lunedì 6 settembre 2010

l’Unità 6.9.10
Il segretario del Pd «La maggioranza è arrivata al capolinea. Non abbiamo mesi da perdere»
RosyBindi: «Serve una destra europea». Fassino: «Berlusconi venga in Parlamento»
Bersani: «Confermata la crisi Ora basta col gioco del cerino»
La maggioranza è arrivata al capolinea. Lo ha detto Bersani, dopo aver ascoltato Gianfranco Fini a Mirabello. Per Rosy Bindi il discorso dell’ex An è coerente con la costruzione di una destra moderna.
di Maria Zegarelli

La maggioranza è arrivata al capolinea. Ne è convinto Pier Luigi Bersani, dopo aver ascoltato il lungo discorso di Gianfranco Fini a Mirabello. A questo nuovo patto di legislatura, dice il segretario Pd, «non ci crede neanche lui», perché la sostanza di tutto è che «Fini ha dichiarato la fine del Pdl certificando la crisi politica del centrodestra. In questi giorni assisteremo al gioco del cerino, ma con oggi la crisi politica è conclamata». Se i due cofondatori del partito imploso si passano di mano, appunto, il cerino acceso, sfidandosi l'un l'altro ad assumersi la responsabilità di conclamare la crisi di governo davanti al parlamento, è evidente che ormai siamo di fronte «ad un assurdo tentativo di galleggiamento, ma non abbiamo mesi da perdere sennò va a fondo il Paese», un Paese che «non può subire traccheggiamenti». Dunque bisogna fare un passo avanti e guardare al «dopo» e in questo senso, secondo il segretario, l'ex leader di An, attuale leader di Fli, può essere «un interlocutore per le regole del gioco: ha detto delle cose che interessano il nuovo Ulivo, ad esempio, sulla legge elettorale che va cambiata». Bersani rilancia di fatto la fase di transizione che dovrebbe traghettare il Paese verso nuove elezioni ma non con questa legge elettorale e dopo quello che ha detto Fini, trovare la convergenza e i numeri in parlamento per cambiarla, potrebbe essere un obiettivo difficile sì ma non impossibile.
La presidente del Pd, Rosy Bindi, trova «coerente» il discorso di Fini, «che ha confermato la determinazione a costruire in Italia una destra moderna e europea. Fini con la sua battaglia politica offre un contributo importante al superamento dell’anomalia berlusconiana e a far maturare una seria democrazia bipolare, nel solco della nostra cultura costituzionale». Una destra differente e distinta, aggiunge, dal Pd, su «cui competere per il governo del paese», ma che non mette in discussione la Costituzione, come invece fa il premier.
Piero Fassino invita Berlusconi a prendere atto della fine non solo del Pdl ma della stessa maggioranza davanti alle Camere. «Un discorso chiaro ed esplicito quello di Fini dice che certifica il dissolvimento della maggioranza di governo.
Quello che è certo è che dopo questo discorso Berlusconi non può fare finta di niente e cercare di convincere gli italiani che è tutto come prima. Nulla è come prima. Non c'è più il Pdl e dunque non c'è più la maggioranza, Fini ha detto non alle leggi ad personam, ha definito vergognosa questa legge elettorale, il Pdl come una caserma. A questo punto l'unica conseguenza è che Berlusconi venga in Parlamento». Beppe Fioroni si rivolge al Pd: «L’intervento di Fini ci pone di fronte a una maggioranza e a un governo che saranno sempre piu' conflittuali e sempre a maggior rischio di voto anticipato. Per questo il Pd deve trovare la forza di rifondarsi e rilanciare il proprio progetto originario».

l’Unità 6.9.10
«Sergio, datti da fare»
Chiamparino prepara lo sbarco a Roma
Bagno di folla per il sindaco di Torino. Domani in edicola il libro «La sfida», una sorta di manifesto che prepara la candidatura alle primarie del Pd. «Questa maggioranza è finita, prepariamoci»
di M. Ze.

Walter Veltroni lo ha chiamato, «Sergio, mi farebbe piacere presentare il tuo libro». Idem Piero Fassino, con il quale si è incontrato ieri proprio a Torino, alla Festa democratica. Sergio Chiamparino se voleva far discutere c’è riuscito. Martedì uscirà in libreria «La sfida, oltre il Pd per tornare a vincere anche al Nord», scritto con Paolo Griseri ed edito da Einaudi. Analisi amara la sua, il Pd «una somma di gruppi e sottogruppi più o meno accampati a Sant’Andrea Delle Fratte. Quando ci arrivi è come se ci fosse una segnaletica stradale cheti indica i diversi piani e corridoi con i nomi delle correnti e delle loro varie componenti».
Ma quando arriva in Piazza Castello l’attenzione è già puntata avanti, in questa girandola impazzita della politica italiana dove il cofondatore del partito di maggioranza sta dichiarando la morte di quel partito di cui non fa più parte. «Hai sentito Fini? Dobbiamo prepararci, Sergio datti da fare», gli dice un signore che lo avvicina. Ne arriva un altro e un altro ancora, perché l’idea che proprio il loro sindaco possa sbarcare a Roma, be’, «a noi piace e non poco».
Chiamparino risponde che sì, bisogna mettersi al lavoro. Lui è pronto, un ticket con Nichi Vendola, attraverso le primarie, chi vince è il leader, chi arriva secondo fa il vice, proprio come è successo in America, con Obama e Clinton. E chissà che i tempi non si accorcino, dopo il Fini di Mirabello.
«Dai toni che ho sentito ho l’impressione che questa maggioranza di governo è finita dice Chiamparino -. Questo nuovo patto di fine legislatura mi sembra scritto sulla sabbia perché i toni e la durezza non so quanto siano compatibili con la serenità necessaria ad una maggioranza che deve governare il Paese». E allora ecco il ruolo del Pd: mettersi «rapidamente» al lavoro per creare un’alternativa da spendere o «per una campagna elettorale o per un governo di transizione».
I due cerchi di Bersani? «Vanno bene se questo è un modo molto interno per dire che non dobbiamo andare verso la strada dell’Unione e dell’autosufficienza, ma dobbiamo tradurre questo concetto per i mille bar sport dove va la gente comune». Ma prima bisogna uscire dalle logiche autoreferenziali, ripartendo «da chi lavora e non è tutelato, chi sta fuori dal giardino: gli operai, i tecnici, gli imprenditori che vivono esposti alla concorrenza internazionale. Sono loro che combattono tutti i giorni», scrive nel suo libro e ripete qui aggiungendo che deve finire il suo lavoro da sindaco, «poi sono pronto a dare una mano a costruire un dibattito sui contenuti per dare corpo all’alternativa e ad un alleanza».
Ma deve essere il Pd, aggiunge, il perno, «non può essere subalterno né al terzo polo a cui pensa Rutelli», né ad Antonio Di Pietro. «È sempre più difficile costruire una prospettiva di un progetto più ampio se il suo atteggiamento è quello che ha avuto rispetto alle contestazioni dei grillini l’altro giorno qui a Torino. Mi stupisco meno dei grillini, sono nati per quello, mi stupisco di Di Pietro che li difende, ma questo è un suo problema». Chiamparino torna anche su un tema a lui caro, il partito federale, «una forza che le caratteristiche per poter parlare anche al di fuori di se stessa», di uscire dal giardino, appunto, accelerando il processo «di rigenerazione del partito».
Come hanno reagito i big del partito? «Mi hanno chiamato soltanto i miei amici», risponde. Poi, dopo il dibattito sulla sicurezza, se ne va ai Giardini Reali a fare «coccardaggio». Un bagno di folla e di «dai Sergio, non mollare».
I commenti da Roma, invece, sono come al solito complessi. I dalemiani sono critici, anche se, dicono, l’annunciata candidatura del «Chiampa» non sarà un’insidia per la leadership di Bersani, mentre i veltroniani, come Valter Verini lo ritengono un fatto positivo

