martedì 31 agosto 2010

MicroMega 6/2010 pp.115-128
IL CINEMA COME RIVOLTA
Da I pugni in tasca a Il diavolo in corpo, dall'infatuazione maoista al teatro shakespeariano, dalle interviste agli ex pazienti dei manicomi alla psicoterapia collettiva di Massimo Fagioli. Uno dei più dissacranti registi del cinema italiano ripercorre il suo mezzo secolo di attività attraverso un racconto al tempo stesso intimo e 'politico', privatissimo e profondamente intrecciato ai passaggi d'epoca che hanno segnato la storia più recente del nostro paese.
MARCO BELLOCCHIO
in conversazione con MALCOM PAGANI


Nell'ufficio romano di Marco Bellocchio anonima gabbia al piano terra di un palazzone romano appoggiato alla Nomentana, in cui sostenere il peso delle idee tra pile di sceneggiature, fotografie in bianco e nero, cartoline autografe del Ventennio e tomi di Hegel, siede il regista che porta il suo nome. L’intera opera di Beilocchio poggia sulla rivolta. Al sistema e alle sue ipocrisie. Vaticano, famiglia, esercito. Ventiquattro film in mezzo secolo di attività. Premi, polemiche, divieti, riflessioni. Beilocchio non ha fretta. Ha tempi da artigiano, pause, ripensamenti continui. Negli occhi stretti, la febbre dell'ex allievo dei barnabiti che all'alba degli anni Sessanta, con I pugni in tasca destrutturò un secolo e mezzo di consuetudini borghesi. Quando prolunga un ragionamento, si fa aiutare dal le mani. Allora disegna progetti nell'aria, per poi riposare in attesa di una nuova partenza. È timidezza, tormento, curiosità. Si accende, ribatte, sottolinea, precisa. Con gli sciocchi, questo problematico disturbatore delle certezze altrui battaglia da sempre, armando una dialettica che ha il solo vizio di non conoscere superficialità. Nel suo recinto, la sinistra potenza dell'immagine non corrisponde mai allo sforzo economico. È un giardino di visioni e incubi, estremamente riconoscibili, che descrivono da una prospettiva ravvicinata la vigliaccheria del sopruso, senza promettere epifanie di salvezza. Alle figure cui tocca la sua metaforica carezza capita di rimanere nella memoria. E sono ricordi inadatti a far pace. Allarmi che Bellocchio suona in solitudine. È già estate. Tra poco finirà. Lino, cotone, appunti. Lui parla per due ore, senza percepibili sbandamenti. La Chiesa di una vita, non l'ha ancora trovata. Così bussa, interroga, si appassiona, abbraccia e rifiuta. Ad ottobre, le stagioni saranno settantuno. Bellocchio migliora con il tempo, spostando la frontiera della sperimentazione sempre un passo più in là. Quando a intervista conclusa, gli prospetti il futuro, accelera il congedo: «Qualcosa faremo, proveremo a non annoiarci». Accompagna, saluta, chiude la porta. Solo. Finalmente.

La coscienza di Marco Bellocchio evolve nell'Italia del secondo dopoguerra. Anni segnati da un clericalismo greve e aggressivo.

Ero bambino e nei silenzi della Val Trebbia, i timori della comunistizzazione dell'Italia, per me erano le voci di mia nonna e di mia zia. I loro commenti, i pranzi affollati in cui pregare riuniti intorno al tavolo e prima di mangiare, il denigrare i rossi e lo scongiurare la loro presa del potere non li ho mai dimenticati. Mio padre Francesco era avvocato. Un conservatore pragmatico, che più che alle rose, si dedicava al pane. In famiglia il suo understatement era nettamente minoritario e il contesto generale giocava a sfavore di posizioni tenui. Schierarsi. Quello contava.

Esempi?

Non sono mai riuscito a cancellare i racconti scolastici che i nostri insegnanti declamavano come feuilletton sulle famiglie che avevano fatto i bagagli ed erano emigrate d'urgenza in America alla vigilia delle elezioni del 1948. I timori di vittoria del Fronte popolare e il lavaggio del cervello delle gerarchie e delle retrovie ecclesiastiche nei confronti dei fedeli erano elementi di un paesaggio quotidiano.

Elementi caricati, quasi futuristi.

Ii gusto per la drammatizzazione e per l'eccesso era assoluto. Il parroco di Bobbio, in sacrestia, ci rassicurava a suo modo. Puntava sui bambini, sulla suggestione delle loro menti. «State tranquilli, se vincono le elezioni i comunisti, ci sarà la guerra civile». Diceva proprio così: «State tranquilli».

Immagini e voci: trasferite in tante sue opere.

Nel Nome dei padre ho messo il missionario che con la lingua tagliata dai comunisti cinesi gira per i collegi come un fenomeno da baraccone. Un monito eterno. La guerra civile tra italiani era più di un'ipnosi collettiva. Ancora mi ricordo il grido di gioia disumano di mia nonna, era il '51, quando la Dc conquistò per la prima volta il sindaco a Roma ai danni del Pci. La propaganda dell'Azione cattolica sulle coscienze dei cittadini si esprimeva attraverso modalità molto pesanti. Sfogliava un vocabolario asfittico ma di sicura presa. Minaccioso. Millenarista. Peccato mortale, eternità e punizione erano concetti ricorrenti, che le varie istituzioni, scuola, parrocchia, si incaricavano di inculcarci nella mente. Un controllo ossessivo che fino ai tredici anni mi oppresse. Ricordo qualche verso di Bianco Padre: «Siamo arditi della fede/ siamo araldi della croce/ a un tuo cenno/ alla tua voce/ un esercito all'altar», liturgie da somatizzare, precetti da inglobare. Poi mi snebbiai. Furono le letture affrontate nella prima adolescenza ad allontanarmi definitivamente dal solco. A tredici anni ero già ateo. Per esorcizzare senza compromessi quel terrore lontano e liberarmene ho dovuto ridicolizzarlo in moltissimi film.

Dopo aver abbandonato ia facoltà di Filosofia alla Cattolica nel 1959, si iscrisse al Centro sperimentale di cinematografia. Cinque anni dopo planò sul cinema italiano con una molotov come I pugni in tasca. L'incendio (all'epoca non la conosceva nessuno), fu immediato.

Avevo soltanto ventisei anni. Ero immaturo entusiasta, inconsapevole. Quella di I Pugni in tasca è una piccola storia, paradigmatica di quanto intenzioni e risultato non siano mai in stretta parentela tra loro. Il film fu preparato nell'estate del '64. Le riprese iniziarono qualche mese dopo, a gennaio del '65. Presentammo l'opera a Locarno nell'agosto dello stesso anno dopo esserci visti rifiutare l'approdo al Festival di Venezia e aver mancato l'occasione di essere a Pesaro. Aprà, Micciché e Torri, i curatori della mostra marchigiana, videro un premontato senza audio, assolutamente impossibile da proiettare.

Quando parole e immagini camminarono assieme, l'esito fu inaudito. Rinascita, per voce di Italo Calvino, gridò al prodigio. I ragazzi facevano la fila ai cineforum, gli attori iniziarono a essere contesi dalle grandi produzioni.

Paola Pitagora, Lou Caste! e I pugni in tasca ebbero un'eco del tutto imprevedibile. Il voce a voce si alimentò con i premi e il film prese a correre da solo. Non si è ancora fermato, nonostante siano passati quasi cinquant'anni.

Venezia sí pentì, aggiudicandosi in sospetto anticipo ii suo secondo film.

Luigi Chiarini, direttore di un contestato Festival di Venezia dal 1963 al 1968, optò per un riconoscimento tardivo. Il mio secondo lavoro La Cina è vicina fu invitato in concorso al Lido nel '67 e vinse il Leone d'Argento. Un parziale risarcimento per l'abbaglio di due anni prima.

Nel bianco e nero di I pugni in tasca, brillava un interno familiare malato, incastonato nella nebbia della campagna padana. Nella finzione pulsava un apologo crudo, rivoluzionario e disturbante, terribilmente reale, sulla famiglia e sulle sue infinite contraddizioni.

Perché è da lì, dall'infanzia in famiglia, che ogni infelicità ha inizio. Ciò che siamo è ancora, almeno in parte, segnato da quei primi anni. Cambiare è possibile, ma quant'è lungo il cammino...

Calcolò l'impatto di un esordio così anticonvenzionale?

Con il mio primo lavoro accumulai esperienze assolutamente nuove. Platee affollate, reazioni favorevoli del pubblico, risate inattese. Moltissime nella prima proiezione. Non esprimevano isteria, ma stupore. Lì, nel buio della sala, non riuscivo a capire quella strana ilarità. Avevo provocato turbamenti, senza prevedere minimamente la portata eversiva del film né in fase di scrittura, né di regia.

Per il protagonista del fllm, omicida e blasfemo, scelse lei in prima persona?

Per quel ruolo io e la produzione contattammo anche Franco Nero e Gianni Morandi. Se si fosse realizzata l'ipotesi di affidarlo a Gianni, forse avremmo modificato il copione. Morandi era un ragazzo semplice e aveva un volto interessante, un bel sorriso, ma quando Franco Migliacci, il suo paroliere seppe di cosa si trattava insorse: «Un figlio che ammazza la madre? Semplicemente folle. Non è possibile che Gianni corra questo rischio». A dissuaderlo definitivamente pensò il padre. Quasi una circolarità perfetta, che paradossalmente, molto aveva a che fare con il film. Così chiudemmo quella finestra e a un tratto ci trovammo di fronte a un hbinario obbligato. O ci si accontentava di una soluzione autarchica, fatta in casa, distante dall'ingaggio del nome noto oppure il film non si sarebbe mai fatto.

I soldi non erano molti.

Non avevamo una lira. Per girare chiesi un prestito personale all'istituto di credito della mia famiglia. Mio padre era morto da poco e i beni dei Bellocchio erano gestiti da mio fratello. Fu lui a farmi coraggio: «È vero che io ho la procura e il potere di firma ma in fondo Marco, tu sei un coerede». Ci trovammo a Piacenza, sotto l'insegna della Banca commerciale e a braccetto entrammo. Un'operazione breve. Semplice. Formale. Ricordo perfettamente la cifra erogata: venti milioni di lire. Il primo e l'unico investimento riuscito della mia vita.

Tutta l'avventura produttiva di I Pugni in tasca fu picaresca.

Il produttore, Enzo Doria, era stato uno dei paparazzi della Dolce vita di Fellini. Da ragazzo, come molti dei miei amici, aveva frequentato il Centro sperimentale di cinematografia a Roma. Per confidenza con il luogo, tornavamo lì per trovare collaboratori, attori disposti a condividere la scommessa. Il direttore della fotografia (Alberto Marrama), l'operatore (Beppe Lanci), il fonico (Vittorio De Sisti) erano tutti ex allievi del Csc.

E l'inquietante piuriomicida, Ulv Quarzell, figlio di un'intellettuale svedese e di un diplomatico colombiano. Lou Castel.

Un giorno, nella mensa del Centro, passò questo ragazzo. Bello, un po’ cupo, silenzioso. Rimasi colpito. Chiesi informazioni e mi dissero che era un uditore dei corsi di regia. Mi avvicinai e gli proposi di fare un provino. Interpretò il personaggio con discrezione ma soprattutto a un tratto rise. Fu quell'esplosione incontrollata a farmi decidere. Se mi riconosco un merito, nelle tante incertezze di allora, è quello di aver scelto lui. Per quel ruolo Castel era perfetto.

Fu anche un'opzione dettata dall'ansia di girare?

Non potevo aspettare tanto. I soggetti non sono racconti o romanzi. La sceneggiatura ha sempre qualcosa di precario e se rimane in bilico troppo a lungo, fatalmente, muore. Venivamo da un faticoso rodeo senza successi, costellato da dolorosi rifiuti e dinieghi decisi. Finanziatori, tecnici, attori. Proponemmo una partecipazione economica anche a Ermanno Olmi e a Tullio Kezich. A metà degli anni Sessanta erano soci di un'illuminata società di Milano che aveva già prodotto importanti esordi. Il matricidio era troppo, si tirarono indietro. Ma dovevo iniziare a qualunque costo e lo feci col poco che avevamo. Anni dopo, in occasione del quarantennale di I pugni in tasca, con un'onesta autocritica che è raro trovare nei giornalisti, Kezich ammise di non aver capito il potenziale valore del film.

Perché decise di trasportare l’inferno tra le mura domestiche?

Conosco i miei limiti. Da ragazzo ero molto introverso e capii subito che dopo il diploma al centro di regia, avrei avuto enormi difficoltà a inserirmi nel mondo del lavoro partendo dalle retrovie. Molti registi avevano iniziato servendo il caffè sul set e quel pezzo di carta che avevo conquistato, in fondo, non significava nulla. Però io dipingevo e scrivevo poesie, e pur essendo la persona meno pratica dell'universo ‑ lo dimostra il percorso affrontato nel successivo mezzo secolo ‑ ebbi la capacità, molto pratica, di raccontare quella storia.. Mettere la mia famiglia, pur se trasfigurata, al centro del film non mi aiutò a liberarmene. E in fondo non mi interessava liberarmene. Mi diede una grande identità artistica.

C'è chi in I Pugni in tasca. ha letto in controluce, ritrovandoli, tutti i fermenti sociali che di il a poco confluiranno nel Sessantotto. Dopo l'anteprima svizzera, le firme di quarantuno parlamentari democristiani si ritrovarono sii una durissima lettera di protesta inviata ai Festival di Locarno.

L'idea di fare riferimento a un discorso politico non c'era, ma in una prima versione della sceneggiatura esisteva una scena in cui il protagonista entra in una sezione periferica del Pci per ottenere risposte alla sua infelicità privata e poi ne esce rapidamente, perché capisce che lì non può trovarne. La tagliammo. Tutto il cuore della prigione familiare che descrivevo, la sua chiusura autistica, le grida strozzate, escludeva la politica. Che poi I pugni in tasca abbia prefigurato con lungimiranza alcuni aspetti del Sessantotto non è escluso.

Ma, pare di capire, non è certo.

Io penso alla fugace fiamma del Sessantotto come a un atto gioioso di contestazione dell'esistente acceso da alcuni slogan affascinanti ma superficiali. L'autorità irrisa, la rivoluzione sessuale, la gente che scopava per la prima volta, quella che lasciava il tetto natìo e che mandava a quel paese i genitori. Un'apparente allegria senza una violenza esplicita. Personalmente, nomi ho mai torto un capello a nessuno.

I suoi rapporti con il Pci erano conflittuali.

Venivo dai Quaderni Piacentini nati proprio in casa mia. Cases, Cherchi, Fortini, Fofi. Avevo respirato un radicalismo anarchico, fortemente antipartitico, con cui l'immobilità del Pci, neanche con il più acrobatico dei compromessi, poteva coincidere. Arrivai ai bordi del 1968 a trent'anni. Né giovane, né vecchio. In un'età di mezzo che non mi impedì di osservare con i miei occhi la sfera ludica dell'assalto al cielo. Nel 1967, a fine novembre, alcuni amici mi consigliarono di andare a Torino. «All'Università tirano i libretti sulla cattedra, sbeffeggiano i professori, non è mai successo nulla di simile fino ad ora».

Lei andò?

Di corsa. Arrivai a palazzo Campana. Fummo dolcemente sgomberati dagli agenti. Noi e i poliziotti, gli uni davanti agli altri, senza astio. Gli agenti furono cortesi, noi li lasciammo fare. Misi parte di quel ricordo in Discutiamo, discutiamo con gli studenti chiamati a interpretare i professori contestati. Un episodio di Amore e rabbia, in cui divisi lo sguardo con Godard, Lizzani, Pasolini e Bertolucci. Allora e per una breve fase, il gesto fu più importante della struttura militare. Canti collettivi, cortei, desiderio di partecipazione, anche disordinato. Qualche mese dopo, e poi tragicamente negli anni successivi, prevalse l'idea dell'indispensabilità dell'organizzazione compartimentata per conquistare il potere. Era la negazione dell'immaginazione al potere.

Che poi degenerò.

In questo senso, l'eliminazione fisica della madre cieca e del fratello disabile da parte di Lou Castel in I pugni in tasca, aveva in sé, come mi suggerì mio fratello Piergiorgio, «un'idea dei propri simili quasi criptonazista». Una logica perversa che sarà la linea guida del terrorismo italiano. Uccidere in nome dell'ideologia. Non considerare più la persona, ma soltanto il bersaglio.

A quest'ottica manichea, il Sessantotto era alieno?

Per quel che ricordo, il movimento del Sessantotto fu molto meno violento della lezione di I pugni in tasca. I’assassino che fa le parallele sui corpo della madre è uno sfregio anarchico estremamente violento. Perciò, ripeto, I pugni in tasca prefigurò più che il «gioioso» Sessantotto il peggio che venne dopo.

Come è possibile che il regista più rivoluzionario degli anni Sessanta finisca poi per confluire in una formazione come Servire il popolo?

A distanza di anni quei due passaggi, il Sessantotto e il mio approdo nel maoismo italiano mi appaiono chiari. Quasi consequenziali. Lo spontaneismo sessantottino ebbe vita molto breve e, soprattutto, non trovò al proprio interno un pensiero nuovo per rivitalizzarsi. Ma il vero problema, forse, era soprattutto dentro di me. La mia identità borghese mi era insopportabile. Ero insoddisfatto, disgustato, smarrito. I successi non mi sollevavano il morale, mi pareva tutto senza interesse. La mia vita era entrata in un vicolo cieco, quando l'angoscia diventa fisica, e si affaccia la paura di perdere il controllo...

Ma perché scegliere proprio i maoisti, che dei culto della personalità facevano un pilastro delle loro apparizioni pubbliche, dei dogmatismo una bandiera e nella miriade di sigle e scissioni dell'epoca, erano appellati dai rivali con il perfido nomignolo di «Servire il pollo»? Con La Cina è vicina, già nel 1967, lei aveva corroso quel mondo disegnando un'enclave di un velleitarismo quasi commovente.

