sabato 4 settembre 2010

ANSA 2.9.10
Festa Pd: Torino ricorda Lombardi, poeta del socialismo credeva in una società con più cultura per tutti
Il ''poeta del socialismo'', che sognava una ''societa' diversamente ricca'', in nome di un ''benessere che volesse dire piu' cultura, piu' soddisfazione dei bisogni umani, piu' capacita' per gli operai di leggere Dante e di apprezzare Picasso''. Riccardo Lombardi, figura storica del socialismo italiano, a lungo dimenticato, antifascista, tra i padri costituenti, verra' ricordato domani alla Festa nazionale del Pd di Torino. Sara'infatti presentato, subito dopo l'incontro con Walter Veltroni, il libro ''Lombardi e il Fenicottero'' (L'Asino d'oro edizioni), di Carlo Patrignani. A presentarlo, con l'autore, saranno Anna Pettini, docente di Economia a Firenze, la senatrice Pd Franca Donaggio e lo storico Marco Revelli. L'alternativa socialista, il riformismo rivoluzionario, l'attenzione ai giovani e ai movimenti contestatari, il rifiuto delle ''forme deliranti'' di un certo tipo di '68, sono alcuni dei temi che rendono attuale Lombardi, fautore di una visione dell'attivita' politica intesa come interesse per gli altri. A 25 anni dalla scomparsa, ''Lombardi e il Fenicottero'' ripropone un personaggio scomodo, ma anche un'altra figura importante nella vita di questo siciliano di ''ferro'', come lo definisce Corrado Augias, Ena Viatto, il Fenicottero del titolo, compagna di Lombardi, staffetta partigiana. Lombardi fu tra i protagonisti della Liberazione prima e della Costituente poi, promotore nel 1946 della Repubblica presidenziale. Lotto', coerentemente, per quello che lui definiva il ''riformismo rivoluzionario'', sempre rifiutando lo status quo e praticando la ''non violenza'' anche verbale, finendo cosi' per isolarsi. Con una prefazione di Marco Pannella, il libro ricostruisce la storia italiana di quegli anni e contiene alcuni documenti inediti su personaggi della storia repubblicana, da Togliatti a Fanfani.

Agi 4.9.10
Libri: Torino, presentato a Festa Pd "Lombardi e il fenicottero"
"Un libro che, forse, era proprio necessario". Cosi' Marco Revelli, docente all'universita' di Torino, ha presentato, nell'ambito della Festa Democratica nazionale in corso nel capoluogo piemontese, il libro "Lombardi e il fenicottero" di Carlo Patrignani. "E' il ritratto - ha sottolineato Revelli - di una figura centrale della vita politica del nostro Paese, quella del socialista Riccardo Lombardi, che per alcuni anni non ha avuto giustizia, lasciata un po' da parte. Ora, in realta', sta avvenendo una nuova riscoperta, segno che, alla distanza, i cavalli di razza vincono sempre". "Il libro di Patrignani - ha spiegato ancora il docente universitario torinese - evidenzia il carattere coraggioso, trasgressivo di Lombardi, la sua capacita' di guardare lontano". Altra particolarita' del volume, giunto alla seconda ristampa, con 4000 copie vendute, l'aver voluto mettere in luce la compagna di Lombardi, Ena Viatto, il "fenicottero" del titolo, figura centrale nella vita del "poeta del socialismo". "Il ritratto che emerge della coppia - ha detto ancora Revelli - e' un ulteriore conferma del detto che 'dietro un grande uomo c'e' sempre una grande donna'". Anna Pettini, docente di Economia all'universita' di Firenze, ha, invece, sottolineato uno dei temi cari a Lombardi, affrontato nel libro di Carlo Patrignani, quello del sogno di una "societa' diversamente ricca". "Un tema forse troppo anticipatore per quei tempi - ha spiegato Anna Pettini - ma che ci consente, oggi, con strumenti diversi di affrontarlo e di renderlo oggetto di ulteriori ricerche. Certamente, si puo' dire, che piu' che un'utopia, quella di Lombardi fu un'intuizione di un tema che oggi si propone quanto mai attuale ed urgente e di questo dobbiamo essergli grati". (AGI) Chc

Corriere della Sera 4.9.10
Foa, il dovere di comprendere
Padre nobile della sinistra, studiava le novitа rifiutando il pessimismo
di Corrado Stajano

Compirebbe cent’anni, il 18 settembre, Vittorio Foa, uomo politico, sindacalista, scrittore, nato nel 1910, morto nell’autunno di due anni fa. Anomalo del Novecento, secolo terribile di guerre, di rivoluzioni, di violenza — il fascismo, il nazismo, lo stalinismo, la Shoah, la bomba atomica — è passato attraverso la tragedia della storia d’Italia e d’Europa, ha vissuto intensamente, senza eroismi, esibizionismi, vittimismi, con la gioia di vivere e la voglia di essere dentro il mondo anche nei momenti più difficili.
A ricordare i suoi cent’anni stanno per uscire due libri che sembrano quasi gli archivi della memoria di una lunga esistenza: Scelte di vita, a cura di Andrea Ricciardi (Einaudi), e Scritti politici. Tra giellismo e azionismo (1932-1947), a cura di Chiara Colombini e Andrea Ricciardi (Bollati Boringhieri).
Vittorio Foa ha cominciato tardi a scrivere e a scavare nel passato, diffidente del suo io e insieme narcisista compiaciuto, critico e autocritico, anche. Aveva scritto libri sul sindacato, furono Natalia Ginzburg e suo figlio Carlo a spronarlo a raccontare quel che aveva visto e vissuto nel tempo. Faceva resistenza, «non ho mai tenuto un diario», diceva dubbioso, «ho soltanto la memoria, pericolosa perché si accumula e uno ricorda i ricordi». Un gruppo di amici, Carlo Ginzburg, Vittorio Rieser, Giovanni De Luna, Pietro Marcenaro e poi Claudio Pavone e qualcun altro cominciarono allora, tra il 1984 e il 1985, a interrogarlo registrando i dialoghi. Quei testi, spiega nell’introduzione a Scelte di vita Sesa Tatò, la sua seconda moglie, sono diventati una traccia utile per uno dei libri più famosi, l’autobiografia Il cavallo e la torre (Einaudi), del 1991: «Una sorta di ricognizione sui grandi temi, riforme e rivoluzione, il "progetto", il progresso, il lavoro, il tempo, il "giacobinismo", l’eterogenesi dei fini (…), uno ieri già lontano, ma con delle intuizioni di valore universale che ci possono far riflettere sul nostro comune e recente passato». Quelle cassette registrate sono state trascritte ora nella loro quasi totale completezza e sembrano davvero un fondaco di idee, una prova di che cosa voleva dire una volta discutere, quale serietà e passione venivano usate rispetto alla povera politica di oggi.
L’altra raccolta, Scritti politici, è un prezioso documento, con un approfondito saggio dei curatori Colombini e Ricciardi. Il massiccio libro raccoglie gli articoli, le analisi, gli interventi di un pezz o di vita, gl i a nni Tr e nt a e poi i l 1943-1944 e, soprattutto, il 1945-1947, la Liberazione, il governo Parri, la politica socialista e quella comunista, gli albori della restaurazione, l’industria, l’economia, la classe operaia.
Nato a Torino, suo padre era avvocato, suo nonno il gran rabbino Giuseppe Foa, Vittorio è legato nel profondo alla sua città, frequenta il liceo D’Azeglio, ha tra i suoi maestri Augusto Monti e Zino Zini, collaboratore di Gramsci all’«Ordine Nuovo». Conosce allora Leone Ginzburg, forse il più intelligente del gruppo torinese, e gli diventa amico. All’università si laurea in Giurisprudenza, fa pratica in qualche studio legale, cresce nell’ambiente fervido dell’antifascismo della città sotto la Mole.
Nel 1933 aderisce a Giustizia e Libertà, nel 1935 viene arrestato per la delazione di Pitigrilli (Dino Segre), lo scrittore pornografo, agente provocatore e spia dell’Ovra. (Considererà quel tradimento di parenti, stretti amici e conoscenti «il capolavoro della sua vita»). Con Foa finiscono in prigione Michele Giua, Massimo Mila, Giulio Einaudi, Franco Antonicelli, Carlo Levi, Cesare Pavese e altri. (Leone Ginzburg è stato arrestato l’anno precedente). Foa è condannato a 15 anni di reclusione, la pena più alta, gli altri a sanzioni minori, carcere e confino. L’organizzazione di Giustizia e Libertà è smantellata.
Trascorre otto anni in prigione, dal ’35 al ’43, a Regina Coeli, a Civitavecchia, a Castelfranco Emilia. A Roma è in cella con Riccardo Bauer, Ernesto Rossi, Massimo Mila. Sessant’anni dopo sono spuntate da una cassapanca 502 lettere inviate allora ai genitori, ai fratelli, alla nonna e nel 1998 verrà pubblicato, a cura di Federica Montevecchi, uno straordinario libro, Lettere della giovinezza, quegli anni passati in carcere. Con i compagni legge, studia economia, storia, letteratura: Mazzini, Weber, Trotzkij, Croce, Silvio Spaventa, Keynes, Cavour e il Risorgimento, Lytton Strachey, Omodeo, Tocqueville. Ma legge anche Swift, Dos Passos, Bacchelli, Vittorini, Melville, Svevo, Faulkner, Moravia. È davvero un’università la prigione, un dottorato di lunga ricerca. Si sta preparando al dopo. Sono coscienti, Foa e gli amici, che saranno loro la classe dirigente che dovrà salvare l’Italia dalle macerie del fascismo. È spiritoso, ironico. Minimizza, rassicura. Scrive ai genitori: «Il carcere non è peggio di un albergo di infimo ordine. Il tempo, la posta e i pacchi che arrivano sono i protagonisti della vita di prigione. Il salamino d’oca, le polpette, la squisita quaglietta gustata anche dai compagni, il cremino».
Il lessico famigliare e gli eventi focali del Novecento sono i temi delle lettere: la guerra d’Etiopia, la guerra civile spagnola, l’antisemitismo e le leggi razziali del ’38. E poi la guerra. E la caduta del fascismo. C’è nel libro una lettera, il 29 luglio 1943, che rivela il carattere di Vittorio: «Carissimi, avevo appena imbucato la lettera di lunedì quando ho avuto notizia della crisi di governo a Roma e della sua soluzione». Tutto qui. Con un codicillo, un moto d’abbandono: «Arrivato al termine della mia lunga e dura esperienza di galera, non ritrovo in me quella gioia smodata che l’immaginazione presagiva; ma solo un senso di grave responsabilità».
La sua vita, subito dopo la prigione e fino alla morte, è inquieta, ricca di fatti. Uomo della Resistenza e del Partito d’Azione, con Leo Valiani, Franco Venturi, Giorgio Agosti, Riccardo Lombardi, Ada Gobetti, Altiero Spinelli e altri. Eletto deputato alla Costituente, poi, allo scioglimento del PdA, deputato nel Partito socialista, dal 1953 al 1964. Quando nasce il centrosinistra, che avversa, è tra i fondatori del Psiup. Ma la sua azione, dal 1948 al 1970, è soprattutto nel sindacato, con incarichi dirigenti nella Fiom e nella Cgil. Ha grande stima e affetto per Giuseppe Di Vittorio, «unico uomo da cui ho imparato la politica. È lui che mi ha insegnato la mossa del cavallo. Non devi battere il naso contro gli stessi ostacoli, ma aggirarli, cercare un terreno diverso dove riportare il conflitto e poter ricominciare. Di Vittorio possedeva una grande capacità di immaginazione».
Nel 1972 è tra i fondatori del Pdup, un’altra delle sue ricerche a sinistra. Poi, nel 1979 gli nasce l’idea di star zitto per quattro anni: significa riflettere, per difendersi dal logoramento delle parole, per non essere costretto ogni momento a dir quel che pensa. (Ci fosse adesso qualche politico come lui capace di ritirarsi in un eremo e di non farsi più vedere dopo le sconfitte subìte).
La politica è più forte di Foa, nel 1987 viene eletto senatore nella Sinistra indipendente, non perde mai i contatti con la società, soprattutto con i giovani, dagli sconfitti del Sessantotto ai depressi del presente. È arrivato per lui il tempo della scrittura.
Chi è Foa? Nel PdA è un giacobino — non potrebbe esserlo nel Psi né nel Pci — un eretico, un dissidente perenne, detesta i pessimismi di maniera convinto che qualcosa, sempre, viene conquistato. Crede nel cambiamento, si arrovella per cercare la giusta via, rifiuta la delusione, è certo che si possono ottenere dei risultati diversi da quelli sperati, anch’essi positivi.
Il comunismo è il gran rovello del secolo. Ha simpatia per Togliatti: «Era un uomo fortemente passionale, con una grande capacità di controllo. La mia debolezza è di ammirare sempre ardentemente l’intelligenza e in lui l’intelligenza era tale che bastavano poche parole per intendersi. Ero affascinato dal suo distacco, dalla sua ironia». Dei comunisti ha sempre avuto un grande rispetto, ma non è mai diventato comunista. «Tra me e loro, diceva, con la stima c’erano diversità profonde: i comunisti avevano trovato la verità, io la cercavo nel filone della libertà e dell’eguaglianza».
Foa è intransigente, ma non intollerante, non è un moralista, negli ultimi decenni si considera a tratti un vecchio saggio, ma è anche un eversore, minoritario per tutta la vita, anche se non vuole ammetterlo, con un po’ di civetteria.
«Qual è, Foa, la definizione in cui si rispecchia di più?», gli chiese nel 1991 un giornalista. «Sono sempre disponibile a mettermi in discussione. Sono anche un giacobino. Sono soprattutto un pasticcio di tante cose mescolate, diverse da momento a momento».
«Comprendi?» era il suo intercalare prediletto nelle lunghe e appassionate discussioni. Era quello il suo fine perenne, capire e far capire. Nella vita agì perché fosse così per molti.

l’Unità 4.9.10
Rosy Bindi arruola Fini
Bersani frena
Fli: no, grazie
La presidente Pd si appella «alle forze che vogliono salvare la Costituzione, compreso Fli e Udc»
Il segretario aspetta «Ma il governo non finisce la legislatura e non si può escludere nulla»
Di Pietro: «Non accetteremo primarie finte sul candidato premier». Il leader del Pd: «Immaginabile un’alleanza di governo con Udc e Api». Fioroni e Marino criticano l’ipotesi avanzata dalla presidente dei Democratici.
di Simone Collini

«Prima o poi casca l’asino», dice Pier Luigi Bersani. Ovvero, il governo difficilmente arriverà a fine legislatura. Ma visto che, soprattutto sui tempi, l’incertezza regna sovrana, per il segretario del Pd è meglio non anticipare mosse che nel caso andranno compiute solo a crisi consumata. Per questo mentre Rosy Bindi dice senza mezzi termini che se Berlusconi dovesse far saltare il tavolo e portare il paese a nuove elezioni il Pd proporrà all’Udc e anche ai finiani «un’alleanza per la democrazia» («staremo con tutti coloro che sono disponibili a salvare questa Costituzione»), Bersani evita di mettere sul piatto proposte che così a freddo possono risultare indigeste e ribadisce la sua proposta politica: «Noi lavoriamo ad un Nuovo Ulivo per l’alternativa di governo e proponiamo una alleanza per una riforma delle regole democratiche a tutti quelli che non accettano la deriva plebiscitaria». Dice il leader del Pd arrivando alla festa dell’Api in corso a Labro, antico borgo poco fuori Rieti: «In caso di emergenza queste due proposte possono collegarsi». Cioè, che cosa farete se si andrà al voto anticipato? «Vedremo, la situazione è incerta e noi siamo flessibili». Insomma Bersani non smentisce l’apertura di Rosy Bindi ai finiani, ma neanche vuole mettere agli atti formule che allo stato suonerebbero premature. Si limita a dire, per ora, che «in caso di emergenza non si può escludere nulla». Né potrebbe fare altrimenti.
NO GRAZIE DEI FINIANI
Le parole della presidente del Pd suscitano infatti reazioni di critica sia fuori (dall’Idv a Sel al Prc) che dentro il partito. Italo Bocchino fa sapere che i finani sono «politicamente e culturalmente ancorati al centrodestra», che «non ci sono ragioni per elezioni anticipate» e neanche «per alleanze di Futuro e libertà con la sinistra». Ma anche nel Pd c’è chi definisce fuori luogo l’ipotesi di un’alleanza così vasta, anche se fondata su nobili intenti. «Una alleanza a difesa della Costituzione si fonda su valori che vanno rispettati e che ci tengono distinti e distanti da Fini», dice Beppe Fioroni. E anche Ignazio Marino, che pure si dice favorevole a «un esecutivo di scopo» con quelli che «hanno a cuore la democrazia», invita a «non confondere le idee ai nostri elettori»: «Accordi più ampi, con Casini e Fini, in caso di ritorno alle urne, per me non sono eticamente accettabili».
VELTRONI E IL GATTOPARDO
Osserva da debita distanza la discussione Walter Veltroni, ieri ospite alla Festa nazionale del Pd. L’ex segretario evita di commentare direttamente la vicenda, ma al di là del modo in cui ha bocciato già nei giorni scorsi ipotetiche «sante alleanze», fa ben capire come giudichi certe operazioni dicendo che «se la politica è smontare e rimontare, questo gioco appassiona solo chi smonta e rimonta», che andare al governo è un mezzo mentre il fine è «cambiare il Paese» e che l’Italia la deve smettere di essere «come il Gattopardo»: «Il nostro Paese deve ritrovare il senso della sua missione, credo ci sia una maggioranza di italiani che accoglierebbe un messaggio di questo genere».
In questo quadro Bersani, che dice di aver usato «una parola un po’ forte» parlando di berlusconismo che porta la politica nella «fogna», arriva alla festa dell’Api, la formazione a cui ha dato vita Francesco Rutelli dopo l’addio al Pd con l’obiettivo di creare un terzo polo. Il leader dei Democratici non esclude un «reincontro» con i vecchi compagni, sottolinea che «l’Italia è profondamente bipolare» ma aggiunge anche che se l’operazione “Kadima” dovesse andare in porto «è assolutamente immaginabile un’alleanza di governo», con loro come con l’Udc. Il problema è che sia Casini che Di Pietro stanno mettendo il Pd di fronte a un aut-aut: o noi o loro. E se il leader dell’Idv dice anche che non accetteranno «primarie finte» per la scelta del prossimo candidato premier, Bersani lancia all’ex pm un altro messaggio: «L’Idv può stare nel Nuovo Ulivo, ma tutti devono essere responsabili, non solo noi. Dobbiamo chiarire una volta per tutte se vogliamo affrontare i problemi del Paese o se vogliamo sempre provare a scavalcarci e farci concorrenza tra di noi».

