martedì 13 luglio 2010

l’Unità 13.7.10
Larghe intese. Casini insiste
Bersani: mai con chi ha fallito
Il leader Udc ripropone un governo di responsabilità nazionale guidato da Berlusconi
Pd e Idv nettamente contrari: il berlusconismo va chiuso. DiPietro: no al mercato delle vacche
di Simone Collini

In serata Casini rilancia: «Se avessi fatto il nome di Tremonti anziché quello di Berlusconi il Pd mi avrebbe detto sì». Il leader dei Democratici ironizza dagli Usa: «Aspettiamo che ci proponga Rotondi premier».

Scartata l’ipotesi di un ingresso dell’Udc nell’attuale maggioranza di governo, per via del veto della Lega e per indisponibilità degli stessi centristi a entrare in una coalizione lacerata, è lo stesso Casini a proporre un «governo di responsabilità nazionale» per uscire dalla «crisi politica in atto». Un esecutivo che per il leader dello scudocrociato potrebbe anche essere guidato da Berlusconi, visto che avendo lui «vinto le elezioni», dice al Corriere della Sera, «non è possibile avanzare veti». Un’operazione che secondo Casini lascerebbe fuori Idv e Lega, ma non il partito di Bersani: «Credo che nel Pd siano in molti a rendersi conto che così non si può andare avanti». I finiani aprono mentre, per restare nel fronte maggioranza, la Lega e il ministro Frattini chiudono all’ipotesi.
Ma è dal Pd che arriva una netta smentita per la presunta disponibilità dichiarata dal leader centrista. «Casini sa cosa pensiamo, il berlusconismo va chiuso perché ha fallito», chiarisce Bersani, da ieri in missione negli Stati Uniti. Il segretario del Pd non ricorre ai toni utilizzati dal leader dell’Idv Di Pietro, che definisce Casini «un infiltrato della maggioranza» e l’intera vicenda un «mercato delle vacche». Ma fa notare al leader dell’Udc che sì, il premier può rivestire questo incarico perché ha vinto le elezioni, «ma ha anche fallito, e mi sembra che questo sia un punto insuperabile». Di fronte alla «resa dei conti» in atto nella maggioranza e con un’alleanza di governo «giunta al capolinea» il centrodestra dovrebbe solo prendere atto del proprio «fallimento». Solo a quel punto, chiuso il ciclo del berlusconismo, le forze responsabili potranno dar vita a scenari da unità nazionale. «Qualsiasi soluzione possibile chiarisce Dario Franceschini per garantire un governo al paese che affronti le emergenze, per noi non può che passare attraverso la chiusura dell’era di Berlusconi».
E non è un caso che tanto il segretario del Pd quanto il capogruppo alla Camera parlino non di Berlusconi ma di un’«era» e del più generico «berlusconismo». Un modo per smentire ulteriormente le tesi di Casini, visto che dopo il niet democrat il leader centrista dice che se avesse fatto il nome di Tremonti anziché quello di Berlusconi come premier di questo governo di responsabilità nazionale il Pd avrebbe commentato favorevolmente la proposta. «È evidente che questo governo se ne deve andare», sottolinea la presidente del Pd Rosy Bindi, «ma è altrettanto evidente che non si possono immaginare governi delle larghe intese o di salute pubblica con i protagonisti di questo fallimento, da Berlusconi in giù. Non sarebbe serio e non sarebbe utile all’Italia». E Bersani, commentando ironicamente il rilancio di Casini: «Prima annunciava che il Pd era disponibile ad un Berlusconi-bis. Adesso dice la stessa cosa cambiando premier e indicando Tremonti. Aspettiamo che il leader dell’Udc ci proponga Rotondi... ».

l’Unità 13.7.10
Carceri libiche, i racconti terribili dei migranti al Festival antirazzista Arci
«Tre giorni di viaggio nel deserto, 60 in un pulmino... L’inferno»
«Nel lager di Kufra lavori forzati, botte. Cibo e acqua solo a pagamento»
di U. D. G.

Testimonianze di scampati, somali ed eritrei, dai lager libici: ecco cos’era l’inferno... Sono loro i protagonisti del meeting antirazzista dell’Arci a Cecina. Le violenze dei carcerieri e quelli dei trafficanti.

Cosa sia l’inferno in terra lo racconta A.H.Y, somalo, 26 anni. L’inferno di un lager libico. Dove A.H.Y. è stato segregato. Un lager come quello in cui sono finiti, per otto giorni almeno, 245 eritrei, diversi dei quali respinti dall’Italia. A.H.Y è uno degli ospiti del meeting antirazzista dell’Arci a Cecina. A.H.Y racconta la sua odissea: 300km, molti dei quali in pieno deserto, su camion container, pagando trafficanti diversi per arrivare a Kufra, con la promessa di poter raggiungere Tripoli e di lì l’Italia. Ma a Kufra ha trovato la polizia che lo ha incarcerato insieme ai suoi compagni di viaggio. «Parlare di carcere in Libia dice A.H.Y. è un eufemismo», in realtà sono veri e propri lager, stanze di pochi metri quadri in cui sono stipati in 50, senza servizi igienici, senza possibilità di lavarsi, senza cibo e acqua. E in Libia tutto ha un prezzo: se vuoi lavarti o mangiare devi pagare. Anche per essere liberato devi pagare, e se non puoi farlo devi lavorare: tutto ciò che gli aguzzini pretendono fino a che non ritengono che il lavoro cui ti hanno costretto sia sufficiente per comprarti la libertà».
IN MANO AGLI AGUZZINI
A.M.M ha 20 anni, è somalo e ha ottenuto in Italia la protezione sussidiaria circa un anno fa: proveniva dalla Libia, dove a causa delle violenze subite, ha perso la memoria. A.M.M. racconta della segregazione e della violenza subita dai trafficanti che lo hanno rinchiuso in un deposito fino a quando non sono arrivati i soldi della famiglia per la liberazione. Ma anziché raggiungere Tripoli è finito in mano ad altri trafficanti. Ha tentato di fuggire ed è stato picchiato a sangue fino a fargli perdere la memoria. Quando la riacquista, capisce di essere in carcere. Poi, dopo giorni di lavoro la libertà. Oggi sono in Italia, vivono a Caltagirone. I loro racconti, come quello di T.D. (eritreo, 18 anni), anche lui ospite del meeting dell’Arci, conferma quanto «da tempo l’Arci denuncia sulla costante violazione dei diritti umani in Libia, con cui il Governo italiano ha stretto un accordo di cooperazione in materia di immigrazione», afferma l’organizzazione in una nota.
STORIE DI ORRORE
Presente e passato s’intrecciano nel denunciare l’inferno dei lager libici. Racconta (maggio 2009) Fatawhit,una donna eritrea: «Avevamo già lasciato le coste libiche da tre giorni, quando siamo arrivati all’altezza delle piattaforme petrolifere. D’un tratto in mezzo al mare sorgono delle piattaforme immense da cui escono lingue di fuoco. Proprio da là è uscita una nave che ci ha accostato. Non so di quale paese fosse, credo che l’equipaggio fosse per metà libico e per metà italiano. È stata quella barca che ci ha scortato fino alle coste libiche e ci ha lasciato nelle mani della polizia. Siamo stati prima portati per due mesi alla prigione di Djuazat, un mese a Misratah e otto mesi a Kufra. Il trasferimento da una prigione all’altra si effettuava con un pulmino dove erano ammassate 90 persone. Il viaggio è durato tre giorni e tre notti, non c’erano finestre e non avevamo niente da bere. Ho visto bere l’urina... A Misratah ho visto delle persone morire. A Kufra le condizioni di vita erano molto dure, in tutto c’erano 250 persone, 60 per stanza. Dormivamo al suolo, senza neanche un materasso, c’era un solo bagno per tutti e 60, ma si trovava all’interno della stanza dove regnava un odore perenne di scarico. Era quasi impossibile lavarsi, per questo molte persone prendevano le malattie...

il Fatto 13.7.10
Ecco cosa manca alla legge
Lo psicoterapeuta: “Serve maggiore protezione”
di Caterina Perniconi

Anna Maria, picchiata e strangolata. Clara, accoltellata. Simona, uccisa con una pallottola al volto. Queste sono solo tre delle 12 donne perseguitate e uccise nei primi mesi di quest’estate. Una mattanza realizzata per mano di coloro che spesso le vittime considerano il loro “amore” e invece si rivela il loro assassino. Alla luce di questi tragici eventi, l’Osservatorio nazionale stalking da oggi mette in campo un nuovo strumento dedicato alle persone perseguitate: un contatto dedicato su Skype, con la supervisione delle Forze dell’ordine, dove chiunque abbia bisogno di aiuto potrà chiamare, anche anonimamente.
Il problema però non investe soltanto l’universo femminile. Secondo l’Osservatorio l’87% degli stalker sono maschi, ma c’è anche un 13% di femmine. “Ci sono molti comportamenti che le persone che sospettano di essere molestate in modo persecutorio devono evitare – spiega Massimo Lattanzi, psicoterapeuta e coordinatore dell’Osservatorio – non devono assecondare il presunto autore, non devono cadere nel tranello del senso di colpa, per minacce di suicidio o malattie imminenti, e non devono assolutamente accettare ‘l’appuntamento chiarificatore’, che potrebbe essere l’ultimo”.
Secondo la casistica, difficilmente chi molesta con continuità smette di perseguitare la vittima, a meno di percorsi specifici di risocializzazione. La denuncia spesso scatena un doppio pensiero nello stalker: sia la sensazione di essere ‘pensato’, quindi il riavvicinamento, che quella di definitivo distacco, ovvero abbandono. “Ma la denuncia è fondamentale – spiega Lattanzi – anche se servono percorsi successivi di protezione delle vittime, affinché non si sentano abbandonate”. Esistono infatti stalker seriali che non mantengono il distacco richiesto dalle autorità. Quindi che cosa manca a questa legge per essere davvero efficace ed economicamente realizzabile? “Le Forze dell’ordine dovrebbero essere messe nelle condizioni di agire immediatamente – spiega ancora lo psicoterapeuta – secondo l’articolo 348, comma 4, del codice penale, possono chiedere la valutazione del rischio di ‘passaggio all’atto’, quindi alla violenza, da parte di un esperto. Nel caso lo stalker fosse considerato pericoloso allora il fascicolo dovrebbe essere immediatamente consegnato all’autorità giudiziaria e la vittima deve essere protetta. Tutto nel giro di pochi giorni”. Ad oggi le cose non stanno così. Serve ancora molto tempo per la valutazione dei casi e l’allontanamento dalle vittime non è sufficiente. “La sentenza della Corte di Cassazione che ha stabilito che bastano due episodi per far scattare le misure di sicurezza è un importante passo avanti – conclude Lattanzi – ma non basta. Bisognerebbe mettere a disposizione tutte quelle strutture, come i centri antiviolenza e le case protette, già in uso per reati sessuali o la tratta delle donne, anche per le vittime di stalking. Le province dovrebbero fare un censimento degli edifici disponibili e metterli in rete per l’uso immediato da parte delle forze dell’ordine. Le vittime vanno protette da subito, senza snaturarle dal proprio territorio, ma rendendole difficilmente rintracciabili”. Manca un altro elemento importante nella legge: oggi, chi molesta tramite e-mail o social network rischia soltanto una contravvenzione. Ma gli stalker capaci di rintracciare le vittime via Internet sono in esponenziale aumento.

il Fatto 13.7.10
“Se lo denuncio che succede?” Il difficile percorso delle vittime di stalking
di Si. D’O.

Fino all’approvazione della legge sullo stalking, “incastrare” un persecutore era molto complicato. C’era l’ipotesi – molto blanda – del reato di molestia e c’era quello – molto pesante – di violenza. In mezzo, un vuoto legislativo immenso. La normativa sullo stalking porta la firma del ministro per le Pari opportunità, Mara Carfagna, che però col Fatto Quotidiano non vuole parlare. È una delle pochissime leggi del governo Berlusconi che ha portato a risultati positivi e concreti, dando alle vittime la possibilità di denunciare i propri persecutori (spesso portando a casa la pelle).
Anche se non sempre si trova il coraggio di rivolgersi ai carabinieri, come nel caso di M., la donna che ci ha raccontato la sua storia. “Denunciare è prima di tutto un dovere morale – ribatte invece il generale Vittorio Tomasone, comandante provinciale dei carabinieri di Roma – perché magari il persecutore si sta comportando nello stesso modo con altre persone. E poi non si deve pensare che non si faccia nulla per fermarlo”. L’Arma ha di recente istituito, presso il dipartimento per le Pari opportunità, una sezione specifica per studiare il fenomeno e aggiornare le strategie di prevenzione e il contrasto ai persecutori.
Ma cosa accade quando una donna (la vittima principale) vuole porre fine alle persecuzioni? “Sia che chiami il 112, sia che si rechi in una stazione dell’Arma – prosegue Tomasone – troverà il personale preparato ad ascoltarla. Assieme alla Procura di Roma abbiamo partecipato a due ondate di corsi e seminari per imparare a ‘gestire’ queste situazioni. Per esempio, ci si può avvalere di uno psicologo; si può procedere alla verbalizzazione con persone dello stesso sesso; si utilizzano locali idonei, in cui non sia presente nessun altro. Poi, per formalizzare la denuncia, si utilizza un questionario particolare, messo a punto dal nostro ufficio analisi e dal mondo accademico-scientifico”. A quel punto nei casi considerati meno gravi si sottopone all’autorità giudiziaria un ammonimento all’interessato, in quelli più gravi scatta la denuncia alla magistratura e partono le indagini. Se invece c’è la flagranza di reato o i militari si rendono conto della pericolosità del soggetto, si adotta immediatamente un provvedimento di fermo. E alle vittime chi pensa? “Fare rete è fondamentale – spiega ancora Tomasone – le Forze dell’ordine, i presidi sanitari e le istituzioni mettono le vittime in contatto con i centri antiviolenza”. Sembra tutto facile, a parole. Eppure molte delle donne uccise in quest’ultimo periodo avevano in precedenza denunciato per stalking l’uomo che poi le ha uccise. “Non è che solo perché c’è una legge o una procedura di formazione del personale, non si verifichino casi di estremizzazione – puntualizza il comandante Tomasone – spesso capita che lo stalker si faccia vivo a intermittenza, a distanza di molti mesi. Una persecuzione discontinua e lunga nel tempo non consente di adottare provvedimenti”. Qual è il passo successivo? “Una legge sulla violenza familiare continuata – conclude Tomasone – laddove è più facile che vi sia un grande numero oscuro di casi, perché le donne hanno molte più remore a denunciare”.

il Fatto 13.7.10
Uu calcio a parte
Quel che resta al Sudafrica
Cattedrali in un deserto senza vera integrazione
di Oliviero Beha

Cattedrali mediatiche: la Spagna fa la comunione. Nel film di Tom Stoppard Rosenkrantz e Guilderstern sono morti, premiato inopinatamente a Venezia nel 1990 con il Leone d’Oro, i due personaggini amletici inessenziali ma preziosi a un certo punto tirano per aria una moneta: è una scena minima eppure indimenticabile. Fanno a testa o croce per un pezzo, e veniva sempre testa (o croce, non ricordo ma non importa: veniva sempre e comunque la stessa faccia della medaglia).
FINALMENTE C’È una sorta di seguito della storia: lo interpreta il polpo Paul che ha azzeccato con l’esito della finale Mondiale vinta dalla Spagna l’ottava “estrazione” personale nell’acquario di Oberahausen. Sette volte circa la Germania della quale è ospite (è infatti nativo o “compagno” dell’Isola d’Elba), otto con la finale. Altro che addetti ai lavori, tecnici sopraffini o consumati allibratori: il polpo ha dato punti e prove di piovra a tutti. In attesa di riuscire eventualmente a dimostrare che il presidente della Fifa, Blatter, il vero e primo vincitore già alla vigilia di questo Mondiale, abbia un qualche sodalizio societario con il tal Paul, non mi resta che segnalare questa piega cabalistica e naturalistica insieme che ha preso il pallone. Meno male che si diceva che la squadra di calcio era una “fede”. Adesso rischia di fare tendenza che sia una sorta di sortilegio, di questione per streghe o octopus. E la fede può essere supplita dalla superstizione. È già un bel risultato, per un Mondiale di calcio... in tempi nostradamici che di tutto avrebbero bisogno fuorché di “fatture” intese non in senso tremontiano stretto. Ma tracciamo un bilancio, ricordando ovviamente che alla vigilia dell’intera manifestazione e della finale in particolare avevo e ho continuato a ritenere possibile e magari probabile la vittoria olandese, pur di fronte a una squadra oggettivamente più forte.
Vittoria meritata, di una Spagna in condizione ormai da anni dopo un Europeo vinto. Non un gioco spettacolare, ma grande tecnica e adattabilità tattica, una media dei 15/16 utilizzati in campo molto alta, quattro, cinque giocatori al top come Xavi, Iniesta, Casillas, Sergio Ramos e forse Villa. La paura di vincere, finalmente, il titolo più ambito, la Spagna ha corso fortemente il rischio di perdere e forse anche per questo alla fine ha vinto di giustezza e di giustizia.
Certo, per l’Olanda Robben ha sbagliato il gol decisivo che avrebbe rovesciato probabilmente partita, frittata e polpo, certo, il gol di Iniesta prima di rigori dall’esito assolutamente imprevedibile è nato su un clamoroso calcio d’angolo non assegnato all’Olanda dopo una punizione di Sneijder. Ma succede, e il gioco duro olandese iniziale un po’ fesso e vagamente tollerato dall’arbitro Webb è stato poi punito da dettagli decisivi della sorte. L’Olanda non ha fatto la cosiddetta “partita perfetta”, si è limitata con talento e applicazione a rendere “imperfetta” quella della Spagna, che infatti, e va ribadito, è stata anche sul punto di perderla. Ma alla lunga un che di raccogliticcio, la stanchezza di Sneijder ancora e sempre calcisticamente in mezzo al campo intelligente quanto Xavi dall’altra parte, un Robben che sbaglia invece di un Robben che “esegue”, una “panchina” davvero cortissima in fatto di talenti puri specie in confronto alla scelta rigogliosa degli spagnoli di Del Bosque, ha condotto i migliori a battere sul filo simpatici “avventurieri delle Indie” che comunque avevano navigato senza scossoni fino a Johannesburg. Alcune valutazioni complessive si impongono:
SUL RAPPORTO TRA il calcio e la Nazionale e il Paese che rappresentano c’è una vistosa conferma. Lo si diceva in negativo per l’Italia, e sono saltati su in tanti a dire che “non c’entra nulla”, forse equivocando su quello specchio di cui si parlava. Può essere uno specchio convesso, che rimanda altre immagini, o uno specchio rotto, con sette anni di disgrazie ecc., ma sempre di specchio e di metafora speculare si tratta. Non vederla significa non volerla o saperla vedere. Lo ha detto Del Bosque, i sovrani, Zapatero: ha vinto il Paese, unito per un giorno, con tutti i risvolti del caso. E Pertini che inneggiava e giocava a carte con i nostri campioni del Mondo dell’82 di ritorno dalla Spagna sull’aereo presidenziale (dove avevano imbertato i premi in denaro non tassati come si doveva) me lo ricordo benissimo... Paese e calcio in alcune circostanze si sposano in altre si separano, e ogni volta è un discorso diverso. Ma negare la supplenza “politica” e “sociale”, dunque “culturale” o meglio “subculturale” che svolge il pallone, è cecità.
IL LIVELLO DEL gioco sta scadendo sempre di più. Pensare che invece una società multietnica dovrebbe far crescere anch’esso, in un misto di tecnica e di fisicità speciali. Invece il business, il denaro strozza tutto e si va perdendo “il senso del gioco per la palla”, parafrasando il romanzo che aveva a che fare con la “neve”. Troppa importanza per il “fuori campo” che preme sul terreno d’erba naturale o sintetica come una cappa, che fa diventare sempre più i giocatori, cioè coloro che “giocano”, degli attori di una fiction sia pure peculiare oppure i testimonial dell’indotto pallonaro.
Infatti i “numeri” li riservano soprattutto per gli spot in tv. Arriveremo prima o poi ai “precox” del calcio, con calciatori che giocano partite ancora da organizzare o partite vecchie che si disputano nella mente da Matrix degli spettatori. Di certo l’importanza di una partita non può sostituire la partita stessa, un pretesto non può ridurre il “testo” ai minimi termini, altrimenti è finita e la si gioca su altri tavoli, dove l’alea non conta e la palla non è più rotonda.
IL SUDAFRICA È stato ed è per il pallone, i Signori della Palla e la rotondolatria mondiale, una specie di Cattedrale nel deserto: ha vinto con il piede destro di Iniesta e le mani giunte il popolo che prega per eccellenza, a partire dalla sua lingua fatta per quello secondo la dizione proverbiale, e vai con la Fiesta e il flamenco di strada. Ma in Sudafrica restano oggi gli stadi, teatri di Fitzcarraldo nella foresta amazzonica, cattedrali mediatiche senza devoti né fedeli e con qualche sparuto arcivescovo metaforico ma non tanto che se ne avvarrà: nessuna religione, nessuna colonizzazione fideistica, uno spettacolo televisivo per molti che non hanno neppure l’elettricità, nessun reale anello di integrazione tra bianchi (rugby) e neri (calcio), se non nelle foto degli eventi. Non basta girare l’interruttore di un Kolossal Rotondo per favorire il dialogo, se in realtà non è certamente questo il motivo di fondo della kermesse né si è lavorato in funzione di questo. Quindi, ben presto si ripartirà da prima, e il problema rimarrà lo stesso.
Del resto, se c’è una storia di imperialismo colonizzatore perché la via del calcio dovrebbe essere tanto diversa da quella, che so? Dei diamanti? Con i popoli non si gioca. Li si gioca. E magari non si dovrebbe.

