giovedì 15 luglio 2010

Corriere della Sera 15.7.10
«Dalla crisi non si esce con la via giudiziaria: ora governo di transizione»
D’Alema: patto per la crescita, come negli anni ’90
È evidente anche alla maggioranza che l’attuale equilibrio non regge più. L’esecutivo non ha credibilità
di Maria Teresa Meli

La proposta di D’Alema «Governo di transizione ma con un premier nuovo»
«In questo momento le prospettive appaiono incerte mentre la crisi appare certa».
«La parabola di Berlusconi è finita».

I messaggi. Il leader pd dice di non credere «alla soluzione giudiziaria » . Ma aggiunge: «Qualsiasi considerazione sulle prospettive politiche dovrebbe partire da una preoccupazione vivissima dello stato del Paese». Il premier, dice, lancia solo «futili messaggi di ottimismo».

Il patto. Per l’ex presidente del Consiglio «il problema è che siamo di fronte a una crisi che è anche morale e di credibilità dello Stato». Serve «un patto per la crescita, come negli anni 90».

ROMA — «In questo momento le prospettive appaiono incerte mentre la crisi appare certa». Esordisce così Massimo D’Alema. E la sua non è una battuta: «Io penso che qualsiasi considerazione sulle prospettive politiche dovrebbe prendere le mosse da una preoccupazione vivissima dello stato del Paese. E non mi pare che Berlusconi ne sia consapevole, visto che continua a lanciare futili messaggi di ottimismo». Che fa l’opposizione? Gufa? «Il problema qui non è dividerci tra chi è ottimista e chi è pessimista. Tutti quanti abbiamo speranza nella capacità di questo Paese di riprendersi, ma il problema vero è che noi siamo di fronte a una grande crisi che non è solo economica. C’è anche una crisi morale, di credibilità dello Stato, di fronte alla quale non c’è nessuna risposta, perché c’è un vuoto di leadership politica impressionante. Berlusconi prova a trovare una via d’uscita cercando di costruire un equilibrio politico che lo tuteli di più, e perciò si lancia nel tentativo abbastanza maldestro di riassorbire nella maggioranza Casini. Ma la questione vera non è come puntellare l’attuale equilibrio, è come uscirne».
E come se ne esce secondo lei, onorevole D’Alema?
«Bisogna prendere atto che la lunga fase della parabola berlusconiana è finita. Nell’ultimo decennio lui è stato il principale arbitro della vita pubblica e ha governato per circa otto anni. Il risultato complessivo di questa esperienza è estremamente negativo. Non credo che l’anno prossimo Berlusconi possa andare all’assemblea della Confindustria e dire che vuole ridurre le tasse, semplificare la pubblica amministrazione, modernizzare il Paese ed essere di nuovo applaudito. Infatti è successo il contrario. La pressione fiscale è aumentata. L’inefficienza e la corruzione della pubblica amministrazione sono cresciute con fenomeni patologici che ricordano per dimensione e gravità la situazione dell’Italia all’inizio degli anni Novanta. Il Pil del 2009 è fermo: è uguale al Pil del 2000, mentre la spesa pubblica è cresciuta di 6 punti. Insomma, un disastro, è difficile usare una espressione diversa».
Lei dipinge un quadro a tinte assai fosche...
«Siamo di fronte a un bilancio fallimentare, il che pone il Paese in una condizione d’emergenza. E una classe dirigente degna di questo nome dovrebbe dire: fermiamoci un momentino, altrimenti l’Italia va a rotoli, e cerchiamo dei rimedi. Naturalmente questo è un discorso che si rivolge a tutte le forze politiche. Nel senso che, secondo me, non ci sono scorciatoie: non si esce da una crisi di questo tipo attraverso una soluzione giudiziaria, come può immaginare una certa parte dell’opposizione, o attraverso una campagna moralista e giustizialista. Io voglio che si faccia giustizia e penso che le persone che sono gravemente indiziate o sotto processo si debbano dimettere. A questo proposito ritengo un fatto positivo che si siano ottenute le dimissioni di Cosentino, dopo le dimissioni di Brancher e dopo quelle di Scajola. Ma proprio questa sfilata di dimissioni dimostra che siamo di fronte a un problema più profondo. La portata della crisi richiede un salto di qualità politico ed escludo che possa farlo Berlusconi, perché non credo che abbia la capacità del barone d i Münchausen che si sollevava da solo. Penso che questa riflessione la si stia facendo anche all’interno del Pdl».
Onorevole D’Alema, lei sembra ipotizzare una crisi di governo neanche troppo lontana nel tempo. A quel punto le soluzioni potrebbero essere diverse. Elezioni anticipate o un governo che guidi la transizione.
«La prospettiva delle elezioni obiettivamente c’è. Ma io sono d’accordo con la lettera che vi ha mandato Macaluso: ritengo che tornare a votare con l’attuale legge elettorale, per una sorta di referendum su Berlusconi sì, Berlusconi no, non sarebbe utile. C’è bisogno di un momento di responsabilità in cui si affrontino i problemi del Paese con coraggio. Abbiamo bisogno di un nuovo patto sociale. Come negli anni Novanta ci fu un patto per il risanamento, oggi abbiamo bisogno di un patto per la crescita. Tutto ciò l’attuale governo non è in grado di farlo, al di là di ogni valutazione, perché non ha credibilità».
Il leader dell’Udc Pier Ferdinando Casini in un’intervista al «Corriere della Sera» ha proposto una soluzione diversa da quella delle elezioni anticipate: lui pensa piuttosto all’opportunità di dare vita a un governo delle larghe intese.
«Se si tratta di un’operazione di ceto politico intorno a Berlusconi non serve assolutamente a nulla. Ha un senso, viceversa, se è un appello alla responsabilità per aprire una fase nuova attraverso un governo di transizione, di larghe intese,
o come vogliamo chiamarlo. Ovviamente, in una democrazia bipolare questa non può che essere una soluzione temporanea, legata a obiettivi precisi, ivi compresa la riforma della legge elettorale, che produce un bipolarismo fondato su una personalizzazione distorta della politica. E come la realizzazione di un compromesso ragionevole tra nord e sud in materia di federalismo, per evitare che questo diventi il tema di uno scontro lacerante per il Paese. Si tratta di un discorso che ha una logica e credo proprio che il maggior partito di opposizione sarebbe pronto a riconoscere la logica di un ragionamento di questo tipo».
Per la verità Pier Ferdinando Casini dice anche che il Pd è pronto a fare un governo guidato da Giulio Tremonti.
«Mi sembra una interpretazione un po’ sbrigativa e credo che tutte queste chiacchiere sui nomi servano solo ad ostacolare i processi politici».
Ma non crede di esagerare le difficoltà del momento? Quella di questi giorni potrebbe anche essere una crisi passeggera e Berlusconi potrebbe continuare a governare fino alla fine della legislatura.
«È evidente anche agli esponenti della maggioranza che l’attuale equilibrio non regge più, gli elementi di scollamento sono troppi».
Ma chi potrebbe mai essere la personalità che riesce a mettere insieme forze politiche tanto diverse?
«Questa è una decisione che spetta, come lei sa, al presidente della Repubblica».
E perché mai il Pdl dovrebbe scaricare Silvio Berlusconi per metter su un governo di transizione con le forze dell’opposizione?
«È chiaro che se questo discorso non troverà un ascolto nell’ambito della maggioranza è probabile che si arriverà alle elezioni anticipate, perché ormai la situazione non è più sostenibile. Però se dentro il Pdl ci sono persone preoccupate del destino del Paese e non soltanto cortigiani — e io non credo che ci siano esclusivamente cortigiani perché comunque è una grande forza politica che ha avuto il voto di tanti milioni di italiani — questa prospettiva è attuabile. Insomma, il Pdl deve dimostrare se è un partito o una sorta di sultanato. I partiti nelle democrazie moderne hanno la capacità di guardare agli interessi del Paese anche al di là del destino delle leadership, che possono anche cambiare. Per loro questa è una prova importante».

