giovedì 2 settembre 2010

Panorama 10.7.2009
Massimo Fagioli, da medico dei pazzi a medico dei sani
di Pietrangelo Buttafuoco

http://www.scribd.com/doc/17402663/Panorama-Buttafuoco-10072009

Ci voleva un elettroshock per i radicali. A somministrarglielo, manco a dirlo, Massimo Fagioli. Caposcuota di setta psichiatrica di derivazione comunista, ma romantica, Fagioli è una benedizione per il paesaggio culturalpolitico nazionale. Vate di un pensiero scientifico ad alto tasso eversivo, Fagioli ha dato una gran bella scossa ai radicali riuniti a Chianciano dal 26 al 28 giugno.
Si trattava dell'Assemblea dei mille, ovvero, una superfetazione d'assise fabbricata per radunare le residue realtà della sinistra Una platea, insomma, dove Fagioli, con un appello alta sanità di mente, ha ricavato una pioggia di applausi tanto da impensierire Marco Pannella, che pure lo aveva voluto alla presidenza (ma non al punto di consegnargli la scena).
In tema di strizzacervelli prestati alla politica in principio ci fu il solo Armando Vermiglione, coincise con l'età craxiana, ma questo exploit del personaggio Fagioli spiega anche la nuova stagione della politica in «inconscio mare calmo»'. Sebbene in età, Fagioli non è ancora noto al grande pubblico ma è perfetto per il largo successo. Ecco il suo monito: «Che la sanità di mente diventi un bene reale, possibile e condiviso». La cura non è un'opinione, ma un «fatto storico». Non sarebbe il proletariato dei sani di mente quello che ha in mente Fagioli (i cui seguaci sono detti fagiolini) ma il partito in guerra contro la patologia dei pazzi: è canovaccio degno di Luigi Pirandello. E così si potrebbe definire.
Sani laici e liberi dunque. E devono essere di solida pazienza questi radicali a farsi travolgere così da Fagioli, perché, diciamolo, lui è proprio un eversivo. La trasformazione detta società, della persona e della mente, secondo lo psichiatra che fa vanto di una libreria molto chic, Amore e Psiche, in quel di Roma (zona centro), è tutta risolta nella frantumazione del dogmatismo. Ma se per Pannelta il gioco è innocuo, tutto virato sul conflitto piccoloborghese contro la partitocrazia del Pci e della Dc, con Fagioli, invece, il discorso si fa duro: contro i negazionisti della malattia mentale e contro la potente menzogna della psicoanalisi freudiana.
Il dottor Fagioli non è solo un immaginifico della schiatta dei geni, ma un potente contravveleno nella marmellata conformista perché, insomma, ha turbato gli spasmi di Rifondazione comunista (la storia è nota, fino a preparare la scalata degli azionisti su Liberazione) ma ha anche fatto un'iniezione di adrenalina ai radicali e agli atomi di altri gruppuscoli riuniti nell'ennesimo congresso della sinisteritas in cerca di ricco utero. Fagioli che ha un carismaccio tutto suo, perfetto per un mondo piccolo e di aristocratica nicchia, non manca di eleganza: risulta simpatico anche quando viene insultato. Giusto un anno fa, a seguito del dilaniarsi di Rifondazione comunista, così lo dipingeva Nichi Vendota: «Finge di ispirare un percorso di non violenza e poi taglia a fette gli altri. La verità, temo, è che su un lettino, a farsi psicanalizzare, dovrebbe finirci lui... È un uomo pieno di ossessioni, di pregiudizi... è un omofobico, un anticattolico, un anziano che detesta i giovani, i loro sogni e chi questi sogni ti racconta».
Ricercatore non banale, Massimo Fagioli, ha lavorato a Venezia e a Padova, quindi a Kreuzlingen in Svizzera. Dopo la trafila ortodossa, nel 1971 rompe con gli ambienti psicoanalitici pubblicando Istinto di morte e conoscenza, La marionetta e li burattino nel ig e Psicoanalisi della nascita e castrazione umana nel 1975. La sua elaborazione teorica gli costa l'espulsione dalla Società psicoanalitica italiana (1976).
È il fagiolismo, dunque. Ragazze dalle belle ambizioni s'imbronciano di charme nello scoprirsi fagioline, coppie del jet set radical (come Luca Bonaccorsi e la bella Ilaria, editori di Left; nata dalle ceneri di Avvenimenti) si aggiudicano la compagnia del dottore che sa fare la sinistra per «una ideologia compensante i fallimenti ideologici del '68 e del '77».
In tutto questo furor di Fagioli non è mancata la reazione della sinistra fuor di terapia n tema di metafora). Antonello Armando e Albertina Seta, raccogliendo materiale di un blog, hanno costruito un libro dal titolo /I Paese degli smeraldi (edizioni Mimesis, 18 euro) allo scopo di dare voce agli ex pazienti. Un racconto feroce allestito per demolire quell'epica nata a Villa Massimo, all'Università di Roma dove, tra i folgorati di Fagioli, ebbe genio e fotografia Marco Bellocchio. A presentare il libro, giusto per servire una gustosa portata di vendetta, Piero Sansonetti, il direttore di Liberazione a suo tempo giubilato. Ma la cura, assicura Fagioli, è solo un «fatto storico>'. E fatto è che da medico dei pazzi Fagioli vuole farsi medico dei sani. Senza più Freud, con Pirandello piuttosto.

Repubblica 2.9.10

"Tortura psicologica per mia madre Sakineh"
Il figlio: "Sabato le hanno detto che all´alba l´avrebbero lapidata". L´Europa si mobilita
di Anais Ginori

Appello in Francia per liberare anche un 18enne iraniano condannato a morte perché gay

PARIGI - Davanti a Palazzo Chigi, sulla facciata del Campidoglio, nel centro di Firenze. Il volto di Sakineh, incorniciato dal velo nero, sta diventando un´icona, il simbolo di una battaglia diventata ormai internazionale. «L´Italia e gli italiani sono dalla parte di Sakineh» hanno detto i ministri Franco Frattini e Mara Carfagna, che hanno deciso di stendere una foto dell´iraniana condannata alla lapidazione sul palazzo del ministero delle Pari Opportunità, davanti alla sede del governo. «Un´azione senza precedenti - hanno spiegato Frattini e Carfagna - per mobilitare le coscienze e contribuire a salvarla da una sentenza brutale ed inaccettabile, la lapidazione». Un´altra gigantografia è comparsa a Firenze, in piazza del mercato di San Lorenzo, e l´immagine di Sakineh comparirà oggi anche in piazza del Campidoglio, mentre nel pomeriggio è prevista la prima manifestazione nella capitale.
Il conto alla rovescia per la morte di Sakineh, rinchiusa nella prigione di Tabriz, nel nord del paese, va veloce. Anche se ufficialmente il regime iraniano ripete che «nulla è stato ancora deciso» e che la pena è sospesa, sabato scorso alla donna è stato chiesto di dettare le sue ultime volontà. Sakineh, ha raccontato il figlio Sajad, è stata costretta a scrivere il testamento, abbracciare i suoi compagni di cella. Le autorità le hanno annunciato che sarebbe stata uccisa l´indomani mattina all´alba. L´esecuzione poi non c´è stata ma, secondo i famigliari, la messa in scena è l´ennesima «tortura psicologica» contro l´iraniana, che ha già subito 99 frustate per l´accusa di adulterio. «La stanno uccidendo ogni giorno con tutti i mezzi possibili» ha detto Sajad, 22 anni, che ha appreso della finta esecuzione nei confronti della madre al telefono, in una delle rare volte in cui gli è stato permesso di chiamarla.
A Parigi, dove la mobilitazione per Sakineh è incominciata qualche settimana fa, il ministero degli Esteri è tornato a parlare della vicenda. Gli insulti e le minacce a Carla Bruni-Sarkozy, pubblicate dal giornale ultraconservatore iraniano Kayhan, hanno lasciato il segno nei rapporti con Teheran. Nonostante il regime iraniano si sia dissociato, il portavoce del Quai d´Orsay, Bernard Valero, ha definito «inaccettabili» gli articoli pubblicati dal giornale dell´ayatollah Ali Khamenei. Ieri, la Francia ha aperto un altro fronte, chiedendo la liberazione di Ebrahim Hamidi, giovane iraniano di 18 anni condannato a morte per impiccagione perché omosessuale. Secondo il ministero degli Esteri francese questo nuovo caso sottolinea «il degrado costante dei diritti umani in Iran». Per Ebrahim è stato pubblicato un appello di alcuni intellettuali, tra i quali Philippe Besson, Atiq Rahimi, Jonathan Littell e Claude Lanzmann.
Un altro caso, quello della giornalista Shiva Nazarahari, è stato denunciato dal filosofo e scrittore Daniel Salvatore Schiffer, già promotore dell´appello per Sakineh. «Questa giornalista iraniana di 26 anni - racconta Schiffer - sarà processata il 4 settembre soltanto per aver scritto articoli sgraditi al regime, e anche lei rischia la vita».
Oggi pomeriggio sarà organizzato un presidio davanti all´ambasciata iraniana a Roma. «Chiediamo a tutte le forze democratiche di partecipare senza vessilli di partito» ha detto Angelo Bonelli, presidente nazionale dei Verdi, promotori della protesta cui parteciperanno anche Pd e l´Idv. Altre mobilitazioni sono previste in Europa, una fiaccolata sarà organizzata la settimana prossima davanti al parlamento di Strasburgo. A Sakineh non resta che questo. «Mia madre è ancora viva - ha detto il figlio Sajab - proprio grazie alla campagna internazionale per il suo rilascio».

Repubblica 2.9.10
Le minacce alla Bruni
Parla la regista iraniana Shirin Neshat: "I media non abbandonino chi si oppone all´oppressione nel mio paese"
"Solo la pressione internazionale può intimorire il regime di Teheran"
Se Sakineh è ancora viva è anche grazie a Carla Bruni Per questo i giornali la insultano: vogliono togliere valore alle sue parole
di Arianna Finos

VENEZIA - «Se Sakineh è ancora viva è grazie anche a Carla Bruni. Per questo i quotidiani iraniani le danno della prostituta e la minacciano di morte: la denigrano per togliere valore alle sue parole. Perché al regime di Teheran non basta imprigionare, torturare e uccidere centinaia di dissidenti: ha bisogno di uccidere anche le parole. Far sì che le menti degli iraniani restino vuote, non siano avvelenate dalle idee». La videoartista iraniana Shirin Neshat esprime la sua indignazione con voce pacata. Della condizione femminile nelle società musulmane ha raccontato attraverso le fotografie e il film da regista, Donne senza uomini, premiato l´anno scorso con il Leone d´argento alla Mostra di Venezia.
«La posizione di Carla, in un Paese come la Francia dove ci sono tensioni per il velo bandito delle donne musulmane, è ancora più importante. Molti personaggi famosi non hanno voglia di esporsi, l´ho constatato mentre lavoravo alla petizione per liberare il regista Jafar Panahi. E invece è proprio il megafono internazionale che mette pressione al governo iraniano».
Qual è il sentimento degli iraniani, oggi?
«Paura. Paura del regime, ma anche di essere abbandonati dai media internazionali. Nei giorni dell´Onda verde il popolo si sentiva sostenuto da tutto il mondo, ma poi i riflettori si sono spenti e il governo ha iniziato una sistematica operazione di repressione. Quelle belle donne che avete visto manifestare per le strade di Teheran sono state imprigionate, torturate, uccise. Miei cari amici, che sono stati arrestati, mi hanno rivelato atrocità indescrivibili, uno sterminio che prima o poi verrà alla luce. E per un regista come Panahi che si riesce a far scarcerare, tanti cittadini anonimi muoiono. Tra loro Sakineh, costretta a due false confessioni in tv. Servono per dare l´esempio a tutti».
Le donne iraniane combattono una battaglia sotterranea.
«Tanto più il governo alza la pressione sulle donne, tanto più loro si organizzano in una protesta segreta. Ci sono sempre più donne che fanno gli avvocati per difendere altre donne, c´è un movimento femminile che si batte per la democrazia, ma non trova ascolto nei media. Da questo punto di vista il governo ha fatto un buon lavoro, chiudendo ogni giornale che lasciasse trapelare queste idee. Ma le nuove tecnologie, Internet, facebook, non rendono più possibile occultare questa realtà.
La condanna alla lapidazione di Sakineh che reazioni suscita nella gente iraniana?
«É una società in stato di choc. Dopo l´Onda verde il governo, dimostrando la sua disperazione, ha scelto di tornare alla repressione totale estirpando ogni tipo di opposizione. La storia di Sakineh gli si sta rivoltando contro. Nessuno avrebbe mai immaginato che in questo momento storico l´Iran fosse un Paese in cui si possono applicare condanne d´altri tempi. Eravamo una società colta e moderna, oggi siamo governati con modi talebani. Questo non appartiene allo spirito della nostra gente».

l’Unità 2.9.10
Lottare per la scuola
Il governo toglie il futuro ai giovani
di Domenico Pantaleo
segretario generale Flc-Cgil

