giovane di origini africane di trovarsi alla testa delle battaglie per difendere la nostra Costituzione. “Una cosa sola toccherei della Carta”, ammette, “aggiungerei un articolo per dire che l’acqua è un patrimonio universale. Ma poi penso che sarebbe un precedente e allora d’istinto rinuncio anche a questo. Mi importa di più difenderla”. Asli fa l’informatica. Lavora in una piccola azienda che sviluppa data-base, fa ricerca, crea prototipi per un mercato di nicchia. Le scuole le ha fatte alla periferia di Milano. All’onnicomprensivo di Lampugnano, dalle parti di San Siro: perita aziendale in lingue estere. E a scuola nacque la passione per la partecipazione. Assemblee e giornalini di quartiere, prime esperienze con il partito umanista che a Milano attrasse a lungo, nel vuoto della politica, giovani in cerca di ideali. “La passione per l’impegno politico però me l’ha trasmessa mia madre. Quando venne in Italia sosteneva la lotta del popolo eritreo per l’indipendenza dall’Etiopia. Sono cresciuta così. Ho ereditato da lei i valori della moralità e della trasparenza. Mi racconta sempre che l’Italia degli anni Settanta era un paese diverso. Solidale, accogliente. Fece domanda all’ufficio di collocamento ad Asmara e venne chiamata subito da una famiglia milanese. Sì, lavori domestici, fra l’altro è una cuoca strepitosa, cucina eritrea ma anche italiana: tutti i piatti, perché lei non ha un’idea scientifica della cucina, lei la cucina la sente, ci mette l’anima”.
DOPO I GIORNALI di quartiere, i servizi sugli immigrati e le denunce di abusi edilizi, arrivò l’università: ingegneria gestionale e poi laurea in International business a Londra. Quindi l’ondata dei movimenti del 2005-2006, ultimo anno del secondo governo Berlusconi. Ad Asli piacque Beppe Grillo. “Andai una volta a un suo spettacolo a teatro. C’erano dei ragazzi che davano un volantino con l’elenco dei condannati presenti in Parlamento. Mi sembrò una cosa giusta, così partecipai alle loro manifestazioni per la libertà d’informazione. Furono le prime volte che fu esibito simbolicamente il bavaglio. Un popolo disinformato è pronto a farsi mangiare la democrazia, e alla fine si ritrova con la dittatura”. Da allora questa eritrea italiana di trentadue anni ha iniziato ad apparire sempre più alle manifestazioni, a organizzarle, a promuoverle. Informazione, lodo Alfano e leggi ad personam, diritti umani, mafia, corruzione, privatizzazione dell’acqua. Perennemente in movimento, una capacità organizzativa quasi prodigiosa, nessun complesso per la quantità dei manifestanti, pochi dove è normale che ce ne siano pochi, una marea quando sale l’indignazione civile. Il microfono in mano per dare la parola. Con discrezione; la fatica di costruire l’evento e poi un passo indietro. Praticamente ovunque. Con un fastidio acuto per le etichette. “C’è questo vizio tipicamente italiano di incasellare, di appiccicare etichette. Non solo per i partiti ma anche per le associazioni. Vede, se mi dicono grillina io lo accetto, non dico di no, ma mi va stretto. Mi va stretto il Popolo viola, io sono una cittadina libera che vuole sostenere dei principi. Per me è più importante fare rete con ogni esperienza positiva”.
E INFATTI la si ritrova con Qui Milano Libera, insieme a Piero Ricca (il contestatore dell’ormai storico “puffone”), nell’esperienza dell’agorà, una specie di Hyde Park inscenato al sabato pomeriggio in via Mercanti o piazza Cordusio, pubblico medio di cento persone, ognuno dica quello che pensa della vita pubblica a Milano. Oppure alla settimana contro le mafie, dove già le persone non sono più le stesse. O alle manifestazioni delle agende rosse di Salvatore Borsellino. O all’Africa Day del 30 maggio, la prima volta che si è fatto a Milano, spazio Arte di Sesto San Giovanni a parlare di modelli di sviluppo. “Ma anche di letteratura e cultura, musica e danza. Mi appassiona lavorare per l’African forum in Italy, difendere i diritti degli eritrei torturati in carcere. Mi interessa anche comunicare un’altra idea dell’africano in Italia. Si ha sempre l’immagine del lavoro manuale ma a Milano c’è molta letteratura africana, del Ghana, dell’Uganda. E anche dell’Eritrea, certo. A me piace questo intrecciarsi di esperienze perché si conosce tanta gente di buona volontà. Il guaio è che a Milano gli spazi pubblici stanno sparendo. A colpi di affitti pazzeschi stanno cancellando storiche sedi dell’Arci e dell’Anpi. Io uso lo spazio ChiAmaMilano di Milly Moratti. Lì facciamo i cineforum, anzi venga a trovarci lunedì prossimo ché chiudiamo il ciclo sul turismo sostenibile, Marrakech Express più cuscus di mia madre. Che cosa desidero di più? Che anche noi piccoli riusciamo ad avere la compattezza della casta. Perché vede, noi litighiamo, ci frantumiamo. E quelli invece...”.
QUALCUNO, nel solito gioco al totosindaco di Milano, ha iniziato a fare il suo nome. Un divertissement: se proprio bisogna cambiare, Asli sarebbe l’ideale. Giovane, donna, combattiva e di colore. Lei non ne sa nulla. Confessa piuttosto con innocenza la sua utopia. “Un canale televisivo nostro. Per raggiungere la gente. Allora sì che si farebbe la rivoluzione”. Gli occhi le si illuminano. Le sembra quasi di vederli i cittadini di buona volontà che si moltiplicano. Anzi, come si dice? Che pullulano.

il Fatto 11.7.10
Radio Radicale, l’ultimo duetto Bordin-Pannella (in attesa di riappacificazione)
di Stefano Caselli

Gli appassionati del genere non perdano, oggi, il consueto appuntamento domenicale con Marco Pannella e Massimo Bordin sulle frequenze Radio Radicale: potrebbe essere la resa dei conti finale, oppure, l’ennesima riappacificazione. Bordin, da quasi vent’anni direttore di Radio Radicale, ha infatti rassegnato ufficialmente le dimissioni, in aperta polemica con il suo editore, cioè Pannella. Con una lettera indirizzata al cdr, il conduttore di “Stampa e regime”, l’imperdibile rassegna stampa mattutina, ha comunicato la sua decisione irrevocabile: “Comunico le mie dimissioni da direttore, già presentate all’amministratore Paolo Chiarelli. Si è concordato di renderle esecutive dal primo agosto 2010”. Una scelta, motiva Bordin, nata “dalle prese di posizione dell’editore della radio (...) Da almeno due anni Marco Pannella ha più volte pubblicamente dichiarato che non si sente rappresentato dal modo in cui viene espressa la linea editoriale della radio. (...) Non posso pretendere di far cambiare idea a Pannella e francamente non so nemmeno se ne avrei voglia. (...) Va bene che gli esami non finiscono mai, ma c’è un limite a tutto e qui si sta esagerando”.
Lunga la risposta del leader radicale affidata alla sua pagina facebook: “Le dimissioni di Bordin – scrive Pannella – mi vedono assolutamente contrario. (...) La concezione di Radio Radicale è tale da non permettere all’editore di auspicare (per non dire altro) dal direttore una condivisione della mia personale linea politica. (...) Bordin non può protestarsi come sfiduciato se mi limito a proclamare il mio diverso e liberare modo di essere”. Posizione ribadita nel pomeriggio: “È assolutamente vero – dichiara – che non voglio cambiare direttore”.
In ogni caso, i rapporti tra i due (ci fu già un litigio in diretta nel 2009) sembrano deteriorati. E scatta il toto-successione: di recente, da largo Argentina, era filtrato il nome di Filippo Facci come possibile erede, ma anche qui un criptico Pannella smentisce a modo suo: “Ho già avuto occasione di dire che cose del genere non sono mai accadute”. C’è anche chi parla di Marco Cappato: tra i radicali, molti sono pronti a giurare che sarà lui il prossimo direttore della radio. Ma non è detto che, ancora una volta, lo strappo si ricomponga. Raggiunto al telefono, infatti, Massimo Bordin smorza leggermente i toni: “Domenica (oggi, ndr) sarò regolarmente in onda con Marco Pannella”. Alla domanda se ci sarà o meno un riavvicinamento il direttore è possibilista: “Spero di sì”, risponde.

il Riformista 11.7.10
Pannella-Bordi, è rottura
di Alessandro Calvi

Finalmente si parleranno direttamente. Già, perché, dopo l’annuncio del divorzio, oggi, come ogni domenica, su Radio Radicale va in onda la conversazione settimanale tra il direttore Massimo Bordin, ora dimissionario, e Marco Pannella.
L’attesa è palpabile ed è crescita nutrendosi anche del silenzio del partito, circostanza quanto meno inusuale, trattandosi dei radicali. Ma l’attesa c’è, tanto che lo stesso Pannella ieri garantiva: «Niente scazzi tra di noi». E aggiungeva: «Quella di Massimo è una decisione assolutamente politica. Domani, comunque, abbiamo le due ore di trasmissione, come ogni domenica. Chissà...».
Ecco, appunto: chissà; ma questa volta l’aria che tira non sembra quella di un ripensamento. Nella sua lettera di dimissioni, che scatteranno dal 1° agosto, Bordin aveva spiegato che «da almeno due anni Marco Pannella ha più volte pubblicamente dichiarato che non si sente rappresentato dal modo in cui viene espressa la linea editoriale della radio» e che, dunque «le affermazioni di Pannella non possono che essere intese come una mozione di sfiducia nei miei confronti». All’origine di tutto ci sarebbero anche alcune iniziative di Radio Radicale con Italianieuropei e l’Interprete Internazionale. Quanto al futuro, Bordin in quella stessa lettera uno spiraglio a una collaborazione futura lo lascia aperto quando scrive di aver spiegato all’amministratore di aver «ben volentieri valutato qualsiasi proposta che non riguardasse la direzione». Chiaro, insomma. Pannella, però, ieri è tornato a farsi sentire via agenzie di stampa: «Ognuno fa le sue scelte, la rottura è sua», ha detto. Oggi, forse, una nuova puntata.

il Fatto 11.6.10
Il dittatore relativo
Berlusconi scatenato: “La libertà non è un diritto assoluto. Il bavaglio ce l’hanno i giornali di sinistra”
di Luca Telese