Repubblica 6.9.10
Il manifesto di Fini per un’altra destra
di Massimo Giannini

Forse è davvero finita un´epoca, per l´anomala destra italiana nata dalle macerie del popolarismo democristiano e forgiata nel fuoco del populismo berlusconiano. Con il Manifesto di Mirabello, Gianfranco Fini varca un confine e politico, ed entra in una terra incognita sulla quale può costruire finalmente un´"altra destra". Compiutamente democratica e liberale, moderata e costituzionale. Nel solco delle grandi famiglie conservatrici europee.
Era enorme l´attesa per questo rientro in campo del presidente della Camera, dopo un agosto trascorso nella trincea di Ansedonia a patire in silenzio l´assalto del "Giornale". Quella di Fini, stavolta, è davvero una svolta radicale. Può ridisegnare geografie e geometrie della politica italiana. E può cambiare il corso della legislatura berlusconiana.
Con un discorso di un´ora e mezzo, degno per toni e per temi di un congresso di fondazione e non certo di un raduno di corrente, Fini ha reciso per sempre le sfibrate e impalpabili radici che ancora lo tenevano unito a Berlusconi. Certo, le vicende personali hanno pesato. La "macchina del fango" messa in moto a Montecarlo dai giornali-fratelli del presidente del Consiglio non può non aver influito sulla reazione durissima messa in scena a Mirabello dal presidente della Camera. Quei "Tg ridotti a fotocopie dei fogli d´ordine del Pdl", quelle "campagne paranoiche e patetiche", quegli "atti di lapidazione islamica" e quegli "atteggiamenti infami rivolti non a me, ma alla mia famiglia": era difficile, se non impossibile, che la rabbia finiana covata in queste settimane ed esplosa ieri dal palco non si traducesse solo in una inesorabile denuncia dell´aggressione subita, ma alla fine sfociasse anche nell´inevitabile rinuncia a proseguire la convivenza politica nel Pdl.
Ma insieme, e oltre alla rottura umana, pesa la rottura politica. Nell´elenco puntiglioso dei motivi che in questi due anni hanno portato al divorzio definitivo tra fondatore e co-fondatore non c´è solo la rivendicazione del diritto al dissenso che dovrebbe costituire l´essenza di un vero "partito liberale di massa". C´è invece la piattaforma identitaria di una destra politica che non è più conciliabile, e forse non lo è mai stata, con quella berlusconiana. Dall´idea malintesa della "riforma della giustizia" fatta nell´interesse di un singolo e del garantismo come "impunità permanente", coltivata da chi al potere si sente forte e crede per ciò di essere "meno uguale" degli altri di fronte alla legge, al disprezzo per le istituzioni e gli organi di garanzia, esercitato da chi usa "il Parlamento come dependance dell´esecutivo". Dalla mancata difesa dei diritti degli "extracomunitari onesti", praticata da chi declina l´immigrazione come pura "guerra ai clandestini", alla mancata difesa dei veri valori dell´Occidente, svenduti per bieca "realpolitik" nella "genuflessione" di fronte a Gheddafi. Nell´aspra requisitoria finiana su ciò che è accaduto nel Pdl in questi mesi, non c´è conflittualità "congiunturale" che non nasconda anche un´evidente incompatibilità culturale.
E questo non vale soltanto per la "cifra" identitaria delle due anime che in questi mesi hanno faticosamente convissuto nel Pdl. Vale anche per l´azione di governo, che per Fini è stata deficitaria sotto tutti i punti di vista. Dai tagli lineari di spesa che hanno generato le "proteste sacrosante" delle forze dell´ordine e dei precari della scuola al ridicolo "ghe pensi mi" col quale si è creduto di riempire il vuoto al ministero dello Sviluppo. Dal federalismo inteso come "favore a Bossi" alle promesse tradite sul taglio delle province, sulle norme anti-corruzione, sugli aiuti alle famiglie. Il presidente della Camera non fa sconti, né al Berlusconi-leader né al Berlusconi-premier. E il dissenso, stavolta, è totale e radicale. Di metodo e di merito. Perché Fini ha finalmente il coraggio di dire quello che era ormai chiaro da almeno sei mesi. Da quando cioè, in quell´incredibile direzione del 22 aprile scorso, andò in onda in diretta su tutte le televisioni lo scontro "fisico" tra i due. E cioè che si sente ormai "altro" da questo Pdl, che il Cavaliere ha ridotto a "contorno del leader", a "coro di plaudenti" o a "popolo di sudditi". Ha fatto regredire a rozzo "partito del predellino", o a versione scadente di "Forza Italia allargata a qualche ex colonnello di An" pronto a servire qualunque generale.
Dunque, quando il leader di Futuro e Libertà dice che "il Pdl è morto il 29 luglio", con quell´atto autoritario di marca "staliniana" con il quale il co-fondatore è stato estromesso, non si limita a chiudere per sempre la breve stagione del Popolo delle Libertà. Fa molto di più. Il suo non è solo l´epitaffio conclusivo di un vecchio ciclo. Ma è anche l´atto fondativo di un nuovo corso. Non c´è ancora l´annuncio ufficiale della nascita del partito, che deve dare forma e sostanza a quello che per ora continua ad essere solo un gruppo parlamentare. Ma c´è già il manifesto di principi e di valori sul quale il nuovo partito sarà edificato. Un partito rigorosamente di destra, questo è chiaro. Pronto a rivendicare il suo Pantheon e a risalire all´Msi di Giorgio Almirante, che Fini non esita a celebrare. Pronto a dimenticare in fretta le tappe di uno "sdoganamento" repubblicano che avremmo voluto assai più sofferto, assai più autocritico. Ma un partito di destra pronto a saldare definitivamente il conto con Berlusconi, e a saldare direttamente la "rivolta di Mirabello" del 2010 con la "svolta di Fiuggi" del 1995. Come se il Cavaliere - in questi quindici anni di "traghettamento" dell´ex Movimento sociale, dalle "fogne" di un tempo alle alte cariche istituzionali di oggi - fosse stato una parentesi. Più o meno felice. Ma ormai chiusa per sempre.
Il presidente della Camera ha cercato in tutti i modi di non vestire i panni del Bruto, capace di accoltellare Cesare in nome di chissà quale congiura di Palazzo. "Né ribaltoni, né cambi di campo", quindi. Ed è stato attento anche a non offrire alibi al Cavaliere, né sulla fine anticipata della legislatura (che sarebbe "un fallimento per tutti noi") né sulla minaccia di elezioni anticipate (che è solo "avventurismo politico"). Non solo: il presidente della Camera ha offerto al premier un "patto di legislatura", per far fare a questo governo tutto quello che ha promesso in campagna elettorale e non è stato capace di garantire ai cittadini. Certo, in un quadro e in un equilibrio politico diverso, dove la maggioranza non poggia più su "un tavolo a due gambe di Berlusconi e Bossi", dove i parlamentari non sono in vendita "come i clienti della Standa" e dove le grandi riforme "in nome del bene comune si fanno anche coinvolgendo l´opposizione". Persino sulla giustizia il leader di F&L si è spinto a dare una sponda estrema al Cavaliere, non certo sul processo breve, ma su un provvedimento che ricalchi il Lodo Alfano e il legittimo impedimento, e gli garantisca "il diritto di governare" senza fare strage dei processi che interessano migliaia e migliaia di cittadini in attesa di giudizio.
Ma è chiaro che, al punto in cui siamo, queste offerte appaiono inutili. Improponibili per chi le formula, e irricevibili per chi le dovrebbe accogliere. Se è vero, come dice Fini, che il Pdl non c´è più, e che "non si rientra in una cosa che non c´è più", allora è ancora più vero che non c´è più neanche la maggioranza che ha vinto le elezioni il 13 aprile di due anni fa. Ancora una volta, la previsione più sensata l´aveva fatta quell´animale politico che risponde al nome di Bossi: "Fini romperà, e allora vedo grossi problemi per il governo: il Cavaliere sarà un premier dimezzato…". Il Senatur è stato fin troppo ottimista. Più che dimezzato, stavolta il presidente del Consiglio sembra finito. Ha di fronte a se soltanto una strada: aprire la crisi, e azzardare la richiesta di elezioni anticipate, che non dipendono da lui ma dalle regole della Costituzione e dalle prerogative del Capo dello Stato. E´ un rischio mortale. Il "pifferaio di Arcore" ha smesso di ammaliare i finiani. E forse comincia a incantare un po´ meno anche gli italiani.
m.gianninirepubblica.it

Corriere della Sera 6.9.10
Bersani: «La crisi è certificata Bene l’apertura sulle regole»
di R. P.