La Cina è vicina era una feroce presa in giro dei primi improbabili gruppi maoisti sparsi sul territorio nazionale. Una fotografia impressa molto prima del Vietnam e dell'indurirsi delle posizioni politiche, indigene e non. In seguito mi affascinarono la prospettiva di scoprire attraverso la cultura la storia di altre classi sociali e quelle frasi semplici, in bilico tra demagogia e schematismo: «Gli operai fanno tutto, ma non hanno nulla». L'imperativo morale prevaleva sul ragionamento politico.

Servire il popolo.

Poiché è il popolo che fa la storia, dovevo accettare di rinascere in un'organizzazione politica e rivoluzionaria che avesse come riferimento il libretto rosso di Mao quanto la lezione su Tebe e sulla sua costruzione di Brecht. Allora ragionavo così, In ballo, mentre gli anni Sessanta tramontavano, non c'era soltanto la rivoluzione culturale.

Proclamarsi maoisti somigliava a un equilibrismo, non soltanto dialettico.

Aderire ai maoisti fu un riflesso della mia primissima adolescenza. Il mio cortocircuito verso Servire il popolo era tenuto in piedi da un'infatuazione per qualcosa che pretendeva immedesimazione assoluta, nel quadro di una liturgia di integrazione quasi religiosa. Per i maoisti, cambiare abito, significava necessariamente stravolgere vita e costumi precedenti. Il partito lo chiedeva e per alcuni iscritti questa dedizione alla causa fu veramente totale. Non per me.

Il partito teorizzava e intanto batteva cassa. Ai militanti quadro veniva erogato uno stipendio mensile uguale in tutto e per tutto a quello base di un operaio, settantamila lire. Offrire sostanziosi contributi economici da parte vostra, ai contrario, era la regola.

Alcuni, tra cui Lou Castel, smantellarono completamente i propri patrimoni. Io rimasi nel mezzo. Contribuii. ma oculatamente.

Era avaro, Bellocchio ?

Pagavo devolvendo parte dei miei guadagni, senza però intaccare il patrimonio familiare peraltro molto medio. Frazionarlo avrebbe significato addentrarmi in una procedura burocratica di incertissima soluzione. Il compagno deputato alla riscossione era calabrese, molto discreto. Dal partito chiedevano costantemente un contributo, ma non giungevano all'impudenza di controllare i conti. Non era un sistema mafioso, anche se parlare di spontaneità della donazione, ingannerebbe l'intelligenza.

Alcuni documentari dell'Unione comunisti italiani marxista‑leninista, portano la sua firma.

Finanziai in prima persona e girai Ii Popolo calabrese ha rialzato la testa, il film sulla rivolta dei braccianti di Paola e partecipai a Viva il primo maggio rosso e proletario, per la festa dei lavoro 1969. A Paola vidi gente che viveva ancora in una povertà spaventosa. Nei tuguri con il braciere al centro.

Senza l'ideologia e la voce fuori campo, il documento antropologico sulla realtà calabrese avrebbe oggi tutta la forza di una notevole fotografia neorealista.

Ma si trattava di un'istantanea filtrata dalla propaganda. Il materiale, qualunque realtà rappresentasse (e la Calabria di allora, in cui l'assenza dello Stato era evidente e scuola, sanità e situazione abitativa erano emergenze non così distanti da quella ormai superata del brigantaggio), andava piegato al messaggio del partito. Qualche mese più tardi, Paolo Grassi mi offerse la regia di Timone d'Atene di Shakespeare. La proposta, metterlo in scena a Milano, mi parve l'occasione di «tagliare la corda» (nel doppio senso di chiudere e di scappare). Firmai, presi l'anticipo, lo girai al partito e feci le valigie.

Lei era all'ufficio stampa e propaganda di Roma. Quattro pareti in cui il grottesco era in costante agguato. Si discuteva di collettivizzazioni forzate e si tenevano Soviet allargati per decidere se era sensato che una donna abortisse o se non fosse stato meglio mettere comunque al inondo un futuro rivoluzionario.

La sede si trovava nel quartiere di Montesacro. Una villetta a tre piani, circondata da alberi, non distante dall'appartamento dove vissi cori alcuni compagni dell'epoca, nei primi mesi del 1969. Ii responsabile era Claudio Meldolesi, fratello di Luca.

Quale era esattamente il suo ruolo?

Non ho mai fatto volantinaggio davanti alle fabbriche o lavorato nei campi. Mediai per quanto mi fu possibile tra le mie abitudini borghesi e lo stile proletario della militanza. La mia adesione derivò anche da una catastrofe familiare. Alla fine del '68, mio fratello gemello si suicidò. Una tragedia che mi convinse ancor di più a buttarmi nella politica rivoluzionaria. Pensavo: «È stato il fallimento della nostra formazione borghese a trascinare nella disperazione mio fratello». Per questo mi impegnai a sradicarla. Servendo il popolo. L'ottimismo marxista‑leninista contro la disperazione della mia classe.

Per ii partito marxista‑leninista scrisse anche soggetti a sfondo cinese?

Durante la militanza le immagini che istintivamente mi venivano in mente le giudicavo vecchie, superate, ripetitive. Volevo ingenuamente che con l'esperienza maoista cambiasse ogni cosa, d'incanto, anche la mia arte. Non volevo più parlare del mio mondo. Niente più drammi borghesi. Tentai anche di fare una sceneggiatura ispirata a modelli marxisti, ma fu un lampo che si spense subito.

Secondo Aldo Brandirali, il leader di Servire il popolo, all'Unione si avvicinarono per un brevissimo periodo Umberto Eco, Bertolucci, Scola, Monicelli, Antonioni e persino Tinto Brass.

Mi prestai senza troppa convinzione a una blanda opera di proselitismo. Non ho convinto nessuno. I miei capi lo sapevano bene che ero un compagno inaffidabile, ma ero un regista abbastanza famoso, un nome da spendere e non dimentichiamo che, seppur per una brevissima stagione, Servire il popolo ebbe riscontri insospettabili. Numericamente strepitosi. Gli intellettuali domandavano, telefonavano, erano curiosi (Alberto Moravia per esempio) e l'interesse degli artisti fu reale, penso a Mario Schifano e Franco Angeli.

Invitò Moravia a osservare con i propri occhi?

Facemmo un grande raduno, uno di quei convegni oceanici che si concludevano sempre con una liturgia consolidata: «Lunga vita al compagno Aldo Brandirali, ai compagno Todeschini, a Marx, Stalin, Lenin e naturalmente, al compagno Mao Zedong». Questi cori fanatici ovviamente non entusiasmarono Moravia. Da parte mia, che ci fossero o meno ospiti celebri in platea, mi tenevo sempre un passo indietro. A raduno concluso, nelle puntuali riunioni di autocritica, Meldolesi me lo rimproverava. «Compagno Bellocchio, perché sei sempre così pessimista?». Una volta venne in avanscoperta Citto Maselli. Inorridì: «Il Pci è la sola ortodossia comunista, voi siete dei pericolosi estremisti».

Provò a irretire anche qualche industriale?

Sia pure con estrema discrezione incontrai Giovanni Pirelli. L'uomo, che aveva rifiutato di guidare la dinastia della gomma, aveva finanziato l’Einaudi e tante cause progressiste. Ero imbarazzato. Non osai proporre nulla di esplicito, ma accennai timidamente alla cosa. Pirelli reagì sorridendo, prima che potessi finire la frase: «Marco no, lascia perdere...». Mi liberò da un peso.

Come uscì da Servire il popolo?

Senza traumi. A Milano forse aiutato dalla distanza, dal lavoro, mi dimenticai letteralmente del partito.

Dal partito non la cercarono?

Sì, ma debolmente. Senza fastidi o persecuzioni. Incontrai il tesoriere a Milano. Saldammo con un assegno. Mi ricordo in quell'autunno, distintamente, quando in un ufficio del Piccolo Teatro, ii 12 dicembre 1969, sentimmo lo scoppio della bomba di piazza Fontana. La violenza ci circondava e, all'improvviso, mi resi conto che anche gli slogan della cultura maoista, quelli che ripetevamo come un mantra alle riunioni di Servire il popolo non avevano nessun rapporto con la realtà italiana di morte che si stava diffondendo dappertutto.

Cosa accadde agli altri?

Si dispersero in pochi anni. Qualcuno si ritirò o cambiò formazione, qualcun altro entrò nella lotta armata. Io ricominciai a fare il regista. Mi aveva affascinato l'idea di poter essere «rieducato». Pensai che il popolo, detentore della vera sapienza, potesse rieducarmi. Perciò dovevo andare alla scuola delle masse. Un ragionamento astratto, superficiale, allora mi sembrò vero. Per circa nove mesi. Certo, quando leggevo del rogo pubblico delle opere di Shakespeare, pensavo: «Ma cos'è questa cazzata?», però l'idea di partire dal basso, dagli sfruttati, per riscrivere la storia riconsegnando a loro ciò che era stato tolto dagli sfruttatori capitalisti aveva qualcosa di affascinante per me piccolo borghese dilaniato dai sensi di colpa. Di coerente.

Di fatto durante tutta l'esperienza filocinese, lei smise di lavorare nei cinema tradizionale.

Dal 1968 al 1970, ho smesso di fare il regista. Fu un suicidio. Sul piano della carriera questa scelta indubbiamente mi danneggiò. Se fossi stato un calcolatore, dopo due successi come I pugni in tasca e La Cina è vicina avrei dovuto programmare un film che consolidasse ancor più la mia fama. Invece dispersi tutto, ma non ho rimpianti. E neanche accuse, ho fatto tutto da solo.

Autoespellendosi da Servire il popolo, lasciò anche la politica?

Per quanto mi sforzassi di rifiutare la politica, per molti anni rimasero dentro di me scorie, stanze aperte, senza porta o luce, piene di suggestioni che ritornavano o sensi di colpa verso quei puri che in quell'esaltazione, veri crociati, avevano perso tutto, alcuni anche la vita.

Sofferenze e contraddizioni che entrarono prepotenti in un film come Sbatti il mostro in prima pagina. La Milano dei primi anni Settanta, gli scontri di piazza, un giovane Ignazio La Russa oratore inguainato in una mimetica verde militare che arringa la folla in mezzo alle bandiere monarchiche e missine dispiegate intorno al palco, ai piedi del Palazzo Sforzesco. La voce, la stessa di oggi: «Gli italiani che non hanno rinunciato all'appellativo di uomini, si uniscano al di sopra delle fazioni. [...] Questa manifestazione vuole dimostrare che è possibile battere il comunismo, che è possibile battere i nemici dell'Italia».

Riprendemmo per caso quel comizio di La Russa, il funerale di Giangiacomo Feltrinelli e una serie di tumulti durissimi che in quei giorni videro fronteggiarsi militanti di sinistra e polizia. Caroselli violentissimi e cortei che dalla realtà passarono direttamente in sala di montaggio. Se penso a Sbatti il mostro in prima pagina, rivedo la difficoltà di ricominciare a filmare un cinema non di partito, con testa e pensiero non ancora del tutto liberi. Per anni il film mi parve, a torto, di uno schematismo insopportabile, di una meccanicità che risentiva chiaramente di una lampante esigenza morale: non tradire il passato. Non cancellare la politica. Non chiudersi soltanto in una ricerca personale.

Sbatti il mostro in prima pagina fu anche l'unico progetto della sua vita affrontato su commissione. Il regista avrebbe dovuto essere Sergio Donati. Rinunciò. Scelsero lei.

Donati aveva scritto soggetto e sceneggiatura, per cambiarne l'impostazione chiesi aiuto a Goffredo Fofi. Con lui, pur mantenendo la struttura classica, introducemmo una serie di temi politici che ci sembrarono obbligati. Accadde anche per Nel nome del padre. Sentivo la necessità di introdurre in quella storia così rivolta al passato, una serie di personaggi che in qualche modo si contrapponevano al vecchio mondo in dissoluzione del collegio cattolico.

Lei proseguì nella demolizione delle istituzioni. Il collegio del Nome del padre. La riflessione senza indulgenze sui meccanismi repressivi della vita militare di Marcia trionfale e Matti da slegare, apologo sulla coercizione del disagio psichico, che anticiperà il suo controverso rapporto con lo psichiatra Massimo Fagioli.

A metà degli anni Settanta, girai Matti da slegare sulla chiusura dei manicomi Perciò intervistammo ex pazienti, liberi, ma non guariti. Matti affascinanti, giovani disturbati che la società cercava nobilmente di recuperare. Naturalmente parlo a titolo personale, il film ha altri tre autori, Agosti, Petraglia e Rulli. Oggi mi è chiaro che era un modo per non vedere la mia follia. Allontanarla. Perché in fondo le mie scelte estreme, sbagliate sempre, rispondevano a un'esigenza sincera, di cui non ero consapevole: Chi sono? O anche: così non mi sopporto più. La mia pazzia non mi piace più, anzi mi fa paura... Nel 1973 il contesto era devastante. Eroina, Lsd, un pezzo di generazione completamente distrutto dalla droga. E il terrorismo. Uccidersi o uccidere. Un deserto senza risposte spinse tanti giovani verso la psicoterapia. Ne fiorivano a quei tempi di tutti i tipi.

Anche lei?

Anch'io. Andai in analisi da uno psichiatra. I risultati non furono straordinari, ma per la prima volta le domande più che le risposte trovarono delle parole. E delle pretese maggiori. Freud era cultura, letteratura, ma restavo sempre lo stesso mentre invece c'era una parte di me che ancora una volta voleva cambiare... Anche per l'insistenza di un grande amico andai da Fagioli.

Che faceva i seminari di analisi collettiva, definiva Freud «un imbecille» e si era fatto espellere dalla Società psicoanalitica italiana.

Il grande amico che mi convinse a provare era Piero Natoli, regista, attore e sceneggiatore di grande intelligenza e sensibilità che purtroppo non c'è più. Piero iniziò a parlarmi degli incontri con Fagioli come di un'esperienza storica. In quell'entusiasmo da neofita, scorsi un pericolo. Ero stato deluso dall'esperienza maoista e non volevo avere un'altra delusione. Diffidavo anche dell'idea di poter guarire «radicalmente» per quell'antico pregiudizio che un artista dovesse essere per forza un matto, un malato eccetera. Sì, volevo cambiare, rinnovarmi, ma forse più per ritrovare la forza di immaginazione delle origini che per essere sano di mente. Normalità, mediocrità? Questo mai... in fondo, in principio, mi sarei accontentato di migliorare un po' il comportamento. Nell'aprile del 1977 decisi di andare all'analisi collettiva (era ancora un solo seminario, poi diventeranno quattro). Si svolgeva a Villa Massimo, c'era sempre il tutto esaurito.

Ricorda qualche volto?

Tanti giovani e poi psichiatri, artisti, una volta andarono anche Roberto Benigni, Nicola Piovani, Cesare Zavattini e tanti altri.

Cosa la spinse a trasformare questa curiosità in una fideistica aderenza alla proposta di Fagioli?

Nessuna «fideistica aderenza», no. In fondo la persona che va da uno psichiatra si comporta dapprincipio in modo un po’ schizofrenico, nel senso che una parte di lui va con la sincera volontà di curarsi (ha paura di impazzire) e un'altra parte per l'esatto opposto, per non curarsi e dimostrare così l'inutilità di ogni cura perché in fondo siamo tutti malati. Io andai con questa doppiezza, ma restai nell'analisi collettiva semplicemente perché le interpretazioni di Fagioli dei miei sogni mi colpirono, intuii che aveva colto qualcosa di molto profondo, per cui, come tutti i pazienti, cercai subito di attaccarlo, di svalutarlo, ma Fagioli, e questo fu il mio secondo stupore, seppe resistere senza mai consolarmi. E questa capacità di resistenza e di rifiuto della consolazione valeva per tutti. Così aprì un varco alla mia incurabilità. È chiaro che per molti anni questa psicoterapia collettiva (all'individualista, al narciso) mi creò molti problemi (di rapporto con i compagni e le compagne, ci chiamavamo ancora così, ora non più), ma se restai così a lungo perché «sentivo» dei risultati e nello stesso tempo, pur partecipando all'analisi collettiva, continuavo a fare delle cose belle (la terapia evidentemente rigenerava la mia immaginazione), riconosciute in tutto il inondo, penso a Salto nel vuoto, per esempio.

Nei 1985, per Il diavolo in corpo con Maruschka Detmers e Federico Pitzalis, la sua collaborazione con Fagioli sfiorò l'osmosi.

Non capisco la parola «osmosi». Io chiesi semplicemente a Fagioli di aiutarmi. Un po’ come l'apprendista stregone avevo deciso di raccontare una grande storia d'amore. Evidentemente ero tentato da questo azzardo e avrei potuto cavarmela benissimo, ma le mie esigenze più profonde, come le mie pretese più coscienti, mi fecero capire, già in corso d'opera, che non ero in grado di realizzare da solo certe immagini, semplicemente perché non le avevo, non ne avevo l'esperienza, ne avevo alcune, me ne mancavano altre e fondamentali, perciò chiesi aiuto a Fagioli, alla sua esperienza e alla sua immaginazione. E Maruschka era d'accordo perché anche lei sentiva questa insufficienza e, come per me, le era insopportabile subirla. E così, come ho sempre detto, si lavorò in tre e ne è uscito un film originale di cui rivendico di essere l'autore, ma non il solo autore, e anche quel coraggio di aver sfidato il conformismo, l'assurda regola che un autore quasi per una sua dignità professionale non possa essere «illuminato» da nessuno che non faccia parte della famiglia dei cineasti.

Leo Pescarolo, il produttore del film, la denunciò. Provarono a interdirla, a sottrarle la pellicola. La polemica sovrastò l'opera, che pure partecipò alla trentanovesima edizione del Festival di Cannes, nell'ipercineflla Quinzaine des réalisateurs.

Pescarolo cercò di trascinarmi in giudizio, mentre il coro polifonico della cultura dominante, sui media cercò inutilmente di massacrarmi. Contumelie, pettegolezzi, insulti, cattiverie. «Bellocchio è stato plagiato», «Bellocchio si è rimbambito». Il diavolo in corpo si concluse magnificamente, girò il mondo ottenendo dappertutto un grande successo. È un film che ha saputo resistere al tempo e alle calunnie che ci furono solo in Italia. Nel mondo fu giudicato e apprezzato per quello che era.