l’Unità 4.9.10
Il figlio di Rossellini «Mio padre sarebbe con il Pd... più cattivo»

LA PARTE GIUSTA Suo padre avrebbe votato per il Pd? A questa domanda Renzo Rossellini, ieri, alla Festa Nazionale del Pd di Torino per presentare uno dei lavori del grande regista, ha risposto: «Credo senz'altro di si» aggiungendo, però, che probabilmente avrebbe voluto un «Pd forse un pò più cattivo». «A mio padre sicuramente, in questo momento, sarebbe venuta la rabbia e l'avrebbe espressa mettendosi dalla parte dell'opposizione, qualunque essa sia, Pd ma anche Di Pietro». Il grande regista, secondo quanto ha detto il figlio Renzo, avrebbe voluto però «un Pd un pò più cattivo. Essere arrabbiati comporta anche essere più cattivi e la cattiveria è anche legittima». Rossellini ha polemizzato poi con i tagli alla cultura, «contro i pericoli di un regime che deriva dal fatto che levando alla gente la capacità di scegliere, togliendole la cultura, l'informazione, come il bavaglio alla stampa e con il monopolio in mano a uno solo, il risultato è che le persone non sanno più capire, e sono vittime solo della propaganda».

il Fatto 4.9.10
Giustizia, pericolo separazione
Si parla solo di processo breve, ma la divisione delle carriere tra pm e giudici è pericolosa: se gli inquirenti dipendono dall’esecutivo perdono l’autonomia
di Gian Carlo Caselli

Attenzione alle tecniche di distrazione. Tutti a parlare di “processo breve”, dimenticando gli altri punti del pacchetto giustizia su cui il Governo dice di voler porre la fiducia (anche per ricomporre una maggioranza divisa). La storia del “processo breve” mi sembra segnata. Qualche limatura che renda il testo non troppo impresentabile, qualche sparata su investimenti straordinari (ma i soldi, di grazia, dove sono?) perché la riforma non appaia a tutti per quel che è, trucco verbale o utopia: e l’ossessione berlusconiana di cancellare i suoi processi sarà alla fine soddisfatta. Così, sugli altri punti del pacchetto tutto potrà filare liscio. Invece c’è molto di che preoccuparsi per gli effetti devastanti che potrebbero aversi sulla giustizia. La separazione delle carriere, ad esempio, sarebbe un vero e proprio suicidio per l’Italia che ancora crede alla legalità.
Il nostro ordinamento
PRIMA di tutto un po’ di chiarezza. Differenziare Pm e giudici è una necessità, per ragioni sia di sostanza che di immagine. Essendo ovvie le differenze dei ruoli, occorre evitare commistioni improprie, reali o apparenti. In altre parole, chi è stato Pm non può comparire il giorno dopo come giudice nello stesso tribunale in cui ha esercitato per anni funzioni requirenti (o viceversa). E difatti il nostro ordinamento non lo consente. Il giudice o Pm che vuol cambiare funzione deve cambiare regione, oltre a superare una complessa serie di verifiche attitudinali. Questa (ed è realtà operativa, ormai acquisita!) è la separazione delle funzioni, cosa tutt’affatto diversa dalla separazione delle carriere. La quale di fatto comporta che chi nasce Pm muore Pm, senza nessuna possibilità di passare al ruolo giudicante ( e viceversa), con l’inevitabile corollario di due concorsi separati e due Csm separati. Ma un corpo separato di Pm è destinato inevitabilmente a perdere l’indipendenza rispetto al potere esecutivo. Non esiste, infatti, un “tertium” dotato di autonomia tra ordine giudiziario ed esecutivo. E non è democraticamente ammissibile l’irresponsabilità politica di un apparato di funzionari pubblici numericamente ridotto (circa 2.000 unità), altamente specializzato, con ampie garanzie di “status”, preposto in via esclusiva all’esercizio dell’azione penale. Questo potere o è compensato dal suo ancoraggio alla giurisdizione oppure deve essere riportato alla sfera della responsabilità politica. Mentre l’ancoraggio del Pm alla cultura della giurisdizione è, nel nostro sistema, un elemento di garanzia irrinunciabile che sarebbe inevitabilmente travolto dall’attrazione, piuttosto che dalla cultura delle regole, nella cultura dei risultati politicamente “convenienti” (basta chiedersi che differenza fa, di fronte ai misteri dei servizi deviati o ai depistaggi troppe volte emersi in questi anni, avere un Pm-giudice piuttosto che un Pm condizionabile dalla politica).
Eppure la separazione delle carriere è un’altra delle ossessioni che inquinano il dibattito ed i possibili interventi sulla giustizia. Non ridurrebbe di un nanosecondo la durata dei processi, non sposterebbe di un millimetro il livello di efficienza del sistema, ma toglie il sonno sia al premier sia alla potentissima lobby degli avvocati (quelli in Parlamento e quelli che formano la corporazione delle Camere penali). A sostegno della separazione delle carriere si porta l’argomento dello “strapotere dell’accusa”, ma il sistema processuale varato nel 1988 è, per comune valutazione, equilibrato ed egualmente rispettoso delle esigenze della parte pubblica e privata. E l’attribuzione al Pm, nel processo riformato, di un ruolo di “parte” si riferisce solo – né potrebbe essere altrimenti – alla dinamica processuale (formazione della prova, dibattimento, ecc.), non anche ad una inesistente omogeneità istituzionale tra Pm e difesa, come sembra sostenere chi vuol ridurre il Pm ad avvocato dell’accusa o della polizia. Altro argomento “forte” è che non se ne può più di questi Pm che prendono il caffè coi giudici! Occorre rompere l’attuale colleganza (determinata dalla omogeneità di “status”) tra giudicanti e requirenti; perché un giudice non controllerebbe con sufficiente rigore l’operato di un Pm che è suo collega (anche al bar.....), mentre uno “status” diverso e separato lo libererebbe dai condizionamenti dell’accusa. Affermazioni tanto suggestive quanto infondate: innanzitutto perché la realtà depurata da distorsioni ideologico-corporative dimostra che decisivi sono i ruoli, infinitamente più importanti dei rapporti individuali, della comunanza di carriera, delle frequentazioni e persino dei caffè presi insieme...; e poi perché se nel processo fosse necessaria una eterogeneità di estrazione e appartenenza tra controllori e controllati, ad essere separate dovrebbero essere piuttosto – ciò che nessuno ragionevolmente osa proporre – le carriere dei giudici di appello e quelle dei giudici di primo grado...
Vere motivazioni
IN REALTÀ la motivazione delle proposte di separazione delle carriere sta nello sviluppo, inedito per qualità e quantità, che l’azione penale ha conosciuto in Italia negli ultimi decenni. Un Pm troppo indipendente a certi potenti dà l’orticaria. E se i Pm rifiutano di tenerne conto e di ritornare nella loro nicchia “tradizionale”, per certi palazzi la separazione delle carriere è la risposta giusta, tanto più – si osserva – che è già praticata altrove. Vero è che in alcuni Paesi democratici vi sono forme di separazione delle carriere, ma è altrettanto vero che in essi – sempre – il Pm in un modo o nell’altro riceve dal potere esecutivo (in forza di tale separazione) ordini, direttive o suggerimenti.
Effetti desiderati
MA IN QUESTI Paesi nessun politico si sognerebbe mai di difendersi non “nel” ma “dal” processo aggredendo o insultando i magistrati che debbano occuparsi di lui. Un politico che cercasse impunità tentando di sottrarsi alla giurisdizione non avrebbe scampo. Ed in ogni caso la politica (fuori dei nostri confini) sa bonificarsi essa stessa neutralizzando le mele marce senza bisogno di processi penali. L’Italia invece (e purtroppo) è ancora oggi caratterizzata da una corruzione diffusa, da collusioni con la mafia, da mala-amministrazione nelle più svariate accezioni, vale a dire da vicende oscure che coinvolgono pezzi consistenti della politica. Conviene che proprio “questa” politica (refrattaria ad ogni forma di responsabilità extra-giudiziaria) possa anche, grazie alla separazione delle carriere, ordinare al Pm su che cosa indagare e su cosa invece far finta di niente? Lo ripeto: per l’Italia che ancora crede nella legge uguale per tutti sarebbe un suicidio. Financo le odiose leggi “ad personam” diverrebbero inutili se la persona interessata potesse pretendere dal Pm quel che più le piace. E per l’Italia delle regole sarebbe un lutto.

Repubblica 4.9.10
La scuola scoppia, ecco le superclassi nei licei anche 35 alunni per aula
Allarme dei docenti: sicurezza a rischio e didattica penalizzata
Superato in molte città il tetto di 27. La Cgil: colpa del taglio dei professori
di Sara Grattoggi e Salvo Intravaia

ROMA - Lezioni al via in aule sempre più affollate. Cresce il numero delle classi "fuorilegge": secondo un decreto ministeriale del 1992, infatti, sono da considerarsi non in regola quelle classi composte da oltre 25 alunni. E per l´anno scolastico in arrivo nelle scuole italiane si arriva ad oltrepassare i 30 studenti per aula fino ad arrivare a trentasette. E la sicurezza? I dirigenti degli uffici periferici del ministero che approntano gli organici fanno finta di non accorgersene perché, in caso di incidente, la responsabilità ricade sul preside. Mentre i docenti si dovranno confrontare con superclassi dove insegnare è quasi un´impresa e gli alunni dovranno mettersi d´impegno per non rimanere tagliati fuori.
Il ministero ha stabilito un limite di 27 alunni per classe, ma quando i resti non consentono di formarne un´altra di almeno 20 il tetto salta. È il caso del liceo Tacito a Roma, dove su sette nuove prime due saranno formate, rispettivamente, da 35 e da 33 studenti. E si può arrivare in vari casi anche a 37 allievi. I numeri dell´anno scolastico alle porte sono più eloquenti di qualsiasi speculazione: tra poco più di una settimana, la scuola italiana avrà 20mila alunni in più dell´anno scorso che troveranno spazio in 3.700 classi in meno. Un giochetto che consente a viale Trastevere di tagliare un bel numero di cattedre.
Ma cosa accade quando il professore entra in una superclasse? Renato Del Noce, insegnante tecnico-pratico di Fisica all´Iti Meucci di Massa, spiega che «quando hai a che fare con classi di 29/30 alunni tutto si complica». «Non ci sono - prosegue - laboratori in grado di ospitare 30 alunni, mancano le strutture adeguate. E - aggiunge - sei spesso costretto a dividere la classe: una parte lavora in laboratorio con me e l´altra metà studia la teoria in classe col collega». Non solo. «Specialmente nelle prime classi composte da ragazzini provenienti da scuole medie diverse - prosegue - tutto diventa più difficile: passi diverse settimane a portare tutti gli alunni allo stesso livello e non è detto che ci si riesca. Può capitare che per mandare avanti la maggior parte della classe non si riescano a seguire i ragazzini con più difficoltà che poi si perdono per strada».
Un problema che si verifica anche in Germania e che sta determinando una fuga verso le scuole private. Nei licei francesi la media è già di 28 alunni. In Italia, sono le sezioni di scuola dell´infanzia e le prime classi delle superiori che rischiano di esplodere.
Alla materna ci si avvia verso i 24 bambini per classe di media, il dato più alto degli ultimi 15 anni. Per trovare numeri più alti occorre andare indietro di diversi decenni, quando in classe c´erano anche 40 alunni. Nel 2009/2010 sono state 28 le province italiane dove il limite di 25 alunni per classe di media è stato superato. Record a Mantova e Pavia con, in media, oltre 27 piccoli per classe.
Al classico e allo scientifico le prime scoppiano. Ventinove alunni per classe a Viterbo al classico, e 28 a Reggio Calabria allo scientifico. Valori che si avvicinano a quelli degli anni ´50.
Il decreto del ministero dell´Interno del 26 agosto 1992, "Norme di prevenzione incendi per l´edilizia scolastica", prevede un "affollamento massimo ipotizzabile" di 26 persone per aula: 25 alunni, più il docente. Con un numero superiore di alunni, se non sono state previste misure particolari, l´esodo in caso di incendio può diventare problematico. Un´altra norma prevede un tot di metri quadri per alunno. «La ministra - spiega Domenico Pantaleo, segretario generale della Flc Cgil - non si rende conto che in queste condizioni manca qualsiasi requisito di sicurezza. I tagli al personale docente hanno fatto aumentare il numero di alunni per classe e quello al personale Ata non garantirà neppure un adeguata vigilanza nei corridoi. Un disastro».

l’Unità 4.9.10
Le hostess senza dignità
Non ci si vende per Gheddafi. Dieci anni fa facevo la «stagista». Sono senza un euro ma resto con la schiena dritta
di Valeria Brigida