Di Pietro: Fini dovrebbe scegliere ma fa il furbo

MILANO — Per una volta concordano tutti: con il suo discorso di Mirabello, Gianfranco Fini ha ratificato la fine della maggioranza e sarebbe pertanto ora che il premier Silvio Berlusconi riferisse in Parlamento.
Ad un patto di legislatura «non ci crede neanche lui». È questa l’interpretazione del pensiero del presidente della Camera tracciata dal segretario del Pd Pier Luigi Bersani: «Fini ha dichiarato la fine del Popolo della libertà certificando la crisi politica del centrodestra. In questi giorni assisteremo al gioco del cerino, ma con oggi la crisi politica è conclamata». Quanto alla possibilità che si corra verso le elezioni anticipate, spiega Bersani, «vedo un assurdo tentativo di galleggiamento, ma non abbiamo mesi da perdere altrimenti va a fondo il Paese». Uno spiraglio, però, i riformisti lo individuano nelle parole che l’ex leader di An ha dedicato al sistema di voto: «Il presidente della Camera — sostiene il segretario democratico — può essere un interlocutore per le regole del gioco: ha detto delle cose che interessano il nuovo Ulivo, ad esempio, sulla legge elettorale che va cambiata». Si riapre così la strada a quell’ipotesi di alleanza allargata per «la salvaguardia della democrazia» che il Pd aveva già avanzato nei giorni scorsi: «Quella elettorale è una riforma che non possiamo fare da soli ma con chi è disponibile a restituire la scelta agli elettori».
Francesco Rutelli giudica «largamente condivisibile nel merito» l’intervento dal palco di Mirabello anche se, aggiunge, «Fini resta nella maggioranza e noi all’opposizione. Ma certamente oggi il nuovo polo è piu vicino». L’analisi del leader dell’Alleanza per l’Italia investe la fine del «bipolarismo come lo abbiamo conosciuto in questi anni. E non mi riferisco al ’93, quando io e Fini ci siamo contrapposti a Roma, ma ancora a due anni fa. Nell’attuale coalizione di centrodestra sono ora tre i soggetti — Pdl, Fli e Lega — che definiranno la politica della maggioranza». Chi invece non fa sconti è il leader dell’Italia dei valori Antonio Di Pietro: «Fini non può giocare a fare il furbo con gli italiani, né non può pensare di essere uno e bino. Deve fare una scelta: o sta all’opposizione o sta al governo. Ha appena criticato la fallimentare politica di questo esecutivo, proprio come fa tutti i giorni l’Idv. Ma con coerenza, noi chiediamo che il governo vada a casa al più presto mentre lui dopo aver denunciato il conflitto d’interessi e il menefreghismo di Berlusconi, il ricatto e il tentativo di comprare i parlamentari, il disastro economico e sociale procurato al Paese, comunica agli italiani che sosterrà il governo, appoggiando i cinque punti che il Cavaliere vuole portare all’ordine del giorno. Si decida: o manda a casa quello che lui stesso ha definito un despota oppure, se rimane in questo esecutivo, è complice anche lui».
Infine, la sinistra radicale invoca subito il ricorso alle urne: «Il Pdl non esiste più — rileva Claudio Fava di Sinistra e libertà —. Fini resta a destra com’era comprensibile, l’attuale Parlamento è sempre più ingovernabile. Il voto adesso sarebbe un atto di verità e di decenza politica».


l’Unità 6.9.10
L’idea Maroni «Espulsioni di comunitari non in regola»
di Salvatore Maria Righi

Oggi a Parigi il ministro dell’Interno avanzerà la proposta in un vertice con colleghi europei
Per il capo del Viminale va cacciato chi non rispetta la direttiva Ue. Milano, un caso Moschea

Pochi giorni dopo il caso Sarkozy-rom, il ministro Maroni a Parigi chiederà ai colleghi europei «gli strumenti» per espellere dall’Italia i cittadini comunitari senza dimora, reddito o autosufficienza.

Il ministro dell’Interno non costruisce moschee, ha spiegato Roberto Maroni all’arcivescovo Dionigi Tettamanzi che ne ha chiesta una per le migliaia di islamici che vivono a Milano, in nome dell’elementare principio della libertà di culto. Il ministro dell’Interno fa un altro mestiere ed evidentemente la pensa un po’ diversamente dal presule, sul fatto che l’anima non abbia dogane o cancelli. Se fosse per lui, anzi, bisognerebbe tirarne su altri, e non per la fede, ma per tenere alla larga liberi cittadini di questo continente. Il caso Sarkozy-rom gli ha dato l’assist, e stamattina Maroni avrà un palcoscenico perfetto, proprio in Francia, al Seminario ministeriale dedicato all’asilo e alla lotta contro l'immigrazione clandestina. Il capo del Viminale, dalle intenzioni manifestate ieri, vuole andare molto oltre al titolo dell’appuntamento. Chiedendo ai suoi colleghi degli altri paesi di poter espellere dall’Italia non clandestini, criminali o persone politicamente indesiderate, ma cittadini comunitari. Cioè persone che appartengono legalmente e idealmente al continente che ha abbattuto le frontiere e azzerato le nazionalità. Ha promesso più durezza di quella usata dall’Eliseo contro il gruppo di rom, ma era difficile immaginare dove vuole arrivare il capo del Viminale. Secondo Maroni, basta applicare la direttiva comunitaria del 2004. Il ministro dell’Interno vuole «gli strumenti per applicare», alla lettera, quella normativa che richiede un reddito, una dimora e un’autosufficienza per chi vivere in uno degli stati dell’Unione europea. Li chiederà agli altri ministri seduti al tavolo dell’Assemblea nazionale, sotto la torre Eiffel. Precisando, come ha già fatto a suo tempo, che si parla proprio di una cacciata, non di «rimpatri assistiti e volontari». Ci aveva già provato, Maroni, chiedendo a Bruxelles le mani libere per metterle addosso, viene da pensare, a cittadini dell’area Ue. Il commissario Jacques Barrot gli aveva detto no, perché l’Europa in questi casi ammette al massimo un invito ad uscire dal paese, non certo i calci nel sedere che forse ha in mente il governo italiano e che suona come una bestemmia per la libertà di circolazione su cui è stata costruita la Ue. «Oggi se le condizioni non ci sono, non possiamo fare altro che dire: te ne devi andare» ha ricordato Maroni da Cernobbio.
SVOLTA DA ROMA
Troppo poco, per Maroni, che ribadisce la premessa: «Abbiamo dei cittadini europei che in base alla direttiva Ue non possono risiedere stabilmente in un Paese». Vista l’aria che tira e il polverone Sarkozy, il ministro precisa che non c’entrano i rom e che lui non è affatto malvagio, come magari lo disegna qualcuno. «Non è che il ministro dell'Interno è cattivo, ma ci sono delle regole europee da rispettare e se questo non accade gli Stati sono impotenti. Chiederemo di poter espellere i cittadini comunitari che non rispettano queste regole per poterle applicare veramente». Uno spettro si aggira per l’Europa, insomma, il torpore di Bruxelles sulle leggi. Meno male che c’è Maroni.

l’Unità 6.9.10
L’«amico» Gheddafi riapre la caccia all’eritreo
Ventuno giovani migranti rinchiusi nei lager libici. Due sono invalidi Dimenticati i 205 arrestati a luglio. Qualcuno ha ritentato la fuga in Italia
di Umberto De Giovannangeli

I riflettori si sono spenti. Gli indignati dell’ultima ora sono tornati in letargo. Ma in Libia le retate sono riprese. I lager a riempirsi. Ai «dimenticati di Brak» si aggiungono i deportati di Kuifia. Storie agghiaccianti. Che chiamano in causa, ancora una volta, le responsabilità di un Governo, quello italiano, che dopo aver celebrato gli show romani del Colonnello, continua a ignorare gli appelli disperati che giungono dalla Libia. Dell’odissea degli oltre 200 eritrei segregati per giorni e giorni nel lager di Brak, nel deserto libico, l’Unità ne ha dato conto a più riprese, grazie, soprattutto, al contributo di un sacerdote indomito: don Mussie Zerai, eritreo, responsabile dell’ong Habesha, un’associazione che si occupa di accoglienza dei migranti africani. Don Zerai ci aggiorna sulla vicenda dei 205 «liberati» da Brak: «Alcuni di loro rivela a l’Unità hanno cercato di raggiungere l’Italia. Ma non ce l’hanno fatta». Altri continuano a chiedere di avere un incontro con qualche funzionario dell’Ambasciata italiana a Tripoli, in modo da poter illustrare la loro storia e veder riconosciuto il diritto all’asilo. Ma anche questa richiesta è caduta nel vuoto.
Per il Governo italiano la «pratica è chiusa», Definitivamente. Con affari miliardari in fase di definizione, guai a innervosire l’«amico Muammar» tirando fuori il dossier sui diritti umani. Meglio chiudere gli occhi. E occuparsi d’altro. E poco importa che le retate sono riprese. Che è ripresa la caccia all’eritreo. A Tripoli, a Bengasi...Quella raccontata da Mussie Zerai, sulla base di contatti diretti con alcune delle vittime, è la storia di sedici ragazzi e cinque ragazze di nazionalità eritrea, tutti profughi, prelevati dalle autorità libiche dalle loro abitazioni nella
città di Bengasi: «Li sono andati a cercare sottolinea Zerai andavano a colpo sicuro...». È la sera del 3 settembre. L’incubo ha inizio. E nelle testimonianze raccolte dal fondatore di Habesha, si «arricchisce» di particolari agghiaccianti. «I ragazzi racconta don Zerai mi hanno detto di essere stati messi assieme a persone che hanno commesso reati quali omicidi, stupri, spaccio di droga...Trattati alla stregua di criminali comuni». Questo avviene nel centro di detenzione di Algedya, mentre le cinque ragazze sono state condotte nel carcere di Kuifia, nei pressi di Bengasi. «La situazione più grave prosegue il suo racconto Mussie Zerai riguarda due ragazzi: uno che ha una gamba amputata e ha bisogno di cure continue. Invoca assistenza, che gli viene negata».
L’altra emergenza riguarda un ragazzo con problemi mentali. «Da quanto mi hanno riferito dice il sacerdote eritreo questo ragazzo continua a sbattere la testa contro il muro. È in una condizione di totale confusione. Avrebbe bisogno di cure specifiche, andrebbe tolto da quella cella...». Così non è. Quel ragazzo con disturbi mentali e l’altro con una gamba amputata, e gli altri quattordici loro compagni di sventura, per le autorità libiche sono «migranti illegali» e dunque da trattare alla stregua di criminali.
Non basta. Ad allarmarli ulteriormente è stata una visita indesiderata: quella di un rappresentante dell’Ambasciata eritrea a Tripoli, il quale ha comunicato loro che presto, molto presto, a causa della mancanza di un passaporto valido saranno deportati nel Paese d’origine. Quel Paese da dove erano fuggiti. «Al che i ragazzi hanno chiamato per chiedere aiuto», spiega Mussie Zerai. «Ho parlato con gli esponenti di diverse organizzazioni umanitarie e con Laura Boldrini (portavoce in Italia dell’Unhcr, ndr)afferma il sacerdote -. A tutti loro ho chiesto di attivarsi non solo per impedire la ventilata deportazione di queste persone, ma anche perché si arrivi a una soluzione globale». Una speranza che si scontra con la colpevole inerzia della diplomazia italiana. E del suo responsabile: Franco Frattini. «Tutto questo accade in conseguenza dell’Accordo Italia-Libia, secondo il quale il leader Gheddafi si impegna a fermare nel suo Paese i profughi richiedenti asilo, impedendo loro di beneficiare della Convenzione di Ginevra e di godere dunque dei propri diritti fondamentali», sottolineano Roberto Malini, Matteo Pegoraro e Dario Picciau, co-presidenti dell’organizzazione per i diritti umani EveryOne. «Chiediamo pertanto aggiungono al Governo italiano, in particolare al ministro Frattini, di attivarsi al più presto per scongiurare un’imminente deportazione che potrebbe mettere in serio pericolo di vita i profughi...».
«La soluzione per noi insiste il responsabile di Habesha continua a rimanere quella di avviare un programma di reinsediamento. Per tutti i rifugiati e i richiedenti asilo che sono in Libia, l’unica soluzione vera è di essere reinsediati in un Paese che garantisce i loro diritti. È quello che continuano a chiedere: vogliamo essere accolti in un Paese democratico che rispetta i nostri diritti di richiedenti asilo e di rifugiati». Tra questi Paesi c’è l’Italia. Un Paese il cui ministro dell’Interno non perde occasione per esaltare i successi (leggi respingimenti forzati) ottenuti con l’Accordo di Bengasi. Un Paese che ha assistito tra l’incredulo, l’indignato e il compiaciuto ai recenti show del Colonnello «convertitore». Un Paese che nel nome degli affari miliardari con Tripoli è venuto meno al rispetto di Convenzioni ratificate e ai più elementari principi di umanità.
Il forziere del Rais. È questo che fa gola. Secondo alcuni, ricorda il corrispondente di El Pais a Roma, Miguel Mora Gheddafi dispone di una liquidità di circa 65 miliardi di dollari, e punta a nuove partecipazioni in Eni, Impregilo, Finmeccanica, Terna e Generali. Oltre ad essere, con il 7% del pacchetto azionario, il primo azionista di Unicredit, il più grande gruppo bancario italiano, che a sua volta controlla Telecom, Rcs e Assicurazioni generali.