Repubblica 13.7.10
Mineo verso la rimozione insorgono le opposizioni
Rainews, da Sky arriva Ferraro: è in quota Lega
Gorla: il giovedì al posto di Annozero è previsto X Factor
di Leandro Palestini

ROMA - Corradino Mineo dovrà lasciare presto la direzione di RaiNews. Al suo posto arriva Franco Ferraro, caporedattore di SkyTg24, giornalista gradito alla Lega. La decisione potrebbe essere ratificata domani dal consiglio di amministrazione Rai. «È da mesi che si rincorrono voci di una mia cacciata, forse questa è la volta buona», commento Mineo, che esclude «trattative con l´azienda: non faccio scambi, continuo a lavorare con la mia redazione». Ma per il cdr di RaiNews i giochi sono fatti: «Un´altra poltrona da assegnare. Un´altra chiamata dall´esterno. Queste le uniche risposte che il dg Rai riesce a dare sul futuro di RaiNews». E la scelta del dg Mauro Masi, di rimuovere Corradino Mineo dal canale all News viene criticata dal centrosinistra. «Gli imbavagliatori e i loro delegati alla Rai cercheranno di mettere le mani anche su RaiNews allontanando il direttore Mineo, mortificando le richieste della redazione e mettendo al suo posto un esterno gradito alla Lega», dichiarano Giuseppe Giulietti (Articolo 21) e il senatore del Pd Vincenzo Vita, denunciando lo spoil system: «Per la prima volta nella storia della Rai, una maggioranza avrebbe il controllo di dieci testate giornalistiche su undici, con l´aggravante di un premier proprietario dell´altra metà dell´etere e ministro ad interim delle Telecomunicazioni». Paolo Gentiloni, responsabile comunicazione Pd, giudica «incredibile che si voglia sostituire, per di più a quanto pare con un "esterno" gradito alla Lega, un direttore che ha portato RaiNews a raggiungere ascolti vicini a quelli del suo concorrente SkyTg24». Il segretario dell´Usigrai, Carlo Verna, chiede a Masi di smentire le voci della rimozione di Mineo, per di più «con una nomina dall´esterno per RaiNews, dopo il piano industriale che ci è stato illustrato e in presenza di demansionati eccellenti»: il caso Ruffini. «Credo che un avvicendamento a RaiNews avverrà a breve», conferma Alessio Gorla, consigliere Rai in quota Pdl, pur riconoscendo a Mineo d´aver svolto «un buon lavoro; ha innovato rispetto a Roberto Morrione». Gorla a "Klauscondicio" parla di Santoro. Dice di non sapere «a che punto è la trattativa» per la soluzione consensuale, ma osserva che «nel palinsesto è stato indicato che "X Factor" va in onda di giovedì».
Corradino Mineo è da tempo nel mirino del Pdl. Le dirette tv di RaiNews non sarebbero piaciute a Silvio Berlusconi (dal "No-B day" romano a "Raiperunanotte" di Santoro), gli attriti con la direzione Rai sono stati frequenti. In maggio si pensò a una "ritorsione" per l´oscuramento di RaiNews durante il passaggio al digitale terrestre in Lombardia. Ma era un problema tecnico.
Mauro Masi metterà a posto anche la casella di Rai Educational, lasciata vacante da Giovanni Minoli (in pensione): la candidata alla direzione è Silvia Calandrelli, in quota centrosinistra, già vicedirettore di RaiTre. E intorno al prossimo Cda Rai c´è un po´ di mistero. Il dg Masi ha tolto dall´ordine del giorno la pratica RaiDue: la sostituzione di Massimo Liofredi con Susanna Petruni. È soltanto un rinvio?

Repubblica 13.7.10
C’era una volta il maschio
Caratteri virili e fertilità in calo Sotto accusa inquinamento e additivi alimentari
di Guglielmo Pepe

L´anno scorso, di questi tempi, era già sta lanciato l´allerta mondiale per la pandemia A. Per il momento, sulla prossima influenza stagionale, silenzio assoluto. Dopo l´allarmismo eccessivo, prevale la cautela tra le autorità sanitarie? Di certo il virus H1N1 - previsto come devastante - ha colpito tutto il mondo in modo blando. La campagna di prevenzione, almeno in Italia, è fallita visto che si sono vaccinati in meno di 900 mila. E adesso le dosi acquistate vengono bruciate: finora per un valore di 7 milioni di euro (peggio negli Usa: sono finite nell´inceneritore 40 milioni di fiale, costate 260 milioni di dollari).
L´accusa all´Oms da parte di vari esperti è di aver ascoltato troppo le sirene delle multinazionali. Opinione diffusa: secondo un´indagine KeyStone, il 66 per cento di 2500 italiani intervistati ritiene che tanto clamore è servito solo a Big Pharma. Altri esperti sono invece contenti perché l´influenza ha fatto meno vittime del previsto. Sono d´accordo. Purché dietro la giusta prevenzione non si celino inganno, frode e pressanti interessi economici.
g.peperepubblica.it

In quarant´anni è dimezzato il numero degli spermatozoi mentre aumentano i casi di malformazioni e iposviluppo dei genitali. Le cause: pesticidi, fitofarmaci e additivi nei cibi Gli esperti: "Agiscono come estrogeni o bloccano il testosterone" Sono migliaia i composti chimici messi sotto accusa dalla Food and Drug Administration Usa e dall´Unione Europea

Il genere maschile è in pericolo. «Infertilità, malformazioni genitali, regressione dei caratteri sessuali e tumori ai testicoli aumentano e, se non si trovano rimedi, il maschio, non solo della specie umana, sembra destinato all´estinzione». Così, senza tanti giri di parole, il professor Andrea Lenzi, direttore del dipartimento di Fisiopatologia umana dell´università la Sapienza di Roma e coordinatore del gruppo "Biodiversità e interferenti endocrini" del Comitato per la biosicurezza, biotecnologie e scienze della vita della Presidenza del Consiglio, sintetizza un problema che ha raggiunto ormai livelli di guardia. Anche perché la causa, pur essendo nota, non sarà facile da eliminare. Sono migliaia di composti chimici (pesticidi, coloranti, conservanti eccetera) che, attraverso alimenti, saponi, detersivi, plastiche arrivano nel corpo dove intralciano il "lavoro" degli ormoni sessuali, in particolare di quelli maschili.
Risalgono a circa quarant´anni fa le prime ricerche che avvistarono il problema. Ad esempio, in Danimarca si osservarono tra gli agricoltori più casi di sterilità che nel resto della popolazione, nonostante la vita indubbiamente più sana. Per capire il perché il primo passo fu valutare la fertilità in altre categorie professionali. Si scoprì così che tra i colleghi "biologici" che non usavano pesticidi e fitofarmaci, i casi di sterilità erano inferiori alla media nazionale. Le analisi trovarono questi composti chimici solo nel sangue degli agricoltori tradizionali e con le successive indagini si scoprì che erano proprio queste molecole, anche in concentrazioni minime, a interferire in modo del tutto casuale e imprevedibile con gli ormoni che stimolano la produzione di spermatozoi. Il meccanismo è spiegato nel disegno in alto.
«Poi sono arrivate le ricerche che hanno riscontrato l´aumento anche di altre patologie andrologiche - dice Lenzi - Oltre all´infertilità, crescono i tumori testicolari e le anomalie dei genitali dovute a ritardi della maturazione sessuale, sindromi complessivamente note come "disgenesie gonadiche". In sintesi, quello che emerge da centinaia di ricerche svolte negli ultimi vent´anni, anche dal nostro gruppo, è una regressione dei caratteri sessuali maschili». Parallelamente, altre ricerche hanno evidenziato che un gruppo di agenti chimici introdotti dall´uomo nell´ambiente interferisce con il sistema endocrino. Endocrine-disrupting chemicals il termine coniato nel 1996 dalla United States Environmental Protection Agency (Epa), in italiano "interferenti endocrini". Un lungo elenco di sostanze (le più comuni nella scheda, ndr).
Per individuarle nell´ambiente e negli alimenti, gruppi di ricerca messi al lavoro dagli Stati Uniti e dall´Unione Europea hanno messo a punto metodi di analisi efficaci e veloci. Ma ci vorranno anni prima ci capire tra i circa diecimila composti chimici sospetti quelli che interferiscono con gli ormoni sessuali maschili. Lavoro complicato dal fatto che agiscono in dosi minime, si accumulano nel tessuto adiposo da dove si liberano anni dopo e spesso derivano dall´interazione nell´organismo tra composti originariamente innocui.
«Intanto a livello individuale possiamo fare molto - dice Lenzi - Prima regola: negli acquisti, a parità di prodotto scegliere quello con la lista degli ingredienti più corta. Più additivi ci sono e più è probabile che vi siano interferenti endocrini. È indispensabile che un dentifricio sappia di mango, uno yogurt di castagna o i detersivi siano blu elettrico o verde fosforescente? La seconda è preferire il biologico e di stagione che non comportano residui di pesticidi, fitofarmaci né additivi. La terza e ultima: fare visite andrologiche periodiche. L´effetto degli interferenti endocrini si aggrava negli individui resi più suscettibili da patologie andrologiche pregresse o in corso e da familiarità. Prima sono diagnosticate e minori sono i danni».

Repubblica 13.7.10
Ma non c’è solo l’inquinamento
Per gli uomini i danni maggiori arrivano dai sentimenti confusi

Maschi a rischio. Perché possono subire aggressioni ai loro organi genitali e alla funzione riproduttiva per colpa dell´inquinamento dell´ambiente e del cibo. La loro salute sessuale ha bisogno di maggiori controlli medici, ma la sessualità è un intreccio di identità, psiche, ruoli e anche questo richiede una specifica attenzione.
Nel lavoro di sessuologia clinica i maschi raccontano le ferite che nascono dalla confusione e dalla sensazione di incompetenza perché si evidenzia un modello contraddittorio nella costruzione dei ruoli e dei comportamenti. Nelle riviste dedicate alla salute maschile, si danno istruzioni sui dati quantitativi come muscoli, funzione nello sport e nella prestazione sessuale. Si evidenzia una contraddizione tra valutazione quantitativa prestazionale e la richiesta di un codice più femminile nell´allevamento dei cuccioli e nella comunicazione emotiva con la partner. I maschi rispondono con comportamenti altalenanti: richiesta di protezione, comportamenti di fuga e di evitamento e comportamenti di aggressione. La confusione si confronta con un desiderio femminile a sua volta contraddittorio rispetto alle attese e alle delusioni.
Cosa vuole veramente una donna dai propri maschi e cosa la rassicura? Nel contesto della psicoterapia di coppia le donne vogliono il dominio sui loro maschi, ma non la resa, agiscono un conflitto aspro che le porta a uno scontro continuo, ma non accettano la sottomissione, vogliono affidare la loro bambina interiore, ma non lasciano l´armatura del guerriero, vogliono fare sesso in modo nuovo, ma anche opporsi al sesso, tradire come i maschi, ma conservare una confusione tra sesso e amore, sesso e progetto.
I maschi mostrano i muscoli, ma non mordono, i guai nascono quando scelgono l´aggressività e agiscono il potere in modo cattivo, a volte con emozioni forti che spingono alla distruzione totale. La medicina e la psicologia, ambedue coinvolte nella soluzione dei problemi sessuali, hanno bisogno di confronto per capire quali contenuti integrare nella consulenza sessuologia, come nutrire la differenza e la gestione del potere reciproco in termini costruttivi. Un tema difficile da valutare è anche la crisi della fertilità che mette insieme il ritardo cronologico delle donne nella ricerca di un figlio e la maggiore infertilità maschile. Agire per la prevenzione è un intervento necessario, a partire dai maschi adolescenti sino ai giovani adulti.

Repubblica 13.7.10
Il grande entomologo Edward Wilson, l´autore di "La creazione", sarà oggi a Roma Ecco le sue riflessioni sul rapporto fra le due culture, quella dei numeri e l’umanistica
Quando la scienza usa la lingua della poesia
di Edward O. Wilson

Non è vero che il linguaggio degli scienziati sia il regno del freddo raziocinio e che solo quello degli artisti sia emotivamente coinvolgente
Per conservare le forme viventi sulla Terra, i due codici vanno combinati Ed è questo lo scopo del mio romanzo "Anthill"

I prodotti della scienza e delle arti creative differiscono radicalmente nello stile e negli obiettivi. La conoscenza scientifica rappresenta ciò che sappiamo del mondo materiale e delle leggi per mezzo delle quali esso funziona. Le asserzioni scientifiche sono fattuali, in altre parole esse sono basate sull´evidenza fisica, trasparente e replicabile. Un articolo scientifico comincia descrivendo l´oggetto su cui si è condotto lo studio. Con precise citazioni, l´articolo riconosce il lavoro svolto dagli scienziati che hanno contribuito alla conoscenza dell´oggetto della ricerca. Il riconoscimento è cruciale, nella cultura scientifica, non solo per inquadrare l´argomento, ma per attribuire il giusto merito agli autori che ci hanno preceduto. Il riconoscimento delle proprie scoperte e la reputazione che ne deriva rappresentano la moneta corrente nel regno della scienza. Il resto sono chiacchiere.
In quasi tutti i casi, una scoperta scientifica è riconosciuta come tale dagli altri scienziati solo quando è stata sottoposta a revisione paritaria e pubblicata sotto forma di articolo da una rivista specializzata che gli esperti ritengono confacente all´argomento trattato. L´articolo deve indicare le procedure e i materiali utilizzati nella ricerca, il modo in cui i dati ottenuti sono stati analizzati, e le conclusioni derivate dall´analisi. Sono permesse alcune digressioni, anche di carattere speculativo, al fine di allargare la discussione, ma sono scoraggiate le metafore non essenziali e l´espressione di emozioni.
Qui troviamo la differenza fondamentale tra la scienza e le arti creative. Le metafore utilizzate per evocare emozioni sono proibite nei rapporti scientifici, ma sono la ragione primaria – oso dire l´anima? – dell´arte.
Questo vuol dire che la scienza è freddo raziocinio mentre solo le arti creative sono emotivamente coinvolgenti? È questa la differenza fondamentale tra loro? Niente affatto. Lo scienziato di successo ragiona come un poeta e lavora come un contabile. Ma nella sua mente la poesia non si affievolisce mai. Nei dialoghi di corridoio e in altri incontri informali, gli scienziati colpiti da una particolare pubblicazione ne discutono l´importanza, l´eleganza, la bellezza. E coloro che scrivono di scienza con intenti divulgativi sono liberi di usare gli strumenti emotivi della poesia, senza per ciò tradire lo spirito scientifico. Non è un errore scrivere in maniera artistica di scienza.
Un aneddoto personale può illustrare come scienza e poesia interagiscano creativamente nell´emergere da una stessa fonte estetica. Appena laureato, nei primi anni Cinquanta, ero rimasto incantato dalla teoria della dominanza faunistica formulata dai biogeografi americani William Diller Matthew e Philip J. Darlington. In breve, essi erano giunti alla conclusione che certi gruppi di animali, come la famiglia dei canidi (Canidae) e i roditori comuni (Muridae), dopo essere comparsi in certe parti del mondo, in particolare nei climi temperati dell´Eurasia o nei tropici del Vecchio Mondo, si diffusero per tutto il globo sostituendo i gruppi fino ad allora dominanti (per esempio, i marsupiali) e occupando le loro nicchie ecologiche.
Questo grande modello ciclico di dominanza era per me la biologia al suo meglio, epico e nobile. Ero affascinato da una domanda che sembrava non avere risposta: come e perché, nel corso di milioni di anni, alcuni gruppi si impongono come dominanti e altri si estinguono?
Ebbi la possibilità di esaminare la questione quando, poco più che ventenne, ricevetti una borsa di studio per studiare le formiche del Pacifico meridionale. Viaggiando per gli arcipelaghi della Melanesia, dalla Nuova Guinea alla Nuova Caledonia, ricostruii la distribuzione di centinaia di specie di formiche, deducendo origine e direzione della loro diffusione, e identificai le nicchie ecologiche occupate da ciascuna specie.
Durante questo periodo da contabile, avevo ben chiaro di essere il primo a studiare un grande ciclo di dominanza faunistica a livello di singola specie. Ma un giorno in cui non ero impegnato nella ricerca, in uno di quei momenti che ci fanno esclamare a-ha!, riconobbi la componente ecologica del processo di successione, che combinata con la moltiplicazione delle specie chiamai il «ciclo del taxon».
Il ciclo del taxon è stato foriero di nuovi sogni, metafore, fantasie, quasi sempre evocate in soliloqui o durante conversazioni con altri biogeografi. Il risultato fu un nuovo prodotto dell´immaginazione: l´equilibrio delle specie o, come lo chiamavamo all´epoca, la saturazione delle specie. E la domanda che ora si presentava era: esiste un limite al numero delle specie che possono abitare una certa isola, così che quando una specie colonizzatrice si insedia, in media, una specie residente si estingue? La risposta, se mai fossimo stati in grado di offrirla, avrebbe aiutato a spiegare la storia complessiva della dominanza faunistica. E di qui, ancora, altri sogni, entusiasmi, piste false e piste giuste, metafore.
A questo punto, nel tentativo di formulare la risposta corretta, unii le mie forze con Robert H. MacArthur, un giovane e brillante ecologo e matematico. L´anno era il 1960; io avevo trentun anni e MacArthur trenta (sarebbe morto nel 1972, una grande perdita per la scienza). Elaborammo insieme la «teoria della biogeografia delle isole», per fornire alcune risposte parziali alla questione chiave dell´equilibrio delle specie – sapevamo bene che tutte le teorie scientifiche sono sempre parziali.
La teoria della biogeografia delle isole sarebbe poi risultata fondamentale per la nascita di discipline emergenti come gli studi sulla biodiversità e la biologia della conservazione. Prevedere il destino delle isole è davvero importante. Il mondo naturale è stato convertito dagli esseri umani in arcipelaghi sempre più frammentati: foreste e praterie sono state spezzettate dalle attività umane in un mosaico irregolare; l´innalzamento di dighe ha separato i corsi d´acqua l´uno dall´altro e gli affluenti dal fiume principale; i laghi sono stati trasformati in stagni da siccità artificiali causate dall´uomo.
Al fine della conservazione delle forme viventi della Terra, scienza e arti creative vengono combinate assieme. Era questo uno degli scopi del mio recente romanzo, Anthill (La collina delle formiche), che racconta la storia di un ragazzino, cresciuto nelle campagne dell´Alabama, che dedica la sua vita a salvare un frammento di un´antica savana su cui incombe la minaccia di deforestazione da parte degli alfieri dello sviluppo.