Cara Nadia Urbinati, la sua lettera aumenta i pensieri che già da tempo affollavano la mia mente. Faccio parte della generazione che solitamente definisco “generazione delle giovani donne adulte”. Mi riferisco a quelle donne che oggi hanno più o meno 30 anni e che dieci anni fa facevano, come le chiama lei, «le stagiste» di fiera. Quelle donne che, invece, la generazione a cui appartengo chiama promoter o hostess. Dieci anni fa studiavo all’università e, per racimolare un po’ di soldi e non doverli chiedere ai miei genitori, facevo non solo la baby sitter, ma anche la hostess per eventi culturali di teatro e concerti, e la promoter nei supermercati, vendendo prodotti gastronomici ai pensionati o alle casalinghe che venivano a fare la spesa. Lo facevo senza remore, con dignità. Dovevo solo essere gentile, accompagnare le persone in sala, prendere i loro cappotti, o regalare il gadget alla vecchina che convincevo a comprare due confezioni di latte in omaggio. Avevo una divisa da indossare ed ero pagata tra i 5 e i 10 euro l’ora. Sono passati circa 10 anni. Oggi sono una giornalista, ho una laurea, due master, diversi corsi di specializzazione alle spalle e molte esperienze all’estero. Ma non ho neanche uno straccio di lavoro che mi consenta di ricevere tra i 5 e i 10 euro l’ora. Ogni tanto mi capita di collaborare. Ma sono briciole! E, a scanso di equivoci per chi ce l’ha con la «casta» dei giornalisti, quando scrivo «briciole» mi riferisco a 40 euro per un articolo pubblicato. Non vengo più presa per fare la hostess perché non ho più l’età. Né per fare la commessa o la cameriera perché, mi sento rispondere, è preferibile uno straniero o un non laureato con la motivazione che almeno non c’è pericolo che reclamino qualche diritto. Quando finiranno i soldi delle mie piccole collaborazioni mi ritroverò a fare quello che non facevo neanche a 20 anni: chiedere i soldi ai miei genitori. Perché io ancora ho dei genitori. E se un giorno non dovessero più esserci? Fortunatamente non ho figli da mantenere! E mentre scrivo fortunatamente sento che si disegna un ghigno ironico sul mio volto: perché anche io ho l’istinto di maternità, com’è naturale che sia alla mia età! Spesso affronto questi argomenti con molte altre giovani donne adulte che hanno il mio stesso problema. E, spesso, purtroppo, concludiamo con sarcasmo che sarebbe più redditizio se andassimo a fare le prostitute! Eppure lo confesso. Anche io, quando ho visto quelle hostess per Gheddafi, ho provato sensazioni contrastanti: da un lato, infatti, ho pensato che ci trovassimo di fronte a una delle sfaccettature della crisi finanziaria che sta attraversando (anche) il nostro Paese. Dall’altro, tuttavia, mi sono chiesta se 70 euro al giorno per accogliere e ascoltare sorridendo un dittatore – perché è di questo che si tratta non sia, in realtà, una svendita della propria persona. E allora mi chiedo: come è potuto accadere che in Italia si sia arrivati alla svendita totale non solo del proprio corpo ma anche e, soprattutto, della propria identità culturale e di genere? Alla stregua dei commercianti, anche noi italiani e italiane siamo nell’era della svendita totale per cessata attività culturale? Io non condivido la scelta di chi decide di prostituirsi con il proprio corpo. Né tantomeno voglio aprire un dibattito morale o antropologico su quello che viene definito «il mestiere più vecchio del mondo». Perché già so che non porterebbe a nulla. Ma, certamente, sono contraria con tutta me stessa allo sfruttamento della prostituzione, alla riduzione in schiavitù. Allora la domanda che voglio porre è proprio questa: non pensa che quanto accaduto con le hostess di Gheddafi sia assimilabile, e forse anche più grave, dello sfruttamento della prostituzione? In questi giorni mi sono ritrovata a pensare a quelle ragazze come a un branco di «giovani donne adulte» intrappolate in modelli imposti da una cultura che sta regredendo, che sta addormentando le coscienze e che sta facendo scivolare nel dimenticatoio il ricordo delle battaglie delle nostre mamme e delle nostre nonne. Io non avrei mai accettato neanche per 5 euro l’ora di assecondare l’autocelebrazione di un dittatore, né tantomeno di un leader che si professa democratico. La sera del 31 agosto, davanti alla Caserma dei Carabinieri di Roma Salvo D’Acquisto, io stringevo in mano due libri e, per quanto circondata da forze dell’ordine, mi preparavo a partecipare insieme ad altri uomini e donne al flash mob «Un libro per il Colonnello». A chi mi chiedeva con quali libri avrei sfilato, rispondevo: «Sfilerò in un abito doubleface. Ho scelto un modello per tutte le stagioni!». Nella mano destra stringevo il passato: «Una donna», di Sibilla Aleramo. Nella mano sinistra stringevo il futuro, la battaglia che sono chiamata a compiere: «Il corpo delle donne», di Lorella Zanardo.
Perché anche io sono un prodotto della crisi finanziaria globale. Ma come «giovane donna adulta» non ci sto alla mercificazione del mio corpo e della mia mente.

l’Unità 4.9.10
Il reportage
Patti di sangue e religione
A Polsi si prega e si fa business
La festa della Madonna della Montagna Luogo di culto per i fedeli e sede dei summit annuali dei vertici delle ’Ndrine calabresi
di Gianluca Ursini

Cento minuti. Un’ora e 40 senza mai pronunciare la parola «’Ndrangheta». Un bell’esercizio di retorica da parte dell’arcivescovo locrese Giuseppe Fiorni Morosini, pur da sempre duro, nell’omelia che ha chiuso quest’anno sotto un imprevisto nubifragio estivo le celebrazioni in onore della Madonna della Montagna del santuario di Polsi, pochi chilometri di calanchi e forre impervie in linea d’aria da San Luca, il cuore dell’Aspromonte descritto da Corrado Alvaro, un giorno di cammino per i fedeli scalzi. Morosini ha respinto sulla soglia del santuario la presenza di mafiosi «se non desiderate convertirvi all’amore di Cristo». Maria, «avvocata nostra», invocata da mafiosi e ’ndranghetisti come protezione al momento di compiere azioni militari e come garante dei patti di sangue e delle alleanze, tra boss dello Stretto e “cumpari” della Locride e della Piana di Gioia Tauro. I tre “mandamenti” in cui le ’Ndrine sono divise, come stabilito dall’inchiesta giudiziaria dei magistrati calabresi “Crimine”. E, come dimostrato nell’indagine “Meta” dal pool Dda antimafia di Reggio coordinato da Nicola Gratteri, da decenni i tre mandamenti stringevano i loro patti di sangue e dirimevano questioni pratiche, finanziarie o della catena di comando, nei giorni antecedenti la Messa celebrata nel santuario basiliano del nono secolo, chiuso al fondo di una gola stretta per la quale si scende da un calanco con pendenza impossibile. Fin dalla novena del 24, nell’ultima decade di agosto, i boss si ritrovavano fin sotto le mura sacre o nei boschi intorno, in qualche spiazzo tra faggeti e pini loricati, con Suv e Jeep e 4x4 tedeschi parcheggiati a distanza, mentre i picciotti con lupara a tracolla facevano la guardia, e ci si «spartiva i patti»: chi poteva fare cosa, dove e come espandere u bisinissi.
Un potere che si espandeva fin oltre i confini nazionali e sempre più forte nel ricco Nord padano, tanto da infiltrare ben tre Asl amministrate dalla Regione guidata da Roberto Formigoni: Pavia, Monza e Milano – San Paolo. Tanto forte sotto la Madunina da prendere a braccetto capigruppo comunali di Forza Italia come Armando Vigilati, coordinatori provinciali Pdl in Brianza come Massimo Ponzoni, fino a partorire il primo “leghista ndranghetista”, quell’Angelo Cioc ca che a Pavia – ex assessore provinciale del Carroccio andava a chiedere i voti dei medici e degli avvocati delle ’Ndrine, per farsi sommergere da suffragi. Il loro potere li rende sfrontati; tanto da riunirsi il 31 agosto 2009 nel perimetro stesso del santuario, in una delle macellerie dove tanti sono i caprettini sgozzati in settimana, da impregnare fin dall’imbocco dell’ascesa alla Chiesa matrice l’aria con l’odore acre del sangue crudo, che chiude la gola. Bruno Gioffrè, macellaio in San Luca, trasferito in uno dei vani che il custode del Santuario destina ai commerci che ruotano intorno alla celebrazione, ospitò un anno fa il nuovo “Garante delle regole” delle ’Ndrine. Quel Don Mico Oppedisano che dal 2 settembre veniva nominato “Capo Crimine”, ultima autorità da consultare su come espandere i tentacoli della Piovra calabrese. Lui in un anno ha disposto l’apertura di due nuovi “locali” (base territoriale per una nuova famiglia mafiosa, ndr) in Australia, e la chiusura di uno dei locali di Locri per faida interna. Riceveva gli emissari delle cosche reggine Andrea Trapani, Rocco Zoccali e i fratelli Gattuso e conversava al tavolino dell’unico bar delle quattro mura intorno il Santuario. Ma quest’anno la presenza del prefetto di Reggio Laratta e del Questore Carmelo Casabona con 300 agenti ha dissuaso una presenza in grande stile dei boss, insieme con i 300 arresti in luglio delle operazioni “Crimine”.
«Chi buliti? Chi andate cercannu i sti vanni (da queste parti ndr)?». L’aspetto è truce e nonostante il baffo folto incuta simpatia, le braccia dure sotto la giubba da caccia sono in tensione, pronte a scattare. Il fucile Beretta “da posta” non è a tracolla, ma sarà dietro la sipala, la siepe. Oltre il limitare di una radura, ci sarà movimento. «Abbiamo sbagliato strada si vede». Meglio girare al largo, farsi indirizzare su come riprendere il cammino oltre il bivio del “dente spezzato”, come le guide Cai chiamano la roccia aguzza che segna il declivio da cui il cammino che conduce dritto da Bagaladi, colline aspromontane sopra Reggio, tira a metà tra Platì e San Luca e si tuffa sull’asfalto della carrabile per il santuario. La presenza dello Stato ha solo deviato riunioni e conciliaboli qualche chilometro più a nord, dentro il massiccio calabrese. I sentieri alpini sono decine, impossibile per i Cacciatori, nucleo speciale alpino dei Carabinieri, o per i loro elicotteri che svolazzano senza sosta dall’alba, perlustrarli tutti. E il vescovo Morosini ha parlato chiaro: «Non presentatevi davanti la Madonna e non invocate la sua garanzia per i vostri patti di sangue». Un ammonimento duro che segna una svolta della Chiesa verso la ’Ndrangheta: «finalmente un uomo di Chiesa che parla diretto, senza possibilità di fraintendimenti. Ne ho apprezzato lo stile fin da quando si è insediato», commenta il giudice Gratteri.
Segnali di speranza, come già in giugno il vescovo di Mileto aveva impedito ai mafiosi nel paese di Sant’Onofrio (Vibo V.) di portare le Vare che reggevano le statue con effigi di San Giovanni, Gesù e Maria.

l’Unità 4.9.10
L’orrore non solo in Iran
Tutti i Paesi dove si uccide con la lapidazione
La lista nera di Amnesty: dall’Arabia Saudita al Pakistan, dal Sudan al Bangladesh pietre scagliate contro i condannati alla pena di morte
di Umberto De Giovannangeli

Non solo Sakineh. Non solo Iran. Il caso di Sakineh Mohammadi Ashtiani, la donna iraniana tuttora a rischio di lapidazione per adulterio, ha riportato l'attenzione su questa pratica barbara, illegale e crudele. Amnesty International ha tracciato la «mappa dell'orrore»: quella dei Paesi in cui continua a vigere questa orrenda pratica di morte. Esecuzioni di sentenze giudiziarie alla lapidazione, negli ultimi anni, sono state riferite solo dall'Iran. Nonostante le autorità avessero annunciato una moratoria nel 2002, quattro anni dopo sono state lapidate almeno sei persone. Una morte atroce, quella per lapidazione, regolata dagli Articoli 102 e 104 del Codice penale iraniano: «La donna deve essere seppellita in piedi sino al seno. Le pietre con le quali deve essere colpita alla testa non devono essere né troppo grandi, perché la ucciderebbero subito, nè troppo piccole». Una pena che ha lo scopo di infliggere dolore e una lenta sofferenza, sino alla morte. Ci sono al momento 11 detenuti in Iran che rischiano la lapidazione come Sakineh, denuncia Amnesty, che ricorda come in Iran gruppi di attivisti per i diritti umani si stanno battendo da anni per l’abolizione della lapidazione. Per Azadeh Kian Thiebaut, specialista della società iraniana al « Centre national de la recherche scientifique (Cnrs, la più grande organizzazione di ricerca pubblica in Francia «le donne molto spesso sono di più punite poiché i giudici ritengono che andando contro la legge, appannino l’immagine di purezza della donna musulmana». Di fronte all’adulterio, la popolazione femminile è particolarmente fragile. Se il marito può invocare il matrimonio temporaneo, che gli permette di contrarre una relazione “ufficiale” che può andare da alcuni minuti a 99 anni con qualsiasi donna, la coniuge accusata d’adulterio finirà sotto la frusta del giudice oppure al peggiore dei casi all’uncino di una gru. Poiché in Iran, l’inesattezza è un crimine suscettibile della pena di morte».
Il rapporto di Amnesty International (AI) «Basta alle esecuzioni tramite lapidazione», fornisce un ampio quadro della legislazione e delle procedure relativi a questa pena. La lapidazione resta in vigore, come sanzione penale, in diversi Paesi o regioni di Paesi, tra cui, oltre all'Iran, l'Arabia Saudita, gli Emirati Arabi Uniti, la Nigeria, il Pakistan, il Sudan, lo Yemen, il Bangladesh. Nella provincia di Aceh, Indonesia, la pena della lapidazione è stata introdotta nel 2009. Lapidazioni vengono eseguite anche da attori non statali. Amnesty non riesce a tenere una traccia completa di tutte le lapidazioni, ma riceve molte notizie, in particolare dalla Somalia. Dalla caduta dei talebani in Afghanistan, pare che le lapidazioni siano avvenute assai raramente, ma AI ha potuto confermare che una coppia è stata uccisa a colpi
di pietre il 15 agosto 2010 nel nord del paese, su ordine di un comitato locale di talebani che hanno assunto il controllo della zona. Notizie non confermate di una lapidazione per adulterio in Afghanistan risalgono al 2005, e sarebbe avvenuta su ordine di uomini di religione locali, non dei talebani. Un gruppo alleato coi talebani del Pakistan, Lashkar e-Islam, avrebbe eseguito una lapidazione in pubblico nel 2007, nel nordovest del Paese.
Orrori da non dimenticare. Una storia tragicamente esemplare.
Aisha Ibrahim Duhulow aveva 13 anni. E stata il 27 ottobre 2008 da un gruppo di 50 uomini che l'ha lapidata a morte. L'esecuzione è avvenuta all' interno di uno stadio della città meridionale di Chisimaio, in Somalia, di fronte a un migliaio di spettatori. Aisha Ibrahim Duhulow era arrivata a Chisimaio tre mesi fa, proveniente dal campo profughi di Hagardeer, in Kenya.
Nella città portuale somala, Aisha Ibrahim Duhulow era stata stuprata da tre uomini e si era rivolta ai miliziani di “al Shabab”, che controllano la zona, per ottenere giustizia. La sua denuncia aveva ottenuto come risultato l'arresto, l'accusa di adulterio e la lapidazione. Nessuno dei tre stupratori è stato arrestato. Un uomo, che si è qualificato come lo sceicco Hayakalah, ha dichiarato a Radio Shabelle, un'emittente somala: «Lei stessa ha fornito le prove, ha confessato ufficialmente la sua colpevolezza e ci ha detto che era contenta di andare incontro alla punizione della legge islamica».
Secondo i testimoni oculari raggiunti da Amnesty International, invece, Aisha Ibrahim Duhulow ha lottato contro i suoi carnefici ed è stata trascinata a forza nello stadio. Qui la ragazza è stata interrata e i 50 uomini addetti all'esecuzione hanno iniziato a colpirla, usando le pietre appena scaricate da un camion. A un certo punto, è stato chiesto ad alcune infermiere di verificare se la ragazza fosse ancora viva; fatto ciò, la lapidazione è ripresa fino alla morte della bambina.
Sono le donne – rimarca AI ad essere più di frequente condannate a morire per lapidazione, spesso a causa del diverso trattamento che subiscono davanti alla legge e nei tribunali, in aperta violazione degli standard internazionali sul giusto processo. Sono in particolar modo vittime di processi iniqui perché meno istruite rispetto agli uomini e per questo motivo indotte più facilmente a firmare confessioni di crimini mai commessi. Inoltre, la discriminazione cui vanno incontro in altri aspetti della loro vita fa sì che siano più soggette a condanne a morte per adulterio. «La morte per lapidazione – sottolinea ancora Amnesty International – rappresenta l'estrema forma di tortura, la più crudele, inumana e degradante, bandita sia dal patto internazionale per i diritti civili e politici che vieta la pena di morte per reati lievi, sottoscritto da quasi tutti i Paesi, sia in base alla Convenzione contro la tortura».
Durante il regime dei talebani in Afghanistan vi sono state molte lapidazioni in pubblico. Prima della guerra in Afghanistan i governi si erano opposti a pratiche quali la lapidazione, il taglio della mano e la flagellazione pubblica, e si riteneva ormai che fossero eventi che accadevano raramente in qualche zona rurale. Durante l’occupazione sovietica alcuni gruppi armati di Mujahedin incoraggiarono l’applicazione sommaria di queste forme di punizione ritenute «islamiche». Nel 1993, ad esempio, a Sarobi, vicino a Jalalabad, dopo 8 anni di assenza un comandante militare rientrò nel suo paese alla testa della milizia Hezb-e Islami e trovò che la moglie si era risposata credendolo morto; ordinò quindi ai suoi uomini di lapidare la donna in pubblico. Sotto i Talebani vi fu un ulteriore aumento dell’uso di queste pene. Ad esempio nel marzo del 1997 la radio talebana Voce della Shari’ia informò che nella provincia di Laghman era stata lapidata un’adultera. Si ha anche notizia di una variante della lapidazione per gli uomini ritenuti colpevoli di «sodomia»: venivano sepolti sotto un muro fatto crollare sopra di loro. Ad esempio nel 1998 a Kotal Morcha, a nord di Kandahar un carro armato fu usato di fronte a migliaia di persone per far cadere un muro su tre uomini accusati di sodomia.
In Arabia Saudita Paese sostenuto dall’Occidente non c’è un vero e proprio codice penale, né un sistema giudiziario regolamentato. Gli imputati non hanno diritto ad un avvocato e i processi sono segreti e si basano esclusivamente sulla confessione, spesso estorta sotto tortura.
Gli imputati non vengono informati della condanna e non vi è possibilità di appello: nei casi capitali il loro dossier viene soltanto «riesaminato» dal Consiglio Giudiziario Supremo, i cui membri, nominati dal Re, sono ritenuti responsabili dell’applicazione della sharia. La pena consuetudinaria per l’adulterio è la morte tramite lapidazione.