l’Unità 6.9.10
La violenza contro le donne
di Anna Costanza Baldry, risponde Luigi Cancrini

Da donna e da cittadina, mi domando e domando perché gli uomini si accaniscono così contro di noi. Da psicologa e criminologa, vorrei tanto che almeno uno di questi uomini violenti riconoscesse di avere un problema e si facesse aiutare a capire che la sua violenza è il tentativo di gestire un suo diritto che non c’è.
RISPOSTA La violenza dell’uomo sulla donna nella coppia moderna, è stata spiegata in molti modi. Per ciò che riguarda l’Italia e la Spagna, molto si è insistito sulla brusca mutazione antropologica che ha restituito pari opportunità ai due sessi in tutte le società occidentali: cogliendo impreparati troppi uomini che hanno difficoltà a trasformarsi da mariti in compagni. Nel rapporto con i figli, d’altra parte, quella che è difficile accettare per la donna è la parità rivendicata con fatica e spesso inutilmente dagli uomini: un elemento di conflitto alla base di molti dei delitti più gravi. Difficile, da una parte e dall’altra, aiutare le persone a guardarsi dentro, a riconoscere ed a controllare la irrazionalità dei comportamenti più aggressivi in una situazione in cui il divorzio è un’impresa ed in cui la partecipazione emotiva degli avvocati (e, a volte, dei giudici) tende ad esacerbare la rabbia e l’aggressività di chi, vivendo comunque un fallimento e un lutto, difensivamente ne attribuisce la colpa all’altro. Rendendo impossibile, spesso, il lavoro potenzialmente utile a tutti (e soprattutto ai figli), dei terapeuti: personali e di coppia.

Repubblica 6.9.10
Obama taglia le tasse sulla ricerca
Sgravi da 100 miliardi di dollari alle aziende che investono
di Angelo Aquaro

NEW YORK - Barack Obama ci prova e per rilanciare l´economia americana mette sul piatto il suo piano di tagli alle tasse: un programma di sgravi alle aziende che si impegnano a fare ricerca. Costo? Cento miliardi di dollari. E un braccio di ferro con l´opposizione che sarà inevitabile.
Il meccanismo sarebbe un boccone che in teoria anche i repubblicani dovrebbero imboccare. Gli sgravi sulla ricerca che Obama chiederà al Congresso di approvare sono un ritornello bipartisan, e provvedimenti a tempo sono stati rilanciati dalle amministrazioni di ogni colore negli ultimi trent´anni. Perfino uno studio della Camera di Commercio - l´associazione che corrisponde alla nostra Confidustria e che ha dichiarato guerra alla Casa Bianca - sostiene che il credito sulla ricerca permette la creazione di numerosi «posti di lavoro americani» e ben pagati: perché almeno il 70% dei benefici vanno ai salari di chi fa ricerca e perché gli sgravi sono concessi solo a chi fa ricerca negli Usa.
Ma il clima di tutti contro tutti alla vigilia del voto di novembre rende problematica qualsiasi previsione sul provvedimento. Il presidente è nel mirino per la decisione di non rinnovare i tagli fiscali regalati all´America da Bush che scadranno alla fine dell´anno. Barack ha già annunciato che conserverà soltanto i tagli per il ceto medio: i nuclei familiari che non superano i 250mila dollari all´anno. John McCain dice in tv che questa è "guerriglia di classe", ma il presidente sostiene che gli Usa non possono più permettersi quel regalo ai ricchi che rischia di dissestare ancora di più le casse dello Stato disperatamente bisognose di cash con un deficit pubblico che è ormai un decimo del Pil. I critici dicono invece che i tagli sono necessari per rilanciare l´economia che cresce troppo lentamente: la domanda è inchiodata al palo da una disoccupazione salita in agosto al 9,6%. E i sondaggi minacciano: sei americani su 4 sono delusi da come Obama gestisce l´economia.
Obama aveva già annunciato venerdì che dopo il lungo ponte del Labour Day - oggi l´America si ferma per la festa del lavoro di qui - avrebbe rivelato i suoi piani. E´ stato il New York Times ad anticipare il progetto degli sgravi sulla ricerca. L´Amministrazione pensa anche all´estensione di altri sgravi minori per le medie imprese e a un rilancio delle infrastrutture per favorire l´occupazione. Ma se gli sgravi sulla ricerca sono così popolari perché in tutti questi anni non sono stati istituzionalizzati? Il problema è appunto il loro costo. Ma i tecnici del presidente avrebbero già identificato il bacino dove andare a pescare i 100 miliardi: l´Amministrazione tasserà i guadagni all´estero delle sue multinazionali e colpirà anche le grandi compagnie del petrolio e del gas. Che non godono certo di grande popolarità dopo la macchia nera nel Golfo e che sono già insorte: ieri gli spot miliardari a difesa dell´industria che "crea energia per l´America" hanno inondato le tv.

Repubblica 6.9.10
Francia, oggi la scuola in piazza contro i tagli voluti da Sarkozy
E domani sciopero generale contro la riforma delle pensioni
di A. G.