Del fenomeno quasi esclusivamente romano di Fagioli e della sua teoria, in molti hanno delineato un giudizio feroce. Per lo psichiatra, l'aggettivo più benevolo è «settario». Poi giù, da «megalomane» a «cialtrone» lungo una scala dispregiativa che non di rado accarezza l'insulto. In questi anni, utilizzando anche la piattaforma web, i detrattori non gli hanno risparmiato nulla.

Non mi stupisce. Le teorie fagioliane, che molti detrattori credo non abbiano mai letto, si contrappongono radicalmente a tutta una cultura genericamente freudiana ancora largamente dominante. Attaccano per difendere un loro potere. Potrebbe essere uno scontro mortale, per loro.

Segue ancora le sue sedute?

E un anno che non vado, e non sono andato per alcuni anni in passato, come spesso sono mancato per ragioni di lavoro. Potrei ritornare o non tornare più. E un fatto mio, privato. Ma non rinnego nulla. Quello che sono oggi è anche grazie a quella ricerca, a quella formazione, a quella cura.

Con Vincere ha raccontato la storia quasi sconosciuta del rapporto tra Benito Mussolini e la sua prima moglie, Ida Dalser. In Italia l'hanno ricoperta di riconoscimenti, dal David di Donatello al Nastro d'argento, è stato distribuito in tutto il mondo. Oggi Bellocchio come si trova con Bellocchio?

La paura di smarrire fantasia e ispirazione è passata. Vivo e lavoro da tanti anni cercando di difendere la mia libertà. Nessun incontro l'ha limitata se non per mia scelta. Faccio un mestiere complicato, fatto di limiti e condizionamenti, ricerca e aggiornamento. Essere registi è una serie infinita di passaggi, anche kafkiani, per arrivare (a differenza di Kafka) a una meta. Oggi, se sento obblighi o condizionamenti, scappo. Magari con i miei tempi, ma scappo. Poi come è capitato a tutti, a volte ho sbagliato anch'io. Mi sono ingannato, accadrà ancora. Però lasciatemi sbagliare, l'importante è continuare a divertirsi. «Ti diverti, ti piace e in più ti pagano», diceva Mastroianni. Effettivamente sono fortunato.
Oggi n. 35 1.9.10
Sgarbi settimanali

Che bella la Roma del futuro anche senza "archistar"
di Vittorio Sgarbi critico d'arte

Le cosiddette archistar nuociono all'architettura. La trasformano in un sistema, sempre più omogeneizzato, che riduce la progettualità a brand di successo, in una fiera permanente della vanità d'autore, spettacolo per i media, in cui vince non chi fa meglio, ma chi fa più audience. Chi ne paga le conseguenze sono gli architetti, o le architetture, che star non sono. Pensiamo, ad esempio, a Roma, per la quale si è detto che l'architettura, di recente, è tornata a parlare in grande. Alludendo al coinvolgimento di note archistar internazionali, da Renzo Piano a Richard Meier, da Zaha Hadid a Odile Decq, che da sole sarebbero sinonimo di architettura di valore. In realtà, se a Roma qualcosa si è mosso, non è solo per le archistar, esibite dai loro committenti con la stessa supponenza cafona con cui si mostrano i marchi degli abiti alla moda. Esiste anche un'altra architettura, più silenziosa, forse a sua volta discutibile, ma non meno significativa nel segnare l'attuale ripresa di Roma. Esempi? Il Palazzetto Bianco in via San Fabiano, dinamico edificio a prua, tra Futurismo e lo stile di Frank Gehry. Il progetto è di Paola Rossi, in collaborazione con Massimo Fagioli, discusso guru della psicoterapia, cimentatosi anche altrove con la creatività artistica, in verità con esiti modesti. Poi la Biblioteca Pio IX in Vaticano, più sobria, ma incisiva nelle aperture taglienti, firmata da Riccardo Roselli e Jeremy King.
E la diseguale, non sempre ispirata, ma suggestiva «macchina di culto» della chiesa del Volto di Gesù, alla Magliana, dello studio Sartogo. Lo stesso Meiet, piuttosto che per l'ottusa, invadente scatola a cui l'Ara Pacis fa da arredamento, va ricordato per la chiesa di Dio Misericordioso a Tor Tre Teste, libera di agire in un contesto tutto da inventare, Che però, lontana dai riflettori dell'archishow, non ha suscitato alcuno stucchevole dibattito sui giornali.

il Fatto 31.8.10
Cinema
Bellocchio: racconto la mia follia
Psicanalisi, maoismo e pugni in tasca
Esce oggi Micromego, qui di seguito un estratto dello lungo conversazione con Marco Bellocchio.
di Malcom Pagani

Il mio viaggio politico in "Servire il popolo" fu avventuroso, quando uscii, mi sentii libero
Oggi mi è chiaro che certe esperienze erano un modo per non vedere o allontanare le mie ossessioni

Nell'ufficio romano di Marco Bellocchio, anonima gabbia al piano terra di un palazzone romano appoggiato alla Nomentana, in cui sostenere il peso delle idee tra pile di sceneggiature, fotografie in bianco e nero, cartoline autografe del ventennio e tomi di Hegel, siede il regista che porta il suo nome. L'intera opera di Bellocchio poggia sulla rivolta. Al sistema e alle sue ipocrisie. Vaticano, famiglia, esercito. Ventiquattro film in mezzo secolo di attività. Premi, polemiche, divieti, riflessioni. Bellocchio non ha fretta. Ha tempi da artigiano, pause, ripensamenti continui. Negli occhi stretti, la febbre dell'ex allievo dei Barnabiti che all'alba dei '60, con "I pugni in tasca" destrutturò un secolo e mezzo di consuetudini borghesi. Quando prolunga un ragionamento, si fa aiutare dalle mani. Allora disegna progetti nell'aria, per poi riposare in attesa di una nuova partenza. E' timidezza, tormento, curiosità. Nel suo recinto, la sinistra potenza dell'immagine non corrisponde mai allo sforzo economico. E' un giardino di visioni e incubi, estremamente riconoscibili, che descrivono da una prospettiva ravvicinata la vigliaccheria del sopruso, senza promettere epifanie di salvezza. Alle figure cui tocca la sua metaforica carezza, capita di rimanere nella memoria. La Chiesa di una vita, non l'ha ancora trovata. Così bussa, interroga, si appassiona, abbraccia e rifiuta. Ad ottobre, le stagioni saranno settantuno. Quando a intervista conclusa, gli prospetti il futuro, accelera il congedo: "Qualcosa faremo, proveremo a non annoiarci". Accompagna, saluta, chiude la porta. Solo. Finalmente.
Lei planò sul cinema italiano con una molotov come "I pugni in tasca". L'incendio fu immediato.
Avevo soltanto ventisei anni. Ero immaturo, entusiasta, inconsapevole. Quella de " I Pugni in tasca" è una piccola storia, paradigmatica di quanto intenzioni e risultato non siano mai in stretta parentela tra loro.
Nel bianco e nero de Ili pugni in tasca", pulsava un apologo crudo, rivoluzionario e disturbante, terribilmente reale, sulla famiglia e sulle sue infinite contraddizioni.
Perché è da lì, dall'infanzia in famiglia, che ogni infelicità ha inizio. Ciò che siamo è ancora, almeno in parte, segnato da quei primi anni.
C'è chi ne "i Pugni in tasca" ha letto tutti i fermenti sociali del '68.
L'idea di fare riferimento a un discorso politico non c'era. Tutto il cuore della prigione familiare che descrivevo, la sua chiusura autistica, le grida strozzate, escludeva la politica.
Ma, pare di capire, non è certo.
lo penso alla fugace fiamma del '68 come a un atto gioioso di contestazione dell'esistente. L'autorità irrisa, la rivoluzione sessuale, la gente che scopava per la prima volta, quella che lasciava il tetto natio e che mandava a quel paese i genitori. Un'apparente allegria senza una violenza esplicita. (...) Personalmente, non ho mai torto un capello a nessuno.
I suoi rapporti con Il Pci erano conflittuali.
Avevo respirato un radicalismo anarchico, fortemente antipartitico, con cui l'immobilità del Pci, neanche con il più acrobatico dei compromessi, poteva coincidere. Arrivai ai bordi del 1968 a trent'anni. Né giovane, né vecchio. Nel 1967, a fine novembre, alcuni amici mi consigliarono di andare a Torino. "All'Università tirano i libretti sulla cattedra, non è mai successo nulla di simile fino adora". Lei andò?
Di corsa. Arrivai a Palazzo Campana. Fummo dolcemente sgomberati dagli agenti. Noi e i poliziotti, gli uni davanti agli altri, senza astio. Gli agenti furono cortesi, noi li lasciammo fare. Qualche mese dopo e poi, tragicamente negli anni successivi, prevalse l'idea dell'indispensabilità dell'organizzazione compartimentata per conquistare il potere. Che poi degenerò.
Come è possibile che il regista più rivoluzionario dell'ultima decade dei '60 finisca poi per confluire in una formazione come "Servire il popolo"?
A distanza di anni quei due passaggi, il '68 e il mio approdo nel maoismo italiano, mi appaiono chiari. Il vero problema, forse, era soprattutto dentro di me. La mia identità borghese mi era insopportabile. Ero insoddisfatto, disgustato, smarrito. I successi non mi sollevavano il morale, mi pareva tutto senza interesse. La mia vita era entrata in un vicolo cieco, quando l'angoscia diventa fisica, e si affaccia la paura di perdere il controllo...
Ma perché scegliere proprio i maoisti, che del culto della personalità facevano un pilastro delle loro apparizioni pubbliche, del dogmatismo una bandiera ed erano appellati dai rivali con il perfido nomignolo di "Servire il pollo"?
Mi affascinarono la prospettiva di scoprire attraverso la cultura, la storia di altre classi sociali e quelle frasi semplici, in bilico tra demagogia e schematismo: "Gli operai fanno tutto, ma non hanno nulla". L'imperativo morale prevaleva sul ragionamento politico.
Il partito teorizzava e intanto batteva cassa.
Alcuni, tra cui Lou Castel, smantellarono completamente i propri patrimoni. lo rimasi nel mezzo. Contribuii, ma oculatamente.
Era avaro, Bellocchio?
Pagavo devolvendo parte dei miei guadagni, senza però intaccare il patrimonio familiare peraltro molto medio. Il compagno deputato alla riscossione era calabrese, molto discreto.
Quale era esattamente il suo ruolo?
Non ho mai fatto volantinaggio davanti alle fabbriche o lavorato nei campi. La mia adesione derivò anche da una catastrofe familiare. Alla fine del '68, mio fratello gemello si suicidò. Una tragedia che mi convinse ancor di più a buttarmi nella politica rivoluzionaria.
Secondo Aldo Brandirali, il leader di "Servire il Popolo", all'Unione si avvicinarono per un brevissimo periodo Eco, Bertolucci, Scola, Monicelli, Moravia, Antonioni e persino Tinto Brass.
Mi prestai senza troppa convinzione a una blanda opera di proselitismo. Non ho mai convinto nessuno.
Invitò Moravia ad osservare con i propri occhi?
Facemmo uno di quei convegni oceanici che si concludevano sempre con una liturgia consolidata: "Lunga vita al compagno Brandirali, al compagno Todeschini, a Marx, Stalin, Lenin e naturalmente, al compagno Mao Tse Tung". Da parte mia mi tenevo sempre un passo indietro. Nelle riunioni di autocritica, me lo rimproveravano. «Compagno Bellocchio, perché sei sempre così pessimista?». Una volta venne in avanscoperta Citto Maselli.
Inorridì: "Il Pci è la sola ortodossia comunista, voi siete dei pericolosi estremisti".
Come uscì da "Servire il Popolo"?
Senza traumi. AMilano forse aiutato dalla distanza, dal lavoro, mi dimenticai letteralmente del partito.
Lei proseguì nella demolizione delle istituzioni. "Matti da slegare", anticiperà il suo controverso rapporto con lo psichiatra Massimo Fagioli.
Oggi mi è chiaro che era un modo per non vedere la mia follia. Allontanarla. Perché in fondo le mie scelte estreme, sbagliate sempre, rispondevano a un'esigenza sincera, di cui non ero consapevole: Chi sono? O anche: Così non mi sopporto più. La mia pazzia non mi piace più, anzi mi fa paura... Nel 1973, il contesto era devastante. Uccidersi o uccidere. Un deserto senza risposte spinse tanti giovani verso la psicoterapia.
Anche lei?
Anche io. Andai in analisi da uno psichiatra. I risultati non furono straordinari, ma per la prima volta le domande più che le risposte trovarono delle parole. Anche per l'insistenza di un grande amico andai da Fagioli.
Che faceva i seminari di analisi collettiva e definiva Freud "Un imbecille".
Piero Natoli iniziò a parlarmi degli incontri con Fagioli come di un'esperienza storica. In quell'entusiasmo da neofita, scorsi un pericolo. Ero stato deluso dall'esperienza maoista e non volevo ripetermi. Nell'aprile del 1977 decisi di andare all'analisi collettiva, c'era sempre il tutto esaurito. Lì incontrai anche Benigni.
Oggi Bellocchio come si trova con Bellocchio?
La paura di smarrire fantasia e ispirazione, è passata. Vivo e lavoro cercando di difendere la mia libertà. Poi come è capitato a tutti, a volte ho sbagliato. Faccio un mestiere complicato. Mi sono ingannato, accadrà ancora. Però lasciatemi sbagliare, l'importante è divertirsi. "Ti diverti, ti piace e in più ti pagano", diceva Mastroianni. Effettivamente sono fortunato.

MICROMEGA In uscita
Cosa è rimasto oggi di quello che una volta si chiamava "cinema impegnato"~ Se lo chiede MicroMega che dedica al tema il suo sesto numero dell'anno. Lo fa coinvolgendo, in una serie di tavole rotonde. tutti gli operatori del settore: attori. registi, produttori.
Il nuovo MicroMega verrà presentato alla Mostra di Venezia lunedì 6 settembre alle 17.30 Villa degli Autori. Lungomare Marconi 56B.

Repubblica 6.7.10
Marco Bellocchio
Stavolta torno in famiglia così nacque la mia ribellione"
Il regista porterà alla Mostra di Venezia "Sorelle Mai", film in sei episodi. Mentre prepara la regia del "Rigoletto" con Placido Domingo in diretta tv mondovisione
di Paolo D’Agostini

ROMA. Marco Bellocchio questa volta non parla di grandi progetti, come è stato Vincere (o quello, ancora nella sua mente, ispirato al caso Englaro). Ma di un «piccolo film», dice lui, «di fantasia, non documentario e tantomeno documentario nostalgico». Appena congedato dalla sala di montaggio, in tempo per consentirgli di dedicarsi al Rigoletto televisivo previsto in mondovisione da Mantova a inizio settembre. E pronto per trovare un posto alla Mostra di Venezia. Il piccolo film, che ha appena deciso di intitolare Sorelle Mai, è lo sviluppo di Sorelle presentato quattro anni fa. Che cosa lo rende interessante per tutti, sorprendentemente personale e creativo, anche se si tratta del risultato delle esercitazioni dell´annuale laboratorio Farecinema che Marco dirige dal ‘97 e tra fine luglio e inizio agosto si rinnoverà a Bobbio, paese natale del regista vicino Piacenza? L´origine di servizio, didattica, è da Bellocchio personalizzata al punto da farne un suo film. Scrigno, una volta in più, delle sue memorie e idiosincrasie nei confronti del natio borgo selvaggio. Le location sono autentiche, compresa la vera casa di famiglia, e i personaggi sono in buona parte affidati ai suoi familiari incluse le due anziane sorelle. Bellocchio dice che la ragione è pratica ed economica. I sei episodi che articolano la storia corrispondono ad altrettante sessioni del seminario. Ma attraverso la presenza in particolare dei due figli di Bellocchio, Pier Giorgio e Elena, colti nel passaggio da un´età all´altra, raccontano anche del restare e dell´andar via dal paese d´origine, del tornare e del ripartire dalla casa di famiglia.
«Ho accettato l´idea di tenere questo laboratorio di regia mettendo dentro all´esperienza qualcosa che mi riguardava e che sentivo, e mi consentisse un atteggiamento non teorico ma di partecipazione e di personale divertimento. Di questo fa parte il piacere di vedere una bambina, mia figlia, crescere dai quattro ai quattordici anni. E seguire l´altro figlio di vent´anni più grande nel corso di una stagione che lo ha segnato. Nella mia storia giovanile c´è stata la ribellione e anche il coraggio del distacco e dell´allontanamento, che non ha lasciato in me rimpianti o sensi di colpa, se non l´inevitabile sentimento del confronto tra il mio destino e quello delle mie sorelle invece rimaste lì. I miei ritorni sono sereni, non intendono riaprire alcun conto con il passato».
Perché il titolo Sorelle Mai?
«Mi è piaciuta questa correzione dell´originale, che era Sorelle. A un certo punto del film viene pronunciato da qualcuno questo cognome, Mai appunto. Mi piaceva l´ambiguità della parola. Riecheggia il mio sentimento che è di distacco e di diversità rispetto alla famiglia d´origine, ma anche di inevitabile appartenenza. Tornando alle motivazioni della mia ribellione, si fondavano sul rifiuto della vita provinciale, della borghesia piacentina, del peso dell´educazione cattolica. Non della mia famiglia».
Ognuno dei sei episodi ha un proprio svolgimento. Ma vi ricorrono situazioni e figure. Le due attempate "sorelle" (vere sorelle di Bellocchio Maria Luisa e Letizia) sono le zie presso le quali cresce la piccola e poi adolescente Elena. Che è figlia di Sara (Donatella Finocchiaro), a sua volta sorella di Giorgio (Pier Giorgio Bellocchio). Lei aspirante attrice a Milano e lui a Roma preso nel vorticoso alternarsi di progetti e sconfitte, effimeri fidanzamenti e fughe da oscuri pericoli, si ritrovano periodicamente nella vecchia casa di paese confrontando i rispettivi alti e bassi.
Arriviamo a Rigoletto, con Placido Domingo. Opera verdiana che aveva già segnato il suo debutto nella regia lirica (dal vivo) nel 2004. Cosa la spinge a questa nuova edizione?
«Mi interessa l´occasione proprio in quanto televisiva, il precedente della regia "vera" era stato insoddisfacente. Mi interessa la possibilità di vedere l´opera attraverso una macchina da presa. Non ho mai nutrito una speciale passione per il melodramma ma ha fatto parte del panorama, della colonna sonora della mia formazione piacentina».
E invece l´idea di un film fondato sui sentimenti suscitati dal caso di Eluana Englaro?
«Non posso dire che sia in piedi, perché ancora non lo è. Resta il desiderio, e sono tuttora alla ricerca di una trama, di fare un film sull´Italia. Avevo anche in mente il titolo, "Italia mia", ma è appena uscito un libro di Vincenzo Cerami intitolato così. Sempre più convinto che il mio modo di fare cinema comporta che le cose più evidenti, scandalose e vergognose che vediamo in giro, debbano essere trasformate. Con la possibilità di riconoscere personaggi reali, però trasfigurati. Non è nel mio Dna la presa diretta, non do il mio meglio. Con tutto il rispetto non potrei fare "Draquila" di Sabina Guzzanti, la denuncia».
Ma le riesce sempre di avere un´opinione, di farsi una convinzione personale su quello che le accade intorno? Per esempio, dall´attualità, sulla vicenda di Pomigliano d´Arco. Torti e ragioni, destra e sinistra, giusto e sbagliato le sono sempre chiari?
«Soffro del fatto che le nostre convinzioni si formano sulle informazioni che riceviamo dal sistema mediatico. Raramente di prima mano. Poi posso solo dire un´altra cosa. Che credo sia ora di riconoscere il principio della diseguaglianza, e del taglio dei privilegi ingiusti ovunque si annidino, naturalmente sulla sacrosanta base del principio di uguaglianza di doveri e opportunità. Ma sono inseguito dal timore di parlare a vanvera delle cose che non conosco da dentro: la riprova ce l´ho dal come sento parlare e dai luoghi comuni che si pensano a proposito del mio ambiente, il cinema, dipinto come covo di parassiti».