Corriere della Sera 15.7.10
Squitieri: quando nel ’68 uccidemmo i nostri padri

ROMA— «In Italia abbiamo ucciso la figura paterna nel ’68», ha detto Pasquale Squitieri parlando del suo nuovo film, Father, con Claudia Cardinale, Franco Nero e Andrea Fachinetti, figlio 22enne di Ornella Muti. «E quando uccidi il padre — ha proseguito il regista— uccidi l’autorità dello Stato, quella religiosa, militare, tutto quello che la struttura protegge come comunità. Ora li vediamo i risultati, ogni giorno ancora parliamo, in un modo o nell’altro, di Mussolini che è stato un padre». Squitieri inizierà a girare il 26 luglio, a Philadelphia, poi in Italia. Father, ha spiegato, è una storia sulla falsa ideologia rappresentata da un padre emigrante apparentemente senza macchia. «La falsa ideologia ci porta fuori strada e ci fa comportare da criminali in tante circostanze. L’assassino è dentro ognuno di noi».

l’Unità 15.7.10
Gheddafi aveva assicurato: li libereremo. Ma gli eritrei respinti dall’Italia sono ancora lì
La Ue: con la Libia parleremo di diritti umani. Si punta a superare l’accordo con l’Italia
«Siamo profughi, aiutateci»
Messaggio disperato da Brak
di Umberto De Giovannangeli

Frattini aveva esultato: grazie all’Italia i 250 eritrei segregati nel lager di Brak sono tornati liberi. Tre giorni dopo, la drammatica testimonianza di uno di loro: siamo ancora qui, in balia dei militari...
Hein, del Cir: «Bene l’indagine di Tripoli. Ma non si rinvii la liberazione»

Per Maroni il caso non è mai esistito. Per Frattini, il caso è stato brillantemente risolto grazie alla mediazione italiana e all’amicizia che lega il Cavaliere e il Colonnello. La realtà è un’altra. Questa: «Siamo stati fotografati e abbiamo riempito i formulari che ci hanno imposto le autorità libiche. Abbiamo sentito che saremo liberati ma non sappiamo quando e non sappiamo come, non sappiamo se davvero ci daranno un lavoro ma nulla viene fatto seguendo il nostro volere, tutto è imposto con la forza. nel campo ci sono solo militari e nessuna autorità che ci dia informazioni». È la testimonianza di Daniel, uno dei 250 rifugiati eritrei ancora prigionieri del governo libico nel campo di Brak, raggiunto telefonicamente ieri mattina da CNRmedia.
SOFFERENZA CONTINUA
«Acqua e cibo sono molto scarsi prosegue Daniel so che stanno preparando dei documenti per noi. Molti avevano provato a raggiungere l’Italia l’anno scorso, ma sono stati respinti e rimandati in Libia. Abbiamo bisogno di protezione internazionale che tuteli i nostri diritti. Non cerchiamo un lavoro, non siamo immigrati in cerca di lavoro, siamo rifugiati politici e chiediamo che sia riconosciuto il nostro status, chiediamo protezione internazionale, chiediamo di essere riconosciuti e rispettati come profughi che chiedono asilo, non come gente obbligata a lavorare qui per tre anni. Nessuno ci ha fatto visita, non abbiamo visto assistenza medica, acqua e cibo sono scarsi, chiediamo solo di essere rispettati».
GIALLO LIBERAZIONE
«Non ci risulta che qualcuno sia stato liberato dal campo di Brak. Non sappiamo quando avverrà, come non sappiamo quali siano le modalità di attuazione dell’accordo annunciato anche dal governo italiano mercoledì scorso», ha denunciato l’altro ieri il direttore del Consiglio Italiano per i Rifugiati (Cir) Christopher Hein. «Non sappiamo nemmeno ha aggiunto le modalità di identificazione delle persone, e questo è molto importante. Sappiamo che Gheddafi ha chiesto un’indagine su tutta la vicenda, ma in Libia quando si fa un’indagine si blocca tutto. Ben venga l’impegno di Gheddafi ma se questo significa che la situazione di queste persone rimane invariata e che qualsiasi soluzione viene rimandata alle calende greche, allora questo non va bene».
Un rapporto difficile ma necessario: così la commissaria Ue per gli Affari interni, Cecilia Malmstrom, ha definito ieri lo stato delle relazioni tra la Libia e l’Ue. «Abbiamo mosso i primi passi» per far progredire le relazioni tra Bruxelles e Tripoli, ha affermato la commissaria ribadendo la sua disponibilità, se ce ne saranno le condizioni, a discutere con la controparte libica di argomenti sensibili come la salvaguardia dei diritti umani e la lotta all’immigrazione clandestina. Per Malmstrom che oggi incontrerà a Bruxelles l’Alto commissario Onu per i rifugiati Antonio Guterres occorre comunque puntare alla definizione di accordi multilaterali con la Libia andando così oltre quelli bilaterali Roma-Tripoli. Puntando sull’accertamento della verità. E lo smascheramento delle bugie. L’altro ieri il ministro degli Esteri libico, Moussa Koussa, aveva confermato alla commissaria Ue agli affari interni, Cecilia Malmstrom, incontrata a Bruxelles, l’intenzione di liberare i 250 eritrei detenuti nei campi libici. «Il ministro ha detto che hanno intenzione di farlo», aveva riferito all’Ansa una fonte presente all’incontro. Sono passati tre giorni. E di questa asserita liberazione non c’è traccia. Lo sa Frattini? E cosa ne pensa? E che cosa ne è della «preziosa mediazione» italiana? La farsa continua...

l’Unità 15.7.10
Una vergogna. L’Italia li accolga subito e cessi i respingimenti
Profughi torturati e imprigionati. Il governo è complice Il ministro Maroni conferma di averli consegnati a Gheddafi in modo indiscriminato, senza rispettare le nostre leggi
di Rita Borsellino

Li hanno rinchiusi e torturati nelle carceri. Poi, dopo la mobilitazione internazionale innescata dall’impegno di giornalisti e organizzazioni umanitarie, hanno deciso di condannarli ai lavori forzati, senza riconoscimento del loro status di rifugiati. È la sorte toccata ai circa 400 migranti eritrei rinchiusi nel centro di detenzione di Brak, in Libia. Una sorte di cui l’Italia porta senza dubbio l’onta della complicità, a dispetto di quanto detto in questi giorni dal Governo.
L’Italia, purtroppo, è complice, perché da due anni ha deciso di applicare respingimenti in mare nei confronti dei migranti. È complice, perché questi respingimenti vengono fatti in direzione della Libia, dove vige un regime militare e dove i diritti umani continuano a essere violati. Tripoli non ha mai ratificato la Convenzione di Ginevra. Eppure, il Governo non ha avuto dubbi nel consegnare in maniera indiscriminata al colonnello Gheddafi migliaia di vite umane, siano pure bambini e profughi. Prova ne sia ciò che ha detto il ministro Maroni a proposito della situazione dei detenuti di Brak: «Non è dimostrato che queste persone siano tra gli 850 migranti respinti dall’Italia verso la Libia». Senza accorgersene, il ministro ha confermato quello che, dal Parlamento di Strasburgo, io e Patrizia Toia abbiamo denunciato alla Commissione europea: l’Italia ha applicato i respingimenti senza neppure curarsi dell’eventuale status di rifugiato di chi ha respinto. Non si tratta di una premura umanitaria, ma del rispetto delle leggi italiane ed europee, oltre che della Convenzione di Ginevra.
Il ministro Maroni, poi, afferma a cuor leggero che, in questa vicenda, le responsabilità sono dell’Unione europea, che ha mostrato «un atteggiamento di disinteresse incredibile e singolare». Ma è stato proprio il Consiglio d’Europa, dopo una mobilitazione partita dal gruppo dei Democratici a chiarire che l’Italia ha «il dovere di vigilare sul rispetto dei diritti umani», invitando il nostro governo, fino ad allora immobile, a muoversi per risolvere diplomaticamente il caso dei profughi di Brak.
La soluzione è arrivata, ma è stata una beffa: i migranti eritrei hanno ottenuto la libertà, ma a patto di svolgere «lavori socialmente utili» sotto la sorveglianza dei militari libici. In pratica, lavori forzati. Inoltre, sottoscrivendo questo accordo, i 400 profughi diventano dei «migranti economici», e rischiano di perdere la possibilità di ottenere, anche da parte dell’Unchr, lo status di profughi.
Anche di questo l’Italia è complice. Per levarsi di dosso l’onta, il Governo accolga gli eritrei detenuti a Brak. E sospenda, ci auguriamo immediatamente, i respingimenti in Libia.