Le politiche del governo sul sistema d’istruzione, formazione e ricerca sono lo specchio di una concezione regressiva ed autoritaria della società basata sulla svalorizzazione del lavoro, sulla riduzione dei salari, sulla cancellazione di diritti sociali e di cittadinanza, sulle discriminazioni di ogni diversità e sul restringimento degli spazi di democrazia e di libertà.
La privatizzazione dei saperi è al centro del conflitto perché s’intende trasformare la conoscenza da bene comune a disposizione di tutti, come sancito dalla nostra Costituzione, a opportunità offerta a coloro che possono pagare.
Per queste ragioni il sistema pubblico d’istruzione paga un prezzo altissimo sul versante della qualità dell’offerta formativa e su quello dei diritti sia del personale che degli studenti.
Alle nuove generazioni viene negato il diritto al sapere e quindi alla possibilità di realizzare i propri sogni e questo genera un senso diffuso di sfiducia e di rassegnazione. Mai prima d’ora una crisi aveva colpito in maniera così drammatica i giovani . Basti guardare ai dati sulla disoccupazione e al fatto che oltre 900.000 giovani non sono né in formazione e né al lavoro. Dalla legge 133/2008 in poi fino alla manovra finanziaria 2010, approvata nel mese di luglio, abbiamo assistito ad una continua riduzione di risorse che hanno determinato l’espulsione di decine di migliaia di lavoratrici e lavoratori precari con particolare drammaticità nelle regioni del sud. Quest’anno i precari della scuola che non avranno le supplenze annuali saranno 20.000, che si aggiungono ai 22000 dell’anno scorso. Ad essi bisogna sommare i tantissimi precari dell’università espulsi a causa della riduzione del 50% delle risorse, determinata sempre dalla manovra finanziaria, la precarietà strutturale della figura del ricercatore prevista dal disegno di legge Gelmini. Contemporaneamente assistiamo alla morte lenta della ricerca pubblica.
In sostanza questo Governo ci allontana dall’Europa che considera educazione e formazione come condizioni necessarie per affermare un economia basata sulla conoscenza e una crescita sostenibile e inclusiva. Per queste ragioni dobbiamo difendere il valore della scuola pubblica, garantendo un adeguato livello di qualità, partendo dal rispetto della dignità del lavoro e dalla valorizzazione professionale delle competenze. Servono riforme profonde ma che siano sostenute da risorse adeguate e da un largo consenso e non viceversa da metodi autoritari, demagogici e populisti che nascondono il nulla.
Intendiamo mettere in campo nelle scuole pubbliche e private, nelle università, negli enti di ricerca una stagione di lotte che faccia crescere la consapevolezza nel Paese dei disastri che le scelte politiche ed economiche stanno producendo nelle istituzioni fondamentali per la formazione delle giovani generazioni, cioè di coloro che hanno in mano il futuro.

il Fatto 2.9.10
Affamati di lavoro
Senza cibo i precari della scuola
Da 15 giorni in sciopero della fame davanti a Montecitorio
di Caterina Perniconi

La cosa peggiore non è la fame, ma la notte”. Dormono in tre in una piccola tenda davanti a Montecitorio. Forse domani arriverà un camper dove potranno riposare meglio. I precari della scuola di Palermo che hanno dato il via a una forma di protesta estrema, che sta contagiando i loro colleghi in tutt’Italia, sono al 15esimo giorno di sciopero della fame.
Giacomo Russo, dopo il ricovero di ieri, è di nuovo in piazza. Ha il volto scavato, ma non demorde: “La mia residenza è questa per ora. Voglio avere delle risposte, sapere secondo loro come dovremmo campare tutti noi che abbiamo investito più di dieci anni nella scuola. Stiamo cercando di formare un coordinamento stabile di precari. Perché se precario significa ‘prima di’, il dopo non può non arrivare mai. Mi vergogno di essere contento di non avere ancora una famiglia da campare”. Cinque giorni fa a Giacomo Russo e Salvo Altadonna, si è aggiunta Caterina Altamore. Lei una famiglia ce l’ha eccome. Trentasette anni, precaria da 14, tre figli, viso da bambina incorniciato da lunghi capelli ricci. Lo scorso anno ha dovuto lasciare la famiglia in Sicilia, dove non avrebbe avuto un incarico annuale, per andare ad insegnare in una scuola primaria di Brescia. Lì, dove è stata inserita al fondo della graduatoria, ha preso comunque una cattedra sulle sponde del lago d’Iseo. Ha vissuto per un anno nella stanza di un residence, a 450 euro al mese, perché gli appartamenti in quella zona sono troppo cari per lei. “Ho deciso in viaggio, venendo a Roma, di fare lo sciopero della fame. Ho una patologia che me lo impedirebbe. Ma secondo il medico non dovrei nemmeno affaticarmi e stressarmi. E siccome è un anno che non faccio altro, allora tanto vale che la mia salute sia al servizio della scuola pubblica italiana”.
Trascorrono la giornata in piazza Montecitorio. La polizia passa continuamente, li osserva, li capisce. Transitano anche gli uomini della questura: “Siamo insegnanti, non siamo pericolosi” dicono i precari. “Forse siete pericolosi proprio perché siete insegnanti” rispondono loro. Hanno ragione. “Un popolo istruito e in grado di fare delle scelte spaventa – dicono i precari – noi siamo qui per avere delle risposte, non vogliamo aggredire nessuno, neanche il ministro, vogliamo solo dialogare. La Gelmini dice di aver fatto una buona riforma, ecco venisse a spiegarci dove lo è, siamo disposti ad ascoltarla”.
INTANTO OGNI giorno a piazza Montecitorio arrivano nuovi precari che portano la loro solidarietà, ma anche studenti e professori. Lasciano messaggi su un quaderno verde, il colore della speranza. E poi arrivano i politici. Tutta l’opposizione ha firmato un documento a sostegno dei precari dove s’impegna ad atti concreti per ridurre i tagli fatti con la 133. In calce i nomi di Antonio Di Pietro, Vincenzo Vita, Mario Barbi, Marco Rizzo, Cesare Salvi, Alba Sasso, Stefano Pedica e molti altri. “Lo vedete? C’è tutto il centrosinistra. É per questo che vorremmo vederli uniti a lottare per la nostra causa”.
NEL FRATTEMPO le procedure di assegnazione delle cattedre sono in ritardo, e 35 mila persone quest’anno non avranno un incarico, tra docenti e personale tecnico-amministrativo. “A una manciata di giorni dall’apertura delle scuole, migliaia di cattedre sono vuote e decine di migliaia di precari sono senza contratto – spiega Francesca Puglisi, responsabile Scuola del Partito democratico – mentre il governo pensa solo a leggi ‘ad personam’ e agli interessi del premier. Se la scuola pubblica è, come hanno immaginato i nostri padri costituenti, strumento di uguaglianza e libertà del nostro Paese, le forze democratiche che siedono in Parlamento, alla riapertura delle aule, concentrino la loro azione politica per salvarla dal massacro del governo”.
Lo stesso che chiedono i precari in piazza, disperati. Consapevoli però di aver aperto un processo a catena che sta coinvolgendo i loro colleghi in tutt’Italia. Da Pordenone a Benevento sono ormai decine i lavoratori della scuola che hanno deciso di rinunciare al cibo e alla salute in nome di un diritto, sotto lo slogan: “Affamati di cultura e di dignità”.

il Fatto 2.9.10
Se ci fosse il Pd
di Paolo Flores d’Arcais

Per un politico di professione che si collochi all’opposizione, mai periodo fu più promettente e facile. Si prenda l’ultima occasione, l’indecente show di abiezione morale (e servilismo affaristico) nei confronti di quel Gheddafi che i liberali occidentali hanno per decenni trattato da terrorista. A una opposizione democratica viene servita su un piatto d’argento la possibilità di scompaginare la maggioranza, moltiplicarne le contraddizioni, far precipitare i consensi tra i cittadini che pure la votarono: cattolici, atei, leghisti e chiunque serbi nell’animo un residuo di decenza. Scatenare in tutte queste direzioni la propria azione garantirebbe all’opposizione un successo immediato e travolgente. Se non fosse che l’amicizia indefettibile con Gheddafi fu fatta votare da D’Alema, con un vergognoso discorso a cui dissero “signorno!” solo tre parlamentari del Pd.
Oppure prendiamo i tre operai Fiom di Pomigliano, che vogliono solo lavorare, con la dignità garantita dalla Costituzione. Anche la più tiepida delle opposizioni avrebbe buon gioco a evidenziare come legalità e diritti sociali siano due facce della stessa medaglia, e a lanciare un’offensiva che contrapponga chi lavora per mille euro al mese e chi ne guadagna 400 volte di più (quattrocento) per fare strame della Costituzione e riportare le fabbriche italiane al livello della Cina comunista-liberista. Se non fosse che il Pd ha eletto in Parlamento proprio tanti piccolissimi Marchionne (che del resto aveva santificato), anziché dei riformisti “giustizia e libertà”.
Per non parlare dell’offensiva popolarissima che l’opposizione potrebbe condurre sulla sicurezza dei cittadini contro il “processo breve”, visto che regala a ogni tipo di delinquenza vagonate di impunità, e contro la legge bavaglio-intercettazioni (idem), se non fosse per i due anni di indulto e il progetto Mastella, munifici doni del centrosinistra alla criminalità.
Ma l’opposizione ha cose più importanti, su cui oltretutto litigare: se sia meglio imparare il francese o il tedesco.

Repubblica 2.9.10
Rossi contro gli "sbadigli" di Renzi "Se si piccona tutto non si vince"
Il sindaco di Firenze sappia che in politica un po´ di educazione non guasta. Poi certo il rinnovamento serve
di Giovanna Casadio

ROMA - «Con gli sbadigli certo non si vince», quindi Matteo Renzi, il sindaco pd di Firenze, avrebbe fatto meglio a mostrare «un po´ più di educazione che in politica non guasta, anche la sobrietà del linguaggio è importante». Enrico Rossi, il "governatore" della Toscana, ci tiene a togliersi questo sassolino dalla scarpa. Oggi il segretario Bersani (da Renzi inserito tra i dirigenti da «rottamare») approda a Firenze per inaugurare con Rossi la nuova sede regionale del partito. E anche il "governatore"- che dopo l´elezione in regione si sfogò contro «un Pd di fighetti» - ha un paio di cose da dirgli ma «costruttive, perché se si piccona tutto non resta nulla, si guadagna visibilità ma si rischia di mandare all´aria il partito».
Insomma presidente Rossi, per lei Renzi è uno dei "fighetti" del partito, per usare una sua definizione?
«No. Renzi è un dirigente politico che ha posto delle questioni al 70% sbagliate ma per il 30% dice cose giuste. Gli va data una risposta di merito».
Nel merito cosa gli va detto?
«Non si irride all´Ulivo. Mi meraviglio che il progetto ulivista così caro al mondo cattolico democratico, da cui lui viene, gli provochi noia. È invece l´unica risposta possibile per sbarrare la strada a Berlusconi, mettere insieme forze progressiste e distinguersi dalla sinistra estrema che non è interessata a governare ma a svolgere un ruolo di testimonianza».
Lei è pro Nuovo Ulivo?
«Non è che l´Ulivo garantisca di per sé la vittoria ma è la proposta che ha consentito di battere Berlusconi. Così si supera la autoreferenzialità e l´autosufficienza del Pd che ci ha portato alla sconfitta. Inoltre, è vero che ciò che si muove nello schieramento del centrodestra - Fini e in parte Casini - stanno in quella metà campo, ma sarebbe un errore sottovalutare l´importanza di quella crisi. Perciò l´opposizione deve incalzare una destra democratica, se esiste, per battere le derive populiste autoritarie e i processi brevi. E poi mai bisogna definire Berlusconi "il nonno", come ha fatto Renzi, perché i nonni per noi sono i padri della Costituzione».
Sostegno a Bersani senza sfumature, il suo?
«Bersani è stato eletto nove mesi fa segretario a stragrande maggioranza ed è il candidato premier. Rimetterlo in discussione non ci rende credibili. Se facciamo così finiremo col disgustare i nostri elettori. Comunque, in caso di primarie, se Renzi starà con Vendola e Chiamparino, io mi schiererò con Bersani».
Ma lei ha spesso insistito sul rinnovamento del partito?
«Il rinnovamento è indispensabile. È evidente che D´Alema e Veltroni rappresentano un´epoca finita e devono riservarsi un ruolo distante dalla lotta politica immediata e dare un contributo politico-culturale. Dopo di che, ciascuno ha avuto la sua storia. Anche Renzi ha avuto un riferimento politico ed è stato Francesco Rutelli, che ha lasciato il Pd. Bisogna rinnovarsi nei gruppi parlamentari, ad esempio, con gente nuova».
Su cosa va pungolato il segretario del Pd?
«La proposta politica democratica va subito sostanziata e deve riguardare la giustizia sociale, la riforma del fisco, la scuola e la sanità. Battiamo un colpo sulle cose concrete, usciamo dal politichese. Quando leggo che al centro del dibattito c´è la legge elettorale - problema importante e anche noi in Toscana cambieremo la nostra - penso che non è in questo modo che si combatte la delusione del nostro elettorato».

l’Unità 2.9.10
Lo show di Gheddafi e le domande da fare
Le sane risposte delle hostess proletarie hanno svelato le ragioni vere della parata. Ma ora l’opposizione dovrebbe incalzare il governo con quesiti precisi. Per esempio: chi ha pagato?
di Nadia Urbinati