lunedì 12 luglio 2010

l’Unità 12.7.10
Intervista a Christopher Hein
«Miope e tirchia quell’Italia
che chiude la porta ai rifugiati»
Il fondatore del Cir: «L’ossessione securitaria rischia di cancellare diritti e civiltà. Anche l’Italia ha avuto i suoi richiedenti asilo, sotto il Fascismo. Lo fu anche Sandro Pertini»
di Umberto De Giovannangeli

Il rifugiato è prima di tutto un essere umano che ha bisogno di tutela non solo dal momento in cui mette piede in Italia o in un altro Stato dell’Unione europea. Dal momento in cui la persona è costretta a lasciare il proprio paese, dove non trova più protezione, e a intraprendere il viaggio verso l’esilio, quella persona è rifugiata e necessita di aiuto». Un aiuto troppo spesso negato. L’Unità ne parla con Christopher Hein, fondatore del Consiglio italiano per i rifugiati (Cir), partendo dalle conclusioni, su citate, del libro da Hein curato «Rifugiati. Vent’anni di storia del diritto d’asilo in Italia» (Donzelli Editore». «I diritti umani vanni bene riflette Hein fino a quando ci si limita alle parole. Quando però c’è un prezzo da pagare, l’Italia si scopre “tirchia”». E miope. Qual è la ragione per cui si continua ad alimentare l’equivoco fra migranti e rifugiati?
«Le ragioni sono molteplici e di varia natura. Sui media, nell’immaginario collettivo, in Italia esistono i barconi di migranti, mai di rifugiati... L’immigrato è una figura conosciuta che appartiene al vissuto, alla memoria storica dell’Italia. Il rifugiato molto meno, o quasi niente. In Italia si fa fatica a ricordare i rifugiati durante il fascismo. Non c’è una grande consapevolezza che nel Ventennio c’erano antifascisti che hanno chiesto, come Sandro Pertini, asilo in Francia... E quando se ne parla, si fa riferimento all’”esule” e non al rifugiato... Poi c’è una dimensione statistico-numerica: in Italia abbiamo oggi 4,5 milioni di immigrati e forse, tutto sommato, 70mila rifugiati. È chiaro che la questione migrazione, quantitativamente parlando, ha una valenza ben maggiore di quella dell’asilo e dei rifugiati. C’è poi una terza dimensione, più politica...».
E in cosa consiste?
«Nell’assillo della “governabilità”. Nell’immigrazione, almeno in teoria è possibile stabilire una quota d’ingresso. Invece per i rifugiati non si possono stabilire quote di accettazione. C’è questo elemento d’incertezza: cosa succederà l’anno prossimo in Egitto, in Iran, piuttosto che nei Paesi dell’Africa subsahariana o del Maghreb... e quindi si verificherà un altro esodo di massa come è accaduto durante la guerra nella ex Jugoslavia? Alla base c’è la mancanza di consapevolezza di un valore elementare, sancito peraltro dalla Costituzione italiana. A dominare è la paura verso un fenomeno che può sfuggirti di mano... E così entriamo nel campo della “schizofrenia” politica...
A cosa si riferisce?
«Penso al governo Berlusconi che prima fa la legge Bossi-Fini e poi nel 2002, fa la più grande sanatoria di tutti i tempi: quella di 700mila immigrati regolarizzati... Ma allora, che necessità c’è di respingere con la forza 700-1000-1500 eritrei e somali, se allo stesso tempo vari la sanatoria per badanti e lavoratori domestici che ha riguardato circa 300mila persone? Perché rischiare conflitti internazionali, condanne per violazione del diritto di asilo, e questo per 700-1000 persone? Spesso nelle discussioni, quando presentiamo come Cir al nostra proposta di legge in attuazione dell’articolo 10 della Costituzione, ci sentiamo ripetere: ma se domani arrivano a Malpensa, a Fiumicino un miliardo di cinesi a chiedere asilo... Più che un argomento, è una ossessione che, va detto, non è propria solo di chi si riconosce nell’attuale maggioranza di governo. Questa del miliardo di cinesi è una leggenda metropolitana ma che fa effetto».
Guardando al futuro, e avendo bene in mente la vicenda dei 245 eritrei segregati in un carcere libico, come governare il problema dell’asilo?
«Ciò che noto è che un Paese come l’Italia che in tante battaglie per i diritti umani è stata in prima fila, protagonista ad esempio sullo Statuto del Tribunale penale internazionale, che non a caso si chiama Statuto di Roma, con la presidenza di Giovanni Conso, o la stessa Convenzione europea per i Diritti umani che è stata siglata a Roma nel 1950, la stessa moratoria sulla pena di morte che ha visto l’Italia svolgere un ruolo di primo piano all’Onu dal momento però in cui applicare i diritti umani, o il diritto di asilo, costa qualcosa, allora c’è un freno, un chiudersi, un respingere... I diritti umani vanno benissimo finché non costano. E visto che l’accoglienza di rifugiati qualcosa necessariamente costa, allora si chiudono le porte. E questo non è solo eticamente sbagliato, è anche prova di miopia politica, perché molti di quegli asilanti respinti, penso all’America Latina, sono diventati poi parte della classe dirigente di quei Paesi».

l’Unità 12.7.10
Lo strazio di Srebrenica
Quindici anni dopo la ferita non è chiusa
Cinquantamila persone al funerale collettivo di 775 vittime recentemente identificate. Messaggio di Obama: «Una macchia sulle nostre coscienze»
di Gabriel Bertinetto

Accade di tutto a Srebrenica nel giorno in cui cinquantamila persone si radunano commosse per ricordare gli ottomila civili che in questo angolo di Bosnia furono sopraffatti dalla peste balcanica di fine millennio, la pulizia etnica.
Accade che il quindicesimo tragico anniversario della strage perpetrata dalla milizie serbo-bosniache, sia onorato dalla partecipazione di Boris Tadic, presidente della Serbia, che promette di fare di tutto perché sia consegnato alla giustizia il principale mandante di quell’orrore, Ratko Mladic.
Accade anche, spostandoci di centottanta gradi lungo la curva dei valori etici universali, che i compagni di partito del latitante Mladic scelgano provocatoriamente la ricorrenza dei suoi delitti per decorare in contumacia due dei principali complici, Radovan Karadzic e Momcilo Krajisnik.
Il primo è sotto processo al Tribunale speciale dell’Aja per i crimini commessi nell’ex-Jugoslavia. L’altro è già stato condannato da quella stessa corte a venti anni di carcere. A Banja Luka, capitale della Republika Srpska, una delle tre entità in cui è tuttora divisa la Bonsia, i dirigenti del Partito democratico serbo hanno consegnato alla moglie di Karadzic e al fratello di Krajisnik le medaglie e le onorificenze destinate ai due detenuti.
Anno dopo anno la terra di Srebrenica restituisce i poveri resti degli innocenti che l’11 luglio del 1995 furono uccisi in massa e gettati in fosse comuni. Massacrati per annientare un’intera comunità. Nascosti per cancellare le tracce del misfatto.
Nel corso degli ultimi dodici mesi gli scavi hanno consentito la riesumazione e l’identificazione di 775 corpi. Musulmano-bosniaci quasi tutti (tranne un croato), perché nei piani di Karadzic e Mladic a Srebrenica non c’era posto che per la razza serba. Gli altri dovevano essere cacciati o eliminati fisicamente.
Le 775 salme sono state sepolte nel cimitero di Potocari vicino alle tremila circa recuperate negli anni precedenti. «Non ho più niente da perdere -diceva piangendo Hatidza Mehmedovic, 58 anni, assistendo all’interramento dei cadaveri del marito e di due figli che all’epoca avevano 18 e 21 anni-. L’unica cosa che mi può ancora interessare è combatte-
re perché sia fatta infine giustizia». Raccolta in silenzio, la folla di parenti, amici, e semplici connazionali delle vittime, ha ascoltato i mea-culpa dei rappresentanti di Belgrado e della comunità internazionale. Perché se il genocidio fu perpetrato da bande che la Serbia di allora proteggeva e ispirava, i caschi blu delle Nazioni Unite qui a Srebrenica non fecero nulla per impedirlo. I cinquantamila hanno preso atto del solenne impegno di Tadic: «Non desisterò dalla ricerca dei responsabili ancora latitanti, e mi riferisco innanzitutto a Mladic». Perché, ha aggiunto il capo di Stato serbo, solo quando tutti gli assassini saranno presi e processati «potremo tenderci la mano l’un l’altro e tornare a vivere da persone normali, come vivevamo una volta».
Hanno anche sentito l’ambasciatore americano a Sarajevo, Charles English, definire la carneficina di Srebrenica «una macchia sulla nostra coscienza collettiva». Parole di Barack Obama, che nel messaggio letto pubblicamente dal suo rappresentante, definisce le vittime «persone che volevano solo vivere in pace, che si sono fidate del fatto che la comunità internazionale le avrebbe protette, e che nel momento più difficile sono state abbandonate a se stesse».
In zona in quel mese di luglio del 1995 stazionavano centinaia di soldati olandesi dell’Onu, che non capirono la gravità di cosa stava accadendo intorno a loro o forse non ebbero il coraggio di opporsi.
L’inerzia dei caschi blu è degna, secondo l’organizzazione tedesca non governativa «Centro per il decoro politico», del monumento che alcuni sopravvissuti intendono costruire accanto al cimitero, ammassando le une sulle altre sedicimila scarpe, a simboleggiare gli ottomila scomparsi. Sulla sagoma campeggerà a caratteri cubitali la scritta U.N. (Nazioni Unite), «metafora dell’immenso tradimento» allora compiuto dall’Onu, secondo la portavoce dell’ong Merima Spahic.
C’erano molti leader politici europei ieri al cimitero di Potocari, dal premier belga Yes Leterme al ministro degli esteri francese Bernard Kouchner al presidente sloveno Danilo Turk. C’era anche il capo di Stato turco Recep Tayyip Erdogan. E c’era l’Alto rappresentante dell’Unione europea per la Bosnia, Valentin Inzko, che ha stigmatizzato l’assenza dei dirigenti serbo-bosniaci alla cerimonia. Coloro che non si piegano all’evidenza dei fatti storici e rifiutano di ammettere ciò che avvenne a Srebrenica, ha detto Inzko, «non hanno futuro, non appartengono alla nostra civiltà».
Se fra i capi della comunità serbo-bosniaca la negazione della verità è completa, a Belgrado l’ammissione dei crimini compiuti in mone della grande Serbia è a volte ancora parziale. Il 31 marzo scorso il Parlamento di Belgrado ha approvato una risoluzione che condanna lo strazio di Srebrenica, ma evita di definirlo con il termine usato dalla giustizia internazionale, genocidio.
Lo strascico di dolori, rancori, incomprensioni e polemiche lasciato dalla guerra civile jugoslava degli anni novanta è pesante. Gli eventi delle ultime settimane dimostrano come sia ancora aperta ad esempio la ferita del Kosovo. L’ex-provincia serba a maggioranza albanese è indipendente dal febbraio 2008, ma Belgrado la considera tuttora parte del proprio territorio. Ed a Mitrovica, nella parte nord del Kosovo, che confina con la Serbia, la popolazione locale non si rassegna a riconoscere l’autorità di Pristina. Recentemente la città è stata teatro di scontri e un attentato ha provocato un morto.

Repubblica 12.7.10
La manovra uccide il nostro paesaggio
di Salvatore Settis

La "manovra" del governo che in nome del federalismo mette in ginocchio le Regioni, e senza affrontare i nodi della corruzione e dell´evasione fiscale taglia selvaggiamente sanità, ricerca, scuola sta facendo un´altra vittima: il nostro paesaggio.
Un´ecatombe annunciata già nel decreto-legge, che prevedeva (come ho scritto il 31 maggio in queste pagine) una forma aggressiva di silenzio-assenso sulle autorizzazioni paesaggistiche, annullando di fatto le garanzie del Codice dei Beni Culturali (varato nel 2004 da un governo Berlusconi). In sede di conversione in legge, com´era prevedibile, la sbandierata necessità di un voto di fiducia si traduce anche su questo tema in licenza di uccidere, che prenderà posto nel maxi-emendamento "omnibus".
La Commissione Bilancio al Senato ha emendato, su proposta del presidente Azzollini (Pdl), l´art. 49 della "manovra" (ddl 2228), prevedendo di declassare la d.i.a. (dichiarazione di inizio attività) in s.c.i.a ("segnalazione certificata di inizio attività"), di fatto un´autocertificazione a cura dell´impresa o di un tecnico di sua fiducia, che elude ogni successivo controllo («l´attività oggetto della segnalazione può essere iniziata alla data della presentazione della segnalazione»). Si annienta in tal modo il sistema vigente invitando a edificare, anche in zone vincolate, senza alcuna autorizzazione, e lasciando alle pubbliche amministrazioni solo l´opzione di tentare un blocco dei lavori, purché entro 30 giorni o «in presenza di un danno grave e irreparabile per il patrimonio artistico, l´ambiente, la salute», e comunque sempre negoziando con l´impresa-committente (e autocertificante).
Questa norma è destinata a devastare il sistema, non a migliorarlo. Essa calpesta il principio (sempre confermato dalla legge 241 del 1990 ad oggi) secondo cui i meccanismi di accelerazione come il silenzio-assenso o la d. i. a. non possono mai riguardare beni e interessi di valore costituzionale primario come il patrimonio storico-artistico e il paesaggio. Principio riaffermato dalla Corte Costituzionale, secondo cui in materia ambientale e paesaggistica «il silenzio dell´Amministrazione preposta non può aver valore di assenso» (sentenze 26 del 1996 e 404 del 1997). La nuova norma, se non fermata in tempo, avrebbe natura francamente eversiva: essa non solo capovolge la gerarchia fra un principio fondamentale della Costituzione (art. 9: «La Repubblica tutela il paesaggio e il patrimonio storico artistico della Nazione») e la libertà d´impresa di cui all´articolo 41, ma dà per approvata una modifica dell´articolo 41 che le Camere non hanno ancora discusso.
È´ solo di un mese fa l´ipotesi Tremonti-Confindustria di modificare l´articolo 41 della Costituzione, che oggi garantisce la libertà d´impresa purché non sia «in contrasto con l´utilità sociale»: secondo la proposta di modifica «gli interventi regolatori dello Stato, delle Regioni e degli Enti locali che riguardano le attività economiche e sociali si informano al controllo ex post». In questa proposta di controllo postumo, che equivarrebbe di fatto all´azzeramento di ogni controllo, è la radice del silenzio-assenso elevato a principio assoluto, della metamorfosi della d.i.a. in s.c.i.a.: in una Costituzione immaginaria, non nella Carta vigente.
Nell´emendamento che il voto di fiducia intende imporre brutalmente al Paese, la libertà d´impresa viene sovraordinata al pubblico interesse, e viene cestinato l´articolo 9 che prescrive la tutela del paesaggio legandola a un sistema di valori incentrato sull´utilità sociale, la dignità della persona umana (art. 3), i limiti imposti alla proprietà privata «allo scopo di assicurarne la funzione sociale» (art. 42). Il pubblico bene viene calpestato, la tutela messa in sottordine rispetto all´unico diritto sovrano, quello di fare impresa a qualunque costo, anche inondando il territorio di cemento e di brutture, anche proseguendo lo spietato consumo di suolo già in corso (13 ettari al giorno cementificati nella sola Lombardia).
Al di sopra del paesaggio, che è bene comune di tutti, vien posta la fatturazione delle imprese, la cui pretesa autoresponsabilità spodesta tutti i poteri delle pubbliche amministrazioni. I controlli ex post, secondo i dettami di un "nuovo" articolo 41 della Costituzione di Lorsignori (opposta a quella vigente), occasionali e a campione, sarebbero del tutto inutili una volta arrecato il danno. Sulla base di semplici autocertificazioni, migliaia di pale eoliche devasteranno sull´istante anche i paesaggi più pregevoli, anche dove siano in corso azioni di tutela sinora efficaci, come è nel Molise ad opera della benemerita Direzione regionale dei Beni culturali: basterà una s.c.i.a. per rendere irriconoscibili l´antica città sannita di Sepino o il monte Caraceno, importante area archeologica, boschiva e paesaggistica con vista sul parco nazionale d´Abruzzo. Basterà una s.c.i.a. per evitare anche in futuro ogni controllo antisismico, preparando di fatto disastri futuri, pur di costruire (sempre mediante s.c.i.a.) "città nuove". Del resto, secondo il deputato Pdl Giorgio Stracquadanio, «L´Aquila era una città che stava morendo indipendentemente dal terremoto, e il terremoto ne ha certificato la morte civile; il Governo avrebbe voluto fare una nuova università, una Harvard italiana, e ci è stato detto che volevamo cementificare». Menzogne come questa risuonano impunemente nell´aula di Montecitorio; una perversa Costituzione-fantasma, e non quella vera, detta l´azione di governo. Se non si corre velocemente ai ripari, muore il bene comune, muore l´etica della Costituzione, muore la legalità, la storia e l´identità del Paese.