l’Unità 15.7.10
Lo stalking e la psichiatria
risponde Luigi Cancrini
Nove donne uccise in 15 giorni e nessun esponente di questo governo che dica una sola parola. Quando a compiere il “femminicidio” sono dei “bravi ragazzi nostrani” tutto diventa “normale”. Grazie comunque per lo spazio e gli approfondimenti che dedicate a questi eventi sconfortanti.
RISPOSTA L’ondata di delitti degli ultimi mesi ci interroga tutti sull’efficacia pratica della nuova legge: i casi più gravi di stalking sono difficilmente controllabili, infatti, con l’ammonimento del questore (art. 8) o con il divieto di avvicinamento del giudice (art. 9) semplicemente perché il persecutore omicida (e poi spesso suicida) è persona affetta da una grave patologia psichiatrica che attribuisce all’ammonimento e al divieto un significato in linea con il suo vissuto delirante. Quello che servirebbe in questi casi è l’intervento dei servizi specialistici cui il questore e il magistrato dovrebbero poter ricorrere già nel momento della segnalazione. Scrive Michela Marzano su Repubblica che lo stalking non è un problema psichiatrico. L’esperienza clinica dimostra tuttavia che non è così, che la violenza famigliare e di genere può essere prevenuta curando, come ben dimostrato dal caso di Angelo (Corriere della Sera on line di ieri). Liberandosi dal pregiudizio sulla psichiatria violenta e cattiva e rendendo possibile l’accesso di chi sta male al percorso psicoterapeutico di cui ha bisogno.

l’Unità 15.7.10
Comitato “10 luglio antirazzista”
Una giornata contro i CIE
Da sempre nei Cie – ieri Cpt soprusi, pestaggi, cure negate, sedativi nel cibo sono pane quotidiano. Le lotte degli immigrati rinchiusi nei Cie hanno segnato l’ultimo decennio. Una lunga resistenza, spesso disperata, fatta di braccia tagliate, bocche cucite, lamette o pile ingoiate. Qualcuno ha preferito la morte alla deportazione e l’ha fatta finita. In tanti si sono ribellati, bruciando materassi, distruggendo suppellettili, salendo sul tetto. Un po’ ovunque ci sono stati tentativi di fuga. Chi arriva in Italia ha negli occhi il deserto, le galere libiche, il mare, i pescherecci che passano senza fermarsi, i militari che vanno a caccia di uomini. Hanno negli occhi il ricordo dei tanti lasciati per strada, morti senza tomba né umana pietà. Pochi di loro fanno “fortuna”: per i più c’è lavoro nero, salari infimi, paura, discriminazione. Chi viene pescato senza carte in regola finisce nei Cie e di lì via, indietro, ancora verso l’inferno. Un gruppo di antirazzisti torinesi ha lanciato l’idea di costruire un’iniziativa contro i Cie, che sapesse raccogliere un consenso ampio, portando davanti alle mura del lager di corso Brunelleschi tanta gente che forse non c’era mai stata. Nonostante il caldo infernale circa un migliaio di persone ha dato vita al corteo di sabato 10 luglio. Partito da piazza Sabotino, nel cuore del popolare quartiere S. Paolo, è cresciuto durante il percorso. Numerose le soste per informare, parlare con il quartiere, raccontare le storie dei prigionieri di corso Brunelleschi. In corso Peschiera si è sostato a lungo davanti alla ex clinica S. Paolo, occupata da profughi e rifugiati del corno d’Africa, parte dei quali ancora resistono nell’area detta “casa bianca”. Poi giù per le strade del quartiere, con soste al mercato ed ai principali incroci. Lo striscione di apertura aveva la scritta “Torino è antirazzista”. La Torino Samba Band ha accompagnato la giornata attirando l’attenzione dei numerosi passanti. Oltre alle tante facce del movimento antirazzista torinese, c’era tanta, tanta gente venuta a sostenere quanto scritto sull’altro striscione di testa “Chiudere i CIE subito!”. Buona la presenza di immigrati dei collettivi e comitati antirazzisti che hanno contribuito a costruire la giornata.

l’Unità 15.7.10
Fabbrica Italia guarda al passato
Sorvegliare e punire chi dissente

Licenziamenti e sanzioni contro i lavoratori, Marchionne alza la tensione sociale e il livello dello scontro mentre prepara la divisione tra Fiat Auto e il resto del gruppo. Ci sono sorprese in arrivo?
di Rinaldo Gianola

L’impiegato Capozzi di Mirafiori, gli operai Barozzino, Lamorte e Pignatelli di Melfi sono le prime vittime della nuova governance della Fiat. Chi pensava che dopo il risultato favorevole, ma certo non plebiscitario, a Pomigliano d’Arco la Fiat potesse aprire una nuova stagione di confronto e collaborazione con i sindacati, tutti i sindacati, e i suoi dipendenti, deve ora riflettere sulle perplessità e le critiche che alcuni, in particolare la Fiom Cgil ma anche diversi osservatori indipendenti, avevano espresso sulle condizioni imposte dal Lingotto per avviare la produzione della Nuova Panda nello stabilimento campano. Le deroghe al contratto di lavoro e all’esercizio del diritto costituzionale allo sciopero, evidenti nel patto di Pomigliano, sono il modello che, nella visione di Sergio Marchionne, dovrà essere implementato in “Fabbrica Italia“, il progetto che con tanta enfasi, e con tante incertezze, è stato lanciato ad aprile per ribadire le radici e la presenza industriale della Fiat in Italia. Ma c’è di più.
L’invito di Marchionne alla cooperazione, all’abbraccio collettivo, le lettere grondanti retorica sul passaggio storico da affrontare insieme,azionisti, manager e lavoratori, sono aria fritta. propaganda a buon mercato, di fronte a licenziamenti punitivi, ad un’azione sistematica che punta esclusivamente al pieno controllo delle fabbriche, anche a costo di alzare la tensione sociale, di irrigidire le posizioni e di scontentare persino i sindacati che avevano firmato di buon grado il diktat di Pomigliano. L’appello paternalista di Marchionne ha un sapore stantio, è roba vecchia, evoca le lettere di alcuni suoi predecessori quando scrivevano alle mogli dei dipendenti della Magneti Marelli implorando comprensione e solidarietà davanti ai prezzi insostenibili pagati dai mariti-operai. “Fabbrica Italia” può raggiungere i suoi ambiziosi obiettivi di produttività ed efficienza se i vertici dell’azienda considerano i lavoratori non solo un fattore di produzione da comprimere e spremere, ma come un soggetto responsabile, portatore di diritti e che merita dignità e rispetto.
Attorno alla Fiat, invece, tira un’aria brutta. Il licenziamento di Capozzi, delegato della Fiom e aderente al pd, perchè ha usato la mail aziendale per diffondere un volantino sindacale, richiama una lontana stagione quando gli operai iscritti alla Cgil o che portavano in tasca l’Unita venivano spediti nei reparti confino, all’Officina Sussidiaria Ricambi soprannominata Officina Stella Rossa dai lavoratori colpiti. Fa tornare alla mente i brutti momenti dello spionaggio e delle schedature dei dipendenti Fiat. E le sanzioni contro i tre operai di Melfi, perchè hanno bloccato un carrello robotizzato durante una protesta contro gli eccessivi carichi di lavoro, sono un segnale allarmante: anche nella fabbrica-modello, anche nel “prato verde” lucano dove la Fiat si era illusa di superare il conflitto capitale-lavoro, anche qui Marchionne ha bisogno delle punizioni per esercitare e affermare il suo comando. È così, con questi sistemi, che la Fiat vuole realizzare “Fabbrica Italia”? Oppure Marchionne sta alzando volontariamente la tensione, il livello dello scontro perchè il suo progetto non regge se non c’è l’adesione totale di sindacati e lavoratori, se non viene importato e applicato il “modello polacco”, se non trionfa il suo pensiero unico? O, ancora, c’è qualche cosa di nuovo e sconosciuto che bolle in pentola a Torino dove la prossima settimana sarà varata la divisione tra la Fiat Auto e tutto il resto del gruppo? Ci saranno ricadute industriali e occupazionali finora non previste e non comunicate?
Qualche sospetto emerge, soprattutto dopo che ieri la Fiat ha fatto il muso duro non solo con la Fiom, ma anche con i sindacati buoni che avevano accettato senza obiezioni l’”accordo” di Pomigliano. La Fiat ha negato il premio di risultato che dovrebbe essere pagato a fine luglio, e oggi scatterà lo sciopero di Fim, Uilm e Fismic. Agli azionisti Marchionne ha concesso il dividendo per ripagarli dei loro “sacrifici”, per i lavoratori non è rimasto niente, devono solo accettare le condizioni di “Fabbrica Italia” e stare zitti.
In questa situazione fa una certa impressione leggere sui giornali confindustriali ritratti di Marchionne, al limite dell’agiografia, che certo non fanno bene al giornalismo, in lotta contro bavagli di varia natura. Domenica scorsa sul Corriere della Sera l’amministratore delegato della Fiat veniva così descritto: «È inarrivabile. E proprio questo è il suo problema...Marchionne lavora anche 20 ore al giorno. dorme pochissimo, mangia quando capita, fuma almeno due pacchetti di sigarette al giorno e nonostante questo ha un’energia e una capacità di concentrazione che lascia ancora basiti i suoi collaboratori». È vero, c’è proprio da restare basiti

l’Unità 15.7.10
Intervista a Rossana Dettori
«Non ci arrendiamo»
La scuola e i pubblici di nuovo in piazza
La segretaria della Fp Cgil: Finanziaria punitiva per i cittadini, che avranno sempre meno servizi E in autunno si rischia un’altra «correzione»
di Laura Matteucci

