venerdì 3 settembre 2010

Repubblica 26.8.10
Sfida ai confini dell' universo ecco il cacciatore di antimateria
di Elena Dusi


GINEVRA - Il "cacciatore di antimateria" per ora è un gigantesco scatolone imballato, che solo per un pelo riesce a entrare nella pancia di un C-5 Super Galaxy, uno degli aerei da trasporto più grandi al mondo. Presto però questo strumento scientifico da 7,5 tonnellate di peso e oltre 1,5 miliardi di dollari di costo, costruito in 16 anni superando ogni difficoltà, non avrà più bisogno di gru per essere sollevato. Ams, l' Alpha Magnetic Spectrometer, concepito da 600 scienziati di 16 paesi, si librerà nello spazio in assenza di gravità, ancorato alla Stazione Spaziale Internazionale (Ssi). Oggi all' alba il C-5 dell' aeronautica militare Usa decolla dal Cern di Ginevra verso la base Nasa di Cape Canaveral per il suo ultimo viaggio su questo pianeta. A febbraio dell' anno prossimo il volo conclusivo della flotta Shuttle, prima del pensionamento, porterà lo strumento in cielo. Gli astronauti, fra cui l' italiano Roberto Vittori, fisseranno Ams alla Stazione Spaziale Internazionale e da lì, a 350 km di altezza, il suo occhio magnetico scruterà le galassie fino al 2028. Tra le radiazioni che viaggiano nel cosmo, lo spettrometro cercherà frammenti di materia "strana": tasselli dell' universo che sfuggono alla nostra comprensione e sulla cui natura nemmeno gli scienziati si sbilanciano troppo. «Ams - spiega Roberto Battiston dell' Istituto nazionale di fisica nucleare e dell' università di Perugia, vice-responsabile dell' esperimento - è nato per cercare l' antimateria. In realtà il suo compito è cercare "altra materia". Particelle di cui a fatica sappiamo prevedere le caratteristiche». I calcoli sulla dinamica dell' universo sono chiari: nello spazio esiste molta più materia di quella che vediamo. La parte nota (fatta degli atomi che studiamo sui libri) non supererebbe il 5% di tutto il cosmo. Il resto sarebbe composto da materia oscura (25%) ed energia oscura (70%).I magneti di Ams, che costituiscono il cuore dello strumento, sono pronti a catturare nuove particelle gettando luce su quel 95% che costituisce il lato buio dell' universo. Al progetto di ricerca l' Italia partecipa con l' Istituto nazionale di fisica nucleare (Infn), l' Asi e una fetta di 35 milioni di finanziamento. Scoprire galassie lontane fatte di antimateria (una sorta di mondo capovolto in cui gli elettroni hanno carica positiva e i protoni negativa) potrebbe essere la scoperta più affascinante di Ams. «Ci basterebbe trovare solo unoo due nuclei di anti-elio - spiega Battiston- per arrivare direttamente al momento del Big Bang. Questi nuclei infatti possono essersi formati solo nell' esplosione primordiale». Già nel 2009 uno strumento dell' Infn chiamato Pamela aveva identificato le prime tracce di antimateria nello spazio. Ma trovare antimateria o materia oscura non è uno scherzo. Dal momento in cui il progetto di Ams è partito, nel 1994, ha dovuto superare mille difficoltà. L' ultima ieri, all' aeroporto di Ginevra. Lo strumento era troppo alto per entrare nella pancia del C-5. Per tutta la mattinata gli uomini di Nasa e Us Air Force hanno combattuto con il loro carico, eliminando vari strati di imballaggi. Nel 2003 il progetto era stato praticamente dato per morto: lo spettrometro era pronto, ma l' esplosione dello Shuttle Columbia spinse la Nasa a cancellare il volo per portarlo in orbita. Il responsabile di Ams, l' ostinatissimo Nobel Samuel Ting, è riuscito in extremis a trovare l' ultimo passaggio per il cielo sul volo di pensionamento dello Shuttle. La Nasa ha addirittura cambiato programma, rimandando il decollo, per consentire a Ting di sostituire all' ultimo momento il cuore scientifico di Ams: al posto di un potentissimo magnete superconduttore raffreddato quasi alla zero assoluto con elio liquido (destinato a consumarsi in pochi anni, e un po' troppo propenso a esplodere per essere tenuto vicino alla Stazione e al suo equipaggio) è stato montato un magnete normale, meno potente ma capace di durare quanto la Ssi. «La Nasa - ha spiegato Ting - aveva interesse ad aspettarci. Ams sarà il cuore del programma scientifico della Stazione, che è costata 100 miliardi di dollari ma è stata criticata per non aver dato risultati di astrofisica».


Corriere della Sera 3.9.10
L’universo di Hawking «Si è autogenerato senza l’intervento di Dio»
«Il grande disegno» esce a pochi giorni dalla visita del Papa a Londra
La controversa tesi nell’ultimo libro. Cacciari: illogico
di Dario Fertilio

In principio era il caos, sostiene Stephen Hawking. E di Dio, nessuna traccia. Parole grosse che, trattandosi di uno dei massimi astrofisici viventi, fanno boom. Tanto più che proprio lui, uno degli scienziati più famosi al mondo, condannato all’immobilità e privo della parola per un’atrofia muscolare progressiva, teorico delle stringhe e dei buchi neri, in un suo libro precedente ( Breve storia del tempo, pubblicato in Italia dalla Bur Rizzoli) aveva lasciato invece una porta socchiusa ai creazionisti, sostenendo che la presenza di Dio non sarebbe incompatibile, in sé, con un approccio scientifico all’universo.
Ma questa voltano : The Grand Design, «Il grande disegno», scritto con il fisico americano Leonard Mlodinow, in 200 pagine serrate e anche immaginifiche si spinge abbastanza lontano da ipotizzare la presenza di altri universi abitati, per poi giungere all’apodittica conclusione che il Big Bang sarebbe una «inevitabile conseguenza delle leggi della fisica», e che l’intervento di una mano creatrice sarebbe decisamente da escludere. Più precisamente, alla domanda che Hawking si pone da sé, «l’universo ha avuto bisogno di un creatore?», la risposta è chiara e incontrovertibile: no. E perché no? «Perché c’è una legge che si chiama gravità, e l’Universo può e continuerà a crearsi da sé, dal niente. La creazione spontanea è la ragione per cui qualcosa esiste piuttosto che il nulla, per cui l’Universo esiste, e noi stessi esistiamo». Punto. Per il grande Stephen Hawking, in pensione da un anno e già sulla cattedra occupata da Newton, la questione è chiusa.
In Gran Bretagna le sue conclusioni finiscono ovviamente in prima pagina — cominciando dal «Times» — tanto più che l’uscita del libro (giovedì prossimo) cade appena una settimana prima della visita di papa Ratzinger al di là della Manica.
Subito reazioni positive da Richard Dawkins, il biologo dichiaratamente ateo, che saluta l ’ est ensione al - l’universo delle teorie darwiniane sugli esseri viventi. Altrove, però, e cominciando dall’Italia, prevalgono invece, in varie gradazioni: perplessità, scetticismo, imbarazzo.
Il filosofo della scienza Giulio Giorello, ad esempio, ammette che l’idea di una creazione dal vuoto, «per effetto di una fluttuazione casuale rapidissima e molto energetica», è materia dibattuta dai cosmologi quantisti, anzi «l’ipotesi di una creazione senza creatore la si può ritrovare persino tra le pieghe della filosofia indiana». Una cosa però, sottolinea, è «fare a meno di Dio come creatore agente dall’esterno, un’altra parlarne come forza intrinseca alla natura, sulle orme di Giordano Bruno e Spinoza». Inoltre, a suo giudizio, «il bisogno di Dio non è basato sulla cosmologia, e la grazia è una scintilla nel buio. D’altra parte la scienz a prescindetot a l mente da Dio».
Più netto, e quasi sprezzante verso Hawking, un altro filosofo, Massimo Cacciari: «Nulla è più assurdo e antiscientifico di pretendere che un linguaggio specialistico fornisca risposte universali. È una contraddizione logica, quella di Hawking, che ha qualcosa di comico e non va nemmeno presa in considerazione. Meglio avrebbe fatto a leggersi la "Dialettica trascendentale" di Kant».
Più articolati, ma di fatto consonanti, i pareri del mondo scientifico. Tommaso Maccacaro, presidente dell’Istituto nazionale di astrofisica, analizza i punti principali della teoria di Hawking ( presenza di altri sistemi solari simili al nostro, di altri possibili universi, l’idea che si possa raggiungere un equilibrio fra la teoria quantistica del mondo subatomico e quella della gravità) e conclude: «Nessuno di questi punti può servire come base per una discussione su Dio, perché le cose sono totalmente disgiunte. Mi sembrano affermazioni talmente irrazionali da far sì che qualsiasi teologo ne possa fare un solo boccone». E il biologo evoluzionista Telmo Pievani: «Sulla teoria fisica delle stringhe, invocata da Hawking non c’è affatto consenso. Se invece parliamo di evoluzionismo, certo, il processo della vitavnon sembra procedere secondo un progetto. Ma da qui a dimostrare che un’entità sovrannaturale non esiste ce ne corre. E se anche riuscissimo a conoscere i pensieri di Dio, questo non proverebbe che Lui non esiste».

Corriere della Sera 3.9.10
Giovanni Reale
«Sbaglia perché applica categorie finite all’infinito»

Il filosofo cattolico Giovanni Reale non riesce a nascondere un sorriso di fronte alle argomentazioni di Stephen Hawking sull’assenza di un Dio creatore nell’universo, anzi sul fatto che «l’universo possa avere avuto bisogno di lui». «È un errore tipico di certi scienziati — dichiara — giudicare l’universo infinito secondo categorie finite, senza rendersi conto della enorme sproporzione che ne deriva».
Ma è soprattutto l à dove Hawking si spinge più lontano, sostenendo che l’enorme varietà del «multiverso» proverebbe l’inesistenza di Dio, a suscitare in lui un’illuminazione (o, se si preferisce, una fantasia metafisica sull’aldilà). «Dunque — afferma Reale — Stephen Hawking insiste molto sulla presenza di altri sistemi solari simili al nostro, con altri soli e pianeti, e aggiunge che da quando, nel 1992, è stato scoperto il primo pianeta effettivamente orbitante attorno alla sua stella, sarebbe stato inferto un colpo alla teorie creazioniste. E poi, secondo lui, la quasi certezza di altri universi altrettanto complessi del nostro e di altre possibili forme di vita in spazi imprecisati dimostrerebbero che Dio non c’è, perché altrimenti avrebbe sprecato tempo, spazio e materia di nessun valore per le creature umane terrestri. A lui rispondo: a me piace pensare che gli altri universi, e chissà quali altri sistemi celesti, possano essere stati creati per ospitarci tutti, quando verrà il giorno della resurrezione. E perché no? Potrebbero essere quelli i luoghi che ci sono stati riservati, in un nuovo Eden.

Repubblica 3.9.10
Hawking: vi spiego perché non è stato Dio a creare l´universo
La teoria nel nuovo libro dello scienziato "Il Big Bang deriva solo dalle leggi della fisica"
Molte reazioni dei teologi, dopo questo annuncio, alla vigilia della visita del Papa
di Enrico Franceschini

L´universo ha bisogno di un Creatore? "No". La perentoria risposta arriva dal professor Stephen Hawking, l´astrofisico più famoso del mondo, considerato da molti l´erede di Newton, del quale ha per così dire ereditato la prestigiosa cattedra all´università di Cambridge. In un nuovo libro che esce in questi giorni, l´autore del best-seller internazionale Dal Big Bang ai buchi neri sostiene, sulla base di nuove teorie, che «l´universo può essersi creato da sé, può essersi creato dal niente» e dunque «non è stato Dio a crearlo».
La sua affermazione occupava ieri tutta la prima pagina del Times di Londra, come una sfida, l´ennesima, della scienza alla religione. «Così come Darwin ha smentito l´esistenza di Dio con la sua teoria sull´evoluzione biologica della nostra specie», commenta Richard Dawkins, biologo difensore dell´ateismo, «adesso Hawking la nega anche dal punto di vista della fisica». Nel suo libro più famoso, l´astrofisico aveva cercato di spiegare che cosa accadeva "prima" del Big Bang, ossia prima che nascesse il tempo, lasciando il quesito irrisolto. Il capitolo conclusivo conteneva un ragionamento che alcuni interpretarono come l´idea che Dio non fosse incompatibile con una comprensione scientifica dell´universo: scoprire cosa c´era prima Big Bang, arrivare a una "completa teoria" dell´universo – scriveva Hawking – «sarebbe il più grande trionfo della ragione umana, perché a quel punto conosceremmo la mente di Dio».
Ma nella sua nuova opera, intitolata The Grand Design (Il grande disegno o progetto) e scritta insieme al fisico americano Leonard Mlodinow, lo scienziato offre la risposta: anziché essere un evento improbabile, spiegabile soltanto con un intervento divino, il Big Bang fu «una conseguenza inevitabile delle leggi della fisica». Scrive Hawking: «Poiché esiste una legge come la gravità, l´universo può essersi e si è creato da solo, dal niente. La creazione spontanea è la ragione per cui c´è qualcosa invece del nulla, il motivo per cui esiste l´universo, per cui esistiamo noi». Nel libro, lo studioso predice inoltre che la fisica è vicina a formulare "una teoria del tutto", una serie di equazioni che possono interamente spiegare le proprietà della natura, la scoperta considerata il Santo Graal della fisica dai tempi di Einstein.
E´ tuttavia la sua asserzione che Dio non ha creato l´universo, e dunque non esiste, a suscitare eco e polemiche. «Se uno ha fede», osserva il professor George Ellis, docente di teologia alla University of Cape Town, «continuerà a credere che sia stato Dio a creare la Terra, l´Universo o perlomeno ad accendere la luce, a innescare il meccanismo che ha messo tutto in moto, prima del Big Bang o del presunto nulla che lo ha preceduto». Ma il campo dell´ateismo accoglie la pubblicazione del libro di Hawking come una vittoria della ragione e della scienza, da celebrare a due settimane dalla visita in Inghilterra di papa Benedetto XVI, che non sarà per niente d´accordo con Hawking.
Nel nuovo libro, l´astrofisico rivela che il riferimento alla "mente di Dio" nel suo precedente volume sul Big Bang era stato male interpretato. Hawking non ha mai creduto che scienza e religione fossero conciliabili. «C´è una fondamentale differenza tra la religione, che è basata sull´autorità, e la scienza, che è basata su osservazione e ragionamento», conclude. «E la scienza vincerà perché funziona».