Repubblica 12.7.10
Il museo fantasma di Ercolano inaugurato due volte e mai aperto al pubblico
Scavi abbandonati al degrado. E anche Pompei perde visitatori
di Alberto Custodero

Le soprintendenze campane sono nel caos. Quella di Napoli è retta ad interim da un dirigente in pensione
La procura di Salerno ha aperto un´inchiesta sull´utilizzo dei fondi della Ue e su presunte irregolarità

ERCOLANO - A Ercolano il museo antiquarium è una struttura fantasma: nonostante sia stato costruito 35 anni fa e inaugurato due volte, nel ´78 e nel ´93 (le vetrine ancora imballate), non è mai stato aperto. I quattromila reperti archeologici che dovrebbe ospitare, giacciono da anni blindati nel caveau di una banca. O depositati in magazzini, alcuni dei quali infiltrati dalle piogge. La "culla di legno carbonizzata", la "statua di bronzo di bacco", le sculture della "casa dei cervi", gli "ori" riemersi fra gli scheletri, e poi la mobilia annerita dai 500 gradi della nube ardente vulcanica sono solo alcune delle perle del "museo che non c´è", negate alla curiosità dei trecentomila visitatori che si recano ogni anno a Ercolano. Anche le "terme", la parte più suggestiva degli scavi, sono chiuse al pubblico: i visitatori si trovano la porta d´ingresso chiusa a chiave e nessun cartello a spiegare il perché. Stessa sorte per il "teatro antico", il più famoso essendo il primo scavo fatto nel ´700: è inaccessibile al pubblico. I trecento calchi dei corpi carbonizzati dall´eruzione del 79 dopo Cristo, rinvenuti al livello della spiaggia sotto una coltre di 19 metri di fango vulcanico, ancora non sono stati esposti nel luogo di ritrovamento, nonostante i lavori per il loro allestimento siano iniziati 12 anni fa.
Se Ercolano piange, Pompei non ride. Un esempio per tutti: a Pompei, il sito dei fuggiaschi, un gioiello degli ultimi scavi della metà degli anni Novanta finanziati dai fondi Fio, è incredibilmente sbarrato da una fune sgualcita. Anche qui nessun cartello offre una qualsiasi spiegazione. Si trovano nella "regione prima, insula 22esima" del sito archeologico, a pochi metri dall´orto dei fuggiaschi. Ma i visitatori non possono accedere a questa area rialzata, di interesse eccezionale (si possono vedere i corpi di persone sopravvissute alla prima eruzione, ma uccise dai fanghi vulcanici mentre tentavano di fuggire sopra un metro di pomici), perché l´ingresso è loro impedito da una corda. La rampa di scale è priva del primo gradino, la teca di vetro antiproiettile di protezione ai calchi è impolverata da chissà quanto tempo.
Difficile tentare di dare una spiegazione al "male oscuro" che affligge da sempre gli scavi di Ercolano e Pompei, ma che s´è acuito in questi ultimi anni che hanno visto, di recente, perfino il commissariamento da parte di un funzionario della Protezione Civile. Tutta la macchina amministrativa delle soprintendenze campane, del resto, sembra da tempo nel caos. È mai possibile, per fare un esempio, che quella di Napoli, dalla quale dallo scorso agosto dipendono Ercolano e Pompei, sia retta ad interim dall´ex segretario generale del ministero dei Beni culturali - ormai in pensione - Giuseppe Proietti, che è nel contempo pure soprintendente speciale di Roma ed Ostia? Ma non solo. La soprintendenza di Salerno, da cui dipendono i siti archeologici di Avellino, Caserta e Benevento, è affidata alla dottoressa Maria Luisa Nava la cui nomina ha ottenuto il record degli annullamenti: l´hanno bocciata il Tar (con conferma del Consiglio di Stato), e un decreto della presidenza della Repubblica. Ciononostante, continua a esercitare le sue funzioni con il rischio che tutti gli atti da lei firmati siano formalmente nulli. Il tutto accade mentre uno dei massimi esperti di scavi vesuviani (300 pubblicazioni scientifiche fra Ercolano e Pompei), il dirigente Mario Pagano - cacciato inspiegabilmente dalla soprintendenza di Salerno dopo soli 3 mesi dalla sua nomina con procedura pubblica - è da tempo mobbizzato dal ministero dei Beni culturali. Pagano è lasciato a casa da più di un anno con stipendio, ma senza incarico, nonostante due ordinanze della magistratura del Lavoro abbiano disposto il suo reintegro a pieno titolo nei ruoli della direzione regionale archeologica campana. Il motivo del mobbing nei suoi confronti potrebbe nascondersi in un´indagine giudiziaria top secret della procura di Salerno sulla gestione "allegra" dei fondi della soprintendenza salernitana. Il pm Rocco Alfano e la sua polizia giudiziaria hanno già acquisito la contabilità degli ultimi anni, in particolare dei progetti finanziati dalla Ue. L´inchiesta penale trae spunto dalle indagini difensive – poi riversatesi in un esposto in procura - dell´avvocato Katiuscia Verlingieri (legale di Pagano), che ha scoperto strane irregolarità nei conti di alcuni lavori finanziati dalla Ue a Paestum e Velia. L´avvocatessa-investigatrice, armata di registratore, è riuscita a dimostrare che un ammanco di 400 mila euro della soprintendenza di Salerno è stato "sanato" dai fondi stanziati dal ministero dei Beni culturali sulla base di una perizia falsa, per lavori di manutenzione in realtà mai fatti.

Repubblica 12.7.10
"Il Seminario. Libro XVIII", un discorso sul fallimento del linguaggio
Il mondo di cartapesta che denucia Lacan
di Nadia Fusini

Il maestro francese indica due strade: quella della "spazzatura occulteggiante", finzione che regge nel regno del posticcio, e la via della lingua poetica e letteraria

Il Seminario Libro XVIII. Di un discorso che non sarebbe del sembiante, del 1971, esce in Italia per i tipi Einaudi e la cura esemplare di Antonio Di Ciaccia (pagg. 184, euro 22) facendo seguito alla ripubblicazione del Seminario III, dedicato alle psicosi (1955-1956). Lo cito perché pur a distanza di anni, certi temi tornano, rispetto ai quali si compiono rivoluzioni. E´ un andamento del pensiero lacaniano il ritmo di variazione e ripresa, ripensamento e spostamento.
Nel Seminario III Lacan utilizzava la linguistica di de Saussure per leggere in modo inedito, rispetto a Freud e ai postfreudiani, le Memorie di Daniel Schreber, l´alto magistrato tedesco che in esse disegnava l´avvincente ritratto di un malato di nervi tra i più interessanti e geniali della letteratura pischiatrica. L´algoritmo saussuriano serviva in quel caso a Lacan, soprattutto gli serviva la barra tra significante e significato, intesa a separare due ordini ben distinti. Come gli serviva la distinzione fondamentale di Jakobson tra metonimia e metafora, per disegnare il campo di tensione espressivo del desiderio, in rapporto alle complicazioni del sintomo.
Nel Seminario XVIII Lacan liquida il rapporto tra psicoanalisi e linguistica: certo, l´inconscio è strutturato come un linguaggio nella linea Saussure-Jakobson, ma ora Lacan soprattutto ascolta dove e come il linguaggio fallisce, non prende, e dunque il soggetto non comprende, se non metaforicamente ciò di cui si tratta. Il linguaggio non può appropriarsi di niente, si dice in questo seminario; semmai chi parla, il "parlessere" per usare una sua buffa parola, evoca qualcosa che comunque resta impossibile da designare. Ma proprio quell´impossibile, Lacan lo chiama il reale: chi parla sta sul taglio. Non tutti lo sanno, ma vale per tutti.
A questo punto si aprono due strade: la prima è quella che Lacan chiama della spazzatura occulteggiante, ovvero un cammino lungo il quale si imbastisce un discorso che finge di cogliere il referente impossibile; finché la finzione regge siamo nel regno del posticcio, nella new age di un sentimentale quanto irreale e irresponsabile mondo di cartapesta. E´ il discorso delle ideologie o delle costruzioni fantasmatiche che si prendono sul serio.
Un´altra strada è il sentiero interrotto lungo il quale si incontrano non la spazzatura, ma semmai radure, chiari del bosco; è la via della lingua poetica e letteraria, che nello stesso atto di parola coglie sogno e fantasma, e non sfugge alla consapevolezza dello scacco costitutivo a ogni essere che parla, al riconoscimento che c´è dell´impossibile e l´esistenza umana non può, non deve evitare questa coscienza - ne va della sua intelligenza, ne va della verità.
L´impossibile, tutto, ogni impossibile Lacan lo sintetizza nell´aforisma: «non c´è rapporto sessuale». Che vuol dire? Non certo che non ci siano donne e uomini e non intrattengano tra di loro rapporti sessuali incrociando omo e etero-sessualità come più pare e piace - perché non è certo lì il punto, non è lì lo scandalo. Lo scandalo è che comunque e con chiunque quel rapporto non si scrive. Lo si può dire, anzi, non si fa che dirlo, la psicoanalisi stessa scaturice da questo, c´è psicoanalisi, c´è relazione psicoanalitica, transferale, proprio perché non c´è rapporto sessuale.
Non c´è, cioè: non si scrive. Si scriverebbe, se esistesse un discorso che non fosse del sembiante: questo pare suggerire Lacan, che esplora a questo punto una terza via, quella della logica. Prova a vedere se per via logica quel rapporto si potesse scrivere: perché questo vuol dire scritto, per Lacan - logico. "No logica, no scritto", per dirla con George Clooney.
E siccome la logica non è nata ieri, e non v´è dubbio che Aristotele abbia provato a mettere in logica quanto accade all´essere pensante, Lacan lo chiede per primo a lui. E si accorge che se Aristotele può scrivere il rapporto tra l´universale e il particolare, non arriva però a scrivere il rapporto tra l´universale/particolare e il singolare. O almeno così pare a Lacan, il quale si impegna a questo punto in altre soluzioni, ricorrendo alla logica di Peirce, all´algebra di George Boole, ai lavori sui quantificatori di Augustus De Morgan, agli assiomi matematici di Giuseppe Peano. Ma alla fine, per ora, in questo seminario, lascia in sospeso la questione.
Si può però notare come ancora una volta emerga in primo piano quale possibile agente risolutore il sembiante femminile. Non stupisce, perché se il sembiante ha la funzione di velare il niente, la donna è l´asso nella manica - in quanto soggetto che ha una relazione essenziale con il niente. Che questo niente sia corporeo, anatomico per Freud, o una mancanza che apre a più metafisiche profondità per Lacan, il niente rimane sempre e comunque un privilegio femminile, a cui anche gli uomini potrebbero ambire, se sapessero incamminarsi sulla retta via della ricerca della verità, in un discorso che non fosse del sembiante, appunto.

Repubblica 12.7.10
Il direttore Bordin lascia durante un lungo faccia a faccia con Pannella
di Mauro Favale

Il direttore di Rai Due è in procinto di essere sostituito da Susanna Petruni
Scontro a Radio Radicale con dimissioni in diretta

Il leader: "Ti sei preso una responsabilità grave" Il conduttore di "Stampa e regime": "Non puoi darmi del disertore"

ROMA - «Non c´è una causa scatenante». Piuttosto, «un problema di accumulo». La voce è sempre quella, inconfondibile, arrochita, alle 7,30 del mattino come alle 5 del pomeriggio. Massimo Bordin parla per oltre due ore col suo editore Marco Pannella. E stavolta l´argomento è l´addio del giornalista, dopo 19 anni, alla direzione di Radio Radicale. Un´ultima, attesissima, conversazione domenicale col leader radicale, un evento per gli appassionati, tutto in diretta radiofonica: perché è la trasparenza la caratteristica principale del partito e della radio, la pubblicità di riunioni e congressi a uso e consumo di militanti e addetti ai lavori. Stavolta tocca mettere in piazza i motivi di un divorzio che ha provocato centinaia di messaggi di solidarietà (tra Facebook e forum vari) per il giornalista. Tanto che Pannella gli dice più volte: «Sei più popolare di me e di Emma». E poi lo accusa: «Ti sei preso una responsabilità politica molto grave». «Mi dai del disertore. Gridi al momento gravissimo, ma lo fai sempre», risponde Bordin.
Un anno fa, a Pasqua del 2009, un altro confronto aspro, sempre ai microfoni della radio. Una sorta di preludio a un divorzio che nelle due ore viene analizzato eppure mai sviscerato completamente. Tanto che Bordin afferma: «Proverò a spiegarmi in qualche sede, non voglio fare uso improprio del mezzo. Per chi m´hai preso, per Santoro? Voglio il mio microfono? Lasciamo perdere». Si intuisce che Bordin vorrebbe continuare a lavorare a Radio radicale. Ma non come direttore. Piuttosto punterebbe a conservare lo spazio mattutino di Stampa e regime, la seguitissima rassegna stampa. Anche se Pannella lo provoca: «Ora si apre il mercato». Poi via all´evocazione di altri ex radicali che hanno abbandonato il partito di Pannella: «Non ho voglia di essere mangiato, non sono commestibile. E non ho ambizioni politiche», specifica Bordin. A Pannella critica «la mancanza di una linea nella quale ritrovarsi». Il leader radicale si ammorbidisce: «Mi dispiace che la cosa si sia conclusa così». Spenta la radio, gli ascoltatori aspettano di capire se davvero Bordin lascerà Radio radicale.

Repubblica 12.7.10
I bambini fantasma di Haiti 800mila vagano ancora nei campi
di Daniele Mastrogiacomo

L´Unicef a sei mesi dal sisma. Clinton: "Ricostruzione lenta"
Molti sono orfani e non hanno cibo Le scuole sono crollate, manca l´acqua potabile

Ci sono 800 mila bambini che vagano tra i campi spontanei di Port-au-Prince. Molti sono orfani, altri hanno dei parenti sopravvissuti al terremoto ma non sanno dove e come trovarli. A sei mesi di distanza dallo spaventoso sisma che ha scosso e distrutto il 60% di una città tra le più povere del mondo, l´Unicef traccia un bilancio illuminato da importanti successi ma offuscato da ombre di rassegnazione. L´emergenza non è finita. Ci sono stati 220 mila morti, altrettanti sono rimasti sotto le macerie e non verranno mai più ritrovati. Un milione e 600 mila sono sfollati. Trecentomila persone hanno subito ferite importanti: 4 mila hanno perso una gamba, un braccio, spesso entrambi. Ma sono i bambini quelli più deboli e più vulnerabili. Fanno parte di quel 46% della popolazione che ha meno di 18 anni. Rappresentano la Haiti del futuro. Ma sono anche quelli che non hanno sempre accesso alle strutture sanitarie, che vengono utilizzati nei lavori più duri, che subiscono le violenze fisiche e sessuali, che sono nel mirino di turpi commerci per i traffici di organi e adozioni improvvisate. «I bambini hanno ancora bisogno della nostra totale attenzione - scrivono i responsabili di Unicef - troppi vivono in condizioni inaccettabili, senza acqua e senza servizi igienici. Molti restano esposti a malattie prevenibili con le vaccinazioni».
L´incubo delle epidemie è per il momento scongiurato. Ma le condizioni generali restano precarie. Basti pensare che solo 333 mila persone hanno accesso all´acqua potabile, che c´è una latrina ogni 145 abitanti, che solo 62.800 bambini sono realmente seguiti e accuditi, che cinquemila scuole sono state distrutte e non ancora ricostruite, che l´intero sistema di educazione stenta a decollare. In tanti vivono ancora nei 1342 insediamenti spontanei. Accampamenti costruiti con teli e stracci, in mezzo alle strade, con l´acqua che sgorga dalle condotte spezzate o le pozzanghere che diventano serbatoi quando cessa l´erogazione. «Mezzo milione di bambini sono a rischio», dice l´Unicef.
E´ stato soprattutto grazie alla rete di ong se l´isola degli schiavi non è sprofondata tra le sue macerie. Nove miliardi è la spesa stimata per ricostruire Port-au-Prince e i paesi che sorgono lungo la faglia che ha provocato il terremoto. Ma Bill Clinton, inviato speciale degli Usa ad Haiti, denuncia i ritardi nella ricostruzione. E il presidente Renè Preval, nella sua rassegnazione, riesce ad essere realista: «Il destino dell´isola resta legato agli aiuti della Comunità internazionale».


l’Unità 12.7.10
I sacerdoti sono una categoria molto richiesta nei numerosi siti on line per incontri gay
Registrarsi è semplice, se hai pazienza e costanza arriva finalmente la risposta del “don”
In cerca di preti nelle chat popolate di solitudini
di Ilaria Donatio

Viaggio tra i siti on line per incontri gay alla ricerca di un prete. Lo scrivi nel profilo, senza perdere tempo. Ai sacerdoti è dedicata una delle tante chat room. Unico divieto: la pedofilia e i rapporti con i minori.

Un mese intero passato in chat. In orari e con nomi diversi. Con un’unica indicazione nel profilo: “In cerca di un don”. La prima cosa che si impara nei siti di incontri online è che non c’è tempo da perdere. Dunque, è meglio chiarire subito cosa si cerca: “170x67 castano non peloso maschile giovanile”. Oppure: “165x80, moro riccio, molto peloso, maschile e carino”. E, in questo caso, che sia anche prete. Se è vero, poi, che tutte le chat si assomigliano, per quelle gay c’è solo l’imbarazzo della scelta: registrarsi è semplicissimo. Nessun controllo, ad esempio, sull’età dell’utente che, in teoria, potrebbe accedere ogni volta con un nick diverso.
Ci sono Mirc, la chat di gay.it, 77chat.com, ma anche siti come bearwww.com, gayromeo.com, gaydar. it: alcune richiedono anche la foto ma generalmente basta inserire pochi dati essenziali e l’indicazione di cosa cerchi e come lo vuoi. Sesso, amore, amicizia, scambi di coppia: l’obiettivo è quasi sempre incontrarsi, nella realtà oppure via web cam. I preti sono una categoria molto richiesta. Come i militari. “Il fascino della divisa”, si potrebbe dire. A loro è dedicata una delle tantissime chat room in cui è possibile entrare su 77chat.com. Qui, in homepage, campeggia uno sbrigativo divieto di pedofilia e pratiche sessuali con minorenni. La nostra stanza a tema si chiama “Preti e amici”. I nick dei preti sono abbastanza scontati: Don cerca maturi, d_off, don umbro, don, don giu, don marco, don40, padre Pio e tanti altri. Gli “amici” indicano nel profilo le proprie preferenze.
“Dove sei? Quanti anni hai? Come sei fatto?”. È un copione già scritto: basta attendere pochi minuti e si aprono, una dopo l’altra, le prime finestre di dialogo. Le domande sono sempre quelle e conviene rispondere alla svelta per passare al secondo “blocco” “sei sposato? single? gay? bisex?” superato il quale avviene il (fortunato) passaggio a un luogo più sicuro: msn e/o telefono, preludio dell’incontro. Noi ci siamo fermati prima, semplicemente, scomparendo e riapparendo in chat con un nick diverso: un altro giro, un’altra corsa.
Un mondo, quello delle chat “per adulti”, più normale e ordinario di quanto si pensi. In realtà, un pezzo del nostro stesso mondo, incredibilmente popolato da solitudini, desideri repressi, sensi di colpa. Vite divise. Che, come osserva il teologo morale Giannino Piana (l’intervista è a pagina 8), sono “drammaticamente segnate da una sorta di lacerazione”, alla perenne “ricerca di un modello troppo alto per essere raggiunto”.

l’Unità 12.7.10
«Prego, dico messa e ho sensi di colpa: mi piacciono gli uomini
In chat con un sacerdote: «So che dal punto di vista della Chiesa sono in errore, ma è più forte di me Ti ho spaventato? Per favore ora non sparire...»
di I. D.