Repubblica 9.8.10
Lezioni di vitalità
Stern: Così conosciamo attraverso il corpo
di Massimo Ammaniti

Ha appena ricevuto un premio. Si tratta dell' award dell' Associazione Italiana della Salute Menta-le Infantile e dell' Istituto Italiano per gli Studi Filosofici. Lui è Daniel Stern, clinicoe ricercatore che ha rivoluzionato la nostra concezione dello sviluppo psicologico del bambino e che ha compiuto a ritroso il viaggio di Freud portando la "peste" nel mondo psicoanalitico europeo. In altre parole mentre Freud aveva portato la "peste", come lui scrisse introducendo la psicoanalisi nel pragmatismo della cultura americana, Stern venendo ad insegnare a Ginevra è stato uno degli artefici della "rivoluzione intersoggettiva" che sta modificando profondamente l' approccio dei clinici della salute mentale. Non sono le pulsioni sessuali ed aggressive a motivare il comportamento umano, quanto piuttosto il bisogno di comunicare e di condividere con gli altri le proprie emozioni e le proprie esperienze, prima con i genitori e poi con le persone che via via si incontrano. Nel nostro dialogo abbiamo concordato di parlare del suo ultimo libro che sta uscendo in questi giorni negli Stati Uniti Forms of vitality ("Forme di vitalità") pubblicato dalla Oxford University Press (in Italia per Raffaello Cortina). Ma che cos' è oggi la vitalità, tenendo presente che il filosofo francese Bergson ne aveva parlato in termini spiritualistici. Stern ha un linguaggio evocativo e dopo aver premesso che è un concetto sfuggente e poco esplorato dalla psicologia e dalla psicoanalisi, racconta le sue idee: «Noi abbiamo delle "impressioni di vitalità", proprio come respiriamo l' aria. Naturalmente quando entriamo in rapporto con le altre persone valutiamo in modo intuitivo le loro emozioni e i loro stati d' animo, il loro stato di salutee di malattia sulla base della vitalità che viene espressa attraverso i movimenti. E' centrale nella vitalità il movimento, che si realizza in un arco di tempo, anche molto corto». Per rafforzare le sue argomentazioni Stern prende in mano il bicchiere dal tavolo e lo avvicina a sé; la dinamica e il significato è diverso se la cinematica del movimento è veloce o addirittura brusca, oppure se è armonica o rallentata. Qui ci riporta alla fenomenologia dell' essere, un profilo temporale che si caratterizza per un inizio del movimento, un suo fluire ed una sua fine. E non solo il tempo si intreccia col movimento ma anche con la forza, la collocazione nello spazio e la sua intenzionalità. Anche Freud parlava dell' Io corporeo attorno a cui si organizza la vita psichica del bambino, ma tuttavia riconosceva che il lavoro di esplorazione della psicoanalisi si fermava di fronte allo "strato roccioso", ossia il limite invalicabile della dimensione corporea. Ma Stern non ritiene che il corpo sia inesplorabile. «Mentre la psicoanalisi ha tradizionalmente privilegiato la parola e la narrazione, ossia l' ambito della conoscenza esplicita che può essere comunicata verbalmente, la ricerca in campo infantile ha messo in luce che esiste una conoscenza implicita, più automatica e non riflessiva che si esprime attraverso il nostro corpo senza che ce ne rendiamo conto. Ad esempio quando incontriamo una persona la guardiamo nel voltoe negli occhi ed abbiamo un' impressione immediata del suo stato d' animo e delle sue intenzioni e senza rendercene conto ci disponiamo all' incontro, esprimendo a nostra volta nel volto e nel corpo il nostro orientamento. E' un campo di cui si parla sempre più spesso, quello della cognizione incarnata, ossia radicata all' interno del corpo. Mentre si pensava in precedenza ad un m o d e l l o d e l l a mente astratto, via via è stata considerata "embodied" ossia radicata nel corpo, così come è stato teorizzato dall' epistemologo Varela». D' altra parte le sensazioni corporee interagiscono con la mente umana. «Vi è un background dei sentimenti che è influenzato dai cambiamenti e dalle perturbazioni dello stato interno del corpo, che include anche i muscoli e addirittura il profilo biochimico dell' ambiente interno, ossia "il tono generale fisico del nostro essere"». E qui Stern riprende la definizione che ne da il neurobiologo Damasio. Molte sensazioni fisiche condizionano il nostro stato mentale, come ad esempio la stanchezza oppure l' energia o anche la tensione e l' eccitamento fino ad arrivare a sensazioni più difficili da descrivere, ma ugualmente significative come la stabilità e l' instabilità. Naturalmente molte sensazioni sono rilevanti per il nostro stato di vitalità, che potrebbe essere definito come un termometro continuo del nostro stato corporeo. E' un termometro, tuttavia, di cui non siamo consapevoli, e quando le sensazioni corporee entrano nella coscienza diventano sentimenti che possono essere espressi a parole. Le dinamiche del corpo sono sempre più al centro del nostro dialogo e dal momento che Stern nel suo libro parla anche dei riflessi della vitalità nell' arte, gli faccio vedere nel computer l' immagine del Satiro Danzante, la statua di bronzo rinvenuta in mare che si trova a Mazara del Vallo. E' un' immagine che esprime bene la tensione e la vitalità del corpo del Satiro, nell' attimo in cui sta saltando sul piede destro e solleva la gamba sinistra, estendendo le braccia e piegando dolcemente la testa. «Sarebbe una buona illustrazione della vitalità», commenta Stern. Ma nell' arte ci sono altri esempi per le dinamiche della vitalità. «Ce ne sono nella musica oppure nel ballo. E anche nel cinema che possono creare forme di vitalità utilizzando mezzi espressivi diversi e simultanei, dal suono, ai gesti e ai movimenti dei protagonisti, agli effetti teatrali e scenici. Se si considera una sequenza cinematografica, si può vedere come l' inquadratura avvicinandosi o allontanandosi dal protagonista susciti risonanze diverse nello spettatore, proprio come il crescendo nella musica. Una buona illustrazione si può vedere nel film di Hitchcock Uccelli quando si incontrano i due protagonisti Melanie e Mitch, con un' alternanza di inquadrature sul volto dell' uno e dell' altra con un campo sempre più ravvicinato. Fino a che l' inquadratura sul volto di Melanie si ferma e la progressione si è interrotta, suscitando un interrogativo nello spettatore. Nelle immagini successive si scopre che un uccello era sceso in picchiata su di lei e l' aveva colpita in testa e per questo l' attenzione di Melanie non era più indirizzata all' incontro con Mitch ma al tema dell' uccello. Questo è un buon esempio di come ogni forma di arte possa rappresentare con linguaggi e tecniche diverse le forme dinamiche della vitalità». Infine ci sono anche le applicazioni cliniche nella psicoanalisi. «Nel contesto della psicoterapia la vitalità si esprime in modi diversi, non solo nello scambio verbale fra psicoanalista e paziente, ma nel loro modo di disporsi e di atteggiarsi con i loro corpi quando ad esempio il paziente entra in seduta e guarda in faccia il proprio psicoanalista per scoprire di che umore sia. Ma anche il modo di suonare alla portao il darsi la mano rappresentano espressioni importanti della vitalità di entrambi, a cui troppo spesso non si dà abbastanza importanza».

Repubblica 11.8.10
Quei legami famigliari "scritti" nel cervello
di Massimo Ammaniti

La figura materna è l´archetipo della vita: madre che protegge, che si prende cura e che rinuncia a se stessa per i propri figli. Forse per questo motivo è difficile attribuire alle madri sentimenti negativi come l´odio e il risentimento, che in alcuni momenti possono essere emergere e che possono interferire nel rapporto coi figli soprattutto se questi stati d´animo, come scrive lo psicoanalista inglese Donald Winnicott, vengono ignorati e soprattutto negati. Come è ben noto per diventare madri si va incontro a grandi cambiamenti: in primo luogo fisici, basti pensare alla gravidanza, e poi trasformazioni psicologiche dell´identità femminile fino al nuovo ruolo sociale che viene ad assumere la donna.
Ma anche il cervello delle madri va incontro a grandi cambiamenti proprio perché una madre deve essere particolarmente capace di proteggere il figlio, di anticipare e prevenire i possibili pericoli, di provvederne alla cura e all´alimentazione. E madri non si nasce ma si diventa, come affermano due neurobiologi, Craig Kinsley e Kelly Lambert, che hanno studiato gli effetti della gravidanza e della maternità sul cervello materno in campo animale. Mettendo a confronto topoline madri che avevano da poco figliato con topoline vergini, si è visto che le prime erano in grado di trovare il cibo nascosto in un labirinto in 3 minuti, mentre queste ultime riuscivano a trovarlo solo dopo 7 giorni. Da questo studio è evidente la superiorità delle topoline madri nell´orientarsi nello spazio e nel ricordare gli indizi ambientali per trovare il cibo per la propria prole.
Ma che cosa succede nel cervello delle madri? In gravidanza si verifica un vero e proprio bagno di ormoni, estrogeni e progesterone, che non solo inducono le trasformazioni dell´utero e della placenta ma influenzano la stessa struttura del cervello. In primo luogo i neuroni cerebrali assumono dimensioni maggiori e si modificano anche sul piano biochimico con l´attivazione di determinate aree cerebrali, un vero circuito cerebrale materno. Si tratta delle regioni limbiche, ipotalamiche e del tronco cerebrale che influenzano il comportamento materno per cui le madri sono più attente e recettive ai segnali e ai comportamenti del figlio.
Se si potesse guardare dentro la testa delle madri si potrebbe constatare la particolare attività dell´emisfero cerebrale destro nell´accudimento e nell´amore per i figli. Infatti se si osserva come le madri tengono in braccio il figlio, lo prendono prevalentemente col braccio e con la mano sinistra, molto più dei padri e delle donne che non hanno ancora avuto un figlio. Questa particolare posizione viene assunta in modo istintivo e permette di tenere il figlio nella parte sinistra dello sguardo, ossia quella che comunica direttamente con l´emisfero cerebrale destro, maggiormente coinvolto nell´attaccamento al figlio e nelle risposte emotive.
L´amore che la madre prova per il figlio è una specie di innamoramento, che comporta un intenso compiacimento quando si sta insieme e si comunica. Due ricercatori dell´University College di Londra, Bartels e Zeki, hanno studiato con la Risonanza Magnetica il cervello delle madri e quello delle persone innamorate ed hanno scoperto che sono attivate aree cerebrali sovrapponibili. Si tratta di aree cerebrali in cui sono presenti recettori del sistema di ricompensa, ossia legati al neuro-ormone dopamina che suscita quelle sensazioni piacevoli tipiche di chi è innamorato, ma anche di altre aree ricche di ossitocina e di vasopressina, neuro-ormoni che influenzano il legame di attaccamento. Ma quello che stupisce di più è il fatto che in entrambi i casi avviene una disattivazione delle zone cerebrali legate al giudizio sociale e al riconoscimento delle emozioni negative, la spiegazione scientifica del detto napoletano "ogni scarrafone è bello a mamma sua".
Anche le recenti ricerche da noi effettuate ci consentono di comprendere il rapporto empatico fra madre e figlio. Quando le madri osservano le diverse espressioni emotive del proprio figlio si attivano le zone cerebrali in cui sono presenti i neuroni specchio che permettono di rivivere l´esperienza dell´altro anche soltanto osservandola. In questo modo le madri sono in grado di mettersi nei panni del figlio e comprenderne gli stati d´animo e le motivazioni. E´ indubbio che queste nuove ricerche in campo neurobiologico siano in grado di andare aldilà dello "strato roccioso", che secondo Freud costituirebbe il limite biologico all´esplorazione della mente umana.

Repubblica 29.7.10
Basta con gli incubi notturni ecco come guidare i sogni
di Sarah Kershaw

STA guidando a folle velocità per le strade di una grande città e un essere raccapricciante, con dei bulbi oculari giganti, la insegue ed è sempre più vicino. È un sogno, ovviamente. Emily Gurule, 50 anni, insegnante, lo ha raccontato al dottor Barry Krakow. BA R R Y Krakow è il fondatore della P . T . S . D . Sleep Clinic presso il Maimonides Sleep Arts and Sciences ad Albuquerque, esperto nello studio degli incubi. Ma lui non le ha chiesto di provare a interpretarlo. Semplicemente, l' ha invitata a sognare ancora. «Si concentri qualche minuto, chiuda gli occhi e modifichi il sogno come vuole».E l' automobile nera diventa una Cadillac bianca, che viaggia a velocità moderata, senza essere inseguita. I bulbi oculari diventano bolle di sapone che si librano placide in cielo. «Ecco, è un nuovo sogno», prosegue Krakow. «Quello brutto è laggiù», dice indicando l' altro lato della stanza. «Non ci interessa più ormai, ora ci occupiamo del sogno nuovo». Questa tecnica, utilizzata a paziente sveglio, si chiama scripting o dream mastery, sceneggiatura o gestione del sogno, e fa parte della imagery rehearsal therapy (IRT), ripetizione immaginativa, che Krakow ha ideato, assieme ad altri, per curare le persone soggette ad incubi. Da qualche anno gli incubi sono considerati una patologia precisa, e i ricercatori hanno prodotto una mole crescente di dati empirici che testimoniano come questo tipo di terapia cognitiva possa contribuire a ridurre la frequenzae l' intensità degli incubi, o addirittura eliminarli. Alcuni terapeuti, però, soprattutto di scuola junghiana, sono contrari alla strategia di mutare i contenuti onirici, sostenendo che i sogni inviano messaggi importantissimi alla mente sveglia. Gli incubi "evidenziano in grassetto temi particolari", spiegano gli psicologi. Eliminarli significa "perdere l' opportunità di trarne un significato". Nel caso di Emily Gurule, trasformando in bolle di sapone i bulbi oculari minacciosi, la paziente non saprà mai cosa quegli occhi cercavano di dirle. Da secoli gli incubi affascinano e lasciano perplessi, terapeuti e analisti di ogni scuola si sono confrontati su come interpretarli. Un incubo terrificante può perseguitare un individuo per tutta la vita. È un' esperienza onirica inquietante, osservano gli scienziati, "che stuzzica e avvelena lo spirito e ha un substrato di potenza, lussuria, oralità aggressiva e morte". Tra il 4 e l' 8 per cento degli adulti riferisce incubi episodici, una volta la settimana o più. Ma l' incidenza passa al 90 per gli ex combattenti e le vittime di stupro. Krakow sostiene che nelle terapia dello stress post-traumatico bisognerebbe agire più attivamente nei confronti degli incubi. Kracow e altri clinici ricorrono con sempre maggior frequenza alla IRT per la cura dei veterani e dei militari in servizio attivo in Iraq e in Afghanistan. Il mese scorso il ricercatore ha tenuto un seminario sulla IRT ed altre terapie del sonno per 65 terapeuti, medici e psichiatri, molti dei quali attivi in ambito militare. Anne Germain, professore associato di psichiatria presso la facoltà di medicina dell' Università di Pittsburgh, ha postoa confronto la terapia comportamentale, che include la ripetizione immaginativa,e la terapia farmacologica con il prazosin, un anti-ipertensivo che si è rilevato valido nel ridurre l' evenienza di incubi. I risultati preliminari dello studio, condotto su 50 veterani, hanno dimostrato l' efficacia di entrambe le terapie. Deirdre Barrett, psicologa della Harvard Medical School, esperta del rapporto tra trauma e sogni, si dice colpita dal sempre maggiore interesse riposto negli incubi che sono esito di traumi bellici e torture. «Oggi i terapeuti sanno che si possono influenzare i sogni, interrogarli su particolari tematiche e anche modificare gli incubi». Hollywood ha subito colto lo spunto del controllo dei sogni con "Inception", un thriller che si muove sui terreni più oscuri del mondo onirico. La trama si basa sul concetto del sogno lucido, una tecnica utilizzata per aiutare i pazienti che hanno paura dei propri sogni a capire che di sogni si tratta. La Barrett è favorevole all' uso della tecnica di Krakow, sostiene però che andrebbe integrata da terapie psichiatriche e comportamentali. Il metodo Krakow prevede in genere quattro sedute di terapia di gruppo, intervallate da 10 colloqui individuali, anche se, a detta del ricercatore, in media sono sufficienti dai tre ai quattro incontri. Afferma che su centinaia di pazienti trattati, circa il 70 per cento ha riferito notevoli miglioramenti nella frequenza degli incubi, dopo una terapia da due a quattro settimane. (Traduzione di Emilia Benghi Copyright New York Times)