Corriere della Sera 3.9.10
Le fedi, follia dell’Occidente
di Emanuele Severino

L’ultimo libro di Emanuele Severino affronta i grandi antagonismi su cui si fonda la civiltà
La loro opposizione è apparente, non risolvono i problemi del mondo
Ormai sulla terra ogni conoscenza è diventata una fede; anche ogni conoscenza che guida la volontà, e che guida pertanto anche la volontà di pace; una fede: più o meno complessa, coerente, potente, consapevole di sé, ma pur sempre una fede. Anche la scienza moderna è fede.
Tuttavia il senso di ciò che viene chiamato «fede» si mostra solo in relazione al senso della «non-fede», cioè al senso portato alla luce dalla filosofia, in Grecia. La filosofia si rivolge a ciò che si mostra in modo così pieno e ineludibile da non poter esser negato – da «non poter essere altrimenti», dice Aristotele. «Dio» è il contenuto centrale di ciò che si mostra all’interno dell’epistéme della verità.
Tutto ciò che non si mostra nell’epistéme della verità può essere altrimenti, è controvertibile, lo si afferma perché si vuole che ad esso competa ciò che di esso si afferma. Tutto il resto è, appunto, fede, mito. In quanto sapere ipotetico, anche la scienza è fede e mito. La volontà stessa, in quanto tale, è fede: innanzitutto è fede di ottenere ciò che essa vuole.
Ormai sulla terra ogni volontà – anche la volontà di pace – è guidata dalle contrapposte
forme della fede e del mito. L’epistéme della verità è tramontata. Dato il modo in cui ha compiuto il suo primo passo, il suo tramonto è inevitabile.
Il grande problema da affrontare è che volere la «pace» facendosi guidare dalla fede significa volere la «pace» collocandosi nella dimensione della guerra. Ogni fede vuole che il mondo abbia un senso piuttosto che un altro e quindi ogni fede si trova essenzialmente in
( contrasto con le altre forme di fede, che invece vogliono che il mondo abbia un senso diverso. Dialogando tra loro, o le fedi rinunciano a se stesse in favore di una fede prevaricante, oppure non effettuano questa rinuncia, ma allora è inevitabile che alla fine si scontrino non solo sul piano del dialogo, ma anche su quello dell’agire effettivo dei popoli e che alla fine prevalga la fede più potente.
Relativamente alla «ragione», cristianesimo e islam sono in apparenza molto divergenti; ma al di là delle apparenze e delle loro intenzioni esplicite essi sono sostanzialmente solidali (anche se la cristianità si è allontanata ben di più dell’islam reale, storico, dalla brutalità del mondo arcaico). Ma non è forse del tutto esplicita la sentenza di Gesù, su quel che si deve a Cesare e a Dio? Non è forse, questa sentenza, la prova più evidente dell’autonomia che la Chiesa riconosce a Cesare, cioè allo Stato, e, da ultimo, alla «ragione»? Indubbiamente, Gesù conduce la coscienza religiosa in una dimensione dove l’islam si rifiuta di entrare. Per l’islam è quel che è di Dio, ossia è la legge di Dio, ad avere il diritto di configurare la struttura e le leggi dello Stato e della «ragione»: date a Cesare quel che è di Dio; rendete Dio padrone di Cesare.
Ma chiediamoci ancora una volta: quando Gesù afferma di dare a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio, pensa forse che a Cesare si possa dare qualcosa che sia con
tro Dio? Certamente no! La Chiesa cattolica infatti rifiuta quella «libertà senza verità» (cioè senza verità cristiana) che caratterizza la democrazia semplicemente procedurale del nostro tempo. Ma allora Gesù e la Chiesa pensa
no che Cesare debba essere cristiano e cioè che le leggi dello Stato debbano essere cristiane. E poiché non possono esistere leggi dello Stato la violazione delle quali non implichi una sanzione, ne viene che la violazione delle leggi cristiane dello Stato richiede una sanzione terrena, ossia già qui sulla terra, prima ancora che nell’aldilà. La teoria, sostanzialmente comune ad Avicenna e a Tommaso, che una filosofia che smentisca la fede è una falsa filosofia è la traduzione, sul più ampio piano della ragione, del modo in cui, per Gesù, ci si deve porre in rapporto a Cesare e a Dio. Infatti, se a Cesare non si deve dare quel che è contro Dio, allora, quando Cesare è contro Dio, esso è un Cesare falso, uno Stato che è in contrasto col vero Stato: è un Cesare falso, così come una filosofia che sia in contrasto con la «Rivelazione» è una falsa filosofia. Anche alla filosofia si deve dare quel che è della filosofia e alla fede quel che è della fede – purché alla filosofia non si dia quel che è contro la fede (o che è indifferente alla fede). Anche la filosofia, e in generale la ragione, come lo Stato, deve essere filosofia cristiana, o islamica; ragione cristiana, o islamica. Cristianesimo e islam non sono dunque semplicemente due forme diverse e contrastanti di civiltà (non danno luogo a uno «scontro di civiltà»), ma affondano le loro radici nello stesso terreno, cioè appartengono entrambi al grande passato dell’Occidente, cioè della
stessa civiltà. Cristianesimo e islam sono certamente in contrasto; ma questo loro contrasto è la superficie di un contrasto radicalmente più profondo, dove cristianesimo e islam
stanno dalla stessa parte, si trovano a combattere il comune nemico mortale, cioè l’Europa moderna, sebbene, a un livello ancora più profondo, un’«intima mano» unisca l’Europa moderna al cristianesimo e all’islam.

l’Unità 3.9.10
L’affondo di Bersani
«Il berlusconismo ci porta alla fogna»
di Vladimiro Frulletti

Il segretario dei democratici invita a dar vita a una alleanza per una «nuova riscossa italiana». S’abbraccia con il sindaco “rottamatore” di Firenze Renzi ma spiega «Sì alle critiche, ma anche affetto per la ditta».

Con Berlusconi la politica è stata degradata a fogna. Il segretario del Pd non usa perifrasi. «Al di là delle denunce di un governo che si denuncia da solo, in questo agosto terrificante abbiamo visto come il secondo tempo del Berlusconismo possa far regredire la politica alla fogna» dice davanti alla folla di amministratori e dirigenti democratici accorsi a Firenze da mezza Tocana per vedere da vicino la nuova sede del partito va giù duro. Incassa applausi. Il clima è decisamente già da campagna elettorale. E infatti il leader Pd non fa previsioni sulla data in cui Berlusconi cadrà («non so dirvi giorno, mese e anno»), ma è certo che cadrà. «la crisi è ineluttabile» dice. «Non abbiamo paura delle elezioni ribadisce ma se arriviamo al voto anticipato si sappia che c’è un padre e una madre: berlusconi e il suo fallimento». Insomma c’è da tenersi pronti. Il che dovrebbe spingere tutti i democratici a convogliare le proprie energie (positive) sul Pd. «Assieme alle critiche ci vuole anche l’affetto per la ditta» spiega Bersani rivolto al sindaco di Firenze Matteo Renzi e alla sua proposta di “rottamazione” dei vertici del partito. «La gente deve stimarci, ma se non ci stimiamo fra di noi ...» aggiunge Bersani.
Con Renzi poi ci sarà anche l’abbraccio davanti alla targa che ricorda il segretario Ds di Firenze Meme Auzzi (scomparso all’improvviso 4 anni fa) che fece partire la realizzazione della nuova sede. Un gesto applaudito dalle persone. Che tuttavia non fa retrocedere di un centimetro il sindaco. Renzi infatti non solo ribadisce tutte le sue critiche, spiegando che non si sente un Maradona «ma un Bruscolotti» (il terzino del Napoli degli anni ‘80) e che voler bene alla ditta Pd significa salvarla «dal fallimento». Ma annuncia che porterà le sue tesi (ad esempio non ricandidare i parlamentari con tre mandati come stabilisce lo Statuto Pd) all’Assemblea nazionale e che le metterà ai voti. Del resto per Renzi se il “berlusconismo” è finito, e per lui è finito, anche chi fin qui gli ha fatto opposizione deve passare la mano. Posizioni che non incontrano i favori (ma è un eufemismo) dei molti amministratori e dirigenti del Pd toscano presenti all’inaugurazione. Sicuramente non quelli nè del presidente della Regione Enrico Rossi nè del segretario regionale del Pd toscano Andrea Manciulli. «Bersani spiega il governatore è il naturale candidato premier. È stato eletto segretario pochi mesi fa da milioni di persone». L’invito di Manciulli e Rossi è di abbandonare le discussioni per dedicarsi ai problemi delle persone. «Dobbiamo fare squadra dice Manciulli che sta con Bersani -. Evitiamo di litigare negli spogliatoi per chi deve indossare la fascia da capitano. C’è da vincere la partita».
E il capitano-Bersani un’idea di come il Pd possa vincere la partita ce l’ha. E parte proprio dalla nuova sede dei democratici toscani, «la sala macchine» come la definisce, dove lavorano «tanti volontari della politica». Come quelli che incontrerà poi nel pomeriggio alla festa del Pd di Firenze e dopo cena a quella di Livorno. E quindi non un fine, ma un mezzo per tradurre in «i nostri ideali in cose visibili e utili per tutti». Del resto nel panorama italiano fatto dei partiti personali il Pd è l’unico, dice Bersani, dove il futuro va al di là del segretario del momento. «Un’idea di partito che è idea di societàspiega il segretario Pd . Come in Europa, dove ci sono leader pro-tempore di grandi collettivi e non i “ghe pensi mi” delle derive plebiscitarie». Quindi il passaggio successivo è quasi obbligato: costruire le condizioni politiche, e cioè «strutture, alleanze, proposte». In questo senso bersani rigetta le critiche sulla sua proposta di nuovo Ulivo come ammucchiata anti-berlusconiana. «Non è la vecchia Unione» spiega Bersani. I Mastella e i pecoraro Scanio non ci sono più e Rifondazione non è interessata a un accordo di governo, ma «a una battaglia democratica». «Il Nuovo Ulivo invece dice è un patto impegnativo fra forze che hanno un identico programma di governo». L’obiettivo è dar vita a «una nuova riscossa italiana». Quella che chiedono i giovani che non solo sono senza lavoro, ma ormai non lo cercano neppure più. I precari della scuola licenziati da Tremonti-Gelmini. Le stesse aziende abbandonate da un governo che da mesi lascia vuota la carica di ministro dello sviluppo economico. E non a caso Bersani apprezza molto il richiamo rivolto dal presidente Napolitano (molto applaudito delle persone) al governo. In più c’è anche il pericolo che il berlusconismo ( per Bersani è ancora forte e ha consenso) pur di salvarsi produca «un ulteriore imbarbarimento della politica italiana» e la perdita di «pezzi di democrazia» senza che gli italiani se ne accorgano. «È già successo» ammonisce il leader Pd che annuncia «opposizione drastica» contro il processo breve, una «specie di amnistia pro Berlusconi». Ma per il premier non sarà facile ottenerla, avverte Bersani, perché non abbiamo ancora la Costituzione di Arcore».

l’Unità 3.9.10
Sciopero della fame continuo
Precari, protesta a mani nude
di Mariagrazia Gerina

Presidiano da giorni piazza Montecitorio. Le storie, i racconti, le facce e i curricula dei precari della scuola costretti a una protesta estrema dalla riforma-scure. E in tanti accusano il colpo.

Non è che sono venuti apposta per lei. Loro piazza Montecitorio, la presidiano da giorni. Anzi, in realtà come in un gioco di porte girevoli non si sono nemmeno incrociati. Di qua, il ministro, Maristella Gelmini, che entra ed esce da Palazzo Chigi, grattando il fondo del barile. Di là loro, i precari, in presidio permanente davanti alla Camera dei deputati, ancora deserta. Quelli che secondo il ministro si fanno strumentalizzare dai partiti d’opposizione. Sospettati addirittura di essere solo «militanti politici». Come se fosse un insulto, poi.
L’avranno insospettita gli slogan, forse. «Non il posto a ogni costo, ma la scuola al primo posto». «L’Italia ha precarizza». Gli striscioni contro i tagli alla scuola pubblica. Avrebbe almeno potuto farseli spiegare. Verificare di persona. Forse non l’ha fatto perché sa già chi è che in questo momento ha in mano la «patacca».
In caso di dubbi, Caterina Altamore, maestra elementare, al settimo giorno di sciopero della fame, si è messa un cartello al collo un cartello: «Vera precaria». L’ambulanza la porta via. Oggi il calo di pressione è toccato a lei. L’altro giorno a Giacomo. Il confronto, ovviamente, il ministro non l’ha concesso. «C’era d’aspettarselo, nessuno che ha un barlume di ragione può sostenere che tagliando risorse si migliora la scuola», spiega il palermitano che sedici giorni fa ha iniziato lo sciopero della fame. Ormai un simbolo della protesta che si sta diffondendo in tutta Italia ancor prima che la scuola cominci. Prossimo appuntamento, l’8 settembre. Davanti a Montecitorio. Per dare il «benvenuto» ai parlamentari alla ripresa dei lavori della Camera. E alla vigilia di un anno scolastico, che si preannuncia tesissimo.
Il gioco del ministro è fin troppo facile da scoprire. «Diecimila assunzioni sono irrisorie a fronte di 67mila posti a tempo indeterminato già tagliati e 130mila cattedre tutt’ora vacanti... In due anni 67mila docenti e 35mila Ata hanno perso il posto e non c’è bisogno di attendere per sapere che non ce l’avranno quest’anno, basta guardare i numeri dei convocati...». Seduti sotto al sole attorno a un computerino portatile i sediziosi precari che in questi giorni si sono aggiunti alla protesta di Caterina e Giacomo, in sciopero della fame, buttano giù di getto un comunicato di risposta. «Troppo facile accusarci di essere militanti politici... così si aggira il problema per cui chiediamo un confronto con il ministro: la qualità della scuola, la ricaduta dei tagli decisi dal governo».
Sanno di cosa parlano. «Domani a Roma ci sono le convocazioni per la mia classe di concorso, insegno da otto anni, sono trentesima in graduatoria, ma non so se otterrò l’incarico, tra gli assunti a tempo indeterminato ci sono 22 perdenti posto e 2 di loro sono ancora senza incarico», spiega lo stato d’animo Ilaria Persi, 35 anni, laurea in letteratura Latina, con il massimo dei voti, specializzazione in greco. «Come lei, io la scuola l’ho scelta, perché mi sentivo utile a insegnare», la interrompe Carlo Serravalli, 34 anni, massimo dei voti anche lui. Un falso precario. Nel senso che, appena specializzato, ha avuto la prima cattedra. Per tre anni di fila. «Mi sentivo quasi come un assunto, Fioroni aveva annunciato 150mila assunzioni, io ero tra quelli». Adesso anche lui non sa che fine farà.

l’Unità 3.9.10
La scuola alla deriva
Un ministro senza vergogna
di Francesca Puglisi
Responsabile Pd della scuola