Non siamo alla fine della mobilitazione, quello di oggi è un passaggio. Non ci rassegnamo ad una manovra inqua, che è solo punitiva per chi vive di salario e di pensione, pone ancora una volta un problema di democrazia, visto che il governo l’ha blindata con la fiducia e oltretutto, in assenza di misure a favore della crescita, necessiterà di un’altra correzione in autunno». Cgil, Fp e Flc oggi di nuovo in piazza: i lavoratori della funzione pubblica, della scuola e dell’università, dipendenti e precari, saranno davanti al Senato per ricordare che con loro sono i «comuni» cittadini a pagare di più, in termini di riduzione dei servizi, aumento dei «contributi» locali, mortificazione della scuola. Il personale scolastico protesta contro i tagli (8 mld in tre anni), che si assommano a quelli degli anni scorsi: aumentano le condizioni di precarietà per i lavoratori e anche per le istituzioni. In piazza anche il leader Cgil Guglielmo Epifani: «Sulla previdenza l’intervento ha il solo obiettivo di fare cassa: non è una riforma e non risponde a principi di equità intergenerazionale». Di tutto questo parla parla Rossana Dettori, segretaria generale della Fp Cgil. Tra emendamenti, refusi e tentativi di colpi di mano, la manovra ultima versione non presenta alcun miglioramento?
«Semmai è peggiorata. Prendiamo le pensioni: non solo per le donne c’è un salto obbligato di 5 anni, ma per tutti adesso si parla di riscatto oneroso, ovvero costerà molto mettere insieme anni da lavoratore privato e pubblico. In più è stato introdotto il meccanismo della legge Brunetta sul salario legato alla produttività, che quindi per molti viene congelato. Una norma che si aggiunge al blocco per tre anni dei rinnovi contrattuali nazionali, e che investe anche la contrattazione integrativa, l’unico strumento per intervenire su salute e sicurezza, ma anche su questioni che riguardano il rapporto con i cittadini, a partire dall’orario di lavoro. E poi, c’è la partita occupazione».
Un’altra scure.
«Esatto. Oltre al blocco del turn-over, abbiamo l’enorme problema, sia noi sia la scuola, della riduzione del 50% dei precari. Già inziata, peraltro: all’Inpdap 30 lavoratori a tempo determinato sono già usciti. Ne abbiamo altri 45mila, più 60mila precari a vario titolo: che ne sarà di loro?».
Sulle pensioni il governo dice di essere messo alle strette dalla Ue. «Come no. Sulle quote latte c’è un contenzioso aperto da 12 anni con la Ue, sulle pensioni hanno colto l’occasione per fare cassa. Bruxelles vuole che alle donne venga garantita parità di salario e di possibilità di carriera, ma di tutto questo il governo non fa parola. Anzi. Con i tagli alle Regioni e agli Enti locali, mette a rischio i servizi agli anziani, ai bambini, ai disabili. E chi se ne dovrà fare carico?».

Repubblica 15.7.10
Guerra di religione in Nigeria: 8 morti
Scontri fra musulmani e cristiani per la costruzione di una moschea
Nell´area da mesi ci sono tensioni che hanno provocato oltre 1200 vittime nel distretto di Jos
di Daniele Mastrogiacomo

In Nigeria basta poco, un gesto, un´iniziativa, magari la bravata di quattro ragazzotti perché la tensione religiosa si riaccenda, le ritorsioni si trasformino in scontri e alla fine degenerino in stragi. E´ accaduto a gennaio, marzo ed aprile sul grande Plateau centrale dello stato africano: e poi di nuovo ieri. Nei mesi scorsi ci sono stati 1200 morti dentro e attorno alla città di Jos, capoluogo di confine tra il nord musulmano e il sud cristiano. Ieri al termine di una serie di scontri, controllati a fatica dalla polizia e dalla forze speciali, a terra sono rimasti 8 morti e 40 feriti.
Accade nella città di Wukari, nello stato di Taraba, ovest della Nigeria, uno dei 36 che compongono il paese. Da alcuni giorni si lavora attorno alla costruzione di una moschea che deve sorgere all´interno di un terreno di un commissariato di polizia. Wukari è a maggioranza cristiana, ma confina con il Plateau dove c´è una folta presenza musulmana. La convivenza tra le due religioni non è facile. C´è sempre qualcuno che soffia sul fuoco. Perché dietro i contrasti spirituali e teologici c´è una storia di miserie, di terreni fertili assegnati ad una comunità che vengono rivendicati dall´altra, di lavori sottratti e ridistribuiti a clan diversi. Di emigrazioni dalle regioni aride dell´ovest, a maggioranza musulmana, verso l´est più florido, cristiano e animista.
Il progetto della nuova moschea non piace alla comunità cristiana. Un gruppo di giovani protesta, si lamenta, minaccia. Passa alle vie di fatto: armato di vanghe, picconi e martelli entra nel recinto del commissariato e distrugge la parte della moschea ancora in costruzione. Si è sparsa la voce e per ritorsione un folto gruppo di musulmani si accanisce sulla prima chiesa che trova sulla strada. Si mobilitano i cristiani, i due gruppi si affrontano e basta poco per provocare una guerriglia in cui si sfogano vecchi rancori, rabbia e insofferenza.
Sei moschee sono state assaltate, auto danneggiate e incendiate, assieme a piccoli negozi, case, posti di blocco improvvisati con falò di copertoni e di immondizia. E´ dovuta intervenire la polizia che non si è fatta scrupoli e ha aperto il fuoco contro i due gruppi di contendenti. La reazione dei cristiani e dei musulmani è stata ancora più violenta. Per ore la città di Wukari è stata messa a ferro e fuoco. La polizia ha sparato ad altezza d´uomo. Ha ucciso e ferito. Di fronte agli otto morti, ai 40 raggiunti da proiettili, sassi, bastonate e riversi a terra, la folla si è sciolta e si è rintanata a casa. «La polizia di pronto intervento e i soldati», conferma alla Reuters un testimone che vuole restare anonimo, «ha circondato la zona degli scontri e ha iniziato a sparare a raffica. Quattro persone sono morte in quel momento». Alla fine la polizia è riuscita a riportare la calma. «La situazione ormai è sotto controllo», sosteneva nel pomeriggio il capo della polizia di Taraba, Aliyu Musa, «la zona è presidiata da nuovi rinforzi di soldati».
Gli scontri hanno allarmato le due massime autorità religiose del paese. Il sultano Muhammad Saad Abubakar ha esortato «musulmani e cristiani a lavorare per l´armonia e la tolleranza tra le religioni». L´arcivescovo di Abuja, John Onaiyekan, ritiene che le violenze non siano legate a motivi religiosi. «C´è qualcuno che abilmente soffia sul malcontento. La moschea è solo un pretesto. Credo che gli obiettivi siano altri, legati a lotte di potere locali».