Caro direttore, c’è qualcosa di sano, di straordinariamente sano nelle risposte delle hostess proletarie che hanno recitato la parte del pubblico nello show di Gheddafi nella Roma berlusconiana: la paga giornaliera è una cosa seria, le stupidaggini dei politici clown sono un pretesto. Sfogliando il Libro verde della rivoluzione libica ricevuto insieme al Corano come gadget della parata, una ragazza (che doveva premunirsi di restare anonima per non perdere il salario) ha cosí commentato, secondo le parole riportate dal giornalista di Repubblica: «Siamo qui per soldi, per noi è solo un lavoro». È un lavoro fare platea, anche perchè se non fosse per il compenso alle spettatrici, il nuovo profeta islamico non avrebbe avuto pubblico. Il pubblico lo si deve in qualche modo risarcire, e se non è la rappresentanzione che vale da risarcimento allora occorre pagare.
A preoccuparsi debbono essere i cittadini italiani, dobbiamo essere noi: poichè la politica nel nostro paese ha generato nuove professioni, agenzie che fanno affari con lo spettacolo politico e i suoi attori. Questo è grave, e le ragazze in fila per la “giornata” ce lo ricordano con limpida semplicità. E lo fanno con straordinario disincanto: poichè non sono lí per essere convertite, anche se al tiranno libico conviene essere visto in questa veste (ecco perchè la condizione per essere selezionate è stata il silenzio stampa!), ma per fingere di poter essere oggetto di conversione: le tre presunte convertite pare abbiamo ricevuto un extra. Tutto finto, come l’ottone quando viene esposto per ingannare chi lo guarda ed essere scambiato per oro. Sono loro, quelle ragazze, con il loro ragionare economico spiccio e diretto, con la loro curiosità un po’ troppo da Canale 5 che ce lo fanno capire bene. Ci fanno capire che la parata libica è stata un espediente per affari altri da quelli mostrati alle televisioni.
Ci fanno naturalmente porre la domanda che noi, come cittadini/e, dobbiamo e siamo legittimati a porre a chi ci governa: sul conto di chi è stato messo lo show per il leader libico? Insomma, chi ha pagato le hostess a giornata? E poi, quali sono esattamente gli affari succulenti che sono stati siglati con la scusa del circo poichè soltanto questo ha attirato l’attenzione dei media? Per il bene di chi si è messo in scena uno spettacolo del quale c’è da vergognarsi di fronte a tutte le nazioni del mondo, e soprattutto a quelle politicamente e culturalmente piu vicine a noi? Anche perchè è davvero imbarazzante vedere come Berlusconi sia l’unico nei paesi democratici a dirsi e comportarsi come amico dei dittatori e degli autocrati: di quello della Bieolorussia, della Russia e della Libia. A chi giova questa sua amicizia privata? Giova alla nostra nazione? Giova alla nostra economia e agli impegni politici che il nostro Stato ha solennemente preso per difendere i diritti umani e operare per promuoverli?
C’è dunque una ragione fondata per restare allibiti/e nel vedere che le ragazze italiane hanno messo nella lista delle possibili (e sempre più necessarie) attività saltuarie quella di apparire alle feste organizzate dalla politica di Stato. Quando
ero universitaria, le mie coetanee racimolavano qualche soldo facendo le stagiste nelle fiere (Bologna, città fieristica, era un buon mercato per molte). Per noi ragazze “impegnate” quella scelta era disdicevole, ma non dichiaravano ostracismo per quelle di noi che avevano bisogno di raccogliere qualche soldo e si mettevano la divisa di stagiste. Cosí oggi non dovremmo penalizzare quelle ragazze hostess del circo Gheddafi-Berlusconi. Però oggi, c’è di diverso e davvero gravissimo che i capi di Stato (per giunta quelli di un paese democratico) si sentano autorizzati a fare dello spazio pubblico una fiera, di aver bisogno di stagiste per offrire all’ospite di turno ciò che chiede. Oggi le ragazze da convertire al Corano, e domani? E com’è possibile che la Farnesina acconsenta di fare tanti strappi al protocollo delle cerimonie ufficiali?
Ciò che è diverso rispetto ai tempi andati è che la politica si faccia essa stessa fiera, che si faccia piazza per affari grandi e piccoli che i cittadini e le cittadine abbiano appreso che c’è un nuovo tipo di bracciantato, al quale si sottomettono senza nemmeno chiedersi per quali piani sono prestatori d’opera, al di là di quelli fasulli nei quali essi sono i primi a non credere. Di diverso c’è che queste agenzie assoldino e paghino (con il contributo di chi?) a patto che le ragazze non parlino con i giornalisti ma non era questa “fiera” libica un evento promosso sotto l’egida dello Stato? Com’è possibile che per poter fare un servizio che è a tutti gli effetti pubblico le ragazze siano state invitate a non parlare con il pubblico? È questo permanente privatismo dello spazio pubblico che disturba, inquieta e deve, giustamente, fare rabbrividire. Ed è grazie alle hostess alla giornata che vediamo meglio questo disgustoso spettacolo. Ma perchè l’opposizione non incalza con un’interpellanza parlamentare per porre queste domande al governo a nome nostro, di noi cittadini attoniti?

Repubblica 2.9.10
I barbari non ci leveranno la nostra profondità
di Eugenio Scalfari

La nostra è l´età degli imbarbariti che devastano il presente. Ma la profondità non è destinata a scomparire
"Rassegnati, caro Alessandro, siamo due moderni consapevoli. E descrivi una civiltà che ancora non esiste"

Mi ha molto intrigato l´articolo di Alessandro Baricco pubblicato da Repubblica il 26 agosto con il titolo "2026 - La vittoria dei barbari". Mi ha intrigato fin dalle prime righe: «Ci crediate o no, quest´articolo l´ho scritto nel luglio 2026, cioè tra sedici anni. Diciamo che mi sono portato un po´ avanti col lavoro. Prendetela così».
Baricco è un maestro di scrittura, ne conosce i trucchi e i modi per attirare il lettore e incatenarlo al testo e così ha fatto anche stavolta. Con me c´è riuscito.
Quattro anni fa scrisse una serie di articoli sul nostro giornale e ne trasse poi un libro che ebbe molto successo intitolandolo I barbari. Da allora questo tema è stato al centro del dibattito sull´epoca che stiamo vivendo e sulle caratteristiche che la distinguono.
Ne ho parlato anch´io nel mio ultimo libro Per l´alto mare aperto dove ho sostenuto la tesi che la modernità ha concluso il suo percorso culturale durato mezzo millennio ed ha aperto la strada ai nuovi barbari. Sarà compito loro porre le premesse dell´epoca nuova, del nuovo linguaggio artistico che le darà la sua impronta, dei nuovi significati che motiveranno le sue istituzioni.
I barbari in questa accezione non rappresentano necessariamente una fase oscura ma un´epoca diversa da quella che noi moderni abbiamo costruito e vissuto.
Fin qui Baricco ed io ci siamo mossi più o meno sullo stesso binario. Ma lui, nell´articolo che ho citato, va oltre. Sostiene che i moderni inventarono la profondità della conoscenza e vi collocarono il senso, mentre i barbari - tra i quali si colloca ed è per questo che data il suo articolo nel luglio del 2026 - hanno smantellato il concetto di profondità e l´hanno sostituito con quello di superficialità e lì hanno collocato il senso. Baricco non giudica affatto come negativa questa operazione culturale, anzi ne enumera tutte le positività e per quanto lo riguarda si pone tra quelli che l´hanno condotta a compimento.
Il passaggio dalla cultura della profondità a quella della superficialità lo descrive così: «Viaggiamo velocemente e fermandoci poco, ascoltiamo frammenti e non tutto, scriviamo nei telefoni, non ci sposiamo per sempre, guardiamo il cinema senza più entrare nei cinema, ascoltiamo letture in rete senza più leggere libri e tutto questo andare senza radici e senza peso genera tuttavia una vita che appare sensata e bella. La superficie è tutto e in essa è scritto il senso».
Sembra di leggere una delle lezioni americane di Italo Calvino, un messaggio al futuro millennio, le idee-guida che lo ispireranno. Calvino parlava di leggerezza, rapidità, esattezza, consistenza; Baricco parla di profondità e superficialità.
Forse Calvino coltivò illusioni; lui era immerso nella modernità, i suoi referenti erano ancora Voltaire e Diderot pur avendo egli portato molto più avanti la sua ricerca letteraria.
Baricco invece compie un´operazione concettuale in apparenza assai più radicale: mette la superficialità al posto della profondità come il nuovo canone di conoscenza e disloca il senso della vita collocandolo in superficie.
Esalta la bellezza del nomadismo: «Andare senza radici e senza peso». Avrebbe potuto aggiungere: senza responsabilità.
E´ questa la nuova epoca che i barbari stanno costruendo? Sarà già realtà nel 2026? Anzi è già realtà oggi, al punto che Baricco è in grado di descriverla?
* * *
Mi trovo in una curiosa condizione: in molte cose (l´ho già detto) concordo con Baricco ma nella sostanza no, non sono d´accordo con lui. Forse dipende dal fatto che ho quasi il doppio della sua età anche se sono curioso almeno quanto lui di conoscere il futuro e di reinterpretare il passato.
Tanto per cominciare, Baricco non è affatto un barbaro. Presume di esserlo ma non lo è e questo cambia molto il significato di ciò che dice.
I barbari, nella nostra comune definizione, sono coloro che parlano un linguaggio diverso dal nostro. Aggiungo: rifiutano di conoscere la nostra cultura di moderni. Non leggono libri, non leggono giornali, non ascoltano le nostre musiche. Vogliono ripartire da zero, contrariamente alle generazioni che li hanno preceduti e che pur contestando i valori dei padri ne avevano però appreso i contenuti e i significati.
Il passaggio da un´epoca ad un´altra è sempre avvenuto in questo modo; il solco che segna questo salto di civiltà ha sempre coinciso con la mancata trasmissione della memoria storica.
Dico che Baricco non è e non può essere un barbaro perché è intriso di memoria storica, conosce perfettamente quanto è accaduto, ha studiato i testi, ha ascoltato le musiche, ha addirittura messo in scena l´Iliade e Achille, usa a meraviglia ed anzi insegna il nostro linguaggio. Ha capito che i barbari sono arrivati, questo significa che sa leggere la realtà nel suo profondo.
Del resto tutta la sua analisi sulla sostituzione della superficialità alla profondità è tipicamente profonda, scava fino alla radice per poter affermare che si sta creando una vita senza radici.
Baricco è dunque un moderno che in quanto tale constata la fine della modernità. In questo concordo. Rassegnati, caro Alessandro, siamo due moderni consapevoli.
Tu elenchi le caratteristiche della nuova epoca e le riassumi con la parola e il concetto di superficie. In realtà non stai descrivendo la civiltà dei barbari che ancora non esiste. Ci vogliono molto più di trent´anni. Ricordi la scomparsa della civiltà greco-romana che durò quasi due secoli, da Teodosio fino al regno longobardo? Oggi il tempo corre più veloce ma trent´anni non bastano.
In realtà Baricco non sta descrivendo i barbari ma gli imbarbariti, che è cosa profondamente diversa. Gli imbarbariti parlano ancora il nostro linguaggio ma lo deturpano; usano ancora le nostre istituzioni ma le corrompono; non vogliono affatto preservare il pianeta dalla guerra, dal consumismo, dall´inquinamento e dalla povertà, ma al contrario vogliono affermare privilegi, consorterie, interessi lobbistici, poteri corporativi, dissipazione di risorse e diseguaglianze intollerabili.
I barbari, quelli che tu ed io vediamo come un´incombente realtà, sono ancora alla ricerca del futuro; gli imbarbariti stanno devastando il presente e contro di loro noi dobbiamo combattere per preservare il deposito dei valori che la modernità ha accumulato e dei quali l´epoca futura potrà usufruire quando avrà finalmente raggiunto la sua plenitudine e la sua autocoscienza.
* * *
Io non credo nella contrapposizione tra profondità e superficialità come una conquista e un avanzamento. Tanto meno credo che questa contrapposizione caratterizzerà il futuro e non lo credo perché c´è sempre stata in tutte le epoche.
Guarda, caro Alessandro, alla Grecia a te giustamente cara: lì nacque la tragedia e con essa il teatro cinque secoli prima di Cristo e lì otto secoli prima di Cristo era nata la poesia con Omero e ancora prima i miti e i misteri ma anche il gioco, la danza, i numeri, la geometria, la cura del corpo e la cura delle anime. Quella che tu chiami la profondità.
Ma essa conviveva con la superficialità così, con le emozioni, con la vita senza radici, con l´adorazione dei fenomeni, delle apparenze, con i mutamenti immediati di prospettiva, con un prisma conoscitivo continuamente cangiante.
E non è stato sempre così? Non è stato così nella Roma di Cicerone, di Ovidio, di Virgilio, di Seneca e infine di Boezio, mentre accanto ad essi il popolo delle taverne e delle suburre godeva dei giochi e della loro sanguinosa violenza?
Profondità e superficialità hanno sempre convissuto, quali che fossero le epoche e le latitudini, e sempre convivranno.
Tu poni - ed hai ragione di porla - la questione del senso e della sua dislocazione. E non credi nel senso ultimo. Neppure io credo nel senso ultimo, anche se ho grande rispetto per quanti ripongono nella trascendenza di un dio e nella vita futura ed eterna nell´oltremondo le loro speranze. Chi ha una fede mette in essa il suo riposo e il senso della sua vita. E non si avvede che il senso è altrove anche per lui.
Anche chi ha fede appoggia infatti la sua vita a quelli che io chiamo segmenti di senso, che ci vengono dalla vita pratica, dalla vita creativa, dalla socievolezza senza la quale non potremmo vivere.
Il senso della vita cioè non è altro che la vita stessa che si dipana momento dopo momento, che conserva memoria di quanto è avvenuto e progetta ad ogni istante il futuro.
Questo è ciò che avviene in ogni persona e in ogni angolo di mondo: segmenti di senso che l´"io" vive senza soluzione di continuità, attimi fuggitivi, tempo futuro che transita nel presente con la velocità della luce e sprofonda nel passato; e tempo ritrovato attraverso quella meravigliosa facoltà della memoria che la nostra mente possiede.
Caro amico, ti dedico queste riflessioni perché tu sei tra quelli che meglio si oppongono all´imbarbarimento che rischia di sovrastarci. Questa battaglia non riguarda i barbari che stanno ancora cercando se stessi. Questa battaglia riguarda noi e soltanto noi possiamo e dobbiamo combatterla.