l’Unità 4.9.10
Mentalità nazista anti rom
di Moni Ovadia

Oggi a Roma in Campo de’ Fiori si terrà una manifestazione di solidarietà e di lotta per i diritti dei rom e dei sinti. Il mio amico Santino Spinelli, rom abruzzese, cittadino italiano, musicista di fama internazionale, professore di cultura romanì all'università di Chieti, mi ha lanciato un accorato appello perché ne parli. Lo faccio con il cuore e con tutta la passione di cui sono capace, ma questa volta anche alzando il tiro. I recenti provvedimenti del governo francese, le esternazioni di ministri del nostro governo in vena di emulazioni, l'ennesima tragica morte di innocenti nei luoghi del degrado a cui i rom sono costretti con deliberata crudeltà da un sistema che li vuole cancellare sono infami espressioni di razzismo, nulla di meno. La mentalità che li partorisce è identica a quella dei nazisti. Non ingannino le modalità apparentemente diverse dovute solo al mutato contesto formale in cui viviamo. La stessa mentalità portò alle vessazioni e alle violenze antisemite e antinomadi che naturalmente sfociarono nello sterminio di ebrei, rom e sinti nei campi di sterminio. I diretti responsabili odierni di questa politica sono i nazisti di oggi, chi approva, chi tace, chi gira la testa dall'altra parte è un infame complice di questi miserabili vigliacchi. In questi giorni è stato messo in pensionamento anticipato un coraggioso prelato cattolico che aveva alzato la voce con chiarezza e senza riserve diplomatiche contro il governo francese. Non dimentichiamo mai che il silenzio, l'opportunismo e le titubanze per convenienza sono, ieri come oggi i più perniciosi alleati dell'orrore. Tutti gli esseri umani per bene hanno la responsabilità e il dovere di lottare contro il razzismo se non vogliono diventarne sodali. In particolare, tocca agli ebrei e alle loro istituzioni denunciare i politici razzisti interrompendo ogni rapporto di contiguità con loro.

il Fatto 4.9.10
Manifesto leghista sulla razza
Niente aiuti ai bimbi di coppie miste “altrimenti può morire la nostra cultura”
di Furio Colombo

Chissà se interesserà ai colleghi deputati e senatori del Pd che hanno benevolmente facilitato la legge leghista sul “federalismo fiscale” sapere che il sindaco di Tradate (Varese) ha presentato il primo esplicito testo leghista sulla razza, e lo ha fatto con un atto legale rigorosamente razzista presentato alla Corte di Appello di Milano?
Attenzione ai fatti. Il sindaco di Tradate, Stefano Candiani, Lega Nord, non è peggiore degli altri. Infatti il passaggio del “pacchetto sicurezza” autorizza i sindaci a estrose iniziative che negano la Costituzione e lo Stato e danno la vera interpretazione al “federalismo fiscale” che ha come scopo esclusivo eliminare gli italiani del Sud, insegnare il dialetto, tormentare gli immigrati e cacciare i rom.
Ma, e il futuro? Chi pensa al futuro della gente bianca che, come sapete, nel Nord leghista non è minacciata dalle vigorose infiltrazioni della ‘ndrangheta ma dalla presenza di immigrati che lavorano tutti, producono tutti per l’economia italiana e le pensioni italiane; ma poi la brava gente bianca e leghista della Padania vuole che non abitino, vuole che non preghino, vuole che non facciano figli. E così il sindaco Candiani di Tradate ha emesso l’editto sui bambini. Prescrive, nella Repubblica italiana nata dalla Resistenza: “Il Comune elargirà 500 euro di premio per ogni bambino nato. Ma solo se entrambi i genitori del bambino sono italiani”. Vuol dire: bianchi. L’editto eredita lo spirito del “pacchetto di leggi per la difesa della razza” del 1939.
Contro l’editto di Tradate sono intervenuti cittadini e gruppi per denunciare l’evento incredibile. E’ intervenuto il Tribunale di Milano che ha dichiarato, in sentenza “Un evidente intento di discriminazione”. Di solito, di fronte a rari atti di resistenza, i leghisti parlano di equivoco, cambiano discorso. Non adesso. Cito dal documento leghista di ricorso in appello: “Il fine perseguito non è nel modo più assoluto di garantire sostegno a un bisogno. Il fatto è che la popolazione europea mostra un forte tasso di calo demografico. E’ del tutto ovvio che alla morte dei popoli si accompagna la morte delle rispettive culture. Il bonus attiene al futuro della cultura europea indissolubilmente legata ai popoli dell’Europa medesima”. Il dottor Goebbels e il Ku Klux Klan non avrebbero potuto dire meglio. La sfida alla Costituzione, ma anche a tutte le leggi e ai trattati sottoscritti dall’Italia con il resto del mondo libero e civile, adesso è aperta. Sarebbe bene che lo sapessero e lo ricordassero i compagni, gli amici, gli astanti della Festa Pd di Torino che rimpiangono ancora la mancata partecipazione di Cota, Maroni e Calderloli.

il Fatto 4.9.10
Solo piccoli ariani
Lega-Pdl: bonus bebè solo agli italiani “Incentivo contro la morte dei popoli”
di Elisabetta Reguitti

“Il bonus bebè vuole essere e non è se non un mero segnale di incoraggiamento in nulla e per nulla attinente a situazioni di bisogno né all’appartenenza etnica o razziale bensì scaturente da considerazioni circa il futuro della cultura europea come indissolubilmente legata ai popoli dell’Europa medesima”. E ancora: “Del tutto ovvio che alla morte dei popoli si accompagna, ineludibilmente, la morte delle rispettive culture”. Sono le argomentazioni portanti – dal sapore “ariano” – del prossimo ricorso in appello del Comune Pdl-Lega di Tradate (Varese) alla sentenza del tribunale di Milano, del 3 giungo scorso, che definiva “discriminatorio” il bonus bebè “nazionalista”. Per la verità è una storia già letta quella dell’incentivo economico (solitamente variabile tra i 500 e i 1000 euro) per i nuovi nati introdotto da molte amministrazioni comunali soprattutto del profondo nord. Diverse sentenze, anche rispetto a quanto stabilito nella convenzione di New York sui diritti dell’infanzia, hanno sottolineato che i diritti dei bambini devono essere garantiti “a prescindere da ogni considerazione di razza, sesso e lingua”. Ma a Tradate sta accadendo qualcosa di diverso. Questo ricorso, infatti, mette nero su bianco che i soldi del bonus non servono ad aiutare le famiglie bisognose bensì a diffondere la cultura del ceppo europeo non sulla base di principi culturali ma sulla prevaricazione numerica di un gruppo etnico rispetto ad un altro.
“L'ISTITUZIONE del bonus bebè – “spiega” ancora il documento – non si configura affatto come un intervento rientrante fra i servizi sociali assistenziali di natura obbligatoria ma appartiene alla categoria degli incentivi collocata in ambito concettuale ferenza di altri Comuni Tradate aveva deciso di introdurre il vincolo-requisito della cittadinanza italiana di entrambi i genitori escludendo così persino i bimbi delle coppie miste. Stabilendo così una secondo discriminazione per il solo fatto di avere una connotazione etnica derivante dalla diversa nazionalità dell’altro genitore.
Ma al primo cittadino di Tradate questo non è bastato e dunque – dopo la sentenza di primo grado del tribunale di Milano (sezione lavoro) – ha deciso, prima, di sospendere l'erogazione a tutti del bonus e poi di proseguire con la linea della difesa razziale scritta nella difesa che verrà giudicata la prossima settimana.
A sostegno della teoria della salvaguardia del ceppo europeo (in particolare quello italiano secondo la visione padana), nel documento vengono riportati anche stralci di studi fatti sull’andamento demografico del vecchio continente. In particolare: “Le ragioni dell’incentivo hanno tratto impulso da rilievi che da poco tempo vengono diffusi dal Parlamento europeo secondo cui, a fronte di un preoccupante progressivo aumento della popolazione mondiale, quella europea invece presenta un forte tasso di calo demografico ed invecchiamento”. Viene anche citato un articolo pubblicato su La Stampa secondo cui “l’Europa ha appiccicata addosso l’etichetta di continente in declino demografico al quale rischia in questo momento di accompagnarsi la perdita di peso ed influenza politica”.
MA ANCORA non basta. La “difesa di Tradate” va oltre la discriminazione dello straniero in quanto tale, guardando più invece alla discriminazione razziale nonostante lo slogan, pubblicato sul sito ufficiale del Comune, alla voce bonus bebè. “Crescere... un bene comune”. Nella pagina dedicata al bonus spiccano in primo piano il sorriso di un bambinetto pasciuto e biondo e un adolescente sorridente dall’aspetto nordico pure quello. E dopo la spiegazione e le indicazioni della modalità di accesso al bonus compaiono le firme del sindaco e degli assessori ai Servizi Sociali e Servizi Educativi rispettivamente Cesare Crespi e Filippo Renna. A seguire una sfilza di frasi tra cui: “Se un bambino vive nell’ostilità impara ad aggredire”. Una poi è davvero straordinaria soprattutto dopo aver letto il ricorso. Il testo infatti dice: “Se un bambino vive nella tolleranza impara ad essere paziente”.

Corriere della Sera 4.9.10
Adro, il paese della mensa tra generosità e rancori
di Marco Imarisio

ADRO (Brescia) — «Questa esperienza nasce sotto il segno del merito e della solidarietà. Va avanti chi è più bravo, ma tutti si aiutano tra loro, solo così possiamo crescere insieme».
La grande sala consiliare di palazzo Bargnani-Dandolo è vuota. Ad ascoltare le parole di Oscar Lancini ci sono un paio di assessori, altrettanti impiegati comunali e sei cittadini. Dalle pareti bianche incombono gli sguardi severi degli antenati delle famiglie che abitarono l’attuale municipio. Oggi è un giorno importante per Adro, e per questo il sindaco ha voluto convocare una apposita conferenza stampa. Oggi Adro ritrova il suo Palio, che non veniva celebrato dal 1992. Le cinque contrade di questo comune al centro della Franciacorta si sfideranno alla gara del budino, al bigliardino vivente, al lancio delle uova (solo maggiorenni).
Le parole del sindaco — leghista dal 1992, 62 per cento dei voti alla seconda rielezione nel 2008 — sarebbero state perfette anche per un altro debutto. L’anno scolastico sta per cominciare. Controvoglia, ma Adro e i suoi 7.100 abitanti, 700 dei quali immigrati, sono diventati celebri proprio per la scuola. Non per le vigne, che fanno corona al paese, non per il piccolo polo industriale che porta benessere palpabile e uno sportello bancario ogni 800 residenti. Per la scuola. Per la sua mensa, che nell’ultimo anno ha dato da mangiare a 497 bambini, per un totale di 61.600 pasti.
Nell’aprile 2010 la commercialista Giuseppina Paganotti, direttrice dell’Associazione Promotori Attività Parascolastiche che gestisce la mensa, scrisse una lettera al Comune, suo referente istituzionale, per informarlo che c’erano quasi diecimila euro di «scoperto» nel pagamento delle rette. A sua volta, Lancini reagì scrivendo alle 38 famiglie morose. Chi non paga, non mangia, i bambini figli di genitori in rosso — quasi tutti immigrati — non avranno più pasti garantiti. Fece altre considerazioni accessorie, manifestando scarso entusiasmo per i menu differenziati: «La carne di maiale piace anche agli islamici, se la assaggiano». La direttrice si oppose pubblicamente all’editto.
La sabbia nell’ingranaggio messo in moto dal sindaco arrivò da un suo omonimo, l’imprenditore Silvano Lancini, elettore dichiarato del centrodestra, che donò all’Associazione un assegno per coprire il disavanzo e garantire così la mensa per ogni alunno. Accompagnò il gesto con una lettera, nella quale auspicava per il suo paese il recupero di valori come la solidarietà e la tolleranza reciproca. Adro divenne una questione nazionale. Gli abitanti si schierarono con il sindaco contro i dissidenti, quelli dalla parte della direttrice, che non ci stavano a lasciare a casa i bambini indigenti.
«Ah, ma allora siete qui per rimestare, non per il Palio». Oscar Lancini ci resta male. La partita è chiusa. E ha vinto lui, giocando a riflettori spenti. Le mamme che accompagnano i loro piccoli nel cortile dell’oratorio alzano le spalle. «La mensa? E’ cambiato il direttore, ma non ne sono certa». Adro sembra una bomboniera appena scartata dal cellophane, per quanto è pulita e ben tenuta. La piazza dei Martiri è stata inaugurata da poco. Un lato è occupato dalla biblioteca, dall’altra parte i monumenti ai caduti «morti per la patria». In mezzo, le panchine di acciaio istoriate con il logo del Sole delle Alpi. «Siamo leghisti, per questo ce l’avete con noi — dice un anziano venuto a restituire una copia di Guerra e Pace —. I "sinistri" della mensa ci hanno svergognato in tutta Italia. Li cacciano? Ben gli sta».
Lo psicodramma della mensa ha prodotto solo una resa dei conti, gestita con gli strumenti ormai ricorrenti della grande politica. Adro ha scoperto che gli «altri» possono essere anche quelli che non la pensano come te. Silvano Lancini, il benefattore reo di essere uscito dall’anonimato con considerazioni non gradite, è stato trasformato in un paria. A maggio, Adro News, il bollettino del Comune, gli ha dedicato 11 pagine di insulti, firmate dal sindaco: «Vuole solo farsi pubblicità». L’imprenditore Lancini ci aspetta davanti alla sua azienda, al confine tra Erbusco e Adro. Sapeva che gli sarebbe stato riservato questo trattamento. «I fatti sono chiari, per chi vuole vederli. Mi lasci fuori, la prego». Nelle strade del centro ci sono ancora i volantini che gli danno del «prezzolato» al soldo dell’opposizione, a sua volta invitata «a cambiare spacciatore».
In un angolo dell’ufficio di Giuseppina Paganotti c’è uno scatolone sigillato. Effetti personali. L’Associazione ha chiuso, la lettera di scioglimento è stata appena inviata all’Agenzia delle entrate. Era stata fondata nel 1972, quando Adro fu una delle prime realtà italiane ad adottare il tempo pieno. «Non potevo fare altro. E’ finita». Lo sguardo è quello di una donna sconfitta. All’inizio di giugno era andata in vacanza. In sua assenza è stata indetta una riunione dell’Associazione, ospitata in municipio, alla presenza del sindaco. Un Termidoro a ranghi ridotti. Una settantina di genitori, sui 680 che hanno facoltà di voto, ha eletto un nuovo direttivo. «Illegale, proibito dallo statuto. Ma logica conseguenza del fango che mi è stato buttato addosso in paese. Una vendetta». La mensa della scuola sarà gestita da una associazione non ancora costituita. La presidente è una di quelle mamme che in televisione, da Santoro, inveivano contro la vecchia direttrice e l’imprenditore-mecenate. Nei fatti, il servizio di refezione passa al Comune. Il congedo della signora Giuseppina: «Io non lascio a casa nessun bimbo. Lo facciano altri, se vogliono».
La favola alla rovescia di Adro è finita com’era cominciata, in un rivolo di rancore. Il sindaco nega di aver gestito una specie di golpe. «Ma avevo perso ogni fiducia nell’associazione. La penso come prima, e così si farà. Mangia chi paga, e mangia quel che c’è, cattolico o islamico. Menù padano, carne di maiale compresa. Altrimenti, la pratica passa ai servizi sociali. Io amministro Adro, del resto d’Italia non me ne frega niente». Lancini è un uomo semplice come le grisaglie che indossa, sinceramente convinto di essere nel giusto. Dopo un problematico passato da imprenditore — venne processato per aver inquinato il fiume Oglio con gli scarichi della sua ditta, reato prescritto — si è rivelato un amministratore attento. La gente è dalla sua parte, anche se almeno un adrense su tre non l’ha votato, lui asseconda gli istinti della «sua» gente, convinto che assecondare sia la miglior forma di governo. E pazienza se a fine luglio il tribunale di Brescia ha dichiarato illegittimi i provvedimenti con i quali escludeva i cittadini extracomunitari dal bonus bebè. «Io non sono un educatore. A me basta proteggere la mia comunità. Il mondo è brutto, basta uscire da Adro per capirlo».
Il plesso scolastico di via Carlo Cattaneo è quasi pronto. Nel cantiere i muratori si dedicano al colonnato dell’ingresso, siamo alle rifiniture. Un’opera da 6 milioni e 700 mila euro, finanziata con la cessione del vecchio comprensorio di via Padania all’azienda incaricata dei lavori, che ne farà una zona residenziale.
La nuova scuola rappresenta la prova che Adro è un posto di gente magari spaventata da quello che il sindaco chiama «il mondo fuori», ma non è il paese dei cattivi. Mancavano 240 mila euro per gli arredi di materne, elementari e medie. E’ stato emesso un bando per la cittadinanza. «Una volta si diceva laurà per la cesa di Ader, adesso vi chiedo di farlo per un’altra causa». Oscar Lancini aveva promesso di intestare un’aula a ogni famiglia che si fosse impegnata, ma non ce la farà. Troppe donazioni, molto più della cifra richiesta. «Grazie al grande cuore di Adro», c’è scritto sull’ultimo bollettino comunale.