L’uomo si sa, è dotato di fervida fantasia, e nella sua testa si agita una Bicamerale neurale: il cervello del premier è sempre impegnato a cancellare qualche articolo della Costituzione (a quanto pare emenda anche nel sonno). Ieri è arrivata l’ultima perla: “La libertà di stampa non è un diritto assoluto”, Silvio Berlusconi dixit. E così – zac! – è partita una sforbiciata anche all’articolo 21, inutilmente garantista e troppo vincolante per i governati desiderosi di stampa benevola. Il diritto de-costitzionale. Evidentemente hanno ragione Pippo Civati ed Ernesto Ruffini - due giovani leoni della nuova generazione del Pd – secondo cui “è ormai necessario scrivere una manuale di diritto de-costitzionale con tutti gli articoli della Carta ormai rivisitati dal Cavaliere”. L’unico problema, aggiunge ironico Civati“E’chequestolibroditesto andrebbe aggiornato quasi tutti giorni”.
La legge più uguale per me.
Sul primo capitolo, invece, non ci sono dubbi. Andrebbe dedicato all’articolo 3, che il premier ha già riscritto con opportune modifiche parlando dei propri processi: “La legge è uguale per tutti, ma è più uguale per me” (testuale) con una involontaria parafrasi orwelliana. Si dovrebbe poi passare all’articolo 41 già ampiamente riformulato, più o meno così: “Bisogna liberalizzare davvero l’impresa, rimuovendo i limiti imposti dalla Costituzione sovietica del 1946”. In quel testo,“si parla molto di lavoro e quasi mai di impresa – aggiunge il premier – che è citata solo nell’articolo 41. Non è mai citata la parola mercato. Purtroppo una legge ordinaria non basta, bisogna riscrivere la Carta”.
Una Corte bolscevica. Senza parlare del ruolo e della composizione della Corte Costituzionale, anche questo rivisitato: “Oggi, come è noto, la Corte è costituita da una maggioranza di giudici di sinistrachequandodecidonoche una legge non gli va bene la fanno impugnare la abrogano”. Ieri, però, la cattedra di diritto De-costituzionale ha dato il meglio di sè. Per rispondere allo sciopero dei giornalisti, indispettito dal silenzio dei media, Berlusconi ha rovesciato la prospettiva. Non è la legge che vieta di pubblicare le notizie ad essere un bavaglio per la libertà, dice il premier. Ma “la stampa schierata con la sinistra, pregiudizialmente ostile al governo, che disinforma, distorce la realtà e calpesta in modo sistematico – parole del Cavaliere – il diritto sacrosanto della privacy dei cittadini, ad aver imposto il bavaglio alla verità”. Ovvio. Il tutto consegnato a un memorabile discorso destinato ai promotori della Libertà, i legionari berlusconiani che dovranno difendere la democrazia nei giorni della caduta degli Dei. Il presidente affida loro “il compito non facile ma importante di liberare la verità da questo bavaglio”. Per Berlusconi sono “certi giornalisti” che “calpestano il diritto ad un uso sereno del telefono”, “invocando la loro libertà come se fosse un diritto che prescinde dagli altri”. Berlusconi li bacchetta. E qui arriva la perla di dottrina: “In democrazia non esistono diritti assoluti, perchè ciascun diritto incontra il proprio limite negli altri diritti egualmente meritevoli di tutela che, in caso della privacy, sono prioritariamente meritevoli di tutela. Un principio elementare della democrazia ma che la stampa italiana, nella sua maggioranza, ignora”.
Ironia & durezza. E le parole con cui il Guardasigilli Angelino Alfano annunciava al Quirinale “modifiche significative”? Abrogate pure quelle. La prima risposta è arrivata dai finiani di FareFuturo guidati da Filippo Rossi: “la libertà di stampa – si legge sul sito – non è maiabbastanza”edèun“dirittoassoluto” . Dura anche la capogruppo Pd al Senato Anna Finocchiaro: “Il premier attacca la stampa tacciandola di fare disinformazione”. Sarcastico Nichi Vendola: “Berlusconi prova a rovesciare la realtà: lasuaideaèchebisognairrigimentare la stampa per raccontare propagandisticamente l’Italia come il paese della cuccagna”. I diritti Costituzionali saranno pure relativi: le vocazioni anticostituzionali del premier restano, venate di aspirazioni assolutistiche, con buona pace di chi vorrebbe dialogare con lui sulle riforme all’insegna del “male minore”.

il Fatto 11.6.10
L’agognata libertà dei servi
di Furio Colombo

Per quanto i cortigiani siano tra loro diversi e fra loro ostili, la corte è massa e ha il potere di irradiare i propri comportamenti fino agli angoli più lontani della nazione, come il ragno al centro della tela, se si muove, tutto si muove. Il comportamento dei cortigiani, ha scritto Elias Canetti, deve contagiare gli altri sudditi. E ciò che i cortigiani fanno sempre deve indurre gli altri sudditi a fare almeno talvolta altrettanto. La citazione è dal libro La libertà dei servi di Maurizio Viroli (Laterza). Viroli che insegna teoria politica all’università di Princeton scrive all’inizio del testo, uscito adesso in versione italiana, che il libro gli è stato chiesto dall’editore americano per spiegare ai disorientati cittadini del mondo che cosa succede oggi in Italia. La libertà dei servi lo fa con chiarezza pedagogica. Usa il modello della vita di corte, noto anche a chi conosce appena la storia d’Italia, per raccontare un’immagine diversa dalla brutalità della dittatura, ma altrettanto esigente quanto ai comportamenti: o sei dentro o sei fuori. O conti o non conti. O esisti o non esisti. È questo che ha indotto ciò che, un tempo, era l’opposizione a elaborare i tre espedienti per opporsi senza rompere: la "opposizione propositiva"; quella del dire un sì per ogni no (come per farsi perdonare); quella del male minore. Tutte e tre le soluzioni comportano un certo rischio di sguardo irritato del sovrano nella vita di corte. Sempre meglio che essere ignorati per sempre dal principe. E' consigliabile, infatti, mantenere ruolo e visibilità nelle cerimonie, che adesso si svolgono quasi sempre in televisione. Vuol dire confidare nelle buone maniere e decidere che niente è mai troppo per interrompere la vita a corte. C’è sempre un male minore da proteggere per evitare un male peggiore. Dobbiamo presumere che tutto, finora dal “pacchetto sicurezza” che autorizza i sindaci a negare il pasto e il trasporto scolastico ai bambini immigrati, al trattato con la Libia, che permette la caccia e la detenzione senza limiti ai rifugiati politici che cercano asilo in Italia sia un accettabile male minore. E non provo neppure a includere nella lista una serie di atti di collaborazione offerti, certo in buona fede, e sempre celebrati come trionfo della controparte, come la Lega Nord che ha vinto le elezioni regionali vantando il federalismo fiscale votato anche dall’opposizione. O come i ministri Bondi (legge sugli Enti lirici) e Calderoli (legge sugli Enti locali), che hanno potuto dire alla Camera e ripeteranno, appena possibile, nei talk show di cui sono star fisse che questa legge non sarebbe stata possibile senza la leale collaborazione dell’opposizione, che ringraziano. Insieme a tanti italiani, sono stupito che nessuno nel PD, tra coloro che competono per la leadership, abbia mai tentato di confrontarsi con i promotori del male minore, del "è bene dire sempre un sì dopo il no" , della opposizione propositiva, con l’unica denuncia possibile: perdiamo pezzi, approvazione, senso di appartenenza, orgoglio. Si continuano a ripetere fiere espressioni come cambio di passo, colpo di reni, un salto in avanti, noi siamo pronti, per poi disporsi esattamente come prima, anche quando un leader ne caccia un altro. Permangono intatte le decisioni che hanno segnato l’opposizione fino ad ora: affrontare ogni dibattito come se fosse normale il governo, la legge che si discute e le ragioni per cui dobbiamo discuterla. E sempre lavorare duro per migliorare, ove possibile, il provvedimento, che vuol dire (se e quando lo sforzo riesce) che il governo e la sua maggioranza potranno vantarsi per gli errori evitati. E nessuno, mai, a cominciare dalla cronaca del giorno dopo, riconoscerà l’eventuale merito di chi avrebbe, solo e sempre, dovuto opporsi. Perché solo e sempre? Non è eccessivo? Rispondo ricordando che, qualunque forma di confronto umano , dal gioco a scacchi alla partita in campo, conosce un’unica conclusione. Ci sono tante regole di disciplina e di lealtà, ma nessuna prevede di dare una mano a migliorare la strategia dell’avversario. Infatti non esiste un esito per il bene della partita. Quel bene, che è comune (altrimenti ci sarebbero lo scontro fisico e la violenza) prevede che una parte perda e una parte vinca, e non conosce o accetta alcuna altra via d’uscita per arrivare alla fine. Dunque, l’opposizione-proposta, che è una caduta nel vuoto; l’impegno di dire tanti “sì” insieme ai “no”, che è un modo curioso di muoversi con dei pesi aggiunti; la teoria del male minore, che è un’etichetta di buone maniere (non siamo così villani da respingere sempre tutto) non sono che tre modi di arrendersi. Come non vedere che un simile comportamento non lascia alcun segno nell’attenzione e nella memoria dei cittadini, eccetto la delusione e un triste senso di solitudine? Come non vedere lo spazio che separa gli elettori del Pd e si allarga, dopo ogni male minore, dopo ogni costruttiva proposta? Come non accorgersi della solitudine disorientata dentro il Pd?

Repubblica 11.7.10
Moreno, direttore del Paìs: anche in Spagna gruppi che hanno mostrato atteggiamenti simili a quelli di Berlusconi
"La battaglia italiana fondamentale per il futuro di tutte le democrazie"
di Omero Ciai

Il partito del Cavaliere capisce perfettamente che il diritto di essere informati è decisivo e per questo lo riduce
Non sono i giornalisti che hanno diritto di pubblicare o meno, sono i cittadini, i lettori, che hanno diritto di sapere

«FINO A ORA - dice il direttore di El Pais, Javier Moreno, dopo le dichiarazioni di Berlusconi sullo sciopero dei giornalisti contro la legge sulle intercettazioni - pensavo che il premier italiano non comprendesse le basi su cui si sostiene il vivere democratico in Occidente da più di duecento anni a questa parte. Adesso temo che si tratti di altro: non è che non capisce il ruolo della stampa nelle democrazie occidentali, al contrario gli è chiarissimo, e per questo vorrebbe farla finita con una stampa libera nel suo paese. Questo naturalmente alza il livello della nostra preoccupazione. Credo che oggi in Italia si stia discutendo di qualcosa che è centrale per il futuro della democrazia».
C´è qualcosa di simile anche in Spagna?
«Sicuramente la battaglia italiana contro la legge che vorrebbe impedire ai cittadini di conoscere il contenuto di indagini della magistratura è importante anche per noi. Anche qui ci sono gruppi politici, soprattutto a destra, che hanno manifestato nei confronti della libertà di stampa atteggiamenti simili a quelli di Berlusconi».
La protesta in Italia è importante anche per voi?
«Siamo ad un passaggio fondamentale che riguarda anche l´Europa. Il partito di Berlusconi capisce perfettamente che il diritto dei cittadini di essere informati è decisivo e che senza di esso non può funzionare la democrazia e proprio per questo sta cercando di imbavagliarlo e di ridurlo e di controllarlo. Con le solite scuse: la privacy, la responsabilità, eccetera. È quello che hanno sempre cercato di fare tutti i governi autoritari che non hanno fiducia nei cittadini, nelle società aperte e, in ultima analisi, nella democrazia».
Per il premier italiano ci sono giornalisti che «calpestano» il diritto ad un «uso sereno del telefono»...
«I cittadini hanno assolutamente diritto a conversazioni telefoniche segrete, con un limite: quello che impone la legge. In qualsiasi paese solidamente democratico ci sono dei giudici che autorizzano intercettazioni perché esse sono uno strumento indispensabile a prevenire e a perseguire l´illegalità».
E la privacy non è importante?
«L´altra parte della discussione è se i giornali hanno diritto o meno di pubblicare il contenuto delle intercettazioni. Penso che in questo dobbiamo essere chiari: non sono i giornalisti coloro i quali hanno diritto di pubblicare o meno, sono piuttosto i cittadini, i lettori, che hanno diritto di conoscerlo. Sempre e quando questo contenuto sia rilevante per l´opinione pubblica.
Come vi siete comportati come giornale quando le intercettazioni violavano la privacy?
«Abbiamo sempre rispettato un principio: si pubblica solo quello che è importante penalmente. Ma credo comunque che utilizzare la difesa della privacy per impedire la pubblicazione di intercettazioni sia quasi sempre una scusa che si utilizza contro i cittadini e il loro diritto alla verità».