Il ministro del Lavoro Woerth deve affrontare anche lo scandalo Bettencourt

PARIGI – Una protesta continua. La Francia riscopre la sua voglia di contestazione, in una settimana ad alta tensione per il presidente Nicolas Sarkozy. Le polemiche per il corteo di sabato contro il razzismo non sono ancora terminate, che è già tempo di nuove mobilitazioni. Domani infatti i sindacati francesi hanno indetto lo sciopero nazionale contro la riforma delle pensioni, in discussione al parlamento. Una tappa decisiva per il capo dello Stato. «Non lascerò l´Eliseo – ha ribadito Sarkozy - senza aver prima fatto approvare questa riforma». Già oggi gli insegnanti delle primarie scioperano, mentre le organizzazioni sindacali, spalleggiate dalla sinistra, promettono di portare in piazza due milioni di persone.
Secondo un sondaggio dell´Ifop, sette francesi su dieci sostengono la contestazione di domani, a soli tre giorni da quella contro la cacciata dei rom e la linea dura sull´immigrazione. Sabato, centomila persone hanno sfilato a Parigi e in altre città. Il governo minimizza. «I francesi non hanno creduto ai falsi slogan» dice Eric Besson, ministro dell´Immigrazione, che però ha dovuto spostare la data del suo matrimonio proprio a causa delle proteste. Besson doveva sposarsi il 16 settembre con la sua giovane fidanzata tunisina. Ma un appello su Facebook a manifestare durante la cerimonia lo ha costretto a rinviare. Oggi Besson ha convocato un vertice europeo a Parigi, al quale parteciperà anche il ministro Roberto Maroni. L´obiettivo di alcuni paesi dell´Ue, tra cui Francia e Italia, è riuscire ad applicare in modo più restrittivo il principio di libera circolazione dei cittadini comunitari.
Sull´altro fronte aperto, la riforma delle pensioni, toccherà invece a Eric Woerth andare avanti. Il ministro del Lavoro, al centro dello scandalo Bettencourt, deve difendere in parlamento la nuova legge. La sinistra ha già chiesto le sue dimissioni, i sindacati lo considerano un interlocutore "delegittimato", mentre il 60% dei francesi pensa che non dovrebbe più occuparsi di questa riforma. Il governo vuole innalzare l´età pensionabile da 60 anni a 62 anni entro il 2018. In testa al corteo di domani, i sindacati metteranno le foto della miliardaria Liliane Bettencourt, che ha elargito doni e finanziamenti alla destra. «Sarkozy non è il presidente dei ricchi» commenta il segretario generale dell´Eliseo, annunciando alcune concessioni, per esempio nel caso di lavori usuranti. «Mi aspetto proteste» aveva detto Sarkozy, approvando la riforma. «Ma se dobbiamo ritirare un progetto utile per il paese ogni volta che c´è una manifestazione, non faremo mai niente».

Repubblica 6.9.10
La capienza regolamentare è di 44.000 persone. L'allarme del Sappe: "Alfano ha l'obbligo di trovare una soluzione"
Emergenza carceri, quasi 70.000 i reclusi superato il limite in tutti i penitenziari
di E. V.

ROMA - Carceri, è allarme in tutte le regioni. Con 68.345 detenuti presenti il 31 agosto scorso nei 207 penitenziari italiani «si è ampiamente superata la capienza ‘regolamentare´, quella per cui si è stimato che un istituto possa funzionare correttamente seguendo i dettami della Costituzione». Gli spazi sono esauriti. A denunciarlo è Donato Capece, segretario generale del sindacato penitenziario Sappe.
Le celle fatiscenti con quattro detenuti in nove metri quadrati non bastano più: il Consiglio d´Europa ha già richiamato all´ordine l´Italia ma la situazione anziché migliorare si è fatta agghiacciante. Che il rischio di collasso stava per trasformarsi in emergenza nazionale, lo aveva ammesso lo stesso ministro della Giustizia, Angelino Alfano, annunciando in gennaio un piano edilizio per la costruzione di nuovi istituti di pena. La capienza regolamentare di 44 mila detenuti era stata sforata da tempo ma è quest´anno che si è superata la quota di tollerabilità massima. Ammassando i carcerati si ricavavano poco più di 66.550 posti. In marzo erano oltre 67 mila. Adesso in cella non si respira più.
«E´ solo grazie alla professionalità e al senso dello Stato che hanno le migliaia di poliziotti penitenziari, carenti in organico di più di seimila unità, che si riescono a contenere i disagi e le proteste delle quasi 69 mila persone detenute», prosegue Capece, che torna a sollecitare misure urgenti. La previsione del piano Alfano è di investire 1,4 miliardi per 24 nuovi istituti da realizzare con procedure d´emergenza, come quelle piuttosto discusse del G8. Ma si è partiti con 700 milioni e nuovi padiglioni per espandere le strutture già esistenti. La promessa è di 21 mila posti in circa sei anni. Tuttavia basta visitare qualunque galera per capire che il problema non sono solo le strutture. Il sistema penitenziario italiano non regge l´ondata di ingressi, quasi metà dei detenuti è in attesa di giudizio.
«Alfano e i parlamentari che hanno visitato le celle a Ferragosto - scrive il Sappe in una nota - hanno l´obbligo politico e morale di trovare al più presto una soluzione, magari ascoltando anche le proposte di chi, come la polizia penitenziaria, in carcere ci lavora 24 ore al giorno tutto l´anno. Le passerelle non ci interessano».
(e.v.)

Repubblica 6.9.10
Come salvarsi dal populismo nel mondo senza confini
di Ulrich Beck

Il successo del populismo di destra in Europa (e in altre parti del mondo) va inteso come reazione all´assenza di qualsiasi prospettiva in un mondo le cui frontiere e i cui fondamenti sono venuti meno. L´incapacità delle istituzioni e delle élites dominanti di percepire questa nuova realtà sociale e di trarne profitto dipende dalla funzione originaria e dalla storia di queste istituzioni. Esse furono create in un mondo nel quale erano ancora pienamente valide le idee di piena occupazione, di predominio della politica nazional-statale sull´economia nazionale, di frontiere funzionanti, di chiare sovranità e identità territoriali. Lo si può mostrare in relazione a quasi tutti i temi scottanti del nostro tempo. Chi, di fronte alla disoccupazione di massa e all´occupazione precaria in rapida diffusione promuove l´ideale della piena occupazione, offende l´umanità. Chi, nei Paesi in cui il tasso di natalità è sceso sotto la soglia fatidica di 1,3 figli per ogni donna, afferma che le pensioni sono al sicuro, offende l´umanità. Chi, di fronte alla drastica riduzione dei proventi dalle imposte sui profitti vanta i meriti della globalizzazione, che consente ai grandi gruppi economici transnazionali di mettere gli Stati gli uni contro gli altri, offende l´umanità. Chi, nell´era delle catastrofi ambientali e degli avvelenamenti alimentari in atto o incombenti proclama che la tecnica e l´industria risolveranno i problemi da esse stesse prodotti, offende l´umanità.

Per gentile concessione dell´editore anticipiamo parte della premessa dell´ultimo libro di Ulrich Beck "Potere e contropotere nell´età globale" in uscita per Laterza

Noi europei facciamo come se esistessero ancora la Germania, l´Italia, i Paesi Bassi, il Portogallo, ecc. E invece non ci sono più da un pezzo, poiché quelle riserve di potere che sono gli Stati nazionali chiusi in se stessi e le unità nazionali delimitate l´una rispetto all´altra sono diventate irreali al più tardi con l´introduzione dell´euro. Nella misura in cui c´è l´Europa non esistono più la Germania, la Francia, l´Italia, ecc. (anche se questi Paesi continuano a governare nelle teste delle persone e nei libri illustrati degli scrittori di storia), poiché non ci sono più le frontiere, le competenze e gli spazi di esperienza esclusivi su cui si fondava questo mondo di Stati nazionali. Ma se tutto ciò è passato, se il nostro pensiero, le nostre azioni e le nostre ricerche si muovono all´interno di categorie-zombie, quale mondo si sta formando o si è già formato?
(...) Per comprendere il terremoto politico provocato e sfruttato dal populismo di destra occorre mettere in luce le fonti della sua potenza. Esse risiedono nel fatto che qui i temi e i motivi cari al nuovo controilluminismo da cui è connotata la modernità europea – la lotta contro il declino e la decadenza, la rinascita dei vecchi valori e delle vecchie comunità – vengono applicati ai tabù attuali della modernizzazione radicalizzata. In tutto ciò è irritante questa massima del «sia ... sia», che rimescola i fronti del politico. Il cosiddetto «populismo di destra» non è affatto un populismo solo di destra, ma un populismo sia di destra che di sinistra. Esso può essere particolarmente potente e inquietante perché questo tipo di politica lega, assorbe, combina, sintetizza ciò che sembra escludersi: obiettivi di destra con metodi di sinistra, la rottura emancipatrice dei tabù messa in scena dai mass-media, che sprigiona il potenziale tossico del risentimento antimoderno. Ciò si riflette anche nella reazione pubblica. Si denuncia la demagogia dei populisti come un pericolo per la democrazia stabilita – ma, perlomeno in cuor proprio, la si saluta come una terapia d´urto necessaria a scuotere la democrazia dal suo letargo. Pertanto, la potenza dei populisti è direttamente proporzionale alla mancanza di risposte della politica stabilita alle domande di un mondo radicalmente mutato.
Tutto ciò può essere osservato come sotto una lente d´ingrandimento se si prendono in considerazione (come fa questo libro) le conseguenze della globalizzazione (...).
In questo libro la globalizzazione è intesa e sviluppata – riprendendo questi approcci ma nello stesso tempo facendo un passo al di là di essi – come trasformazione storica. Da questa prospettiva emerge che, nello spazio di potere dai contorni ancora indefiniti di una politica interna mondiale, la distinzione tra il nazionale e l´internazionale su cui si era basata la nostra visione del mondo è cancellata (...).
Se ciò che è nazionale non è più nazionale e ciò che è internazionale non è più internazionale, allora il realismo politico prigioniero dell´ottica nazionale è sbagliato. Al suo posto – è questo l´argomento di questo libro – subentra un realismo politico di cui occorre comprendere la logica di potere e che assegna un posto centrale al ruolo decisivo dell´economia mondiale e dei suoi attori nella collaborazione e nel contrasto tra gli Stati, ma anche alle strategie dei movimenti transnazionali della società civile, ivi compresi i movimenti anticivili, ossia le reti terroristiche, che mobilitano contro gli Stati la violenza privatizzata per perseguire i propri obiettivi politici.
Un realismo, ovvero un machiavellismo, cosmopolitico risponde in particolare a due domande. Primo: come e attraverso quali strategie gli attori dell´economia mondiale impongono agli Stati le leggi della loro azione? Secondo: come possono a loro volta gli Stati riconquistare un meta-potere statuale-politico di fronte agli attori dell´economia mondiale per imporre al capitale mondiale un regime cosmopolitico che includa anche la libertà politica, la giustizia globale, la sicurezza sociale e la conservazione dell´ambiente?
L´importanza e la pertinenza di questa nuova politica economica mondiale derivano per un verso dal fatto che essa in quanto teoria del potere è sviluppata nello spazio strategico dell´economia transnazionale e, per un altro, dal fatto che nello stesso tempo essa risponde alla domanda che allora si pone: come può il mondo della politica organizzata per Stati (nei suoi concetti fondamentali, nel suo spazio di potere strategico, nelle sue condizioni di contorno istituzionali) aprirsi alle sfide dell´economia mondiale ma anche ai problemi derivati dalla modernizzazione?
(...) Lo Stato nazionale non è più il creatore di un quadro di riferimento che include in sé tutti gli altri quadri di riferimento e che rende possibili le risposte politiche. Gli attacchi terroristici dell´11 settembre 2001 insegnano, non ultimo, che la potenza non è sinonimo di sicurezza. In un mondo radicalmente diviso la sicurezza potrà esserci solo quando ognuno sarà disposto a – e capace di – vedere il mondo della modernità scatenata con gli occhi dell´altro, dell´alterità, cioè quando l´evoluzione culturale risveglierà in ciascuno questa apertura e quest´ultima sarà diventata quotidiana .
(...) Se si dischiude intellettualmente e politicamente lo spazio di potere mondiale al di là delle vecchie categorie di «nazionale» e «internazionale», si aprono (accanto alle spiegazioni della reazione populistica) prospettive di un rinnovamento cosmopolitico della politica e dello Stato.