Repubblica 3.12.00
Il nostro secolo senza Lumi
di Eugenio Scalfari

SI APRE con un saggio intitolato "Il contro Illuminismo" il libro Controcorrente di Isaiah Berlin uscito da poco nelle librerie in versione italiana (Adelphi) e si chiude con una cinquantina di pagine sul "Nazionalismo-negligenza passata e potenza presente": un inizio e una conclusione che colpiscono in questo storico delle idee che è stato uno dei pensatori più significativi del Novecento. I due scritti sono stati composti uno a ridosso dell' altro nei primi anni Settanta e sembrano di oggi tanto è intensa la loro attualità. L' autore, almeno in apparenza, non esprime giudizi di valore propri né sulle tesi degli anti-illuministi né su quelle dei nazionalisti; si limita a scavare ed esporre il pensiero degli uni e degli altri, che appartengono in realtà al medesimo filone: il romanticismo dello "Sturm und Drang", la "Kultur" tedesca, l' organicismo delle culture localistiche, dei retaggi, dei vincoli del sangue e della terra con le loro variazioni che vanno dal più spinto anarchismo individualistico al vitalismo e al culto della potenza e del carisma del Capo. Berlin non prende partito: descrive come farebbe un magistrale entomologo, deidealizza le posizioni e ne mostra l'essenza profonda e le implicazioni che dal piano delle idee tracimano in quello dei fatti. Al nazionalismo, del quale acutamente segnala una ripresa vigorosa proprio in anni nei quali ne veniva sancita una quasi definitiva scomparsa, riserva anche critiche severe e preoccupazioni profonde; contemporaneamente però riconosce la forza di quelle idee, di quei movimenti di pensiero (e di fatti) che ha in Fichte e in Herder i suoi primi protagonisti e che si dipana quasi senza interruzioni dalla seconda metà del XVIII secolo fino ai giorni nostri. La scelta dei temi di questo libro, il titolo che l'autore gli ha anteposto (Against the current), l'interpretazione che ne dà l'autore dell'introduzione, Roger Hansheer, che Berlin calorosamente ringrazia «per aver fornito un'esposizione così partecipe e limpida delle mie idee», mi fanno arrischiare un'ipotesi: che cioè il cuore di Berlin - se di cuore si può parlare discutendo della storia delle idee, ma perché no? - stia piuttosto dalla parte dei romantici che non da quella dei «philosophes». A suffragare questa ipotesi ci sono due assenze nel libro che pesano quanto le presenze che vanno da Machiavelli a Vico a Sorel a Herzen e a tutta la vastissima platea dell'irrazionalismo volontaristico dell'Otto - Novecento. La prima e più vistosa assenza è proprio quella dell'Illuminismo e della triade dei suoi maggiori protagonisti francesi, Voltaire, Diderot, Rousseau, ai quali si deve aggiungere la triade inglese di Hume, Locke, Newton. Berlin lascia il campo a quella vera e propria caricatura dell'Illuminismo costruita dai suoi avversari e diventata una «vulgata» rilanciata perfino dal Croce: e cioè il carattere del tutto astratto, utopistico, deterministico, illusoriamente calato dall'alto come una gabbia sulla spontaneità e la vitale differenza delle culture che sarebbe stato il tratto determinante della civiltà dei Lumi. Mi si potrà obiettare che in una rassegna delle idee «controcorrente» non c'era posto per l'Illuminismo che rappresenta qui il bersaglio colpito e non la freccia che colpisce. Evidentemente è proprio questo il criterio che ha guidato la scelta dell'autore e la costruzione del libro. Ma qui mi pare si debba cogliere un primo errore di Berlin o perlomeno un varco vistoso alla sua pretesa oggettività di analista: quando egli scriveva quei saggi la cultura dominante non era già più - e da gran tempo - il razionalismo dei Lumi bensì appunto il volontarismo irrazionale sboccato nell'esistenzialismo prima (subito dopo la seconda guerra mondiale) e nel nichilismo compiuto poi o tutt'al più nella cultura dell'Essere d'impronta heideggeriana. La scienza - è vero - e l'adorazione della tecnologia hanno assunto negli ultimi decenni del secolo appena trascorso un peso prima sconosciuto e la scienza è certamente razionalità e uso di metodiche deduttivoinduttive che fanno perno sul principio di causalità. In qualche modo l'egemonia del pensiero scientifico potrebbe testimoniare il riaccendersi della fiamma illuministica e quindi, per chi vuole produrre una saggistica «controcorrente», giustificherebbe la scelta dell'Illuminismo come bersaglio e del volontarismo irrazionale e romantico come la freccia contundente di cui si esaminano la natura, le ascendenze e le filiazioni ideali. Ma, a ben guardare, le cose non stanno affatto così. Il pensiero scientifico contemporaneo è ormai ben lontano dal classicismo newtoniano ancorato alla causalità e al principio di contraddizione: ha scoperto invece la casualità, il relativismo, il principio di indeterminazione, la coesistenza di isole di elementi «ordinati» galleggianti in un ambiente di forze caotiche e permanentemente insidiate dal caos incombente. Sostenere che questo particolare tipo di pensiero scientifico derivi dall'Illuminismo dei «philosophes» e ne segnali una reviviscenza contro la quale valga la pena di sostenere l'irrazionalismo dei romantici rivalutandone la ribellione ad un'egemonia dominante è quantomeno azzardato. D'altra parte l'operazione cultura di Isaiah Berlin nei confronti del pensiero dei Lumi trascura, secondo me, un aspetto di importanza capitale: dal punto di vista della storia delle idee se c'è stato un pensiero di rottura col passato, con le tradizioni consolidate da secoli, con i tabù, questo è stato il pensiero dei Lumi in tutte le sue variegate correnti. La «Kultur» romantica o più semplicemente arcaica del sangue e della terra ha dominato il mondo per secoli anzi per millenni in tutte le latitudini del pianeta e purtroppo lo domina tuttora. Etichettare quel modo di sentire ancor prima che di pensare come un coraggioso recupero d'una concretezza storica smarrita e una liberazione salutare dalla gabbia «cimmerica» (come disse Goethe) apprestata dai «philosophes» è, questa sì, una caricatura storica che non va considerata con indulgenza ma demistificata con ferma consapevolezza. Il mondo moderno soffre non per un eccesso, ma per un drammatico deficit di razionalità; la razionalità è minoritaria, la razionalità è controcorrente, la razionalità meriterebbe un'azione filosofica e storica di recupero. Ma soprattutto merita (e qui non uso un condizionale ottativo) che si faccia giustizia delle caricature con le quali la si vuole dipingere e la si riporti a quello che in effetti è stata nella storia del pensiero moderno che per le sue parti valide e tuttora vitali affonda nel Settecento dei «philosophes», nel Seicento di Descartes, di Spinoza e di Galileo, nel Cinquecento di Montaigne le sue radici più profonde e più nutritive. < *** & Non è certo in un articolo di giornale che si possa affrontare un tema di questa vastità che del resto ha avuto i suoi interpreti, i suoi critici, gli storici che ne hanno narrato la nascita, lo sviluppo e gli effetti, i filosofi che ne hanno esaminato le derivazioni e l'influenza sul pensiero successivo. Vorrei ricordare a questo proposito che Kant trae gran parte delle sue radici dalla cultura illuministica, che tutta la grande fase dell'economia classica, dai fisiocratici ad Adam Smith, a Ricardo e a Malthus, ne costituisce parte integrante e che lo stesso Nietzsche indica in Voltaire uno dei suoi punti di riferimento. Lo dico qui di passata, ma mi ha colpito che nel saggio «Il contro Illuminismo» di Berlin si parli di tutti coloro, maggiori e minori, che illustrarono l'irrazionalismo, il volontarismo, il vitalismo, con una completezza ed una scrupolosità inappuntabili, ma il nome di Nietzsche, cioè di quella che apparentemente rappresenta la stella polare di quella vasta costellazione, viene fatto una sola volta quasi di sfuggita senza alcun approfondimento del suo pensiero e delle sue derivazioni. Nel saggio di Berlin Nietzsche è soltanto nominato in mezzo ad un lungo elenco di nomi. Questa lacuna non può certo essere casuale. Evidentemente Berlin era consapevole che Nietzsche aveva uno spessore di pensiero tale da non poter essere trattato e classificato insieme agli Herder, agli Herzen e neppure insieme a Kierkegaard e a Schopenhauer che Berlin richiama più volte e verso il quale Nietzsche ha certamente un debito culturale molto notevole. Se il creatore di Zarathustra non viene arruolato da Berlin nel battaglione degli antiilluministi una ragione ci sarà. Mi limito qui a segnalare questa assenza sulla quale varrà la pena di ritornare. Che cosa fu dunque l'Illuminismo nella sua essenza culturale e nella storia delle idee? In sintesi si può dire: 1. Segnò il discrimine culturale e politico tra l'ancien régime e il pensiero moderno nelle sue realizzazioni giuridiche, politiche, costituzionali e culturali. 2. Condusse la sua battaglia nella politica e nel costume avendo come bandiera la libertà individuale nell'ambito della legge e concepì la legge come un contratto sociale stipulato tra i membri di una comunità. 3. Il principio basilare dell'ordine giuridicomorale fu quello di limitare la libertà dei singoli quandoessa dovesse invadere ed offendere la libertà altrui. 4. Propugnò l' eguaglianza degli individui e il cosmopolitismo; ritenne che gli ordinamenti razionali potessero essere applicati a comunità di etnie e storie diverse sviluppando in esse l' educazione e la tolleranza. Non ebbe, nei suoi protagonisti di maggior rilievo e spessore, alcuna tentazione all' astrattezza e ad imporre a tutti gli uomini uno schema astratto e "cemiteriale" (Goethe). Né Voltaire, né Rousseau, né Hume pensarono mai nulla di simile e mai lo pensò Diderot che fu il massimo filosofo di quel gruppo. L' Encyclopédie, che rappresentò l' ossatura di quella corrente di pensiero, fu anzi la prima e vera "scuola" che insegnò alla nascente opinione pubblica la concretezza dei problemi e la specificità dei temi, delle informazioni e dei progetti. Non a caso è su quella scuola che si formarono Beccaria, i fratelli Verri e tutta la grande corrente illuministica italiana. 5. Predicò la tolleranza, il rispetto delle altrui opinioni, l' abolizione dei privilegi di ogni genere di casta e di sangue, la sostituzione del potere assoluto con il potere democratico e l' equilibrio tra vari poteri indipendenti tra di loro. 6. Lottò contro l' uso temporalistico della religione e contro le sue pretese di assolutezza e di esclusivo possesso e magistero della verità. È falso tuttavia che gli illuministi esaurissero il mondo delle idee nella ragione e cancellassero con un tratto di penna l' ombra del mistero. Non ci sono dichiarazioni e argomentazioni del genere nei maggiori dei suoi esponenti. Ho già detto, e ancora me ne scuso, che in questa sede non posso che limitarmi a ricordare pochi aspetti essenziali. Ma mi premeva qui di segnalare che, purtroppo, essere illuministi oggi è il vero modo di mettersi contro corrente rispetto al pensiero e alla prassi comune e dominante. Il fatto che un pensatore del livello di Berlin non se ne sia reso conto ed abbia anzi, in qualche modo, reso testimonianza del contrario mi ha molto stupito e mi è sembrato opportuno darne segnalazione. Spero che altri riprendano il tema e lo approfondiscano a sufficienza. Repubblica 30.1.86
Pescarolo contro Bellocchio
di Anna Maria Mori

ROMA - "Diavolo in corpo", il film di Marco Bellocchio con Marutchka Detmers, da ieri è stato praticamente "sequestrato" dal suo produttore, Leo Pescarolo. Il regista aveva quasi ultimato il film che avrebbe dovuto uscire tra poco, con la speranza, e forse anche più di una speranza, di essere selezionato per il Festival di Cannes. Pescarolo, a prodotto ultimato, ha contestato il tipo di montaggio scelto da Bellocchio, e dopo aver ripetutamente ma inutilmente invitato il regista a riprendere in mano il materiale girato, rimontandolo secondo le sue indicazioni, si è appropriato del film, e chiuso in una moviola, sta procedendo personalmente a selezionare le immagini e a "cucirle" secondo una propria scelta. Quasi una bomba nel mondo del cinema romano: Bellocchio è uno dei nostri registi più riconosciuti e rispettati ("ho lavorato con tanti, non mi era mai successo: altri produttori, se mai, hanno rifiutato le mie proposte sin dalla sceneggiatura..."); Leo Pescarolo è tra i nostri produttori avveduti e culturalmente attrezzati. La questione, se non si trova un accordo, rischia di finire sul tavolo degli avvocati. Quanto a Bellocchio, avvalendosi di un suo preciso diritto, ha deciso che, se il suo produttore non desisterà dall' idea di fare personalmente il montaggio del film, ritirerà la firma dal "Diavolo in corpo". Ma come si è potuti arrivare a questo punto, e solo adesso che il film era praticamente pronto per uscire? Bellocchio dice che il suo produttore è sempre stato felicissimo del materiale girato: "Si è irritato mortalmente solo ed esclusivamente sul tipo di montaggio che ho scelto: ma com' è possibile che, durante il montaggio, io abbia voluto distruggere tutto il bello che eventualmente sono riuscito a fare prima?". Quali sono, concretamente, le obiezioni che fa Pescarolo? Bellocchio le elenca: "Marutchka Detmers, a suo giudizio, risulta troppo pazza, laddove il senso che io ho sempre voluto dare al personaggio e alla sua storia è proprio qui: il coinvolgimento sentimentale della protagonista è esattamente l' altra faccia della sua depressione". E poi? "E poi è in discussione il taglio e il tono generale del film che il produttore vorrebbe più "aereo", più gentile di quanto non sia. La mia obiezione è che certe scene anche osè di "Diavolo in corpo" si giustificano e si sostengono solo se sono impostate con uno stile da film drammatico, che non strizza l' occhio al pubblico, altrimenti si cade decisamente nella volgarità che non sarei stato io a proporre, e che non sono disposto a firmare". "Il produttore sostiene che il film, a questo punto, è decisamente sbagliato, e attribuisce l' errore all' influenza che avrebbe avuto su di me, in quanto ha presenziato a gran parte delle riprese, il mio psicoanalista Massimo Fagioli. La mia contro-obiezione è che Fagioli mi è stato vicino appunto durante le riprese, e che il materiale girato, prima del montaggio aveva suscitato non solo consensi ma addirittura entusiasmi da parte di Pescarolo e anche dei co-produttori francesi: i commenti andavano dal "bello" al "capolavoro"". Il film ha un costo che si aggira intorno al miliardo e mezzo. Che ne sarà a questo punto? "Tra i produttori c' è anche l' Italnoleggio che per ora non si è pronunciata su tutta la questione: io spero che prenda le mie parti" dice Bellocchio. Che però ribadisce le sue posizioni: "Pescarolo vuole che io "addolcisca", "ammorbidisca". La mia opinione è che, scelta una strada, guai a non percorrerla fino in fondo: la normalizzazione, da lui invocata, sarebbe la rovina del film... Un' operazione che si vuole sia solo commerciale, va fatta col computer, e non con un autore".

Repubblica 31.1.86
Bellocchio è stato plagiato
di Anna Maria Mori

ROMA - L' "affaire" Bellocchio-Leo Pescarolo (produttore del suo film Diavolo in corpo) è tutt' altro che concluso: ci sono avvocati, su un fronte e sull' altro, pronti all' eventuale e definitiva guerra tra i reciproci clienti. I fatti: il produttore contesta il montaggio di Marco Bellocchio, "sequestra" il film, e da qualche giorno lavora a un contro-montaggio che esegue personalmente. Il regista dichiara illegittima, almeno sul piano morale, l' operazione, e annuncia che toglierà la firma dal film. Le ragioni del regista: "Pescarolo vuole che io ' ammorbidisca' , ' addolcisca' . La mia opinione è che la normalizzazione da lui invocata, sarebbe la rovina del film. Non ci sto...". Le ragioni del produttore: "Nel caso del Diavolo in corpo, così come l' ha montato Bellocchio, credo sia la prima volta che un produttore, io - ma con me sono d' accordo anche i coproduttori francesi -, dica "ma come sono noiose le scene d' amore". Perchè Bellocchio, dopo aver girato una quantità di materiale straordinario, bellissimo, in fase di montaggio ha praticamente buttato via tutto, o quasi tutto. E così, di nuovo per la prima volta, ecco un produttore, io, che invece di tagliare, come succede di solito, aggiunge, ripristina inquadrature e situazioni che secondo il regista erano da cestinare". Curioso: litigano, ma uno dei due, il produttore, continua a inviare messaggi d' amore al suo regista. Per esempio: "Bellocchio è straordinario, forse il più grande regista che abbiamo, io sono pazzo di lui, quando ha finito di girare il film gli ho letteralmente buttato le braccia al collo per ringraziarlo. Lui mi ha detto: "tu sei il mio produttore ideale, d' ora in avanti voglio lavorare solo te". Io gli ho risposto: "Portami altri tuoi progetti", e la mattina dopo lui me ne ha sottoposto uno, che io subito mi sono dimostrato disponibile a realizzare" E allora? "E allora io amo Bellocchio, ma voglio uccidere Massimo Fagioli". Che c' entra lo psicanalista "selvaggio" Massimo Fagioli? "C' entra" è sempre Pescarolo che parla "perchè il disastro del montaggio dipende, secondo me, quasi esclusivamente da lui. Marco Bellocchio ha dichiarato che ha presenziato, suo invito, alle riprese. In realtà ha presenziato soprattutto al montaggio: si è seduto in moviola accanto al regista, e non l' ha mai lasciato libero di decidere da solo. Forse lo denuncerò per plagio". Prima di denunciarlo, ci ha parlato? "Eccome: gli ho detto che, grazie al suo intervento, avevamo un montaggio privo di qualunque professionalità. Lui mi ha risposto: "Lei si intenderà di cinema, ma io è tutta la vita che studio i sogni degli uomini, e so cosa vogliono vedere gli uomini su uno schermo". Io l' ho preso per il collo: So che i sogni possono anche essere sfuocati, ma il cinema non se li può permettere, questi sogni sfuocati". E Bellocchio? "Zitto". Pescarolo continua nella sua invettiva anti-Fagioli: "Io non ho un rapporto con Fagioli, e non lo voglio avere. Io mi sono trovato con un film bellissimo che Bellocchio ha girato, di cui un terzo non è stato montato, a causa di Fagioli: il risultato è un telefilm di soli primi piani, la storia di due patologie in un acquario vuoto... Io, questo film qui, non l' avrei prodotto". E dice di volere reinserire almeno quattro o cinque momenti di vita esterna che Bellocchio ha voluto togliere: "Non foss' altro, anche perchè, così com' è, il film non dimostra assolutamente i due miliardi che costa, dimostra al massimo ottocento milioni: più di un miliardo è andato, tra i rifiuti, nel cesto". L' Istituto Luce è un altro partner produttivo. Non si è inserito, per ora, nella polemica Pescarolo-Bellocchio. Ma, a proposito di una scena del film (la famosa fellatio, di cui molto si è parlato), forte del fatto che non era prevista in sceneggiatura, ha agito, come dice, "amministrativamente": ha annunciato che se il film si diversifica dal copione e dalla sceneggiatura, "si riserva il diritto di rifiutarlo". Bellocchio? Tace. Pescarolo quasi piange.