Repubblica 11.7.10
Senza Guerra Fredda sono finiti gli 007
Oggi Mamma Russia e Mamma America annegano insieme nelle acque del capitalismo
di John Le Carrè

Su quale Russia si perdevano mai in fantasticherie queste disilluse e puerili spie allorché giocavano sotto le coperte con i loro marchingegni spionistici ad altissima tecnologia, quando facevano sparire i biglietti dai posti segreti sui quali si erano accordati in precedenza, quando spedivano i loro messaggi miniaturizzati, mentendo su tutta la loro esistenza ad amici, innamorati e vicini di casa?
La grande causa di chi, di che cosa, credevano o almanaccavano di servire questi martiri virtuali rispediti a casa con disonore nelle braccia di Mamma Russia? Nelle loro orecchie sentivano bisbigliare i fantasmi del passato russo o i fantasmi del suo futuro? Forse immaginavano di rendere un servizio alla vecchia, convinta, addormentata Russia che vagheggia ancora il secondo avvento di Stalin? O gli zar del Sacro impero russo, che secondo le profezie torneranno? O è stato piuttosto il sacrilego impero russo celeste a parlar loro, quello che fluttua sopra il cleptocratico Cremlino di Vladimir Putin?
Le spie di una volta avevano i loro bravi motivi. C´era il capitalismo e c´era il comunismo: si poteva scegliere. Sì, è vero, c´erano i soldi e il sesso e i ricatti, ed era necessario voltare le spalle ai propri superiori tradendoli quando si era promossi di grado, e c´era anche quella sensazione di onnipotenza divina, e si giocava a un gioco internazionale, e non mancava neppure tutto quel repertorio di ragioni nobili e ragioni bacate, ma in fin dei conti si spiava per una causa o contro di essa.
Santo cielo! E quale sarebbe la causa per la quale queste spie hanno fatto ciò che hanno fatto? Chi pensavano di proteggere nelle loro distorte e programmate testoline, allorché cercavano e riprovavano, senza esito, ad arrampicarsi lungo la sdrucciolevole pertica della società occidentale? Che cosa c´era più da scegliere, ormai, tra Mamma Russia e Mamma America, due enormi continenti entrambi fuori controllo, che stanno annegando insieme nelle oleose acque del capitalismo? A fare la differenza era davvero solo il nome del salvagente al quale aggrapparsi? Mamma Russia, giusto o sbagliato?
Mi auguro solo che i tanto bersagliati psichiatri moscoviti saranno in grado di sopportare le tensioni alle quali saranno sottoposti quando i loro nuovi pazienti varcheranno a frotte le loro porte: prima i bambini congelati che chiedono aiuto gridando, poi - dopo di loro - i saggi idioti della vasta e caotica spiocrazia di Putin che, immersi nelle loro stesse sorpassate fantasticherie, si sono accollati la responsabilità di reclutare, addestrare e plasmare alcune giovani menti per ridurle a repliche di sé.
E infine, perché accade tutto proprio adesso, dopo che le nostre spie hanno seguito le tracce e intercettato questi incompetenti bimbetti in azione per oltre un decennio? E perché proprio a Vienna? Non sarà che - come stanno già iniziando a insinuare i teorici delle cospirazioni - gli esponenti di destra che si sono infiltrati in innumerevoli agenzie americane d´intelligence (e che da tutto quanto Obama ci ha detto finora risultano essere assolutamente fuori controllo, proprio come le loro controparti russe) hanno deciso di riportare in vita lo spettro della Guerra Fredda nel momento preciso in cui il presidente stava per avvicinarsi un po´ di più alla Russia?
E quindi, sarà questa la causa del teatrale scambio di spie proprio a Vienna? I reazionari di entrambi i versanti, che smaniano dalla voglia di erigere nuovamente la cortina di ferro, stanno forse inscenando per noi qualcosa di strabiliante, di programmato a tavolino? Mentre assistiamo in technicolor al più grande scambio di spie del XXI secolo, e mentre nelle nostre menti risuonano le vibrate note dello zither della colonna sonora di Harry Lime, le spie si aspettano forse che ritorniamo correndo a rinchiuderci nei nostri rifugi dei tempi della Guerra Fredda? È questo l´astuto piano che avevano in mente?
Se è così, beh, le spie di entrambe le parti hanno fatto fiasco ancora una volta. Harry Lime e i suoi poco attraenti amici non stavano facendo spionaggio. Erano soltanto dei criminali spregevoli e di bassa lega che trafficavano in penicillina adulterata con il compito di avvelenare i bambini. A ben pensarci, dopo tutto Vienna non è una scelta così sbagliata.
©David Cornwell Luglio 2010. "La spia che venne dal freddo"
sarà riedito da Penguin il 31 luglio. La Repubblica/Guardian News and Media Limited 2010/Agenzia Letteraria Roberto Santachiara. Traduzione di Anna Bissanti

il Fatto 11.6.10
Tempo pieno senza lieto fine
di Marina Boscaino

Esami di Stato alle battute finali: alla spicciolata notizie di docenti che, nonostante carriera ed età, vengono dichiarati soprannumerari; frutto amaro della politica di “semplificazione” (dicitura beffarda, significa falcidia di posti di lavoro) inaugurata quasi 2 anni fa dal governo. Semplificazione, rassicurante eufemismo che nasconde un'unica realtà: interrompere percorsi, precarizzare esistenze, smantellare un sistema certamente complesso, quello scolastico, che nella complessità ha trovato – in anni passati – la propria forza. Così la superiore, tradizionalmente inerte rispetto al proprio destino, viene risvegliata a forza dal torpore e dalla svogliata e incomprensibile indifferenza alla “riforma” Tremonti-Gelmini-Brunetta. La primaria, come di consueto, invece, non dorme, forte della propria cultura collegiale e della condivisione. La scure di Tremonti si è abbattuta quest'anno sulle prime, che determineranno gli andamenti futuri: senza tempo pieno migliaia di famiglie, 3mila a Milano, 4mila a Roma. Pronta la risposta di insegnanti e genitori, che continuano a protestare. Il taglio degli organici – anche là dove formalmente sono state mantenute le 40 ore – non garantisce l'impatto culturale e politico che ha fatto la storia del TP, dalla l. 820/71 alla l. 148/90: emancipazione femminile, risposte a domanda sociale. Ma non solo. Si è passati dall'assistenza scolastica al diritto allo studio, con una scelta precisa di costruzione di consapevolezza e cittadinanza. La scuola del TP è stata scuola della comunità, ambiente pedagogico a tutto campo, modello organizzativo compatto e coerente, con un'attenzione imprescindibile per la qualità di strutture, laboratori, biblioteche. Accoglienza delle diversità, valorizzazione delle identità, in una proiezione non individualistica, ma da integrare con la forza della conoscenza, dell'istruzione emancipante. Il TP si basa su un concetto o idea-chiave, sul quale si articola la didattica di un intero anno, in tempi distesi e con la collaborazione di voci e strutture differenti: una risposta culturalmente più efficace alla controproducente moltiplicazione dei progetti che prolifera altrove. I “saperi confusi” con cui i bambini arrivano quotidianamente in classe devono essere –oggi più che mai - raffreddati, stemperati, selezionati: il senso del TP è stato quello di aiutarli a trasformare questo enorme materiale in esperienza, mediante sollecitazioni operative, impatto con differenti saperi e linguaggi, in un avvicinamento graduale all'organizzazione delle conoscenze per materia. Il team di insegnanti (ritenuto superfluo e “semplificato”, appunto) ha insistito – con indubbi vantaggi didattici e formativi – su condivisione di responsabilità, senso di appartenenza a quel nucleo di elaborazione comune e di laboratorio sperimentale che la scuola, nelle migliori esperienze, è diventata. Il tempo disteso ha assecondato ritmi di apprendimento e prodotto conoscenza attraverso esperienza, riflessione, metabolizzazione, recupero, potenziamento: no, tutto ciò non può interessare chi ha l’obiettivo di “semplificare”.
La scuola democratica si dedica da 40 anni a concretizzare un progetto che l'Europa ammira e che ha gettato le basi – fra l'altro – di ricche integrazioni tra scuola e territorio, con partecipazione degli Enti Locali (quando non erano, anch'essi, “semplificati”) a forme di progettazione condivisa: concessione di servizi di supporto, ma anche attivazione di risorse educative; non può quindi assistere inerte allo smantellamento di una simile proposta, che ha dato frutti significativi in termini di cittadinanza e di successo formativo. L'orario-spezzatino (un tempo scuola prolungato, ma non inserito in una vera cornice pedagogica) è una surroga formale e affatto inadeguata a questo potente progetto culturale. L'ambiguità tra servizio a domanda individuale e diritto per tutte e per tutti è la conseguenza più evidente del taglio. Ci racconta Piemontese che il direttore dell'USP di Milano, Pupazzoni, sostiene che la proposta di TP impedisce la scelta di chi preferisce il tempo modulare. E conclude: “Chi rinuncia al tempo pieno avrà la certezza di poter inserire il proprio figlio in una classe "white" senza "scassati", tanto quelli hanno bisogno di cure e vanno a finire tutti nelle classi a TP. In questo modo il TP non è destinato a scomparire, ma a diventare un recinto per il controllo sociale, una riserva dove rinchiudere chi non è "normale" e rappresenta una minaccia per la comunità. Chi salirà allora sull'aereo del tempo pieno? Solo Franti e la sua cricca”. Paradossale rovesciamento di prospettiva in un Paese incapace di valorizzare le proprie risorse e rinunciare alla omologante logica buoni-cattivi. Insomma, una potenziale nuova frontiera del ghetto.

il Fatto 11.6.10
Pd e Maroni. Dimmi con chi vai
di Furio Colombo

Caro Colombo, leggo che a Desenzano Del Garda è in corso la festa (è la seconda) del partito democratico. Vedo un elenco di nomi di quasi tutti i leader Pd e un finale a sorpresa: Roberto Maroni. Sarà lui a concludere la festa, il ministro dell’Interno della caccia ai Rom, dei respingimenti in mare, degli eritrei diretti in Italia e detenuti in Libia in condizioni disumane. Sarà lui concludere la festa del maggior partito di opposizione. Un altro milione di voti perduti. O sbaglio?
Arduino

LA DECISIONE di avere il peggiore ministro degli Interni italiano, uno che governa l’Italia a nome, nella visione, e con l’esclusivo programma politico della Lega Nord, è certo una buona ragione di stupore. Come può venire in mente a qualcuno che invitare il leghista Maroni alla festa democratica, porterà via voti da coloro che adesso votano Lega? Maroni, come tutti i ministri leghisti, ha una visibilità e un ascolto continuo. Accoglierlo alla festa Pd vuole dire offrirgli non solo ancora più visibilità ma più simpatia: “Vedi? È così bravo che lo invita anche l’opposizione!”. Mentre Maroni dialogherà amabilmente con Filippo Penati (il leader Pd più vicino alla Lega e più battuto alle elezioni) le motovedette italiane regalate da Maroni alla marina Libica intercetteranno in mare altri disperati in fuga da sanguinose guerre africane. Quanti resteranno nel cimitero del Mediterraneo dopo ogni operazione, organizzata e pagata dall’Italia, ed eseguita senza tanti scrupoli dalla Libia non lo sapremo mai. Come non sapremo mai il destino di coloro che saranno catturati e rinchiusi nei campi libici. E non lo avremmo saputo neppure nello spaventoso caso degli eritrei stipati in una prigione sotterranea, torturati, feriti, privi di ogni ascolto o soccorso, se uno di loro non avesse salvato un telefonino. Maroni potrà assicurare la benevola folla di Desenzano che con una buona perquisizione prima di passare alle maniere forti e alle torture quotidiane, si potranno evitare le spiacevoli notizie dal campo di concentramento di Brak (deserto libico) che hanno disturbato la coscienza di molti italiani. E così, tutti insieme, si potrà far festa felici e contenti sul Lago di Garda. Tutti, meno gli elettori che mancano al Pd, e che non verranno a salutare Maroni.