Repubblica 15.7.10
Argentina
È il primo paese latino-americano a discutere la legge che concede agli omosessuali gli stessi diritti delle altre coppie Ma il clero chiama a raccolta i fedeli. In piazza a gridare: "I bimbi hanno bisogno di un babbo e di una mamma"
È lite fra Chiesa e governo per il sì ai matrimoni gay
La "presidenta" Cristina Kirchner "Sembra che siamo tornati all´epoca dell´Inquisizione"
di Omero Ciai

Chiesa e governo sul punto di rottura in Argentina per una legge - già approvata dalla Camera e in discussione al Senato - che consente il matrimonio civile tra omosessuali. L´altra sera almeno cinquantamila persone convocate dall´arcivescovo di Buenos Aires, Jorge Bergoglio, si sono date appuntamento nella piazza del Congresso con lo slogan: «I bambini hanno bisogno di un babbo e di una mamma». Il progetto di legge che concede alle coppie gay gli stessi diritti di quelle eterosessuali - compresa la possibilità di adottare bambini - ha superato il primo scoglio lo scorso 5 maggio quando è stata approvata dalla Camera ma ora la battaglia al Senato si annuncia molto più serrata nonostante il forte appoggio che ha dato alla legge la "presidenta" argentina Cristina Kirchner. «Finiremo sul filo di lana», diceva ieri pomeriggio un senatore della maggioranza pochi minuti prima dell´inizio della sessione. Esteban Paulon, segretario generale della locale Federazione gay e lesbiche, ha fatto una previsione: «Stanotte vinciamo con almeno quatto voti di scarto, 34 a 30».
L´approvazione della legge trasformerebbe l´Argentina nel primo paese sudamericano che consente il matrimonio tra persone dello stesso sesso (in Uruguay c´è soltanto l´unione civile in regime di concubinaggio) e la Chiesa si è mobilitata con forti pressioni sul mondo politico. Tanto che nei giorni scorsi una commissione del Senato ha messo in campo un progetto alternativo a quello votato dalla Camera che prevede soltanto l´unione civile e impedisce alle coppie gay di adottare bambini. Ma dopo le proteste delle organizzazioni per i diritti gay il governo di Cristina Kirchner ha ripristinato il testo originale della legge.
«Sono sorpresa e preoccupata - ha detto Cristina Kirchner che si trova in visita ufficiale in Cina - sembra che siamo tornati all´epoca delle Crociate e dell´Inquisizione», riferendosi ai numerosi interventi di vescovi e cardinali in ogni parte del paese. «Qualcuno - ha aggiunto il presidente argentino - ha parlato addirittura di una guerra di Dio e concedere pieni diritti alla coppie omosessuali sarebbe un progetto del demonio». In effetti i toni con i quali la Chiesa ha affrontato la vicenda negli ultimi giorni sono stati piuttosto duri. Tutte le scuole cattoliche hanno incoraggiato gli studenti e i loro genitori a scendere in piazza per protestare contro il governo mentre El Clarin, il maggior quotidiano di Buenos Aires, che ha intervistato gli autisti dei pullman che hanno trasportato nella capitale molti dei partecipanti alle proteste, sostiene che hanno ricevuto soldi dalle parrocchie per scendere in piazza.
Nelle ore in cui il Senato argentino discuteva arrivavano i primi commenti alla possibilità che Buenos Aires diventi la capitale di matrimoni gay in America Latina: una star come Ricky Martin ha dato il suo appoggio alla legge scrivendo su Twitter: «Gli stessi diritti con gli stessi nomi per tutti». E un sacerdote cattolico, Nicolas Alessio, è stato sospeso dall´arcivescovo di Cordoba perché si era dichiarato favorevole alla nuova legge.
In Argentina, il matrimonio tra omosessuali è già ammesso in alcuni Comuni, dove si sono già sposate alcune coppie di gay o lesbiche. E Buenos Aires recentemente ha ospitato la prima edizione dei mondiali di calcio gay ed è stata nominata "città gay friendly" (amica dei gay). Secondo i sondaggi il 70% degli argentini è favorevole a concedere alle coppie omosessuali gli stessi diritti di qualsiasi altra coppia, ragione che - secondo i critici - avrebbe convinto la Kirchner e suo marito a compiacere l´opinione pubblica: l´anno prossimo ci sono le presidenziali e Nestor Kirchner vorrebbe, dopo i quattro anni della moglie, ricandidarsi.

Repubblica 15.7.10
Prendiamola con filosofia
“L’unica saggezza è riscoprire il mondo reale"
Il francese Michel Onfray e Maurizio Ferraris discutono su cosa significa "vivere" nell´epoca contemporanea
"Tra eccessi virtuali e ideologie della perfezione abbiamo disimparato ad accettare il nostro destino"
"Tutti vorremmo un corpo più bello ma bisogna anche saper imparare di invecchiare"
"Pensatori come Epicuro e Montaigne sono sempre più attuali"
di Maurizio Ferraris Michel Onfray

Da domani al 18 luglio a Meina si terrà il seminario annuale della Fondazione Europea del Disegno presieduta da Valerio Adami. Il tema di quest´anno è "La questione dello stile". Al seminario prenderanno parte tra gli altri Omar Calabrese, Paolo Fabbri, Durs Grünbein, Antonio Prete, e sarà inaugurato da un confronto tra Maurizio Ferraris e Michel Onfray. Che i due filosofi anticipano per i lettori di Repubblica