Il libro dei sogni del ministro Gelmini contrasta con la drammatica realtà della scuola e dei problemi che si riverseranno sulle famiglie: l’anno scolastico parte con 50.000 classi senza insegnanti, 16.000 scuole senza presidi, 8 miliardi di euro in meno in tre anni e 170.000 lavoratori della scuola pubblica lasciati per strada dopo anni di lavoro. Il resto sono solo chiacchiere e numeri che non hanno alcun riscontro nella realtà. I nostri ragazzi toccheranno con mano i problemi della scuola, vivendo in aule sovraffollate, sopportando interminabili ore di lezione frontale, con la matematica somministrata come una purga e la fisica o l’informatica studiata sui libri e non nei laboratori, grazie al taglio degli insegnanti tecnico pratici. La Gelmini pensa di raggiungere l’obiettivo imposto dall’Europa 2020 di dimezzare la dispersione scolastica, legando gli studenti ai banchi con le pesanti catene dell’ordine e disciplina e non accendendo in loro la passione per la scoperta e la conoscenza, unendo il sapere al saper fare.
Le bugie del Ministro saranno smascherate dai genitori che scopriranno quanto preziosi erano i bidelli tagliati che non lasciavano in stato di abbandono i bambini della primaria mentre andavano in bagno o che dovranno accettare che il figlio con disabilità non ha più diritti uguali di apprendimento perché avrà pochissime ore di sostegno. Di fronte alle dichiarazioni in libertà della maggioranza, la decenza impone di ricordare che il Governo di centrosinistra aveva fatto diventare legge l'assunzione in ruolo di 150.000 precari della scuola.
Gelmini, cancellando le cattedre, sta invece licenziando un numero di lavoratori equivalente a due Alitalia all'anno, ma in questo strano Paese, neppure lo sciopero della fame di giovani madri di famiglia licenziate dallo Stato riesce a dare uno scossone alle coscienze addormentate. Le altre balle del Ministro riguardano il Tempo Pieno. Dà numeri in percentuale di incremento, chiamando tempo pieno un tempo lungo parcheggiato: cos'altro possono essere 8 ore al giorno trascorse con un maestro unico senza compresenze? Con una popolazione scolastica in crescita e genitori che continuano a bocciare il maestro unico, cresce il numero di famiglie che lo hanno chiesto senza ottenerlo. I dati sono poi drammatici per la scuola dell'infanzia: migliaia di bambini non vedranno una scuola fino all’età di 6 anni. Fortunati i piccoli della Regione Toscana che andranno ad occupare le 96 sezioni di scuola dell'Infanzia a cui lo Stato ha negato gli insegnanti. Non rimarranno a casa perchè Enrico Rossi ha deciso di aprire le porte di quelle scuole, investendo 4 milioni di euro e dimostrando che, in tempo di crisi, Governare in un altro modo si può.

il Fatto 3.9.10
Il diritto all’istruzione e la Costituzione
Genitori-cittadini, è l’ora della sveglia
Classi come nuovi ghetti e il più grande licenziamento del settore: ecco l’esito della “riforma”
di Marina Boscaino

Dico a voi, genitori, nonni, zii, ragazzi. Cittadini. Lo so, la lettera è “vetero”, come ci hanno fatto credere di idee, principi, valori su cui vorrei riflettere. Svenduti dall’aggressività neoliberista e dal macabro progetto culturale di chi ci governa: come la lettera, roba d’altri tempi. Comodo per plasmare menti e coscienze al pensiero unico: sbarazzare il campo da ogni ostacolo. E far pensare che alcune radici della Repubblica puzzino
di stantio. La Costituzione, ad esempio. Che va invece tutelata da retorico buonismo, inerzia e manipolazione, rivendicando, con orgoglio e passione, il mandato attribuito a noi insegnanti dalla Carta: formare cittadini consapevoli. È sempre più difficile, da questo non-luogo a cui hanno ridotto la scuola. Fuori dai cancelli, i ragazzi si trovano in un mondo che li sollecita esattamente nella direzione opposta: il re per una notte, il tronista, il famoso, lo spiato che ammicca alla telecamera. Maschere (tragiche) dell'ossessione collettiva, prese in prestito dalla videocrazia per sostanziare la realtà.
La scuola è di tutti, ci hanno insegnato. Scuola, sanità e giustizia: ce l’hanno ripetuto. Allora perché in prima pagina solo a colpi di precari in mutande sui tetti o in sciopero della fame? Perché non bastano la disillusione, la sfiducia nelle istituzioni e nel futuro di tanti quarantenni ai quali un ministro si può permettere di dire: solidarietà, ma voi pagate per tutti? Pagate il conto al sistema che vi ha creato e sfruttato per anni. Io, intanto, appoggio Marchionne. E dismetto qualsiasi responsabilità rispetto all’illegittimità delle procedure che stiamo assumendo e alla crisi sociale innescata dal più grande licenziamento di massa della storia della scuola. Parole in libertà, suggestive e mediaticamente efficaci, per solleticare il bisogno di certezze di chi si è smarrito. O non si è mai trovato. Alle quali non corrisponde in nessun modo alcuna realtà. Parla rivolgendosi a voi, audience, che fate share. A molti di noi non si rivolge più, se non per bacchettarci, darci dei fannulloni, degli incompetenti, degli assenteisti; minacciarci, se “facciamo politica”: TremonBrunetta-pilotata, come la giovane Ambra da Boncompagni. Non produce pensiero originale, questo ministro della Repubblica. I suoi slogan sono sintesi market oriented di ciò che hanno deciso altrove. Lei ha il compito di metterci la faccia.
E lo fa in maniera impudica, perché inconsapevole: millantando potenziamenti di materie in una scuola superiore in cui si taglia tutto, dagli orari alla carta igienica; di legalità, mentre viola norme democratiche per portare a casa la “riforma” (il taglio di 8 miliardi) che il ministro dell'Economia le ha commissionato; di diritti, costringendo bambini e ragazzi in scuole non bonificate da Eternit, in cui vengono stipate aule a dispetto di qualsiasi norma di sicurezza, in cui viene calpestata, elusa, umiliata la legge per il sostegno alla diversabilità, che tutta l’Europa ci invidia. Ma di cui incultura politica e insensibilità sociale sviliscono la portata. Vi parla di uguaglianza, restaurando una scuola di classe, che divarichi destini e immobilizzi origini sociali. Creando ghetti sempre più segregati, per i figli di un dio minore: di colore, di religione, di nascita differenti dai futuri quadri, immaginati in un triste progetto di società; non troppo colti, purché provvisti di potere d’acquisto, consumatori acritici, prodotto della dismissione della grande idea di una scuola inclusiva ed emancipante che ha animato le intenzioni dei costituenti.
D’accordo, potrebbe non toccare ai nostri figli, ai nostri nipoti, ai nostri alunni: noi saremo abbastanza forti da tutelarli. Ma ai miei Lorenzo e Margherita, che iniziano rispettivamente la scuola secondaria di II e di I grado proprio nell’anno 0 della “riforma epocale” e a tutti i miei alunni, anche i meno sensibili, non mi stancherò di cercare di far capire che la democrazia si basa sulla difesa dei diritti collettivi e dell’interesse generale. E che il privilegio di una buona partenza non esenta dal dovere della partecipazione e dalla testimonianza dell’indignazione. Perché silenzio è uguale a morte.

il Fatto 3.9.10
Forse c’è un’altra strada
di Michele Boldrin

La nuova sceneggiata è servita. Da un lato i precari della scuola che fanno lo sciopero della fame e un sindacato che vuole solo mantenere lo status quo. Dall’altra un ministro che si vanta dei propri tagli senza capire (i suoi consiglieri non gliel’hanno evidentemente spiegato) che il problema è come è organizzata e gestita la scuola italiana. In mezzo i media che, anziché documentare le colpe d’una parte e dell’altra (e la necessità di una svolta), alimentano la polemica. Ulteriore fotografia, se ce ne fosse bisogno, di una classe dirigente uniformemente inetta.
È chiaro a chiunque non abbia fette di salame ideologico sugli occhi che l’ennesima apertura caotica dell’anno scolastico è il frutto di scelte miopi e accomodanti di questo governo e di molti che l'hanno preceduto. Oltre che di politiche sindacali improntate al più bieco corporativismo e alla massimizzazione della spesa, invece che alla sua efficienza e produttività. Così come è chiaro (fuorché alla Gelmini e a Tremonti) che la soluzione non consiste in miopi tagli orizzontali, ed è chiaro (fuorché ai sindacati) anche che non è spendere di più e impedire i cambiamenti nell'organizzazione del lavoro.
Eppure, se l’obiettivo fosse far funzionare meglio la scuola italiana, il problema si potrebbe risolvere. Ecco gli ingredienti in ordine sparso. Decentralizzare per davvero le decisioni di assunzione e impiego del personale lasciando completa autonomia contrattuale ai provveditorati. Trasformare ogni scuola in una cooperativa d’insegnanti a cui lo Stato dà in concessione a tempo indeterminato (a un prezzo che copra l’ammortamento) le strutture fisiche. Chi assumere (e a che condizioni), chi promuovere, premiare o licenziare, lo decide la cooperativa. O, al massimo, il provveditore. E che il migliore, se vuole, venda i propri servizi a un prezzo (regolato) maggiore. Gli insegnanti di qualità costano, come i luminari della medicina.
E i soldi? Buoni scuola uguali per tutti gli studenti, finanziati con le imposte e spendibili nella scuola di propria scelta. Ciò che conta è il finanziamento pubblico dell’istruzione, fattore di progresso economico e uguaglianza sociale, non la sua gestione diretta. Che, come l’esperienza dimostra, porta spesso a inefficienze e assurdità. E i programmi? E la qualità dell’insegnamento? Ci pensa il ministero. Programmi minimi e uniformi a livello nazionale, con aggiunte volontarie locali e qualità dell’insegnamento testata con esami nazionali (basta con regioni dove le lodi si regalano). A questo si dovrebbe dedicare il ministero che, con questa riforma federalista, si svuoterebbe di migliaia di inutili funzionari, liberando risorse per chi l’insegnamento lo produce davvero. Ossia gli insegnanti capaci e volenterosi, in collaborazione con alunni e famiglie.
*Washington University in Saint Louis

Repubblica 3.9.10
I call center delle cattedre
di Chiara Saraceno

La scuola non può continuare a funzionare facendo conto largamente su insegnanti precari, il cui contratto è rinnovato annualmente (quando va bene), senza nessuna garanzia non solo per la continuità del rapporto di lavoro ma anche per la continuità didattica.
E per la possibilità di sviluppare progetti formativi di medio-lungo periodo. Se le cifre presentate ieri dal ministro Gelmini – 200.000 precari a fronte di 700.000 con cattedra di ruolo – sono giuste, segnalano un sistema organizzativo che affida il proprio funzionamento per quasi un terzo a rapporti di lavoro, ma anche e soprattutto formativi, senza continuità. È peggiore di quanto avviene nell´industria e si avvicina alla situazione dei call center. Salvo che ciò che produce la scuola non sono automobili o lavatrici, e neppure servizi di informazione. E gli studenti non sono pezzi da assemblare su una catena di montaggio, o clienti cui dare qualche informazione preconfezionata o da smistare ad un altro numero. Se gli studenti italiani rendono meno in media della maggioranza dei loro coetanei degli altri Paesi, forse è anche per questo: sono più esposti ad un turnover sistematico di docenti, a loro volta poco incentivati ad investire nel conoscere meglio i propri studenti, nel trovare formule di insegnamento efficaci. Perché un anno sono in un posto, l´anno dopo, se va bene, in un altro. Ha ragione quindi la ministra a dire che la situazione non è più tollerabile. Ma ha torto sia nelle cause che individua per questo rapporto abnorme tra precari e regolari, sia nella soluzione che ha trovato, ovvero mandarli a casa con un´operazione di licenziamento (di fatto, anche se formalmente si chiama mancato rinnovo) di proporzioni enormi, che coinvolge, tra l´altro, soprattutto donne.
Se la massa degli insegnanti precari è cresciuta a dismisura, non è innanzitutto, come invece sostiene Gelmini, perché si è fatto un uso clientelare e assistenziale delle supplenze. Piuttosto, analogamente a quanto avviene nell´industria, i vari governi che si sono succeduti hanno trovato comodo, anche con la complicità dei sindacati, utilizzare le supplenze come tappabuchi organizzativi, anziché procedere ad una seria programmazione del reclutamento e della mobilità degli insegnanti. Per cominciare a sciogliere questi nodi occorre innanzitutto distinguere i due aspetti della questione: quello dell´organizzazione scolastica e in particolare della offerta formativa, e quello dei lavoratori che dopo anni di precariato di colpo si trovano senza lavoro.
A sentire le parole della Ministra, sembra che la riduzione del numero degli insegnanti avrà l´effetto miracoloso di rafforzare la qualità dell´insegnamento. Se è vero che la situazione precedente era lontana dall´essere soddisfacente, non è chiaro tuttavia come la riduzione tout court degli insegnanti possa di per sé produrre effetti positivi. Insieme alla razionalizzazione delle risorse e alla riduzione degli sprechi, occorre procedere a una verifica sistematica dei problemi formativi e delle loro cause. Ad esempio, i risultati del test INVALSI confermano la necessità di un fortissimo investimento nei servizi educativi il più precocemente possibile e per un tempo scuola di qualità ampio, per contrastare handicap sociali e ambientali. Invece le regioni meridionali sono quelle in cui ci sono meno nidi di infanzia, in cui le scuole materne sono spesso ancora a tempo parziale e il tempo pieno alle elementari è pochissimo diffuso. Analogamente, i più alti tassi di fallimento scolastico negli istituti tecnico-professionali (frequentati di norma dai figli delle classi sociali più modeste) rispetto ai licei dovrebbero indurre non solo a un rimaneggiamento delle materie, come è avvenuto con la riforma delle superiori, ma ad una politica di sostegno ai processi di apprendimento.
Tutto ciò non risolverebbe automaticamente la questione dei precari che rischiano di perdere il loro posto di lavoro, anche se in parte ne conterrebbe il numero, avviando un percorso di regolarizzazione che li faccia uscire, appunto, dalla precarietà. Tuttavia, se non tutti possono essere assorbiti, il ministero, lo Stato, non può lavarsene le mani come se non fosse un problema da esso stesso creato. L´accesso a un incarico annuale non è un diritto. È, dovrebbe essere, un diritto, un sostegno al reddito decente e l´accesso a opportunità di ricollocamento.
È vero che ci sono problemi di bilancio. Altri Paesi tuttavia, pur con performance scolastiche migliori, hanno tagliato su molte cose, ma hanno aumentato le risorse per la scuola, intendendole come investimento nel futuro. Da noi invece si taglieranno un po´ di stipendi per pagare la carta igienica.


l’Unità 3.9.10
In manicomio con Celestini
(...credendo di non essere matti)
«La pecora nera» non è un film di denuncia, ma una benedizione poetica tra Pasolini, Brecht e Basaglia «Criminali non sono i manicomi, ma l’idea stessa che qualcuno possa decidere della libertà di un altro»
di Alberto Crespi