il Fatto 4.9.10
Otto idee per Rom e Sinti
Per dire stop a razzismo e discriminazione, ai campi Rom e alle forme di ghettizzazione delle popolazioni Sinti e Rom, oggi il Coordinamento nazionale antidiscriminazione ha organizzato una manifestazione alle 14.30 in Piazza Campo dei fiori, a Roma
di Alexian Santino Spinelli

Oggi a Campo dei fiori un presidio contro la discriminazione: ecco un piccolo manifesto per favorire l’integrazione e cacciare i pregiudizi
Un bambino muore, un bambino di soli tre anni muore a Roma, Caput Mundi, a poca distanza dal Vaticano, centro dell’Impero della Chiesa Cattolica Romana, nel cuore della cultura europea. È un bambino rom che allunga un’interminabile lista di bambini rom morti per cause futili. Lui figlio legittimo della discriminazione e della segregazione razziale, capro espiatorio di tutti i mali della società come poteva pensare di non pagare le sue colpe e di non essere usato come agnello sacrificale? Ai disvalori si è opposta una sincera e ferrea resistenza durante la seconda guerra mondiale che è costata oltre 50 milioni di morti di cui 500 mila Rom e Sinti barbaramente massacrati nei lager. Oggi si vive un retaggio di quella cultura etnocentrica e razzista, con i campi di sterminio “moderni” (campi nomadi anche se i Rom non sono nomadi per cultura) e le nuove forme di deportazioni “civili” e “democratiche” approvate in larga maggioranza dall’opinione pubblica teleguidata e frastornata dai pregiudizi. Ma che non ci sia l’alibi del “Io non sapevo”. Ecco otto punti per migliorare la situazione dei Rom e Sinti in Italia
1 La sicurezza e la legalità vanno garantite a tutti. Rom e Sinti compresi. Nessuna voce autorevole ha condannato realmente l’episodio. Solo all’estero si sono resi conto della gravità della situazione dei Rom e Sinti in Italia.
2 Ristabilire la legalità riguardo la palese violazione dei più elementari diritti umani nei confronti delle diverse comunità Rom e Sinte in Italia, costrette a vivere in condizioni disumane e fortemente discriminate in netto contrasto con la Costituzione Italiana, con la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo e con le normative europee ed internazionali.
3 Smantellare i campi nomadi che sono pattumiere sociali degradanti e frustranti, centri di segregazione razziale permanente ed emblema della discriminazione. I Rom e Sinti non sono nomadi per cultura. La mobilità è sempre coatta e mai una scelta.
4 Facilitare l’accesso alle case popolari con pari opportunità o sviluppare insediamenti urbanistici non ghettizzanti facilitando anche l’utilizzo dei servizi pubblici. Favorire il più possibile l’accesso alla scolarizzazione, al lavoro e all’assistenza sanitaria alle famiglie di Rom e Sinti più disagiate.
5 Arrestare il processo di demonizzazione e di criminalizzazione di un intero popolo. Sono i singoli che hanno un nome e cognome a sbagliare e che devono essere puniti e non l’etnia di appartenenza.
6 Promuovere la conoscenza della storia, della cultura, dell’arte e della lingua dei Rom e dei Sinti per combattere gli stereotipi negativi e favorire l’integrazione.
7 Creare una consulta in Italia di intellettuali Rom e Sinti e associazioni che abbiano una esperienza internazionale sulle problematiche concernenti la realtà delle comunità romanès che possano favorire la mediazione nella risoluzione dei problemi sociali e politici.
8 Favorire il più possibile il processo di integrazione positiva a coloro i quali dimostrano una chiara volontà di partecipazione sociale evitando di porre sullo stesso piano chi merita e chi delinque.
(*) musicista e docente universitario

Corriere della Sera 4.9.10
«Rigoletto» in tv. E Mehta attacca il ministro della Cultura
di Chiara Maffioletti

Scontro a distanza sui tagli alla lirica. Domingo protagonista nei luoghi originali pensati da Verdi: diretta stasera e domani
MANTOVA — Alla vigilia della diretta in mondovisione in 148 Paesi di «Rigoletto a Mantova», in onda stasera (il primo atto verrà trasmesso su Raiuno alle 20.30. Domani gli altri due, alle 14 e alle 23.30) va in scena la polemica. Ad accendere la miccia, il maestro Zubin Mehta che dirigerà l’orchestra sinfonica della Rai in questo evento. Parlando della situazione della cultura in Italia, il direttore tuona: «Questo governo taglia fondi a tutti i teatri. A Genova è una tragedia, a Firenze lo stesso. Siamo senza un ministro: il signor Bondi non ha il coraggio di parlare con noi. Per lo spettacolo l’Italia rappresenta una vergogna». Parole roventi, seguite da un’immediata replica del ministro: «Mehta non sa di cosa parla. La situazione del Carlo Felice come di altre realtà non può essere imputata al governo ma a un quindicennio di malagestione. Il Maestro riveda i suoi infondati giudizi offensivi che non merito».
Uno scontro che non ha tuttavia guastato troppo il clima fibrillante del giorno prima del debutto. Il più emozionato era lui, Placido Domingo. Concentrato al punto da trincerarsi nella suite del suo albergo piuttosto che partecipare con il resto del cast all’ultimo tour sui luoghi del libretto.
Alla fine, un saluto ai colleghi ha voluto comunque farlo: Domingo si è fatto trovare, a sorpresa, sulla riva del Mincio, all’attracco del battello che ha portato gli artisti a costeggiare la rocca di Sparafucile, set del terzo atto. Completamente vestito di bianco e scortato da uno dei suoi figli, ha accolto tutti con un sorriso e si è spinto in un abbraccio quando dalla passerella è scesa la bionda soprano russa Julia Novikova, che nell’opera è sua figlia Gilda. «Non riesco a fare una passeggiata in barca il giorno prima di un evento così: lo vedranno un miliardo di persone», si è scusato. In fondo per lui è una prima volta: mai, nei suoi 69 anni dichiarati (di cui 50 effettivi di carriera) lui, tenore, si era avventurato nel ruolo (da baritono) di Rigoletto. La sua paura è non trattenere le lacrime in diretta. Non è un caso se per convincerlo a prendere parte al progetto ci siano voluti due anni: «Ero spaventato. Cantare nei luoghi del libretto rende tutto più emozionante ma l’impresa è mantenere i nervi e la voce saldi con i tre atti così divisi nel tempo».
Ma Andr e a Ander mann, mente di questo film in diretta, dice senza mezzi termini: «Senza Domingo non l’avrei fatto. Era fondamentale perché non cercavo un ottimo baritono ma un ottimo attore». Mentre parla, il produttore cammina svelto tra una stanza e l’altra di Palazzo Te, primo dei tre set. Mantova è invasa da chilometri di cavi, binari e camion della Rai. La sincronia è fondamentale e il più piccolo imprevisto rischia di frantumare questa colossale produzione. «Ci sono moltissime incognite», ripete Andermann. E intanto ricontrolla la telecamera nascosta in un mobiletto. Rilassato invece il regista, Marco Bellocchio, che si schermisce: «Eh, con l’età...».
Al contrario, decisamente carico Mehta che, dopo lo sfogo su Bondi, si rituffa nel suo ruolo (dovrà seguire le mosse dei cantanti da un monitor) e racconta divertito: «I set sono blindati. L’altro giorno la polizia non mi ha lasciato passare». L’augurio più bello arriva dal presidente della Repubblica Giorgio Napolitano che per questo «Rigoletto» ha pensato un regalo speciale: sarà lui a presentare l’evento con un annuncio prima della messa in onda.

Repubblica 4.9.10
Stasera e domani "Rigoletto a Mantova" su RaiUno con il saluto del presidente Napolitano
La lirica in mondovisione con Domingo e Mehta: "Bondi si ispiri invece di tagliare"
Il direttore accusa: "Il ministro è senza vergogna". La replica: "Non sa di cosa parla"
Regia di Bellocchio per un kolossal da un miliardo di fan. Il tenore: "Sono emozionato"
di Carlo Brambilla

Ci sarà anche il saluto del Presidente Giorgio Napolitano a introdurre il primo atto del Rigoletto a Mantova, in diretta stasera, alle 20.30, su RaiUno, trasmesso in mondovisione. Il secondo e il terzo atto del kolossal con Placido Domingo per la prima volta nel ruolo baritonale del protagonista, con la regia di Marco Bellocchio, andranno in onda, sempre in diretta, domani alle 14.30 e alle 23.15. Il messaggio presidenziale sottolinea la grande funzione culturale di questo spettacolo popolare ideato da Andrea Andermann, a metà strada tra teatro, cinema e televisione, per il quale gli organizzatori si aspettano un miliardo di spettatori in 141 Paesi. Come per Tosca a Roma nel 92 e poi Traviata a Parigi nel 2000 gli artisti reciteranno nei luoghi storici dove si svolge la scena dell´opera. Che per Rigoletto saranno Palazzo Ducale, Palazzo Te, la Rocca di Sparafucile, oltre alle strade della città bagnata dal Mincio.
La presentazione del grande evento, ieri, è stata però l´occasione per rilanciare le polemiche sui tagli statali alle fondazioni liriche italiane. Comincia il direttore Zubin Mehta - che per l´occasione dirigerà l´Orchestra nazionale della Rai - a sparare a zero contro la politica culturale del Governo. «Spero che il Rigoletto sia di ispirazione. Spero che il Governo che taglia a tutti i teatri lo guardi». In particolare Mehta attacca il ministro Sandro Bondi, riferendosi anche alle vicende legate al Maggio Fiorentino dove è direttore. «Bondi è senza vergogna e non ha il coraggio di venire a Firenze a parlare con noi. Mentre al Maggio Fiorentino il mese scorso è arrivato un ulteriore taglio di 2 milioni di euro». La replica del ministro non si fa attendere: «Mehta non sa di cosa sta parlando. In questi anni il ministero è stato particolarmente vicino al Maggio fiorentino, così come a tutte le altre fondazioni in difficoltà». Uno scambio di battute che scatena una serie prese di posizione. Da Francesco Giro sottosegretario ai Beni e alle attività Culturali, schierato naturalmente a fianco di Bondi a Matteo Orfini, responsabile cultura del Pd che spiega la sua solidarietà a Mehta per gli attacchi ricevuti.
Di poche parole, ieri, Placido Domingo, per conservare la voce al meglio in vista della due giorni che lo attende. «Sto bene ma sono esausto - ha confidato - Trovo particolarmente emozionante il fatto di poter recitare nello scenario naturale immaginato da Giuseppe Verdi. Sempre più spesso la lirica esce dai teatri per andare dappertutto. È giusto che sia così perché la lirica sta diventando ogni giorno più popolare». «E una grande operazione di divulgazione vuole essere questo Rigoletto - spiega Bellocchio. - Questo è il significato fondamentale dell´intera operazione».
È questo il motivo per il quale Andermann ha voluto fermamente Domingo nel ruolo di Rigoletto: «Non avrei accettato nessun altro cantante al suo posto. Neanche il miglior baritono del mondo. Ho voluto Domingo per le sue grandi doti di attore. Per la sua straordinaria capacità interpretativa». Il film prevede infatti numerosi primi piani. Mentre le telecamere potranno girare attorno agli artisti regalando al pubblico un forte effetto cinematografico. Da parte di Placido Domingo una confessione: «È tale il mio coinvolgimento nel dramma di Rigoletto e di sua figlia Gilda, che temo di arrivare, sulla scena, a delle vere lacrime».

Repubblica Firenze 4.9.10
Sfuriata del direttore a Mantova durante le prove del Rigoletto: non vuol pagare neanche la trasferta del Maggio in Giappone
Mehta, attacco a Bondi
"Bondi è senza vergogna"
"A Firenze è nata l'opera, lui non ha neanche il coraggio di venire qui a discutere con noi"
di Simona Poli

MEHTA s´infuria con Bondi. «Il ministro è una vergogna, ha tagliato altri 2 milioni al Maggio, non vuol pagare la trasferta dell´orchestra in Giappone e non ha il coraggio di venire a Firenze a dircelo», tuona il maestro impegnato oggi a Mantova nel "Rigoletto" con Placido Domingo. Immediata la replica del ministro: «Nessun taglio nuovo è stato deciso», si difende. «Mehta non sa di cosa sta parlando».

«Bondi è senza vergogna», attacca Zubin Mehta. «Il maestro non sa di cosa parla e fa dichiarazioni fuori misura», risponde il ministro dei Beni culturali. Lo scambio di accuse è durissimo nel tono e nella sostanza. Il direttore del Maggio si trova a Mantova, dove stasera e domani dirigerà il Rigoletto che andrà in onda su Raiuno con il tenore Placido Domingo che per la prima volta affronterà un ruolo baritonale. «Spero che quest´opera sia d´ispirazione per un governo che taglia fondi a tutti i teatri», dice Mehta, riferendosi alla situazione del Carlo Felice di Genova, dove i dipendenti sono in cassa integrazione, e al Maggio fiorentino per cui il maestro è sceso in piazza insieme agli orchestrali in segno di protesta contro la riforma firmata da Sandro Bondi. «Il ministro è senza vergogna», osserva adesso, «e non ha il coraggio di venire a Firenze a parlare con noi. Anche con i sindacati di tutta Italia è rimasto a parlare dieci minuti e poi è andato via». Ad agosto, racconta Mehta, è arrivata la comunicazione di «un ulteriore taglio di 2 milioni di euro» ed è stato pure annunciato che «lo Stato non pagherà la tournée del Maggio in Giappone per i 150 anni dell´Unità d´Italia», come invece era stato promesso. «A Firenze è nata l´opera», dice ancora, «e si taglia dove non ci sono grandi industrie come a Torino e Milano. Noi abbiamo Gucci e Ferragamo».
Nella sua replica Bondi smentisce Mehta su tutta la linea. «Non sa di cosa sta parlando», gli ribatte il ministro. «In questi anni il ministero è stato particolarmente vicino al Maggio Musicale Fiorentino e a tutte le altre fondazioni liriche in difficoltà, come egli stesso può personalmente ricordare. La situazione del Carlo Felice di Genova, così come quelle di altre realtà della lirica italiana, non può essere imputata a questo governo, che anzi si è adoperato per varare una riforma, ampiamente condivisa in Parlamento, capace di risanare e rilanciare i teatri d´opera nazionali, ma è dovuta a un quindicennio di dissesti e malagestione. La trasferta del Maggio in Giappone, poi, riguarda il 2011, anno per il quale non è ancora stato definito il riparto del Fondo unico per lo spettacolo né tantomeno preso in considerazione alcun progetto. Conto sul fatto che il maestro Metha riveda i suoi frettolosi e infondati giudizi offensivi che non merito in nessun modo». A difendere la posizione di Bondi accorre il sottosegretario ai Beni culturali Francesco Giro che dichiara «inaccettabili le dichiarazione di Mehta» per cui, aggiunge, «abbiamo sempre avuto grande ammirazione e rispetto». Bondi, spiega Giro, «è impegnato da mesi in una estenuante e talvolta frustrante trattativa con i sindacati delle fondazioni lirico e sinfoniche. Ed ha avuto il coraggio, una volta per tutte, di porre fine alla scandalosa gestione dei finanziamenti destinati alla lirica, pari alla metà dell´intero Fus. Mehta sa bene come noi che le fondazioni lirico e sinfoniche sono attualmente oppresse da un debito complessivo che supera i 200 milioni di euro. Ci auguriamo che le sue parole siano frutto di un disagio personale per la difficile situazione in cui versa l´attività di alcuni teatri lirici italiani. Questa sì davvero vergognosa».

venerdì 3 settembre 2010

Repubblica 26.8.10
Sfida ai confini dell' universo ecco il cacciatore di antimateria
di Elena Dusi