Repubblica 10.7.10
La grazia della fede e il senso del peccato
di Pietro Citati

La Chiesa non può mai dimenticare di essere un'eccezione: qualcosa che ignora le norme della società e della politica
Il cristiano studia i suoi sentimenti e scruta se in qualche luogo del cuore la menzogna e la ribellione hanno lasciato la loro ombra

Tutti i cattolici osservano da tempo la condizione di inquietudine e d´angoscia, che occupa la mente di Benedetto XVI. Nemmeno Paolo VI, negli anni del terrorismo e della crisi teologica, aveva conosciuto quanto sia arduo e terribile rivolgere agli uomini una parola di quiete.
Non possiamo immaginare nessuna forma di cristianesimo senza la presenza del peccato. Gesù ha liberato gli uomini dalla colpa di Adamo; e ha costruito un´arca, la Chiesa, dove il peccato non dovrebbe penetrare. Eppure né la sua incarnazione, né la sua morte sulla croce, né l´assunzione in cielo hanno abolito la lunga ombra che il peccato lascia cadere sul mondo: esso occupa quasi ogni cuore; sconfigge i desideri e le volontà di bene. È lì, ineliminabile, qualsiasi cosa facciamo. "Il volere è in mio potere, ma compiere il bene no – diceva Paolo - . Sicché non faccio il bene che voglio, ma faccio il male che non voglio. Ma, se faccio il male che non voglio, non sono più io a farlo, ma il peccato che abita in me". Secondo Benedetto XVI, alla fine del ventesimo e al principio del ventunesimo secolo, il regno del peccato si è esteso.
Quasi nessuno prega, varca le porte delle cattedrali, pensa a Dio e a Cristo, rispetta le leggi della Chiesa sulla vita e la morte. La società è profondamente irreligiosa e anticristiana. Se non scorgiamo Satana, come ai tempi di Hitler e di Stalin, migliaia di piccoli Satana frequentano e dominano il mondo. Anche i muri dell´arca sono crollati: il peccato è penetrato nella Chiesa, come rivela la vicenda dei preti pedofili, che ha colpito così profondamente il cuore di Benedetto XVI. Quasi ogni traccia di quel sentimento luminoso e trionfale, che emanava dalle parole di Giovanni Paolo II, sembra scomparso. Nelle parole di Benedetto XVI, c´è soprattutto dolore e amarezza.
Il senso acuto del peccato contribuisce alla ricchezza e alla complessità del Cristianesimo: una complessità che, per esempio l´Islam, che ignora in gran parte il peccato d´Adamo, non possiede. Il cristiano si ascolta: studia i suoi sentimenti, analizza i suoi pensieri, e scruta se, in qualche luogo del cuore, la menzogna e la ribellione hanno lasciato la loro ombra. Non si fa illudere dalle rappresentazioni teatrali del bene. Diffida di qualsiasi forma di ottimismo. Così nascono grandiose esperienze dell´anima, come quelle di Paolo, di Agostino e di Pascal. Ogni volta che il cristianesimo ha cancellato l´idea di peccato, ha rischiato di perdersi: quest´idea può venire abolita solo alla fine dei tempi, quando la Gerusalemme celeste scenderà sulla terra, la Gloria divina bagnerà di luce le sue mura, e "l´albero della vita" tornerà a crescere come nell´Eden.
Mi chiedo se i timori di Benedetto XVI siano giustificati. E´ proprio vero che, da cinquant´anni, viviamo in un´epoca "scristianizzata", nella quale la Chiesa è ignorata e derisa? Forse le folle che un tempo riempivano le chiese sono diminuite: ma quelle folle non leggevano i Vangeli, e vedevano nel Cristianesimo soprattutto una difesa e un baluardo della società civile. Credo che sia vero il contrario. Da secoli, non esisteva nel cristianesimo un nucleo così puro ed ardente come quello di oggi: giovani, e meno giovani, che leggono i Vangeli, li meditano, capiscono come ogni parola pronunciata da Cristo sia ancora viva, scoprono i Padri della Chiesa greci, o latini, o siriaci: pregano, sia pure in solitudine; e cercano di diffondere la testimonianza di Cristo nei paesi dell´Africa. Si tratta, dicono, di una minoranza: ma il cristianesimo, per ciò che importa, è sempre stato una minoranza: non solo nel II o nel III secolo; ma persino nel XIII o nel XVI secolo, quando erigeva trionfali cattedrali a sé stesso. Così il pessimismo di Benedetto XVI e dei suoi collaboratori mi sembra eccessivo. L´Europa non è scristianizzata; e quindi non è necessario arroccarsi in difesa, e costruire mura, torri, fortificazioni, contro i barbari che si raccolgono davanti alle porte delle chiese.
Credo che la coscienza del peccato, che colma il cuore di Benedetto XVI, possa essere pericolosa. La vita cristiana non può che essere dominata dalla gioia: la gioia di esistere, di vivere, di ridere, di vedere, di passeggiare, di pensare, di scorgere le immagini della mente e del mondo: la gioia del presente, che recupera la letizia del passato, e anticipa la felicità del futuro; la gioia dei bambini, che forse riusciranno a conservare fino alla morte la loro condizione infantile. Sappiamo quale sia l´origine di questa gioia. La luce della grazia scende dal cielo e avvolge a poco a poco tutta la terra: rischiara i pensieri e i sentimenti ed ogni angolo abitato o deserto. Sotto forma di fede, questa grazia ritorna nel cielo da dove è discesa: perché la fede non è altro che grazia umanizzata.
Un altro rischio è più sottile. Qualche volta, la chiesa vuole essere approvata dal mondo: pretende che le sue leggi, per esempio sull´aborto o l´eutanasia, diventino leggi civili. E, d´altra parte, il mondo cerca di assorbire la Chiesa, trasformandola in un potente sostegno di sé stesso, o nella parte "virtuosa" di sé stesso. Mentre la Chiesa non può mai dimenticare di essere un´eccezione: qualcosa di originario e straordinario, che ignora le norme della società e della politica. La Chiesa non ha alcun bisogno di essere moderna: anzi non deve essere moderna. Deve restare un residuo dei tempi antichi, o un riflesso o un barlume del cristianesimo degli apostoli e dei padri, in mezzo alla società di oggi. Il suo linguaggio non è razionale: è il paradosso, il balzo oltre la ragione, la rottura delle norme, il verbo dei Vangeli e di Paolo, che hanno portato lo scandalo sulla terra. Spesso dimentichiamo quanto questo scandalo illumini la nostra normale vita quotidiana: molto più delle analisi psicologiche e sociologiche, nelle quali abbiamo tanta fiducia.
Il mondo di oggi non sopporta la condizione dei sacerdoti cattolici: non tollera che essi obbediscano al principio della castità, nel quale vedono una specie di maledizione, perché interrompe il ciclo continuo della vita. Credo, invece, che questa castità sia un segno di elezione: il segno della distanza, della differenza, dell´eccezione, rispetto al resto della vita. Un sacerdote non è, come oggi si dice, un uomo come gli altri: che vive in famiglia, con la moglie e i figli, e obbedisce alle richieste, sia pure benevole, del mondo. Non è il pastore protestante, rappresentato e deriso nei romanzi di Jane Austen. E´ un erede degli antichi eremiti: porta in sé il ricordo di sant´Antonio. Come in Platone, trasforma le forze represse di Eros nel desiderio intellettuale e mistico di Dio, che lo abita senza fine.

Repubblica Roma 11.7.10
I segreti del Vaticano
Residence, cliniche e tv il Vaticano di via Aurelia
di Claudio Rendina

Emblematico di certi immobili è il Grand Hotel Palazzo Carpegna, a fronte della Villa Carpegna, nato negli anni Cinquanta
Si estende alle spalle della Città Leonina sul territorio collinare che si apre da viale Vaticano

Un altro Vaticano si estende alle spalle della Città del Vaticano. E´ proteso sul territorio collinare che si apre dal viale Vaticano alla via Aurelia e alle vie della Madonna del Riposo e di Torre Rossa a fronte della Villa Carpegna, per distendersi lungo le vie di Selva Candida, Boccea e circonvallazione Cornelia fino alla via della Villa Sacchetti. Un complesso edilizio enorme, solo apparentemente rivolto ad una finalità religiosa, perché tutte le case dei religiosi esistenti sono utilizzate proprio come residence per «esercizi spirituali, convegnistica, turismo e accoglienza pellegrini», nonché come alberghi a quattro stelle destinati al turismo legato alla fede, con una ospitalità che vale 40 milioni di presenze l´anno, e ancora come case di cura; tutti luoghi sfruttati per fini assolutamente commerciali.
Tutto inizia dal viale Vaticano a fronte delle Mura Vaticane, sul quale sono dislocati 7 istituti di suore in un susseguirsi di conventi con finalità turistiche, per i quali c´è solo l´imbarazzo della scelta, limitandosi a citare le più singolari. Dal civico 94 con le Piccole Suore della Sacra Famiglia al 73 della Casa per Ferie Villa Rachele e al 54 dell´Istituto Suore del Getsemani. Così di seguito ecco la via Aurelia con altri istituti in un misto di sacro e profano, con quest´ultimo assetto predominante nella finalità alberghiera che li caratterizza. A cominciare dal civico 208 con la Casa Bonus Pastor, all´insegna dell´extraterritorialità, gestita dal Vicariato e decantata in internet come "casa per congressi e pellegrinaggi" e "da considerarsi a tutti gli effetti un ottimo hotel di 3 stelle". Sorge alle spalle del Palazzo del Seminario Romano Minore, costruito sull´area della ex Villa Staderini nello spazio urbano prospiciente il tratto finale del viale Vaticano, con tanto di abuso edilizio attuato in una sopraelevazione.
I residence proseguono al civico 218 con il convento delle suore Orsoline, che è in realtà l´albergo Domus Aurelia, e al civico 269 con il Monastero dei Missionari d´Africa, dichiaratamente votati all´ospitalità dei pellegrini, ovviamente tutti a pagamento. Al civico 275 sorge un´eccezione a certe finalità turistiche, l´Ospedale San Carlo di Nancy, dal 1998 proprietà della Congregazione dei Figli dell´Immacolata Concezione, una delle realtà ospedaliere del Vaticano, inserita nel servizio sanitario regionale. La congregazione è anche proprietaria dell´Idi (Istituto Dermopatico dell´Immacolata), che dista dall´ospedale meno di un chilometro, in via dei Monti di Creta 104.
E a fronte dell´ospedale, al civico 278, apre la Casa di cura E. Morelli, che è una clinica privata all´insegna dell´extraterritorialità, ovviamente a pagamento. L´affianca la Villa Fatima delle Suore Oblate del SS. mo Redentore, presentata in internet come «ambiente sereno ed ospitale con amore fraterno», ma con la precisazione che occorre un « «pagamento in contanti». E ancora la malcelata finalità alberghiera torna al civico 290 nella Casa Generalizia dei Missionari Oblati di Maria Immacolata, al 294 nelle Suore Mariste e al 325 con l´Istituto Piccole Ancelle di Cristo Re. La Casa San Juan de Ribera delle Operaie della Croce al civico 337, con ospitalità a pagamento per i pellegrini, macchia ignobilmente il santuario della Madonna del Riposo, a ridosso del quale sorge con una elegante palazzina.
Ma non finisce qui la gestione alberghiera delle case dei religiosi. Che si diramano dalla via Aurelia nelle strade adiacenti, non nascondendo minimamente le proprie finalità turistico-commerciali. Così i Dehoniani Sacerdoti del Sacro Cuore gestiscono la Villa Aurelia in via Leone XIII 459, ad angolo con piazza Pio XI, al centro di via Gregorio XII, una parallela della via Aurelia: vanta 160 posti letto, sala convegni, parco, terrazza con vista su San Pietro e, naturalmente, cappella privata. Ma emblematico di certi immobili è il Grand Hotel Palazzo Carpegna, a fronte della Villa Carpegna, nato negli anni Cinquanta come casa di accoglienza religiosa all´insegna di Domus Mariae e nel 2002 trasformato in residence a 4 stelle con la gestione di una società, ma nel rispetto della struttura originale, che si esalta in una imponente chiesa a tre navate al suo interno; questa mette l´albergo al sicuro sull´inesistenza di «fini di lucro». Ma i prezzi «a partire da 178 euro» non sono d´impronta mistica.
Questo albergo è d´introduzione all´isola edilizia della Cei, la Conferenza Episcopale Italiana, insediata in via Aurelia 468, mentre uffici e servizi pastorali sono alla circonvallazione Aurelia 50, ambedue al centro del complesso territoriale a fronte del quartiere Aurelio e della zona di Boccea. La Cei ha un suo giornale, "L´Avvenire" e un´agenzia di comunicati all´insegna di Comunicazione e Promozione, che pubblica il periodico mensile "Cei Magazine". Alla Cei risale anche la Federazione Italiana Settimanali Cattolici (Fisc), che è il punto di riferimento di 155 diffusi su gran parte del territorio nazionale. Per iniziativa della Fisc è nata nel 1988 l´agenzia Sir, ovvero il Servizio Informazione Religiosa, insediato nello stesso complesso edilizio della Cei. Nella Cei rientra inoltre l´Ufficio Nazionale per l´Educazione, che sovrintende alle scuole paritarie della Santa Sede, e l´Ufficio Pastorale Assistenza Sociale dell´Ispettorato dei Cappellani delle Carceri, che fa capo al Dipartimento dell´Amministrazione Penitenziale del Dipartimento della Giustizia Minorile dello Stato Italiano, del quale fanno parte 5 cappellani e un ispettore, eletti su proposta dell´autorità ecclesiastica e stipendiati dallo Stato italiano. L´ispettorato cura il periodico "La pastorale del Penitenziario".
Alla Cei fanno capo gli insegnanti di religione nelle scuole statali; vengono designati dal vescovo e assunti dallo Stato italiano in base alla legge 186 del 2003, diventando così dipendenti statali con stato giuridico e trattamento economico equivalente agli altri insegnanti laici della scuola italiana. Dalla Cei dipendono anche gli Assistenti Religiosi Ospedalieri, ecclesiastici assunti come assistenti dalle strutture ospedaliere dello Stato italiano per la cura religiosa dei ricoverati. E nella Cei è insediato a via Aurelia 796 anche l´Istituto Centrale per il Sostentamento del Clero, l´ufficio amministrativo che provvede all´assegnazione dello stipendio di vescovi e sacerdoti.
La Cei detiene inoltre il centro di produzione televisivo nazionale Sat2000, sorto nel 1998, in via Aurelia 796; qui sono la redazione, gli uffici di produzione e gli studi televisivi. Ha peraltro una propria stazione televisiva, in funzione dal 1998 con il nome di Sat 2000, nome riferito al fatto che la trasmissione era esclusivamente via satellite, grazie al canale satellitare preso in affitto dalla Rai alla irrisoria cifra di 1 miliardo e 200 milioni di lire nel 1998. Ad ottobre 2009 il nome è cambiato in TV2000; ed ora la televisione della Cei trasmette 24 ore su 24 tramite diverse tecnologie, ed è visibile in Europa e in parte dell´Africa, dell´Asia e del Medio Oriente gratuitamente sulla piattaforma Sky al canale 801 e sul Satellite Ht Bird2, pacchetto modulante sul trasponder 54, frequenza 11804 Mhz. TV2000 può contare su un ricco apporto di pubblicità commerciale, gestita dalla Sipra, nonché sulle numerose «comunicazioni sociali» delle associazioni umanitarie, qualificate «a fini di lucro». Esemplare lo slogan dal sapore commerciale e spirituale insieme, «TV2000, la tv che ti accende».
Sul versante che dalla via Aurelia volge verso la Villa Sacchetti, a fronte del Parco regionale del Pineto, si sviluppa il complesso universitario e ospedaliero del Vaticano. Che fa capo alla Università Cattolica del Sacro Cuore, sorta su un terreno di 37 ettari acquistato da Pio XI nel 1934 a fronte dell´attuale Parco Regionale del Pineto e inaugurata il 5 novembre 1961 come sede della Facoltà di Medicina e Chirurgia. Ma solo tre anni dopo, il 10 luglio 1964, è iniziata l´attività del Policlinico Agostino Gemelli, che si è affermato come ospedale di alta specializzazione, così da essere inserito nel Servizio Sanitario Nazionale. In prossimità del policlinico sorge la Clinica Columbus, nella via Giuseppe Moscati, toponimo che rievoca l´originaria denominazione della clinica. Che è nata appunto come "Clinica Giuseppe Moscati", frutto delle prime costruzioni romane della vaticana Generale Immobiliare, e oggi appartenente alla Association Columbus, diramazione sommersa dello Ior, come espressione diretta dell´Istituto delle Missionarie del Sacro Cuore di Gesù, fondate da santa Francesca Saverio Cabrini.