Nel contesto di questi primi giorni di Mostra, La pecora nera è una benedizione: finalmente un bel film, dopo incredibili schifezze come il film d’apertura (Black Swan di Aronofsky) o ambigui monumenti alla correttezza politica (Miral di Schnabel, ne parliamo in altra pagina). Ma non ci sembra il modo giusto di parlarne: Ascanio Celestini, grande teatrante/affabulatore al primo film, non ha il compito di salvare Venezia da se stessa. Il suo film ha una lunga storia che prescinde dal Lido. Che sia in competizione è un incidente di percorso.
Prima di diventare un film, La pecora nera è stato uno spettacolo teatrale in forma di monologo ed un romanzo (editi in cofanetto da Einaudi). Apparentemente è la storia di un caso clinico. Un ragazzino nato «nei favolosi anni 60» (la frase è un tormentone che in teatro ricorreva spesso, nel film meno) cresce in una condizione di disagio, con una nonna affettuosa e ingombrante, un padre e dei fratelli violenti, una madre rinchiusa in manicomio. Dopo aver assistito all’omicidio di una prostituta, uccisa dai fratelli, il piccolo Nicola viene anch’egli ricoverato e sottoposto a elettroshock. Come suol dirsi, chi entra in manicomio sano diventa matto per forza. Anni dopo – nel 2005, nei giorni della morte di Papa Wojtyla – Nicola ha sviluppato una forma di schizofrenia che lo spinge a sdoppiare il sé «normale» con un alter ego folle. La trama non prevede scioglimenti: il manicomio è diventato un habitat, uno stile di vita. Non a caso il film si apre con la famosa barzelletta, che la voce di Celestini racconta fuori campo, dei due matti che tentano di fuggire dal manicomio dai 100 cancelli, i due matti ne scavalcano 99 e, all’ultimo, si stufano e tornano indietro.
Abbiamo «sciolto» in una trama temi e situazioni che Celestini a teatro snoda in un monologo avvincente e inquietante, e che al cinema – con l’aiuto degli sceneggiatori Ugo Chiti e Wilma Labate – si evolve in una serie di tableaux vivants, di bozzetti autosufficienti. C’è molto Brecht nello stile volutamente non naturalistico, e c’è molto Pasolini nell’occhio cinematografico che Celestini si inventa per questo suo primo film (non casuale, anzi, decisivo l’apporto del direttore della fotografia Daniele Ciprì, già partner di Franco Maresco in Cinico Tv). Ma l’apparente limpidezza del film nasconde una complessità che darà vita a polemiche e fraintendimenti. È facilissimo leggerlo come un film sulla pazzia, sulla 180, su Basaglia, e trovarlo poco realistico, poco «di denuncia». La verità è che Celestini usa il manicomio per parlare d’altro, e nessuno è in grado di spiegarlo meglio di lui: «Non volevo fare un film, né uno spettacolo, di denuncia. Per questo non è ambientato nel ’78, all’epoca della legge 180, e non parla di Basaglia anche se parte da Basaglia. Anni prima della legge, egli scrisse del manicomio paragonandolo ad altre istituzioni come la scuola, il carcere, la famiglia, la caserma. Ecco, io non credo che il manicomio o il carcere siano istituzioni criminali perché vi avvengono abusi o violenze: credo che sia criminale l’idea stessa di istituire simili istituzioni, perché è criminale che qualcuno decida della libertà di un altro. Se ci si limita al manicomio, allora ogni dibattito viene chiuso dalla risposta che diede una paziente di Perugia intervistata sulla legge 180. Disse: ma perché ci avete chiuso i manicomi, stavamo così bene, mangiavamo cacavamo e pisciavamo come matti. Il manicomio riduce un adulto alla dimensione di un bambino col pannolino. Ed è ovvio che qualcuno ci stia bene, e non voglia crescere».
La pecora nera è la storia di un’Italia non cresciuta, rinchiusa nel mito dei «favolosi anni Sessanta». È un film su di noi, anche se crediamo di non essere matti.

l’Unità 3.9.10
Maya Sansa «Sono catene anche gli psicofarmaci»
di Gabriella Gallozzi

Momento d’oro per l’attrice amata da molti cineasti italiani da D’Amelio a Celestini. E per Miller ha fatto l’«indiana»...

Con i nomi «pesanti» del nostro cinema ha già lavorato. Bellocchio, Mazzacurati, Giordana, Diritti. L’ultimo, Gianni Amelio, che le ha fatto indossare i panni della mamma di Camus ne Il primo uomo, di prossima uscita. E, ancora, un esordiente nel cinema, ma già di «peso»” non solo in teatro come Ascanio Celestini. Maya Sansa è qui al Lido, infatti, tra gli interpreti di La pecora nera, primo dei quattro italiani in corsa per il Leone d’oro. Per lei il ruolo di Marinella, la ragazzina che Nicola-Ascanio ha amato fin dalla scuola e che ritrova, da adulto, in quell’altro luogo di follia che è il supermercato. Marinella è lì, sempre bella e gentile, ma sconfitta anche lei dalla vita che l’ha portata a fare la promoter per una marca di caffè. «Quando Ascanio mi ha proposto la parte – dice l’attrice – non mi sono posta tante domande. Anche perché il disagio mentale lo conosco attraverso alcune persone molto care. E per la mia esperienza sono convinta che tutt’ora – anche in Francia – la psichiatria faccia un uso sconsiderato di psicofarmaci». Un modo per «annullare, per zittire l’individuo. Basaglia o non Basaglia quello che si fa di fronte al disturbo mentale è rinchiudere in clinica e poi imbottire di psicofarmaci. In questo modo la violenza è continua».
Maya Sansa si dice certa che «la società dovrebbe aiutare a convivere e non a segregare. Chi sono i sani o i malati? La differenza è tra chi si è integrato e chi no nella società. Quante persone dall’apparenza sana posso essere pericolose e cattive?» In questo senso ritiene La pecora nera un film politico? «Mah, tutto è politico».
E lei che vive a Parigi da sei anni la “politica” italiana continua a seguirla. «L’Italia di Berlusconi è vista dai francesi più o meno come la Francia di Sarko. Anche se nella stessa destra francese c’è chi detesta Berlusconi». Le mancate politiche culturali italiane, poi. Si dice contro i tagli alla cultura, «perché i finanziamenti pubblici sono necessari. Forse la riflessione che va fatta è su chi decide dei finanziamenti. Come vengono dati e a chi, perché non si punta mai sul coraggio, la qualità. E invece si copia il modello americano, col pacchetto tutto pronto. Quando hai un bravo regista non puoi imporgli l’attore. Invece questa è la norma».
Maya Sansa, però, confessa di essere in un momento felice per il suo lavoro. Anzi ha da poco interpretato il «ruolo dei suoi sogni». Ha indossato gli abiti di una nativa americana nell’ultimo film di Claude Miller, Guardate come danza. Una storia contemporanea in cui, dice sorridendo, «ho fatto l’indiana, quello che tutti sognano fin da bambini». E un rammarico? «Non aver potuto accompagnare nelle tante proiezioni ed iniziative L’uomo che verrà, di Giorgio Diritti, per motivi di lavoro». Il film sulla strage di Marzabotto che, vale la pena ricordare, lo scorso festival di Venezia non ha voluto in concorso.

giovedì 2 settembre 2010

Panorama 10.7.2009
Massimo Fagioli, da medico dei pazzi a medico dei sani
di Pietrangelo Buttafuoco

http://www.scribd.com/doc/17402663/Panorama-Buttafuoco-10072009

Ci voleva un elettroshock per i radicali. A somministrarglielo, manco a dirlo, Massimo Fagioli. Caposcuota di setta psichiatrica di derivazione comunista, ma romantica, Fagioli è una benedizione per il paesaggio culturalpolitico nazionale. Vate di un pensiero scientifico ad alto tasso eversivo, Fagioli ha dato una gran bella scossa ai radicali riuniti a Chianciano dal 26 al 28 giugno.
Si trattava dell'Assemblea dei mille, ovvero, una superfetazione d'assise fabbricata per radunare le residue realtà della sinistra Una platea, insomma, dove Fagioli, con un appello alta sanità di mente, ha ricavato una pioggia di applausi tanto da impensierire Marco Pannella, che pure lo aveva voluto alla presidenza (ma non al punto di consegnargli la scena).
In tema di strizzacervelli prestati alla politica in principio ci fu il solo Armando Vermiglione, coincise con l'età craxiana, ma questo exploit del personaggio Fagioli spiega anche la nuova stagione della politica in «inconscio mare calmo»'. Sebbene in età, Fagioli non è ancora noto al grande pubblico ma è perfetto per il largo successo. Ecco il suo monito: «Che la sanità di mente diventi un bene reale, possibile e condiviso». La cura non è un'opinione, ma un «fatto storico». Non sarebbe il proletariato dei sani di mente quello che ha in mente Fagioli (i cui seguaci sono detti fagiolini) ma il partito in guerra contro la patologia dei pazzi: è canovaccio degno di Luigi Pirandello. E così si potrebbe definire.
Sani laici e liberi dunque. E devono essere di solida pazienza questi radicali a farsi travolgere così da Fagioli, perché, diciamolo, lui è proprio un eversivo. La trasformazione detta società, della persona e della mente, secondo lo psichiatra che fa vanto di una libreria molto chic, Amore e Psiche, in quel di Roma (zona centro), è tutta risolta nella frantumazione del dogmatismo. Ma se per Pannelta il gioco è innocuo, tutto virato sul conflitto piccoloborghese contro la partitocrazia del Pci e della Dc, con Fagioli, invece, il discorso si fa duro: contro i negazionisti della malattia mentale e contro la potente menzogna della psicoanalisi freudiana.
Il dottor Fagioli non è solo un immaginifico della schiatta dei geni, ma un potente contravveleno nella marmellata conformista perché, insomma, ha turbato gli spasmi di Rifondazione comunista (la storia è nota, fino a preparare la scalata degli azionisti su Liberazione) ma ha anche fatto un'iniezione di adrenalina ai radicali e agli atomi di altri gruppuscoli riuniti nell'ennesimo congresso della sinisteritas in cerca di ricco utero. Fagioli che ha un carismaccio tutto suo, perfetto per un mondo piccolo e di aristocratica nicchia, non manca di eleganza: risulta simpatico anche quando viene insultato. Giusto un anno fa, a seguito del dilaniarsi di Rifondazione comunista, così lo dipingeva Nichi Vendota: «Finge di ispirare un percorso di non violenza e poi taglia a fette gli altri. La verità, temo, è che su un lettino, a farsi psicanalizzare, dovrebbe finirci lui... È un uomo pieno di ossessioni, di pregiudizi... è un omofobico, un anticattolico, un anziano che detesta i giovani, i loro sogni e chi questi sogni ti racconta».
Ricercatore non banale, Massimo Fagioli, ha lavorato a Venezia e a Padova, quindi a Kreuzlingen in Svizzera. Dopo la trafila ortodossa, nel 1971 rompe con gli ambienti psicoanalitici pubblicando Istinto di morte e conoscenza, La marionetta e li burattino nel ig e Psicoanalisi della nascita e castrazione umana nel 1975. La sua elaborazione teorica gli costa l'espulsione dalla Società psicoanalitica italiana (1976).
È il fagiolismo, dunque. Ragazze dalle belle ambizioni s'imbronciano di charme nello scoprirsi fagioline, coppie del jet set radical (come Luca Bonaccorsi e la bella Ilaria, editori di Left; nata dalle ceneri di Avvenimenti) si aggiudicano la compagnia del dottore che sa fare la sinistra per «una ideologia compensante i fallimenti ideologici del '68 e del '77».
In tutto questo furor di Fagioli non è mancata la reazione della sinistra fuor di terapia n tema di metafora). Antonello Armando e Albertina Seta, raccogliendo materiale di un blog, hanno costruito un libro dal titolo /I Paese degli smeraldi (edizioni Mimesis, 18 euro) allo scopo di dare voce agli ex pazienti. Un racconto feroce allestito per demolire quell'epica nata a Villa Massimo, all'Università di Roma dove, tra i folgorati di Fagioli, ebbe genio e fotografia Marco Bellocchio. A presentare il libro, giusto per servire una gustosa portata di vendetta, Piero Sansonetti, il direttore di Liberazione a suo tempo giubilato. Ma la cura, assicura Fagioli, è solo un «fatto storico>'. E fatto è che da medico dei pazzi Fagioli vuole farsi medico dei sani. Senza più Freud, con Pirandello piuttosto.

Repubblica 2.9.10

"Tortura psicologica per mia madre Sakineh"
Il figlio: "Sabato le hanno detto che all´alba l´avrebbero lapidata". L´Europa si mobilita
di Anais Ginori

Appello in Francia per liberare anche un 18enne iraniano condannato a morte perché gay

PARIGI - Davanti a Palazzo Chigi, sulla facciata del Campidoglio, nel centro di Firenze. Il volto di Sakineh, incorniciato dal velo nero, sta diventando un´icona, il simbolo di una battaglia diventata ormai internazionale. «L´Italia e gli italiani sono dalla parte di Sakineh» hanno detto i ministri Franco Frattini e Mara Carfagna, che hanno deciso di stendere una foto dell´iraniana condannata alla lapidazione sul palazzo del ministero delle Pari Opportunità, davanti alla sede del governo. «Un´azione senza precedenti - hanno spiegato Frattini e Carfagna - per mobilitare le coscienze e contribuire a salvarla da una sentenza brutale ed inaccettabile, la lapidazione». Un´altra gigantografia è comparsa a Firenze, in piazza del mercato di San Lorenzo, e l´immagine di Sakineh comparirà oggi anche in piazza del Campidoglio, mentre nel pomeriggio è prevista la prima manifestazione nella capitale.
Il conto alla rovescia per la morte di Sakineh, rinchiusa nella prigione di Tabriz, nel nord del paese, va veloce. Anche se ufficialmente il regime iraniano ripete che «nulla è stato ancora deciso» e che la pena è sospesa, sabato scorso alla donna è stato chiesto di dettare le sue ultime volontà. Sakineh, ha raccontato il figlio Sajad, è stata costretta a scrivere il testamento, abbracciare i suoi compagni di cella. Le autorità le hanno annunciato che sarebbe stata uccisa l´indomani mattina all´alba. L´esecuzione poi non c´è stata ma, secondo i famigliari, la messa in scena è l´ennesima «tortura psicologica» contro l´iraniana, che ha già subito 99 frustate per l´accusa di adulterio. «La stanno uccidendo ogni giorno con tutti i mezzi possibili» ha detto Sajad, 22 anni, che ha appreso della finta esecuzione nei confronti della madre al telefono, in una delle rare volte in cui gli è stato permesso di chiamarla.
A Parigi, dove la mobilitazione per Sakineh è incominciata qualche settimana fa, il ministero degli Esteri è tornato a parlare della vicenda. Gli insulti e le minacce a Carla Bruni-Sarkozy, pubblicate dal giornale ultraconservatore iraniano Kayhan, hanno lasciato il segno nei rapporti con Teheran. Nonostante il regime iraniano si sia dissociato, il portavoce del Quai d´Orsay, Bernard Valero, ha definito «inaccettabili» gli articoli pubblicati dal giornale dell´ayatollah Ali Khamenei. Ieri, la Francia ha aperto un altro fronte, chiedendo la liberazione di Ebrahim Hamidi, giovane iraniano di 18 anni condannato a morte per impiccagione perché omosessuale. Secondo il ministero degli Esteri francese questo nuovo caso sottolinea «il degrado costante dei diritti umani in Iran». Per Ebrahim è stato pubblicato un appello di alcuni intellettuali, tra i quali Philippe Besson, Atiq Rahimi, Jonathan Littell e Claude Lanzmann.
Un altro caso, quello della giornalista Shiva Nazarahari, è stato denunciato dal filosofo e scrittore Daniel Salvatore Schiffer, già promotore dell´appello per Sakineh. «Questa giornalista iraniana di 26 anni - racconta Schiffer - sarà processata il 4 settembre soltanto per aver scritto articoli sgraditi al regime, e anche lei rischia la vita».
Oggi pomeriggio sarà organizzato un presidio davanti all´ambasciata iraniana a Roma. «Chiediamo a tutte le forze democratiche di partecipare senza vessilli di partito» ha detto Angelo Bonelli, presidente nazionale dei Verdi, promotori della protesta cui parteciperanno anche Pd e l´Idv. Altre mobilitazioni sono previste in Europa, una fiaccolata sarà organizzata la settimana prossima davanti al parlamento di Strasburgo. A Sakineh non resta che questo. «Mia madre è ancora viva - ha detto il figlio Sajab - proprio grazie alla campagna internazionale per il suo rilascio».