Maurizio FERRARIS: «La nostra generazione è diventata adulta (filosoficamente) in un mondo in cui le promesse di emancipazione del postmoderno si sono trasformate nel populismo mediatico. E ciò che lega le teorie dei postmoderni alle pratiche dei populisti è il principio secondo cui non c´è un reale "là fuori", ma solo un gioco di interpretazioni».
MICHEL ONFRAY: «Metti il dito nella piaga. Nietzsche diceva: "Accontentati del mondo dato". Questo "mondo dato" è in gran parte perduto, e nel mio lavoro cerco di ritornare a quel mondo perché intellettualmente, per non dire ontologicamente, viviamo in un regime filosofico platonico ed essenzialista. Il reale non è: viene presentato come un impoverimento, una diminuzione dell´Idea che è la sola cosa vera. Donde il declassamento del mondo di qui – il corpo, la carne, i desideri, le passioni, le pulsioni, la sessualità, l´edonismo, il godimento, la sensualità, il piacere ecc. Questo congedo dal reale culmina con la televisione, in cui "reale" viene ad essere il virtuale, la cui epifania ha luogo grazie a un oggetto, lo schermo – della televisione, del computer, del telefonino, dell´i-pad. L´immaterialità di questo falso reale diventa la sola e unica realtà, e lo spettatore si stupisce di imbattersi per strada nel corpo reale del filosofo che ha visto alla televisione».
FERRARIS: «Non sono troppo sicuro del fatto che ciò che si chiama "virtuale" sia anche "immateriale". In fondo, se manca l´elettricità non c´è televisione, né computer, né telefonino. Direi, piuttosto, che si tratta di una diversa materialità, un po´ meno ingombrante (ma non dimentichiamo le discariche piene di vecchi computer). Una materialità che tuttavia è trattata ideologicamente - su questo sono d´accordo con te - come se fosse immateriale. Trovo però che tu idealizzi un po´ troppo l´ideologia dominante nel momento in cui la tratti come essenzialista. Da una parte, mi sembra che la smaterializzazione sia finalizzata non a un trionfo dell´idea o del concetto, ma piuttosto al suo contrario, alla costituzione di un terreno vago in cui non ci sono fatti, ma solo interpretazioni (purtroppo Nietzsche ha detto anche questo). D´altra parte, se devo giudicare da quel che vedo in Italia, direi che "il corpo, la carne, i desideri, le passioni, le pulsioni, la sessualità, l´edonismo, il godimento, la sensualità, il piacere" siano al centro del potere, non siano affatto rimossi in nome dell´idea».
ONFRAY: «Esistono due usi dell´edonismo e due usi del corpo, che si accompagnano a due usi della vita. Da una parte, l´uso liberale e mercantile dei corpi, una celebrazione del piacere del possesso che produce la religione consumistica che, te ne rendo atto, oggi detta legge: avere, possedere, accumulare beni e ricchezze, essere perché si esibisce (casa, vestiti, macchina, donna/uomo, telefonino ultimo modello, gadget del momento – i-pad ecc.). Dall´altra, l´uso libertario e ludico dei corpi, una celebrazione dell´essere che si inscrive nella tradizione di Epicuro che invitava a sbarazzarsi delle vanità inseguite dai più: denaro, potere, onori, ricchezze. Epicuro invitava al "puro piacere di esistere", senza sofferenza, senza legami, senza obblighi, senza timori. Questi due modi d´essere suppongono due relazioni con il mondo: una relazione tanatofiliaca, nel primo caso, una relazione biofiliaca, nel secondo: amore della morte, amore della vita. Il corpo virile celebrato nello sport contemporaneo, il corpo platonico proposto nelle riviste di moda o nei magazine, è il corpo della religione consumista: deve essere bello, giovane, performante, in piena salute, abbronzato, scolpito dal body-building».
FERRARIS: «Ti confesso che, potendo scegliere, non mi dispiacerebbe affatto avere un corpo "bello, giovane, performante, in piena salute", anche se non "scolpito dal body-building", e, quanto all´i-phone, lo trovo molto ricco (e istruttivo) anche dal punto di vista concettuale, tanto è vero che ho scritto una ontologia del telefonino. Ma, venendo al nocciolo della questione, mi sembra che tu sia troppo tranchant quando distingui tra liberale e libertario, o tra tanatofilia e biofilia, il mondo – è il meno che si possa dire – è più complicato».
ONFRAY: «Per l´i-phone (anch´io ne ho uno), so quanto è utile questa tecnologia, e sono convinto della necessità di una ontologia e di una fenomenologia del telefonino, ma credo che un tecnofilo debba dotarsi di una saggezza prudenziale: la tecnologia deve obbedirci, non l´inverso. Per il corpo: non si può scegliere tra un corpo che non si ha e il corpo che si ha, ma si ha la scelta di vivere il proprio invecchiamento e la propria morte in maniera filosofica, altrimenti a che serve la filosofia?».
FERRARIS: «Sono pienamente d´accordo sul fatto che la filosofia deve aiutarci a fare i conti in modo realistico e coraggioso con l´invecchiamento e la morte. Oggi invece nel discorso pubblico si assiste a qualcosa di radicalmente antitetico. Da una parte, c´è un culto della vita a qualunque condizione, come se la vita senza memoria, pensiero, speranza, potesse essere ancora tale. Dall´altra, c´è la promessa (giocata anche in termini politici) di una vita prolungata sino a 120 o 150 anni, un modesto surrogato di immortalità in un´epoca scettica rispetto alle cose ultime, una quasi-immortalità per censo, di fatto una sorta di mummificazione».
ONFRAY: «Questo sogno di immortalità o di quasi-immortalità che rovina la vita quotidiana di tanta gente si radica nel sogno di una vita eterna in cui non c´è più tempo, invecchiamento, entropia, sofferenza. La filosofia, diventata universitaria, elitista, elitaria, nascosta, professorale e istituzionale, ha per modello la scolastica, e ha cessato di curarsi dell´esistenza, che viceversa era l´unico programma della filosofia antica. Oggi esiste anche una "filosofia" che propone una vaga saggezza destinata alle riviste femminili. Per quel che mi riguarda, rifiuto in filosofia la duplice tirannide dell´università e del giornalismo, ecco perché da nove anni ho istituito l´università popolare di Caen, per insegnarci venticinque secoli di pensiero esistenziale misconosciuto, dimenticato, travestito».
FERRARIS: «Non sarei troppo severo né con la filosofia sulle riviste femminili (sono sempre meglio che i giornali per soli uomini, e quella filosofia è sempre meglio dell´astrologia), né con la filosofia nelle università, che non è così astratta, se si considera che l´università, in Italia, è la bestia nera del populismo. Ma sono convinto – e su questo sono molto severo – che quando la filosofia dice addio alla realtà e alla verità rinuncia ad essere uno strumento di liberazione».
ONFRAY: «Possiamo scegliere di rifiutare questa religione nichilista per preferirle una saggezza immanente. Continuo a credere che Epicuro e Seneca siano nostri contemporanei, e che il loro messaggio sia di una impressionante attualità. Bisogna dunque ritornare alla filosofia, ma non al nichilismo degli anni Settanta, per il quale tutto ciò che rompeva con l´antico era buono, né ai filosofi che ci si appellano ancora (e sono tantissimi). Credo che Diogene e Aristippo, Democrito ed Epicuro, Lucrezio e Leucippo siano più moderni di Lacan, Sollers o Bernard-Henri Lévi. Solo la filosofia materialista (e atea) può spiegare come e perché siamo iscritti nel tempo che si manifesta nella perpetua metamorfosi delle connessioni atomiche, dove la morte non è che una di queste metamorfosi».
FERRARIS: «Non sono certo che si possa davvero "imparare a morire". Ma cercare di imparare a morire, cercare di conciliarci con il nostro destino, è forse il più grande insegnamento che ci viene dal materialismo (o, meglio, dal realismo, dal rifiuto del nichilismo), se non altro perché, come scriveva Montaigne, "chi ha imparato a morire ha disimparato a servire". A queste condizioni la filosofia può essere davvero uno stile di vita».
ONFRAY: «Credo che gli uomini possano cambiare e che una conversione filosofica sia possibile. Parlo per esperienza, ho avuto una infanzia difficile, quattro anni in un orfanotrofio di salesiani pedofili e tre anni di collegio, prima di lasciare la famiglia a diciassette anni per provare a volare con le mie ali. Inutile dire che dopo quelle prove ero più tanatofilo che biofilo, sono diventato biofilo grazie alla scoperta, l´uso e la pratica della filosofia antica, poi grazie alla decisione di condurre una vita filosofica. Sartre ha ragione quando dice che "siamo ciò che facciamo di ciò che hanno voluto fare di noi"».

Repubblica 15.7.10
Newton si è sbagliato la gravità non esiste
Gravità addio
Negli Usa si è riaperto il dibattito sui principi formulati dal celebre scienziato grazie ai lavori di un fisico olandese
di Federico Rampini

Si tratta di Erik Verlinde che lega le sue critiche all´ipotesi delle stringhe e a quella dell´universo olografico Gli anti-Newton: "La sua teoria è un´illusione"
Molti grandi studiosi avevano già elaborato un superamento Da Harvard a Berkeley la discussione sta appassionando gli esperti
La nuova visione può gettare una luce diversa su alcuni grandi temi contemporanei

La teoria degli universi paralleli funziona anche come una metafora letteraria e ci sono tre modi per raccontare questa storia. Nella prima versione un ladro nel Sud della Francia fa sparire computer, passaporto e carta di credito di un celebre scienziato.
La seconda versione racconta la vita di due gemelli monozigoti la cui vita procede perfettamente identica, fino a un divorzio che spezza l´armonia. La terza storia ci rivela che la teoria della gravità di Isaac Newton è un´illusione. Quest´ultima ci porta alla scoperta dell´universo "olografico", della "teoria delle stringhe" e altri termini esoterici, misteriosi e affascinanti. Nonostante le apparenze è più facile partire dalla fine.
La teoria della gravità è forse la più formidabile legge della fisica, il principio più evidente e universale perché corrisponde a un´esperienza empirica irresistibile. Il bambino ancora non sa parlare e uno dei primi giochi in cui si trastulla dal seggiolone, consiste nel far cadere il cucchiaio della pappa. Lo spettacolo è affascinante nella sua ripetitività. Afferra il cucchiaio, lo solleva, lo lascia cadere, e ogni volta il miracolo si ripete: quell´oggetto viene attratto irresistibilmente a terra, costringendo il paziente genitore a raccoglierlo. Ognuno di noi all´età di 18 mesi è stato Newton senza saperlo. Ebbene, ricrediamoci: la forza di gravità è un´illusione, una beffa cosmica, o un "effetto collaterale" di qualcos´altro che avviene a un livello molto più profondo della realtà.
L´abbandono di Newton era già stato anticipato dalla relatività di Albert Einstein ma ora avviene una rottura ancora più radicale. Un celebre fisico matematico olandese-americano, il 48enne Erik Verlinde che ha già legato il suo nome alla "teoria delle stringhe" (la supersimmetria negli universi paralleli), sta agitando il mondo accademico degli Stati Uniti con una serie di conferenze in cui fa a pezzi la teoria della gravità. Da Harvard a Berkeley, i colleghi scienziati lo stanno prendendo molto sul serio. La sua nuova visione infatti può gettare una diversa luce su alcuni dei grandi temi della fisica contemporanea: la cosiddetta dark energy (energia oscura), una sorta di anti-gravità che sembra accelerare l´espansione dell´universo, o la "materia oscura" che ipoteticamente tiene unite le galassie.
Andrew Strominger, fisico-matematico di Harvard, è uno dei colleghi di Verlinde che non nasconde la sua ammirazione: «Queste idee stanno ispirando discussioni molto interessanti, vanno dritte al cuore di tutto ciò che non comprendiamo del nostro universo». Verlinde è l´ultimo di una serie di scienziati che da trent´anni a questa parte stanno smantellando pezzo dopo pezzo la teoria della gravità. Negli anni Settanta Jacob Bekenstein e Stephen Hawking hanno esplorato i legami tra i buchi neri e la termodinamica. Negli anni Novanta Ted Jacobson ha illustrato i buchi neri come degli ologrammi, le immagini tridimensionali usate per la sicurezza delle nostre carte di credito: tutto ciò che è stato "inghiottito" ed è sparito dentro i buchi neri dell´universo, è presente come un´informazione stampata nell´ologramma, sulla superficie esterna. Juan Maldacena dell´"Institute for Advanced Study" ha costruito un modello matematico dell´universo espresso come un barattolo di minestra in conserva. Tutto ciò che accade dentro il barattolo, inclusa quella che chiamiamo la gravità, è sintetizzato nell´etichetta incollata all´esterno: fuori invece la gravità non esiste.
È a questo punto che entrano in gioco i gemelli e il ladro, che sembrano presi da sceneggiature di film surrealisti. Lo scienziato Erik Verlinde, autore di una formula algebrica che porta il suo nome, ha un fratello monovulare: Herman. Le loro due vite sono state identiche per molto tempo. I gemelli sono due matematici molto rispettati. Si sono laureati insieme all´università olandese di Utrecht nel 1988, insieme andarono in America per proseguire gli studi a Princeton, dove tutti e due ottennero la cattedra. Sposarono due sorelle. Divorziarono. E solo a questo punto una leggera discrepanza si è introdotta nel meccanismo delle loro vite speculari. Herman è rimasto a Princeton, Erik ha deciso di vivere ad Amsterdam per essere più vicino ai figli. L´estate scorsa, mentre era in vacanza nel sud della Francia, un ladro gli portò via il laptop, le chiavi di casa, il passaporto. «Fui costretto a fermarmi una settimana in più», racconta Erik. Una settimana di cogitazioni che è stata fatale per l´eredità di Newton. Pensate all´universo come una scatola dello scrabble (lo scarabeo, ndr), il gioco in cui si compongono parole con le lettere dell´alfabeto. Se agitate la scatola e sparpagliate le lettere a caso, c´è una sola possibile combinazione che può darvi una poesia del Leopardi. Una quantità pressoché infinita di combinazioni non hanno alcun significato. Più scuotete la scatola delle lettere più è probabile che il disordine aumenti via via che le lettere si combinano per ordine di probabilità. Questo è il nuovo modo di vedere la forza di gravità, come una forma di entropia. O un «effetto collaterale della propensione naturale verso il disordine». Se non è chiaro che cosa la sostituirà, e ancora siamo ben lontani dall´immaginare le possibili applicazioni pratiche, su un punto Verlinde è categorico: «Il re è nudo. Da tempo si era capito che la gravità non esiste. Ora è giunto il momento di gridarlo».