il Riformista 11.7.10
Viva Nichi, ma non ci farà vincere
di Peppino Caldarola ex direttore dell’Unità

Scrive Sansonetti, su “Il Riformista” di ieri, che ormai non ci resta che sperare in Nichi Vendola. Ho stima per il governatore pugliese ma ho molti dubbi che sia in grado di organizzare una maggioranza elettorale. Il fatto che possa guidare bene un’opposizione non mi entusiasma. Il problema della sinistra non è imparare a contrastare il vincitore ma saper governare bene. E per farlo bisogna puntare sulla cultura dei “sì” piuttosto che sul cartello dei “no”. In questi anni Vendola ha fatto un’esperienza eccezionale che lo ha cambiato. Oggi siamo di fronte a un leader della sinistra radical che sa misurarsi con i problemi di governo e che riesce ad aggregare attorno a sé un elettorato che va oltre i confini della sinistra. La sua “pugliesità” è la cifra per capire il successo nella sua regione. Di fronte a candidati ingessati, come lo era Fitto nel primo scontro elettorale, o esangui, come lo è stato Rocco Palese qualche mese fa, la passione civile di Nichi ha avuto il sopravvento. Vendola non è un fenomeno mediatico anche se sa usare i media ma è soprattutto un trascinatore di popolo. Dato a Nichi quel che gli appartiene, per l’incoronazione a leader mancano tuttora molti tasselli. E soprattutto uno, che Sansonetti sembra voler ignorare. Da anni, in ogni momento cruciale, la maggioranza del popolo di sinistra si è espresso a favore di soluzioni riformiste. Questo è stato il Veltroni del Lingotto, questo è il Bersani che ha battuto Franceschini. Questo era Prodi. Questo è Vendola?

sabato 10 luglio 2010

l’Unità 10.7.10
Bersani: «Quadro allucinante Il governo riferisca in Aula»
di A. C.

Opposizioni indignate per l’affaire di Flavio Carboni, arrestato con l’accusa di aver fatto pressioni sulla Corte Costituzionale per il lodo Alfano. «Dall’inchiesta emerge un quadro allucinante», ha detto Pierluigi Bersani. «I magistrati vadano fino in fondo, e il governo per favore venga in Parlamento a dirci qualcosa su questa vicenda». «Viene il dubbio ha aggiunto il leader Pdche nella fase del “ghe pensi mi”, sotto l’imperatore si muovano vassalli e valvassini che cercano di far andare le cose in un certo modo. Quindi c’è anche un problema di trasparenza». Bersani ha anche parlato della salute del governo: «Non reggeranno tre anni. Siamo al secondo tempo del berlusconismo, ma potrebbe essere un periodo pericoloso. Non so quanto durerà, noi dobbiamo essere pronti e presenti». Rincara la dose il responsabile Giustizia Pd Andrea Orlando: «Il governo deve chiarire al più presto e in sede istituzionale fino a che punto questa cricca eversiva ha condizionato la dinamica politica di questa stagione».
E ancora: «Il governo smentisca la notizia secondo cui alcuni esponenti dell’esecutivo e del Pdl avrebbero partecipato a riunioni per condizionare organi costituzionali»: solo in questo caso le persone coinvolte potrebbero continuare a esercitare la loro funzione». Il riferimento di Orlando è al sottosegretario alla Giustizia Giacomo Caliendo e al coordinatore Pdl Denis Verdini. Il sottosegretario ha ammesso di aver partecipato a una riunione con Pasquale Lombardi, uno degli arrestati, ma esclude «nella maniera più assoluta che durante la mia presenza alla riunione si sia parlato di possibili interventi presso la Corte Costituzionale».
Di Pietro parla di «tentativo chiaro di condizionare l’attività della magistratura», di «attentato allo stato di diritto». «Il puzzle sta per essere completato e porta la firma del Piano di Rinascita della P2». «Il ministro Alfano venga urgentemente a riferire in Parlamento», dice Leoluca Orlando. «Dall’ordinanza del gip De Donato emerge un quadro inquietante ed eversivo. Verdini, Caliendo, Cosentino, Dell’Utri e Cappellacci si devono dimettere». Dura anche l’Udc: «Quadro torbido e preoccupante, emerge un sistema di potere che punterebbe a intimidire e assoggettare parti dello Stato», dice Gianpiero D’Alia. «Se ne occupi la Commissione Antimafia».Opposizioni unite per chiedere chiarezza sull’affaire Carboni. Bersani: «Quandro allucinante, il governo riferisca in Parlamento». Orlando (Idv): «Caliendo e Verdini si dimettano». D’Alia (Udc): se ne occupi l’Antimafia.

l’Unità 10.7.10
«400 i migranti nei nostri centri». L’allarme di Napolitano: si faccia luce sui rifugiati
Il giurista Paleologo: lavori forzati in campi segregati. Quale destino per chi non accettasse?
Tripoli ammette: sono 245 gli eritrei consegnati dall’Italia
La Libia ammette: 400 rifugiati nel Paese, 245 quelli rispediti indietro dall’Italia. 245: lo stesso numero degli eritrei segregati per 8 giorni nel carcere di Brak. Napolitano: fare piena luce sulla vicenda...
I respingimenti collettivi: «Sono vietati da tutte le convenzioni internazionali»
Thomas Hammarberg: «Sui migranti violenze della polizia libica molti feriti seriamente»
di Umberto De Giovannangeli

Tripoli dà i numeri. E mette nei guai l’Italia. In Libia, rileva una nota del ministero degli Esteri della Gran Giamahiria Araba Libica Popolare Socialista libico (ore 21:03 di giovedì scorso) citata dall’agenzia ufficiale Jana e ripresa dalla Reuters, ci sono 400 rifugiati in totale, 245 dei quali sono stati respinti da pattuglie italiane e consegnati a Tripoli. Duecentoquarantacinque: un numero che ricorre in queste drammatiche giornate. Altro che liberazione. Altro che «caso chiuso». A sottolinearlo, in una lettera inviata dal presidente del Cir (Centro Italiano Rifugiati),Savino Pezzo, è il Capo dello Stato, Giorgio Napolitano. «Nella lettera riferisce Christopher Hein direttore del Cir afferma anche che la vicenda continuerà a essere seguita “con la dovuta urgenza” nell’auspicio che possano essere rapidamente chiarite le ragioni che hanno determinato la richiesta di aiuto dei rifugiati eritrei e che sia fatta luce sulle condizioni della loro permanenza presso i campi profughi della Libia».
CARCERE E LAVORI FORZATI
Rischiano i lavori forzati i 245 rifugiati eritrei rinchiusi nel carcere libico di Brak, nei pressi di Sebah. Non sono solo associazioni umanitarie a paventarlo. A denunciarlo è anche il giurista Fulvio Vassallo Paleologo, docente di Diritto di asilo e statuto costituzionale dello straniero presso la facoltà di Giurisprudenza dell'Università di Palermo. «L’accordo di liberazione e residenza in cambio di lavoro» annunciato dal ministro della Pubblica Sicurezza libico, il generale Younis Al Obedi, che prevede «lavoro socialmente utile in diverse shabie (comuni) della Libia» nasconde, secondo Paleologo, una forma diversa di detenzione nei campi di lavoro libici. Il documento si intitola «Arbeit macht frei» (Il lavoro rende liberi) in riferimento alla scritta che campeggiava all'ingresso del campo di concentramento di Auschwitz. Paleologo denuncia che «una parte soltanto dei detenuti di Sebah ha accettato» e che questa condizione «non permetterà loro alcuna libertà di circolazione, come spetterebbe a qualunque titolare del diritto di asilo, e li consegnerà ad una rigida catena gerarchica che esigerà da loro un vero e proprio lavoro forzato». Paleologo si chiede ancora: «Che fine faranno poi coloro che non accetteranno l'imposizione di questa ulteriore deportazione? Quali mezzi di persuasione verranno impiegati?». Nel documento si sottolinea che: «Il lavoro promesso in cambio della libertà appare solo come un tentativo di disperdere il gruppo di profughi eritrei, da giorni vittima di torture e violenze da parte della polizia libica, e rendere più difficili le inchieste internazionali sulle responsabilità di questa ennesima deportazione violenta subita da persone che avrebbero dovuto essere accolte come rifugiati».
Il giurista palermitano sostiene che diverse testimonianze raccolte smentiscono le dichiarazioni del ministro dell'Interno Roberto Maroni, il quale ha negato il coinvolgimento del governo italiano nella vicenda dei profughi eritrei trattenuti in Libia perché non sarebbe dimostrato che si tratti delle stesse persone respinte in mare dall'Italia. «La Corte Europea dei diritti dell'Uomo potrebbe emettere una sentenza di condanna per i respingimenti collettivi verso la Libia, vietati da tutte le convenzioni internazionali», ricorda Paleologo, che entra nel merito degli accordi bilaterali tra l'Italia e altri 30 Paesi. «Il governo italiano non vuole ammettere che gli altri accordi bilaterali sono solo accordi di riammissione, ma non prevedono il respingimento collettivo in acque internazionali, come nel caso degli accordi con la Libia scrive il giurista Lo stesso accordo tra Spagna e Marocco, troppo spesso richiamato a sproposito, ha consentito il respingimento di natanti fermati in acque marocchine, e non in acque internazionali, ed in ogni caso il Marocco, a differenza della Libia, aderisce alla Convenzione di Ginevra e consente, sia pure con gravi limiti le attività dell'Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati». Viene ricordato un episodio di grave violazione dei diritti umani. «Nei giorni scorsi centinaia di nigerini presenti in Libia sono stati deportati in Niger, come riferisce la stessa agenzia di stampa ufficiale Jana, senza che a nessuno di essi fosse consentito chiedere asilo in Libia o far valere la protezione internazionale", scrive ancora Paleologo.
ALTRO CHE «CASO CHIUSO».
La richiesta al governo italiano, rilanciata dalle associazioni umanitarie e da un fronte parlamentare «bipartisan» ha un nome: reinsediamento. A chiederlo sono anche molti dei 245 eritrei «liberati». «Non lasciateci in balia dei libici», è il loro appello.
Il Commissario per i Diritti umani del Consiglio d'Europa Thomas Hammarberg afferma in una nota ufficiale di avere informazioni circa il fatto che i migranti sarebbero stati sottoposti a violenze dalla polizia libica, e che diversi di loro sarebbero rimasti feriti in modo serio. «Ci sono circa 400 migranti illegali dell'Eritrea detenuti in centri in Libia e vengono trattati come ospiti temporanei», puntualizza un comunicato del ministero degli Esteri libico citato dall' agenzia ufficiale Jana. «Le autorità libiche hanno aperto i centri di detenzione agli organismi umanitari e ai rappresentanti diplomatici perché testimonino le condizioni e il trattamento dei migranti», sostiene l'agenzia. «È una cosa che di per sé smentisce le accuse di maltrattamento».