Repubblica 2.9.10
Le minacce alla Bruni
Parla la regista iraniana Shirin Neshat: "I media non abbandonino chi si oppone all´oppressione nel mio paese"
"Solo la pressione internazionale può intimorire il regime di Teheran"
Se Sakineh è ancora viva è anche grazie a Carla Bruni Per questo i giornali la insultano: vogliono togliere valore alle sue parole
di Arianna Finos

VENEZIA - «Se Sakineh è ancora viva è grazie anche a Carla Bruni. Per questo i quotidiani iraniani le danno della prostituta e la minacciano di morte: la denigrano per togliere valore alle sue parole. Perché al regime di Teheran non basta imprigionare, torturare e uccidere centinaia di dissidenti: ha bisogno di uccidere anche le parole. Far sì che le menti degli iraniani restino vuote, non siano avvelenate dalle idee». La videoartista iraniana Shirin Neshat esprime la sua indignazione con voce pacata. Della condizione femminile nelle società musulmane ha raccontato attraverso le fotografie e il film da regista, Donne senza uomini, premiato l´anno scorso con il Leone d´argento alla Mostra di Venezia.
«La posizione di Carla, in un Paese come la Francia dove ci sono tensioni per il velo bandito delle donne musulmane, è ancora più importante. Molti personaggi famosi non hanno voglia di esporsi, l´ho constatato mentre lavoravo alla petizione per liberare il regista Jafar Panahi. E invece è proprio il megafono internazionale che mette pressione al governo iraniano».
Qual è il sentimento degli iraniani, oggi?
«Paura. Paura del regime, ma anche di essere abbandonati dai media internazionali. Nei giorni dell´Onda verde il popolo si sentiva sostenuto da tutto il mondo, ma poi i riflettori si sono spenti e il governo ha iniziato una sistematica operazione di repressione. Quelle belle donne che avete visto manifestare per le strade di Teheran sono state imprigionate, torturate, uccise. Miei cari amici, che sono stati arrestati, mi hanno rivelato atrocità indescrivibili, uno sterminio che prima o poi verrà alla luce. E per un regista come Panahi che si riesce a far scarcerare, tanti cittadini anonimi muoiono. Tra loro Sakineh, costretta a due false confessioni in tv. Servono per dare l´esempio a tutti».
Le donne iraniane combattono una battaglia sotterranea.
«Tanto più il governo alza la pressione sulle donne, tanto più loro si organizzano in una protesta segreta. Ci sono sempre più donne che fanno gli avvocati per difendere altre donne, c´è un movimento femminile che si batte per la democrazia, ma non trova ascolto nei media. Da questo punto di vista il governo ha fatto un buon lavoro, chiudendo ogni giornale che lasciasse trapelare queste idee. Ma le nuove tecnologie, Internet, facebook, non rendono più possibile occultare questa realtà.
La condanna alla lapidazione di Sakineh che reazioni suscita nella gente iraniana?
«É una società in stato di choc. Dopo l´Onda verde il governo, dimostrando la sua disperazione, ha scelto di tornare alla repressione totale estirpando ogni tipo di opposizione. La storia di Sakineh gli si sta rivoltando contro. Nessuno avrebbe mai immaginato che in questo momento storico l´Iran fosse un Paese in cui si possono applicare condanne d´altri tempi. Eravamo una società colta e moderna, oggi siamo governati con modi talebani. Questo non appartiene allo spirito della nostra gente».

l’Unità 2.9.10
Lottare per la scuola
Il governo toglie il futuro ai giovani
di Domenico Pantaleo
segretario generale Flc-Cgil

Le politiche del governo sul sistema d’istruzione, formazione e ricerca sono lo specchio di una concezione regressiva ed autoritaria della società basata sulla svalorizzazione del lavoro, sulla riduzione dei salari, sulla cancellazione di diritti sociali e di cittadinanza, sulle discriminazioni di ogni diversità e sul restringimento degli spazi di democrazia e di libertà.
La privatizzazione dei saperi è al centro del conflitto perché s’intende trasformare la conoscenza da bene comune a disposizione di tutti, come sancito dalla nostra Costituzione, a opportunità offerta a coloro che possono pagare.
Per queste ragioni il sistema pubblico d’istruzione paga un prezzo altissimo sul versante della qualità dell’offerta formativa e su quello dei diritti sia del personale che degli studenti.
Alle nuove generazioni viene negato il diritto al sapere e quindi alla possibilità di realizzare i propri sogni e questo genera un senso diffuso di sfiducia e di rassegnazione. Mai prima d’ora una crisi aveva colpito in maniera così drammatica i giovani . Basti guardare ai dati sulla disoccupazione e al fatto che oltre 900.000 giovani non sono né in formazione e né al lavoro. Dalla legge 133/2008 in poi fino alla manovra finanziaria 2010, approvata nel mese di luglio, abbiamo assistito ad una continua riduzione di risorse che hanno determinato l’espulsione di decine di migliaia di lavoratrici e lavoratori precari con particolare drammaticità nelle regioni del sud. Quest’anno i precari della scuola che non avranno le supplenze annuali saranno 20.000, che si aggiungono ai 22000 dell’anno scorso. Ad essi bisogna sommare i tantissimi precari dell’università espulsi a causa della riduzione del 50% delle risorse, determinata sempre dalla manovra finanziaria, la precarietà strutturale della figura del ricercatore prevista dal disegno di legge Gelmini. Contemporaneamente assistiamo alla morte lenta della ricerca pubblica.
In sostanza questo Governo ci allontana dall’Europa che considera educazione e formazione come condizioni necessarie per affermare un economia basata sulla conoscenza e una crescita sostenibile e inclusiva. Per queste ragioni dobbiamo difendere il valore della scuola pubblica, garantendo un adeguato livello di qualità, partendo dal rispetto della dignità del lavoro e dalla valorizzazione professionale delle competenze. Servono riforme profonde ma che siano sostenute da risorse adeguate e da un largo consenso e non viceversa da metodi autoritari, demagogici e populisti che nascondono il nulla.
Intendiamo mettere in campo nelle scuole pubbliche e private, nelle università, negli enti di ricerca una stagione di lotte che faccia crescere la consapevolezza nel Paese dei disastri che le scelte politiche ed economiche stanno producendo nelle istituzioni fondamentali per la formazione delle giovani generazioni, cioè di coloro che hanno in mano il futuro.

il Fatto 2.9.10
Affamati di lavoro
Senza cibo i precari della scuola
Da 15 giorni in sciopero della fame davanti a Montecitorio
di Caterina Perniconi

La cosa peggiore non è la fame, ma la notte”. Dormono in tre in una piccola tenda davanti a Montecitorio. Forse domani arriverà un camper dove potranno riposare meglio. I precari della scuola di Palermo che hanno dato il via a una forma di protesta estrema, che sta contagiando i loro colleghi in tutt’Italia, sono al 15esimo giorno di sciopero della fame.
Giacomo Russo, dopo il ricovero di ieri, è di nuovo in piazza. Ha il volto scavato, ma non demorde: “La mia residenza è questa per ora. Voglio avere delle risposte, sapere secondo loro come dovremmo campare tutti noi che abbiamo investito più di dieci anni nella scuola. Stiamo cercando di formare un coordinamento stabile di precari. Perché se precario significa ‘prima di’, il dopo non può non arrivare mai. Mi vergogno di essere contento di non avere ancora una famiglia da campare”. Cinque giorni fa a Giacomo Russo e Salvo Altadonna, si è aggiunta Caterina Altamore. Lei una famiglia ce l’ha eccome. Trentasette anni, precaria da 14, tre figli, viso da bambina incorniciato da lunghi capelli ricci. Lo scorso anno ha dovuto lasciare la famiglia in Sicilia, dove non avrebbe avuto un incarico annuale, per andare ad insegnare in una scuola primaria di Brescia. Lì, dove è stata inserita al fondo della graduatoria, ha preso comunque una cattedra sulle sponde del lago d’Iseo. Ha vissuto per un anno nella stanza di un residence, a 450 euro al mese, perché gli appartamenti in quella zona sono troppo cari per lei. “Ho deciso in viaggio, venendo a Roma, di fare lo sciopero della fame. Ho una patologia che me lo impedirebbe. Ma secondo il medico non dovrei nemmeno affaticarmi e stressarmi. E siccome è un anno che non faccio altro, allora tanto vale che la mia salute sia al servizio della scuola pubblica italiana”.
Trascorrono la giornata in piazza Montecitorio. La polizia passa continuamente, li osserva, li capisce. Transitano anche gli uomini della questura: “Siamo insegnanti, non siamo pericolosi” dicono i precari. “Forse siete pericolosi proprio perché siete insegnanti” rispondono loro. Hanno ragione. “Un popolo istruito e in grado di fare delle scelte spaventa – dicono i precari – noi siamo qui per avere delle risposte, non vogliamo aggredire nessuno, neanche il ministro, vogliamo solo dialogare. La Gelmini dice di aver fatto una buona riforma, ecco venisse a spiegarci dove lo è, siamo disposti ad ascoltarla”.
INTANTO OGNI giorno a piazza Montecitorio arrivano nuovi precari che portano la loro solidarietà, ma anche studenti e professori. Lasciano messaggi su un quaderno verde, il colore della speranza. E poi arrivano i politici. Tutta l’opposizione ha firmato un documento a sostegno dei precari dove s’impegna ad atti concreti per ridurre i tagli fatti con la 133. In calce i nomi di Antonio Di Pietro, Vincenzo Vita, Mario Barbi, Marco Rizzo, Cesare Salvi, Alba Sasso, Stefano Pedica e molti altri. “Lo vedete? C’è tutto il centrosinistra. É per questo che vorremmo vederli uniti a lottare per la nostra causa”.
NEL FRATTEMPO le procedure di assegnazione delle cattedre sono in ritardo, e 35 mila persone quest’anno non avranno un incarico, tra docenti e personale tecnico-amministrativo. “A una manciata di giorni dall’apertura delle scuole, migliaia di cattedre sono vuote e decine di migliaia di precari sono senza contratto – spiega Francesca Puglisi, responsabile Scuola del Partito democratico – mentre il governo pensa solo a leggi ‘ad personam’ e agli interessi del premier. Se la scuola pubblica è, come hanno immaginato i nostri padri costituenti, strumento di uguaglianza e libertà del nostro Paese, le forze democratiche che siedono in Parlamento, alla riapertura delle aule, concentrino la loro azione politica per salvarla dal massacro del governo”.
Lo stesso che chiedono i precari in piazza, disperati. Consapevoli però di aver aperto un processo a catena che sta coinvolgendo i loro colleghi in tutt’Italia. Da Pordenone a Benevento sono ormai decine i lavoratori della scuola che hanno deciso di rinunciare al cibo e alla salute in nome di un diritto, sotto lo slogan: “Affamati di cultura e di dignità”.

il Fatto 2.9.10
Se ci fosse il Pd
di Paolo Flores d’Arcais

Per un politico di professione che si collochi all’opposizione, mai periodo fu più promettente e facile. Si prenda l’ultima occasione, l’indecente show di abiezione morale (e servilismo affaristico) nei confronti di quel Gheddafi che i liberali occidentali hanno per decenni trattato da terrorista. A una opposizione democratica viene servita su un piatto d’argento la possibilità di scompaginare la maggioranza, moltiplicarne le contraddizioni, far precipitare i consensi tra i cittadini che pure la votarono: cattolici, atei, leghisti e chiunque serbi nell’animo un residuo di decenza. Scatenare in tutte queste direzioni la propria azione garantirebbe all’opposizione un successo immediato e travolgente. Se non fosse che l’amicizia indefettibile con Gheddafi fu fatta votare da D’Alema, con un vergognoso discorso a cui dissero “signorno!” solo tre parlamentari del Pd.
Oppure prendiamo i tre operai Fiom di Pomigliano, che vogliono solo lavorare, con la dignità garantita dalla Costituzione. Anche la più tiepida delle opposizioni avrebbe buon gioco a evidenziare come legalità e diritti sociali siano due facce della stessa medaglia, e a lanciare un’offensiva che contrapponga chi lavora per mille euro al mese e chi ne guadagna 400 volte di più (quattrocento) per fare strame della Costituzione e riportare le fabbriche italiane al livello della Cina comunista-liberista. Se non fosse che il Pd ha eletto in Parlamento proprio tanti piccolissimi Marchionne (che del resto aveva santificato), anziché dei riformisti “giustizia e libertà”.
Per non parlare dell’offensiva popolarissima che l’opposizione potrebbe condurre sulla sicurezza dei cittadini contro il “processo breve”, visto che regala a ogni tipo di delinquenza vagonate di impunità, e contro la legge bavaglio-intercettazioni (idem), se non fosse per i due anni di indulto e il progetto Mastella, munifici doni del centrosinistra alla criminalità.
Ma l’opposizione ha cose più importanti, su cui oltretutto litigare: se sia meglio imparare il francese o il tedesco.