Don: ciao, da dove?
X: da Roma e tu?
D: anch’io, quanti anni?
X: 39... sei un prete?
D: io 49, sì sono un prete. Anche tu?
X: io no, li cerco...
D: eccomi! Sei sposato?
X: no, sono gay
D: gay?
X: Perché, tu no?
D: non mi piace definirmi
X: avrai delle preferenze...
D: mi piacciono i maschietti
D: se ti far star bene pensare che sono gay, facciamo come dici tu... sei maschile o effeminato?
X: maschilissimo. Hai una relazione in questo momento?
D: sì ma lui vive a tanti chilometri di distanza... Dimmi, come sei fisicamente?
X: Sono alto 1,77, abbastanza magro, castano: un bel tipo secondo quelli a cui piaccio...
D: eh eh eh e è tutto soggettivo! Io, 170x67, castano, non peloso, maschile giovanile.
X: perché cerchi altri incontri se hai già una persona?
D: ti ho detto che cerco altri incontri?
X: chiedi a tutti come sono fatti prima di diventarci amico?
D: beh, non li escludo ma in genere non approdo mai a niente di che...
D: in che zona sei tu?
X: Roma nord. Dove vivi? in istituto o da solo?
D: zona centro, vivo solo... tu non hai storie in corso?
X: sì, una un po’ traballante: convivo con una persona.
D: Comunque, io non ho e non cerco esperienze di sesso anale: non mi interessa...
D: sei scappato?
X: scusa, perché me lo dici così?
D: meglio essere chiari...
X: non le cerchi o ne hai paura?
D: è una mia idea fissa e nessuno me la toglie...
X: un’idea fissa che ti infastidisce a quanto pare!
D: no.... uno può pensarla così?
X: certo, per me ognuno può fare come gli pare! E cosa ti concedi se posso?
D: beh tutto il resto in genere... sempre in bilico tra il cercare e lo sforzarmi a “fare il bravo”
X: e “il resto” invece ti dà piacere?
D: sì, certo.
X: non ti provoca sensi di colpa?
D: molti...
X: perché sei diventato prete, se posso?
D: è il risultato di certe situazioni vissute sulla mia pelle (penso): di contrasti prima e di solitudine poi...
X: ma sei contento di esserlo?
D: tutto sommato sì
X: il tutto sommato ha a che fare con la sessualità?
D: sì ma anche perché sto svolgendo una mansione particolare, con molta solitudine: ecco questo è un po’ il problema
X: quando finisce questa mansione?
D: non decido io... è una situazione un po’ complessa. Dai, cambiamo discorso! Che numero di piede hai?
X: ... questa domanda non me l’aspettavo: 42 comunque...
D: ognuno ha le sue stranezze... mi piace il piede maschile e mi piace il maschio in calzini... eh eh eh he
X: intendi che ti piace il maschio nudo e vestito solo con i calzini?
D: no, anche vestito... purché in ciabatte e calzini, stranezze della vita!
X: in effetti è da approfondire...
D: beh, tu hai le tue: la storia dei maschi e dei preti da quanto ti frulla in testa?
X: da sempre e in questa chat mi sembra sia una fantasia molto comune!
D: dai, chiedimi quello che ti va... ti «concedo» tre domande
X: vorrei sapere se hai mai perso la testa, il controllo, per qualcuno...
D: sì, ma senza esagerare...
X: ti spreteresti mai? D: non credo
X: dunque così vivi bene? D: beh nessuno mi ha obbligato, è una scelta libera che uno fa sapendo a cosa va incontro...
X: che fai ora? D: già vuoi sparire?
X: ma no, ti dico che non sparisco...
D: ok... lavoro anch’io: prego, leggo, dico messa
X: mmhh se mi dici dove celebri vengo in incognito... vorrei ascoltare le tue omelie...
D: ... comunque, per la cronaca, ora sono un po’ eccitato...
X: come mai? cosa stai immaginando...
D: niente di che, solo il fatto di seguirti nel discorso...
X: allora continuo... che tipo di relazioni hai con gli uomini (maschi) in carne ed ossa?
D: se intendi il sesso, solo esperienze orali: perdo molti punti ai tuoi occhi?
X: ma no! Solo, mi viene in mente una domanda: prova a spiegarmi la differenza. Dal punto di vista della Chiesa sei comunque in errore...
D: lo so ma proprio non ci riesco. Dimmi come sei vestito...
X: jeans e polo blu. Tu?
D: io in jeans nero e maglietta, sono in ciabatte...
X: ah vero, le ciabatte...
D: eh eh eh...
X: Che hai da fare più tardi?
D: ho un incontro di preghiera...
X: hai un gruppo con cui ti vedi spesso oppure le persone cambiano?
D: una volta al mese se posso vado ma sono più di 400/500 persone.
X: ah però!
D: come ti chiami?
X: Matteo e tu?
D: Paolo... che farai domani?
X: riposo. Tu?
D: messa alle otto, poi angelus e quindi....riposo. Senti: non ti piacerebbe conoscermi?
X: sì che mi piacerebbe
D: vorrei incontrarti, anche solo una volta...
X: vediamo che succede, facciamo con calma...
D: vorrei solo un punto più sicuro dove trovarti... metti msn!
X: ok, dai, ci provo.
X: Ma come ti chiamano: don o padre?
D: in entrambi i modi... sai, qualcuno mi chiama anche monsignore.
X: accidenti!
D: ci sei stasera? Dalle 17.30 in poi sono qui. E se mi chiedi di fare due passi, ci sono pure! Lo vuoi il mio cellulare?
X: non lo voglio
D: ok X: sei arrabbiato?
D: ....
X: forza! Non avere fretta monsignore.... fammi un sorriso!
D: sapessi...
X: dimmi...
D: se potessi ti darei un bel bacio sulla bocca... anzi, me lo daresti tu un bacio? mi fai un po’ di coccole?
X certo che te lo darei: come lo vuoi?
D: dolce, lento, passionale...
X: te lo sto dando...
D: mmhh...
X: ti piace?
D: moltissimo, sono eccitato.
X: mi fa piacere che ti piaccia
D: se fossi qui ti farei di tutto...
X: tranne il rapporto completo...
D: tranne quello: non avverrà mai. Ma se fossi con me ora, ti spoglierei, ti leccherei tutto...
X: Forse è meglio che ci salutiamo ora...
D: Non sparire
D: ti ho spaventato? Sono sempre molto provocante in chat ma ti assicuro che in realtà sono impacciato e pure... inconcludente.
X: non ti devi giustificare...sei quello che sei
D: non sparire X: non sparisco.

l’Unità 12.7.10
Intervista a Giannino Piana
«Sulla sessualità la Chiesa cambi alcune regole morali»
Il teologo «Una visione negativa del sesso mette in moto un meccanismo perverso di colpa. Attraverso le chat on line certi preti cercano una dimensione dove poter vivere»
di L. D.

Professor Piana come commenta, da teologo morale, il dialogo che abbiamo proposto? «Purtroppo, credo che quello che viene fuori abbia fondamento e temo anche che si tratti di un comportamento abbastanza diffuso. Non so dal punto di vista statistico quante persone tocchi, ma certamente esiste una percentuale piuttosto estesa di preti che hanno tendenze omosessuali e che, attraverso le chat online, tentano di stabilire rapporti dai risvolti sessuali molto evidenti: vorrebbero vivere, così, una dimensione che reprimono nella vita reale, sintomo, questo, anche di una certa solitudine.
C'è un elemento che emerge con chiarezza: l'esistenza di vite divise tra due mondi che corrono parallelamente...
«Questo doppio volto emerge con chiarezza dal colloquio: si fa continuamente presente e si rivela nelle sue debolezze, nelle sue pulsioni solo in contesti lontani dalla vita consacrata. Fa pensare all'esistenza di tutto un mondo sotterraneo che resta tale e che non viene soddisfatto. Questo perché non è stato neanche opportunamente coltivato attraverso un processo che l'avrebbe condotto, magari, a una sublimazione, ma molto più seria. L'assenza di questo percorso fa sì che esplodano forme contraddittorie di pulsione che rivelano, tra l'altro, tratti della personalità rimasti alla fase adolescenziale».
È possibile secondo lei convivere per un'intera esistenza con e dentro questa contraddizione? «È certamente difficile ma è anche possibile, purtroppo. C'è ed è forte la difficoltà oggettiva a comporre i due momenti: quello più autentico che però esplode in forme abnormi e persino infantili e per un altro verso, la necessità di rimanere in un contesto che permette di sopravvivere e che offre garanzie, sia dal punto di vista economico sia da quello della sicurezza. Garanzie anche di tipo psicologico: c'è uno status acquisito, c'è un ruolo che si esercita, c'è un'immagine di sé che, anche se in alcuni contesti, permette di socializzare».
Ma una persona consacrata è in grado di gestire una condizione del genere svolgendo in modo adeguato il proprio ministero?
«Io credo di no: dove non c'è trasparenza, dove non c'è una scelta fatta liberamente che sia orientata in una direzione o nell'altra inevitabilmente nell'esercizio del ministero non è garantita quella autenticità necessaria e richiesta, quella trasparenza che deriva dal nocciolo più profondo di una persona. Ma questo comporta una scelta: quella di stare pubblicamente con un'altra persona, oppure, l'avvio di quel processo di sublimazione, anche della propria solitudine, di cui parlavo prima (e che però richiede una particolare tensione morale e psicologia ma anche una certa maturità).
Ho l’impressione, inoltre, che ci sia spesso, in molti preti, una certa difficoltà di rapportarsi agli altri in modo autentico e che emerge immediatamente e, forse, nasce anche da queste situazioni: con la conseguenza che risultano, alternativamente, quasi ostili ai rapporti, chiusi in se stessi oppure, al contrario, completamente dediti a forme (superficiali) di cameratismo, a rapporti troppo carichi e che rivelano sempre una situazione non chiarita al livello di coscienza personale e coinvolge il modo stesso in cui vivono il loro ministero».
Basterebbe, secondo lei, cambiare le regole? Mi riferisco a quelle che fondano la morale sessuale della Chiesa cattolica.
«Credo che questo cambiamento sarebbe importante e inciderebbe su molte vite: la morale cattolica ha mantenuto, soprattutto a livello normativo, una visione fortemente negativa della sessualità, con la conseguenza di mettere in moto un meccanismo perverso di colpa e di auto-giustificazione.
Certamente, conta anche l'inserimento in un contesto piuttosto che in un altro: anche oggi ci sono seminari più severi e repressivi nei confronti della sessualità (e della donna in particolare) ed altri che puntano, seguendo lo spirito del Concilio Vaticano II, a una maggiore responsabilizzazione del soggetto, a valorizzare la libertà di azione e l'attenzione a scelte diverse. Questo, com'è naturale, provoca minori sensi di colpa e anche una visione più serena della sessualità e dell'erotismo.
Dunque, direi che la revisione delle regole che, di fatto, sono sempre più inascoltate, sia importante e valga per tutti, non solo per chi fa la scelta del sacerdozio. Ma mentre la gente comune, credente e praticante, ha ormai instaurato un rapporto che definirei "selettivo" con l'istituzione (tiene quel che le serve e sul piano morale prende le distanze), chi compie una scelta di vita consacrata, fa anche percorsi più necessitati e costringenti di quanto lo siano quelli normali.
D'altra parte, c'è anche un aspetto del tutto soggettivo: è chiaro che le persone più fragili sono anche le più esposte ai sensi di colpa, che poi sono sempre il frutto di pressioni esercitate dall'esterno. Ma anche di modelli ideali eccessivamente staccati dalla realtà. È questa distanza, è l'incapacità di essere fedeli a quel livello di idealità che viene proposto, è il vivere una serie di situazioni che portano lontano da quello che vorresti essere e che non sei, è tutto questo insieme, alla fine, che provoca conseguenze distruttive sulle persone.

Giannino Piana è docente di Etica cristiana presso l’Istituto Superiore di Scienze Religiose della Libera Università di Urbino e di Etica ed economia presso la Facoltà di Scienze politiche dell’Università di Torino.

l’Unità 12.7.10
Pedofilia
Il giornale Avvenire «Fermiamo anche gli orchi laici»

Allo scandalo «enorme» della pedofilia,che non riguarda solo la Chiesa ma una realtà mondiale ben più ampia, foraggiata anche dal turismo sessuale, è dedicato un dossier di quattro pagine pubblicato sabato dal giornale cattolico 'Avvenirè. «Né alibi né rimozioni», spiega in un editoriale di prima pagina il direttore del quotidiano, Marco Tarquinio, osservando che il «cancro degli abusi sessuali sulle bambine e i bambini» va affrontato in tutte le sue declinazioni, anche quelle che riguardano «paesi civilissimi e teatro di importanti campagne di stampa moralizzatrici» e però patria di «frotte di orchi che originano i più imponenti e vergognosi flussi del turismo sessuale».

domenica 11 luglio 2010

l’Unità 11.7.10
Dopo la Libia, il Sudan
Affari con al-Bashir incriminato all’Onu
di Umberto De Giovannangeli

La buona notizia: la ratifica è stata rinviata. La brutta: è solo un rinvio. Perché quell’Accordo «imbarazzante» è ancora sul tavolo. È l’Accordo di cooperazione economica tra l’Italia e il Sudan. L’Accordo denuncia Matteo Mecacci, parlamentare radicale eletto nel Gruppo Pd alla Camera definisce «i rapporti commerciali e finanziari, e dunque politici, anche con il Governo Sudanese nonostante sia guidato da un Presidente ricercato dalla Corte Penale Internazionale (istituita a Roma nella sede della Fao nel 1998) per crimini commessi nella regione del Darfur dove, nonostante la stipula di accordi tra le parti in conflitto che vengono regolarmente smentiti, si è verificata e continua a verificarsi una delle peggiori catastrofi umanitarie degli ultimi decenni...».
Le informazioni sulle gravissime violazioni dei diritti umani compiute dal Governo sudanese in Darfur rimarca Mecacci possono essere così sintetizzate: 1) la repressione violenta da parte del Governo sudanese dei movimenti ribelli in Darfur secondo le Nazioni Unite ha prodotto dal 2003 oltre 2,7 milioni di sfollati e rifugiati, e tra i 180 e i 300 mila morti; 2) le responsabilità dirette del Governo Sudanese in questa vera e propria campagna di sterminio hanno portato alla incriminazione non solo del Presidente al-Bashir da parte della Corte Penale Internazionale che, va sottolineato, ha iniziato le indagini su mandato del Consiglio di Sicurezza dell’Onu (il che significa senza l’opposizione dei suoi 5 membri permanenti), ma anche di altri esponenti governativi e di leader dei movimenti ribelli; 3) dopo l’incriminazione di al-Bashir da parte della Corte Penale Internazionale, 13 organizzazioni umanitarie internazionali che assistevano i rifugiati sono state espulse dal Darfur, aggravando una situazione già tragica; 4) allo stesso modo, dopo la richiesta di l’arresto di al-Bashir secondo il rapporto di Amnesty International 2010 sul Sudan, il Governo ha intensificato la repressione nei confronti di organizzazioni umanitarie, dei difensori dei diritti umani e degli oppositori politici, repressione che ha portato tra l’altro a più di 60 nuove condanne a morte 54 emesse da Tribunali Speciali antiterrorismo. 5) sempre secondo il Rapporto 2010 di Amnesty International nei campi di rifugiati in Darfur le violenze sulle donne, inclusi gli stupri, da parte delle milizie controllate dal Governo sudanese continuano in modo imperterrito. Se a tutto ciò si aggiunge che, dopo 10 anni dalla ratifica, e nonostante numerose iniziative parlamentari, l’Italia non ha ancora adeguato la legislazione interna a quella della Corte Penale Internazionale (e dunque il nostro Paese non sarebbe in grado di arrestare al-Bashir se si trovasse sul territorio italiano), la valenza politica di questo accordo diviene chiarissima, poiché il Paese che più ha voluto la nascita della Corte Penale Internazionale adesso è il primo a legittimare politicamente il maggiore e più importante imputato di quella stessa istituzione.
Sul rinvio della ratifica dell’Accordo interviene Italians for Darfur: «Siamo lieti di apprendere che il Governo abbia accolto la richiesta dell’onorevole Gianni Vernetti a nome dell’Intergruppo “Italia-Darfur” di rinviare la ratifica dell’Accordo tra Sudan e Italia in Commissione e ci auguriamo che questo sia un primo passo verso una nuova policy nei confronti di un Paese che continua a violare impunemente i diritti umani», rimarca l’associazione in una nota. Ma la speranza è tutta da costruire. Perché, a quanto risulta a l’Unità, la ratifica dell’Accordo è solo rinviata di qualche settimana, al massimo a settembre. «Questo provvedimento arriva in una fase delicata del conflitto in Darfur sottolinea Antonella Napoli, presidente di Italians for Darfur che rischia di riprendere con grande violenza. Avere uno strumento a disposizione per fare pressioni sul Governo sudanese, affinché freni l’escalation di violenza in Darfur e in altre aree del Sudan, riveste un’importanza cruciale». «Soprattutto aggiunge la presidente dell’associazione a fronte del rischio del ritiro della missione di pace dispiegata nella regione, come paventato da un comunicato delle Nazioni Unite che ha annunciato la possibile sospensione di numerosi programmi di aiuto alle popolazioni del Sudan finché il Governo sudanese non si spenderà in misure concrete di controllo e protezione dei convogli umanitari internazionali».
Oltre 400.000 darfuriani denuncia l’associazione «rischiano di non ricevere le razioni alimentari, da cui dipendono per la sopravvivenza, a causa delle proibitive condizioni di sicurezza, peggiorate dopo gli ultimi pesanti scontri tra forze governative e forze ribelli nel centro e nord Darfur, che hanno tagliato i principali nodi stradali dell’area. Dall’anno scorso, 17 operatori umanitari sono stati rapiti, e 27 peacekeepers dell’Unamid hanno perso la vita dal 2008 ad oggi... ». «Solo con pressioni diplomatiche e commerciali su Khartoum conclude la nota sarà possibile dar corso in modo efficace alla missione e fermare il conflitto in atto in Darfur che ha già causato oltre 300.000 vittime e costretto alla fuga 2milioni e mezzo di persone». Per questo il ritiro della ratifica dell’Accordo è un primo passo ma non basta. «Il Sudan non può essere trattato come un Paese qualunque incalza Vernetti, presidente dell’Intergruppo Italia-Sudan che riunisce oltre 70 deputati di tutte le forze politiche dal 2003 è in corso il conflitto del Darfur che ha finora provocato oltre 250.000 vittime e 2 milioni e mezzo di profughi». «La Corte Penale Internazionale ha emesso un mandato di arresto nei confronti del presidente del Sudan al-Bashir ricorda ancora Vernetti considerato il diretto responsabile dei massacri della popolazione civile compiuti dalle milizie dei Janjaweed sostenute dall’esercito regolare sudanese». Ma per il Governo italiano questo mandato di cattura appare un «dettaglio» insignificante rispetto agli affari da mettere in piedi con il Sudan di al-Bashir. La «diplomazia degli affari» esaltata dal Cavaliere si prepara a un nuovo colpo. I disperati del Darfur possono continuare a morire...

l’Unità 11.7.10
L’Italia ha un debito con le ex colonie. Di cui rigetta i profughi
Con la ricca Libia, accordi da 5 miliardi di dollari. Nulla invece per Eritrea, Somalia, Etiopia. A questi migranti si nega addirittura il diritto di asilo secondo il Trattato di Ginevra
di Shukri Said