l’Unità 10.7.10
Le iniziative
Italiani e eritrei, sit-in solidale al Parlamento e all’ambasciata
Giovedì davanti all’ambasciata libica e in piazza Montecitorio, oggi a Bologna e Firenze. La vicenda dei profughi eritrei ha scosso l’anima solidale dell’Italia. «Non lasciamoli morire, libertà per i profughi eritrei imprigionati in Libia» è lo slogan del sit-in del Pd davanti al Parlamento; con loro anche Livia Turco. «Non è possibile rimanere indifferenti di fronte a persone che fuggono da regimi dittatoriali ha detto il responsabile Immigrazione giovani del Pd, Khalid Chaouki Soprattutto di fronte ad un accordo con la Libia che ci rende pienamente responsabili di quello che lì avviene». «Coraggio fratelli, noi siamo con voi, lotteremo fino a quando il governo italiano non vi farà venire qui come rifugiati politici» è il messaggio di alcuni rifugiati eritrei ai 250 ristretti in Libia. «Asmerom, Mahari, Mahtios e Tzegga sono quattro rifugiati che vivono a Roma da anni. «Tutti noi eritrei dicono fuggiamo dal nostro Paese perché lì non è possibile una vita normale: c'è la dittatura, ci sono le persecuzioni, da 16 anni a 60 anni la vita non è più tua ma del dittatore. E il governo italiano ci butta verso il mare e fa affari con i dittatori eritrei».

l’Unità 10.7.10
Reato di immigrazione clandestina, la partita è ancora aperta
La Corte Costituzionale ha depositato le motivazioni delle sentenze con le quali ha affrontato la questione della legittimità dell’aggravante di clandestinità (249/2010) e del reato di immigrazione clandestina (250/2010). In relazione all’aggravante di clandestinità, la Consulta ha affermato senza mezzi termini che i diritti inviolabili spettano «ai singoli, non in quanto partecipi di una determinata comunità politica, ma in quanto esseri umani» e, pertanto, «la condizione giuridica dello straniero non deve essere considerata come causa ammissibile di trattamenti diversificati e peggiorativi, specie nell’ambito del diritto penale ». Pertanto, l’aggravante di clandestinità è stata considerata incostituzionale, per violazione dell’art. 3 e dell’art. 25 della Costituzione, perché la sua unica giustificazione sarebbe «una presunzione generale ed assoluta di maggiore pericolosità dell’immigrato irregolare, che si riflette sul trattamento sanzionatorio di qualunque violazione della legge penale da lui posta in essere». Più chiaro di così. Il reato di immigrazione clandestina, invece, ha superato l’esame della Corte. Ma, nel leggere la sentenza, sembra che la Consulta abbia lasciato dei margini per ulteriori esami, laddove le ordinanze di rinvio investano profili che, fino ad esso, sembrano non essere stati sollevati. La Consulta, infatti, ha sottolineato come, sebbene la classificazione dell’immigrazione irregolare come reato rientri «nella discrezionalità del legislatore», tale discrezionalità potrebbe «formare oggetto di sindacato, sul piano della legittimità costituzionale, solo ove si traduca in scelte manifestamente irragionevoli e arbitrarie». Insomma, la partita resta ancora aperta. Provvidenzialmente.

l’Unità 10.7.10
Faccetta nera
Eritrea-Etiopia atroci conquiste degli italiani
Non c’è nulla di più resistente del mito degli italiani brava gente. Ma gli storici e i documenti fotografici raccontano torture, repressione feroce e offese violente alle donne
di Iolanda Bufalini

Turismo sessuale di guerra potremmo titolare questa sezione della mostra che si è chiusa ieri all’Accademia britannica di Roma. Sono immagini atroci, anche quando i volti sorridono e la messa in posa ammicca alla presunta «disponibilità delle donne native». Le etiopi, le eritree che subirono l’occupazione italiana dal 1935 al 1941.
Sono immagini che fanno parte di una sezione più ampia della mostra «Margini d’Italia» organizzata da David Forgacs, storico britannico, che per curarla e raccogliere i materiali ha soggiornato sei mesi ad Addis Abeba, oltre che in Italia.
In Etiopia Forgacs ha incontrato i vecchi patrioti che comabatterono contro gli italiani, filmato i loro racconti e riprodotto le fotografie che ancora i combattenti conservano. Si tratta di immagini molto rare, perché i combattenti africani non avevano macchine fotografiche e la gran parte della documentazione fu scattata quando, nel 1941 , arrivarono gli inglesi. Per questo è particolarmente importante il ritratto di Jagema Kelo con un fucile russo, fatto quando Jagema Kelo, figlio di un signore locale, capo di una banda ad ovest di Addis Abeba, che aveva solo quindici anni, aderì alla resistenza e prese il comando di un’unità. «Gli storici italiani, da Angelo Del Boca a Luigi Gorla, a Nicola Labanca hanno raccontato la verità. Ma il mito di ‘italiani brava gente’ è duro a morire. Anche gli italiani che ho incontrato in Etiopia, i discendenti di quelli che erano rimasti nel corno d’Africa, sono convinti che quello italiano fu un colonialismo pacifico, finalizzato a dare un po’ di terra ai contadini. Ma non è vero, fu una guerra violentissima, anche perché la resitenza era forte. Una situazione analoga a quella dell’Afghanistan oggi, con le truppe di occupazione che controllavano le città ma non le campagne. Dopo l’attentato a Graziani, la repressione fu feroce, con migliaia di morti». Ci sono le fotografie, in parte scattate dagli stessi militari italiani, degli impiccati e delle teste mozzate ed esposte appese a un cappio per terrorizzare. C’è l’immagine di un combattente torturato che giace in terra. C’è
la copertina della “Difesa della razza” che, in modo inquietante, raffigura un gladio che separa l’effige di un romano da quelle di un ebreo e di un africano.
Due delle immagini che pubblichiamo fanno parte della raccolta di Luigi Goglia, ora nel Laboratorio di Ricerca e Documentazione Storica Iconografica dell'Università di Roma Tre. «Nel porto di Massaua sul Mar Rosso quattro marinai italiani tengono ferma una giovane eritrea mentre il loro compagno, un marconista della marina, Mario Fiore, scatta una foto-ricordo. La ragazza ha la testa abbassata ma è costretta dalle mani che la afferrano a stare in piedi e a mostrare i seni all’obiettivo. Uno dei marinai tiene in mano la camicia strappata alla ragazzina. Ci sono anche due uomini eritrei, uno dei quali sorride, stanno a guardare». Il disagio che proviamo a guardarla 75 anni dopo, spiega Forgacs, è perché «siamo costretti a vedere la scena dalla posizione del fotografo. Riceviamo in pieno i sorrisi dei suoi compagni che ci invitano a partecipare al loro divertimento. Mentre vorremmo identificarci con la sofferenza e il pudore violato della giovane».
L’immagine con la donna a seno nudo sulla città costruita dagli italiani combina l’uso del corpo femminile con la “promozione del prodotto”, come le tecniche pubblicitarie fanno fino ai nostri giorni: «In questa singolare fantasia sostiene David Forgacs il paesaggio e la donna sono allo stesso tempo pronti ad essere presi dal colonizzatore bianco». L’idea della disponibilità delle «native» si diffondeva in Italia attraverso le canzoni, come “faccetta nera” e attraverso le cartoline e le fotografie dei militari con ragazzine nude. Ma «Alcuni testimoni italiani contemporanei ammisero che molte immagini della ‘donna nativa’ erano false. Molte delle foto-ricordo scattate dagli italiani erano di prostitute di città».
Alla mostra si è affiancato un convegno di due giorni, con sedute plenarie e seminari. Fra gli altri abbiamo ascoltato l’intervento di Nicola Labanca che ha presentato i testi del “diritto coloniale” in cui si stabiliscono le norme di segregazione nei confronti dei «sudditi» africani distinti dai «cittadini». Il pane per questi, ad esempio, doveva esserre «abburrato all’80 per cento, al 20 per cento quello dei sudditi». I salari degli italiani più alti, a questi ultimi, però, era vietato fare i cencialioli o i saltimbanchi, «per difendere la dignità della razza».

il Fatto 10.7.10
Morte in Libia, vergogna Frattini
Il ministro degli Esteri di un governo collaborazionista con il regime di Gheddafi: indifferenza e disumanità
di Furio Colombo