Repubblica 2.9.10
Darwin e l'evoluzione della fantasia
di Paolo Legrenzi

Spesso quando le stesse cose ci vengono dette in modo pedagogico non ci interessano
Come individui abbiamo bisogno di avere fiducia in chi ne sa più di noi dell´esistenza
Siamo l´unica specie che ama narrare e ascoltare i racconti Anche quando non sono veri: soprattutto se non lo sono

Una cosa rende diversa la specie umana da tutti gli altri esseri viventi. Solo noi inventiamo storie e le prendiamo per buone. Provate a domandare alle persone quando, nel corso di una giornata, stanno bene. Le risposte prevalenti riguardano, in primis, lo stare con le persone amate e, poi, il lavoro e i successi professionali. Questa è la risposta ufficiale, quella che sentiamo di dover dare. In realtà quel che piace ai più è seguire storie alla TV. Per appurarlo basta interrogare le persone quando meno se lo aspettano.
Gli spettacoli televisivi riescono a trasformare tutto in storie, proprio tutto, persino le cose più noiose, come la politica o le crisi economiche. Le persone passano varie ore al giorno di fronte alla Tv (dalle quattro ore e 46 minuti dei calabresi fino alle tre ore e 18 minuti degli altoatesini, dati medi del 2007). Per lo più seguono storie, spesso condite di soldi o sesso, possibilmente in forme trasgressive. E tuttavia gli stessi argomenti, presentati sotto forma di educazione finanziaria o sessuale, cioè in chiave pedagogica, diventano subito noiosi. Le storie piacciono, il resto no.
Questi dati pongono un paradosso curioso. Se prendessimo sul serio la vulgata darwinista, basata sui vantaggi per chi si adatta meglio all´ambiente, dovremmo domandarci a che cosa serve tutto questo tempo e risorse mentali dedicati a prendere per buone storie inventate. Solo conoscenze vere ci mettono in grado di muoverci meglio nel mondo. Questo vale per l´adattamento agli ambienti naturali, se andiamo in montagna o trivelliamo pozzi di petrolio, ma anche a quelli sociali. Tant´è vero che in tutti i conflitti si ottiene un bel vantaggio quando si riesce a far credere all´avversario qualcosa che è falso. E tuttavia le storie "credibili" e appassionanti sono proprio quelle false, o meglio inventate con una miscela di realismo e fantasia. In breve, il di-vertimento è di-versione dalla realtà.
E allora, come la mettiamo con Darwin e il vantaggio evolutivo? La risposta ortodossa, e più nota, è quella dell´etologo inglese Richard Dawkins. Per Dawkins la sopravvivenza in gioco non è quella della specie, ma quella dell´individuo, o meglio del suo patrimonio genetico. A questo scopo è vantaggioso credere, nel senso di avere fiducia nei confronti di chi sa più di noi.
Quando un genitore ci dice di non andare a giocare sul fiume se il sole è alto nel cielo, noi gli crediamo. La fiducia acritica evita di correre il rischio di essere mangiati o mutilati dai coccodrilli in cerca di animali assetati. In questi casi, il dubbio nei confronti di chi sa di più non conduce a un personale apprendimento per prove ed errori, ma a perdere definitivamente un braccio o una gamba. Se poi quello stesso genitore mi insegna il rito della pioggia, tendo a credergli con quella stessa fiducia che mi ha salvato dai coccodrilli. E così la cultura finisce per trasmettere una miscela di vero, e adattivo, come nel caso dei coccodrilli, e di falso, e inutile, come i riti della pioggia e altre superstizioni. Talvolta ci trasmette anche qualcosa di falso e fuorviante, se non dannoso. Sui tempi lunghi, quest´ultimo tipo di credenze s´indebolisce. Basta esaminare, in epoca moderna, gli sviluppi di tutte le vicende in cui le varie chiese, religiose e pagane, hanno contrastato la scienza.
Insomma l´ortodossia vuole che il progresso delle scienze riduca lo spazio del falso, che sopravvive a stento presso ingenui o fanatici.
Una risposta diversa è fondata sul valore adattivo delle storie. Che cosa sono le storie, in fin dei conti? Sono dei mondi simulati, scenari inventati ad arte per "funzionare", cioè appassionare gli spettatori. Immedesimarsi in questa sorta di simulazioni fantastiche allena a quello che potrebbe succedere nella vita vera e allevia le sofferenze quotidiane. La nostra come una tra le tante vite possibili. Che cosa farei se fossi nei panni del protagonista di quella soap opera o di quel reality? Come risolverei i problemi del mio beniamino, personaggio dello spettacolo o dello sport? Questa è una spiegazione del fascino delle storie, in chiave preventiva e pedagogica, quindi adattiva.
Personalmente propenderei per un terzo tipo di risposta, che è una variante della seconda. E´ quella che ha dato su questo giornale (30.07.10) lo scrittore Nathan Englander, parlando della prima volta che lesse il Lamento di Portnoy di Philip Roth. Englander, non più religioso ma cultore della religione dei libri, dichiara che, leggendo da adolescente il romanzo, aveva avuto l´impressione che quella storia fosse stata scritta unicamente per lui. Ecco, noi crediamo alle storie in quanto universali, nel senso che sfruttano l´immutabile struttura umana delle emozioni, ma ci crediamo di più quando abbiamo l´impressione che parlino proprio a noi, non più spettatori, ma attori di quella storia.

Repubblica Firenze 2.9.10
L’ultimo taglio all´archeologia niente più controlli nelle aree
"Siamo come dei vigilantes senza pistola"
Stop ai sopralluoghi con la propria auto ma la soprintendenza ne ha una sola
"Niente notti fuori nè diaria. E spesso non ci rimborsano neanche il panino"
di Riccardo Bianchi

«È come se fossimo dei vigilantes, e il direttore della banca ci dicesse: "non vi do i soldi per la pistola". Bene, ma poi non può pretendere che noi gli proteggiamo il caveau». Fulvia Lo Schiavo non è una guardia giurata, ma la soprintendente ai beni archeologici della Toscana, il tesoro che protegge sono i musei e gli scavi sparsi per tutta la regione, e la pistola di cui parla le missioni con cui lei e i suoi funzionari vanno a controllare danni, scoperte, incidenti da Arezzo a Massa. Il governo le ha colpite di nuovo con la manovra economica, stavolta vietando i rimborsi per quelle effettuate con l´auto personale. L´unica soluzione, visto che ormai la Soprintendenza toscana ha una sola macchina per gli spostamenti della responsabile, dei 30 funzionari archeologi, degli assistenti tecnici e di tutto il personale. Ed è pure in leasing.
Con la Lo Schiavo altri 18 soprintendenti e 2 dirigenti archeologi hanno scritto una lettera comune al ministro per i beni culturali, Sandro Bondi. Il provvedimento tocca tutti i dicasteri, ma loro chiedono almeno una deroga. «Per noi la condizione è insostenibile», spiega la responsabile toscana, «Le auto blu non le abbiamo mai avute, avevamo solo mezzi di servizio. Dall´anno scorso non abbiamo più neanche quelle, non potevamo mantenerle, né comprarne di nuove. Ne abbiamo solo una, in leasing. Una Fiat Punto». Usarla per recarsi in contemporanea ai vari musei archeologici, al sito etrusco di Castelsecco, a Populonia, o dove è arrivata una segnalazione di un ritrovamento, è impossibile. «Perciò prendiamo la nostra auto e andiamo a verificare». I viaggi, per legge, sono già al risparmio. «Nessuna notte fuori, niente diaria, nessun bonus per l´usura della vettura se andiamo in montagna o sulle strade sterrate», spiega Lo Schiavo, «solo un rimborso chilometrico. Per il pranzo dobbiamo presentare una fattura dettagliata, riportando cosa mangiamo. Un economico panino, invece, non ci viene rimborsato, ma spesso è l´unica cosa che puoi addentare quando sei in un cantiere di scavo. A Roma non hanno sentito discorsi: devi andare al ristorante per forza».
La settimana scorsa è caduto un trattore dentro una tomba. Ovviamente è arrivata la segnalazione e un tecnico è dovuto andare a controllare. «Stava arando ed è scivolato in una cavità. Poi si è scoperto che non era naturale. Ma ora come faremo? Non mandiamo nessuno? Non faremo mai nuove scoperte. Oppure riduciamo la manutenzione e i siti da visitare a due o tre, i meglio tenuti? Non è una prospettiva gloriosa per un paese, e una regione, che vivono di turismo».
I rimborsi troppo alti per cui il governo ha motivato la decisione ci sono stati, ma per scelta dello stesso esecutivo. Lo Schiavo in passato ha retto ad interim due sedi, Toscana e Friuli: «Per spostarmi usavo il treno, in seconda classe, e non certo la mia auto». C´era il vitto, l´albergo, le spese. La cifra era alta. «Avevamo chiesto di dare la reggenza al funzionario anziano di Trieste, sarebbe costato meno. Ma il ministero ha rifiutato». Dopo le è stato tolto il Friuli e data la Sardegna.
Le difficoltà nella gestione della soprintendenza, comunque, non si fermano alle missioni "mutilate". I fondi scarseggiano su tutti i fronti. «Stendiamo un velo pietoso, se svuotiamo il sacco non ne usciamo più», conferma la Lo Schiavo: «Questo è un problema immediato, il più urgente. Per adesso concentriamoci su uno solo».

Repubblica Firenze 2.9.10
San Salvi
40 anni dei "Fogli" rivista di antipsichiatria
Paolo Tranchina e altri protagonisti della chiusura del manicomio celebrano la pubblicazione che fu in prima fila per la legge 180
di g.r.

Se, all´inizio degli anni Settanta, si sviluppò il movimento di Psichiatria Democratica, principale artefice di quel dibattito che portò all´approvazione della legge 180 e alla fine dei manicomi, è anche grazie ai Fogli d´informazione. La rivista- fondamentale nel panorama della psichiatria alternativa in Italia - nacque proprio in quel periodo dall´incontro tra Franco Basaglia, Agostino Pirella e la sua équipe di Gorizia, e il Collettivo di intervento nelle istituzioni, cresciuto all´interno del Centro di psicoterapia di Pier Francesco Galli. Alla Casa della cultura di Milano si svilupparono una serie di dibattiti con studenti, operatori, e intellettuali, che furono registrati e diffusi con un bollettino ciclostilato di cui uscirono 13 numeri.
Oggi i Fogli d´informazione compiono 40 anni. E i Chille de la Balanza hanno deciso di celebrare l´evento con una serata - un po´ incontro e un po´ festa - che si svolgerà dalle 21,15 a San Salvi (info 055/6236195): un modo per ripercorrere la straordinaria storia della pubblicazione con documenti, immagini e testimonianze di alcuni dei suoi protagonisti. Parteciperanno, coordinati dal fondatore della rivista e psicologo junghiano Paolo Tranchina, Cesare Buondioli, psichiatra, Sandro Ottanelli, infermiere e Maria Pia Teodori, psicologa. La rivista ha prodotto oltre 200 fascicoli - esemplare il primo, del dicembre 1970, che riporta l´intervista a uno psichiatra reduce da un´esperienza in Vietnam - e 35 libri alcuni dei quali, rarissimi, in mostra a San Salvi.
(g.r.)

Corriere della Sera 2.9.10
La lotteria dei test
di Beppe Severgnini

I test universitari sono un classico italiano: il proposito è lodevole, la buona volontà innegabile, il metodo sbagliato. Incapaci di soddisfare la domanda, ministri e rettori hanno deciso di ridurre l’offerta, adottando il numero chiuso. Un tempo i ragazzi italiani lottavano per entrare in aule affollate; oggi affrontano quiz esoterici. Sempre test d’ingresso sono. Siamo passati dallo stadio alla lotteria.
Si inizia oggi con medicina: 80 domande a risposta multipla, 8.775 posti a disposizione, circa 90 mila candidati, nessuna graduatoria nazionale. Poi tocca a odontoiatri, veterinari, architetti, professioni sanitarie, formazione primaria. In totale, 52.788 posti. Scienze della comunicazione, psicologia, scienze politiche e ingegneria adottano il numero programmato o prove di valutazione. Alcune università private stabiliscono il numero di posti disponibili.
Cosa non va, nel numero chiuso? Restiamo a medicina. Per cominciare, non tiene conto dei risultati delle superiori. Il motivo è noto: ci sono scuole italiane che i voti li assegnano, altre li regalano. L’università Bocconi di Milano, che prende in considerazione la media del terzo e quarto anno, è stata criticata: chi ha scelto un liceo severo, di fatto, viene penalizzato. Anche l’università americana valuta i candidati durante le superiori. Ma il meccanismo — basato sul Sat (Scholastic Assessment Test) — è nazionale, rodato (esordì nel 1901) e offre garanzie.
Seconda debolezza. I test non affiancano i colloqui attitudinali: li sostituiscono. Come accade in altri settori italiani — dagli appalti al fisco — la norma ingessata viene preferita alla discrezionalità ingestibile. L’esperienza, purtroppo, porta a credere che gli attuali docenti riuscirebbero a intrufolare figli e nipoti. Avere un Ordinario per papà, in Italia, è diverso dall’avere un papà ordinario.
Resta un fatto: ogni professione richiede predisposizione e passione — e con i quiz non si vedono. È fondamentale sapere come morì Gandhi, per chi desidera diventare oculista (attentato? avvelenamento? incidente aereo? infarto?). Tutti conosciamo bravi medici che a diciott’anni, a quella domanda, non avrebbero saputo rispondere (forse nemmeno ora: attentato di un fanatico indù, 1948). Un sistema che prevedesse accesso libero, e una barriera al secondo anno, potrebbe essere la soluzione. A patto di trovare strutture e personale per accogliere le matricole (docenti, aule, laboratori, dormitor i ) : ma dove s ono? I posti-letto in «case dello studente» in Italia sono il 2%, in Francia, Germania e Spagna tra il 25% e il 40%.
Terza debolezza: il sistema non è elastico. Non tiene conto delle necessità che cambiano. Trent’anni fa, forse, sfornavamo troppi medici; oggi, di sicuro, ne produciamo troppo pochi. Se le malattie respiratorie sono la terza causa di morte in Italia, perché a Pavia ci sono soltanto tre specializzandi in pneumologia, e altri cinque tra Milano e Brescia? Dieci anni fa erano quindici a Milano e una dozzina a Pavia. Risultato: importiamo medici stranieri. La Francia modula l’accesso a medicina secondo la demografia: una buona idea.
Tre debolezze e molta ansia. Questo è il cocktail che attende centinaia di migliaia di studenti nei prossimi giorni. Vogliamo dircelo, almeno tra noi adulti (i ragazzi stanno esercitandosi ai quiz, non ci staranno a sentire)? La Repubblica fondata sullo stage — quella che propone tirocini malpagati e lavoretti precari — ai suoi figli dovrebbe almeno offrire un’università serena, e una speranza vera.