Repubblica 15.7.10
Golem
Nelle strade di Praga. Qui il mostro è diventato un mito
Tra passato e presente viaggio alla ricerca del rabbino Loew, il cabalista che creò il gigante d’argilla
di Marek Halter

La statua che lo rappresenta sta davanti al municipio: non è mai stata danneggiata. Né i nazisti, né i sovietici dopo di loro, si sono azzardati a toccarla: è lì, protetta dalla sua stessa leggenda
Oggi c´è chi l´ha trasformato in un piccolo amuleto da vendere nelle botteghe: tanti lo acquistano
Un anziano signore mi ha detto: "Lo tengo come portafortuna"

A Praga, davanti al municipio cittadino, troneggia l´imponente statua del gran rabbino Loew Jehouda ben Bezalel (1512-1609), detto il "MaHaRaL", il cabalista. La statua ha più di un secolo e nessuno - né i nazisti, né i sovietici dopo di loro, e neppure i graffitari odierni - si è mai azzardato a danneggiarla. È là, sempre identica, protetta dalla sua stessa leggenda. Durante il processo dell´ "Ebreo Slánský" nel 1952 - intentato dal potere stalinista contro le spie e i "cosmopoliti", ovvero gli ex dirigenti comunisti di origine ebraica - il governo sistemò delle guardie tutto intorno al monumento, per proteggerlo da eventuali aggressioni antisemite. Jiri Danicek, presidente delle comunità ebraiche della Repubblica Ceca, osserva con umorismo che «gli stessi uccelli evitano di poggiarsi sulla testa del MaHaRaL».
Perché questa singolare eccezione? Per paura di una maledizione. È là che nacque, fatto di parole e fango, il primo umanoide della storia, il Golem, e a distanza di così tanto tempo dalla sua morte, il suo creatore incute ancora paura. I praghesi raccontano che nel 1941 Heydrich, neoeletto governatore ausiliario del Reich in Boemia-Moravia - regione che Hitler poi trasformò in protettorato - avrebbe proposto al suo amico Himmler di sfruttare la forza del Golem per vincere la guerra. Appassionato di esoterismo, Hitler approvò. Era tuttavia necessario decifrare le formule della Cabala che una notte dell´anno 1600 avevano permesso l´apparizione del prodigio davanti alla folla ammassatasi ai piedi della Sinagoga Vecchia-Nuova.
All´epoca l´Europa era in fiamme: cattolici e protestanti si facevano la guerra. Erano divisi su tutto, fuorché nell´odio per gli ebrei. Le persecuzioni antisemite si moltiplicarono. Gli ebrei si rivolsero al loro rabbino chiedendo protezione. Egli esitò, ma alla fine si fece consegnare migliaia di secchi pieni di fango argilloso estratto dal fiume Moldava che attraversa la città. Con esso modellò una forma gigantesca, dai contorni vagamente umani, e in essa infuse la vita. Era il Golem, forza bruta priva di bocca, perché il Verbo appartiene esclusivamente agli uomini. Quella specie di bomba atomica impressionò gli antisemiti, ma il MaHaRaL disse anche che da un giorno all´altro, senza preavviso, avrebbe potuto ribellarsi contro i suoi stessi creatori.
Il mostro d´argilla garantì la sicurezza della città ebraica, dove riportò la pace e il benessere. In seguito, però, il Golem cessò di avere un´utilità pratica. Lo si impiegò per mansioni impegnative e compiti umili. I bambini iniziarono a deriderlo. Lo si insultò. Del resto, non era un estraneo? Un giorno, come aveva previsto il MaHaRaL, il Golem si ribellò e distrusse tutto ciò che incontrò sul suo cammino. Il suo creatore, il gran rabbino Loew, fu avvisato immediatamente e dovette togliere la vita alla sua creatura: il Golem tornò a essere fango. Gli abitanti della città ebraica, pieni di rimorso, trasportarono il fango nel solaio della Sinagoga Vecchia-Nuova, la più vecchia d´Europa.
Fu per ridar vita a quel mucchio di argilla che il nazista Heydrich costituì addirittura un commando, denominato "Commando Golem". Suo compito era quello di rintracciare gli ultimi officianti della sinagoga e, alla bisogna, torturarli per ottenere le formule necessarie a farlo tornare in vita.
Secondo i praghesi che nel weekend visitano il quartiere con le loro famiglie, il Commando sarebbe riuscito a recuperare le informazioni desiderate. Ma - mi spiega rab Haïm, custode della sinagoga - "poiché non riuscì a rintracciare anche la melodia che accompagnava le parole pronunciate da MaHaRaL", di fatto il Commando non riuscì a esaudire il sogno di Hitler.
Con mia grande sorpresa, Arno Parik, il curatore del Museo ebraico di Praga, cita le parole di David Gans, che assistette al prodigio ed è la voce narrante del mio libro: «Nessuno, salvo MaHaRaL, fu mai puro a sufficienza per conoscere questo segreto della Cabala».
MaHaRaL, il gran rabbino Loew, illustre cabalista, era nato nel 1512 a Worms sul Reno e ed era arrivato a Praga in età avanzata, su richiesta della comunità ebraica e dell´imperatore romano germanico Rodolfo II. Rimase a svolgere il suo incarico di rabbino fino alla sua morte, sopravvenuta nel 1609, all´età di 97 anni (...).
Per me, che sono nato a Varsavia, è stato un avvenimento raro camminare lungo le strade nelle quali il Golem si era animato. Seguendo le tracce e i passi del MaHaRaL, ho esaudito il sogno della mia infanzia, privilegio di pochi. Ma ho scoperto con una certa sorpresa che l´antico quartiere di Praga è rimasto intatto (...). Ne sono rimasto sbalordito: la mia città, la città ebraica di Varsavia, è stata interamente distrutta. Perché i nazisti hanno risparmiato Praga? Per paura di MaHaRaL e del Golem? Goethe stesso aveva visitato la Sinagoga Vecchia-Nuova prima di scrivere il suo Apprendista stregone. Il Golem di Gustav Meyrink (1915) è stato uno dei primi best-seller della letteratura mondiale, letto da centinaia di migliaia di tedeschi. Del resto, il fascino che gli ebrei esercitavano su Heydrich era tale che egli si era fatto preparare un attestato dalla Commissione di valutazione razziale a riprova della sua origine tedesca e della purezza del suo sangue. Scrissero che il suo sangue non conteneva "né sangue di nero né sangue di giudeo". Portò quel documento sempre con sé, appuntato sul petto, e così fu ritrovato dopo essere stato ucciso il 4 giugno 1942 dalla resistenza ceca. Nondimeno, prima di quel momento ebbe tutto il tempo necessario a presentare a Hitler il suo progetto, consistente nel fare del quartiere di Josefov a Praga il "museo esotico di una razza estinta".
Considerato che era pericoloso toccare la Praga ebraica a causa del MaHaRaL, demiurgo del Golem, perché non trasformarla - alla stregua di un Jurassic Park - in un luogo nel quale osservare le tracce di un popolo malvagio, cancellato per sempre dalla faccia della Terra? (...).
Al numero uno di via Staré Školy, in un bell´edificio in stile Art Nouveau dell´ex quartiere ebraico di Praga, si trova il Museo ebraico. Il suo storico e curatore, Arno Parik, mi racconta che "sotto il controllo nazista, quaranta dipendenti lavorarono dodici ore al giorno per ricostruire un altro museo nello stesso posto del nostro, chiuso nel 1939, inaugurato infine il 3 agosto 1942. Sui cataloghi classificarono oltre duecentomila reperti".
La prima esposizione che organizzarono, nella sinagoga detta Alta, riguardò i testi ebraici e i manoscritti che i nazisti avevano fatto venire da tutta Europa. A quell´epoca vivevano a Praga circa centoventimila ebrei. Oggi sono a malapena mille e settecento. Il loro quartiere non è cambiato, presenta ancora i suoi "angolini oscuri, passaggi segreti, finestre cieche, cortili sudici, brasserie rumorose, alberghi sinistri", come scrive Kafka. Anche quel quartiere si è salvato grazie alla paura che incuteva e incute ancora il cabalista di Praga?
All´ombra del Klaus, la scuola di studi di MaHaRaL, scopro il vecchio cimitero ebraico. Migliaia di tombe - oltre dodicimila, si dice - alcune delle quali vecchie di parecchi secoli, si sovrappongono e si puntellano a vicenda per non crollare. Nell´imponente basamento di pietra sotto il quale riposano il gran rabbino Loew e sua moglie Perl, il tempo ha aperto numerose crepe, dentro le quali - come in quelle del Muro del Pianto - i pellegrini infilano i loro fogliettini scritti, contenenti i loro messaggi.
Uscendo dal cimitero mi imbatto in un edificio sbilenco di mattoni scuri a due piani. Come indica una targa fissata sull´architrave della porta d´ingresso, è lì dentro che nel 1664 fu fondata la Confraternita dell´Ultimo Dovere (Hevrah Kadisha). Questa confraternita, formata da volontari, aveva l´obbligo di servire senza distinzione alcuna tutti i membri della comunità e di prendere a carico i più bisognosi, per esempio i malati (...).
Non mi sarebbe piaciuto lasciare Praga senza aver rivisto il MaHaRaL (...). Per sbaglio ho dato le spalle alla statua del gran rabbino Loew e mi sono ritrovato davanti alla casa di Kafka, al numero 2b della via Cihelná. Nulla mi è parso cambiato, a esclusione, forse, al primo piano, di un bar, il Café Franz Kafka, beninteso, e all´ingresso dello stabile, di una botteguccia nella quale si vendono penne con l´effigie dello scrittore e piccole statuine in terracotta del Golem. All´interno una coppia di anziani era indecisa se acquistare una penna o una statuina. Alla fine i due hanno scelto di acquistare venti Golem in un colpo solo, "per regalarli", ha spiegato l´uomo dai capelli bianchi in un inglese dal forte accento tedesco. Poi, girandosi e reggendo un piccolo Golem in mano, mi ha detto: «Lo terrò come portafortuna personale».
Ho ritenuto che in fondo non avesse torto e ne ho acquistati alcuni anch´io.
Traduzione di Anna Bissanti