L’orrendo frutto dell’accordo sui respingimenti tra Italia e Libia, alla fine, ha mostrato il suo grado di maturazione spargendo il suo succo amaro sul capo di quasi tutti gli italiani perché l’arco di coloro che a quell’accordo hanno prestato il consenso è stato molto più ampio di quanto ci si sarebbe aspettato. Il messaggio in bottiglia costituito da un sms ha permesso al mondo di conoscere la fine che fanno gli abitanti dei Paesi subsahariani orientali respinti dall’Italia senza alcuna selezione tra gli aventi diritto all’asilo e imprigionati nei lager libici in mezzo al deserto tra malattie e torture, con poco cibo, poca acqua, niente igiene e un caldo pazzesco.
Quanto si è appreso da quell’sms non è affatto una sorpresa, ma la conferma dell’esito annunciato all’indomani della ratifica di quell’accordo tra Italia e Libia e massimamente temuto dalla sua attuazione, quando il 15 maggio 2009 l’Italia donò le prime due motovedette alla Libia proprio per il pattugliamento della frontiera mediterranea. La vergogna di quell’accordo stigmatizzato da tanti della società civile italiana, dall’Ue e dall’Onu, ora ricade su tutti noi e ci impone una riflessione.
Le vittime dei respingimenti sono soprattutto eritrei, somali ed etiopi. Popoli che, con quello libico, sono appartenuti alle colonie italiane di cui il Fascismo fu tanto orgoglioso da proclamarsi Impero proprio in virtù di esse. L’Italia ha espressamente riconosciuto di aver provocato danni con l’occupazione dei territori africani. Lo attesta il trattato con la Libia alla quale si attribuiscono ben 5 miliardi di dollari di indennizzi. Nulla, però, è stato sin qui previsto per gli altri Paesi occupati nell’epoca coloniale, tanto meno per quelli dell’Africa Italiana Orientale istituita nel 1938 accorpando Eritrea, Somalia ed Etiopia e da cui provengono in gran parte quei profughi respinti in mare dalla Libia cui il Governo Berlusconi ha appaltato la blindatura della frontiera a sud.
Anche la conciliazione con il passato coloniale, dunque, si conferma una scelta ad personam, prevedendo il risarcimento in favore della sola Libia, ricca di petrolio e gas, ed a scapito dei Paesi più deboli. Metodo coerente con gli altri dell’attuale Governo: debole con i forti e forte con i deboli.
L’Italia deve immediatamente modificare le sue scelte e farsi carico dei disperati delle sue ex colonie. Inoltre, più di ogni altro Paese, deve farsi carico di intervenire nelle ex colonie per favorire la loro riorganizzazione ed il miglioramento delle condizioni di vita dei loro abitanti. Questo sarebbe certamente il modo migliore per attenuare la pressione dell’immigrazione che proprio da quei Paesi mira ad arrivare al nostro quale più familiare tra tutti gli altri, sia per lingua che per tradizioni.
È assolutamente inaccettabile, invece, non solo rimanere inerti rispetto alla gravità delle condizioni in cui versano i Paesi dell’ex A.I.O. del 1938, mentre si china la testa dinanzi al Colonnello Gheddafi, ma addirittura rigettare in mare i profughi di quei Paesi evitando accuratamente di accertarne il diritto all’asilo secondo i principi del Trattato di Ginevra.
Tutti gli altri Stati che hanno avuto un passato da colonizzatori si sono fatti carico dei problemi dei territori occupati dopo il riconoscimento dell’indipendenza. L’Inghilterra li ha mantenuti tuttora associati nel Commonwealth, cioè nel benessere comune, in cui si è stabilito un libero o preferenziale diritto di migrazione da un Paese ad un altro. La Francia ammise sul proprio territorio, e con la cittadinanza francese, circa un milione e mezzo di pieds noirs che lasciavano i Paesi del Maghreb che nel 1962 conquistarono l’indipendenza e mantenne per decenni facilitazioni alla libera circolazione con le ex colonie .
Partecipando al colonialismo al pari di tutte le grandi nazioni dell’epoca, l’Italia volle mostrare al mondo di valere quanto le altre grandi potenze, ma quando si è trattato di assumersi le responsabilità che il colonialismo comportava, l’Italia non solo non ha riconosciuto nessuna facility ai cittadini delle ex colonie al momento di adottare i flussi di lavoratori extracomunitari, ma addirittura ha elevato alle sue frontiere il muro dei respingimenti indiscriminati.

il Fatto 11.7.10
Asli, l’eritrea che ci insegna la CostituzioneNata in Italia, combatte per difendere la democrazia
di Nando Dalla Chiesa

Finale Ligure. Pullulare. Quel verbo le piace da morire. Le piace guardarsi intorno a ogni manifestazione per dire che gli italiani ribelli alle indecenze, ai bavagli e ai furti delle cricche “pullulano”. Che sono tanti. Che vale la pena battersi. Un matrimonio perfetto tra il nostro dizionario e i buoni principi morali che le ha inculcato sua madre, eritrea arrivata in Italia negli anni Settanta. Asli Haddas ha la pelle bruna e una foresta di capelli crespi. E’ nata a Milano e dà bene l’idea del paese che stiamo diventando. Multietnico nel modo più bizzarro. Dove tocca a una giovane di origini africane di trovarsi alla testa delle battaglie per difendere la nostra Costituzione. “Una cosa sola toccherei della Carta”, ammette, “aggiungerei un articolo per dire che l’acqua è un patrimonio universale. Ma poi penso che sarebbe un precedente e allora d’istinto rinuncio anche a questo. Mi importa di più difenderla”. Asli fa l’informatica. Lavora in una piccola azienda che sviluppa data-base, fa ricerca, crea prototipi per un mercato di nicchia. Le scuole le ha fatte alla periferia di Milano. All’onnicomprensivo di Lampugnano, dalle parti di San Siro: perita aziendale in lingue estere. E a scuola nacque la passione per la partecipazione. Assemblee e giornalini di quartiere, prime esperienze con il partito umanista che a Milano attrasse a lungo, nel vuoto della politica, giovani in cerca di ideali. “La passione per l’impegno politico però me l’ha trasmessa mia madre. Quando venne in Italia sosteneva la lotta del popolo eritreo per l’indipendenza dall’Etiopia. Sono cresciuta così. Ho ereditato da lei i valori della moralità e della trasparenza. Mi racconta sempre che l’Italia degli anni Settanta era un paese diverso. Solidale, accogliente. Fece domanda all’ufficio di collocamento ad Asmara e venne chiamata subito da una famiglia milanese. Sì, lavori domestici, fra l’altro è una cuoca strepitosa, cucina eritrea ma anche italiana: tutti i piatti, perché lei non ha un’idea scientifica della cucina, lei la cucina la sente, ci mette l’anima”.
DOPO I GIORNALI di quartiere, i servizi sugli immigrati e le denunce di abusi edilizi, arrivò l’università: ingegneria gestionale e poi laurea in International business a Londra. Quindi l’ondata dei movimenti del 2005-2006, ultimo anno del secondo governo Berlusconi. Ad Asli piacque Beppe Grillo. “Andai una volta a un suo spettacolo a teatro. C’erano dei ragazzi che davano un volantino con l’elenco dei condannati presenti in Parlamento. Mi sembrò una cosa giusta, così partecipai alle loro manifestazioni per la libertà d’informazione. Furono le prime volte che fu esibito simbolicamente il bavaglio. Un popolo disinformato è pronto a farsi mangiare la democrazia, e alla fine si ritrova con la dittatura”. Da allora questa eritrea italiana di trentadue anni ha iniziato ad apparire sempre più alle manifestazioni, a organizzarle, a promuoverle. Informazione, lodo Alfano e leggi ad personam, diritti umani, mafia, corruzione, privatizzazione dell’acqua. Perennemente in movimento, una capacità organizzativa quasi prodigiosa, nessun complesso per la quantità dei manifestanti, pochi dove è normale che ce ne siano pochi, una marea quando sale l’indignazione civile. Il microfono in mano per dare la parola. Con discrezione; la fatica di costruire l’evento e poi un passo indietro. Praticamente ovunque. Con un fastidio acuto per le etichette. “C’è questo vizio tipicamente italiano di incasellare, di appiccicare etichette. Non solo per i partiti ma anche per le associazioni. Vede, se mi dicono grillina io lo accetto, non dico di no, ma mi va stretto. Mi va stretto il Popolo viola, io sono una cittadina libera che vuole sostenere dei principi. Per me è più importante fare rete con ogni esperienza positiva”.
E INFATTI la si ritrova con Qui Milano Libera, insieme a Piero Ricca (il contestatore dell’ormai storico “puffone”), nell’esperienza dell’agorà, una specie di Hyde Park inscenato al sabato pomeriggio in via Mercanti o piazza Cordusio, pubblico medio di cento persone, ognuno dica quello che pensa della vita pubblica a Milano. Oppure alla settimana contro le mafie, dove già le persone non sono più le stesse. O alle manifestazioni delle agende rosse di Salvatore Borsellino. O all’Africa Day del 30 maggio, la prima volta che si è fatto a Milano, spazio Arte di Sesto San Giovanni a parlare di modelli di sviluppo. “Ma anche di letteratura e cultura, musica e danza. Mi appassiona lavorare per l’African forum in Italy, difendere i diritti degli eritrei torturati in carcere. Mi interessa anche comunicare un’altra idea dell’africano in Italia. Si ha sempre l’immagine del lavoro manuale ma a Milano c’è molta letteratura africana, del Ghana, dell’Uganda. E anche dell’Eritrea, certo. A me piace questo intrecciarsi di esperienze perché si conosce tanta gente di buona volontà. Il guaio è che a Milano gli spazi pubblici stanno sparendo. A colpi di affitti pazzeschi stanno cancellando storiche sedi dell’Arci e dell’Anpi. Io uso lo spazio ChiAmaMilano di Milly Moratti. Lì facciamo i cineforum, anzi venga a trovarci lunedì prossimo ché chiudiamo il ciclo sul turismo sostenibile, Marrakech Express più cuscus di mia madre. Che cosa desidero di più? Che anche noi piccoli riusciamo ad avere la compattezza della casta. Perché vede, noi litighiamo, ci frantumiamo. E quelli invece...”.
QUALCUNO, nel solito gioco al totosindaco di Milano, ha iniziato a fare il suo nome. Un divertissement: se proprio bisogna cambiare, Asli sarebbe l’ideale. Giovane, donna, combattiva e di colore. Lei non ne sa nulla. Confessa piuttosto con innocenza la sua utopia. “Un canale televisivo nostro. Per raggiungere la gente. Allora sì che si farebbe la rivoluzione”. Gli occhi le si illuminano. Le sembra quasi di vederli i cittadini di buona volontà che si moltiplicano. Anzi, come si dice? Che pullulano.

il Fatto 11.7.10
Radio Radicale, l’ultimo duetto Bordin-Pannella (in attesa di riappacificazione)
di Stefano Caselli

Gli appassionati del genere non perdano, oggi, il consueto appuntamento domenicale con Marco Pannella e Massimo Bordin sulle frequenze Radio Radicale: potrebbe essere la resa dei conti finale, oppure, l’ennesima riappacificazione. Bordin, da quasi vent’anni direttore di Radio Radicale, ha infatti rassegnato ufficialmente le dimissioni, in aperta polemica con il suo editore, cioè Pannella. Con una lettera indirizzata al cdr, il conduttore di “Stampa e regime”, l’imperdibile rassegna stampa mattutina, ha comunicato la sua decisione irrevocabile: “Comunico le mie dimissioni da direttore, già presentate all’amministratore Paolo Chiarelli. Si è concordato di renderle esecutive dal primo agosto 2010”. Una scelta, motiva Bordin, nata “dalle prese di posizione dell’editore della radio (...) Da almeno due anni Marco Pannella ha più volte pubblicamente dichiarato che non si sente rappresentato dal modo in cui viene espressa la linea editoriale della radio. (...) Non posso pretendere di far cambiare idea a Pannella e francamente non so nemmeno se ne avrei voglia. (...) Va bene che gli esami non finiscono mai, ma c’è un limite a tutto e qui si sta esagerando”.
Lunga la risposta del leader radicale affidata alla sua pagina facebook: “Le dimissioni di Bordin – scrive Pannella – mi vedono assolutamente contrario. (...) La concezione di Radio Radicale è tale da non permettere all’editore di auspicare (per non dire altro) dal direttore una condivisione della mia personale linea politica. (...) Bordin non può protestarsi come sfiduciato se mi limito a proclamare il mio diverso e liberare modo di essere”. Posizione ribadita nel pomeriggio: “È assolutamente vero – dichiara – che non voglio cambiare direttore”.
In ogni caso, i rapporti tra i due (ci fu già un litigio in diretta nel 2009) sembrano deteriorati. E scatta il toto-successione: di recente, da largo Argentina, era filtrato il nome di Filippo Facci come possibile erede, ma anche qui un criptico Pannella smentisce a modo suo: “Ho già avuto occasione di dire che cose del genere non sono mai accadute”. C’è anche chi parla di Marco Cappato: tra i radicali, molti sono pronti a giurare che sarà lui il prossimo direttore della radio. Ma non è detto che, ancora una volta, lo strappo si ricomponga. Raggiunto al telefono, infatti, Massimo Bordin smorza leggermente i toni: “Domenica (oggi, ndr) sarò regolarmente in onda con Marco Pannella”. Alla domanda se ci sarà o meno un riavvicinamento il direttore è possibilista: “Spero di sì”, risponde.

il Riformista 11.7.10
Pannella-Bordi, è rottura
di Alessandro Calvi

Finalmente si parleranno direttamente. Già, perché, dopo l’annuncio del divorzio, oggi, come ogni domenica, su Radio Radicale va in onda la conversazione settimanale tra il direttore Massimo Bordin, ora dimissionario, e Marco Pannella.
L’attesa è palpabile ed è crescita nutrendosi anche del silenzio del partito, circostanza quanto meno inusuale, trattandosi dei radicali. Ma l’attesa c’è, tanto che lo stesso Pannella ieri garantiva: «Niente scazzi tra di noi». E aggiungeva: «Quella di Massimo è una decisione assolutamente politica. Domani, comunque, abbiamo le due ore di trasmissione, come ogni domenica. Chissà...».
Ecco, appunto: chissà; ma questa volta l’aria che tira non sembra quella di un ripensamento. Nella sua lettera di dimissioni, che scatteranno dal 1° agosto, Bordin aveva spiegato che «da almeno due anni Marco Pannella ha più volte pubblicamente dichiarato che non si sente rappresentato dal modo in cui viene espressa la linea editoriale della radio» e che, dunque «le affermazioni di Pannella non possono che essere intese come una mozione di sfiducia nei miei confronti». All’origine di tutto ci sarebbero anche alcune iniziative di Radio Radicale con Italianieuropei e l’Interprete Internazionale. Quanto al futuro, Bordin in quella stessa lettera uno spiraglio a una collaborazione futura lo lascia aperto quando scrive di aver spiegato all’amministratore di aver «ben volentieri valutato qualsiasi proposta che non riguardasse la direzione». Chiaro, insomma. Pannella, però, ieri è tornato a farsi sentire via agenzie di stampa: «Ognuno fa le sue scelte, la rottura è sua», ha detto. Oggi, forse, una nuova puntata.

il Fatto 11.6.10
Il dittatore relativo
Berlusconi scatenato: “La libertà non è un diritto assoluto. Il bavaglio ce l’hanno i giornali di sinistra”
di Luca Telese

L’uomo si sa, è dotato di fervida fantasia, e nella sua testa si agita una Bicamerale neurale: il cervello del premier è sempre impegnato a cancellare qualche articolo della Costituzione (a quanto pare emenda anche nel sonno). Ieri è arrivata l’ultima perla: “La libertà di stampa non è un diritto assoluto”, Silvio Berlusconi dixit. E così – zac! – è partita una sforbiciata anche all’articolo 21, inutilmente garantista e troppo vincolante per i governati desiderosi di stampa benevola. Il diritto de-costitzionale. Evidentemente hanno ragione Pippo Civati ed Ernesto Ruffini - due giovani leoni della nuova generazione del Pd – secondo cui “è ormai necessario scrivere una manuale di diritto de-costitzionale con tutti gli articoli della Carta ormai rivisitati dal Cavaliere”. L’unico problema, aggiunge ironico Civati“E’chequestolibroditesto andrebbe aggiornato quasi tutti giorni”.
La legge più uguale per me.
Sul primo capitolo, invece, non ci sono dubbi. Andrebbe dedicato all’articolo 3, che il premier ha già riscritto con opportune modifiche parlando dei propri processi: “La legge è uguale per tutti, ma è più uguale per me” (testuale) con una involontaria parafrasi orwelliana. Si dovrebbe poi passare all’articolo 41 già ampiamente riformulato, più o meno così: “Bisogna liberalizzare davvero l’impresa, rimuovendo i limiti imposti dalla Costituzione sovietica del 1946”. In quel testo,“si parla molto di lavoro e quasi mai di impresa – aggiunge il premier – che è citata solo nell’articolo 41. Non è mai citata la parola mercato. Purtroppo una legge ordinaria non basta, bisogna riscrivere la Carta”.
Una Corte bolscevica. Senza parlare del ruolo e della composizione della Corte Costituzionale, anche questo rivisitato: “Oggi, come è noto, la Corte è costituita da una maggioranza di giudici di sinistrachequandodecidonoche una legge non gli va bene la fanno impugnare la abrogano”. Ieri, però, la cattedra di diritto De-costituzionale ha dato il meglio di sè. Per rispondere allo sciopero dei giornalisti, indispettito dal silenzio dei media, Berlusconi ha rovesciato la prospettiva. Non è la legge che vieta di pubblicare le notizie ad essere un bavaglio per la libertà, dice il premier. Ma “la stampa schierata con la sinistra, pregiudizialmente ostile al governo, che disinforma, distorce la realtà e calpesta in modo sistematico – parole del Cavaliere – il diritto sacrosanto della privacy dei cittadini, ad aver imposto il bavaglio alla verità”. Ovvio. Il tutto consegnato a un memorabile discorso destinato ai promotori della Libertà, i legionari berlusconiani che dovranno difendere la democrazia nei giorni della caduta degli Dei. Il presidente affida loro “il compito non facile ma importante di liberare la verità da questo bavaglio”. Per Berlusconi sono “certi giornalisti” che “calpestano il diritto ad un uso sereno del telefono”, “invocando la loro libertà come se fosse un diritto che prescinde dagli altri”. Berlusconi li bacchetta. E qui arriva la perla di dottrina: “In democrazia non esistono diritti assoluti, perchè ciascun diritto incontra il proprio limite negli altri diritti egualmente meritevoli di tutela che, in caso della privacy, sono prioritariamente meritevoli di tutela. Un principio elementare della democrazia ma che la stampa italiana, nella sua maggioranza, ignora”.
Ironia & durezza. E le parole con cui il Guardasigilli Angelino Alfano annunciava al Quirinale “modifiche significative”? Abrogate pure quelle. La prima risposta è arrivata dai finiani di FareFuturo guidati da Filippo Rossi: “la libertà di stampa – si legge sul sito – non è maiabbastanza”edèun“dirittoassoluto” . Dura anche la capogruppo Pd al Senato Anna Finocchiaro: “Il premier attacca la stampa tacciandola di fare disinformazione”. Sarcastico Nichi Vendola: “Berlusconi prova a rovesciare la realtà: lasuaideaèchebisognairrigimentare la stampa per raccontare propagandisticamente l’Italia come il paese della cuccagna”. I diritti Costituzionali saranno pure relativi: le vocazioni anticostituzionali del premier restano, venate di aspirazioni assolutistiche, con buona pace di chi vorrebbe dialogare con lui sulle riforme all’insegna del “male minore”.