Corriere della Sera 2.9.10
La vocazione da frate di Stevanin Quando i demoni si fanno angeli
Fece a pezzi sei prostitute, i francescani valutano la sua richiesta
di Paolo Di Stefano

Non c’è da stupirsi. Gianfranco Stevanin, il mostro di Terrazzo, il serial killer che fece a pezzi sei prostitute e le seppellì nel giardino di casa, è solo l’erede di una gloriosa tradizione. L’ultimo criminale convertito di una lunghissima serie nata secoli fa. È la svolta della vita, l’abbandono della vecchia strada per la nuova, un mutamento radicale che implica una vera scissione della personalità. Lo racconta bene lo storico Adriano Prosperi in un saggio del 2007. Per il Cristianesimo, la conversione è il miracolo della perfezione raggiunto da ladri, assassini, eretici, ribelli grazie a un doloroso conflitto interiore. Un capovolgimento dello spirito destinato a dividere a lungo il re — che condannava comunque (a morte) il corpo del criminale — e Dio che invece lo perdonava e ne salvava l’anima. Finché i due poteri, quello secolare e quello ecclesiastico, riuscirono a saldarsi facendo del condannato a morte (pentito e convertito con tanto di sacramenti) l’immagine esemplare di morte cristiana: colui che accetta il verdetto della giustizia terrena e insieme decide di lasciare il mondo devotamente. Al punto che il poeta Gioacchino Belli osservò con un certo sarcasmo che se morivi affogato avevi pochissime chances di finire in Paradiso, ma se venivi impiccato per un misfatto la salvezza eterna era assicurata.
Ora dunque, per la Chiesa, l’ex mostro ergastolano Gianfranco Stevanin, dopo 16 anni di carcere, si avvia a essere «perfetto». Da recluso, a Sulmona, ha salvato due volte un compagno dal suicidio dopo aver rischiato la vita per le aggressioni subite in cella e adesso, come ha rivelato il quotidiano «Libero», ha intrapreso un percorso spirituale per entrare nel terzo ordine di San Francesco che sta valutando l’autenticità della vocazione. È proprio san Francesco, forse con Paolo di Tarso (futuro San Paolo), il convertito più famoso della storia, preceduto da Sant’Agostino e seguito da una folla di personaggi illustri, da Manzoni a Tolstoj. Ma qui non si tratta di un semplice (si fa per dire) passaggio dall'ateismo alla fede.
Qui la faccenda è ancora più sconvolgente. E non c’è bisogno di tornare al Medioevo per trovare ravvedimenti analoghi. Come quello di Alessandro Serenelli, prima molestatore e poi assassino della dodicenne Maria Goretti, attirata in casa sua con la scusa di rammendare dei vestiti, colpita più volte con un punteruolo e morta il giorno dopo, 6 luglio 1902, nell’ospedale di Nettuno. Uscito di prigione nel ’29 grazie a un indulto, Serenelli lavorò come giardiniere e portinaio in un convento di padri Cappuccini, nelle Marche, e morì quasi novantenne lasciando un testamento in cui ringraziava la sua vittima divenuta Protettrice e la «carità serafica» dei francescani che lo accolsero. Del resto, la «remissione dei peccati» fu una delle prerogative di Gesù, e un paio di giorni fa la Curia di Catanzaro, esprimendo il suo «profondo sgomento» di fronte ai numerosi delitti perpetrati nel suo territorio, ricordava a futura memoria delinquenti che Pietro, a differenza di Giuda, avendo avuto fiducia nella misericordia divina, fu perdonato. Dunque, «vi è una salvezza: la conversione, per ricevere il perdono da Dio e dagli uomini e non finire disperati» (il che ha suscitato anche qualche polemica).
Concetto che doveva essere condiviso anche dal vescovo di Caserta, Raffaele Nogaro, quando, nel 2006, certificò la «chiara e profonda conversione» di Raffaele Cutolo, detto «Vangelo» non certo per la sua fede ma per la capacità di imporre ai suoi il proprio potere assoluto anche dal carcere. Eppure, il superboss della camorra, pluriomicida, otto ergastoli sul groppone, pur dicendosi redento al cospetto di Dio, precisò di non essere affatto pentito davanti agli uomini e di sentirsi perfettamente coerente con se stesso. Identico iter spirituale seguito dai due mafiosi che freddarono, tra gli altri, don Pino Puglisi. Forse fu il sorriso che il prete rivolse loro prima di essere ucciso a precipitarli nel rimorso, fatto sta che sia Salvatore Grignoli sia Gaspare Spatuzza, detto «’u tignusu», oltre a dichiararsi pentiti per la legge, da allora non riescono più a distrarsi dalla lettura della Bibbia, e anzi Spatuzza ha voluto guardare dentro se stesso fino a iscriversi alla facoltà di Teologia. Ma non è detto che si tratti di una svolta a 360 gradi: «Il 90 per cento dei mafiosi — ha rivelato Grignoli — dice di credere in Dio. Uno dei miei coimputati diceva sempre: in nome di Dio, prima che ci muovessimo per andare ad ammazzare qualcuno».
Non solo in Cosa nostra, ma anche tra gli ex terroristi si trovano diversi (qualcuno dice troppi) redenti del giorno dopo, folgorati sulla via di Damasco: vedi l’ex terrorista di prima Linea Roberto Maria Severini, ovvero Roberto il Pazzo, e Maurice Bignami, il capo militare dello stesso gruppo, che ultimamente ha raccontato a Rimini come quando e perché, grazie all’incontro con una suora, ha capito che «la vera rivoluzione è Cristo». Per non dire delle frotte di satanisti sanguinari diventati Angeli del Signore. Nel 1978 David Berkowitz fu condannato dalla corte di New York a sei ergastoli per omicidi plurimi, ma l’anno dopo l’esorcista Malachi Martin compì il miracolo facendogli confessare le sue colpe e liberandolo dal possesso del Diavolo, al punto che dopo la seduta David si dichiarò un «cristiano rinato». Un po’ come Andrea Volpe, la Bestia del Varesotto, tre volte omicida, nel quale un pastore evangelico, Leonardo De Chirico, due anni fa disse di «aver riscontrato un interesse crescente per la parola di Dio».

L’Osservatore Romano 2.9.10
Il genio femminile nella storia del popolo di Dio
di Joseph Ratzinger

Al genio femminile nella storia del popolo di Dio il Papa ha dedicato la catechesi all'udienza generale di mercoledì mattina, 1° settembre. Durante l'incontro con i fedeli, svoltosi nella piazza antistante il Palazzo Pontificio di Castel Gandolfo, Benedetto XVI ha presentato la figura di santa Ildegarda di Bingen. 

Cari fratelli e sorelle, 
nel 1988, in occasione dell'Anno Mariano, il Venerabile Giovanni Paolo II ha scritto una Lettera Apostolica intitolata Mulieris dignitatem, trattando del ruolo prezioso che le donne hanno svolto e svolgono nella vita della Chiesa.
"La Chiesa - vi si legge - ringrazia per tutte le manifestazioni del genio femminile apparse nel corso della storia, in mezzo a tutti i popoli e a tutte le nazioni; ringrazia per tutti i carismi che lo Spirito Santo elargisce alle donne nella storia del popolo di Dio, per tutte le vittorie che essa deve alla loro fede, speranza e carità; ringrazia per tutti i frutti di santità femminile" (n. 31). 
Anche in quei secoli della storia che noi abitualmente chiamiamo Medioevo, diverse figure femminili spiccano per la santità della vita e la ricchezza dell'insegnamento. Oggi vorrei iniziare a presentarvi una di esse: santa Ildegarda di Bingen, vissuta in Germania nel XII secolo. Nacque nel 1098 in Renania, a Bermersheim, nei pressi di Alzey, e morì nel 1179, all'età di 81 anni, nonostante la permanente fragilità della sua salute. Ildegarda apparteneva a una famiglia nobile e numerosa e, fin dalla nascita, venne votata dai suoi genitori al servizio di Dio. A otto anni, per ricevere un'adeguata formazione umana e cristiana, fu affidata alle cure della maestra Giuditta di Spanheim, che si era ritirata in clausura presso il monastero benedettino di san Disibodo. Si andò formando un piccolo monastero femminile di clausura, che seguiva la Regola di san Benedetto. Ildegarda ricevette il velo dal Vescovo Ottone di Bamberga e, nel 1136, alla morte di madre Giuditta, divenuta Superiora della comunità, le consorelle la chiamarono a succederle. Svolse questo compito mettendo a frutto le sue doti di donna colta, spiritualmente elevata e capace di affrontare con competenza gli aspetti organizzativi della vita claustrale. Qualche anno dopo, anche a motivo del numero crescente di giovani donne che bussavano alle porte del monastero, Ildegarda fondò un'altra comunità a Bingen, intitolata a san Ruperto, dove trascorse il resto della vita.
Lo stile con cui esercitava il ministero dell'autorità è esemplare per ogni comunità religiosa: esso suscitava una santa emulazione nella pratica del bene, tanto che, come risulta da testimonianze del tempo, la madre e le figlie gareggiavano nello stimarsi e nel servirsi a vicenda. 
Già negli anni in cui era superiora del monastero di san Disibodo, Ildegarda aveva iniziato a dettare le visioni mistiche, che riceveva da tempo, al suo consigliere spirituale, il monaco Volmar, e alla sua segretaria, una consorella a cui era molto affezionata, Richardis di Strade.Come sempre accade nella vita dei veri mistici, anche Ildegarda volle sottomettersi all'autorità di persone sapienti per discernere l'origine delle sue visioni, temendo che esse fossero frutto di illusioni e che non venissero da Dio. Si rivolse perciò alla persona che ai suoi tempi godeva della massima stima nella Chiesa: san Bernardo di Chiaravalle, del quale ho già parlato in alcune Catechesi. Questi tranquillizzò e incoraggiò Ildegarda. Ma nel 1147 ella ricevette un'altra approvazione importantissima. Il Papa Eugenio iii, che presiedeva un sinodo a Treviri, lesse un testo dettato da Ildegarda, presentatogli dall'Arcivescovo Enrico di Magonza. Il Papa autorizzò la mistica a scrivere le sue visioni e a parlare in pubblico. Da quel momento il prestigio spirituale di Ildegarda crebbe sempre di più, tanto che i contemporanei le attribuirono il titolo di "profetessa teutonica". È questo, cari amici, il sigillo di un'esperienza autentica dello Spirito Santo, sorgente di ogni carisma: la persona depositaria di doni soprannaturali non se ne vanta mai, non li ostenta e, soprattutto, mostra totale obbedienza all'autorità ecclesiale. Ogni dono distribuito dallo Spirito Santo, infatti, è destinato all'edificazione della Chiesa, e la Chiesa, attraverso i suoi Pastori, ne riconosce l'autenticità. 
Parlerò ancora una volta il prossimo mercoledì su questa grande donna "profetessa", che parla con grande attualità anche oggi a noi, con la sua coraggiosa capacità di discernere i segni dei tempi, con il suo amore per il creato, la sua medicina, la sua poesia, la sua musica, che oggi viene ricostruita, il suo amore per Cristo e per la Sua Chiesa, sofferente anche in quel tempo, ferita anche in quel tempo dai peccati dei preti e dei laici, e tanto più amata come corpo di Cristo. Così santa Ildegarda parla a noi; ne parleremo ancora il prossimo mercoledì. Grazie per la vostra attenzione.

mercoledì 1 settembre 2010

Agi 30.8.10
Austerità: Ventura, posizione Lombardi diversa da Berlinguer
AGI Roma, 30 ago. - La posizione di Riccardo Lombardi non puo' essere assimilata, come fa Eugenio Scalfari il fondatore di Repubblica, a quella di Enrico Berlinguer, ne' tano meno a quella del ministro dell'economia, Giulio Tremonti. L'idea di Lombardi di una societa' piu' ricca perche' diversamente ricca non ha nulla a che vedere con i sacrifici alle classi povere della societa' e tanto meno con la concezione cristiana della vita a cui si rifanno Trentonti e Comunione e Liberazione. Lo afferma l'economista dell'Universita' di Firenze, Facolta' di Scienze Politiche, Andrea Ventura, riferendosi a quanto scritto e sostenuto da Scalfari "nel Pci a favore d'una politica di austerita' si schiero' Giorgio Amendola, nel sindacato Luciano Lama, negli altri partiti Ugo La Malfa, Riccardo Lombardi, Antonio Giolitti, Gino Giugni e Giorgio Ruffolo, Bruno Visentini. Nella Dc, Ezio Vanoni e Pasquale Saraceno. Insomma la sinistra di governo e la sinistra di opposizione. Il richiamo di Tremonti e' stato dunque molto opportuno: la sinistra, quella sinistra, aveva capito in anticipo i tempi e le crisi che si addensavano e ne vide le conseguenze sulla societa' italiana". Tanto Lombardi quanto Giolitti tra l'altro parlavano non di 'austerita'', semmai di 'sobrieta''. E ancora nel 1977 cosi' l'Ingegnere 'acomunista' si esprimeva con un intervento sul Manifesto. "Essa (l'austerita') deve essere determinata, collocata nel contesto delle crescenti tensioni politiche che accompagneranno il governo delle sinistre ed esplicitata nel senso che essa corrisponda ad una riduzione delle 'attuali' soddisfazioni, ma non una riduzione in generale delle soddisfazioni. Rispetto ai ceti medi e' inevitabile, e deve essere gia' dichiarata, una riduzione delle attuali soddisfazioni (redditi, doppia casa etc), ma ci deve essere una soddisfazione compensativa che nasce dalla tensione e dalla partecipazione al mutamento sociale e politico". Il superamento del modello capitalistico mediante 'le riforme di struttura' fu il l'idea forte di Lombardi che sollecitava un programma comune delle sinistre. "C'e' una forte e marcata differenza tra la concezione religiosa che rimanda alla rinuncia di una vita veramente vissuta e l'aspirazione di Lombardi ad una societa' non povera ma ricca, perche' diversamente ricca: proposta questa - spiega Ventura - che sollecita, apre una ricerca sull'identita' umana oltre ma non senza il benessere economico e quindi il soddisfacimento dei bisogni fondamentali a partire dal lavoro e da un salario dignitoso". Insomma, due concezioni ed obiettivi politici diversi. "Il primo - conclude Ventura - e' pienamente compatibile con la logica del capitalismo e la massimizzazione dei profitti, il secondo, quello di Lombardi, no". Tant'e' che tra gli elementi di 'rottura' per avviare le riforme di strutture, Lombardi inseriva accanto alla riduzione dell'orario di lavoro, all'autogestione, "la ristrutturazione dell'industria dalla produzione di beni a forte profitto a quella di beni a forte utilita' e che pertanto siano durevoli…. cioe' che durino a lungo".Pat

l’Unità 1.9.10
Ai margini dell’Europa
Se si uccide la scuola pubblica
Sofia Toselli presidente nazionale del CIDI