GINEVRA - Il "cacciatore di antimateria" per ora è un gigantesco scatolone imballato, che solo per un pelo riesce a entrare nella pancia di un C-5 Super Galaxy, uno degli aerei da trasporto più grandi al mondo. Presto però questo strumento scientifico da 7,5 tonnellate di peso e oltre 1,5 miliardi di dollari di costo, costruito in 16 anni superando ogni difficoltà, non avrà più bisogno di gru per essere sollevato. Ams, l' Alpha Magnetic Spectrometer, concepito da 600 scienziati di 16 paesi, si librerà nello spazio in assenza di gravità, ancorato alla Stazione Spaziale Internazionale (Ssi). Oggi all' alba il C-5 dell' aeronautica militare Usa decolla dal Cern di Ginevra verso la base Nasa di Cape Canaveral per il suo ultimo viaggio su questo pianeta. A febbraio dell' anno prossimo il volo conclusivo della flotta Shuttle, prima del pensionamento, porterà lo strumento in cielo. Gli astronauti, fra cui l' italiano Roberto Vittori, fisseranno Ams alla Stazione Spaziale Internazionale e da lì, a 350 km di altezza, il suo occhio magnetico scruterà le galassie fino al 2028. Tra le radiazioni che viaggiano nel cosmo, lo spettrometro cercherà frammenti di materia "strana": tasselli dell' universo che sfuggono alla nostra comprensione e sulla cui natura nemmeno gli scienziati si sbilanciano troppo. «Ams - spiega Roberto Battiston dell' Istituto nazionale di fisica nucleare e dell' università di Perugia, vice-responsabile dell' esperimento - è nato per cercare l' antimateria. In realtà il suo compito è cercare "altra materia". Particelle di cui a fatica sappiamo prevedere le caratteristiche». I calcoli sulla dinamica dell' universo sono chiari: nello spazio esiste molta più materia di quella che vediamo. La parte nota (fatta degli atomi che studiamo sui libri) non supererebbe il 5% di tutto il cosmo. Il resto sarebbe composto da materia oscura (25%) ed energia oscura (70%).I magneti di Ams, che costituiscono il cuore dello strumento, sono pronti a catturare nuove particelle gettando luce su quel 95% che costituisce il lato buio dell' universo. Al progetto di ricerca l' Italia partecipa con l' Istituto nazionale di fisica nucleare (Infn), l' Asi e una fetta di 35 milioni di finanziamento. Scoprire galassie lontane fatte di antimateria (una sorta di mondo capovolto in cui gli elettroni hanno carica positiva e i protoni negativa) potrebbe essere la scoperta più affascinante di Ams. «Ci basterebbe trovare solo unoo due nuclei di anti-elio - spiega Battiston- per arrivare direttamente al momento del Big Bang. Questi nuclei infatti possono essersi formati solo nell' esplosione primordiale». Già nel 2009 uno strumento dell' Infn chiamato Pamela aveva identificato le prime tracce di antimateria nello spazio. Ma trovare antimateria o materia oscura non è uno scherzo. Dal momento in cui il progetto di Ams è partito, nel 1994, ha dovuto superare mille difficoltà. L' ultima ieri, all' aeroporto di Ginevra. Lo strumento era troppo alto per entrare nella pancia del C-5. Per tutta la mattinata gli uomini di Nasa e Us Air Force hanno combattuto con il loro carico, eliminando vari strati di imballaggi. Nel 2003 il progetto era stato praticamente dato per morto: lo spettrometro era pronto, ma l' esplosione dello Shuttle Columbia spinse la Nasa a cancellare il volo per portarlo in orbita. Il responsabile di Ams, l' ostinatissimo Nobel Samuel Ting, è riuscito in extremis a trovare l' ultimo passaggio per il cielo sul volo di pensionamento dello Shuttle. La Nasa ha addirittura cambiato programma, rimandando il decollo, per consentire a Ting di sostituire all' ultimo momento il cuore scientifico di Ams: al posto di un potentissimo magnete superconduttore raffreddato quasi alla zero assoluto con elio liquido (destinato a consumarsi in pochi anni, e un po' troppo propenso a esplodere per essere tenuto vicino alla Stazione e al suo equipaggio) è stato montato un magnete normale, meno potente ma capace di durare quanto la Ssi. «La Nasa - ha spiegato Ting - aveva interesse ad aspettarci. Ams sarà il cuore del programma scientifico della Stazione, che è costata 100 miliardi di dollari ma è stata criticata per non aver dato risultati di astrofisica».


Corriere della Sera 3.9.10
L’universo di Hawking «Si è autogenerato senza l’intervento di Dio»
«Il grande disegno» esce a pochi giorni dalla visita del Papa a Londra
La controversa tesi nell’ultimo libro. Cacciari: illogico
di Dario Fertilio

In principio era il caos, sostiene Stephen Hawking. E di Dio, nessuna traccia. Parole grosse che, trattandosi di uno dei massimi astrofisici viventi, fanno boom. Tanto più che proprio lui, uno degli scienziati più famosi al mondo, condannato all’immobilità e privo della parola per un’atrofia muscolare progressiva, teorico delle stringhe e dei buchi neri, in un suo libro precedente ( Breve storia del tempo, pubblicato in Italia dalla Bur Rizzoli) aveva lasciato invece una porta socchiusa ai creazionisti, sostenendo che la presenza di Dio non sarebbe incompatibile, in sé, con un approccio scientifico all’universo.
Ma questa voltano : The Grand Design, «Il grande disegno», scritto con il fisico americano Leonard Mlodinow, in 200 pagine serrate e anche immaginifiche si spinge abbastanza lontano da ipotizzare la presenza di altri universi abitati, per poi giungere all’apodittica conclusione che il Big Bang sarebbe una «inevitabile conseguenza delle leggi della fisica», e che l’intervento di una mano creatrice sarebbe decisamente da escludere. Più precisamente, alla domanda che Hawking si pone da sé, «l’universo ha avuto bisogno di un creatore?», la risposta è chiara e incontrovertibile: no. E perché no? «Perché c’è una legge che si chiama gravità, e l’Universo può e continuerà a crearsi da sé, dal niente. La creazione spontanea è la ragione per cui qualcosa esiste piuttosto che il nulla, per cui l’Universo esiste, e noi stessi esistiamo». Punto. Per il grande Stephen Hawking, in pensione da un anno e già sulla cattedra occupata da Newton, la questione è chiusa.
In Gran Bretagna le sue conclusioni finiscono ovviamente in prima pagina — cominciando dal «Times» — tanto più che l’uscita del libro (giovedì prossimo) cade appena una settimana prima della visita di papa Ratzinger al di là della Manica.
Subito reazioni positive da Richard Dawkins, il biologo dichiaratamente ateo, che saluta l ’ est ensione al - l’universo delle teorie darwiniane sugli esseri viventi. Altrove, però, e cominciando dall’Italia, prevalgono invece, in varie gradazioni: perplessità, scetticismo, imbarazzo.
Il filosofo della scienza Giulio Giorello, ad esempio, ammette che l’idea di una creazione dal vuoto, «per effetto di una fluttuazione casuale rapidissima e molto energetica», è materia dibattuta dai cosmologi quantisti, anzi «l’ipotesi di una creazione senza creatore la si può ritrovare persino tra le pieghe della filosofia indiana». Una cosa però, sottolinea, è «fare a meno di Dio come creatore agente dall’esterno, un’altra parlarne come forza intrinseca alla natura, sulle orme di Giordano Bruno e Spinoza». Inoltre, a suo giudizio, «il bisogno di Dio non è basato sulla cosmologia, e la grazia è una scintilla nel buio. D’altra parte la scienz a prescindetot a l mente da Dio».
Più netto, e quasi sprezzante verso Hawking, un altro filosofo, Massimo Cacciari: «Nulla è più assurdo e antiscientifico di pretendere che un linguaggio specialistico fornisca risposte universali. È una contraddizione logica, quella di Hawking, che ha qualcosa di comico e non va nemmeno presa in considerazione. Meglio avrebbe fatto a leggersi la "Dialettica trascendentale" di Kant».
Più articolati, ma di fatto consonanti, i pareri del mondo scientifico. Tommaso Maccacaro, presidente dell’Istituto nazionale di astrofisica, analizza i punti principali della teoria di Hawking ( presenza di altri sistemi solari simili al nostro, di altri possibili universi, l’idea che si possa raggiungere un equilibrio fra la teoria quantistica del mondo subatomico e quella della gravità) e conclude: «Nessuno di questi punti può servire come base per una discussione su Dio, perché le cose sono totalmente disgiunte. Mi sembrano affermazioni talmente irrazionali da far sì che qualsiasi teologo ne possa fare un solo boccone». E il biologo evoluzionista Telmo Pievani: «Sulla teoria fisica delle stringhe, invocata da Hawking non c’è affatto consenso. Se invece parliamo di evoluzionismo, certo, il processo della vitavnon sembra procedere secondo un progetto. Ma da qui a dimostrare che un’entità sovrannaturale non esiste ce ne corre. E se anche riuscissimo a conoscere i pensieri di Dio, questo non proverebbe che Lui non esiste».

Corriere della Sera 3.9.10
Giovanni Reale
«Sbaglia perché applica categorie finite all’infinito»

Il filosofo cattolico Giovanni Reale non riesce a nascondere un sorriso di fronte alle argomentazioni di Stephen Hawking sull’assenza di un Dio creatore nell’universo, anzi sul fatto che «l’universo possa avere avuto bisogno di lui». «È un errore tipico di certi scienziati — dichiara — giudicare l’universo infinito secondo categorie finite, senza rendersi conto della enorme sproporzione che ne deriva».
Ma è soprattutto l à dove Hawking si spinge più lontano, sostenendo che l’enorme varietà del «multiverso» proverebbe l’inesistenza di Dio, a suscitare in lui un’illuminazione (o, se si preferisce, una fantasia metafisica sull’aldilà). «Dunque — afferma Reale — Stephen Hawking insiste molto sulla presenza di altri sistemi solari simili al nostro, con altri soli e pianeti, e aggiunge che da quando, nel 1992, è stato scoperto il primo pianeta effettivamente orbitante attorno alla sua stella, sarebbe stato inferto un colpo alla teorie creazioniste. E poi, secondo lui, la quasi certezza di altri universi altrettanto complessi del nostro e di altre possibili forme di vita in spazi imprecisati dimostrerebbero che Dio non c’è, perché altrimenti avrebbe sprecato tempo, spazio e materia di nessun valore per le creature umane terrestri. A lui rispondo: a me piace pensare che gli altri universi, e chissà quali altri sistemi celesti, possano essere stati creati per ospitarci tutti, quando verrà il giorno della resurrezione. E perché no? Potrebbero essere quelli i luoghi che ci sono stati riservati, in un nuovo Eden.

Repubblica 3.9.10
Hawking: vi spiego perché non è stato Dio a creare l´universo
La teoria nel nuovo libro dello scienziato "Il Big Bang deriva solo dalle leggi della fisica"
Molte reazioni dei teologi, dopo questo annuncio, alla vigilia della visita del Papa
di Enrico Franceschini

L´universo ha bisogno di un Creatore? "No". La perentoria risposta arriva dal professor Stephen Hawking, l´astrofisico più famoso del mondo, considerato da molti l´erede di Newton, del quale ha per così dire ereditato la prestigiosa cattedra all´università di Cambridge. In un nuovo libro che esce in questi giorni, l´autore del best-seller internazionale Dal Big Bang ai buchi neri sostiene, sulla base di nuove teorie, che «l´universo può essersi creato da sé, può essersi creato dal niente» e dunque «non è stato Dio a crearlo».
La sua affermazione occupava ieri tutta la prima pagina del Times di Londra, come una sfida, l´ennesima, della scienza alla religione. «Così come Darwin ha smentito l´esistenza di Dio con la sua teoria sull´evoluzione biologica della nostra specie», commenta Richard Dawkins, biologo difensore dell´ateismo, «adesso Hawking la nega anche dal punto di vista della fisica». Nel suo libro più famoso, l´astrofisico aveva cercato di spiegare che cosa accadeva "prima" del Big Bang, ossia prima che nascesse il tempo, lasciando il quesito irrisolto. Il capitolo conclusivo conteneva un ragionamento che alcuni interpretarono come l´idea che Dio non fosse incompatibile con una comprensione scientifica dell´universo: scoprire cosa c´era prima Big Bang, arrivare a una "completa teoria" dell´universo – scriveva Hawking – «sarebbe il più grande trionfo della ragione umana, perché a quel punto conosceremmo la mente di Dio».
Ma nella sua nuova opera, intitolata The Grand Design (Il grande disegno o progetto) e scritta insieme al fisico americano Leonard Mlodinow, lo scienziato offre la risposta: anziché essere un evento improbabile, spiegabile soltanto con un intervento divino, il Big Bang fu «una conseguenza inevitabile delle leggi della fisica». Scrive Hawking: «Poiché esiste una legge come la gravità, l´universo può essersi e si è creato da solo, dal niente. La creazione spontanea è la ragione per cui c´è qualcosa invece del nulla, il motivo per cui esiste l´universo, per cui esistiamo noi». Nel libro, lo studioso predice inoltre che la fisica è vicina a formulare "una teoria del tutto", una serie di equazioni che possono interamente spiegare le proprietà della natura, la scoperta considerata il Santo Graal della fisica dai tempi di Einstein.
E´ tuttavia la sua asserzione che Dio non ha creato l´universo, e dunque non esiste, a suscitare eco e polemiche. «Se uno ha fede», osserva il professor George Ellis, docente di teologia alla University of Cape Town, «continuerà a credere che sia stato Dio a creare la Terra, l´Universo o perlomeno ad accendere la luce, a innescare il meccanismo che ha messo tutto in moto, prima del Big Bang o del presunto nulla che lo ha preceduto». Ma il campo dell´ateismo accoglie la pubblicazione del libro di Hawking come una vittoria della ragione e della scienza, da celebrare a due settimane dalla visita in Inghilterra di papa Benedetto XVI, che non sarà per niente d´accordo con Hawking.
Nel nuovo libro, l´astrofisico rivela che il riferimento alla "mente di Dio" nel suo precedente volume sul Big Bang era stato male interpretato. Hawking non ha mai creduto che scienza e religione fossero conciliabili. «C´è una fondamentale differenza tra la religione, che è basata sull´autorità, e la scienza, che è basata su osservazione e ragionamento», conclude. «E la scienza vincerà perché funziona».

Corriere della Sera 3.9.10
Le fedi, follia dell’Occidente
di Emanuele Severino

L’ultimo libro di Emanuele Severino affronta i grandi antagonismi su cui si fonda la civiltà
La loro opposizione è apparente, non risolvono i problemi del mondo
Ormai sulla terra ogni conoscenza è diventata una fede; anche ogni conoscenza che guida la volontà, e che guida pertanto anche la volontà di pace; una fede: più o meno complessa, coerente, potente, consapevole di sé, ma pur sempre una fede. Anche la scienza moderna è fede.
Tuttavia il senso di ciò che viene chiamato «fede» si mostra solo in relazione al senso della «non-fede», cioè al senso portato alla luce dalla filosofia, in Grecia. La filosofia si rivolge a ciò che si mostra in modo così pieno e ineludibile da non poter esser negato – da «non poter essere altrimenti», dice Aristotele. «Dio» è il contenuto centrale di ciò che si mostra all’interno dell’epistéme della verità.
Tutto ciò che non si mostra nell’epistéme della verità può essere altrimenti, è controvertibile, lo si afferma perché si vuole che ad esso competa ciò che di esso si afferma. Tutto il resto è, appunto, fede, mito. In quanto sapere ipotetico, anche la scienza è fede e mito. La volontà stessa, in quanto tale, è fede: innanzitutto è fede di ottenere ciò che essa vuole.
Ormai sulla terra ogni volontà – anche la volontà di pace – è guidata dalle contrapposte
forme della fede e del mito. L’epistéme della verità è tramontata. Dato il modo in cui ha compiuto il suo primo passo, il suo tramonto è inevitabile.
Il grande problema da affrontare è che volere la «pace» facendosi guidare dalla fede significa volere la «pace» collocandosi nella dimensione della guerra. Ogni fede vuole che il mondo abbia un senso piuttosto che un altro e quindi ogni fede si trova essenzialmente in
( contrasto con le altre forme di fede, che invece vogliono che il mondo abbia un senso diverso. Dialogando tra loro, o le fedi rinunciano a se stesse in favore di una fede prevaricante, oppure non effettuano questa rinuncia, ma allora è inevitabile che alla fine si scontrino non solo sul piano del dialogo, ma anche su quello dell’agire effettivo dei popoli e che alla fine prevalga la fede più potente.
Relativamente alla «ragione», cristianesimo e islam sono in apparenza molto divergenti; ma al di là delle apparenze e delle loro intenzioni esplicite essi sono sostanzialmente solidali (anche se la cristianità si è allontanata ben di più dell’islam reale, storico, dalla brutalità del mondo arcaico). Ma non è forse del tutto esplicita la sentenza di Gesù, su quel che si deve a Cesare e a Dio? Non è forse, questa sentenza, la prova più evidente dell’autonomia che la Chiesa riconosce a Cesare, cioè allo Stato, e, da ultimo, alla «ragione»? Indubbiamente, Gesù conduce la coscienza religiosa in una dimensione dove l’islam si rifiuta di entrare. Per l’islam è quel che è di Dio, ossia è la legge di Dio, ad avere il diritto di configurare la struttura e le leggi dello Stato e della «ragione»: date a Cesare quel che è di Dio; rendete Dio padrone di Cesare.
Ma chiediamoci ancora una volta: quando Gesù afferma di dare a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio, pensa forse che a Cesare si possa dare qualcosa che sia con
tro Dio? Certamente no! La Chiesa cattolica infatti rifiuta quella «libertà senza verità» (cioè senza verità cristiana) che caratterizza la democrazia semplicemente procedurale del nostro tempo. Ma allora Gesù e la Chiesa pensa
no che Cesare debba essere cristiano e cioè che le leggi dello Stato debbano essere cristiane. E poiché non possono esistere leggi dello Stato la violazione delle quali non implichi una sanzione, ne viene che la violazione delle leggi cristiane dello Stato richiede una sanzione terrena, ossia già qui sulla terra, prima ancora che nell’aldilà. La teoria, sostanzialmente comune ad Avicenna e a Tommaso, che una filosofia che smentisca la fede è una falsa filosofia è la traduzione, sul più ampio piano della ragione, del modo in cui, per Gesù, ci si deve porre in rapporto a Cesare e a Dio. Infatti, se a Cesare non si deve dare quel che è contro Dio, allora, quando Cesare è contro Dio, esso è un Cesare falso, uno Stato che è in contrasto col vero Stato: è un Cesare falso, così come una filosofia che sia in contrasto con la «Rivelazione» è una falsa filosofia. Anche alla filosofia si deve dare quel che è della filosofia e alla fede quel che è della fede – purché alla filosofia non si dia quel che è contro la fede (o che è indifferente alla fede). Anche la filosofia, e in generale la ragione, come lo Stato, deve essere filosofia cristiana, o islamica; ragione cristiana, o islamica. Cristianesimo e islam non sono dunque semplicemente due forme diverse e contrastanti di civiltà (non danno luogo a uno «scontro di civiltà»), ma affondano le loro radici nello stesso terreno, cioè appartengono entrambi al grande passato dell’Occidente, cioè della
stessa civiltà. Cristianesimo e islam sono certamente in contrasto; ma questo loro contrasto è la superficie di un contrasto radicalmente più profondo, dove cristianesimo e islam
stanno dalla stessa parte, si trovano a combattere il comune nemico mortale, cioè l’Europa moderna, sebbene, a un livello ancora più profondo, un’«intima mano» unisca l’Europa moderna al cristianesimo e all’islam.

l’Unità 3.9.10
L’affondo di Bersani
«Il berlusconismo ci porta alla fogna»
di Vladimiro Frulletti

Il segretario dei democratici invita a dar vita a una alleanza per una «nuova riscossa italiana». S’abbraccia con il sindaco “rottamatore” di Firenze Renzi ma spiega «Sì alle critiche, ma anche affetto per la ditta».