il Fatto 11.6.10
L’agognata libertà dei servi
di Furio Colombo

Per quanto i cortigiani siano tra loro diversi e fra loro ostili, la corte è massa e ha il potere di irradiare i propri comportamenti fino agli angoli più lontani della nazione, come il ragno al centro della tela, se si muove, tutto si muove. Il comportamento dei cortigiani, ha scritto Elias Canetti, deve contagiare gli altri sudditi. E ciò che i cortigiani fanno sempre deve indurre gli altri sudditi a fare almeno talvolta altrettanto. La citazione è dal libro La libertà dei servi di Maurizio Viroli (Laterza). Viroli che insegna teoria politica all’università di Princeton scrive all’inizio del testo, uscito adesso in versione italiana, che il libro gli è stato chiesto dall’editore americano per spiegare ai disorientati cittadini del mondo che cosa succede oggi in Italia. La libertà dei servi lo fa con chiarezza pedagogica. Usa il modello della vita di corte, noto anche a chi conosce appena la storia d’Italia, per raccontare un’immagine diversa dalla brutalità della dittatura, ma altrettanto esigente quanto ai comportamenti: o sei dentro o sei fuori. O conti o non conti. O esisti o non esisti. È questo che ha indotto ciò che, un tempo, era l’opposizione a elaborare i tre espedienti per opporsi senza rompere: la "opposizione propositiva"; quella del dire un sì per ogni no (come per farsi perdonare); quella del male minore. Tutte e tre le soluzioni comportano un certo rischio di sguardo irritato del sovrano nella vita di corte. Sempre meglio che essere ignorati per sempre dal principe. E' consigliabile, infatti, mantenere ruolo e visibilità nelle cerimonie, che adesso si svolgono quasi sempre in televisione. Vuol dire confidare nelle buone maniere e decidere che niente è mai troppo per interrompere la vita a corte. C’è sempre un male minore da proteggere per evitare un male peggiore. Dobbiamo presumere che tutto, finora dal “pacchetto sicurezza” che autorizza i sindaci a negare il pasto e il trasporto scolastico ai bambini immigrati, al trattato con la Libia, che permette la caccia e la detenzione senza limiti ai rifugiati politici che cercano asilo in Italia sia un accettabile male minore. E non provo neppure a includere nella lista una serie di atti di collaborazione offerti, certo in buona fede, e sempre celebrati come trionfo della controparte, come la Lega Nord che ha vinto le elezioni regionali vantando il federalismo fiscale votato anche dall’opposizione. O come i ministri Bondi (legge sugli Enti lirici) e Calderoli (legge sugli Enti locali), che hanno potuto dire alla Camera e ripeteranno, appena possibile, nei talk show di cui sono star fisse che questa legge non sarebbe stata possibile senza la leale collaborazione dell’opposizione, che ringraziano. Insieme a tanti italiani, sono stupito che nessuno nel PD, tra coloro che competono per la leadership, abbia mai tentato di confrontarsi con i promotori del male minore, del "è bene dire sempre un sì dopo il no" , della opposizione propositiva, con l’unica denuncia possibile: perdiamo pezzi, approvazione, senso di appartenenza, orgoglio. Si continuano a ripetere fiere espressioni come cambio di passo, colpo di reni, un salto in avanti, noi siamo pronti, per poi disporsi esattamente come prima, anche quando un leader ne caccia un altro. Permangono intatte le decisioni che hanno segnato l’opposizione fino ad ora: affrontare ogni dibattito come se fosse normale il governo, la legge che si discute e le ragioni per cui dobbiamo discuterla. E sempre lavorare duro per migliorare, ove possibile, il provvedimento, che vuol dire (se e quando lo sforzo riesce) che il governo e la sua maggioranza potranno vantarsi per gli errori evitati. E nessuno, mai, a cominciare dalla cronaca del giorno dopo, riconoscerà l’eventuale merito di chi avrebbe, solo e sempre, dovuto opporsi. Perché solo e sempre? Non è eccessivo? Rispondo ricordando che, qualunque forma di confronto umano , dal gioco a scacchi alla partita in campo, conosce un’unica conclusione. Ci sono tante regole di disciplina e di lealtà, ma nessuna prevede di dare una mano a migliorare la strategia dell’avversario. Infatti non esiste un esito per il bene della partita. Quel bene, che è comune (altrimenti ci sarebbero lo scontro fisico e la violenza) prevede che una parte perda e una parte vinca, e non conosce o accetta alcuna altra via d’uscita per arrivare alla fine. Dunque, l’opposizione-proposta, che è una caduta nel vuoto; l’impegno di dire tanti “sì” insieme ai “no”, che è un modo curioso di muoversi con dei pesi aggiunti; la teoria del male minore, che è un’etichetta di buone maniere (non siamo così villani da respingere sempre tutto) non sono che tre modi di arrendersi. Come non vedere che un simile comportamento non lascia alcun segno nell’attenzione e nella memoria dei cittadini, eccetto la delusione e un triste senso di solitudine? Come non vedere lo spazio che separa gli elettori del Pd e si allarga, dopo ogni male minore, dopo ogni costruttiva proposta? Come non accorgersi della solitudine disorientata dentro il Pd?

Repubblica 11.7.10
Moreno, direttore del Paìs: anche in Spagna gruppi che hanno mostrato atteggiamenti simili a quelli di Berlusconi
"La battaglia italiana fondamentale per il futuro di tutte le democrazie"
di Omero Ciai

Il partito del Cavaliere capisce perfettamente che il diritto di essere informati è decisivo e per questo lo riduce
Non sono i giornalisti che hanno diritto di pubblicare o meno, sono i cittadini, i lettori, che hanno diritto di sapere

«FINO A ORA - dice il direttore di El Pais, Javier Moreno, dopo le dichiarazioni di Berlusconi sullo sciopero dei giornalisti contro la legge sulle intercettazioni - pensavo che il premier italiano non comprendesse le basi su cui si sostiene il vivere democratico in Occidente da più di duecento anni a questa parte. Adesso temo che si tratti di altro: non è che non capisce il ruolo della stampa nelle democrazie occidentali, al contrario gli è chiarissimo, e per questo vorrebbe farla finita con una stampa libera nel suo paese. Questo naturalmente alza il livello della nostra preoccupazione. Credo che oggi in Italia si stia discutendo di qualcosa che è centrale per il futuro della democrazia».
C´è qualcosa di simile anche in Spagna?
«Sicuramente la battaglia italiana contro la legge che vorrebbe impedire ai cittadini di conoscere il contenuto di indagini della magistratura è importante anche per noi. Anche qui ci sono gruppi politici, soprattutto a destra, che hanno manifestato nei confronti della libertà di stampa atteggiamenti simili a quelli di Berlusconi».
La protesta in Italia è importante anche per voi?
«Siamo ad un passaggio fondamentale che riguarda anche l´Europa. Il partito di Berlusconi capisce perfettamente che il diritto dei cittadini di essere informati è decisivo e che senza di esso non può funzionare la democrazia e proprio per questo sta cercando di imbavagliarlo e di ridurlo e di controllarlo. Con le solite scuse: la privacy, la responsabilità, eccetera. È quello che hanno sempre cercato di fare tutti i governi autoritari che non hanno fiducia nei cittadini, nelle società aperte e, in ultima analisi, nella democrazia».
Per il premier italiano ci sono giornalisti che «calpestano» il diritto ad un «uso sereno del telefono»...
«I cittadini hanno assolutamente diritto a conversazioni telefoniche segrete, con un limite: quello che impone la legge. In qualsiasi paese solidamente democratico ci sono dei giudici che autorizzano intercettazioni perché esse sono uno strumento indispensabile a prevenire e a perseguire l´illegalità».
E la privacy non è importante?
«L´altra parte della discussione è se i giornali hanno diritto o meno di pubblicare il contenuto delle intercettazioni. Penso che in questo dobbiamo essere chiari: non sono i giornalisti coloro i quali hanno diritto di pubblicare o meno, sono piuttosto i cittadini, i lettori, che hanno diritto di conoscerlo. Sempre e quando questo contenuto sia rilevante per l´opinione pubblica.
Come vi siete comportati come giornale quando le intercettazioni violavano la privacy?
«Abbiamo sempre rispettato un principio: si pubblica solo quello che è importante penalmente. Ma credo comunque che utilizzare la difesa della privacy per impedire la pubblicazione di intercettazioni sia quasi sempre una scusa che si utilizza contro i cittadini e il loro diritto alla verità».

Repubblica 11.7.10
Senza Guerra Fredda sono finiti gli 007
Oggi Mamma Russia e Mamma America annegano insieme nelle acque del capitalismo
di John Le Carrè

Su quale Russia si perdevano mai in fantasticherie queste disilluse e puerili spie allorché giocavano sotto le coperte con i loro marchingegni spionistici ad altissima tecnologia, quando facevano sparire i biglietti dai posti segreti sui quali si erano accordati in precedenza, quando spedivano i loro messaggi miniaturizzati, mentendo su tutta la loro esistenza ad amici, innamorati e vicini di casa?
La grande causa di chi, di che cosa, credevano o almanaccavano di servire questi martiri virtuali rispediti a casa con disonore nelle braccia di Mamma Russia? Nelle loro orecchie sentivano bisbigliare i fantasmi del passato russo o i fantasmi del suo futuro? Forse immaginavano di rendere un servizio alla vecchia, convinta, addormentata Russia che vagheggia ancora il secondo avvento di Stalin? O gli zar del Sacro impero russo, che secondo le profezie torneranno? O è stato piuttosto il sacrilego impero russo celeste a parlar loro, quello che fluttua sopra il cleptocratico Cremlino di Vladimir Putin?
Le spie di una volta avevano i loro bravi motivi. C´era il capitalismo e c´era il comunismo: si poteva scegliere. Sì, è vero, c´erano i soldi e il sesso e i ricatti, ed era necessario voltare le spalle ai propri superiori tradendoli quando si era promossi di grado, e c´era anche quella sensazione di onnipotenza divina, e si giocava a un gioco internazionale, e non mancava neppure tutto quel repertorio di ragioni nobili e ragioni bacate, ma in fin dei conti si spiava per una causa o contro di essa.
Santo cielo! E quale sarebbe la causa per la quale queste spie hanno fatto ciò che hanno fatto? Chi pensavano di proteggere nelle loro distorte e programmate testoline, allorché cercavano e riprovavano, senza esito, ad arrampicarsi lungo la sdrucciolevole pertica della società occidentale? Che cosa c´era più da scegliere, ormai, tra Mamma Russia e Mamma America, due enormi continenti entrambi fuori controllo, che stanno annegando insieme nelle oleose acque del capitalismo? A fare la differenza era davvero solo il nome del salvagente al quale aggrapparsi? Mamma Russia, giusto o sbagliato?
Mi auguro solo che i tanto bersagliati psichiatri moscoviti saranno in grado di sopportare le tensioni alle quali saranno sottoposti quando i loro nuovi pazienti varcheranno a frotte le loro porte: prima i bambini congelati che chiedono aiuto gridando, poi - dopo di loro - i saggi idioti della vasta e caotica spiocrazia di Putin che, immersi nelle loro stesse sorpassate fantasticherie, si sono accollati la responsabilità di reclutare, addestrare e plasmare alcune giovani menti per ridurle a repliche di sé.
E infine, perché accade tutto proprio adesso, dopo che le nostre spie hanno seguito le tracce e intercettato questi incompetenti bimbetti in azione per oltre un decennio? E perché proprio a Vienna? Non sarà che - come stanno già iniziando a insinuare i teorici delle cospirazioni - gli esponenti di destra che si sono infiltrati in innumerevoli agenzie americane d´intelligence (e che da tutto quanto Obama ci ha detto finora risultano essere assolutamente fuori controllo, proprio come le loro controparti russe) hanno deciso di riportare in vita lo spettro della Guerra Fredda nel momento preciso in cui il presidente stava per avvicinarsi un po´ di più alla Russia?
E quindi, sarà questa la causa del teatrale scambio di spie proprio a Vienna? I reazionari di entrambi i versanti, che smaniano dalla voglia di erigere nuovamente la cortina di ferro, stanno forse inscenando per noi qualcosa di strabiliante, di programmato a tavolino? Mentre assistiamo in technicolor al più grande scambio di spie del XXI secolo, e mentre nelle nostre menti risuonano le vibrate note dello zither della colonna sonora di Harry Lime, le spie si aspettano forse che ritorniamo correndo a rinchiuderci nei nostri rifugi dei tempi della Guerra Fredda? È questo l´astuto piano che avevano in mente?
Se è così, beh, le spie di entrambe le parti hanno fatto fiasco ancora una volta. Harry Lime e i suoi poco attraenti amici non stavano facendo spionaggio. Erano soltanto dei criminali spregevoli e di bassa lega che trafficavano in penicillina adulterata con il compito di avvelenare i bambini. A ben pensarci, dopo tutto Vienna non è una scelta così sbagliata.
©David Cornwell Luglio 2010. "La spia che venne dal freddo"
sarà riedito da Penguin il 31 luglio. La Repubblica/Guardian News and Media Limited 2010/Agenzia Letteraria Roberto Santachiara. Traduzione di Anna Bissanti

il Fatto 11.6.10
Tempo pieno senza lieto fine
di Marina Boscaino

Esami di Stato alle battute finali: alla spicciolata notizie di docenti che, nonostante carriera ed età, vengono dichiarati soprannumerari; frutto amaro della politica di “semplificazione” (dicitura beffarda, significa falcidia di posti di lavoro) inaugurata quasi 2 anni fa dal governo. Semplificazione, rassicurante eufemismo che nasconde un'unica realtà: interrompere percorsi, precarizzare esistenze, smantellare un sistema certamente complesso, quello scolastico, che nella complessità ha trovato – in anni passati – la propria forza. Così la superiore, tradizionalmente inerte rispetto al proprio destino, viene risvegliata a forza dal torpore e dalla svogliata e incomprensibile indifferenza alla “riforma” Tremonti-Gelmini-Brunetta. La primaria, come di consueto, invece, non dorme, forte della propria cultura collegiale e della condivisione. La scure di Tremonti si è abbattuta quest'anno sulle prime, che determineranno gli andamenti futuri: senza tempo pieno migliaia di famiglie, 3mila a Milano, 4mila a Roma. Pronta la risposta di insegnanti e genitori, che continuano a protestare. Il taglio degli organici – anche là dove formalmente sono state mantenute le 40 ore – non garantisce l'impatto culturale e politico che ha fatto la storia del TP, dalla l. 820/71 alla l. 148/90: emancipazione femminile, risposte a domanda sociale. Ma non solo. Si è passati dall'assistenza scolastica al diritto allo studio, con una scelta precisa di costruzione di consapevolezza e cittadinanza. La scuola del TP è stata scuola della comunità, ambiente pedagogico a tutto campo, modello organizzativo compatto e coerente, con un'attenzione imprescindibile per la qualità di strutture, laboratori, biblioteche. Accoglienza delle diversità, valorizzazione delle identità, in una proiezione non individualistica, ma da integrare con la forza della conoscenza, dell'istruzione emancipante. Il TP si basa su un concetto o idea-chiave, sul quale si articola la didattica di un intero anno, in tempi distesi e con la collaborazione di voci e strutture differenti: una risposta culturalmente più efficace alla controproducente moltiplicazione dei progetti che prolifera altrove. I “saperi confusi” con cui i bambini arrivano quotidianamente in classe devono essere –oggi più che mai - raffreddati, stemperati, selezionati: il senso del TP è stato quello di aiutarli a trasformare questo enorme materiale in esperienza, mediante sollecitazioni operative, impatto con differenti saperi e linguaggi, in un avvicinamento graduale all'organizzazione delle conoscenze per materia. Il team di insegnanti (ritenuto superfluo e “semplificato”, appunto) ha insistito – con indubbi vantaggi didattici e formativi – su condivisione di responsabilità, senso di appartenenza a quel nucleo di elaborazione comune e di laboratorio sperimentale che la scuola, nelle migliori esperienze, è diventata. Il tempo disteso ha assecondato ritmi di apprendimento e prodotto conoscenza attraverso esperienza, riflessione, metabolizzazione, recupero, potenziamento: no, tutto ciò non può interessare chi ha l’obiettivo di “semplificare”.
La scuola democratica si dedica da 40 anni a concretizzare un progetto che l'Europa ammira e che ha gettato le basi – fra l'altro – di ricche integrazioni tra scuola e territorio, con partecipazione degli Enti Locali (quando non erano, anch'essi, “semplificati”) a forme di progettazione condivisa: concessione di servizi di supporto, ma anche attivazione di risorse educative; non può quindi assistere inerte allo smantellamento di una simile proposta, che ha dato frutti significativi in termini di cittadinanza e di successo formativo. L'orario-spezzatino (un tempo scuola prolungato, ma non inserito in una vera cornice pedagogica) è una surroga formale e affatto inadeguata a questo potente progetto culturale. L'ambiguità tra servizio a domanda individuale e diritto per tutte e per tutti è la conseguenza più evidente del taglio. Ci racconta Piemontese che il direttore dell'USP di Milano, Pupazzoni, sostiene che la proposta di TP impedisce la scelta di chi preferisce il tempo modulare. E conclude: “Chi rinuncia al tempo pieno avrà la certezza di poter inserire il proprio figlio in una classe "white" senza "scassati", tanto quelli hanno bisogno di cure e vanno a finire tutti nelle classi a TP. In questo modo il TP non è destinato a scomparire, ma a diventare un recinto per il controllo sociale, una riserva dove rinchiudere chi non è "normale" e rappresenta una minaccia per la comunità. Chi salirà allora sull'aereo del tempo pieno? Solo Franti e la sua cricca”. Paradossale rovesciamento di prospettiva in un Paese incapace di valorizzare le proprie risorse e rinunciare alla omologante logica buoni-cattivi. Insomma, una potenziale nuova frontiera del ghetto.

il Fatto 11.6.10
Pd e Maroni. Dimmi con chi vai
di Furio Colombo

Caro Colombo, leggo che a Desenzano Del Garda è in corso la festa (è la seconda) del partito democratico. Vedo un elenco di nomi di quasi tutti i leader Pd e un finale a sorpresa: Roberto Maroni. Sarà lui a concludere la festa, il ministro dell’Interno della caccia ai Rom, dei respingimenti in mare, degli eritrei diretti in Italia e detenuti in Libia in condizioni disumane. Sarà lui concludere la festa del maggior partito di opposizione. Un altro milione di voti perduti. O sbaglio?
Arduino

LA DECISIONE di avere il peggiore ministro degli Interni italiano, uno che governa l’Italia a nome, nella visione, e con l’esclusivo programma politico della Lega Nord, è certo una buona ragione di stupore. Come può venire in mente a qualcuno che invitare il leghista Maroni alla festa democratica, porterà via voti da coloro che adesso votano Lega? Maroni, come tutti i ministri leghisti, ha una visibilità e un ascolto continuo. Accoglierlo alla festa Pd vuole dire offrirgli non solo ancora più visibilità ma più simpatia: “Vedi? È così bravo che lo invita anche l’opposizione!”. Mentre Maroni dialogherà amabilmente con Filippo Penati (il leader Pd più vicino alla Lega e più battuto alle elezioni) le motovedette italiane regalate da Maroni alla marina Libica intercetteranno in mare altri disperati in fuga da sanguinose guerre africane. Quanti resteranno nel cimitero del Mediterraneo dopo ogni operazione, organizzata e pagata dall’Italia, ed eseguita senza tanti scrupoli dalla Libia non lo sapremo mai. Come non sapremo mai il destino di coloro che saranno catturati e rinchiusi nei campi libici. E non lo avremmo saputo neppure nello spaventoso caso degli eritrei stipati in una prigione sotterranea, torturati, feriti, privi di ogni ascolto o soccorso, se uno di loro non avesse salvato un telefonino. Maroni potrà assicurare la benevola folla di Desenzano che con una buona perquisizione prima di passare alle maniere forti e alle torture quotidiane, si potranno evitare le spiacevoli notizie dal campo di concentramento di Brak (deserto libico) che hanno disturbato la coscienza di molti italiani. E così, tutti insieme, si potrà far festa felici e contenti sul Lago di Garda. Tutti, meno gli elettori che mancano al Pd, e che non verranno a salutare Maroni.