Si riapre un nuovo anno scolastico all’insegna dell’incertezza e del disorientamento. La scuola superiore in particolare è nel caos più totale. Tagli di organico, di materie, di ore di lezione. Persino nelle classi già avviate si cambia in corsa. Mentre l’assenza di un organico funzionale, classi più numerose, la mancanza di risorse, il ritorno ad un lavoro individualista e autoritario, l’introduzione di indicazioni nazionali povere culturalmente con obiettivi di apprendimento impraticabili, disegnano uno scenario particolarmente pesante: aumenteranno disagio, demotivazione, dispersione; si allontaneranno gli obiettivi di Lisbona; non miglioreranno gli esiti delle prove Ocse-Pisa. Oggi ci troviamo di fronte a un processo di ridefinizione del ruolo della scuola pubblica, espropriata della sua funzione costituzionale: quella di creare inclusione, di rimuovere i condizionamenti sociali, gli ostacoli all’uguaglianza. Anzi, le disuguaglianze di partenza sono diventate il criterio con cui viene ripensato il nuovo modello scolastico. Sembrerebbe che, attraverso la scuola, si stiano creando le condizioni perché i più deboli siano messi ai margini della società in modo definitivo e irreversibile.
Altro che scuola del merito e della qualità. Non sfugge infatti a chi si occupa seriamente di insegnamento-apprendimento che i fattori presupposto di una scuola di qualità siano: l’intenzionalità democratica, e dunque parliamo di una scuola che agisce per includere e non per selezionare, con tutti gli strumenti e i percorsi possibili per garantire a ogni allievo cittadinanza piena; l’interazione di tipo cooperativo, che si esprime attraverso un rapporto di collaborazione tra adulti (team docente) e classe, per stimolare l’interesse reciproco e la collaborazione, per valorizzare le diversità, per costruire il rispetto delle regole e la solidarietà; la scelta di contenuti significativi per produrre conoscenza e indurre processi mentali e comportamenti maturi (cioè un grado di cultura e di consapevolezza di sé e del mondo che faccia di ogni singolo ragazzo un cittadino dotato di criticità e responsabilità). Non meno importanti sono le condizioni materiali in cui l’azione educativa si esercita.
In primis, il rapporto numerico tra allievi e docenti, il tempo scuola, l’organizzazione scolastica, i laboratori, il materiale didattico, ecc. La scuola che oggi si sta imponendo a colpi di decreti va in senso contrario al merito e alla qualità: una scuola classista, che ripropone selezione, esclusione, canalizzazione precoce.
Per questa strada siamo destinati a diventare fanalino di coda dell’Europa e del mondo, con grave danno per la cultura, l’economia la democrazia dell’intero Paese.

l’Unità 1.9.10
La protesta dei precari è iniziata a Palermo e si è trasferita a Roma. Uno di loro è finito in ospedale
Ma altri si stanno aggiungendo in tutta Italia. Il sostegno dei parlamentari di opposizione
L’ultima spiaggia dei prof: lo sciopero della fame
A Benevento come a Salerno. A Pordenone come a Milano. Il digiuno monta tra i precari della scuola. La protesta si sta diffondando come un contagio in tutta Italia. La riforma Gelmini ha messo in ginocchio la Scuola.
di Mariagrazia Gerina

Sono saliti sui tetti. Sono scesi in piazza, con studenti e genitori. Si sono incatenati. Adesso, la nuova frontiera della scuola, alle prese con la perdita di decine di migliaia di posti di lavoro, è lo sciopero della fame. I primi a varcarla sono stati tre insegnanti palermitani. Ma la protesta a colpi di digiuno si sta diffondendo come un contagio in tutta Italia tra i precari della scuola che
si preparano a un anno di disoccupazione annunciata. A Benevento, dove gli insegnanti hanno occupato un asilo abbandonato. E due di loro, Daniela Basile e Monica Sateriale, sono già al settimo giorno di sciopero della fame. A Pordenone. A Salerno, dove i precari, insegnanti e non, stanno organizzando i pullman per andare a contestare oggi il ministro in visita ad Ariano Irpino. Il 14 settembre, proveranno a riconsegnare in massa al presidente della Repubblica, in visita a Salerno, le loro tessere elettorali, in segno di protesta. «Non ci importa di votare se lo stato non si accorge di noi». E poi lo sciopero della fame: «A staffetta per coinvolgere tutti». Come a Milano, dove i precari di vari coordinamenti si sono dati appuntamento davanti al Provveditorato per questa mattina. Ce ne sono già cinque pronti a iniziare il digiuno. Un tam tam che si moltiplica proprio nel giorno in cui uno dei pionieri palermitani, Giacomo Russo, 31 anni, al suo quattordicesimo giorno di digiuno, ieri, ha mostrato i primi segni di cedimento. Un calo di pressione, che lo ha colto durante il presidio, che va avanti ad oltranza davanti a Montecitorio.
RIDATECI IL LAVORO E LA SCUOLA
Mentre al Santo Spirito cercano di reidratarlo con le flebo, lo spreco e la rabbia che sta montando in tutta Italia, li racconta Caterina Altamore, 37 anni, palermitana anche lei, al quinto giorno di digiuno e di presidio davanti a Montecitorio: «Ho studiato, credo nel mio lavoro e nella scuola pubblica, quattordici anni fa, quando ho ricevuto il mio primo incarico, in una scuola elementare del Capo,
quartiere difficile di Palermo, mi sono detta “finalmente faccio la maestra” e poi “vedrai, fatica qualche anno ti assumeranno”, ecco, adesso, 14 anni dopo, lo Stato non mi può dire “non mi servi più”», Caterina non è una che si arrende, Il lavoro non c’è, Ma lei si aggrappa a quello che resta. Lo scorso anno ha fatto le valigie e se ne è andata a prendere supplenza a Brescia, lasciando a Palermo, il marito e i tre figli. E farà così anche quest’anno. Destinazione, Palazzolo sull’Oglio. «In Sicilia mi offrivano solo con il salvaprecari di stare a casa a fare la casalinga in attesa di una chiamata che non verrà, ma io non voglio l’elemosina, voglio la scuola per cui abbiamo lottato, non quella che è costretta a rinunciare a tutto, al tempo pieno, alle ore di insegnamento e anche alla carta igienica. In Sicilia come a Brescia». Montecitorio è deserta. Solo i parlamentari di opposizione fanno la spola tra il presidio e l’ospedale dove è ricoverato Giacomo, che, nel pomeriggio si fa dimettere per tornare a protestare: «Nessuno vuole passare per protagonista ma se ci mettiamo tutti insieme il paese reale siamo noi». Arriva Ignazio Marino. Arrivano Francesca Puglisi e Vincenzo Vita. Iparlamentari del Pd sono pronti a iniziare lo sciopero della fame a staffetta. Anche Di Pietro porta il sostegno dell’Idv. Come gli altri firma la pergamena dei precari. Contiene l’impegno a battersi per due cose. La restituzione di 8 miliardi di tagli decisi con la legge 133. E l’assunzione dei precari già in graduatoria. «Siamo di fronte al più grande licenziamento di massa della storia italiana, la scuola sarà al primo posto del nostro porta a porta», dà voce alla protesta Bersani dalla Festa del Pd. I precari della scuola sono arrivati anche lì. Solo la Gelmini non si accorge di loro. È lei che Giacomo e Caterina chiedono di incontrare in un confronto pubblico sulla riforma e sulla scuola. «Basta autoritarismo. il ministro li ascolti», rilancia il loro appello anche la Cgil: «Il governo non può mostrare solo disprezzo e disinteresse».

il Fatto 1.9.10
I precari della scuola all’opposizione: unitevi per noi
di Caterina Perniconi

“Se non siete uniti non ci aiutate”. Una richiesta disperata all’opposizione è quella partita ieri dai precari che protestano davanti a Montecitorio con lo sciopero della fame. “Avete firmato tutti il documento a nostro favore, dai Comunisti italiani all’Udc, allora si può sapere come mai sulle cose importanti, su cui siete tutti d’accordo, non vi mettete insieme? A noi servite tutti, la maggiore opposizione possibile”. Seduto davanti a loro c’è il leader dell’Idv Antonio Di Pietro. Cerca di spiegare che lui si opporrà con tutti i mezzi ai tagli indiscriminati alla scuola fatti dal governo Berlusconi. Ma a loro non basta. Chiedono di più: “Se non si realizza un fronte comune, non otterremo risultati”. Gli scioperi della fame contro i tagli che quest’anno lasceranno a casa circa 20 mila docenti e personale tecnico-amministrativo continuano in tutta Italia. Ieri Giacomo Russo, uno dei precari palermitani che animano il presidio romano è stato ricoverato all’ospedale Santo Spirito di Roma a causa del grave stato di disidratazione riscontrato dal medico in visita alla tenda. “Ho trovato Giacomo Russo gravemente disidratato – ha dichiarato il deputato del Pd Ignazio Marino dopo una visita in ospedale – ma fortemente motivato a non desistere. É inaccettabile che questo governo volti la testa dall’altra parte di fronte a chi ha nelle sue mani la formazione dei nostri figli e chiede solo lavoro e dignità”.
NIENTE CIBO anche per cinque precari lombardi che protestano contro il taglio di 3 mila cattedre, di cui 1.200 a Milano. Stessa situazione a Benevento, dove la figlia di una precaria della scuola, che sta proseguendo lo sciopero della fame da sei giorni, ha preso carta e penna per raccontare la sua disperazione: “Mia madre – scrive Gaia Russo – sta rischiando per voi, perchè toccherà anche agli altri impieghi di lavoro, e i tagli non ci saranno solo sulla scuola. Una lettera di una ragazzina non credo farà molto notizia, ma per me conta, perchè io lascio mia madre a dormire in una tenda ogni notte, e mi sento impotente. Vedo la sua fiamma ancora viva dentro di se, leggo la sua determinazione negli occhi, ma la stanchezza sta prendendo il comando e nessuno si interessa di lei, viene trattata come una criminale”. Perché ci sono figlie e figlie. Quella di Mariastella Gelmini, nata il 10 aprile scorso “immagino che avrà una lavagna interattiva multimediale. Il grembiule. L’e-book. Un maestro unico preparatissimo” dice la mamma ministro. Parlando probabilmente di una scuola privata costosissima. Perché negli istituti italiani mancano i soldi anche per la carta igienica, figuriamoci per l’e-book.
“NON SI PUÒ rischiare la vita per questo governo – ha dichiarato la responsabile Scuola del Pd, Francesca Puglisi – siamo disponibili a iniziare uno sciopero a staffetta con i nostri parlamentari e amministratori a sostegno della battaglia dei precari per una scuola pubblica di qualità. Chiediamo che il governo ritiri i tagli della legge 133 e assuma gli insegnanti che servono per coprire le cattedre vacanti, per dare le risposte di sostegno ai bambini con disabilità e per garantire il tempo pieno. I precari della scuola scioperano non solo per difendere il proprio posto di lavoro, ma per salvare la scuola che è un baluardo per la difesa della democrazia nel nostro Paese”.

Corriere della Sera 1.9.10
Il potere di chi vota
di Giovanni Sartori

Che la legge elettorale in vigore sia una «porcata» è stato detto proprio dal suo estensore, il ministro Calderoli. È lui che mi ha dato l’idea di battezzarlo Porcellum. Ed è una porcata nel senso che è una legge elettorale truffaldina: tale perché assegna un premio di maggioranza alla maggiore minoranza . Per esempio, se Berlusconi conseguisse alle prossime elezioni il 30 per cento del voti, e se nessun altro partito o coalizione arrivasse a tanto (al 30 per cento), Berlusconi otterrebbe alla Camera il 55 per cento dei seggi.
Ora, un premio di maggioranza è lecito se rafforza chi consegue la maggioranza assoluta dei voti (il 50 o più per cento); ma non se trasforma una minoranza elettorale in una maggioranza di governo. Su questo punto credo che anche i fautori del sistema maggioritario «secco » ( all’ inglese ) siano d’accordo. Eppure anche quel sistema trasforma spesso e volentieri, per esempio, un 40 per cento dei voti in una maggioranza di seggi in Parlamento. In questo caso non c’è, beninteso , un pr e mio di maggioranza; ma è il meccanismo del «primo che piglia tutto» dei sistemi uninominali che opera, di fatto, come un premio. Questa stortura viene invece eliminata dal sistema maggioritario a doppio turno. Non riesco pertanto a capire come mai i nostri fautori del maggioritario si ostinino a sostenere il sistema inglese invece del maggioritario a doppio turno del sistema francese. Il primo è distorcente, il secondo non lo è. E allora?
Le radici di questa ostinata anglofilia risiedono, credo, nell’errata persuasione che solo il maggioritario secco porti alla creazione di un sistema bipartitico. Ma questa persuasione è sicuramente sbagliata e ampiamente smentita dai fatti.
Già negli anni Sessanta correggevo le «leggi» di Duverger sull’influenza dei sistemi elettorali asserendo, sul punto, che i sistemi maggioritari a un turno «proteggono un sistema bipartitico che c’è, ma non trasformano in bi partitico un sistema multipartitico». La nostra esperienza con il Mattarell um, la l egge elettorale per tre quarti maggioritaria che ha preceduto il Porcellum, ha abbondantemente confermato la mia tesi. Con il sistema proporzionale della prima Repubblica i partiti rilevanti sono stati 5-6; con il successivo Mattarellum si sono triplicati. Perché?
La ragione di questa frantumazione l’ho spiegata (invano) non so quante volte. È che nei collegi uninominali i partitini acquistano un potere di ricatto che altrimenti non hanno. Sanno di non poter vincere, ma nei collegi «insicuri» dove lo scarto tra i maggiori partiti è piccolo, sanno che il loro voto è decisivo. Nasce così il sistema delle « desistenze » : ionon mi presento, mettiamo, in dieci collegi e tu, in contraccambio, mi assicuri un collegio ogni dieci. La frantumazione del nostro sistema partitico nasce così.
Sì, ripudiare il Porcellum è essenziale e doveroso. Ma tornare al maggioritario secco è tornare a una esperienza fallimentare. Ecco perché non posso firmare l’appello promosso dal professor Pietro Ichino. Ma sarei prontissimo a sottoscrivere un suo appello per un sistema elettorale maggioritario a doppio turno.