Repubblica 2.9.10
Rossi contro gli "sbadigli" di Renzi "Se si piccona tutto non si vince"
Il sindaco di Firenze sappia che in politica un po´ di educazione non guasta. Poi certo il rinnovamento serve
di Giovanna Casadio

ROMA - «Con gli sbadigli certo non si vince», quindi Matteo Renzi, il sindaco pd di Firenze, avrebbe fatto meglio a mostrare «un po´ più di educazione che in politica non guasta, anche la sobrietà del linguaggio è importante». Enrico Rossi, il "governatore" della Toscana, ci tiene a togliersi questo sassolino dalla scarpa. Oggi il segretario Bersani (da Renzi inserito tra i dirigenti da «rottamare») approda a Firenze per inaugurare con Rossi la nuova sede regionale del partito. E anche il "governatore"- che dopo l´elezione in regione si sfogò contro «un Pd di fighetti» - ha un paio di cose da dirgli ma «costruttive, perché se si piccona tutto non resta nulla, si guadagna visibilità ma si rischia di mandare all´aria il partito».
Insomma presidente Rossi, per lei Renzi è uno dei "fighetti" del partito, per usare una sua definizione?
«No. Renzi è un dirigente politico che ha posto delle questioni al 70% sbagliate ma per il 30% dice cose giuste. Gli va data una risposta di merito».
Nel merito cosa gli va detto?
«Non si irride all´Ulivo. Mi meraviglio che il progetto ulivista così caro al mondo cattolico democratico, da cui lui viene, gli provochi noia. È invece l´unica risposta possibile per sbarrare la strada a Berlusconi, mettere insieme forze progressiste e distinguersi dalla sinistra estrema che non è interessata a governare ma a svolgere un ruolo di testimonianza».
Lei è pro Nuovo Ulivo?
«Non è che l´Ulivo garantisca di per sé la vittoria ma è la proposta che ha consentito di battere Berlusconi. Così si supera la autoreferenzialità e l´autosufficienza del Pd che ci ha portato alla sconfitta. Inoltre, è vero che ciò che si muove nello schieramento del centrodestra - Fini e in parte Casini - stanno in quella metà campo, ma sarebbe un errore sottovalutare l´importanza di quella crisi. Perciò l´opposizione deve incalzare una destra democratica, se esiste, per battere le derive populiste autoritarie e i processi brevi. E poi mai bisogna definire Berlusconi "il nonno", come ha fatto Renzi, perché i nonni per noi sono i padri della Costituzione».
Sostegno a Bersani senza sfumature, il suo?
«Bersani è stato eletto nove mesi fa segretario a stragrande maggioranza ed è il candidato premier. Rimetterlo in discussione non ci rende credibili. Se facciamo così finiremo col disgustare i nostri elettori. Comunque, in caso di primarie, se Renzi starà con Vendola e Chiamparino, io mi schiererò con Bersani».
Ma lei ha spesso insistito sul rinnovamento del partito?
«Il rinnovamento è indispensabile. È evidente che D´Alema e Veltroni rappresentano un´epoca finita e devono riservarsi un ruolo distante dalla lotta politica immediata e dare un contributo politico-culturale. Dopo di che, ciascuno ha avuto la sua storia. Anche Renzi ha avuto un riferimento politico ed è stato Francesco Rutelli, che ha lasciato il Pd. Bisogna rinnovarsi nei gruppi parlamentari, ad esempio, con gente nuova».
Su cosa va pungolato il segretario del Pd?
«La proposta politica democratica va subito sostanziata e deve riguardare la giustizia sociale, la riforma del fisco, la scuola e la sanità. Battiamo un colpo sulle cose concrete, usciamo dal politichese. Quando leggo che al centro del dibattito c´è la legge elettorale - problema importante e anche noi in Toscana cambieremo la nostra - penso che non è in questo modo che si combatte la delusione del nostro elettorato».

l’Unità 2.9.10
Lo show di Gheddafi e le domande da fare
Le sane risposte delle hostess proletarie hanno svelato le ragioni vere della parata. Ma ora l’opposizione dovrebbe incalzare il governo con quesiti precisi. Per esempio: chi ha pagato?
di Nadia Urbinati

Caro direttore, c’è qualcosa di sano, di straordinariamente sano nelle risposte delle hostess proletarie che hanno recitato la parte del pubblico nello show di Gheddafi nella Roma berlusconiana: la paga giornaliera è una cosa seria, le stupidaggini dei politici clown sono un pretesto. Sfogliando il Libro verde della rivoluzione libica ricevuto insieme al Corano come gadget della parata, una ragazza (che doveva premunirsi di restare anonima per non perdere il salario) ha cosí commentato, secondo le parole riportate dal giornalista di Repubblica: «Siamo qui per soldi, per noi è solo un lavoro». È un lavoro fare platea, anche perchè se non fosse per il compenso alle spettatrici, il nuovo profeta islamico non avrebbe avuto pubblico. Il pubblico lo si deve in qualche modo risarcire, e se non è la rappresentanzione che vale da risarcimento allora occorre pagare.
A preoccuparsi debbono essere i cittadini italiani, dobbiamo essere noi: poichè la politica nel nostro paese ha generato nuove professioni, agenzie che fanno affari con lo spettacolo politico e i suoi attori. Questo è grave, e le ragazze in fila per la “giornata” ce lo ricordano con limpida semplicità. E lo fanno con straordinario disincanto: poichè non sono lí per essere convertite, anche se al tiranno libico conviene essere visto in questa veste (ecco perchè la condizione per essere selezionate è stata il silenzio stampa!), ma per fingere di poter essere oggetto di conversione: le tre presunte convertite pare abbiamo ricevuto un extra. Tutto finto, come l’ottone quando viene esposto per ingannare chi lo guarda ed essere scambiato per oro. Sono loro, quelle ragazze, con il loro ragionare economico spiccio e diretto, con la loro curiosità un po’ troppo da Canale 5 che ce lo fanno capire bene. Ci fanno capire che la parata libica è stata un espediente per affari altri da quelli mostrati alle televisioni.
Ci fanno naturalmente porre la domanda che noi, come cittadini/e, dobbiamo e siamo legittimati a porre a chi ci governa: sul conto di chi è stato messo lo show per il leader libico? Insomma, chi ha pagato le hostess a giornata? E poi, quali sono esattamente gli affari succulenti che sono stati siglati con la scusa del circo poichè soltanto questo ha attirato l’attenzione dei media? Per il bene di chi si è messo in scena uno spettacolo del quale c’è da vergognarsi di fronte a tutte le nazioni del mondo, e soprattutto a quelle politicamente e culturalmente piu vicine a noi? Anche perchè è davvero imbarazzante vedere come Berlusconi sia l’unico nei paesi democratici a dirsi e comportarsi come amico dei dittatori e degli autocrati: di quello della Bieolorussia, della Russia e della Libia. A chi giova questa sua amicizia privata? Giova alla nostra nazione? Giova alla nostra economia e agli impegni politici che il nostro Stato ha solennemente preso per difendere i diritti umani e operare per promuoverli?
C’è dunque una ragione fondata per restare allibiti/e nel vedere che le ragazze italiane hanno messo nella lista delle possibili (e sempre più necessarie) attività saltuarie quella di apparire alle feste organizzate dalla politica di Stato. Quando
ero universitaria, le mie coetanee racimolavano qualche soldo facendo le stagiste nelle fiere (Bologna, città fieristica, era un buon mercato per molte). Per noi ragazze “impegnate” quella scelta era disdicevole, ma non dichiaravano ostracismo per quelle di noi che avevano bisogno di raccogliere qualche soldo e si mettevano la divisa di stagiste. Cosí oggi non dovremmo penalizzare quelle ragazze hostess del circo Gheddafi-Berlusconi. Però oggi, c’è di diverso e davvero gravissimo che i capi di Stato (per giunta quelli di un paese democratico) si sentano autorizzati a fare dello spazio pubblico una fiera, di aver bisogno di stagiste per offrire all’ospite di turno ciò che chiede. Oggi le ragazze da convertire al Corano, e domani? E com’è possibile che la Farnesina acconsenta di fare tanti strappi al protocollo delle cerimonie ufficiali?
Ciò che è diverso rispetto ai tempi andati è che la politica si faccia essa stessa fiera, che si faccia piazza per affari grandi e piccoli che i cittadini e le cittadine abbiano appreso che c’è un nuovo tipo di bracciantato, al quale si sottomettono senza nemmeno chiedersi per quali piani sono prestatori d’opera, al di là di quelli fasulli nei quali essi sono i primi a non credere. Di diverso c’è che queste agenzie assoldino e paghino (con il contributo di chi?) a patto che le ragazze non parlino con i giornalisti ma non era questa “fiera” libica un evento promosso sotto l’egida dello Stato? Com’è possibile che per poter fare un servizio che è a tutti gli effetti pubblico le ragazze siano state invitate a non parlare con il pubblico? È questo permanente privatismo dello spazio pubblico che disturba, inquieta e deve, giustamente, fare rabbrividire. Ed è grazie alle hostess alla giornata che vediamo meglio questo disgustoso spettacolo. Ma perchè l’opposizione non incalza con un’interpellanza parlamentare per porre queste domande al governo a nome nostro, di noi cittadini attoniti?

Repubblica 2.9.10
I barbari non ci leveranno la nostra profondità
di Eugenio Scalfari

La nostra è l´età degli imbarbariti che devastano il presente. Ma la profondità non è destinata a scomparire
"Rassegnati, caro Alessandro, siamo due moderni consapevoli. E descrivi una civiltà che ancora non esiste"

Mi ha molto intrigato l´articolo di Alessandro Baricco pubblicato da Repubblica il 26 agosto con il titolo "2026 - La vittoria dei barbari". Mi ha intrigato fin dalle prime righe: «Ci crediate o no, quest´articolo l´ho scritto nel luglio 2026, cioè tra sedici anni. Diciamo che mi sono portato un po´ avanti col lavoro. Prendetela così».
Baricco è un maestro di scrittura, ne conosce i trucchi e i modi per attirare il lettore e incatenarlo al testo e così ha fatto anche stavolta. Con me c´è riuscito.
Quattro anni fa scrisse una serie di articoli sul nostro giornale e ne trasse poi un libro che ebbe molto successo intitolandolo I barbari. Da allora questo tema è stato al centro del dibattito sull´epoca che stiamo vivendo e sulle caratteristiche che la distinguono.
Ne ho parlato anch´io nel mio ultimo libro Per l´alto mare aperto dove ho sostenuto la tesi che la modernità ha concluso il suo percorso culturale durato mezzo millennio ed ha aperto la strada ai nuovi barbari. Sarà compito loro porre le premesse dell´epoca nuova, del nuovo linguaggio artistico che le darà la sua impronta, dei nuovi significati che motiveranno le sue istituzioni.
I barbari in questa accezione non rappresentano necessariamente una fase oscura ma un´epoca diversa da quella che noi moderni abbiamo costruito e vissuto.
Fin qui Baricco ed io ci siamo mossi più o meno sullo stesso binario. Ma lui, nell´articolo che ho citato, va oltre. Sostiene che i moderni inventarono la profondità della conoscenza e vi collocarono il senso, mentre i barbari - tra i quali si colloca ed è per questo che data il suo articolo nel luglio del 2026 - hanno smantellato il concetto di profondità e l´hanno sostituito con quello di superficialità e lì hanno collocato il senso. Baricco non giudica affatto come negativa questa operazione culturale, anzi ne enumera tutte le positività e per quanto lo riguarda si pone tra quelli che l´hanno condotta a compimento.
Il passaggio dalla cultura della profondità a quella della superficialità lo descrive così: «Viaggiamo velocemente e fermandoci poco, ascoltiamo frammenti e non tutto, scriviamo nei telefoni, non ci sposiamo per sempre, guardiamo il cinema senza più entrare nei cinema, ascoltiamo letture in rete senza più leggere libri e tutto questo andare senza radici e senza peso genera tuttavia una vita che appare sensata e bella. La superficie è tutto e in essa è scritto il senso».
Sembra di leggere una delle lezioni americane di Italo Calvino, un messaggio al futuro millennio, le idee-guida che lo ispireranno. Calvino parlava di leggerezza, rapidità, esattezza, consistenza; Baricco parla di profondità e superficialità.
Forse Calvino coltivò illusioni; lui era immerso nella modernità, i suoi referenti erano ancora Voltaire e Diderot pur avendo egli portato molto più avanti la sua ricerca letteraria.
Baricco invece compie un´operazione concettuale in apparenza assai più radicale: mette la superficialità al posto della profondità come il nuovo canone di conoscenza e disloca il senso della vita collocandolo in superficie.
Esalta la bellezza del nomadismo: «Andare senza radici e senza peso». Avrebbe potuto aggiungere: senza responsabilità.
E´ questa la nuova epoca che i barbari stanno costruendo? Sarà già realtà nel 2026? Anzi è già realtà oggi, al punto che Baricco è in grado di descriverla?
* * *
Mi trovo in una curiosa condizione: in molte cose (l´ho già detto) concordo con Baricco ma nella sostanza no, non sono d´accordo con lui. Forse dipende dal fatto che ho quasi il doppio della sua età anche se sono curioso almeno quanto lui di conoscere il futuro e di reinterpretare il passato.
Tanto per cominciare, Baricco non è affatto un barbaro. Presume di esserlo ma non lo è e questo cambia molto il significato di ciò che dice.
I barbari, nella nostra comune definizione, sono coloro che parlano un linguaggio diverso dal nostro. Aggiungo: rifiutano di conoscere la nostra cultura di moderni. Non leggono libri, non leggono giornali, non ascoltano le nostre musiche. Vogliono ripartire da zero, contrariamente alle generazioni che li hanno preceduti e che pur contestando i valori dei padri ne avevano però appreso i contenuti e i significati.
Il passaggio da un´epoca ad un´altra è sempre avvenuto in questo modo; il solco che segna questo salto di civiltà ha sempre coinciso con la mancata trasmissione della memoria storica.
Dico che Baricco non è e non può essere un barbaro perché è intriso di memoria storica, conosce perfettamente quanto è accaduto, ha studiato i testi, ha ascoltato le musiche, ha addirittura messo in scena l´Iliade e Achille, usa a meraviglia ed anzi insegna il nostro linguaggio. Ha capito che i barbari sono arrivati, questo significa che sa leggere la realtà nel suo profondo.
Del resto tutta la sua analisi sulla sostituzione della superficialità alla profondità è tipicamente profonda, scava fino alla radice per poter affermare che si sta creando una vita senza radici.
Baricco è dunque un moderno che in quanto tale constata la fine della modernità. In questo concordo. Rassegnati, caro Alessandro, siamo due moderni consapevoli.
Tu elenchi le caratteristiche della nuova epoca e le riassumi con la parola e il concetto di superficie. In realtà non stai descrivendo la civiltà dei barbari che ancora non esiste. Ci vogliono molto più di trent´anni. Ricordi la scomparsa della civiltà greco-romana che durò quasi due secoli, da Teodosio fino al regno longobardo? Oggi il tempo corre più veloce ma trent´anni non bastano.
In realtà Baricco non sta descrivendo i barbari ma gli imbarbariti, che è cosa profondamente diversa. Gli imbarbariti parlano ancora il nostro linguaggio ma lo deturpano; usano ancora le nostre istituzioni ma le corrompono; non vogliono affatto preservare il pianeta dalla guerra, dal consumismo, dall´inquinamento e dalla povertà, ma al contrario vogliono affermare privilegi, consorterie, interessi lobbistici, poteri corporativi, dissipazione di risorse e diseguaglianze intollerabili.
I barbari, quelli che tu ed io vediamo come un´incombente realtà, sono ancora alla ricerca del futuro; gli imbarbariti stanno devastando il presente e contro di loro noi dobbiamo combattere per preservare il deposito dei valori che la modernità ha accumulato e dei quali l´epoca futura potrà usufruire quando avrà finalmente raggiunto la sua plenitudine e la sua autocoscienza.
* * *
Io non credo nella contrapposizione tra profondità e superficialità come una conquista e un avanzamento. Tanto meno credo che questa contrapposizione caratterizzerà il futuro e non lo credo perché c´è sempre stata in tutte le epoche.
Guarda, caro Alessandro, alla Grecia a te giustamente cara: lì nacque la tragedia e con essa il teatro cinque secoli prima di Cristo e lì otto secoli prima di Cristo era nata la poesia con Omero e ancora prima i miti e i misteri ma anche il gioco, la danza, i numeri, la geometria, la cura del corpo e la cura delle anime. Quella che tu chiami la profondità.
Ma essa conviveva con la superficialità così, con le emozioni, con la vita senza radici, con l´adorazione dei fenomeni, delle apparenze, con i mutamenti immediati di prospettiva, con un prisma conoscitivo continuamente cangiante.
E non è stato sempre così? Non è stato così nella Roma di Cicerone, di Ovidio, di Virgilio, di Seneca e infine di Boezio, mentre accanto ad essi il popolo delle taverne e delle suburre godeva dei giochi e della loro sanguinosa violenza?
Profondità e superficialità hanno sempre convissuto, quali che fossero le epoche e le latitudini, e sempre convivranno.
Tu poni - ed hai ragione di porla - la questione del senso e della sua dislocazione. E non credi nel senso ultimo. Neppure io credo nel senso ultimo, anche se ho grande rispetto per quanti ripongono nella trascendenza di un dio e nella vita futura ed eterna nell´oltremondo le loro speranze. Chi ha una fede mette in essa il suo riposo e il senso della sua vita. E non si avvede che il senso è altrove anche per lui.
Anche chi ha fede appoggia infatti la sua vita a quelli che io chiamo segmenti di senso, che ci vengono dalla vita pratica, dalla vita creativa, dalla socievolezza senza la quale non potremmo vivere.
Il senso della vita cioè non è altro che la vita stessa che si dipana momento dopo momento, che conserva memoria di quanto è avvenuto e progetta ad ogni istante il futuro.
Questo è ciò che avviene in ogni persona e in ogni angolo di mondo: segmenti di senso che l´"io" vive senza soluzione di continuità, attimi fuggitivi, tempo futuro che transita nel presente con la velocità della luce e sprofonda nel passato; e tempo ritrovato attraverso quella meravigliosa facoltà della memoria che la nostra mente possiede.
Caro amico, ti dedico queste riflessioni perché tu sei tra quelli che meglio si oppongono all´imbarbarimento che rischia di sovrastarci. Questa battaglia non riguarda i barbari che stanno ancora cercando se stessi. Questa battaglia riguarda noi e soltanto noi possiamo e dobbiamo combatterla.