Con Berlusconi la politica è stata degradata a fogna. Il segretario del Pd non usa perifrasi. «Al di là delle denunce di un governo che si denuncia da solo, in questo agosto terrificante abbiamo visto come il secondo tempo del Berlusconismo possa far regredire la politica alla fogna» dice davanti alla folla di amministratori e dirigenti democratici accorsi a Firenze da mezza Tocana per vedere da vicino la nuova sede del partito va giù duro. Incassa applausi. Il clima è decisamente già da campagna elettorale. E infatti il leader Pd non fa previsioni sulla data in cui Berlusconi cadrà («non so dirvi giorno, mese e anno»), ma è certo che cadrà. «la crisi è ineluttabile» dice. «Non abbiamo paura delle elezioni ribadisce ma se arriviamo al voto anticipato si sappia che c’è un padre e una madre: berlusconi e il suo fallimento». Insomma c’è da tenersi pronti. Il che dovrebbe spingere tutti i democratici a convogliare le proprie energie (positive) sul Pd. «Assieme alle critiche ci vuole anche l’affetto per la ditta» spiega Bersani rivolto al sindaco di Firenze Matteo Renzi e alla sua proposta di “rottamazione” dei vertici del partito. «La gente deve stimarci, ma se non ci stimiamo fra di noi ...» aggiunge Bersani.
Con Renzi poi ci sarà anche l’abbraccio davanti alla targa che ricorda il segretario Ds di Firenze Meme Auzzi (scomparso all’improvviso 4 anni fa) che fece partire la realizzazione della nuova sede. Un gesto applaudito dalle persone. Che tuttavia non fa retrocedere di un centimetro il sindaco. Renzi infatti non solo ribadisce tutte le sue critiche, spiegando che non si sente un Maradona «ma un Bruscolotti» (il terzino del Napoli degli anni ‘80) e che voler bene alla ditta Pd significa salvarla «dal fallimento». Ma annuncia che porterà le sue tesi (ad esempio non ricandidare i parlamentari con tre mandati come stabilisce lo Statuto Pd) all’Assemblea nazionale e che le metterà ai voti. Del resto per Renzi se il “berlusconismo” è finito, e per lui è finito, anche chi fin qui gli ha fatto opposizione deve passare la mano. Posizioni che non incontrano i favori (ma è un eufemismo) dei molti amministratori e dirigenti del Pd toscano presenti all’inaugurazione. Sicuramente non quelli nè del presidente della Regione Enrico Rossi nè del segretario regionale del Pd toscano Andrea Manciulli. «Bersani spiega il governatore è il naturale candidato premier. È stato eletto segretario pochi mesi fa da milioni di persone». L’invito di Manciulli e Rossi è di abbandonare le discussioni per dedicarsi ai problemi delle persone. «Dobbiamo fare squadra dice Manciulli che sta con Bersani -. Evitiamo di litigare negli spogliatoi per chi deve indossare la fascia da capitano. C’è da vincere la partita».
E il capitano-Bersani un’idea di come il Pd possa vincere la partita ce l’ha. E parte proprio dalla nuova sede dei democratici toscani, «la sala macchine» come la definisce, dove lavorano «tanti volontari della politica». Come quelli che incontrerà poi nel pomeriggio alla festa del Pd di Firenze e dopo cena a quella di Livorno. E quindi non un fine, ma un mezzo per tradurre in «i nostri ideali in cose visibili e utili per tutti». Del resto nel panorama italiano fatto dei partiti personali il Pd è l’unico, dice Bersani, dove il futuro va al di là del segretario del momento. «Un’idea di partito che è idea di societàspiega il segretario Pd . Come in Europa, dove ci sono leader pro-tempore di grandi collettivi e non i “ghe pensi mi” delle derive plebiscitarie». Quindi il passaggio successivo è quasi obbligato: costruire le condizioni politiche, e cioè «strutture, alleanze, proposte». In questo senso bersani rigetta le critiche sulla sua proposta di nuovo Ulivo come ammucchiata anti-berlusconiana. «Non è la vecchia Unione» spiega Bersani. I Mastella e i pecoraro Scanio non ci sono più e Rifondazione non è interessata a un accordo di governo, ma «a una battaglia democratica». «Il Nuovo Ulivo invece dice è un patto impegnativo fra forze che hanno un identico programma di governo». L’obiettivo è dar vita a «una nuova riscossa italiana». Quella che chiedono i giovani che non solo sono senza lavoro, ma ormai non lo cercano neppure più. I precari della scuola licenziati da Tremonti-Gelmini. Le stesse aziende abbandonate da un governo che da mesi lascia vuota la carica di ministro dello sviluppo economico. E non a caso Bersani apprezza molto il richiamo rivolto dal presidente Napolitano (molto applaudito delle persone) al governo. In più c’è anche il pericolo che il berlusconismo ( per Bersani è ancora forte e ha consenso) pur di salvarsi produca «un ulteriore imbarbarimento della politica italiana» e la perdita di «pezzi di democrazia» senza che gli italiani se ne accorgano. «È già successo» ammonisce il leader Pd che annuncia «opposizione drastica» contro il processo breve, una «specie di amnistia pro Berlusconi». Ma per il premier non sarà facile ottenerla, avverte Bersani, perché non abbiamo ancora la Costituzione di Arcore».

l’Unità 3.9.10
Sciopero della fame continuo
Precari, protesta a mani nude
di Mariagrazia Gerina

Presidiano da giorni piazza Montecitorio. Le storie, i racconti, le facce e i curricula dei precari della scuola costretti a una protesta estrema dalla riforma-scure. E in tanti accusano il colpo.

Non è che sono venuti apposta per lei. Loro piazza Montecitorio, la presidiano da giorni. Anzi, in realtà come in un gioco di porte girevoli non si sono nemmeno incrociati. Di qua, il ministro, Maristella Gelmini, che entra ed esce da Palazzo Chigi, grattando il fondo del barile. Di là loro, i precari, in presidio permanente davanti alla Camera dei deputati, ancora deserta. Quelli che secondo il ministro si fanno strumentalizzare dai partiti d’opposizione. Sospettati addirittura di essere solo «militanti politici». Come se fosse un insulto, poi.
L’avranno insospettita gli slogan, forse. «Non il posto a ogni costo, ma la scuola al primo posto». «L’Italia ha precarizza». Gli striscioni contro i tagli alla scuola pubblica. Avrebbe almeno potuto farseli spiegare. Verificare di persona. Forse non l’ha fatto perché sa già chi è che in questo momento ha in mano la «patacca».
In caso di dubbi, Caterina Altamore, maestra elementare, al settimo giorno di sciopero della fame, si è messa un cartello al collo un cartello: «Vera precaria». L’ambulanza la porta via. Oggi il calo di pressione è toccato a lei. L’altro giorno a Giacomo. Il confronto, ovviamente, il ministro non l’ha concesso. «C’era d’aspettarselo, nessuno che ha un barlume di ragione può sostenere che tagliando risorse si migliora la scuola», spiega il palermitano che sedici giorni fa ha iniziato lo sciopero della fame. Ormai un simbolo della protesta che si sta diffondendo in tutta Italia ancor prima che la scuola cominci. Prossimo appuntamento, l’8 settembre. Davanti a Montecitorio. Per dare il «benvenuto» ai parlamentari alla ripresa dei lavori della Camera. E alla vigilia di un anno scolastico, che si preannuncia tesissimo.
Il gioco del ministro è fin troppo facile da scoprire. «Diecimila assunzioni sono irrisorie a fronte di 67mila posti a tempo indeterminato già tagliati e 130mila cattedre tutt’ora vacanti... In due anni 67mila docenti e 35mila Ata hanno perso il posto e non c’è bisogno di attendere per sapere che non ce l’avranno quest’anno, basta guardare i numeri dei convocati...». Seduti sotto al sole attorno a un computerino portatile i sediziosi precari che in questi giorni si sono aggiunti alla protesta di Caterina e Giacomo, in sciopero della fame, buttano giù di getto un comunicato di risposta. «Troppo facile accusarci di essere militanti politici... così si aggira il problema per cui chiediamo un confronto con il ministro: la qualità della scuola, la ricaduta dei tagli decisi dal governo».
Sanno di cosa parlano. «Domani a Roma ci sono le convocazioni per la mia classe di concorso, insegno da otto anni, sono trentesima in graduatoria, ma non so se otterrò l’incarico, tra gli assunti a tempo indeterminato ci sono 22 perdenti posto e 2 di loro sono ancora senza incarico», spiega lo stato d’animo Ilaria Persi, 35 anni, laurea in letteratura Latina, con il massimo dei voti, specializzazione in greco. «Come lei, io la scuola l’ho scelta, perché mi sentivo utile a insegnare», la interrompe Carlo Serravalli, 34 anni, massimo dei voti anche lui. Un falso precario. Nel senso che, appena specializzato, ha avuto la prima cattedra. Per tre anni di fila. «Mi sentivo quasi come un assunto, Fioroni aveva annunciato 150mila assunzioni, io ero tra quelli». Adesso anche lui non sa che fine farà.

l’Unità 3.9.10
La scuola alla deriva
Un ministro senza vergogna
di Francesca Puglisi
Responsabile Pd della scuola

Il libro dei sogni del ministro Gelmini contrasta con la drammatica realtà della scuola e dei problemi che si riverseranno sulle famiglie: l’anno scolastico parte con 50.000 classi senza insegnanti, 16.000 scuole senza presidi, 8 miliardi di euro in meno in tre anni e 170.000 lavoratori della scuola pubblica lasciati per strada dopo anni di lavoro. Il resto sono solo chiacchiere e numeri che non hanno alcun riscontro nella realtà. I nostri ragazzi toccheranno con mano i problemi della scuola, vivendo in aule sovraffollate, sopportando interminabili ore di lezione frontale, con la matematica somministrata come una purga e la fisica o l’informatica studiata sui libri e non nei laboratori, grazie al taglio degli insegnanti tecnico pratici. La Gelmini pensa di raggiungere l’obiettivo imposto dall’Europa 2020 di dimezzare la dispersione scolastica, legando gli studenti ai banchi con le pesanti catene dell’ordine e disciplina e non accendendo in loro la passione per la scoperta e la conoscenza, unendo il sapere al saper fare.
Le bugie del Ministro saranno smascherate dai genitori che scopriranno quanto preziosi erano i bidelli tagliati che non lasciavano in stato di abbandono i bambini della primaria mentre andavano in bagno o che dovranno accettare che il figlio con disabilità non ha più diritti uguali di apprendimento perché avrà pochissime ore di sostegno. Di fronte alle dichiarazioni in libertà della maggioranza, la decenza impone di ricordare che il Governo di centrosinistra aveva fatto diventare legge l'assunzione in ruolo di 150.000 precari della scuola.
Gelmini, cancellando le cattedre, sta invece licenziando un numero di lavoratori equivalente a due Alitalia all'anno, ma in questo strano Paese, neppure lo sciopero della fame di giovani madri di famiglia licenziate dallo Stato riesce a dare uno scossone alle coscienze addormentate. Le altre balle del Ministro riguardano il Tempo Pieno. Dà numeri in percentuale di incremento, chiamando tempo pieno un tempo lungo parcheggiato: cos'altro possono essere 8 ore al giorno trascorse con un maestro unico senza compresenze? Con una popolazione scolastica in crescita e genitori che continuano a bocciare il maestro unico, cresce il numero di famiglie che lo hanno chiesto senza ottenerlo. I dati sono poi drammatici per la scuola dell'infanzia: migliaia di bambini non vedranno una scuola fino all’età di 6 anni. Fortunati i piccoli della Regione Toscana che andranno ad occupare le 96 sezioni di scuola dell'Infanzia a cui lo Stato ha negato gli insegnanti. Non rimarranno a casa perchè Enrico Rossi ha deciso di aprire le porte di quelle scuole, investendo 4 milioni di euro e dimostrando che, in tempo di crisi, Governare in un altro modo si può.

il Fatto 3.9.10
Il diritto all’istruzione e la Costituzione
Genitori-cittadini, è l’ora della sveglia
Classi come nuovi ghetti e il più grande licenziamento del settore: ecco l’esito della “riforma”
di Marina Boscaino

Dico a voi, genitori, nonni, zii, ragazzi. Cittadini. Lo so, la lettera è “vetero”, come ci hanno fatto credere di idee, principi, valori su cui vorrei riflettere. Svenduti dall’aggressività neoliberista e dal macabro progetto culturale di chi ci governa: come la lettera, roba d’altri tempi. Comodo per plasmare menti e coscienze al pensiero unico: sbarazzare il campo da ogni ostacolo. E far pensare che alcune radici della Repubblica puzzino
di stantio. La Costituzione, ad esempio. Che va invece tutelata da retorico buonismo, inerzia e manipolazione, rivendicando, con orgoglio e passione, il mandato attribuito a noi insegnanti dalla Carta: formare cittadini consapevoli. È sempre più difficile, da questo non-luogo a cui hanno ridotto la scuola. Fuori dai cancelli, i ragazzi si trovano in un mondo che li sollecita esattamente nella direzione opposta: il re per una notte, il tronista, il famoso, lo spiato che ammicca alla telecamera. Maschere (tragiche) dell'ossessione collettiva, prese in prestito dalla videocrazia per sostanziare la realtà.
La scuola è di tutti, ci hanno insegnato. Scuola, sanità e giustizia: ce l’hanno ripetuto. Allora perché in prima pagina solo a colpi di precari in mutande sui tetti o in sciopero della fame? Perché non bastano la disillusione, la sfiducia nelle istituzioni e nel futuro di tanti quarantenni ai quali un ministro si può permettere di dire: solidarietà, ma voi pagate per tutti? Pagate il conto al sistema che vi ha creato e sfruttato per anni. Io, intanto, appoggio Marchionne. E dismetto qualsiasi responsabilità rispetto all’illegittimità delle procedure che stiamo assumendo e alla crisi sociale innescata dal più grande licenziamento di massa della storia della scuola. Parole in libertà, suggestive e mediaticamente efficaci, per solleticare il bisogno di certezze di chi si è smarrito. O non si è mai trovato. Alle quali non corrisponde in nessun modo alcuna realtà. Parla rivolgendosi a voi, audience, che fate share. A molti di noi non si rivolge più, se non per bacchettarci, darci dei fannulloni, degli incompetenti, degli assenteisti; minacciarci, se “facciamo politica”: TremonBrunetta-pilotata, come la giovane Ambra da Boncompagni. Non produce pensiero originale, questo ministro della Repubblica. I suoi slogan sono sintesi market oriented di ciò che hanno deciso altrove. Lei ha il compito di metterci la faccia.
E lo fa in maniera impudica, perché inconsapevole: millantando potenziamenti di materie in una scuola superiore in cui si taglia tutto, dagli orari alla carta igienica; di legalità, mentre viola norme democratiche per portare a casa la “riforma” (il taglio di 8 miliardi) che il ministro dell'Economia le ha commissionato; di diritti, costringendo bambini e ragazzi in scuole non bonificate da Eternit, in cui vengono stipate aule a dispetto di qualsiasi norma di sicurezza, in cui viene calpestata, elusa, umiliata la legge per il sostegno alla diversabilità, che tutta l’Europa ci invidia. Ma di cui incultura politica e insensibilità sociale sviliscono la portata. Vi parla di uguaglianza, restaurando una scuola di classe, che divarichi destini e immobilizzi origini sociali. Creando ghetti sempre più segregati, per i figli di un dio minore: di colore, di religione, di nascita differenti dai futuri quadri, immaginati in un triste progetto di società; non troppo colti, purché provvisti di potere d’acquisto, consumatori acritici, prodotto della dismissione della grande idea di una scuola inclusiva ed emancipante che ha animato le intenzioni dei costituenti.
D’accordo, potrebbe non toccare ai nostri figli, ai nostri nipoti, ai nostri alunni: noi saremo abbastanza forti da tutelarli. Ma ai miei Lorenzo e Margherita, che iniziano rispettivamente la scuola secondaria di II e di I grado proprio nell’anno 0 della “riforma epocale” e a tutti i miei alunni, anche i meno sensibili, non mi stancherò di cercare di far capire che la democrazia si basa sulla difesa dei diritti collettivi e dell’interesse generale. E che il privilegio di una buona partenza non esenta dal dovere della partecipazione e dalla testimonianza dell’indignazione. Perché silenzio è uguale a morte.