Corriere della Sera 1.9.10
Bersani: «Creare una maggioranza per cambiare legge elettorale»
«Il Pd non è diviso. L’Udc? Puт avere un posto al governo»
di Alessandro Trocino

TORINO — «Oh ragazzi, rimettiamoci a combattere che sennò quelli riprendono a chiamarci il partito delle banche e le cose non girano. Siamo un grande partito popolare». Pier Luigi Bersani sprona la platea di Torino. Nella sala piena ci sono un migliaio di persone e alcuni dirigenti, tra i quali Piero Fassino, Filippo Penati e Luciano Violante. Il segretario vuole uscire dalle secche di un dibattito, quello sulla legge elettorale, che rischia di riprodurre l’eterno dualismo Veltroni-D’Alema. Nessuna divisione, rassicura: «Sono chiacchiere. Mi si dia una maggioranza disposta a cambiare questa legge, che poi la legge nuova si fa». Calderoli lo esclude: «Mica le ha azzeccate tutte — replica —, ha fatto una legge e poi l’ha chiamata porcata». Quanto al processo breve, il grimaldello su cui puntano i democratici per far cadere il governo, Bersani non sembra ottimista: chiede «coerenza» ai finiani e spiega che «per Berlusconi rimuovere la norma transitoria» (quella che estende la legge ai processi in corso) «sarà sempre più difficile».
Nella sala Bobbio, il segretario del Pd si confronta con John Podesta, già collaboratore di Bill Clinton, e con Felipe González, premier spagnolo per 14 anni. Compagnia che piace molto a Bersani: «Ogni tanto mi chiedono della collocazione internazionale del Pd: eccola qui, precisa».
Ma la politica interna incombe. Corradino Mineo chiede della Lega, avanti nei sondaggi: «Sta vicino al vecchio zio per portargli via l’eredità. E non vuole neanche badanti. Ma i leghisti non possono dire Roma ladrona e stare con quei quattro ladroni di Roma». Quanto a essere popolare, Bersani non accetta lezioni da nessuno: «Io lo so quanto deve costare uno spiedino per non rimetterci. Che lo chiedano a Berlusconi i leghisti, quanto deve costare». In sala, Penati dice la sua sulla legge elettorale: «Io sono per l’uninominale, ma ci vuole un po’ di realpolitik. Va bene anche il proporzionale, se mantiene il bipolarismo». E i finiani? «È inutile aver fatto il Vietnam se poi votano il processo breve».
Finito il dibattito, in sala irrompe un gruppo di insegnanti precari. Bersani concede palco e microfono. I precari ricordano che sono state lasciate a casa 78 mila persone, «tre volte Mirafiori», e chiedono che il Pd si impegni a cancellare la legge Gelmini. Bersani giura solennemente e ribadisce quanto detto durante il dibattito: «Quello della scuola è stato il più grande licenziamento di massa della storia». Non va meglio neanche negli altri settori del mondo del lavoro: «Ci sono dati di disoccupazione da Maghreb».
Non resta che sognare un nuovo governo. E in quel caso, annuncia Bersani in un’intervista al sussidiar i o . net , « èassol ut a mente plausibile che l’Udc abbia un posto ravvicinato anche in sede di governo».

Corriere della Sera 1.9.10
Uninominale, i radicali creano un’associazione
Arrivano nuove adesioni traversali per il ripristino dei collegi
di L. Fu.

ROMA — I radicali annunciano la creazione di un’associazione a sostegno dell’appello per l’uninominale pubblicato dal Corriere e presentano il sito ( www.uninominale.it) dove raccogliere le sottoscrizioni per il ripristino dei collegi. «È nostra convinzione — affermano Emma Bonino , Marco Cappato Mario Staderini e Elisabetta Zamparutti — c he uno deglio biettivi diogni riforma elettorale sia quello di restituire ai cittadini elettori la libertà di scegliere il proprio rappresentante nelle assemblee legislative a ogni livello». Ecco perché, aggiungono, «il sistema uninominale maggioritario che consente di collegare una persona in modo diretto e preciso a una determinata e circoscritta area geografica è lo strumento più adatto per responsabilizzare i rappresentanti istituzionali alla tutela dell’ambiente del quale dovrebbero essere espressione».
La nota dei radicali entra nel dibattuto attorno alle ipotesi di nuovi sistemi di voto. E le idee in proposito sono le più disparate. Se da un lato invoca il ritorno all’uninominale l’appello pubblicato dal Corriere — giungono nuove adesioni bipartisan: l’economista Fiorella Kostoris, Innocenzo Cipolletta, i senatori Fistarol, Menardi, Tomaselli, e deputati nazionali Barbareschi, Mogherini, Melandri, il parlamentare europeo Tatarella e il governatore della Basilicata De Filippo (Pd) — dall’altro c’è chi prende in considerazione altri meccanismi.
Francesco Rutelli, che guida Alleanza per l’Italia, sostiene che «tutto è meglio del Porcellum». Quella in vigore, a suo giudizio, «è una legge con un premio di maggioranza che crea coalizioni incoerenti». Rutelli, contrario a riesumare il vecchio Mattarellum, auspica invece «un sistema con pochi partiti, al massimo cinque o sei, omogenei e coerenti tra di loro: noi abbiamo presentato una proposta precisa per il modello tedesco con collegi uninominali». Il dipietrista Massimo Donadi non precisa quale sia la sua preferenza ma osserva che «Pdl e Lega difendono la casta. La loro difesa a oltranza della legge porcata ha l’obiettivo di conservare il potere di nomina dei parlamentari nelle mani delle segreterie dei partiti. Così è più facile far entrare in Parlamento corrotti e corruttori, inquisiti e condannati, affaristi delle cricche e amici degli amici». Insomma, per lui «questa legge truffa va cambiata e va restituito il potere di scelta ai cittadini. In Parlamento devono sedere gli eletti, non più i nominati».
In questo contesto un altro esponente dell’Alleanza per l’Italia, Pino Pisicchio, avanza una proposta del tutto differente. «Prima ancora della riforma elettorale o in parallelo ad essa — spiega il vicepresidente della Giunta per le elezioni della Camera — perché non si costruisce, insieme, maggioranza e opposizione, una riforma delle leggi sulle incompatibilità parlamentari, togliendo ogni margine di ambiguità e di interpretazione all’attuale normativa? In fondo si tratterebbe soltanto di restituire al legislatore il suo ruolo pieno e libero, come vuole la Costituzione».

Corriere della Sera 1.9.10
Anatema da Teheran: Carla Bruni deve morire
Dopo gli insulti per l’appello a favore di Sakineh. Protesta francese: inaccettabile
di A. Ni.

PARIGI — La Francia reagisce, il governo iraniano abbozza, ma l'ultraconservatore quotidiano Kayhan insiste. Carla Bruni, scriveva di nuovo ieri il giornale iraniano, non solo è la «prostituta italiana» che ha rovinato il matrimonio del presidente francese Nicolas Sarkozy, ma «vista la sua promiscuità sessuale, meriterebbe pure la condanna a morte per lapidazione».
Pagina due. Il titolo è: «L'attacco al nostro giornale della depravata moglie di Sarkozy». Nel testo si dà conto di «voci vicine all'Eliseo» o di «amici della cantante», voci che avrebbero riferito della «furia» di Carla Bruni contro il quotidiano
Keyhan. La linea editoriale però non si sposta: la Première Dame, per il suo spericolato passato sentimentale, è immorale come la donna iraniana condannata alla lapidazione Sakineh Ashtiani che proprio Carla Bruni ha tentato di difendere con una lettera aperta.
Ieri alla redazione di Kayhan rispondeva solo il redattore di guardia: «Mi spiace, tutti i giornalisti sono in vacanza, domani è il 21 di Ramadan, l'anniversario del martirio dell'Imam Alì, festa nazionale, torniamo al lavoro venerdì pomeriggio». Per tre giorni, quindi, non ci saranno altri insulti. Forse il tempo giusto per lasciar sbollire gli animi ed evitare una crisi più seria tra Francia e Repubblica islamica d'Iran.
L'Eliseo ha inviato per vie diplomatiche a Teheran una protesta ufficiale per i toni usati dal giornale. «Consideriamo inaccettabili le ingiurie rivolte da Kayhan e da altri siti iraniani a diverse personalità francesi tra cui Carla Bruni-Sarkozy». Il ministero degli Esteri di Teheran ha accolto la protesta e ha «invitato i media a fare attenzione al linguaggio adoperato dal momento che la Repubblica islamica non approva l'insulto contro i responsabili di altri Paesi». Ma intanto il messaggio alla Francia e al resto dell’Occidente è arrivato forte e chiaro: nessuno metta il naso nel dibattito iraniano pro o contro la lapidazione. Sarkozy che aveva dichiarato la donna «sotto la protezione francese» è avvisato. Il caso di Sakhine Ashtiani, condannata a morire a colpi di sassi per aver, secondo l'accusa, «aiutato un suo amante ad uccidere suo marito», deve rimanere cosa interna.
La lapidazione è un argomento che fa da spartiacque nel l a politi caira ni a na. Nel 2002 i riformisti del presidente Khatami ottennero l'approvazione di una moratoria. Nel 2007, invece, il presidente Ahmadinejad si pronuncia a favore della ripresa delle esecuzioni con «pietre né troppo grandi da uccidere subito, né troppo piccole da non far male». Ora, assieme agli arresti, ai licenziamenti, alle impiccagioni degli oppositori, alla chiusura dei giornali riformisti, alla tortura sistematica anche il ritorno della lapidazione serve a marcare la vittoria dei conservatori. Dall'estero non si intromettano.

Corriere della Sera 1.9.10
Shirin Ebadi: «Non è il mio Iran Offese contrarie alla nostra cultura»
di Andrea Nicastro

PARIGI — «Non è Iran questo. Non è il mio Paese, il mio popolo. Gli insulti, le parolacce, le offese contro una donna, per di più straniera, non fanno parte della nostra cultura». Shirin Ebadi è abituata alle offese da parte del regime iraniano, eppure è scioccata, offesa. Parla al telefono dal suo interminabile esilio, con la traduzione dell'amica Ella Mohammadi.
Ebadi, nonostante il Premio Nobel per la pace del 2003, lei ha ricevuto un'enorme quantità di insulti sia da esponenti del governo sia da giornalisti iraniani. Come si reagisce?
«Non bisogna dargli peso. L'ho imparato sulla mia pelle, non bisogna lasciarsi ferire e spero che anche Carla Bruni riesca a reagire così. Il linguaggio impiegato dai governanti in Iran e dai giornali che sostengono il regime rappresenta solo loro stessi. Sono un corpo estraneo alla vera cultura degli iraniani. E, certo, anche ai nostri valori morali». Cosa direbbe a Carla Bruni? «Che mi dispiace, che a tutte le donne iraniane dispiace per come è stata apostrofata. Ma che non deve dare alcun peso a quelle parole. Deve ignorare il fango e continuare nella battaglia che ha intrapreso. Gli iraniani hanno bisogno che il mondo continui a guardare cosa succede loro. Non dobbiamo lasciar cadere nel silenzio prepotenze, illegalità e soprusi. L'Iran ha bisogno dell'aiuto di tutti».
Pensa che quest'attacco a forza di parolacce sia una strategia ordinata dal governo?
«Non saprei. Di certo il regime ha spesso adoperato un linguaggio offensivo e provocatorio per intimidire i suoi avversari, incutere paura».
Lei è stata l'avvocato di tanti prigionieri politici, non è più tornata in Iran dall'11 giugno dell'anno scorso. Perché?
«Dopo le elezioni truffa del presidente Mahmud Ahmadinejad, sono stata a lungo incerta se rientrare o meno, ma poi i miei amici e colleghi mi hanno convinta che piuttosto che in una prigione sarei stata più utile all'estero. A divulgare informazioni e a sensibilizzare il mondo su quel che succede nel mio Paese». In Iran c'è ancora chi porta avanti il suo lavoro? «Certo. Amici e colleghi coraggiosi. Vengono arrestati con accuse inventate e rilasciati. Tanti stanno soffrendo, ma continuano a scrivere, denunciare». Dove vive ora Shirin Ebadi? «Negli aeroporti. Mi sposto, partecipo ad incontri, dibattiti conferenze. Faccio anch'io quello che posso».