La sera di mercoledì 7 luglio il ministro degli Esteri italiano Franco Frattini è stato intervistato per il Tg3 (ore 19) da Elisabetta Margonari. Tema: 245 eritrei imprigionati e torturati dai libici. È una breve e terribile conversazione, in cui il capo della diplomazia di questa Repubblica ci fa sapere il grado di indifferente e irritata disumanità in cui è stata spinta l’Italia. Troverete il testo qui accanto. In queste righe riporto e commento i punti più impressionanti. La giornalista chiede se è possibile che gli eritrei dello spaventoso campo di Braq, che rischiano di morire stipati in celle sotterranee nel deserto, possano davvero essere liberati e lavorare, in Libia come annunciato dalla Farnesina. Frattini: “Siamo convinti che la rapidità con cui siamo arrivati a questo accordo dimostri la nostra buona fede, sicuramente quella dei libici”. Frattini sembra non ricordare che, con pompa e colore (e Berlusconi che bacia le mani a Gheddafi e le Frecce tricolori che saettano in onore di Gheddafi nel cielo di Tripoli) è stato firmato un trattato con la Libia, ratificato da tutto il Parlamento italiano, tranne una tenace opposizione dei deputati radicali, a cui – assieme a pochi altri – mi sono unito.
QUEL TRATTATO stabilisce che la Libia, in cambio del versamento da parte dell’Italia di 20 (venti) miliardi di dollari, provveda a bloccare qualunque tentativo di migrazione, dal deserto o dal mare, verso l’Italia. Infatti, dopo che le grida di aiuto e la denuncia di orrori dal campo di Braq avevano raggiunto l’Europa, né la Libia, né l’Italia hanno mosso un dito. Due lettere del commissario europeo per i diritti umani Hammarberg sono rimaste senza risposta. Ma Tg3 per primo, l’Unità e altri giornali (tra cui Il Fatto) hanno forzato il blocco del silenzio. Poi sarebbe stato raggiunto l’accordo, di cui non si vede e non si può verificare nulla. Una lettera del deputato radicale Mecacci, con dure e precise domande, è rimasta senza risposta. Ma ecco la voce, il pensiero, il senso di Frattini per gli esseri umani. Giornalista: “Queste persone che denunciano torture sono state respinte mentre cercavano di raggiungere l’Italia. Non ci riguarda?”. Frattini: “Bisogna vedere se dicono la verità (…). E poi è molto curioso che persone che si dicono torturate avessero telefoni satellitari con cui parlare con mezzo mondo”.
NOTARE la sprezzante espressione, “parlare con mezzo mondo”, come di petulanti vicini di ombrellone che disturbano con i loro telefonini. Notare l’avvertimento del ministro degli Esteri italiano ai carcerieri libici: “Attenti a perquisire bene i prigionieri. Non lasciate in giro telefonini”. Di sangue, torture e morte il ministro italiano, che ha coinvolto l’Italia in quell’impresa criminale, non vuol sentire parlare. “Chi lo dimostra? Qui niente è provato”. Neanche Via Tasso era provata. E chi ci proverà che gli eritrei, prigionieri di Italia e Libia, sopravviveranno?

il Fatto 10.7.10
Eritrea, prigione a cielo aperto in guerra da vent’anni
di Gianni Perrelli

Asmara. Attraversano di notte con i miseri fagotti la mai definita frontiera con l’Etiopia o i valichi desertici che sfociano in Sudan. Migliaia di profughi rischiano ogni anno la vita per fuggire dall’Eritrea, che secondo Human Rights Watch è diventata una gigantesca prigione a cielo aperto. Proseguono a tentoni, taglieggiati dagli sciacalli delle migrazioni clandestine, verso il miraggio dell’Europa. Rimanendo quasi sempre incastrati (come i protagonisti delle recenti, drammatiche cronache) nei lager-trappola della Libia. Ma le fughe proseguono ininterrottamente. Per chi ha coraggio, la percezione dell’altissimo rischio è com-pensata dalla forza della disperazione. Meglio giocarsi la vita ai dadi che languire in un gigantesco lager dove non si vota mai, finché non si è vecchi è impossibile procurarsi un passaporto, la libertà di parola è duramente repressa e se non si ricevono rimesse dall’estero si vive di stenti con le razioni di cibo fornite dallo Stato. L’Eritrea (quasi sette milioni di abitanti, nove etnie, per oltre la metà musulmani sunniti, per un terzo cristiani ortodossi) è oggi uno dei paesi più isolati del pianeta insieme con la Corea del Nord, la Birmania e il Turkmenistan. Retta con il pugno di ferro dal presidente autocrate Isaias Afewerki, 65 anni, leader del Pfdj (Fronte popolare per la democrazia e giustizia) che ha deviato l’originale ispirazione stalinista verso una miscela di socialismo, islamismo e nazionalismo sfrenato . Stremata da un’economia asfittica appena alleviata dagli aiuti degli organismi internazionali, ma su cui si sono abbattute le sanzioni degli Stati Uniti per l’appoggio in Somalia alle Corti islamiche alleate di al Qaeda.
Dall’anno dell’indipendenza dall’Etiopia (1993), l’Eritrea è stata quasi sempre in guerra. Con lo Yemen per la sovranità di alcune piccole isole, con il Sudan e Gibuti sempre per questioni territoriali, in Somalia tramite l’appoggio all’ala più radicale dei combattenti islamici. All’interno, contro gruppi di guerriglieri nemici di Afewerki. Ma il conflitto dal quale il paese non si è mai del tutto ripreso è stato quello (1998-2000) con l’Etiopia che provocò 70 mila morti. Dopo la pace firmata ad Algeri è rimasto irrisolto il problema dei confini monitorati fino al 2008 da contingenti dell’Onu. Oggi la frontiera è ufficialmente chiusa. Con le truppe che si fronteggiano guardandosi in cagnesco. Asmara non ha relazioni diplomatiche con l’Etiopia. Ad Addis Abeba ha inviato sì un ambasciatore ma presso la sede dell’Unione Africana. Afewerki si ostina a evitare qualsiasi contatto con Meles Zenawi, il premier etiope, a cui era molto legato ai tempi (anni Ottanta) della comune lotta di liberazione contro il dittatore Menghistu Hailé Mariam oggi in esilio nello Zimbabwe. Il clima di mobilitazione militare permanente ha prodotto la leva obbligatoria per chi ha meno di 50 anni. In pratica, quando la patria chiama (e chiama spesso) ogni eritreo deve imbracciare il fucile. E nel bilancio dello Stato le spese per gli armamenti sono una delle prime voci. Ad Asmara, che ospitando piccoli flussi di turismo internazionale conserva una sua dimensione cosmopolita, si avverte meno il senso di prostrazione. Sì, non possono passare inosservate le lunghe code davanti ai negozi di Stato. Si percepisce la carenza di cibo e di carburante, aggravata dal carovita: un chilo di zucchero non razionato costa al mercato nero un terzo del salario medio mensile. Ma la capitale, dal punto di vista architettonico un gioiello dell’art deco, ha un suo volto disteso. La gente è cordiale, neanche nella penuria rinuncia al rito del caffè macchiato e alla convivialità di tradizione italiana. E’ nelle desolate campagne, dove il visitatore straniero può accedere solo con uno speciale permesso, che balzano più all’occhio le difficoltà di un paese dove il reddito pro capite è di soli 300 dollari l’anno (meno di un dollaro al mese).
Afewerki, nella sua paranoia isolazionista , nutre una vera e propria idiosincrasia per le interferenze dall’estero. Ha messo al bando quasi tutte le Ong occidentali ed espelle dal paese qualsiasi straniero risulti sospetto di voler mettere il naso nelle faccende di Stato. Ancor più pesante è la mano con il dissenso interno. Le carceri sono piene di oppositori. Sono stati epurati perfino una mezza dozzina di capi della lotta di liberazione che avevano preso le distanze dagli eccessi di repressione. I giornali e le tv sono da anni imbavagliati: il regime li ha statalizzati tutti e nessun organo di stampa può registrare neanche un minimo accenno di critica. Eppure Afewerki, rampollo di una famiglia elitaria di religione cristiano ortodossa ed ex studente di scienze naturali, dopo la presa del potere sembrava intenzionato a dar vita a uno Stato basato sulla giustizia sociale e sull’egualitarismo. Diede impulso fino alla guerra con l’Etiopia a un vasto piano di infrastrutture e introdusse alcuni diritti costituzionali . L’involuzione autoritaria, secondo molti politologi, deriva da un complesso dell’assedio che lo spinge a intravedere complotti ovunque. Mentre la vocazione militare, applicata in nome del patriottismo e della sicurezza nazionale, è anche un modo per nascondere gli immani problemi del paese nell’emergenza bellica. Nelle rare interviste l’autocrate si è difeso dalle accuse dicendo di essere vittima di una propaganda negativa, tendente a mettere in cattiva luce l’Eritrea. I profughi, secondo Afewerki, non fuggirebbero per ragioni politiche ma per cercare altrove migliori opportunità economiche. In Somalia lui non fiancheggia le Corti Islamiche, pensa semplicemente che una soluzione per quel tormentato paese possa venire solo dando rappresentanza a tutte le fazioni in guerra. E pur riconoscendo che l’Eritrea per ragioni contingenti attraversa serie difficoltà economiche, non manca di sottolineare che sanità e scuola sono gratuite, e in più non esistono né criminalità né corruzione. A differenza di tanti altri satrapi africani, Afewerki ci tiene a ostentare una vita molto frugale. Gira (apparentemente) senza scorta, manda i figli alla scuola pubblica, va da solo a comprarsi i vestiti e le scarpe. Osteggiato dagli Usa, ha buone relazioni con Israele da quando (negli anni Novanta) andò a curarsi a Tel Aviv. Ma recentemente ha stretto legami con l’Iran. Un’ambiguità di difficile interpretazione. Che cela probabilmente la necessità di rompere un isolamento letale per l’economia nazionale.

il Fatto 10.7.10
Botte in piazza Polizia fuori controllo
Le manganellate a Roma agli aquilani e sugli operai a Milano. Che succede?
di Paola Zanca

Giù la testa. Se protesti, son dolori. Dev'esserci qualcosa che non va se giovedì sera, un servizio di un tg nazionale – il Tg3 delle 19 – cominciava così: “Ma cosa sta succedendo alle forze dell'ordine? Perché tutta questa brutalità? È un eccesso di zelo o c'è una direttiva?”. Succede che nel giro di due giorni sotto i nostri occhi sono sfilate immagini surreali: prima i terremotati de L'Aquila, poi gli operai della Mangiarotti Nuclear. Rivendicano casa e lavoro, finiscono feriti in tre a Roma, in cinque a Milano. Le spiegazioni delle forze dell’ordine non convincono: nel caso degli aquilani, dicono sia colpa degli infiltrati dell'area antagonista romana e abruzzese, mentre contro gli operai milanesi sostengono ci siano state solo “azioni di contenimento”. Contenere cosa, non si sa.
Le forze dell’ordine e i feriti di questi giorni
Forse solo chi alza la testa: che l'aria che tira sia quella del “manganello facile”, è un dubbio che monta anche tra chi nella polizia ci lavora. “L'autoritarismo è il male del Paese e di questo governo”, dice Gianni Ciotti, che a Roma è segretario provinciale della Silp-Cgil. Gli episodi di Roma e Milano Ciotti li definisce “inconcepibili”.Ma un senso ce l'hanno eccome: nessuno crede che il clima si sia inasprito, che qualcuno abbia detto che è il momento di alzare le mani: “Direttive del genere non esistono e non possono esistere – spiega Ciotti – Ma è il sistema di tolleranza che è diverso”. A una manifestazione di terremotati, o alle proteste di lavoratori che rischiano di perdere il posto, ricorda Ciotti, “si sarebbe trattato fino all'inverosimile”. Cosa è cambiato? “Non siamo in un clima di tranquillità culturale, oggi chi dissente è un nemico. Chiunque manifesti è trattato come un diverso e può essere che anche l'agente delle forze dell'ordine lo percepisca come uno che rompe l'equilibrio. Oggi chi scende in piazza è uno che è fuori dalle regole: ma anche all'interno della polizia deve passare il messaggio che chi protesta ha gli stessi diritti di chi non protesta. Noi lo dobbiamo aiutare a manifestare, lo dobbiamo difendere” .E gli infiltrati? “Vorrei capire una cosa una volta per tutte: alla fine chi è stato ferito, un infiltrato o un cittadino inerme? Questa storia degli infiltrati continua a mostrare un po' di pecche – insiste Ciotti – Possibile che non si riesca mai a prenderne uno?”. Nemmeno dei famigerati black block si seppe più nulla. “È lì che bisognava fare chiarezza e stabilire qual era il modello di ordine pubblico vincente – dice Ciotti – Ma la politica non ha avuto forza di farlo. Ancora oggi – prosegue – vorrei qualcuno, non dico della maggioranza, ma almeno dell'opposizione che dicesse chiaramente se prende le distanze o meno dai poliziotti violenti di Genova”.
Per il Sap il modello vincente è il G8 di Firenze
Il modello vincente, “quasi da incorniciare” per Massimo Montebove, portavoce del Sindacato autonomo di Polizia fu quello di Firenze, al Social Forum del 2002, un anno dopo Genova: nessun contatto con i manifestanti, reparti “agili”, al massimo di 30 persone, servizio d’ordine interno al corteo, uso di lacrimogeni solo in casi di assoluta gravità e divieto assoluto di usare armi. Il Sap è convinto che a Roma il modello non abbia funzionato, sia perché c'erano “esponenti dell'area antagonista romana e abruzzese”, sia perché ci sono stati “tentativi di forzatura del percorso: non si può arrivare davanti a Palazzo Chigi, lo hanno impedito anche a noi quando abbiamo manifestato”. Ancora adesso sono “incazzati con il governo che ci sta trattando malissimo” e ammettono che quello che è successo a Milano è un “brutto episodio” che “la sera quando siamo senza divisa e discutiamo tra di noi, non ci lascia indifferenti”. “Le cose vanno migliorate, è evidente – conclude Montebove – Si sta tentando di incrementare la formazione psicologica degli agenti: da un lato per aumentare la professionalità, dall'altro perché ci sono stati episodi, penso al caso Aldrovandi, che hanno fatto capire che certi atteggiamenti vanno evitati”. Mentre vanno a lezioni di calma, le forze dell’ordine preparano “eclatanti iniziative di protesta”contro il governo e i minacciati tagli alle tredicesime. Chissà se a loro, alzare la testa, è ancora concesso.