Repubblica 6.9.10
La politica della paura
di Anais Ginori

Il catalogo aumenta spaventosamente. Al mercato della paura, l´offerta non manca mai. Nuovi virus, animali impazziti, attentatori sempre più bizzarri. Aziende che non riescono a fermare i suicidi dei loro dipendenti, borse mondiali che crollano in qualche nanosecondo. Sequestri lampo, terremoti, uragani, maremoti, vulcani che si risvegliano. Micro e macro criminalità, senza capire più la differenza. E noi sempre lì, quasi paralizzati. Si chiama "L´administration de la peur", ovvero come il sentimento più umano e irrazionale che ci sia - la paura - viene ormai provocato e strumentalizzato dalla politica. È il nuovo saggio del filosofo Paul Virilio, già studioso della velocità come fattore di cambiamento dell´umanità. Un tempo, ricorda Virilio, le grandi paure erano riservate alle guerre e alle epidemie. Adesso, in un mondo nel quale sono state abolite le distanze, ogni giorno ha la sua dose quotidiana di terrore. In presa diretta con qualsiasi piccola o grande minaccia. Un "live" perpetuo, sul quale si costruiscono leader e governi. Attaccate le cinture di sicurezza, siamo ormai nella democrazia delle emozioni.

Corriere della Sera 6.9.10
Frustate a Sakineh, «condanna eseguita»
di Cecilia Zecchinelli

Il figlio accusa: «Una atrocità che mi indigna»
«La condanna è già stata eseguita » , ovvero Sakineh Mohammadi Ashtiani ha già ricevuto la punizione di 99 frustate per aver «sparso corruzione e indecenza» diffondendo una sua foto col capo scoperto. Foto non sua — si è poi scoperto —, di cui lei non sapeva niente, pubblicata per errore da un giornale di Londra a migliaia di chilometri dal carcere di Tabriz dove la prigioniera più famosa d’Iran attende l’esecuzione da quattro anni. Ma tant’è, il regime reagisce con rabbia alla campagna mondiale per liberarla e si vendica, ancora una volta.
La notizia dell’avvenuta flagellazione è stata data ieri da una ex compagna di cella di Sakineh, intervistata da Radio Farda e unico contatto dell’avvocato e dei figli con la prigioniera. «E’ stata un’atrocità ingiustificata», ha detto all’Adnkronos il primogenito 22enne Sajad, che non vede né sente la madre da 20 giorni ma riesce ad avere sue notizie dalle detenute liberate. Sajad dice di vivere nel terrore. «Ho paura per me e per mia sorella soprattutto. Abbiamo ricevuto in questi giorni varie telefonate del ministero dell’Intelligence, ci chiedeva di presentarci alla sede di Tabriz ma per ora non l’abbiamo fatto perché abbiamo paura, non sappiamo cosa ci vogliano fare».
Il giovane, che ha avuto il coraggio e la bravura di dare il via a una campagna internazionale ogni giorno più vasta, aggiunge che lui di giorno lavora ma la sorella Farideh, 17 anni, «resta in casa da sola e ogni volta che esco spero non le succeda niente». E poi, ancora un volta, si appella alla comunità internazionale perché non si tiri indietro: «In Iran siamo soli, nessuno ci sostiene tranne il nostro avvocato Javid Kian», nominato dalle autorità ma poi convintosi dell’innocenza della donna condannata per adulterio e complicità nell’omicidio del marito. «Non ci sono sviluppi processuali — conclude Sajad — ma sembra che vogliano ancora lapidarla: mia madre è sola la prima vittima, stanno usando il suo caso per spianare la via ad altre esecuzioni e valutare le reazioni internazionali».
Reazioni che si stanno facendo sempre più dure: non solo per Sakineh e (molto meno) per i 22 iraniani (tra cui 4 uomini) in attesa della lapidazione. Ma per l’arroganza del regime che critica e minaccia tutti. Anche ieri Ahmadinejad, dal Qatar, ha tuonato contro Israele sostenendo che «qualsiasi attacco all’Iran porterà alla distruzione dell’entità sionista». Pochi giorni fa aveva «profetizzato» la cancellazione dalle carte geografiche dello Stato ebraico. Perfino il coinvolgimento del Cairo e di Amman nei negoziati sulla Palestina sono stati definiti «tradimenti» da Teheran, con toni e contenuti che nemmeno i Paesi arabi tollerano più.

Repubblica 6.9.10
Parla la storica della psicanalisi Roudinesco, firmataria dell´appello per la donna iraniana
"È un simbolo dell´oppressione porta su di sé il peso della barbarie"
Quello che accade non è Medioevo, perché in quell´era almeno le idee potevano circolare. È vero oscurantismo
di Anais Ginori

PARIGI - «Novantanove frustate?». Elisabeth Roudinesco fa una leggera pausa, come se stesse provando ad immaginare l´orrore della pena corporale inflitta a Sakineh. «Ma non è il Medioevo, perché almeno in quel periodo potevano circolare alcune idee. Questo è l´oscurantismo, piuttosto». La storica della psicoanalisi, autrice di una biografia di Lacan, ha firmato l´appello per salvare la donna iraniana, insieme ad altri intellettuali europei. Un appello che ha già raccolto oltre 110mila firme sul sito di Repubblica. Roudinesco non è sorpresa. «E´ diventata un simbolo – dice - ma non dimentichiamoci che è anche una donna in carne e ossa».
La mobilitazione cresce. E´ intervenuto anche il Vaticano. Sarà possibile salvare Sakineh?
«E´ una domanda che non bisogna mai porsi. Non credo alla prudenza in queste situazioni. Certo non firmerei una petizione contro il piano nucleare iraniano, perché è una questione delicata, tra l´altro al centro di complessi negoziati diplomatici. Ma questo è un caso emblematico, davanti al quale non ci si può tirare indietro. Sakineh porta su di sé il peso della barbarie».
Cosa accomuna tutte le persone che stanno protestando attraverso il mondo?
«Io non ho avuto esitazioni, anche se ho firmato l´appello insieme a persone che magari non la pensano come me su altri temi. Ci sono molte aspetti orribili in questa vicenda. Sakineh è stata condannata per adulterio, un delitto che per fortuna non esiste più in Occidente. Le autorità iraniane hanno estorto da lei una confessione con metodi degni dell´Inquisizione».
Qual è la sua conoscenza dell´Iran?
«So per esempio quello che scrivono di personaggi come Freud, Sartre, Simone de Beauvoir. Ne ho parlato nel mio libro Retour sur la question juive. Per loro, sono intellettuali che rappresentano Satana. L´Iran è un paese che non autorizza la libertà sessuale. Una società ancora patriarcale, nella quale donne e omosessuali sono perseguitati. Anche Darwin è bandito in Iran, dove si insegna ancora il creazionismo. Per questo non mi stupisce la reazione che ha avuto la stampa di regime nei confronti di chi si mobilita».
Fa riferimento agli insulti e alle minacce a Carla Bruni?
«Se la sono presa anche con Simone Veil e Martine Aubry, che pure avevano espresso il loro sostegno a Sakineh e sono persone molto diverse dalla Bruni. Guarda caso, però, si tratta sempre di donne. Come Sakineh. Credo veramente che lei possa rappresentare il segnale di una svolta. E se anche Sakineh fosse lapidata, non bisognerà mai arrendersi. Sono convinta che l´Iran sarà costretto ad abbandonare una barbarie ormai fuori dal tempo. Ci vorrà del tempo, ma accadrà. E´ inevitabile».