Repubblica 1.9.10
Sul corpo delle donne
L´appello sottoscritto anche da Carla Bruni per salvare Sakineh dalla lapidazione viene letta come una pressione del presidente francese ma il regime non sopporta ingerenze
di Renzo Guolo

Il nocciolo duro del regime iraniano sferra un durissimo attacco alla Francia. Nel mirino vi è Carla Bruni, che, nel firmare l´appello contro la condanna alla lapidazione di Sakineh Mohammadi-Ashtiani, ha garantito l´impegno del presidente francese Nicolas Sarkozy di fare pressione su Teheran.
Si preme su Teheran perché alla donna, accusata di adulterio e complicità nell´omicidio del marito, sia risparmiata la vita. Una pressione che il gruppo dirigente che guida la Repubblica Islamica non tollera. Perché non riconosce all´Occidente, il diritto morale all´«interferenza» in tema di applicazione della shari´a. Perché la questione della lapidazione e, in genere dell´applicazione delle pene corporali, in particolare nei confronti delle donne, divide il potere in turbante ed elmetto dalle correnti riformiste, le stesse che ieri sostenevano l´ex-presidente Khatami e oggi l´Onda verde di Moussavi e hanno sempre respinto quelle pratiche come sintomo di progressiva talebanizzazione del regime e causa di isolamento dell´Iran. Perché la mobilitazione per Sakineh, che rinvia al tema più vasto dei diritti umani in Iran, è sostenuta da un paese come la Francia che ha adottato una linea molto ferma nella «crisi del nucleare».
L´attivo ruolo della moglie del presidente francese, notoriamente assai influente all´Eliseo, e la vasta eco mediatica sollevata dal suo schierarsi pubblicamente per salvare Sakineh, non poteva che infastidire gli intransigenti custodi dell´ortodossia di regime. Non è casuale che, per ora, agli strali dei duri e puri del regime siano sfuggiti altri noti firmatari dell´appello: tra questi Salman Rushdie che pure, nel 1989, fu oggetto di una fatwa di Khomeini, formalmente mai abrogata, che lo condannava a morte per apostasia in quanto autore dei Versi Satanici; o il premio Nobel per la pace iraniano Shrin Ebadi, certo non tenera con il regime. Ma la figura, e le parole, della Bruni non potevano passare inosservate. Da qui i pesantissimi attacchi contro la premiére dame definita da Kayhan, quotidiano legato all´ala più intollerante dei conservatori religiosi vicini alla Guida Khamenei, prima una «prostituta», giudizio in cui viene accomunata a Isabelle Adjiani, anch´essa «rea» di avere sottoscritto; poi «meritevole di morte» per aver condiviso gli stessi stili di vita «illeciti» di Sakineh.
Le decise reazioni di Parigi e le tensioni che si sono create a livello diplomatico, hanno indotto il governo iraniano a prendere formalmente le distanze da Kayhan , affermando non solo che i media devono essere più prudenti ma che Teheran «non approva gli insulti contro i leader degli altri paesi», formulazione che rivela come il bersaglio grosso sia Nicolas Sarkozy. Una precisazione che non sgombera il campo dal sospetto che si tratti di un gioco delle parti , sia pure in un contesto in cui la dialettica tra fazioni , anche tra quelle alleate e dominanti, è una realtà. Kayhan, infatti, non è un giornale qualsiasi; la sua linea è sottoposta alla supervisione della Guida Suprema; l´autore dell´agghiacciante fondo in cui si afferma che la Bruni meriterebbe di morire, è il suo direttore.

il Fatto 1.9.10
Messina, Milano:La sanità diventa mercato
Le analogie tra la rissa in sala parto e gli orrori della clinica Santa Rita
Interventi più complessi, degenze più lunghe: tutto pur di spillare soldi ai pazienti
di Gianni Barbacetto

Messina: due medici si picchiano in sala parto, mentre la partoriente e il neonato subiscono gravi danni alla salute. Milano: il primario di chirurgia toracica della Clinica Santa Rita, Pier Paolo Brega Massone, è in attesa della sentenza per le lesioni volontarie gravissime procurate a 83 pazienti. Che cosa accomuna due casi che sembrano diversi in tutto? A Messina, profondo Sud, la vicenda coinvolge due medici che operano in un ospedale pubblico, il Policlinico. A Milano, capitale del Nord, lo scandalo della “clinica degli orrori” scoppia in una struttura privata. Eppure entrambi i fatti sono innescati dal sistema dell’assistenza sanitaria in Italia, sono resi possibili da come è congegnata quella commistione di pubblico e privato che diventa di fatto “criminogena”, come dice un esperto del settore, Giuseppe Santagati: nel senso che “produce reati e, nei casi più gravi, danni ai pazienti e addirittura la morte”. Lo sanno bene i famigliari di chi è stato ricoverato alla Santa Rita di Milano. Appena arriverà la sentenza per lesioni e truffa, partirà un secondo processo, in cui al dottor Brega Massone sarà contestato l’omicidio volontario per quattro pazienti morti per le conseguenze di interventi chirurgici giudicati non necessari. Qual era la molla che spingeva Brega Massone a operare pazienti che non ne avevano bisogno? Il Drg. Quale il motivo per cui si sono azzuffati i due medici di Messina? Il Drg, più la competizione a coltivare dentro il sistema sanitario pubblico i “clienti” paganti, acquisiti privatamente. Drg significa “Diagnosis related group”. È un elenco di circa 500 casi per catalogare e classificare i pazienti dimessi da un ospedale. A ogni caso corrisponde una cifra, pagata dal sistema sanitario nazionale alla struttura che ha seguito il paziente.
PIÙ DRG, più soldi. Ma il vero affare, spiega Tiziana Siciliano, la magistrata che con Grazia Pradella ha sostenuto l’accusa nel processo Santa Rita, consiste nel cambiare il Drg con un Drg simile, ma meglio pagato: da parto semplice a parto cesareo, da asportazione delle tonsille a tonsille con setticemia, da appendicite ad appendicite con complicazioni... Alla San Pio X di Milano, gli interventi per asportare le emorroidi (pagati 1.000 euro) diventavano operazioni per malattie intestinali gravi (pagate 12 mila euro).
Alla San Raffaele-Villo Turro, i ricoveri per la cura del sonno, che di solito durano due notti (rimborso: 200 euro), si trasformavano tutti in ricoveri di tre notti (dopo la seconda notte, il rimborso scatta a 2 mila euro).
C’è una deriva alberghiera nel sistema sanitario italiano: per incassare di più, le strutture sanitarie preferiscono un ricovero quando basterebbe un day hospital; e un giorno in più di degenza, anche quando il paziente aspetta a letto senza alcun intervento. In alcuni casi, ospedali e cliniche costano più dell’hotel Gallia.
I PRIMARI, poi, sono pagati a percentuale (di solito il 10 per cento sul Drg), dunque hanno un oggettivo interesse a moltiplicare gli interventi, anche senza bisogno. Con un gonfiamento della spesa sanitaria nazionale che non va però a vantaggio dei malati, ma anzi ne aumenta i rischi. I pericoli maggiori, nel sistema italiano, non vengono infatti dalla mancanza di interventi, ma dalla tendenza a somministrarne più del bisogno. “Hanno trasformato gli ospedali in un supermercato”, commenta Santagati. “È una gara a offrire le cure più costose, non importa se utili o no. Uno entra per una visita ed esce con un trapianto. L’interesse del sistema è il profitto dell’imprenditore della sanità, non la salute del paziente”. Se poi si aggiunge il cortocircuito tra pubblico e privato, il gioco è fatto. Il medico che ha “clienti” che pagano profumatamente le visite nel suo studio privato, ha tutto l’interesse a dirottarlo, per gli interventi più costosi e complessi, nell’ospedale pubblico. Magari cercando di eseguire personalmente l’operazione, anche a costo di sovvertire turi con il collega già pronto in sala operatoria.
PER DISINNESCARE i pericoli di questo sistema sono necessari, oltre a un’etica individuale dei medici che, a dar retta alle cronache, è evidentemente in ribasso, anche e soprattutto un efficace sistema di controlli. È questo che manca. Le Regioni tendono a non accorgersi dei paradossi statistici che si dovrebbero vedere a occhio nudo: è mai possibile, per esempio, che il 2,3 per cento di tutte le ernie inguinali con complicazioni capitino in una sola clinica, la San Carlo di Milano? Di solito i rapporti, politici ed economici, tra amministratori regionali e ras delle cliniche sono più forti di ogni capacità di controllo. Le sanzioni, poi, non arrivano mai. Ci sarebbe un metodo rapido ed efficace: chi sbaglia (o ruba) perde l’accreditamento con il sistema sanitario. Non capita quasi mai, né a Messina né a Milano.

Corriere della Sera 1.9.10
Battere la fame con le democrazie
di Amartya Sen

Alternanza di governo e media liberi sono la vera garanzia

Il peso di una carestia è a carico solo della popolazione colpita, e non dalla compagine di governo. La classe dirigente non muore mai di fame. Tuttavia, laddove il governo risponda al popolo e siano presenti un sistema di libera informazione e una critica pubblica non soggetta a censura, anche il governo troverà buone ragioni per impegnarsi al meglio a sconfiggere le carestie.
A fronte di un sistema politico democratico ben funzionante e di un sistema mediatico libero e privo di censura, nonché di partiti di opposizione desiderosi di far gravare sul governo l’incapacità di prevenire la fame, il governo stesso avverte una enorme pressione, che lo induce ad adottare misure rapide ed efficaci ogni qualvolta si delinei la minaccia di una carestia. Poiché le carestie sono facili da prevenire laddove si compiano sforzi concreti per arrestarle (come ho già avuto modo di affermare), la prevenzione si rivela in linea generale una strada percorribile. Non desta pertanto sorpresa che, tra tutte le terribili carestie che hanno lacerato il mondo, nessuna si sia mai verificata in un Paese indipendente dotato di una democrazia funzionante, con partiti di opposizione operanti in libertà e una stampa non soggetta a censura.
Le democrazie caratterizzate da un sistema mediatico libero ed energico e da regolari elezioni multipartitiche si dimostrano di fatto efficienti nel prevenire il verificarsi delle carestie. Ciò merita d’essere considerato se si analizza l’efficacia con cui il dibattito pubblico contemporaneo può farsi carico dei problemi delle generazioni future. Ma perché?
Per fare un confronto, si pensi che la percentuale di persone colpite dalle carestie non supera mai il dieci per cento della popolazione totale e risulta altresì solitamente inferiore al cinque. Una frazione così esigua difficilmente risulterà in grado di indurre la maggioranza a votare le misure direttamente necessarie a sradicare la minaccia della fame. Sono dunque il dibattito e l’impegno pubblico a diffondere l’ampiezza di vedute di coloro che, pur nutrendo interessi non necessariamente minacciati dalle carestie, ritengono ragionevole tentare di prevenirle – e mandano a casa i governi pertinaci. Pertanto, anche se coloro che hanno attualmente diritto al voto non ci saranno forse più quando le generazioni future si troveranno ad affrontare la gravità dei cambiamenti climatici e del degrado ambientale, il dibattito pubblico democratico può rendere efficace il voto di oggi nel tutelare gli interessi delle generazioni future; allo stesso modo, una democrazia maggioritaria di oggi, in cui sia radicato con forza il dibattito pubblico, può salvare la vita a una minoranza di persone (quali le vittime potenziali di una carestia) che, di per sé, non può spostare il voto in un sistema maggioritario. Le democrazie che si contraddistinguono per libertà del dibattito pubblico e assenza di censura governativa forniscono gli strumenti con cui perseguire giustizia sociale in numerosissimi ambiti. E rendere giustizia ai cittadini di domani costituisce già una parte assai rilevante dell’impegno democratico. Un dibattito pubblico aperto è un mezzo idoneo a gestire le nostre responsabilità verso le generazioni future.
Le nostre responsabilità in materia di sviluppo sostenibile racchiudono dunque il ruolo svolto dai cittadini di oggi nel dibattito inerente una situazione mondiale che si estende oltre le vite individuali. Di sicuro, molti aspetti legati al collasso ambientale esprimono effetti immediati. A quanti respirano l’aria di Pechino, Città del Messico o Nuova Delhi non occorre ricordare che alcuni degli effetti derivanti dal degrado ambientale pregiudicano nell’immediato la qualità delle loro vite. E a prescindere dal fatto che ci si occupi della condizione della popolazione di oggi o di quella di domani, non si possono ignorare la responsabilità civica e la partecipazione alla vita politica.
Attualmente disponiamo di una letteratura piuttosto vasta sul ruolo che i singoli cittadini svolgono nella salvaguardia dell’ambiente, incentrata nella fattispecie su azioni che trovano motivazione in un senso di obbligo civico e di etica sociale. Andrew Dobson si spinge a sostenere quanto da lui definito col termine di «cittadinanza ecologica», che prescrive l’attribuzione all’ecologia di una priorità. Non sono del tutto certo che smembrare una cittadinanza integrata in specifici ruoli settoriali costituisca il modo migliore per interpretare la cittadinanza e la democrazia. Tuttavia, Dobson enfatizza con giusta ragione la portata delle responsabilità civiche nell’affrontare le sfide ecologiche. Egli analizza ed evidenzia in primo luogo ciò che i cittadini possono fare se spinti da motivazioni sociali e riflessioni ponderate, anziché da puri incentivi finanziari (agendo in qualità di «attori razionali mossi da egoismi personali»).
Concentrare l’attenzione sul senso della responsabilità ecologica dei cittadini è tipico di una nuova tendenza che si colloca a metà strada fra teoria e pratica. La politica britannica, ad esempio, fu bersaglio di critiche sul finire del 2000 quando, in risposta a picchetti e proteste, il governo fece marcia indietro rispetto alla proposta di aumento delle imposte sulla benzina, senza compiere alcun tentativo serio di rendere la questione ambientale materia di dibattito pubblico.
Come afferma Barry Holden nel suo avvincente Democracy and Global Warming, «Democrazia e riscaldamento globale», «questo non significa necessariamente che la questione ambientale avrebbe vinto la battaglia», ma «suggerisce che avrebbe avuto una possibilità, se almeno fosse stata sollevata». La crescente delusione che si va registrando è associata non solo alla debolezza – o all’assenza – di iniziative concrete, capaci di coinvolgere i cittadini nelle politiche ambientali, ma anche al palese scetticismo delle amministrazioni pubbliche circa la possibilità di appellarsi con successo al senso di responsabilità sociale dei cittadini.