Repubblica 2.9.10
Darwin e l'evoluzione della fantasia
di Paolo Legrenzi

Spesso quando le stesse cose ci vengono dette in modo pedagogico non ci interessano
Come individui abbiamo bisogno di avere fiducia in chi ne sa più di noi dell´esistenza
Siamo l´unica specie che ama narrare e ascoltare i racconti Anche quando non sono veri: soprattutto se non lo sono

Una cosa rende diversa la specie umana da tutti gli altri esseri viventi. Solo noi inventiamo storie e le prendiamo per buone. Provate a domandare alle persone quando, nel corso di una giornata, stanno bene. Le risposte prevalenti riguardano, in primis, lo stare con le persone amate e, poi, il lavoro e i successi professionali. Questa è la risposta ufficiale, quella che sentiamo di dover dare. In realtà quel che piace ai più è seguire storie alla TV. Per appurarlo basta interrogare le persone quando meno se lo aspettano.
Gli spettacoli televisivi riescono a trasformare tutto in storie, proprio tutto, persino le cose più noiose, come la politica o le crisi economiche. Le persone passano varie ore al giorno di fronte alla Tv (dalle quattro ore e 46 minuti dei calabresi fino alle tre ore e 18 minuti degli altoatesini, dati medi del 2007). Per lo più seguono storie, spesso condite di soldi o sesso, possibilmente in forme trasgressive. E tuttavia gli stessi argomenti, presentati sotto forma di educazione finanziaria o sessuale, cioè in chiave pedagogica, diventano subito noiosi. Le storie piacciono, il resto no.
Questi dati pongono un paradosso curioso. Se prendessimo sul serio la vulgata darwinista, basata sui vantaggi per chi si adatta meglio all´ambiente, dovremmo domandarci a che cosa serve tutto questo tempo e risorse mentali dedicati a prendere per buone storie inventate. Solo conoscenze vere ci mettono in grado di muoverci meglio nel mondo. Questo vale per l´adattamento agli ambienti naturali, se andiamo in montagna o trivelliamo pozzi di petrolio, ma anche a quelli sociali. Tant´è vero che in tutti i conflitti si ottiene un bel vantaggio quando si riesce a far credere all´avversario qualcosa che è falso. E tuttavia le storie "credibili" e appassionanti sono proprio quelle false, o meglio inventate con una miscela di realismo e fantasia. In breve, il di-vertimento è di-versione dalla realtà.
E allora, come la mettiamo con Darwin e il vantaggio evolutivo? La risposta ortodossa, e più nota, è quella dell´etologo inglese Richard Dawkins. Per Dawkins la sopravvivenza in gioco non è quella della specie, ma quella dell´individuo, o meglio del suo patrimonio genetico. A questo scopo è vantaggioso credere, nel senso di avere fiducia nei confronti di chi sa più di noi.
Quando un genitore ci dice di non andare a giocare sul fiume se il sole è alto nel cielo, noi gli crediamo. La fiducia acritica evita di correre il rischio di essere mangiati o mutilati dai coccodrilli in cerca di animali assetati. In questi casi, il dubbio nei confronti di chi sa di più non conduce a un personale apprendimento per prove ed errori, ma a perdere definitivamente un braccio o una gamba. Se poi quello stesso genitore mi insegna il rito della pioggia, tendo a credergli con quella stessa fiducia che mi ha salvato dai coccodrilli. E così la cultura finisce per trasmettere una miscela di vero, e adattivo, come nel caso dei coccodrilli, e di falso, e inutile, come i riti della pioggia e altre superstizioni. Talvolta ci trasmette anche qualcosa di falso e fuorviante, se non dannoso. Sui tempi lunghi, quest´ultimo tipo di credenze s´indebolisce. Basta esaminare, in epoca moderna, gli sviluppi di tutte le vicende in cui le varie chiese, religiose e pagane, hanno contrastato la scienza.
Insomma l´ortodossia vuole che il progresso delle scienze riduca lo spazio del falso, che sopravvive a stento presso ingenui o fanatici.
Una risposta diversa è fondata sul valore adattivo delle storie. Che cosa sono le storie, in fin dei conti? Sono dei mondi simulati, scenari inventati ad arte per "funzionare", cioè appassionare gli spettatori. Immedesimarsi in questa sorta di simulazioni fantastiche allena a quello che potrebbe succedere nella vita vera e allevia le sofferenze quotidiane. La nostra come una tra le tante vite possibili. Che cosa farei se fossi nei panni del protagonista di quella soap opera o di quel reality? Come risolverei i problemi del mio beniamino, personaggio dello spettacolo o dello sport? Questa è una spiegazione del fascino delle storie, in chiave preventiva e pedagogica, quindi adattiva.
Personalmente propenderei per un terzo tipo di risposta, che è una variante della seconda. E´ quella che ha dato su questo giornale (30.07.10) lo scrittore Nathan Englander, parlando della prima volta che lesse il Lamento di Portnoy di Philip Roth. Englander, non più religioso ma cultore della religione dei libri, dichiara che, leggendo da adolescente il romanzo, aveva avuto l´impressione che quella storia fosse stata scritta unicamente per lui. Ecco, noi crediamo alle storie in quanto universali, nel senso che sfruttano l´immutabile struttura umana delle emozioni, ma ci crediamo di più quando abbiamo l´impressione che parlino proprio a noi, non più spettatori, ma attori di quella storia.

Repubblica Firenze 2.9.10
L’ultimo taglio all´archeologia niente più controlli nelle aree
"Siamo come dei vigilantes senza pistola"
Stop ai sopralluoghi con la propria auto ma la soprintendenza ne ha una sola
"Niente notti fuori nè diaria. E spesso non ci rimborsano neanche il panino"
di Riccardo Bianchi

«È come se fossimo dei vigilantes, e il direttore della banca ci dicesse: "non vi do i soldi per la pistola". Bene, ma poi non può pretendere che noi gli proteggiamo il caveau». Fulvia Lo Schiavo non è una guardia giurata, ma la soprintendente ai beni archeologici della Toscana, il tesoro che protegge sono i musei e gli scavi sparsi per tutta la regione, e la pistola di cui parla le missioni con cui lei e i suoi funzionari vanno a controllare danni, scoperte, incidenti da Arezzo a Massa. Il governo le ha colpite di nuovo con la manovra economica, stavolta vietando i rimborsi per quelle effettuate con l´auto personale. L´unica soluzione, visto che ormai la Soprintendenza toscana ha una sola macchina per gli spostamenti della responsabile, dei 30 funzionari archeologi, degli assistenti tecnici e di tutto il personale. Ed è pure in leasing.
Con la Lo Schiavo altri 18 soprintendenti e 2 dirigenti archeologi hanno scritto una lettera comune al ministro per i beni culturali, Sandro Bondi. Il provvedimento tocca tutti i dicasteri, ma loro chiedono almeno una deroga. «Per noi la condizione è insostenibile», spiega la responsabile toscana, «Le auto blu non le abbiamo mai avute, avevamo solo mezzi di servizio. Dall´anno scorso non abbiamo più neanche quelle, non potevamo mantenerle, né comprarne di nuove. Ne abbiamo solo una, in leasing. Una Fiat Punto». Usarla per recarsi in contemporanea ai vari musei archeologici, al sito etrusco di Castelsecco, a Populonia, o dove è arrivata una segnalazione di un ritrovamento, è impossibile. «Perciò prendiamo la nostra auto e andiamo a verificare». I viaggi, per legge, sono già al risparmio. «Nessuna notte fuori, niente diaria, nessun bonus per l´usura della vettura se andiamo in montagna o sulle strade sterrate», spiega Lo Schiavo, «solo un rimborso chilometrico. Per il pranzo dobbiamo presentare una fattura dettagliata, riportando cosa mangiamo. Un economico panino, invece, non ci viene rimborsato, ma spesso è l´unica cosa che puoi addentare quando sei in un cantiere di scavo. A Roma non hanno sentito discorsi: devi andare al ristorante per forza».
La settimana scorsa è caduto un trattore dentro una tomba. Ovviamente è arrivata la segnalazione e un tecnico è dovuto andare a controllare. «Stava arando ed è scivolato in una cavità. Poi si è scoperto che non era naturale. Ma ora come faremo? Non mandiamo nessuno? Non faremo mai nuove scoperte. Oppure riduciamo la manutenzione e i siti da visitare a due o tre, i meglio tenuti? Non è una prospettiva gloriosa per un paese, e una regione, che vivono di turismo».
I rimborsi troppo alti per cui il governo ha motivato la decisione ci sono stati, ma per scelta dello stesso esecutivo. Lo Schiavo in passato ha retto ad interim due sedi, Toscana e Friuli: «Per spostarmi usavo il treno, in seconda classe, e non certo la mia auto». C´era il vitto, l´albergo, le spese. La cifra era alta. «Avevamo chiesto di dare la reggenza al funzionario anziano di Trieste, sarebbe costato meno. Ma il ministero ha rifiutato». Dopo le è stato tolto il Friuli e data la Sardegna.
Le difficoltà nella gestione della soprintendenza, comunque, non si fermano alle missioni "mutilate". I fondi scarseggiano su tutti i fronti. «Stendiamo un velo pietoso, se svuotiamo il sacco non ne usciamo più», conferma la Lo Schiavo: «Questo è un problema immediato, il più urgente. Per adesso concentriamoci su uno solo».

Repubblica Firenze 2.9.10
San Salvi
40 anni dei "Fogli" rivista di antipsichiatria
Paolo Tranchina e altri protagonisti della chiusura del manicomio celebrano la pubblicazione che fu in prima fila per la legge 180
di g.r.

Se, all´inizio degli anni Settanta, si sviluppò il movimento di Psichiatria Democratica, principale artefice di quel dibattito che portò all´approvazione della legge 180 e alla fine dei manicomi, è anche grazie ai Fogli d´informazione. La rivista- fondamentale nel panorama della psichiatria alternativa in Italia - nacque proprio in quel periodo dall´incontro tra Franco Basaglia, Agostino Pirella e la sua équipe di Gorizia, e il Collettivo di intervento nelle istituzioni, cresciuto all´interno del Centro di psicoterapia di Pier Francesco Galli. Alla Casa della cultura di Milano si svilupparono una serie di dibattiti con studenti, operatori, e intellettuali, che furono registrati e diffusi con un bollettino ciclostilato di cui uscirono 13 numeri.
Oggi i Fogli d´informazione compiono 40 anni. E i Chille de la Balanza hanno deciso di celebrare l´evento con una serata - un po´ incontro e un po´ festa - che si svolgerà dalle 21,15 a San Salvi (info 055/6236195): un modo per ripercorrere la straordinaria storia della pubblicazione con documenti, immagini e testimonianze di alcuni dei suoi protagonisti. Parteciperanno, coordinati dal fondatore della rivista e psicologo junghiano Paolo Tranchina, Cesare Buondioli, psichiatra, Sandro Ottanelli, infermiere e Maria Pia Teodori, psicologa. La rivista ha prodotto oltre 200 fascicoli - esemplare il primo, del dicembre 1970, che riporta l´intervista a uno psichiatra reduce da un´esperienza in Vietnam - e 35 libri alcuni dei quali, rarissimi, in mostra a San Salvi.
(g.r.)