Agi 15.7.10
Istat: Pettini, dati povertà situazione grave e persistente
Roma, 15 lug. - I nuovi dati Istat sulla poverta' fotografano una situazione grave e ben piu' persistente di quanto non possa essere giustificato dal dato congiunturale della crisi economica, cui anzi e' stato messo un temporaneo argine dall'intervento degli ammortizzatori sociali. E' quanto afferma l'economista Anna Pettini, docente di Economia Politica all'Universita' di Firenze, Facolta' di Scienze Politiche. "Il tema della poverta', ampiamente studiato e dibattuto, vede contrapporsi posizioni diverse in merito al giudizio di valore che puo' essere fatto valere per contrastarla - aggiunge - e le giustificazioni vanno da motivazioni di tipo solidalistico a valutazioni di efficienza economica. Prima di qualsiasi altra considerazione si dovrebbe sostenere che un paese ad alto tasso di sviluppo non dovrebbe potersi dire tale fino a quando non ha azzerato il problema della poverta', almeno quella assoluta". Ed aggiunge, "le persone che devono spendere le giornate a rincorrere lo stretto necessario per sopravvivere avranno difficilmente accesso a quella che puo' dirsi vita umana, prima che civile. Vita che si differenzia da quella animale solo in quanto rivolta alla ricerca della propria realizzazione personale, che puo' arrivare dalle attivita' piu' diverse, ma che certamente - precisa l'economista - non puo' prescindere dalla soddisfazione dei bisogni necessari alla sopravvivenza". Insomma, "questo e' il punto di partenza, e se neppure questo e' garantito da societa' dette ampiamente avanzate in termini di sviluppo economico, forse ci si deve chiedere se sviluppo economico significa ancora - nota la Pettini - precondizione per la possibilita' dello sviluppo umano, o se l'inversione di senso prevale, e ci si rassegna a dover rincorrere un sistema che sembra autonomo dalla sorte delle persone in carne e ossa". E cosi' conclude. "ci sono studi che dimostrano la possibilita' di avere politiche di reddito minimo universale a parita' di gettito fiscale, ovvero manovre redistributive e di sostegno al reddito senza variazioni di gettito fiscale netto, ad esempio la proposta di Ugo Colombino. Ne leggeremo la discussione sui giornali?". (AGI) Pat

Avvenire 14.07.10
Gerusalemme, trovato testo del 1400 a.C.

Un frammento di creta di pochi centimetri recuperato dagli archeologi israeliani a Gerusalemme potrebbe dimostrare che quattro secoli prima del biblico re Davide, ossia nel XIV secolo a.C., nella zona di Gerusalemme c’era già una influente città-stato che intratteneva relazioni con il faraone egiziano Akhenaton (Amenofi IV), noto anche come il «re eretico». Il frammento è in caratteri cuneiformi e in lingua accadica, e ricorda i testi dell’epoca recuperati a Tell al-Amarna (Egitto). Ad al-Amarna furono reperiti poi messaggi di Abed-Haba, «re di Urushalem».

Liberazione Lettere 15.07.10
Vaticano, "chiuso per restauro"
Cara “Liberazione”, se un giorno si trovano le ossa di una donna nei loro lucernai, dove la luce non entra e nessuna chiarezza è possibile. Se un altro giorno si scopre che l’obbligo della loro astinenz riguarda soltanto i rapporti con l’altro sesso, ma non sono esclusi uomini e bambini; che le violenze su questi ultimi sono fisiche e morali, “annullanti” e distruttive…
Se un altro giorno ancora si stabilisce che, quando la loro parola non ti giunge attraverso campane, messe e politica, viaggia indisturbata su onde elettromagnetiche e cancerogene; vittime sempre i più deboli, i bambini. Se l’ultimo giorno ci si rende conto che sono ancora tra i Paesi più ricchi del mondo, nonostante l’apparente carità mondiale: evangelizzazione mascherata da solidarietà. Allora, c’è qualcosa che, ignominiosamente, non va. Allora, diventa necessario e urgente che dalle loro porte lascino entrare e uscire soltanto… l’arcangelo della Giustizia. E che per tutti gli altri mettano un bel cartello: “chiusi per restauro”
Paolo Izzo