Repubblica 6.2.86
Dal divanetto al set di Cinecittà lo psichiatra col diavolo in corpo
di Daniela Pasti

ROMA - Accuse pesanti, conferenze stampa, avvocati, telegrammi, comunicati ai giornali, una querela: "Il diavolo in corpo" nella nuova versione cinematografica che ripropone il romanzo di Raymond Radiguet ambientato negli anni di piombo, firmata dal regista Marco Bellocchio, è diventato un caso sul quale ci si scontra in nome dei sacri principi, i soliti. Può un produttore, che per il film si è esposto finanziariamente, intervenire sull' opera contro la volontà dell' autore? Può un autore allargare la libertà di cui ha diritto nella realizzazione del film, fino a cambiare considerevolmente una sceneggiatura precedentemente concordata? Ma questa volta il caso è più complicato e inquietante: c' è un' accusa di plagio, cui ha risposto una querela per diffamazione. Il produttore Leo Pescarolo ha affermato che Bellocchio avrebbe montato il film sotto la forte influenza del suo analista, Massimo Fagioli, molto assiduo sul set e in moviola. Il regista ha risposto con la querela. La polemica ha riportato alla ribalta un personaggio, Massimo Fagioli, che ha goduto di una discussa popolarità negli anni Settanta e all' inizio degli anni Ottanta. Guru dell' estrema sinistra, analista preferito dai sessantottini in crisi, dalle femministe deluse, giovani e meno giovani in cerca di certezze, attirati dalle sue promesse di un' analisi "che ci rende simili, con le stesse capacità di essere, di capire, di poter stare insieme, realizzarsi, fare l' amore, diventare ricchi..." come disse in un' intervista a "Lotta continua", giornale che contribuì a finanziare con una colletta fra i suoi seguaci. Fagioli fu nel ' 76 espulso dalla Società italiana di psicanalisi. In quello stesso anno lo psichiatra, che a sua volta aveva rifiutato le teorie freudiane (chiama Freud "lo scemo"), cominciò ad animare affollate sedute di analisi collettiva, dalle quali veniva escluso senza mezzi termini chi era ritenuto "preda di pazzia o di istinto di morte", non "adatto alla dimensione collettiva", e gli omosessuali, giudicati: "malati di mente gravi, che annullano il corpo, annullano l' identità, sono infidi, melliflui, ipocriti, violentatori come Pasolini". Oggi Fagioli tiene i suoi seminari in uno stanzone a Trastevere. Seminari aperti: l' ingresso è libero, ci siamo andati anche noi. Poco prima dell' ora fissata un folto gruppo di persone è radunato davanti al portone. Si passano l' una con l' altra delle fotocopie: sono gli articoli che riportano le polemiche sul film, vengono letti con attenzione e commentati vivacemente. Ma ecco che una porta si apre e tutti entrano dentro, precipitandosi verso le panche disposte ad anfiteatro, davanti ad una poltroncina di vimini. Sulla poltroncina siede Fagioli: vestito di nero, con gli occhiali neri, un microfono al collo. Intorno un centinaio di persone, tese, attente, silenziose. Età media fra i venticinque e i quaranta, molte ragazze, Bellocchio seduto anche lui su una panca, risatine nervose alle battute iniziali dello psichiatra, attesa, mentre sulle scomode panche nessuno dà segno, neanche dopo le lunghe quattro ore, di stanchezza o di noia. E' Fagioli che dà il via, che invita le persone a parlare, chiamandole per nome, che toglie e dà la parola, che sollecita a raccontare, che approva con compiacimento o disapprova con severità, che con sicurezza interpreta i sogni. Il maestro usa modi sbrigativi: "E capirai, che pippa mi stai dicendo" grida interrompendo una ragazza che indugia su un racconto. "Che cazzo ce ne frega a noi", taglia corto un altro intervento. Fa molto uso (terapeutico?) di parole come "cazzo, fica, pippa, uccello", di molti espliciti riferimenti sessuali, accolti dall' assemblea con risate (liberatorie?). Con voce sottile, un po' incerta, e molti cioè, alcuni giovani raccontano i loro sogni. "Ho sognato che avevo un incesto con mia sorella" comincia uno. Fagioli gira lo sguardo intorno, sorride scoprendo i denti, interrompe: "incesto vo' dì che se scopava la sorella". Risate. Una ragazza: "Ho sognato che prendevo la pillola, però mi venivano lo stesso le mestruazioni...". "E' perchè questa pillola la prendi male, la prendi per negare quello che hai fra le gambe". Ma quasi tutti i sogni vengono interpretati rapportandoli al gruppo, a eventi che si sono verificati nel gruppo, ad altre persone del gruppo. E il gruppo, in questa seduta, ha un nemico che è Pescarolo e un protagonista che è il film. La gestazione e il parto ricorrono nei sogni di molti, gestazione e parto del film, secondo l' interpretazione che ne dà Fagioli: ""Il diavolo in corpo" diventa così prodotto collettivo, oggetto di fantasia, simbolo di una rivolta culturale da difendere contro "il potere gretto e meschino", il "capitalismo ottuso e violento", la "società frocia e impotente"". Il microfono struscia sul golf di Fagioli, ne escono sospiri e singhiozzi che punteggiano le quattro ore, durante le quali la tensione si accumula e si scarica. Alla fine del tempo molti si affollano intorno allo psichiatra, prima di uscire depongono un' offerta volontaria in una busta di plastica appesa vicino alla porta. Per seguire questi seminari i "discepoli" sono disposti anche ad affrontare viaggi faticosi: c' è chi settimanalmente arriva nello stanzone di Trastevere da Bologna, da Firenze, da Palermo. Bellocchio frequenta i seminari dal ' 76. Chi lo critica è oggetto dell' indignazione dei seguaci, perseguitato da lettere arrabbiate, insultanti, dolorose, disperate. Nel suo studio, Fagioli durante una intervista dai toni più pacati, il giorno successivo al seminario, rifiuta l' appellativo di "guru" e, ancora di più, quello di "analista selvaggio", snocciolando i suoi titoli accademici: laurea in medicina, specializzazione in neuropsichiatria, una professione svolta negli ospedali psichiatrici di Venezia, di Padova e poi nella clinica svizzera di Binswanger, i volumi scritti. Spiega, con voce questa volta professorale, la "scoperta" sulla quale fonda la sua teoria analitica difficile da condensare in poche righe di giornale: "Il feto nell' utero materno ha un rapporto di contatto fisico con il liquido amniotico, un rapporto sensibile, che costituisce la carica sessuale originaria. Alla nascita del neonato questa esperienza viene trasformata in una fantasia-ricordo, l' inconscio-mare calmo, che diventa il fondamento, l' Io dell' uomo. Il neonato nasce sano, ma nasce in un mondo che rappresenta per lui un pericolo di vita, la sua prima reazione è quindi quella di annullare questo mondo, con una pulsione di sparizione, di cercare un contatto gratificante con la madre. Quando la madre non risponde viene la malattia, nasce il disturbo psichico, il desiderio deluso si scinde in rabbia, odio, invidia, castrazione. Genera rapporti sadomasochisti o indifferenza. Eliminare l' indifferenza e frustrare il sadomasochismo fa venire in superficie l' inconscio, che non è perversione, come dice Freud, ma è fantasia, fascino, rapporto. Io tiro fuori l' inconscio, lo aiuto ad esprimersi, non lo soffoco, come fanno i freudiani, e si vedono i risultati". Fra i risultati, Fagioli mette anche il film, anche la recitazione di Maruschka Detmers, la protagonista, già attrice di Godard: "Quando venne a Roma per il film non sapeva recitare, non valeva un soldo bucato, Marco era disperato, voleva lasciar perdere tutto poi abbiamo fatto delle riunioni con lei, è diventata un' attrice stupenda". La bella Maruschka non è qui per confermare o smentire, indifferente, inconsapevole, è ripartita con il suo ultimo amore, un ex domatore di leoni.

Repubblica 31.8.10
Basta con i "demo-depressi"
"La riforma del voto con chi ci sta ma non impicchiamoci a un modello"
Bersani a Repubblica Tv: il bipolarismo italiano non è a rischio
di Laura Pertici

Il videoforum

Dal Nuovo Ulivo deve venire una proposta rivolta anche a quelle forze che non sono di centrosinistra, e dobbiamo ridestare il protagonismo democratico dei cittadini. A patto di darci solidità e di smettere di essere demo-depressi

ROMA - Più forti di ogni debolezza. Pronti alla riscossa civica. Con un compito storico: piegare e vincere il berlusconismo. Per Luigi Bersani inizia a fine agosto la sua campagna d´autunno. Abbronzato al sole della Sardegna, tonificato dalle feste democratiche, sembra spinto da una nuova determinazione.
Arriva a Repubblica Tv per spiegare con gli occhi e la voce cos´è il Nuovo Ulivo, la sua proposta politica apparsa l´altra settimana su questo giornale. Mette subito in chiaro che non si impiccherà ad un modello di legge elettorale, «il meccanismo che ho in mente può venire da una correzione del modello tedesco e da una correzione del Mattarellum». Ma già che c´è risponde a Renzi che «per costruire non basta distruggere, sono sicuro che in giro c´è il nuovo Maradona, io però ancora non l´ho visto». E a Bossi dice: «Altro che voti Pd offerti a Berlusconi. Tu sei il vero traditore, che ti aggrappi a Roma ladrona». Il segretario del Pd parla nel videoforum di Repubblica Tv. Lo attendono in tanti, davanti al televisore o al computer. In mezza giornata, prima dell´appuntamento fissato per le 16, giungono in redazione cinquecento domande via e-mail. Oltre mille i quesiti inviati invece in diretta, centinaia quelli postati quando Bersani è già andato via.
Nuovo Ulivo e Alleanza democratica. Due concetti diversi?
«In Italia abbiamo due problemi. Quello dell´alternativa di governo e quello dell´assetto democratico, altamente deformato. Su Repubblica ho parlato di Nuovo Ulivo pensando proprio all´alternativa di governo. Che stavolta deve nascere da un patto non occasionale tra le forze di centrosinistra. Mi spiego: queste forze, se ci sono, devono stringersi per un´intesa credibile, devono trovare parole univoche e devono rendersi disponibili anche a considerare possibile la riorganizzazione dello stesso centrosinistra, per evitarne la frammentazione».
Cos´è allora l´Alleanza democratica?
«Dal Nuovo Ulivo deve venire una larghezza di idee, una visione e dunque una proposta rivolta anche a quelle forze che non si definiscono di centrosinistra ma che non sono disposte ad una deriva plebiscitaria. Con loro si può ragionare di riforme istituzionali, di legge elettorale, di regole che stiano saldamente nel terreno della nostra Costituzione».
Parla a Fini e Casini?
«Sì, parlo a quelli che ci stanno, a chi punta alle regole. Il coinvolgimento dei finiani è possibile nella misura in cui - come si diceva una volta - abbiano un´idea di destra europea. Bisogna credere nell´equilibrio dei poteri, non nel "ghe pensi mi". Ma le intenzioni e la disponibilità della destra sono tutte da verificare. A partire dal processo breve».
Quale sarà il vostro programma?
«A Torino dirò bene cosa abbiamo intenzione di fare su scuola, fisco, lavoro. Noi non abbiamo mai smesso di fare le nostre proposte, ma si è creato un cortocircuito informativo che ci ha dipinti come incapaci di costruire, uniti solo dall´opposizione a Berlusconi. Questo è profondamente falso, ed è grave perché negli Stati Uniti la gente sa cosa dicono Repubblicani e Democratici. In Italia invece i cittadini sono tenuti all´oscuro da quel che propone l´opposizione».
Legge elettorale: come si seppellisce il Porcellum?
«Non voglio rimanere impiccato ad una formula, a dei modelli. Prima vediamo in quanti siamo d´accordo nel dire che questa legge è un abominio. Consente ad una persona sola di nominarsi tutti i suoi parlamentari, è all´origine di una distorsione micidiale per cui il Parlamento risponde al governo e non viceversa, ha prodotto 38 voti di fiducia e 54 decreti, un conformismo dilagante, poteri ricattabili. E´ deleteria. Ma la questione della legge elettorale attiene a quella più ampia delle regole. Quindi ai miei dico: bisogna discutere anche con chi la pensa diversamente da noi».
C´è chi teme un bipolarismo indebolito.
«Bipolarismo, la preoccupazione è sempre la stessa. O che venga indebolita o che venga rafforzata la prospettiva bipolare. La mia posizione in merito è quella di sempre, da lì non mi muovo. Solo un esagerato ottimismo può far pensare che le regole elettorali possano modificare i dati di fondo della cultura politica di un paese. Da quando è caduto il Muro di Berlino in Italia si è determinato un assetto sostanzialmente bipolare che non saranno quattro righe a modificare. Questo assetto può essere forzato per provare a fare persino il presidente della Repubblica, dato il 35 per cento dei consensi».
Oppure?
«Oppure va reso flessibile. Non certo fino al punto di incoraggiare il vecchio sistema della frantumazione, ma per dare degli elementi di respiro allo stesso meccanismo. Con la nuova legge elettorale non ci si potrà esimere dal dire con chi si sta, questo è ovvio. Per il resto io ho in mente un disegno che abbia radici territoriali, che non sia basato su personalismi, che scaturisca dalla correzione del modello tedesco o dalla correzione del Mattarellum. Vedremo, discuteremo. Questo fanno i partiti. Non devono morire per una formula».
Primarie: si faranno o temete Vendola?
«Si faranno e saranno primarie di coalizione. Tutti quelli che vengono da mondi diversi ed esprimo sensibilità potranno dire la loro. Se ci saranno più candidati nel Pd lo deciderà il partito».
Perché per il suo progetto ha guardato indietro, all´Ulivo?
«Perché la parola Ulivo politicamente corrisponde ad un´idea, ad un movimento, ad una riscossa civica. Non è dunque solo una questione di partiti. Per me il concetto dell´impegno e del risveglio dei cittadini è cruciale. Abbiamo il dovere di ridestare il protagonismo democratico dei cittadini. E possiamo farcela. Perché siamo più forti delle nostre debolezze. Dobbiamo smetterla di guardarci la punta delle scarpe ed impressionarci per il fatto che ci troviamo davanti ad una battaglia difficile. Diamoci solidità, smettiamola di essere demo-depressi».
La litigiosità è stato il tratto distintivo nonché il killer dell´era Prodi. Perché oggi dovrebbe andare meglio?
«Perché lo scenario è completamente diverso. Per esempio: Rifondazione ha fatto un discorso onesto, escludendo qualsiasi partecipazione ad un futuro governo. Va bene, ho detto, ma siete interessati ad un confronto vero sui temi costituzionali? Siete pronti ad affrontare la battaglia per dare una linea certa al nostro profilo democratico? Mi hanno risposto di sì. Ecco, è così che intendo procedere. Il Nuovo Ulivo è una straordinaria occasione per prendersi delle responsabilità».
Berlusconi l´ha bollato come ammucchiata.
«Ammucchiata? E´ esattamente il contrario e non vedo come il premier possa fare prediche, lui che sta governando con un´accozzaglia di gente che si insulta dalla mattina alla sera. Sapete quali sono i punti programmatici del premier? Viva la mamma e il papà».
Bossi dice che lei ha offerto i voti del Pd a Berlusconi.
«Non ho mai parlato in modo spocchioso della Lega, ma adesso basta. Davvero. Devo mandare una letterina al Carroccio. Bossi sta attaccato al vecchio zio per prendersi l´eredità e non ci sono neanche badanti di mezzo. Il suo è un puro tradimento degli elettori. Per anni ha gridato contro Roma ladrona, ora sta proprio con quei ladroni».
Renzi, il sindaco Pd di Firenze, afferma che il Nuovo Ulivo fa sbadigliare.
«A Renzi rispondo che per costruire non basta distruggere. L´idea della costruzione creativa non ha mai portato da nessuna parte. L´azzeramento del vertici del Pd non serve a niente. Noi non siamo qui a pettinare le bambole, abbiamo invece un compito storico che ci impone di accettare le critiche ma che non prescinde dalla lealtà alla ditta. Siamo pieni di bravi dirigenti di quaranta anni: se c´è in giro un nuovo Maradona, e sono sicuro che c´è, si vedrà. Io sono qui proprio per questo, per far girare la ruota. Ma dobbiamo sentirci come in un collettivo».