Corriere della Sera 2.9.10
La lotteria dei test
di Beppe Severgnini

I test universitari sono un classico italiano: il proposito è lodevole, la buona volontà innegabile, il metodo sbagliato. Incapaci di soddisfare la domanda, ministri e rettori hanno deciso di ridurre l’offerta, adottando il numero chiuso. Un tempo i ragazzi italiani lottavano per entrare in aule affollate; oggi affrontano quiz esoterici. Sempre test d’ingresso sono. Siamo passati dallo stadio alla lotteria.
Si inizia oggi con medicina: 80 domande a risposta multipla, 8.775 posti a disposizione, circa 90 mila candidati, nessuna graduatoria nazionale. Poi tocca a odontoiatri, veterinari, architetti, professioni sanitarie, formazione primaria. In totale, 52.788 posti. Scienze della comunicazione, psicologia, scienze politiche e ingegneria adottano il numero programmato o prove di valutazione. Alcune università private stabiliscono il numero di posti disponibili.
Cosa non va, nel numero chiuso? Restiamo a medicina. Per cominciare, non tiene conto dei risultati delle superiori. Il motivo è noto: ci sono scuole italiane che i voti li assegnano, altre li regalano. L’università Bocconi di Milano, che prende in considerazione la media del terzo e quarto anno, è stata criticata: chi ha scelto un liceo severo, di fatto, viene penalizzato. Anche l’università americana valuta i candidati durante le superiori. Ma il meccanismo — basato sul Sat (Scholastic Assessment Test) — è nazionale, rodato (esordì nel 1901) e offre garanzie.
Seconda debolezza. I test non affiancano i colloqui attitudinali: li sostituiscono. Come accade in altri settori italiani — dagli appalti al fisco — la norma ingessata viene preferita alla discrezionalità ingestibile. L’esperienza, purtroppo, porta a credere che gli attuali docenti riuscirebbero a intrufolare figli e nipoti. Avere un Ordinario per papà, in Italia, è diverso dall’avere un papà ordinario.
Resta un fatto: ogni professione richiede predisposizione e passione — e con i quiz non si vedono. È fondamentale sapere come morì Gandhi, per chi desidera diventare oculista (attentato? avvelenamento? incidente aereo? infarto?). Tutti conosciamo bravi medici che a diciott’anni, a quella domanda, non avrebbero saputo rispondere (forse nemmeno ora: attentato di un fanatico indù, 1948). Un sistema che prevedesse accesso libero, e una barriera al secondo anno, potrebbe essere la soluzione. A patto di trovare strutture e personale per accogliere le matricole (docenti, aule, laboratori, dormitor i ) : ma dove s ono? I posti-letto in «case dello studente» in Italia sono il 2%, in Francia, Germania e Spagna tra il 25% e il 40%.
Terza debolezza: il sistema non è elastico. Non tiene conto delle necessità che cambiano. Trent’anni fa, forse, sfornavamo troppi medici; oggi, di sicuro, ne produciamo troppo pochi. Se le malattie respiratorie sono la terza causa di morte in Italia, perché a Pavia ci sono soltanto tre specializzandi in pneumologia, e altri cinque tra Milano e Brescia? Dieci anni fa erano quindici a Milano e una dozzina a Pavia. Risultato: importiamo medici stranieri. La Francia modula l’accesso a medicina secondo la demografia: una buona idea.
Tre debolezze e molta ansia. Questo è il cocktail che attende centinaia di migliaia di studenti nei prossimi giorni. Vogliamo dircelo, almeno tra noi adulti (i ragazzi stanno esercitandosi ai quiz, non ci staranno a sentire)? La Repubblica fondata sullo stage — quella che propone tirocini malpagati e lavoretti precari — ai suoi figli dovrebbe almeno offrire un’università serena, e una speranza vera.

Corriere della Sera 2.9.10
La vocazione da frate di Stevanin Quando i demoni si fanno angeli
Fece a pezzi sei prostitute, i francescani valutano la sua richiesta
di Paolo Di Stefano

Non c’è da stupirsi. Gianfranco Stevanin, il mostro di Terrazzo, il serial killer che fece a pezzi sei prostitute e le seppellì nel giardino di casa, è solo l’erede di una gloriosa tradizione. L’ultimo criminale convertito di una lunghissima serie nata secoli fa. È la svolta della vita, l’abbandono della vecchia strada per la nuova, un mutamento radicale che implica una vera scissione della personalità. Lo racconta bene lo storico Adriano Prosperi in un saggio del 2007. Per il Cristianesimo, la conversione è il miracolo della perfezione raggiunto da ladri, assassini, eretici, ribelli grazie a un doloroso conflitto interiore. Un capovolgimento dello spirito destinato a dividere a lungo il re — che condannava comunque (a morte) il corpo del criminale — e Dio che invece lo perdonava e ne salvava l’anima. Finché i due poteri, quello secolare e quello ecclesiastico, riuscirono a saldarsi facendo del condannato a morte (pentito e convertito con tanto di sacramenti) l’immagine esemplare di morte cristiana: colui che accetta il verdetto della giustizia terrena e insieme decide di lasciare il mondo devotamente. Al punto che il poeta Gioacchino Belli osservò con un certo sarcasmo che se morivi affogato avevi pochissime chances di finire in Paradiso, ma se venivi impiccato per un misfatto la salvezza eterna era assicurata.
Ora dunque, per la Chiesa, l’ex mostro ergastolano Gianfranco Stevanin, dopo 16 anni di carcere, si avvia a essere «perfetto». Da recluso, a Sulmona, ha salvato due volte un compagno dal suicidio dopo aver rischiato la vita per le aggressioni subite in cella e adesso, come ha rivelato il quotidiano «Libero», ha intrapreso un percorso spirituale per entrare nel terzo ordine di San Francesco che sta valutando l’autenticità della vocazione. È proprio san Francesco, forse con Paolo di Tarso (futuro San Paolo), il convertito più famoso della storia, preceduto da Sant’Agostino e seguito da una folla di personaggi illustri, da Manzoni a Tolstoj. Ma qui non si tratta di un semplice (si fa per dire) passaggio dall'ateismo alla fede.
Qui la faccenda è ancora più sconvolgente. E non c’è bisogno di tornare al Medioevo per trovare ravvedimenti analoghi. Come quello di Alessandro Serenelli, prima molestatore e poi assassino della dodicenne Maria Goretti, attirata in casa sua con la scusa di rammendare dei vestiti, colpita più volte con un punteruolo e morta il giorno dopo, 6 luglio 1902, nell’ospedale di Nettuno. Uscito di prigione nel ’29 grazie a un indulto, Serenelli lavorò come giardiniere e portinaio in un convento di padri Cappuccini, nelle Marche, e morì quasi novantenne lasciando un testamento in cui ringraziava la sua vittima divenuta Protettrice e la «carità serafica» dei francescani che lo accolsero. Del resto, la «remissione dei peccati» fu una delle prerogative di Gesù, e un paio di giorni fa la Curia di Catanzaro, esprimendo il suo «profondo sgomento» di fronte ai numerosi delitti perpetrati nel suo territorio, ricordava a futura memoria delinquenti che Pietro, a differenza di Giuda, avendo avuto fiducia nella misericordia divina, fu perdonato. Dunque, «vi è una salvezza: la conversione, per ricevere il perdono da Dio e dagli uomini e non finire disperati» (il che ha suscitato anche qualche polemica).
Concetto che doveva essere condiviso anche dal vescovo di Caserta, Raffaele Nogaro, quando, nel 2006, certificò la «chiara e profonda conversione» di Raffaele Cutolo, detto «Vangelo» non certo per la sua fede ma per la capacità di imporre ai suoi il proprio potere assoluto anche dal carcere. Eppure, il superboss della camorra, pluriomicida, otto ergastoli sul groppone, pur dicendosi redento al cospetto di Dio, precisò di non essere affatto pentito davanti agli uomini e di sentirsi perfettamente coerente con se stesso. Identico iter spirituale seguito dai due mafiosi che freddarono, tra gli altri, don Pino Puglisi. Forse fu il sorriso che il prete rivolse loro prima di essere ucciso a precipitarli nel rimorso, fatto sta che sia Salvatore Grignoli sia Gaspare Spatuzza, detto «’u tignusu», oltre a dichiararsi pentiti per la legge, da allora non riescono più a distrarsi dalla lettura della Bibbia, e anzi Spatuzza ha voluto guardare dentro se stesso fino a iscriversi alla facoltà di Teologia. Ma non è detto che si tratti di una svolta a 360 gradi: «Il 90 per cento dei mafiosi — ha rivelato Grignoli — dice di credere in Dio. Uno dei miei coimputati diceva sempre: in nome di Dio, prima che ci muovessimo per andare ad ammazzare qualcuno».
Non solo in Cosa nostra, ma anche tra gli ex terroristi si trovano diversi (qualcuno dice troppi) redenti del giorno dopo, folgorati sulla via di Damasco: vedi l’ex terrorista di prima Linea Roberto Maria Severini, ovvero Roberto il Pazzo, e Maurice Bignami, il capo militare dello stesso gruppo, che ultimamente ha raccontato a Rimini come quando e perché, grazie all’incontro con una suora, ha capito che «la vera rivoluzione è Cristo». Per non dire delle frotte di satanisti sanguinari diventati Angeli del Signore. Nel 1978 David Berkowitz fu condannato dalla corte di New York a sei ergastoli per omicidi plurimi, ma l’anno dopo l’esorcista Malachi Martin compì il miracolo facendogli confessare le sue colpe e liberandolo dal possesso del Diavolo, al punto che dopo la seduta David si dichiarò un «cristiano rinato». Un po’ come Andrea Volpe, la Bestia del Varesotto, tre volte omicida, nel quale un pastore evangelico, Leonardo De Chirico, due anni fa disse di «aver riscontrato un interesse crescente per la parola di Dio».

L’Osservatore Romano 2.9.10
Il genio femminile nella storia del popolo di Dio
di Joseph Ratzinger

Al genio femminile nella storia del popolo di Dio il Papa ha dedicato la catechesi all'udienza generale di mercoledì mattina, 1° settembre. Durante l'incontro con i fedeli, svoltosi nella piazza antistante il Palazzo Pontificio di Castel Gandolfo, Benedetto XVI ha presentato la figura di santa Ildegarda di Bingen. 

Cari fratelli e sorelle, 
nel 1988, in occasione dell'Anno Mariano, il Venerabile Giovanni Paolo II ha scritto una Lettera Apostolica intitolata Mulieris dignitatem, trattando del ruolo prezioso che le donne hanno svolto e svolgono nella vita della Chiesa.
"La Chiesa - vi si legge - ringrazia per tutte le manifestazioni del genio femminile apparse nel corso della storia, in mezzo a tutti i popoli e a tutte le nazioni; ringrazia per tutti i carismi che lo Spirito Santo elargisce alle donne nella storia del popolo di Dio, per tutte le vittorie che essa deve alla loro fede, speranza e carità; ringrazia per tutti i frutti di santità femminile" (n. 31). 
Anche in quei secoli della storia che noi abitualmente chiamiamo Medioevo, diverse figure femminili spiccano per la santità della vita e la ricchezza dell'insegnamento. Oggi vorrei iniziare a presentarvi una di esse: santa Ildegarda di Bingen, vissuta in Germania nel XII secolo. Nacque nel 1098 in Renania, a Bermersheim, nei pressi di Alzey, e morì nel 1179, all'età di 81 anni, nonostante la permanente fragilità della sua salute. Ildegarda apparteneva a una famiglia nobile e numerosa e, fin dalla nascita, venne votata dai suoi genitori al servizio di Dio. A otto anni, per ricevere un'adeguata formazione umana e cristiana, fu affidata alle cure della maestra Giuditta di Spanheim, che si era ritirata in clausura presso il monastero benedettino di san Disibodo. Si andò formando un piccolo monastero femminile di clausura, che seguiva la Regola di san Benedetto. Ildegarda ricevette il velo dal Vescovo Ottone di Bamberga e, nel 1136, alla morte di madre Giuditta, divenuta Superiora della comunità, le consorelle la chiamarono a succederle. Svolse questo compito mettendo a frutto le sue doti di donna colta, spiritualmente elevata e capace di affrontare con competenza gli aspetti organizzativi della vita claustrale. Qualche anno dopo, anche a motivo del numero crescente di giovani donne che bussavano alle porte del monastero, Ildegarda fondò un'altra comunità a Bingen, intitolata a san Ruperto, dove trascorse il resto della vita.
Lo stile con cui esercitava il ministero dell'autorità è esemplare per ogni comunità religiosa: esso suscitava una santa emulazione nella pratica del bene, tanto che, come risulta da testimonianze del tempo, la madre e le figlie gareggiavano nello stimarsi e nel servirsi a vicenda. 
Già negli anni in cui era superiora del monastero di san Disibodo, Ildegarda aveva iniziato a dettare le visioni mistiche, che riceveva da tempo, al suo consigliere spirituale, il monaco Volmar, e alla sua segretaria, una consorella a cui era molto affezionata, Richardis di Strade.Come sempre accade nella vita dei veri mistici, anche Ildegarda volle sottomettersi all'autorità di persone sapienti per discernere l'origine delle sue visioni, temendo che esse fossero frutto di illusioni e che non venissero da Dio. Si rivolse perciò alla persona che ai suoi tempi godeva della massima stima nella Chiesa: san Bernardo di Chiaravalle, del quale ho già parlato in alcune Catechesi. Questi tranquillizzò e incoraggiò Ildegarda. Ma nel 1147 ella ricevette un'altra approvazione importantissima. Il Papa Eugenio iii, che presiedeva un sinodo a Treviri, lesse un testo dettato da Ildegarda, presentatogli dall'Arcivescovo Enrico di Magonza. Il Papa autorizzò la mistica a scrivere le sue visioni e a parlare in pubblico. Da quel momento il prestigio spirituale di Ildegarda crebbe sempre di più, tanto che i contemporanei le attribuirono il titolo di "profetessa teutonica". È questo, cari amici, il sigillo di un'esperienza autentica dello Spirito Santo, sorgente di ogni carisma: la persona depositaria di doni soprannaturali non se ne vanta mai, non li ostenta e, soprattutto, mostra totale obbedienza all'autorità ecclesiale. Ogni dono distribuito dallo Spirito Santo, infatti, è destinato all'edificazione della Chiesa, e la Chiesa, attraverso i suoi Pastori, ne riconosce l'autenticità. 
Parlerò ancora una volta il prossimo mercoledì su questa grande donna "profetessa", che parla con grande attualità anche oggi a noi, con la sua coraggiosa capacità di discernere i segni dei tempi, con il suo amore per il creato, la sua medicina, la sua poesia, la sua musica, che oggi viene ricostruita, il suo amore per Cristo e per la Sua Chiesa, sofferente anche in quel tempo, ferita anche in quel tempo dai peccati dei preti e dei laici, e tanto più amata come corpo di Cristo. Così santa Ildegarda parla a noi; ne parleremo ancora il prossimo mercoledì. Grazie per la vostra attenzione.