Repubblica 10.7.10
La grazia della fede e il senso del peccato
di Pietro Citati

La Chiesa non può mai dimenticare di essere un'eccezione: qualcosa che ignora le norme della società e della politica
Il cristiano studia i suoi sentimenti e scruta se in qualche luogo del cuore la menzogna e la ribellione hanno lasciato la loro ombra

Tutti i cattolici osservano da tempo la condizione di inquietudine e d´angoscia, che occupa la mente di Benedetto XVI. Nemmeno Paolo VI, negli anni del terrorismo e della crisi teologica, aveva conosciuto quanto sia arduo e terribile rivolgere agli uomini una parola di quiete.
Non possiamo immaginare nessuna forma di cristianesimo senza la presenza del peccato. Gesù ha liberato gli uomini dalla colpa di Adamo; e ha costruito un´arca, la Chiesa, dove il peccato non dovrebbe penetrare. Eppure né la sua incarnazione, né la sua morte sulla croce, né l´assunzione in cielo hanno abolito la lunga ombra che il peccato lascia cadere sul mondo: esso occupa quasi ogni cuore; sconfigge i desideri e le volontà di bene. È lì, ineliminabile, qualsiasi cosa facciamo. "Il volere è in mio potere, ma compiere il bene no – diceva Paolo - . Sicché non faccio il bene che voglio, ma faccio il male che non voglio. Ma, se faccio il male che non voglio, non sono più io a farlo, ma il peccato che abita in me". Secondo Benedetto XVI, alla fine del ventesimo e al principio del ventunesimo secolo, il regno del peccato si è esteso.
Quasi nessuno prega, varca le porte delle cattedrali, pensa a Dio e a Cristo, rispetta le leggi della Chiesa sulla vita e la morte. La società è profondamente irreligiosa e anticristiana. Se non scorgiamo Satana, come ai tempi di Hitler e di Stalin, migliaia di piccoli Satana frequentano e dominano il mondo. Anche i muri dell´arca sono crollati: il peccato è penetrato nella Chiesa, come rivela la vicenda dei preti pedofili, che ha colpito così profondamente il cuore di Benedetto XVI. Quasi ogni traccia di quel sentimento luminoso e trionfale, che emanava dalle parole di Giovanni Paolo II, sembra scomparso. Nelle parole di Benedetto XVI, c´è soprattutto dolore e amarezza.
Il senso acuto del peccato contribuisce alla ricchezza e alla complessità del Cristianesimo: una complessità che, per esempio l´Islam, che ignora in gran parte il peccato d´Adamo, non possiede. Il cristiano si ascolta: studia i suoi sentimenti, analizza i suoi pensieri, e scruta se, in qualche luogo del cuore, la menzogna e la ribellione hanno lasciato la loro ombra. Non si fa illudere dalle rappresentazioni teatrali del bene. Diffida di qualsiasi forma di ottimismo. Così nascono grandiose esperienze dell´anima, come quelle di Paolo, di Agostino e di Pascal. Ogni volta che il cristianesimo ha cancellato l´idea di peccato, ha rischiato di perdersi: quest´idea può venire abolita solo alla fine dei tempi, quando la Gerusalemme celeste scenderà sulla terra, la Gloria divina bagnerà di luce le sue mura, e "l´albero della vita" tornerà a crescere come nell´Eden.
Mi chiedo se i timori di Benedetto XVI siano giustificati. E´ proprio vero che, da cinquant´anni, viviamo in un´epoca "scristianizzata", nella quale la Chiesa è ignorata e derisa? Forse le folle che un tempo riempivano le chiese sono diminuite: ma quelle folle non leggevano i Vangeli, e vedevano nel Cristianesimo soprattutto una difesa e un baluardo della società civile. Credo che sia vero il contrario. Da secoli, non esisteva nel cristianesimo un nucleo così puro ed ardente come quello di oggi: giovani, e meno giovani, che leggono i Vangeli, li meditano, capiscono come ogni parola pronunciata da Cristo sia ancora viva, scoprono i Padri della Chiesa greci, o latini, o siriaci: pregano, sia pure in solitudine; e cercano di diffondere la testimonianza di Cristo nei paesi dell´Africa. Si tratta, dicono, di una minoranza: ma il cristianesimo, per ciò che importa, è sempre stato una minoranza: non solo nel II o nel III secolo; ma persino nel XIII o nel XVI secolo, quando erigeva trionfali cattedrali a sé stesso. Così il pessimismo di Benedetto XVI e dei suoi collaboratori mi sembra eccessivo. L´Europa non è scristianizzata; e quindi non è necessario arroccarsi in difesa, e costruire mura, torri, fortificazioni, contro i barbari che si raccolgono davanti alle porte delle chiese.
Credo che la coscienza del peccato, che colma il cuore di Benedetto XVI, possa essere pericolosa. La vita cristiana non può che essere dominata dalla gioia: la gioia di esistere, di vivere, di ridere, di vedere, di passeggiare, di pensare, di scorgere le immagini della mente e del mondo: la gioia del presente, che recupera la letizia del passato, e anticipa la felicità del futuro; la gioia dei bambini, che forse riusciranno a conservare fino alla morte la loro condizione infantile. Sappiamo quale sia l´origine di questa gioia. La luce della grazia scende dal cielo e avvolge a poco a poco tutta la terra: rischiara i pensieri e i sentimenti ed ogni angolo abitato o deserto. Sotto forma di fede, questa grazia ritorna nel cielo da dove è discesa: perché la fede non è altro che grazia umanizzata.
Un altro rischio è più sottile. Qualche volta, la chiesa vuole essere approvata dal mondo: pretende che le sue leggi, per esempio sull´aborto o l´eutanasia, diventino leggi civili. E, d´altra parte, il mondo cerca di assorbire la Chiesa, trasformandola in un potente sostegno di sé stesso, o nella parte "virtuosa" di sé stesso. Mentre la Chiesa non può mai dimenticare di essere un´eccezione: qualcosa di originario e straordinario, che ignora le norme della società e della politica. La Chiesa non ha alcun bisogno di essere moderna: anzi non deve essere moderna. Deve restare un residuo dei tempi antichi, o un riflesso o un barlume del cristianesimo degli apostoli e dei padri, in mezzo alla società di oggi. Il suo linguaggio non è razionale: è il paradosso, il balzo oltre la ragione, la rottura delle norme, il verbo dei Vangeli e di Paolo, che hanno portato lo scandalo sulla terra. Spesso dimentichiamo quanto questo scandalo illumini la nostra normale vita quotidiana: molto più delle analisi psicologiche e sociologiche, nelle quali abbiamo tanta fiducia.
Il mondo di oggi non sopporta la condizione dei sacerdoti cattolici: non tollera che essi obbediscano al principio della castità, nel quale vedono una specie di maledizione, perché interrompe il ciclo continuo della vita. Credo, invece, che questa castità sia un segno di elezione: il segno della distanza, della differenza, dell´eccezione, rispetto al resto della vita. Un sacerdote non è, come oggi si dice, un uomo come gli altri: che vive in famiglia, con la moglie e i figli, e obbedisce alle richieste, sia pure benevole, del mondo. Non è il pastore protestante, rappresentato e deriso nei romanzi di Jane Austen. E´ un erede degli antichi eremiti: porta in sé il ricordo di sant´Antonio. Come in Platone, trasforma le forze represse di Eros nel desiderio intellettuale e mistico di Dio, che lo abita senza fine.

Repubblica Roma 11.7.10
I segreti del Vaticano
Residence, cliniche e tv il Vaticano di via Aurelia
di Claudio Rendina

Emblematico di certi immobili è il Grand Hotel Palazzo Carpegna, a fronte della Villa Carpegna, nato negli anni Cinquanta
Si estende alle spalle della Città Leonina sul territorio collinare che si apre da viale Vaticano

Un altro Vaticano si estende alle spalle della Città del Vaticano. E´ proteso sul territorio collinare che si apre dal viale Vaticano alla via Aurelia e alle vie della Madonna del Riposo e di Torre Rossa a fronte della Villa Carpegna, per distendersi lungo le vie di Selva Candida, Boccea e circonvallazione Cornelia fino alla via della Villa Sacchetti. Un complesso edilizio enorme, solo apparentemente rivolto ad una finalità religiosa, perché tutte le case dei religiosi esistenti sono utilizzate proprio come residence per «esercizi spirituali, convegnistica, turismo e accoglienza pellegrini», nonché come alberghi a quattro stelle destinati al turismo legato alla fede, con una ospitalità che vale 40 milioni di presenze l´anno, e ancora come case di cura; tutti luoghi sfruttati per fini assolutamente commerciali.
Tutto inizia dal viale Vaticano a fronte delle Mura Vaticane, sul quale sono dislocati 7 istituti di suore in un susseguirsi di conventi con finalità turistiche, per i quali c´è solo l´imbarazzo della scelta, limitandosi a citare le più singolari. Dal civico 94 con le Piccole Suore della Sacra Famiglia al 73 della Casa per Ferie Villa Rachele e al 54 dell´Istituto Suore del Getsemani. Così di seguito ecco la via Aurelia con altri istituti in un misto di sacro e profano, con quest´ultimo assetto predominante nella finalità alberghiera che li caratterizza. A cominciare dal civico 208 con la Casa Bonus Pastor, all´insegna dell´extraterritorialità, gestita dal Vicariato e decantata in internet come "casa per congressi e pellegrinaggi" e "da considerarsi a tutti gli effetti un ottimo hotel di 3 stelle". Sorge alle spalle del Palazzo del Seminario Romano Minore, costruito sull´area della ex Villa Staderini nello spazio urbano prospiciente il tratto finale del viale Vaticano, con tanto di abuso edilizio attuato in una sopraelevazione.
I residence proseguono al civico 218 con il convento delle suore Orsoline, che è in realtà l´albergo Domus Aurelia, e al civico 269 con il Monastero dei Missionari d´Africa, dichiaratamente votati all´ospitalità dei pellegrini, ovviamente tutti a pagamento. Al civico 275 sorge un´eccezione a certe finalità turistiche, l´Ospedale San Carlo di Nancy, dal 1998 proprietà della Congregazione dei Figli dell´Immacolata Concezione, una delle realtà ospedaliere del Vaticano, inserita nel servizio sanitario regionale. La congregazione è anche proprietaria dell´Idi (Istituto Dermopatico dell´Immacolata), che dista dall´ospedale meno di un chilometro, in via dei Monti di Creta 104.
E a fronte dell´ospedale, al civico 278, apre la Casa di cura E. Morelli, che è una clinica privata all´insegna dell´extraterritorialità, ovviamente a pagamento. L´affianca la Villa Fatima delle Suore Oblate del SS. mo Redentore, presentata in internet come «ambiente sereno ed ospitale con amore fraterno», ma con la precisazione che occorre un « «pagamento in contanti». E ancora la malcelata finalità alberghiera torna al civico 290 nella Casa Generalizia dei Missionari Oblati di Maria Immacolata, al 294 nelle Suore Mariste e al 325 con l´Istituto Piccole Ancelle di Cristo Re. La Casa San Juan de Ribera delle Operaie della Croce al civico 337, con ospitalità a pagamento per i pellegrini, macchia ignobilmente il santuario della Madonna del Riposo, a ridosso del quale sorge con una elegante palazzina.
Ma non finisce qui la gestione alberghiera delle case dei religiosi. Che si diramano dalla via Aurelia nelle strade adiacenti, non nascondendo minimamente le proprie finalità turistico-commerciali. Così i Dehoniani Sacerdoti del Sacro Cuore gestiscono la Villa Aurelia in via Leone XIII 459, ad angolo con piazza Pio XI, al centro di via Gregorio XII, una parallela della via Aurelia: vanta 160 posti letto, sala convegni, parco, terrazza con vista su San Pietro e, naturalmente, cappella privata. Ma emblematico di certi immobili è il Grand Hotel Palazzo Carpegna, a fronte della Villa Carpegna, nato negli anni Cinquanta come casa di accoglienza religiosa all´insegna di Domus Mariae e nel 2002 trasformato in residence a 4 stelle con la gestione di una società, ma nel rispetto della struttura originale, che si esalta in una imponente chiesa a tre navate al suo interno; questa mette l´albergo al sicuro sull´inesistenza di «fini di lucro». Ma i prezzi «a partire da 178 euro» non sono d´impronta mistica.
Questo albergo è d´introduzione all´isola edilizia della Cei, la Conferenza Episcopale Italiana, insediata in via Aurelia 468, mentre uffici e servizi pastorali sono alla circonvallazione Aurelia 50, ambedue al centro del complesso territoriale a fronte del quartiere Aurelio e della zona di Boccea. La Cei ha un suo giornale, "L´Avvenire" e un´agenzia di comunicati all´insegna di Comunicazione e Promozione, che pubblica il periodico mensile "Cei Magazine". Alla Cei risale anche la Federazione Italiana Settimanali Cattolici (Fisc), che è il punto di riferimento di 155 diffusi su gran parte del territorio nazionale. Per iniziativa della Fisc è nata nel 1988 l´agenzia Sir, ovvero il Servizio Informazione Religiosa, insediato nello stesso complesso edilizio della Cei. Nella Cei rientra inoltre l´Ufficio Nazionale per l´Educazione, che sovrintende alle scuole paritarie della Santa Sede, e l´Ufficio Pastorale Assistenza Sociale dell´Ispettorato dei Cappellani delle Carceri, che fa capo al Dipartimento dell´Amministrazione Penitenziale del Dipartimento della Giustizia Minorile dello Stato Italiano, del quale fanno parte 5 cappellani e un ispettore, eletti su proposta dell´autorità ecclesiastica e stipendiati dallo Stato italiano. L´ispettorato cura il periodico "La pastorale del Penitenziario".
Alla Cei fanno capo gli insegnanti di religione nelle scuole statali; vengono designati dal vescovo e assunti dallo Stato italiano in base alla legge 186 del 2003, diventando così dipendenti statali con stato giuridico e trattamento economico equivalente agli altri insegnanti laici della scuola italiana. Dalla Cei dipendono anche gli Assistenti Religiosi Ospedalieri, ecclesiastici assunti come assistenti dalle strutture ospedaliere dello Stato italiano per la cura religiosa dei ricoverati. E nella Cei è insediato a via Aurelia 796 anche l´Istituto Centrale per il Sostentamento del Clero, l´ufficio amministrativo che provvede all´assegnazione dello stipendio di vescovi e sacerdoti.
La Cei detiene inoltre il centro di produzione televisivo nazionale Sat2000, sorto nel 1998, in via Aurelia 796; qui sono la redazione, gli uffici di produzione e gli studi televisivi. Ha peraltro una propria stazione televisiva, in funzione dal 1998 con il nome di Sat 2000, nome riferito al fatto che la trasmissione era esclusivamente via satellite, grazie al canale satellitare preso in affitto dalla Rai alla irrisoria cifra di 1 miliardo e 200 milioni di lire nel 1998. Ad ottobre 2009 il nome è cambiato in TV2000; ed ora la televisione della Cei trasmette 24 ore su 24 tramite diverse tecnologie, ed è visibile in Europa e in parte dell´Africa, dell´Asia e del Medio Oriente gratuitamente sulla piattaforma Sky al canale 801 e sul Satellite Ht Bird2, pacchetto modulante sul trasponder 54, frequenza 11804 Mhz. TV2000 può contare su un ricco apporto di pubblicità commerciale, gestita dalla Sipra, nonché sulle numerose «comunicazioni sociali» delle associazioni umanitarie, qualificate «a fini di lucro». Esemplare lo slogan dal sapore commerciale e spirituale insieme, «TV2000, la tv che ti accende».
Sul versante che dalla via Aurelia volge verso la Villa Sacchetti, a fronte del Parco regionale del Pineto, si sviluppa il complesso universitario e ospedaliero del Vaticano. Che fa capo alla Università Cattolica del Sacro Cuore, sorta su un terreno di 37 ettari acquistato da Pio XI nel 1934 a fronte dell´attuale Parco Regionale del Pineto e inaugurata il 5 novembre 1961 come sede della Facoltà di Medicina e Chirurgia. Ma solo tre anni dopo, il 10 luglio 1964, è iniziata l´attività del Policlinico Agostino Gemelli, che si è affermato come ospedale di alta specializzazione, così da essere inserito nel Servizio Sanitario Nazionale. In prossimità del policlinico sorge la Clinica Columbus, nella via Giuseppe Moscati, toponimo che rievoca l´originaria denominazione della clinica. Che è nata appunto come "Clinica Giuseppe Moscati", frutto delle prime costruzioni romane della vaticana Generale Immobiliare, e oggi appartenente alla Association Columbus, diramazione sommersa dello Ior, come espressione diretta dell´Istituto delle Missionarie del Sacro Cuore di Gesù, fondate da santa Francesca Saverio Cabrini.


il Riformista 11.7.10
Viva Nichi, ma non ci farà vincere
di Peppino Caldarola ex direttore dell’Unità

Scrive Sansonetti, su “Il Riformista” di ieri, che ormai non ci resta che sperare in Nichi Vendola. Ho stima per il governatore pugliese ma ho molti dubbi che sia in grado di organizzare una maggioranza elettorale. Il fatto che possa guidare bene un’opposizione non mi entusiasma. Il problema della sinistra non è imparare a contrastare il vincitore ma saper governare bene. E per farlo bisogna puntare sulla cultura dei “sì” piuttosto che sul cartello dei “no”. In questi anni Vendola ha fatto un’esperienza eccezionale che lo ha cambiato. Oggi siamo di fronte a un leader della sinistra radical che sa misurarsi con i problemi di governo e che riesce ad aggregare attorno a sé un elettorato che va oltre i confini della sinistra. La sua “pugliesità” è la cifra per capire il successo nella sua regione. Di fronte a candidati ingessati, come lo era Fitto nel primo scontro elettorale, o esangui, come lo è stato Rocco Palese qualche mese fa, la passione civile di Nichi ha avuto il sopravvento. Vendola non è un fenomeno mediatico anche se sa usare i media ma è soprattutto un trascinatore di popolo. Dato a Nichi quel che gli appartiene, per l’incoronazione a leader mancano tuttora molti tasselli. E soprattutto uno, che Sansonetti sembra voler ignorare. Da anni, in ogni momento cruciale, la maggioranza del popolo di sinistra si è espresso a favore di soluzioni riformiste. Questo è stato il Veltroni del Lingotto, questo è il Bersani che ha battuto Franceschini. Questo era Prodi. Questo è Vendola?