il Fatto 10.7.10
Alleanza anti-bavaglio
Una giornata di sciopero per giornali, radio, tv e web Federazione della Stampa: “Il fronte è cresciuto”
di Stefano Caselli

Lo sciopero forse più controverso della storia del giornalismo italiano è andato in scena con successo, nonostante rimanga in piedi – insoluto – l’interrogativo-ossimoro di fondo, ossia l’efficacia di una “Giornata del Silenzio” proclamata “per fare rumore”. Nessun giornale in edicola (compreso Il Manifesto) tranne, com’era ovvio e prevedibile, Il Giornale, Libero, Il Tempo, Il Foglio e (seppur spaccato al suo interno) Il Riformista e il settimanale Gli Altri di Piero Sansonetti. Siti Web non aggiornati per 24 ore, finestre informative ridotte come previsto dalla legge sulla Rai (cui, come di consueto, si sono adeguate Mediaset, La7 e Sky), silenzio dalle agenzie (tranne l’AdnKronos): “Siamo molto soddisfatti – dichiara Roberto Natale, presidente della Fnsi – per il modo complessivo in cui lo sciopero è riuscito. Tra radio e televisione l’adesione è stata altissima, con punte del 99% a SkyTg24. La novità più importante però – prosegue – è che si è ristretta ulteriormente l’area dei giornali in edicola. Allo sciopero infatti, a differenza di quanto accaduto in passato, hanno aderito anche i quotidiani del gruppo Riffeser Il Giorno, Il Resto del Carlino e La Nazione”.
Anche molti periodici in edicola tra ieri e oggi hanno deciso di aderire alla protesta, rivolgendosi ai lettori con un comunicato firmato da 16 comitati di redazione, tra cui Mondadori, Rcs e Rizzoli.
Il Consiglio dell’ordine dei giornalisti appoggia “incondizionatamente” la protesta della Fnsi “contro il disegno di legge che pone intollerabili limiti al diritto di cronaca” e contemporaneamente “nella malaugurata ipotesi in cui il ddl venisse approvato nell’attuale formulazione” dà mandato al comitato esecutivo a “ricorrere a ogni possibile azione legale per difendere il diritto dei cittadini a essere informati”. Il dibattito sull’opportunità di ridursi al silenzio ha agitato nei giorni scorsi le redazioni di molti giornali, il Fatto Quotidiano compreso: “È uno sciopero di cui condividiamo fino in fondo le ragioni – ribadisce il blog di Marco Travaglio sul nostro sito – ma non le forme. Non ha alcun senso protestare contro il bavaglio imbavagliandoci per un intero giorno, facilitando il compito agli imbavagliatori che – oltre al danno la beffa – usciranno con i loro giornali-trombetta”. L’invito alla Fnsi, proveniente da più parti, di studiare forme alternative di protesta è stato respinto perché, spiega il presidente della Fnsi Franco Siddi “non è emerso alcun fatto nuovo”, ma il fattore determinante, probabilmente, è stato lo scarso tempo a disposizione per riformulare decisioni prese un mese fa.
Niente edicola nemmeno per Avvenire, il giornale dei Vescovi italiani, pur con molte perplessità del direttore: “Fatico a protestare per norme che non mi piacciono e che spero vengano giustamente ricalibrate, ma – scrive Marco Tarquinio – ritengo che la stretta di legge sia anche il pesante frutto di un modo sbagliato e guardone di fare giornalismo”. Parole sante per il successore di Dino Boffo, massacrato a mezzo stampa poco meno di un anno fa. Ma il ddl intercettazioni contro il tiro a segno che ha colpito l’ex direttore del quotidiano della Cei non sarebbe più efficace di quanto già previsto, dal momento che, come ha scritto Fiorenza Sarzanini sul Corriere della Sera, “esistono già leggi che puniscono gli abusi, anche per quanto attiene gli aspetti deontologici” e il caso-Boffo (un dipendente degli uffici giudiziari di Napoli è indagato per accesso abusivo a sistema informatico e il direttore de Il Giornale Vittorio Feltri è stato sospeso per sei mesi dall’Ordine dei giornalisti della Lombardia) ne è la dimostrazione.

l’Unità 10.7.10
Germania: non è reato scegliere embrioni sani Lo ha deciso la Cassazione
Due settimane fa la sentenza sull’eutanasia passiva che tanto scalpore ha suscitato. Ed ora la Corte di Cassazione tedesca torna a stupire con un nuovo pronunciamento destinato ad innescare polemiche.
di Gherardo Ugolini

La diagnosi preimpianto, ovvero l’analisi degli embrioni in provetta prima che vengano impiantati nell’utero, per verificare la presenza o meno di malattie genetiche, non costituisce un reato, neanche se il medico decidesse, sulla scorta dei risultati del test, di utilizzare solamente gli embrioni sani scartando quelli malati. Tale diagnosi consente di ridurre il numero degli aborti di bambini con gravi handicap o malformazioni, hanno spiegato i giudici del tribunale di Lipsia.
Il pronunciamento della Cassazione non significa affatto la possibilità di selezionare in misura illimitata gli embrioni in base alle caratteristiche genetiche. Opzioni come quella relativa al colore degli occhi o dei capelli, come anche per determinare il sesso, rimangono pur sempre vietate. Nessuna coppia in Germania avrà ora la possibilità di programmare un «bambino su misura». Tuttavia la sentenza incide profondamente nell’ordinamento in vigore, visto che una legge del 1991 vieta espressamente di distruggere gli embrioni. Ora sarà il Bundestag a dover intervenire per approvare una nuova legge possibilmente in armonia con la deliberazione dei giudici. La Germania si allinea così a Paesi quali Francia e Spagna in cui la procedura della diagnosi preimpianto è consentita pur con determinati limiti. In Italia invece la legge sulla procreazione assistita vieta radicalmente esami di questo tipo.
UN MEDICO APRE IL CASO
A rivolgersi al tribunale era stato un ginecologo di Berlino il quale si era avvalso della diagnostica preimpianto per tre coppie di genitori con malattie ereditarie sottoponendo gli embrioni a test genetici per poi impiantare solo quelli sani distruggendo quelli recanti anomalie. Incerto sulla correttezza giuridica del suo operato, il medico si era autodenunciato alla giustizia sollecitando un pronunciamento. Un tribunale della capitale tedesca in prima istanza lo aveva assolto, ma la Procura di Berlino aveva presentato ricorso. Ora è arrivata l’assoluzione definitiva della Cassazione.
Come era facile prevedere l’opinione pubblica ha reagito in modo differenziato. Da un lato c’è la presa di posizione dell’Ordine dei medici che si dice lieto del fatto che siano stati posti dei paletti giuridici espliciti e univoci sul tema scottante della selezione degli embrioni. Dall’altro la Conferenza episcopale ha ribadito il punto di vista cattolico per cui «l’uccisione degli embrioni non può essere tollerata in nessun caso, anche di quelli che dopo un esame sui danni genetici non devono più essere reinseriti nell’utero». Per i vescovi della Germania «ammettere la diagnostica preimpianto presuppone che all’embrione non venga riconosciuto alcuno stato equivalente a quello della persona nata». Anche le forze politiche sono spaccate sul tema: diversi leader della Cdu come per esempio la vice-capogruppo parlamentare Ingrid Fischbach, hanno contestato aspramente la sentenza sostenendo che «così si apre la strada ad una selezione tra forme di vita degne e indegne». Socialdemocratici, Verdi e Liberali sono invece propensi a varare rapidamente una legge quadro che accolga il giudizio della Cassazione.

Repubblica 10.7.10
Una mostra a Bucarest per ristabilire la verità storica sul personaggio
"Basta con i vampiri" la Romania dice addio al mito di Dracula
"È stata tutta una leggenda per presentare l’Europa orientale come una terra di primitivi"
di Valeria Fraschetti


Basta con falsi miti e leggende esageratamente truculente: per la Romania è arrivata l´ora di raccontare la verità storica sulla vita del principe valacco Vlad III, che nel 1897 ispirò allo scrittore Bram Stoker il personaggio di «Dracula». L´operazione di demistificazione ha preso ufficialmente il via ieri al Museo nazionale dell´arte di Bucarest, con l´inaugurazione della mostra di libri, manoscritti e ritratti intitolata «Dracula - voivoda e vampiro».
L´iniziativa, ha spiegato la curatrice Margot Rauch, è basata su «ricerche storiche che mostrano che le leggende sul Vlad Dracula erano tese a presentare l´Europa orientale come una terra di primitivi». Beninteso: non è che i visitatori troveranno testimonianze sulla vita di un santo. Vlad III non fu certo uomo magnanimo, bensì un autoritario governatore del Quattrocento che lottò strenuamente contro l´avanzata ottomana, famoso per non avere alcuna pena per i nemici. Non a caso, in onore della sua preferita tecnica di punizione, era più comunemente noto come Vlad Tepes, «L´Impalatore». E, difatti, tra le opere che per la prima volta da ieri sono esposte a Bucarest, c´è anche un´incisione che lo ritrae mentre consuma la sua colazione di fronte a un gruppo di prigionieri impalati, accanto a svariate teste sgozzate.
Ma gli organizzatori sostengono che Vlad III, che ereditò il titolo di Dracula dal padre, membro dell´Ordine dei Dragoni (drakul, in romeno), era «senza dubbio crudele, ma non meno di altri principi». Solo che lui fu «vittima della propaganda maligna dei suoi pari occidentali, specie gli ungheresi». Soprattutto, a peggiorare l´immagine del principe della Valacchia ha contribuito Bram Stoker: è unicamente al romanziere, dicono a Bucarest, che il principe deve la sua reputazione di vampiro.
A dispetto di questa convinzione, però, una parte importante della mostra è consacrata proprio al vampirismo, di cui si ritiene che diversi casi avvennero nel diciottesimo secolo in Europa sud-orientale. Fino al 10 ottobre saranno così esposti anche trattati sul fenomeno del vampirismo, dissertazioni sulla «masticazione della morte» e sull´attività (o l´ozio?) dei vampiri durante il giorno, risalenti al 1730-35.
La mostra tenterà anche di demistificare Dracula, ma di certo è in buona parte grazie alle vampiresche leggende sull´«Impalatore» se il 5,6 per cento del Prodotto interno lordo romeno è rappresentato dal turismo. Senza le fantasie di Stoker, la cittadina di Bran, nel cui castello è ambientato il romanzo, oggi sarebbe un sonnolente paesino e non un vivace centro turistico che pullula di negozietti di souvenir e libri che raccontano le atrocità di un governante che, in realtà, da lì forse mai neanche passò.