Corriere della Sera 6.9.10
Nietzsche, profeta senza enigma
di Armando Torno

Fu un erede della cultura classica tedesca insofferente a bugie, ipocrisia e illusioni

Ma Così parlò Zarathustra di Friedrich Nietzsche è opera filosofica o profetica? L’inizio di una nuova mitologia o il sogno di un solitario innamorato dei greci? Una risposta non c’è, ma si può cominciare a cercarla ricordando quanto scrisse quell’esibizionista di Thomas Edward Lawrence, agente segreto, militare, archeologo, autore de I sette pilastri della saggezza, noto ai più come Lawrence d’Arabia: lo considerava uno dei cinque libri titanici dell’umanità. Noi aggiungiamo che è una sorta di vangelo della purezza, concepito per combattere quello cristiano, fondato invece sulla caritas; in esso si canta l’esaltazione della vita nella sua tragica caducità, contro ogni forma di trascendenza. Il nome dello studioso che ci ha suggerito tali parole? Sossio Giametta. A sua cura è appena uscita una notevole edizione di Così parlò Zarathustra, con saggio introduttivo e un commento senza eguali (Bompiani, «Il pensiero Occidentale», testo a fronte, pp. 1.228, 30).
Oltre ad aver curato edizioni di Schopenhauer, Spinoza e Goethe, Sossio Giametta è autore di numerosi libri e dagli anni Cinquanta si occupa di Nietzsche. Formidabile conoscitore del tedesco, Giorgio Colli e Mazzino Montinari lo chiamarono nel gruppo che a Weimar lavorò sui manoscritti del filosofo, realizzandone la prima edizione critica, oggi punto di riferimento. Di Nietzsche ha tradotto e chiosato otto volumi per Adelphi, tre nei «Classici» Utet, nove nella Bur, un Ecce homo per la Biblioteca di via Senato di Milano. E ora questo Zarathustra dal superbo commento.
I più accreditati esegeti amano ripetere che Nietzsche è autore difficile; Curt Paul Janz e Karl Jaspers, Rüdiger Safranski o il fascinoso poeta e scrittore Gottfried Benn credettero che non bisogna cercare di capirlo, giacché non è riducile. Giametta sostiene l’op-posto. Sottolinea che c’è un criterio unitario che lo spiega: questo pensatore, di animo nobile, fu un erede della cultura classica tedesca insofferente a bugie, ipocrisia e illusioni. Il meccanismo che muove le sue idee è la ribellione contro le falsificazioni (da intendersi: sistemi filosofici, religioni, tradizioni, istituzioni). Con una radicalità scevra da compromessi, ha creato un terremoto. Atteggiamento — vera e propria dismisura teutonica — che lo portò a risultati disastrosi. Si mise in mente di scrivere un’opera fondamentale per porsi accanto ai sommi, ma naufragò in quel marasma di frammenti che è la Volontà di potenza. Giametta lo vede più come moralista e poeta nutrito di pensiero tragico, giacché non possedeva i mezzi del filosofo nel senso concettuale del termine. Puntò tutto sulla vita nella sua caducità — i tentativi contrari portano al nichilismo — con la medesima lealtà del figlio che non giudica la madre. Era, tra l’altro, convinto che da Copernico in poi l’uomo rotoli dal centro verso una «X», e questa incognita sarebbe la realtà, che non è pensabile, non è conoscibile.
Negando la realtà come una qualsiasi costituzione stabile delle cose, Nietzsche ritenne che la verità non esiste, e quella che chiamiamo con questo nome è l’errore di cui abbiamo bisogno per sopravvivere. Si scagliò contro la logica considerandola una macchina autoaffermativa, che rende pensabile quello che tale non è, ovvero la realtà. Giametta ricorda un altro elemento per il quale resta un enigma: si è notato che seguì un percorso strettamente solitario e filosofico, ma non si è capita la sua coincidenza con la crisi dell’Occidente. Nietzsche, tolto il valore a realtà e verità, afferma il bisogno di gerarchia e selezione naturale; urta gli animi ricordando che è necessaria la schiavitù come condizione di ogni alta civiltà, anzi è indispensabile per il suo innalzamento; esalta lo sfruttamento, accetta la sopraffazione. Se si viola il gioco selvaggio della natura, si i mpedisce l a nasci t a del l a grandezza. Trasfigurò la crisi storica del mondo occidentale in visione poetica, dionisiaca; ma, così facendo, l’ha legittimata, accelerata.
Nietzsche non fu il precursore ma il costruttore del cuore del fascismo.

Corriere della Sera 6.9.10
Nuova frontiera della morfina. Farmaco etico o solo una droga?

La morfina sembra rallentare la crescita del tumore. Avrebbe un potere anti-angiogenesi, bloccherebbe cioè lo sviluppo dei vasi sanguigni che il cancro crea ex novo per «alimentarsi». Un sospetto agli specialisti in terapia del dolore era già venuto, la conferma sperimentale viene ora da uno studio pubblicato in agosto dalla rivista scientifica The American Journal of Pathology. Notizia passata inosservata, non come per altri farmaci con lo stesso effetto che hanno sempre trovato ampio spazio sui media. Perché? Forse perché si tratta di morfina (la cultura oppiofobica è diffusa, specie in Italia, perfino nel campo del dolore) o forse perché alla fine la morfina come cura costa poco o nulla?
Un passo indietro. Che cosa si è visto in alcuni Hospice per malati terminali canadesi e statunitensi? Semplice: la vita dei pazienti trattati precocemente con morfina o suoi derivati, prima cioè che il dolore comparisse in modo insopportabile, si allungava rispetto alle attese. Dosi più basse, pazienti attivi e non «intontiti», e giorni in più guadagnati. Si pensava fosse il risvolto di una qualità di vita prolungata. Si è invece scoperta una dote inaspettata: la morfina, potente anti-dolorifico, sembra essere anche un’arma «intelligente» contro il tumore. In dosi clinicamente rilevanti è stata somministrata a topi geneticamente modificati in modo da avere il carcinoma del polmone di Lewis.
I risultati? Rallentata significativamente (se non bloccata) la crescita del cancro, rispetto al gruppo trattato con il placebo (niente farmaco), grazie alla riduzione, sia in lunghezza sia in ramificazione, dei vasi sanguigni tumorali. Bene anche la controprova con un farmaco che blocca l’azione della morfina a livello cellulare: l'effetto anti-angiogenesi svanisce. Il meccanismo? La morfina sembra inibire la chinasi p38, una proteina attivata dalla mancanza di ossigeno a livello cellulare e che comanda la formazione di neo vasi.
Se funziona anche sull’uomo, si avrebbe un buon farmaco a basso costo. E, allora, la morfina verrà finalmente «nobilizzata» a farmaco etico? O resterà solo e sempre demonizzata definendola, e pensandola, solo come droga (e non riferendosi al concetto di farmaco)?

Corriere della Sera 6.9.10
Ebook, l’editore cambia mestiere
di Antonio Carioti

«Una nuova missione per riscoprire il nostro ruolo creativo»