il Fatto 3.9.10
Forse c’è un’altra strada
di Michele Boldrin

La nuova sceneggiata è servita. Da un lato i precari della scuola che fanno lo sciopero della fame e un sindacato che vuole solo mantenere lo status quo. Dall’altra un ministro che si vanta dei propri tagli senza capire (i suoi consiglieri non gliel’hanno evidentemente spiegato) che il problema è come è organizzata e gestita la scuola italiana. In mezzo i media che, anziché documentare le colpe d’una parte e dell’altra (e la necessità di una svolta), alimentano la polemica. Ulteriore fotografia, se ce ne fosse bisogno, di una classe dirigente uniformemente inetta.
È chiaro a chiunque non abbia fette di salame ideologico sugli occhi che l’ennesima apertura caotica dell’anno scolastico è il frutto di scelte miopi e accomodanti di questo governo e di molti che l'hanno preceduto. Oltre che di politiche sindacali improntate al più bieco corporativismo e alla massimizzazione della spesa, invece che alla sua efficienza e produttività. Così come è chiaro (fuorché alla Gelmini e a Tremonti) che la soluzione non consiste in miopi tagli orizzontali, ed è chiaro (fuorché ai sindacati) anche che non è spendere di più e impedire i cambiamenti nell'organizzazione del lavoro.
Eppure, se l’obiettivo fosse far funzionare meglio la scuola italiana, il problema si potrebbe risolvere. Ecco gli ingredienti in ordine sparso. Decentralizzare per davvero le decisioni di assunzione e impiego del personale lasciando completa autonomia contrattuale ai provveditorati. Trasformare ogni scuola in una cooperativa d’insegnanti a cui lo Stato dà in concessione a tempo indeterminato (a un prezzo che copra l’ammortamento) le strutture fisiche. Chi assumere (e a che condizioni), chi promuovere, premiare o licenziare, lo decide la cooperativa. O, al massimo, il provveditore. E che il migliore, se vuole, venda i propri servizi a un prezzo (regolato) maggiore. Gli insegnanti di qualità costano, come i luminari della medicina.
E i soldi? Buoni scuola uguali per tutti gli studenti, finanziati con le imposte e spendibili nella scuola di propria scelta. Ciò che conta è il finanziamento pubblico dell’istruzione, fattore di progresso economico e uguaglianza sociale, non la sua gestione diretta. Che, come l’esperienza dimostra, porta spesso a inefficienze e assurdità. E i programmi? E la qualità dell’insegnamento? Ci pensa il ministero. Programmi minimi e uniformi a livello nazionale, con aggiunte volontarie locali e qualità dell’insegnamento testata con esami nazionali (basta con regioni dove le lodi si regalano). A questo si dovrebbe dedicare il ministero che, con questa riforma federalista, si svuoterebbe di migliaia di inutili funzionari, liberando risorse per chi l’insegnamento lo produce davvero. Ossia gli insegnanti capaci e volenterosi, in collaborazione con alunni e famiglie.
*Washington University in Saint Louis

Repubblica 3.9.10
I call center delle cattedre
di Chiara Saraceno

La scuola non può continuare a funzionare facendo conto largamente su insegnanti precari, il cui contratto è rinnovato annualmente (quando va bene), senza nessuna garanzia non solo per la continuità del rapporto di lavoro ma anche per la continuità didattica.
E per la possibilità di sviluppare progetti formativi di medio-lungo periodo. Se le cifre presentate ieri dal ministro Gelmini – 200.000 precari a fronte di 700.000 con cattedra di ruolo – sono giuste, segnalano un sistema organizzativo che affida il proprio funzionamento per quasi un terzo a rapporti di lavoro, ma anche e soprattutto formativi, senza continuità. È peggiore di quanto avviene nell´industria e si avvicina alla situazione dei call center. Salvo che ciò che produce la scuola non sono automobili o lavatrici, e neppure servizi di informazione. E gli studenti non sono pezzi da assemblare su una catena di montaggio, o clienti cui dare qualche informazione preconfezionata o da smistare ad un altro numero. Se gli studenti italiani rendono meno in media della maggioranza dei loro coetanei degli altri Paesi, forse è anche per questo: sono più esposti ad un turnover sistematico di docenti, a loro volta poco incentivati ad investire nel conoscere meglio i propri studenti, nel trovare formule di insegnamento efficaci. Perché un anno sono in un posto, l´anno dopo, se va bene, in un altro. Ha ragione quindi la ministra a dire che la situazione non è più tollerabile. Ma ha torto sia nelle cause che individua per questo rapporto abnorme tra precari e regolari, sia nella soluzione che ha trovato, ovvero mandarli a casa con un´operazione di licenziamento (di fatto, anche se formalmente si chiama mancato rinnovo) di proporzioni enormi, che coinvolge, tra l´altro, soprattutto donne.
Se la massa degli insegnanti precari è cresciuta a dismisura, non è innanzitutto, come invece sostiene Gelmini, perché si è fatto un uso clientelare e assistenziale delle supplenze. Piuttosto, analogamente a quanto avviene nell´industria, i vari governi che si sono succeduti hanno trovato comodo, anche con la complicità dei sindacati, utilizzare le supplenze come tappabuchi organizzativi, anziché procedere ad una seria programmazione del reclutamento e della mobilità degli insegnanti. Per cominciare a sciogliere questi nodi occorre innanzitutto distinguere i due aspetti della questione: quello dell´organizzazione scolastica e in particolare della offerta formativa, e quello dei lavoratori che dopo anni di precariato di colpo si trovano senza lavoro.
A sentire le parole della Ministra, sembra che la riduzione del numero degli insegnanti avrà l´effetto miracoloso di rafforzare la qualità dell´insegnamento. Se è vero che la situazione precedente era lontana dall´essere soddisfacente, non è chiaro tuttavia come la riduzione tout court degli insegnanti possa di per sé produrre effetti positivi. Insieme alla razionalizzazione delle risorse e alla riduzione degli sprechi, occorre procedere a una verifica sistematica dei problemi formativi e delle loro cause. Ad esempio, i risultati del test INVALSI confermano la necessità di un fortissimo investimento nei servizi educativi il più precocemente possibile e per un tempo scuola di qualità ampio, per contrastare handicap sociali e ambientali. Invece le regioni meridionali sono quelle in cui ci sono meno nidi di infanzia, in cui le scuole materne sono spesso ancora a tempo parziale e il tempo pieno alle elementari è pochissimo diffuso. Analogamente, i più alti tassi di fallimento scolastico negli istituti tecnico-professionali (frequentati di norma dai figli delle classi sociali più modeste) rispetto ai licei dovrebbero indurre non solo a un rimaneggiamento delle materie, come è avvenuto con la riforma delle superiori, ma ad una politica di sostegno ai processi di apprendimento.
Tutto ciò non risolverebbe automaticamente la questione dei precari che rischiano di perdere il loro posto di lavoro, anche se in parte ne conterrebbe il numero, avviando un percorso di regolarizzazione che li faccia uscire, appunto, dalla precarietà. Tuttavia, se non tutti possono essere assorbiti, il ministero, lo Stato, non può lavarsene le mani come se non fosse un problema da esso stesso creato. L´accesso a un incarico annuale non è un diritto. È, dovrebbe essere, un diritto, un sostegno al reddito decente e l´accesso a opportunità di ricollocamento.
È vero che ci sono problemi di bilancio. Altri Paesi tuttavia, pur con performance scolastiche migliori, hanno tagliato su molte cose, ma hanno aumentato le risorse per la scuola, intendendole come investimento nel futuro. Da noi invece si taglieranno un po´ di stipendi per pagare la carta igienica.


l’Unità 3.9.10
In manicomio con Celestini
(...credendo di non essere matti)
«La pecora nera» non è un film di denuncia, ma una benedizione poetica tra Pasolini, Brecht e Basaglia «Criminali non sono i manicomi, ma l’idea stessa che qualcuno possa decidere della libertà di un altro»
di Alberto Crespi

Nel contesto di questi primi giorni di Mostra, La pecora nera è una benedizione: finalmente un bel film, dopo incredibili schifezze come il film d’apertura (Black Swan di Aronofsky) o ambigui monumenti alla correttezza politica (Miral di Schnabel, ne parliamo in altra pagina). Ma non ci sembra il modo giusto di parlarne: Ascanio Celestini, grande teatrante/affabulatore al primo film, non ha il compito di salvare Venezia da se stessa. Il suo film ha una lunga storia che prescinde dal Lido. Che sia in competizione è un incidente di percorso.
Prima di diventare un film, La pecora nera è stato uno spettacolo teatrale in forma di monologo ed un romanzo (editi in cofanetto da Einaudi). Apparentemente è la storia di un caso clinico. Un ragazzino nato «nei favolosi anni 60» (la frase è un tormentone che in teatro ricorreva spesso, nel film meno) cresce in una condizione di disagio, con una nonna affettuosa e ingombrante, un padre e dei fratelli violenti, una madre rinchiusa in manicomio. Dopo aver assistito all’omicidio di una prostituta, uccisa dai fratelli, il piccolo Nicola viene anch’egli ricoverato e sottoposto a elettroshock. Come suol dirsi, chi entra in manicomio sano diventa matto per forza. Anni dopo – nel 2005, nei giorni della morte di Papa Wojtyla – Nicola ha sviluppato una forma di schizofrenia che lo spinge a sdoppiare il sé «normale» con un alter ego folle. La trama non prevede scioglimenti: il manicomio è diventato un habitat, uno stile di vita. Non a caso il film si apre con la famosa barzelletta, che la voce di Celestini racconta fuori campo, dei due matti che tentano di fuggire dal manicomio dai 100 cancelli, i due matti ne scavalcano 99 e, all’ultimo, si stufano e tornano indietro.
Abbiamo «sciolto» in una trama temi e situazioni che Celestini a teatro snoda in un monologo avvincente e inquietante, e che al cinema – con l’aiuto degli sceneggiatori Ugo Chiti e Wilma Labate – si evolve in una serie di tableaux vivants, di bozzetti autosufficienti. C’è molto Brecht nello stile volutamente non naturalistico, e c’è molto Pasolini nell’occhio cinematografico che Celestini si inventa per questo suo primo film (non casuale, anzi, decisivo l’apporto del direttore della fotografia Daniele Ciprì, già partner di Franco Maresco in Cinico Tv). Ma l’apparente limpidezza del film nasconde una complessità che darà vita a polemiche e fraintendimenti. È facilissimo leggerlo come un film sulla pazzia, sulla 180, su Basaglia, e trovarlo poco realistico, poco «di denuncia». La verità è che Celestini usa il manicomio per parlare d’altro, e nessuno è in grado di spiegarlo meglio di lui: «Non volevo fare un film, né uno spettacolo, di denuncia. Per questo non è ambientato nel ’78, all’epoca della legge 180, e non parla di Basaglia anche se parte da Basaglia. Anni prima della legge, egli scrisse del manicomio paragonandolo ad altre istituzioni come la scuola, il carcere, la famiglia, la caserma. Ecco, io non credo che il manicomio o il carcere siano istituzioni criminali perché vi avvengono abusi o violenze: credo che sia criminale l’idea stessa di istituire simili istituzioni, perché è criminale che qualcuno decida della libertà di un altro. Se ci si limita al manicomio, allora ogni dibattito viene chiuso dalla risposta che diede una paziente di Perugia intervistata sulla legge 180. Disse: ma perché ci avete chiuso i manicomi, stavamo così bene, mangiavamo cacavamo e pisciavamo come matti. Il manicomio riduce un adulto alla dimensione di un bambino col pannolino. Ed è ovvio che qualcuno ci stia bene, e non voglia crescere».
La pecora nera è la storia di un’Italia non cresciuta, rinchiusa nel mito dei «favolosi anni Sessanta». È un film su di noi, anche se crediamo di non essere matti.

l’Unità 3.9.10
Maya Sansa «Sono catene anche gli psicofarmaci»
di Gabriella Gallozzi

Momento d’oro per l’attrice amata da molti cineasti italiani da D’Amelio a Celestini. E per Miller ha fatto l’«indiana»...

Con i nomi «pesanti» del nostro cinema ha già lavorato. Bellocchio, Mazzacurati, Giordana, Diritti. L’ultimo, Gianni Amelio, che le ha fatto indossare i panni della mamma di Camus ne Il primo uomo, di prossima uscita. E, ancora, un esordiente nel cinema, ma già di «peso»” non solo in teatro come Ascanio Celestini. Maya Sansa è qui al Lido, infatti, tra gli interpreti di La pecora nera, primo dei quattro italiani in corsa per il Leone d’oro. Per lei il ruolo di Marinella, la ragazzina che Nicola-Ascanio ha amato fin dalla scuola e che ritrova, da adulto, in quell’altro luogo di follia che è il supermercato. Marinella è lì, sempre bella e gentile, ma sconfitta anche lei dalla vita che l’ha portata a fare la promoter per una marca di caffè. «Quando Ascanio mi ha proposto la parte – dice l’attrice – non mi sono posta tante domande. Anche perché il disagio mentale lo conosco attraverso alcune persone molto care. E per la mia esperienza sono convinta che tutt’ora – anche in Francia – la psichiatria faccia un uso sconsiderato di psicofarmaci». Un modo per «annullare, per zittire l’individuo. Basaglia o non Basaglia quello che si fa di fronte al disturbo mentale è rinchiudere in clinica e poi imbottire di psicofarmaci. In questo modo la violenza è continua».
Maya Sansa si dice certa che «la società dovrebbe aiutare a convivere e non a segregare. Chi sono i sani o i malati? La differenza è tra chi si è integrato e chi no nella società. Quante persone dall’apparenza sana posso essere pericolose e cattive?» In questo senso ritiene La pecora nera un film politico? «Mah, tutto è politico».
E lei che vive a Parigi da sei anni la “politica” italiana continua a seguirla. «L’Italia di Berlusconi è vista dai francesi più o meno come la Francia di Sarko. Anche se nella stessa destra francese c’è chi detesta Berlusconi». Le mancate politiche culturali italiane, poi. Si dice contro i tagli alla cultura, «perché i finanziamenti pubblici sono necessari. Forse la riflessione che va fatta è su chi decide dei finanziamenti. Come vengono dati e a chi, perché non si punta mai sul coraggio, la qualità. E invece si copia il modello americano, col pacchetto tutto pronto. Quando hai un bravo regista non puoi imporgli l’attore. Invece questa è la norma».
Maya Sansa, però, confessa di essere in un momento felice per il suo lavoro. Anzi ha da poco interpretato il «ruolo dei suoi sogni». Ha indossato gli abiti di una nativa americana nell’ultimo film di Claude Miller, Guardate come danza. Una storia contemporanea in cui, dice sorridendo, «ho fatto l’indiana, quello che tutti sognano fin da bambini». E un rammarico? «Non aver potuto accompagnare nelle tante proiezioni ed iniziative L’uomo che verrà, di Giorgio Diritti, per motivi di lavoro». Il film sulla strage di Marzabotto che, vale la pena ricordare, lo scorso festival di Venezia non ha voluto in concorso.