Repubblica 31.8.10
Legge elettorale, D´Alema divide il Pd "Meglio il doppio turno alla francese"
Il Pdl: non è un tema in discussione. Ma i finiani: parliamone
Franceschini: forme diverse dal tedesco Bindi: andiamo avanti con il maggioritario
di Marco Trabucco

ROMA - Una riforma elettorale, prima del voto, ispirata al sistema proporzionale alla tedesca: è la proposta lanciata ieri su Repubblica da Massimo D´Alema. Una proposta che divide ancora una volta il Pd e si scontra con il no del centrodestra che ripete: «Non è tema all´ordine del giorno».
Il primo a rispondere al presidente del Copasir è il leader della minoranza Pd, Dario Franceschini. A Torino per la festa nazionale del partito, spiega: «D´Alema ha ragione quando sostiene che tornare a votare con questa legge sarebbe un errore per il paese. Una stagione di transizione può servire a cambiarla - continua - ma bisogna trovare forme diverse dal sistema tedesco. Dobbiamo difendere il bipolarismo, che senza l´anomalia di Berlusconi funziona. Credo invece che il sistema francese a doppio turno, sia il modello migliore, ed è stato indicato tra l´altro dalla nostra assemblea nazionale». Franceschini, dice sì all´idea del nuovo Ulivo di Bersani e aggiunge: «Se cade il governo è un giorno di festa e non di paura. Anche perché vinceremo». «Fini? Può essere il leader di una destra finalmente normale. Ma deve essere chiaro che gioca nell´altro campo».
Anche a Rosy Bindi piace poco l´idea di un ritorno al proporzionale, sia pure «tedesco»: «È vero, come sostiene D´Alema, che l´attuale bipolarismo è malato e che la malattia si è aggravata con il populismo di Berlusconi e questa legge elettorale. Non si può però immaginare di uscire dal berlusconismo tornando indietro, alla politica delle mani libere, come di fatto propone D´Alema con il sistema tedesco, quella delle coalizioni costruite dopo il voto. Bisogna andare avanti sul maggioritario, possibilmente a doppio turno». Ancor più duro Stefano Ceccanti, deputato Pd: «In questo modo D´Alema propone un centro forte che si allea con la sinistra, ma nega così la radice stessa dell´Ulivo e del Pd. E in ogni caso in Parlamento i voti non li avrà». «È più facile mettere la luna nel pozzo che veder questo Parlamento votare una nuova legge elettorale - dice anche il leader dell´Idv, Antonio Di Pietro - È ovvio che questa legge elettorale va cambiata. Mi chiedo, però: se non ci sono i numeri per votarne una nuova invece di perder tempo, si vada al più presto alle elezioni».
Dal centrodestra, anche la sola idea di un nuovo sistema di voto incontra un no netto. L´unico ad aprire a D´Alema è il finiano Italo Bocchino: «È una proposta che va valutata con attenzione, abbiamo bisogno di una legge che garantisca bipolarismo e stabilità e che faccia scegliere gli eletti agli elettori. Con questi paletti si può discutere». Ironizzano sulle divisioni del Pd invece Daniele Capezzone, portavoce Pdl («Quello della legge elettorale non è tema all´ordine del giorno, ma è surreale lo spettacolo di un Pd che appena comincia a discutere di un argomento è già lacerato») il ministro Sandro Bondi e il capogruppo alla Camera, Fabrizio Cicchitto: «Quello di D´Alema è tatticismo. Cerca di rimediare con l´ingegneria elettorale alla debolezza politica e sociale del suo partito». Chiude per la Lega il governatore del Piemonte Roberto Cota: «Quella attuale è una buona legge elettorale che ha dato semplicità e stabilità. Non c´è l´esigenza di cambiarla».

Repubblica 31.8.10
Come cambiare la legge elettorale
di Massimo L. Salvadori

Restituire al popolo la sua sovranità cambiando la legge elettorale. L´intento è nobile e positivo, anche se francamente eccessivo. Definire che cosa sia propriamente la sovranità popolare, in sistemi in cui le decisioni importanti attinenti all´economia, alla politica e alla vita sociale appartengono a gruppi ristretti (e lasciamo da parte la questione se ciò sia o non sia un portato inevitabile delle società attuali) e il ruolo delle masse popolari è in misura prevalente - pur con lodevoli eccezioni come quelle rappresentate da noi ad esempio delle «primarie» - di assistere dagli schermi televisivi ai dibattiti tra i decisori della politica e dell´economia, è un´impresa davvero ardua. Ciò nonostante, la legittimazione essenzialmente passiva che i cittadini sono chiamati periodicamente a dare ai partiti e agli individui che competono per il loro consenso presenta pur sempre diversi gradi di passività. Questa può manifestarsi nel semplice prendere o lasciare quanto confezionato dalle oligarchie dei partiti oppure nello stabilire dei limiti al diktat; limiti che consistono nel recuperare margini di scelta rispetto ai candidati proposti. Esempio puro del primo caso è quanto disposto dalla legge elettorale vigente, già definita «una porcata» da chi la fece approvare, ma che ora Bossi e Berlusconi considerano ottima e non intendono cambiare; esempio del secondo è una diversa legge, ora richiesta con forza da Bersani e dagli altri leader dell´opposizione.
Bersani ha dunque chiamato a raccolta le varie componenti dell´opposizione per porre fine al berlusconismo e far approvare dal Parlamento una riforma elettorale. Ma - ecco l´interrogativo - secondo quali modelli? Ritorno al Mattarellum, adozione dell´uninominale a un solo o a doppio turno, sistema tedesco proporzionale con lo sbarramento al 5 per cento?
Due ci paiono le considerazioni essenziali da farsi. La prima riguarda la netta superiorità che acquisisce la parte che si presenti con una proposta univoca. Se all´interno delle opposizioni la proposta di riforma - che naturalmente a seconda del tipo ha differenti implicazioni di grande importanza sulla formazione degli schieramenti, delle maggioranze e del governo - dovesse provocare non risolti contrasti, la conseguenza sarebbe il complessivo indebolimento della battaglia comune. La seconda è che la campagna per la riforma abbisogna dell´energico sostegno all´azione condotta dai partiti degli elettori che si sentono umiliati dalla «legge porcata» e di una loro vigorosa mobilitazione. Gli umiliati e persino furibondi tutto possono sopportare meno che lo spettacolo offerto da uno scontro di modelli il quale comunichi la deleteria impressione che, mentre Bossi e Berlusconi restano fermi e coerenti nella difesa dell´esistente, dall´altro versante si sviluppano diatribe inconcludenti.
Il rischio che l´astensionismo elettorale, alimentato da correnti qualunquistiche che speculino sulla diffusa «stanchezza per la politica», cresca pericolosamente non va sottovalutato; e non va sottovalutato anzitutto dall´opposizione. I coriacei sostenitori dell´attuale tandem di potere costituiscono un corpo ostentatamente insensibile ai guasti portati alle istituzioni, alla Costituzione, alle prevaricazioni nei confronti della legalità e dei diritti degli elettori. È principalmente nel centrosinistra che stanno gli offesi, i disgustati, i disorientati e anche gli stanchi. È tra questi che - in assenza della capacità dei partiti che invocano il cambiamento di saper non solo aprire un fronte di protesta ma anche offrire soluzioni efficaci stabilendo un comun denominatore riformatore e mettendo in opera tutto il possibile per modificare la legge elettorale - può crescere la rivolta dei delusi inducendoli a non recarsi alle urne o a deporre scheda bianca.
È ben chiaro che la scelta di una legge elettorale o di un´altra ha dirette conseguenze anche sulla cruciale questione del bipolarismo o del multipolarismo. La situazione dei partiti italiani è tale da aver ormai dato una risposta assai difficilmente contestabile circa l´assenza nel nostro paese di condizioni che consentano di far poggiare il bipolarismo sul bipartitismo. Sennonché è risultato altresì vano finora il tentativo di creare un bipolarismo basato su due coalizioni stabili. Da un lato è entrato in una crisi organica, che non è ancora dato capire quali esiti sia destinata a produrre ma palesemente in pieno svolgimento, lo schieramento di centrodestra; dall´altro lo schieramento formato da Pd, Idv, Sinistra vendoliana e altre componenti minori, è tenuto insieme da ciò che nega ma è poco unito o decisamente diviso nelle strategie da seguire e nelle proposte di leadership; inoltre tra i due si frappone un centro dalle molte ambizioni ma dal volto incerto circa le forze che possano in esso raggrupparsi.
Se la battaglia contro la Lega e il Pdl dei berlusconiani dovesse essere condotta senza aver compiuto - scontato l´inevitabile e giusto lasso di tempo per la discussione - scelte condivise relativamente al modello di riforma elettorale, al nodo del bipolarismo o tripolarismo e all´indicazione dei leader, allora essa risulterebbe gravemente indebolita, alimentando la stanchezza e la sfiducia di cui sopra parlavo. Inutile aggiungere che la responsabilità prima dell´agire con determinazione e limpidezza spetta al Pd, chiamato ora più che mai a dare prova di sé, a partire dal mettere ordine nelle controversie quali quelle, e non sono le sole, che oppongono la Bindi a Veltroni e il giovane Renzi ai «vecchi» che questi vorrebbe vedere in pensione una volta per tutte.

Repubblica 31.8.10
Saviano: "Nessuno tocchi Sakineh"
di Rosalba Castelletti

Migliaia le firme per l´appello sul web, si mobilitano sindacati e politici
La stampa iraniana protesta contro l´intervento di Carla Bruni: "È una donna immorale"

ROMA - Anche Roberto Saviano si unisce alla mobilitazione internazionale per la liberazione di Sakineh Mohammadi Ashtiani, la donna iraniana di 43 anni, madre di due figli, condannata alla lapidazione per adulterio e complicità nell´omicidio del figlio. «Lapidarla significherebbe lanciare un sasso contro ogni donna», denuncia lo scrittore, auspicando che siano «in molti, e determinanti, nel dire, nel pretendere: "Nessuno levi la mano contro Sakineh"».
L´autore di Gomorra unisce così la sua voce a quella dei tanti politici, artisti e intellettuali che stanno aderendo all´iniziativa "Lettera a Sakineh" lanciata dalle testate francesi Libération, La Règle du Jeu ed Elle, a cui si è associata anche Repubblica. A indirizzare messaggi di solidarietà alla donna iraniana nei giorni scorsi erano stati anche la première dame francese Carla Bruni, le attrici e cantanti francesi Charlotte Gainsbourg e Isabelle Adjani, il medico italiano Umberto Veronesi e il filosofo e scrittore spagnolo Fernando Savater. Nomi e cognomi che si vanno a sommare alle migliaia di adesioni agli appelli per la liberazione di Sakineh: oltre 220mila le firme raccolte dalla petizione internazionale Freesakineh.org e poco sotto quota 80mila gli italiani che sino a ieri sera avevano sottoscritto sul sito Repubblica.it l´appello di quindici intellettuali francesi a «mettere fine a questo tipo di procedure oltre che a queste punizioni inique e barbare». E solo ieri a schierarsi in Italia per la liberazione di Sakineh erano anche il ministro degli Esteri Franco Frattini, la regione Lazio e la Cgil.
Una mobilitazione che Teheran non vede di buon occhio tanto che sulla stampa iraniana si moltiplicano gli attacchi contro le donne illustri che sinora hanno preso le difese dell´iraniana incarcerata a Tabriz, nell´Azerbaijan iraniano. A subire gli strali più feroci Carla Bruni. «Immorale» l´ha definita ieri il sito Internet dell´agenzia di stampa governativa iraniana, Iran newspaper on network, commentando un articolo pubblicato sabato dal quotidiano ultra conservatore Kayan che aveva chiamato la moglie del presidente francese Nicolas Sarkozy «prostituta». «I media occidentali, nell´esporre i suoi numerosi precedenti d´immoralità, hanno implicitamente confermato che merita questo titolo», si leggeva ieri sul sito inn.ir, che denunciava anche l´intervento della «corrotta attrice Adjani». «Gli eccessi di un giornalista o di un giornale non rappresentano l´opinione del governo né del popolo iraniano», precisava però sempre ieri il sito Internet conservatore Asriran. Una presa di posizione contro corrente che fa ancora sperare per la vita di Sakineh che, dalla cella dov´è rinchiusa insieme ad altre 25 adultere, attende che la magistratura iraniana annunci la sentenza definitiva sul suo caso.

Repubblica 31.8.10
Parla per la prima volta dopo la scarcerazione. Il cineasta atteso a Venezia per la presentazione del suo film
Il regista Panahi difende la donna "Mai più condanne a morte"
Sono contro ogni tipo di violenza, sono contrario ad ogni uccisione anche di fronte alla peggiore colpa
di Ana Bandettini

ROMA - Non fa proclami, denunce, proteste. Accetta con gentilezza l´intervista, a pochi mesi dall´uscita dal carcere, chiedendo solo che non vengano forzate le sue parole. «Voglio continuare a vivere nel mio paese, l´Iran - dice Jafar Panahi al telefono da Teheran quando, con un coraggio da leoni, parla anche di Sakineh Mohammadi Ashtiani, la donna condannata alla lapidazione per adulterio: «Non posso condividere condanne di questo genere. Sono contrario a ogni uccisione, anche di fronte alla peggiore colpa», dice.
Il regista di capolavori come Il palloncino bianco, Il cerchio, è atteso giovedì alla Mostra del Cinema di Venezia per un incontro e per presentare (domani) un suo piccolo film alle "Giornate degli Autori" ma a tutt´oggi non ha il passaporto. Se non riuscirà a partire, preannuncia, «invierò una dichiarazione». Il film The Accordion, prodotto da Art for the World, l´associazione fondata da Adelina von Furstenberg che difende le diversità culturali, è un corto che fa parte di un film più grande "Then and now beyond borders and differences" firmato da registi dei cinque continenti a partire dall´articolo 18 della Dichiarazione dei Diritti Umani. Panahi è la persona giusta. Arrestato lo scorso marzo con l´accusa di girare un film sulle proteste contro il governo, è stato rilasciato in maggio su cauzione. Tra un mese avrà il processo: dalla sua ha il sostegno di attori e registi di tutto il mondo che già in marzo avevano firmato appelli per la sua liberazione.
Una catena di solidarietà simile si muove oggi per Sakineh.
«Non so valutare il reale risultato di questa solidarietà sulle autorità. Sono contrario a ogni uccisione. Non si può uccidere nessuno. Spero che condanne così pesanti siano riviste».
Nel suo caso la solidarietà internazionale ha avuto peso?
«Sì, ha inciso molto. Gli appelli hanno avuto un ruolo importante nell´opinione pubblica iraniana che si è cominciata a domandare quale era la mia colpa. Ma hanno anche dimostrato che il cinema ha un potere enorme, che noi artisti siamo una comunità, che ci mobilitiamo se qualcuno di noi, in qualunque parte del mondo, viene privato dei suoi diritti. E questa comunità artistica è più forte dei politici».
Parla di solidarietà anche The accordion che vedremo a Venezia?
«È la storia di due bambini che suonano per strada vivendo di elemosina. Ma un giorno arriva un tale e ruba i loro strumenti. I bambini, seguendo il suono della musica, lo trovano a suonare anche lui in strada chiedendo elemosina. Si uniranno a lui. Questa storia è per me la necessità della non violenza, la necessità di vivere pacificamente anche tra opposti».
È ottimista.
«È una speranza. La cosa importante nel film è la scelta dei bambini di non usare violenza verso l´uomo che ha rubato i loro strumenti, ma di condividere con lui i guadagni. È una visione positiva verso le nuove generazioni».
Oggi però lei è senza passaporto. Perché non le danno il permesso di uscire dal paese?
«Non lo so. Io non voglio uscire dall´Iran per non tornarci. Amo vivere in Iran e fare qui i film perché prendo ispirazione dalla mia gente. Tra un mese saprò se devo tornare in prigione o se sarò libero: ma se non potrò fare il mio lavoro per me non c´è differenza tra l´andare in prigione o restare fuori».
Quando fu imprigionato stava lavorando a un film. Che ne è di quel lavoro?
«Con il mio collega Mohammad Rasoulof stavamo girando la storia di una famiglia di quattro persone e le loro vite durante gli eventi dell´ultimo anno in Iran, che non potevano restarci estranei. Era girato a casa mia. Al 30 per cento era fatto. Mi hanno portato via tutto il materiale. Non ho più niente. Ma se mi ridaranno l´autorizzazione, ricomincerò da capo».
(ha collaborato per la traduzione Abolhassan Hatami)

Repubblica 31.8.10
Usa, staminali su cavie umane: via al primo test
Cellule da embrioni per curare pazienti ciechi o paralizzati. "Sarà una rivoluzione"
L´esperimento della Geron su una ventina di malati nonostante lo stop dei fondi pubblici
di Angelo Aquaro

NEW YORK - Christopher Goodrich diventò quasi cieco a 7 anni e adesso che ne ha 55 già assapora il miracolo. «Solo il pensiero di poter riguadagnare la vista, poter correre in bicicletta e rivedere la luna è fantastico», dice questo signore di Portland, Oregon, che ha deciso di accorciare la distanza tra l´uomo e Dio: sulla propria pelle.
Per la prima volta nella storia una clinica degli Stati Uniti testerà la terapia con le cellule staminali su alcune cavie umane. Su uomini come Christopher affetti dal morbo di Stargardt, una malattia degenerativa che provoca la cecità. Su uomini come quei 10 pazienti paralizzati da un cedimento della spina dorsale. «Siamo più che ottimisti» dice al Washington Post Thomas B. Okarma della Geron, l´azienda californiana che il mese scorso ha ricevuto dal governo l´ok per la sperimentazione e che nel giro di una o due settimane darà il via ai test. «Se abbiamo visto giusto, rivoluzioneremo la cura di molte malattie croniche».
L´ora dei miracoli scocca in un momento delicatissimo per la ricerca. La settimana scorsa una corte federale ha bocciato le direttive con cui Barack Obama aveva autorizzato gli esperimenti con gli embrioni dopo gli stop dell´era di George W. Bush. Non è un caso che la Geron sia un´azienda privata: la sentenza ha bloccato tutte le sperimentazioni che ricevevano un aiuto pubblico, sostenendo che la riforma infrange il divieto del Congresso di sovvenzionare ricerche che comportano la distruzione di embrioni. La questione è nota: per ottenere le cellule si uccidono gli embrioni e quindi - dicono tanti cristiani - si uccide una vita potenziale. L´amministrazione ha già annunciato che ricorrerà: ma intanto il capo del Consiglio nazionale della Salute, Francis Collins, ha dovuto mandare una e-mail agli scienziati americani per stoppare le iniziative con gli aiuti pubblici.
La Geron è privata, e poi il via libera era già arrivato: così gli esperimenti cominceranno nei prossimi giorni. A una decina di pazienti saranno iniettati fino a 2 milioni di staminali, tecnicamente delle cellule progenitrici di oligodendrociti, destinate a formare una specie di "calotta" intorno alla spina dorsale danneggiata. E presto potrebbe arrivare il verde della Fda anche per la Advanced Cell Technology, altra azienda californiana che spera di ridare la vista iniettando dalle 50 alle 200mila cellule negli occhi di 12 pazienti come Christopher, che progressivamente sostituire quelle degenerate.
Sia nel primo sia nel secondo caso, gli esperimenti sui topi hanno già dato esito positivo. Ma il via ai test sta già provocando polemiche: non solo etiche. Come si comporteranno le staminali iniettate nel nostro corpo? «C´è il rischio di impiantare cellule che possono causare tumori» dice Johan Gearhart dell´università di Pennsylvania. Che fare? Forse ha ragione Hank Greely, bioetico di Stanford: «Se crediamo che funzionano, qualcuno dovrà pure essere il primo a testarle». Per i malati come Christopher, l´unica cosa che conta.

Repubblica 31.8.10
Tracce della festa trovate da due archeologhe di Gerusalemme in una grotta della Galilea. Lo studio su Pnas Era stata organizzata per la sepoltura di una donna, forse la sciamana del villaggio. Mangiarono uri e tartarughe
Il party più antico del mondo 40 invitati, dodicimila anni fa
di Elena Dusi

"Già in quell´epoca banchettare serviva a consolidare le relazioni tra gli individui"

Cacciatori di giorno, amanti del convivio la notte. La sola differenza è che gli uomini primitivi festeggiavano con bue e tartaruga al posto di champagne e tartine. Per preparare il cibo trascorrevano giorni e giorni a cacciare, e dai resti degli oltre 300 chili di carne che gli archeologi hanno ritrovato in una grotta in Galilea, si è dedotto che gli invitati alla più antica festa della storia umana fossero tra i 35 e i 40, tutti evidentemente molto affamati. Il party primitivo, ricostruito dalle archeologhe Natalie Munro dell´università del Connecticut e Leore Grosman dell´università di Gerusalemme, risale a oltre 11.500 anni fa. Non era affatto scontato che uomini abituati a una vita dura, fatta di caccia e guerre fra tribù per il possesso del territorio, sentissero il bisogno di ritrovarsi insieme per socializzare. Ma la scoperta raccontata oggi sulla rivista Pnas, frutto di una campagna di scavi decennale nella grotta di Hilazon Tachtit, a metà strada fra il Lago di Tiberiade e il Mediterraneo, getta luce su uno snodo della storia umana in cui la vita nomade stava lasciando il passo a quella sedentaria, la caccia cominciava a essere affiancata dall´agricoltura e oltre alla brutale gara per la sopravvivenza anche le prime forme di arte e decorazione stavano diventando ingredienti della vita dei primitivi.
La festa più antica era stata organizzata per uno scopo in realtà poco gioioso: la sepoltura di una donna. Si trattava di una vecchina molto particolare per quel gruppo di uomini dell´epoca natufiana, la stessa in cui monili e ornamenti diventano molto diffusi così come le rappresentazioni artistiche sotto forma di pitture rupestri e statuette, e i primi cani vengono addomesticati per fare compagnia a famiglie sempre meno nomadi. Zoppa, malforma, alta non più di un metro e mezzo e molto anziana per gli standard dell´epoca, la donna era la sciamana del villaggio (segno premonitore di una vita spirituale particolarmente intensa, in quell´area del medio oriente) e l´ultimo saluto ai suoi resti si trasformò in "evento".
Nella grotta di Hilazon Tachtit, situata a 200 metri sul livello del mare e con una buona vista sul Mediterraneo che si trova 14 chilometri più a ovest, le due archeologhe hanno trovato i resti di tre esemplari di uro - un enorme bovino oggi estinto con grandi corna, la cui caccia non era esente da pericoli - e di almeno 71 tartarughe greche. Questi rettili, solitari e non molto numerosi già all´epoca, erano evidentemente stati catturati dopo molti giorni di ricerche. Alcuni dei loro carapaci, alla fine della festa, sono stati ordinatamente sepolti nella tomba della vecchia sciamana insieme a un piede umano (troppo grande per appartenere alla donna), due crani di martora, la punta dell´ala di un´aquila, la coda di un uro, le ossa del bacino di un leopardo, una zampa di cinghiale e un corno di gazzella.
«Davanti ai nostri occhi - spiegano nel loro articolo Munro e Grosman - abbiamo una società umana che si fa sempre più complessa e si avvia a quella rivoluzione dell´agricoltura» che avverrà un migliaio di anni più tardi, nell´epoca neolitica. «Le feste già all´epoca servivano a consolidare le relazioni fra gli individui, a integrare le varie comunità di uomini e a mitigare lo stress di una società che stava profondamente cambiando». Gli enormi spazi che ciascun individuo aveva avuto a disposizione fino a quel momento si stavano restringendo. La densità degli abitanti aumentava, la vita nei villaggi rendeva sempre più importante la cooperazione fra gli uomini. La società umana aveva iniziato una corsa verso la complessità e la stratificazione che non si sarebbe mai più fermata. E mai, di certo, gli invitati al party primitivo avrebbero immaginato a quali generi di villaggi e di feste sarebbero arrivati i loro discendenti.

Repubblica 31.8.10
Vaticano, duemila anni di segreti
di Paolo Mauri

Dall´antica Roma fino allo Ior l´ultimo libro di Augias racconta i misteri della Santa Sede
Una parte è dedicata alla storia delle guardie svizzere con il giallo Cédric
Il saggio mescola testimonianze e personaggi con le vicende dei palazzi e degli edifici

Nel 1963 Otto Preminger girò Il cardinale: un kolossal che dura poco meno di tre ore e racconta, attraverso le vicende di un prete irlandese, le contraddizioni della Chiesa cattolica, titolare nei secoli del messaggio cristiano, con tutta la sua carica rivoluzionaria di amore e di pace, ma anche soggetto politico particolarissimo, con una auctoritas addirittura divina, che tuttavia non si sottrae, né si è mai sottratta alle trame di questo mondo. Il film di Preminger, bello ed eccessivo, mi è tornato in mente leggendo il nuovo saggio di Corrado Augias, I segreti del Vaticano (Mondadori, pagg. 365, euro 19.50) che, come spiega il sottotitolo, racconta "storie, luoghi, personaggi di un potere millenario" - come dire che dal libro di film se ne potrebbero trarre a decine, però con una sceneggiatura che in parte si ripete. Le trame per il potere, infatti, offuscano spesso l´operato di chi sceglie povertà e umiltà per esercitare la propria missione.
Il cuore dell´autore, lo si capisce subito molto bene, è dalla parte, diciamolo con linguaggio moderno, dei preti di base, quelli che scelgono di stare fra la gente e spesso disobbediscono alle gerarchie. L´opera dei don Mazzi, don Ciotti e don Gallo, per non citarne che tre, è del resto ben nota e apprezzata così come molti ricordano la figura di dom Franzoni, abate di San Paolo, di cui scrisse Pasolini: «non c´è predica di dom Franzoni che prendendo convenzionalmente il pretesto o dal Vangelo o dalle Lettere di Paolo, non arrivi implacabilmente ad attaccare il potere». Per aver difeso la libertà di scelta dei cattolici nei confronti del referendum sul divorzio e aver più tardi dichiarato che avrebbe votato Pci, dom Franzoni venne sospeso a divinis e poi ridotto allo stato laicale. In duemila anni di storia della Chiesa, l´uomo che contrasta potere e gerarchia è tutt´altro che un inedito. Fra Dolcino che predicava la povertà fece una fine orribile. Per secoli la Chiesa ha esercitato una forma di autorità assoluta contro chi osava criticare, disobbedire o anche solo discutere, usando la pena di morte, previa tortura, per sconfiggere il nemico. Una vicenda infinita, di cui solo in tempi recenti Giovanni Paolo II ha fatto in parte ammenda.
Corrado Augias ha messo a punto una forma di raffinata divulgazione rileggendo insieme al suo pubblico, ormai vastissimo, di lettori una storia bimillenaria di ombre, ma anche di luci. Qui prende le mosse dalla descrizione del potere di Nerone, l´imperatore assassino ed incendiario, persecutore dei cristiani. Con abile regia e sfruttando il "fermo immagine" l´autore inquadra l´azione dei personaggi, lasciando spesso la parola ai testimoni del tempo. Sarà così per tutto il libro, con una accorta mescolanza tra episodi accaduti nei nostri anni e vicende remote, "raccontate", magari ancora oggi, da palazzi, castelli e chiese che hanno sfidato i secoli e sono giunti fino a noi. Testimoni di pietra, che, opportunamente interrogati, svelano segreti in abbondanza. Per Augias, che passa da San Pietro a Castel Sant´Angelo, dal Quirinale alla Sistina per giungere alle anonime palazzine dell´Opus Dei, sono protagonisti eccellenti, quasi interlocutori privilegiati. Ma tornando al "montaggio" del libro, dall´antichità remota di Nerone si balza ad una storia dei nostri giorni, un giallo tutt´altro che chiaro.
«La sera del 4 maggio 1998 tre corpi vengono trovati all´interno delle mura vaticane, in un appartamento a poca distanza dagli alloggi privati del pontefice. Due uomini e una donna». Si tratta del colonnello delle guardie svizzere Alois Estermann, di sua moglie Gladys e del giovane caporale Cédric Tornay. La versione ufficiale data dal Vaticano è quella di un omicidio dei due ad opera del giovane Cédric, che si sarebbe poi suicidato. Una vendetta per una mancata benemerenza. La storia, di cui sono state date spiegazioni diverse, dal delitto passionale gay che avrebbe visto Cédric amante del colonnello, all´intrigo tra massoneria e Opus Dei, è comunque irrisolta.
Augias ne approfitta per raccontare anche la vicenda delle guardie svizzere, la cui creazione si deve a Giulio II della Rovere, il papa di Michelangelo, nel 1506, ma anche per puntualizzare i privilegi del Vaticano attuale stabiliti dal Concordato. L´extraterritorialità garantisce una giurisdizione sovrana, che non può essere sottoposta a vincoli di nessun genere. In poche parole nessun giudice esterno può impugnare la decisione vaticana di archiviare un caso così scopertamente "aggiustato". Alla madre del giovane Cédric che chiedeva di far luce sulla morte del figlio e sulle sue vere cause è stato opposto un sostanziale diniego. D´altra parte neppure sull´intricato caso Marcinkus e sullo Ior è stato possibile indagare da parte delle autorità italiane che cercavano ulteriori prove sul riciclaggio di danaro sporco. E´ la vicenda, intricatissima, che vede coinvolto Roberto Calvi, impiccato sul ponte dei Frati Neri a Londra come in un thriller dozzinale e Michele Sindona avvelenato in carcere. Quando si tratta di soldi o di temi imbarazzanti il Vaticano sceglie la via del silenzio: o meglio, sceglie la via più conveniente per difendere la reputazione della Santa Sede, come ha pervicacemente fatto per decenni anche nel caso dei preti pedofili. «Troncare, sopire…»: Manzoni se ne intendeva.
Di capitolo in capitolo, scorrono le vicende della Chiesa e della Santa Sede antica, quando poteva capitare che il papa avesse un´amante come Marozia (siamo nel Medio Evo) o che il cadavere di un pontefice, come Formoso, fosse riesumato per essere fatto a pezzi e gettato nel Tevere, ma poteva anche accadere che un pontefice facesse stare l´imperatore per tre giorni nella neve prima di accordargli udienza, come capitò nella poi proverbiale Canossa. I Papi ritennero loro diritto per secoli imporre la loro autorità ai re e agli imperatori in quanto emanazione del potere di Dio, anzi vicari di Dio in terra.
In epoca moderna proprio un dramma intitolato Il Vicario di Rolf Hochhuth (1963) metteva sotto accusa papa Pacelli, accusato d´essere rimasto quasi indifferente di fronte all´Olocausto. E´ materia ancora incandescente, rilanciata dal processo di canonizzazione di Pio XII. D´altra parte la Chiesa cattolica è stata per secoli antisemita e solo da poco la situazione è radicalmente cambiata. E´ un fatto che Mein Kampf, il breviario di Hitler, non sia mai stato messo all´Indice e che comunque il nemico fosse molto più il comunismo ateo che non il nazismo con tutti i suoi misticismi pagani. In chiusura Augias riporta un passo del cardinal Martini, che dopo aver sognato per tutta la vita una Chiesa povera e umile, ha deciso, in vecchiaia, di pregare per la Chiesa.

Repubblica 31.8.10
Raccolti in un libro gli interventi di Adriano Prosperi su "Repubblica"
Quel diario italiano tra storia e cronaca
di Simonetta Fiori

I temi quotidiani vengono affrontati con il respiro di una "prospettiva lunga"

«Un paese che dimentica la propria storia è condannato a ripeterla». Forse da qui dovremmo partire per cogliere il senso del lavoro quasi quotidiano svolto da Adriano Prosperi su questo giornale. Nel vuoto di cultura e di memoria civile che sembra ottenebrare l´Italia, lo studioso può assolvere un ruolo prezioso nel lumeggiare il "campo lungo" della storia. Sull´emozione del "primo piano" prevalgono i significati profondi di inquadrature secolari. Ed è emblematico che a spiegarci con tanta limpidezza l´evo contemporaneo sia un´autorità indiscussa negli studi storici dell´Europa moderna, di quei secoli lacerati tra riforma religiosa e tribunali delle coscienze a cui oggi occorre risalire per spiegare la nuova Controriforma. Come se nelle viscere più profonde del paese continuassero ad agire pulsioni che sono all´origine dell´attuale regressione.
Anche per questo Cause perse. Un diario civile - titolo della raccolta di articoli scritti da Prosperi per Repubblica tra il 1998 e il 2009 (Einaudi, pagg. 300, euro 19, da oggi in libreria) - può essere letto come un libro di testimonianza, un´azione quotidiana di resistenza contro lo spirito del tempo animato da un´ilare smemoratezza e da una sostanziale indifferenza. Grazie a una scrittura di singolare nitore, qualità non comune tra gli accademici, il lettore viene messo nelle condizioni di risalire alle sorgenti antiche di quella che Prosperi definisce "cupa sindrome di imbarbarimento", rappresentata da nuove forme di razzismo e intolleranza, dalla "post-politica" di chi non ha più Stato né nazione, dalla moderna tirannia populista e dal ritorno del Papa-Re, che al "sommo potere spirituale" associa il "sommo potere di indirizzo degli uomini sulla terra".
In questo lavoro giornalistico di investigazione nel sottosuolo della storia, Prosperi non è certo il solo tra gli studiosi italiani. È però figura rara tra i nostri modernisti (e medievisti), più restii a un commento quotidiano. Quel che colpisce nei suoi scritti è la capacità di travasare nell´articolo di giornale l´attrezzatura del suo mestiere di storico, sia che si tratti di un documento di Ratzinger, di un atto di palazzo Chigi o di un episodio di cronaca (e non a caso l´autore della postfazione, Giuseppe Marcocci, lo associa al modello incarnato dal Marc Bloch de La strana disfatta). Lo stile si ripete secondo modalità definite: dalla notizia del giorno lo studioso allarga la prospettiva alla memoria lunga, guidandoci meticolosamente nei percorsi accidentati dei secoli passati, lungo traiettorie segnate di volta in volta da Machiavelli o Guicciardini, da Goethe o Gramsci. Scorrono nei suoi editoriali sull´Italia contemporanea il Medioevo delle danze macabre, agitato da paure terribili, o il pontificato di Pio V, potente inquisitore che nel 1570 impone il messale in latino (suggello di una religione ieratica e misteriosa), e ancora il Seicento dei roghi di infanticide vere e presunte, il secolo delle favole al servizio del potere, e più vicino a noi il ventennio nero, con le sue leggi razziste e il diffuso servilismo. Un´immersione nella storia che ha l´effetto di strappare il lettore dal frastuono del presente e talvolta anche dall´ottundimento che ne deriva, mostrandogli un paese ferito, in piena regressione, "vecchio" e "impoverito", come ama ripetere.
Tra i tanti, può essere esemplare un commento sulle impronte digitali imposte ai bambini degli zingari. Lo storico parte da quelle impronte apparentemente banali per rievocare un percorso millenario di barriere alzate tra "noi" e gli "altri". Prima le barriere linguistiche, più tardi quelle religiose. Poi sono arrivare le tecniche di misurazione dei corpi, subito impiegate in funzione della selezione delle "razze buone" da quelle "cattive". Fin quando nel mondo contemporaneo - spiega Prosperi ricorrendo a George Mosse - il razzismo tende a diventare "il punto di vista della maggioranza", travestito da "ideale di rispettabilità borghese". Ecco che quell´iniziativa innocua perde la sua veste rassicurante per rivelarsi nella sua vera natura, un atto razzista.
Allievo di Armando Saitta e Delio Cantimori, maestro in una scuola prestigiosa come la Normale, Prosperi incarna un modello di scrittore civile che era proprio di un´alta tradizione storiografica italiana, capace di mettere in relazione passato e presente per decifrare futuro. Alla verve polemica di un Salvemini sembra però preferire una corda dolente e quasi stupefatta che evoca i "ricordi tristi e civili" di Cesare Garboli (al critico si richiamano i curatori di Cause perse Michele Battini e Michele Olivari). Un profilo intellettuale sideralmente distante da quello oggi prevalente nel circo massmediatico, più incline a stupire che a spiegare. «Dello storico il fin è la meraviglia», annota Prosperi a proposito delle penne brillanti premiate dai media, «anche lui come il poeta secentista se non sa stupire deve tornare alla striglia». Il fuoco d´artificio al posto del ragionamento: perché oggi prevalga ovunque, è anche questo tema di riflessione per lo storico del XVII secolo.