Nulla sarà più come prima per l’editoria con la rivoluzione digitale. Tra gli addetti ai lavori è diffusa la consapevolezza che, come osserva Paolo Zaninoni, direttore editoriale di Rizzoli, «entriamo in una fase di sperimentazione ricca d’incognite». A suo avviso però è anche un ritorno all’antico. «Bisogna recuperare — sostiene Zaninoni — il ruolo creativo che l’editore aveva una volta e si era in parte smarrito con il prevalere di logiche industriali. Con l’ebook ridiventa prioritaria la ricerca del talento e della qualità, mentre perdono importanza obiettivi come stampare più in fretta, distribuire in modo rapido e capillare, riempire gli scaffali dei rivenditori. L’editore del futuro sarà un produttore di contenuti declinati in forme diverse, non più soltanto testuali. Ad esempio con Dada, una società della Rcs specializzata in multimedialità, svilupperemo un’applicazione per iPad con i contenuti delle Storie della Bibbia, un’opera che abbiamo realizzato con i migliori disegnatori di libri per ragazzi».
Tra i meglio piazzati in fatto di ebook c’è il gruppo Giunti: «Abbiamo un catalogo digitale di un centinaio di titoli — spiega il vicepresidente Bruno Mari — e contiamo di superare i 700 entro la fine dell’anno. Siamo partiti in anticipo perché crediamo che sia in corso una trasformazione profonda. Nel 2009 si diceva che ci sarebbero voluti dieci anni perché l’ebook raggiungesse una quota del 10 per cento del mercato. Oggi nessuno ripeterebbe una valutazione così limitativa. Ma l’aspetto più interessante è la possibilità di organizzare nuovi for-mati editoriali, disponibili su supporti mobili agevolmente trasportabili, che offrano gli stessi contenuti complessi del volume di carta, ma con caratteristiche di ipertestualità , multimedialità e interattività. Per esempio noi stiamo lavorando a una guida turistica di Roma per smartphone con tutti i contenuti di quella classica del Touring Club, più diverse opportunità multimediali e interattive. Tutto il settore della manualistica si presta a un numero sconfinato di applicazioni. Di fatto dovremo imparare un altro mestiere».
Un compito non facile, secondo Ernesto Ferrero, direttore del Salone del libro di Torino: «Ho colto notevoli preoccupazioni tra gli operatori perché l’avvento dell’ebook tende a conferire un’assoluta libertà di manovra agli autori di bestseller. Se gli scrittori più redditizi potranno gestirsi da soli, come ha prospettato in America Andrew Wylie, instaurando un rapporto diretto con la distribuzione per via telematica, gli editori si vedranno sottrarre una parte consistente dei loro guadagni».
Tuttavia Gian Arturo Ferrari, presidente del Centro per il libro del ministero dei Beni culturali, invita a diffidare degli scenari apocalittici: «Al momento il business dei libri riguarda in larghissima prevalenza la carta e lo scenario non cambierà a breve termine, diciamo per i prossimi cinque anni. Però si avvicina una radicale trasformazione, nella quale il ruolo degli editori non verrà meno, ma sarà insidiato da altri soggetti come gli attori della tecnologia e gli agenti letterari. La funzione mediatrice tra chi crea e chi fruisce della creazione non scomparirà, anzi verrà esaltata dall’aumento della complessità, ma bisogna vedere come cambierà. Ci attende una fase di transizione che va affrontata senza troppa paura. Anche il pericolo della pirateria digitale nel campo dei libri, che qualcuno paventa indicando l’esempio della musica, mi sembra lontano finché il mezzo elettronico resta minoritario in fatto di consumo dei libri».
Il problema però, sottolinea Riccardo Cavallero, direttore generale di Mondadori Libri Trade, va oltre il passaggio dalla carta ai bit: «In realtà l’ebook è un singolo aspetto di una rivoluzione nella quale a divenire digitale non è soltanto il libro, ma soprattutto il rapporto con il pubblico. Il nostro lavoro consiste sempre più nell’interagire con comunità di lettori sorte sul Web: gruppi in continua trasformazione, poco sensibili alla promozione pubblicitaria o alle recensioni sulla stampa. Per l’editore si pone l’esigenza di fornire agli autori un sostegno efficace nel loro sforzo di comunicare con questa platea esigente e frammentata. Inoltre diventa fondamentale conferire un’identità riconoscibile non solo ai diversi marchi di un gruppo come Mondadori, ma anche alle singole collane, che devono parlare direttamente al pubblico. Ciò esige mutamenti anche nella organizzazione aziendale, che va ripensata puntando sulle piccole unità».
Una svolta che Daniele Di Gennaro, fondatore dell’editrice Minimum fax, sostiene di aver anticipato: «Per noi si tratta di proseguire sulla strada che abbiamo intrapreso sin dal 1992. Abbiamo capito che l’editore non poteva più porsi in modo autoritario, come colui che cala la cultura dall’alto, ma doveva piuttosto mettersi in ascolto, sondare gli orientamenti del pubblico, cogliere la nascita di nuovi linguaggi, recepire le esigenze manifestate dai lettori e i loro suggerimenti. Il Web ha moltiplicato le opportunità e l’ebook è un ulteriore passo in avanti. C’è il rischio che si sviluppi la pirateria digitale, ma sarebbe un errore chiudersi a riccio. Bisogna invece accettare la sfida e puntare sulla qualità: attraverso la cura della grafica si può fare del volume cartaceo un oggetto importante, con cui si sviluppa un legame affettivo. E poi occorre esaltarne al massimo le potenzialità, senza paura di contaminare le forme comunicative: intorno a un buon libro si può organizzare un evento, quindi ne può nascere uno spettacolo teatrale da cui si può trarre un dvd e così via».
Più scettico Elido Fazi, fondatore dell’omonima casa editrice: «L’ebook sembrava all’ordine del giorno già nel 2000. All’epoca creai una società, Libuk, che doveva curarne lo sviluppo, ma non ebbe alcun successo e ho finito per cederla. La rivoluzione digitale nel campo dei libri sarà epocale, ma in Italia e in Europa, rispetto ai ritmi incalzanti degli Stati Uniti, avrà uno sviluppo molto più lento. In ogni caso è sbagliata l’idea di Wylie che gli agenti letterari possano scavalcare gli editori e vendere direttamente sul Web le opere dei loro autori in formato ebook. Questo può valere per libri già lanciati o di personaggi famosi. Non certo per le novità».
Intanto l’editore Mursia, nell’era della virtualità, ha cercato il contatto fisico con il lettori, girando l’Italia con la libreria mobile Passpartù: «Andare controcorrente — nota la presidente Fiorenza Mursia — è un po’ una nostra caratteristica. Le nuove tecnologie rendono più facile confezionare libri e c’è il rischio che i distributori online tendano a rubarci il mestiere come fanno le catene di supermercati, che mettono in vendita pasta e biscotti con il loro marchio accanto a quelli dei produttori storici. Di fronte alla rivoluzione digitale non ci si deve preoccupare tanto dell’ebook quanto del potenziale utente, di quello che potremmo chiamare e-lettore: chi è, che cosa si aspetta? Per me la priorità è lavorare sul catalogo, puntare sulla riconoscibilità di una linea editoriale. Il libro non è un prodotto standardizzato, perciò la capacità progettuale dell’editore resta un fattore fondamentale».

Repubblica 6.9.10
Rigoletto in tv, grande spettacolo così la lirica fa 3 milioni di ascolti
La mondovisione dell´opera da noi sabato ha avuto il picco con il saluto di Napolitano
di Angelo Foletto

Una media di quasi tre milioni di spettatori (2milioni e 659mila), il 14.30% di share. Non un trionfo ma un buon risultato quello del Rigoletto a Mantova, l´opera realizzata per la mondovisione che da noi si è vista su RaiUno sabato col primo atto e ieri con gli altri due (per queste le percentuali di ascolto si sapranno oggi): certo, su Canale 5 Le Velone hanno fatto in contemporanea il 21,7 per cento, ma i primi numeri (si aspettano anche quelli della mondovisione) soddisfano gli sforzi dell´eccellente cast da Placido Domingo a Vittorio Grigolo e della produzione che ha ideato questo kolossal in diretta mondovisione con 148 reti collegate e una platea virtuale di 5miliardi (la stima realistica è di 1 miliardo). Operazioni spettacolari precedenti, Traviata e Tosca, avevano fatto registrare qualcosa più in fatto di ascolti, rispettivamente il 21% e 16%. Ma Andrea Andermann, il produttore, sta già lavorando alla prossima opera, Cenerentola (alla Reggia di Venaria), con la regia di Luca Ronconi e la direzione di Riccardo Chailly.
Preziosamente anticata dalla fotografia di Storaro, la Mantova scelta dal regista Marco Bellocchio per questo Rigoletto ha dato fascino d´ambiente al racconto verdiano e l´ha resa un set cinetelevisivo perfetto. Senza fare cartolina turistica; sfruttando le sale affrescate e i cortili di Palazzo Te o stanze e corridoi del piano nobile di Palazzo Ducale (per il II atto, ieri pomeriggio) come scenografie solenni ma non soffocanti: la macchina da presa è stata usata in chiave quasi intimista, non mollando i primi piani sui protagonisti. Così anche la fatica fisica e i sudori del protagonista Placido Domingo, gran debuttante nel ruolo baritonale, erano parte intensa del racconto, preparando le lacrime del finale, già intraviste nel secondo drammatico duetto con la figlia.
La macchina tecnica messa in campo per questo Rigoletto in diretta (oltre 50cinquanta addetti e 30 telecamere) ha volutamente lasciato i particolari ambientali dentro l´opera, come il volo dei pipistrelli che hanno contrappuntato il duetto Rigoletto-Sparafucile (Domingo e Ruggero Raimondi) o i fastidiosi insetti che hanno disturbato il "Caro nome" di Gilda (Novikova, voce sorprendente e presenza di notevole efficacia). Quel che conta è che alla fine la musica di Verdi in questo modo s´è rivolta a una platea che corrisponde a quasi 200 tutti esauriti all´Arena di Verona o 1300 in Scala. Molti forse avranno ascoltato la prima volta il capolavoro ambientato a Mantova: a questi in particolare era destinata la proposta. Come ha ricordato il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano nel messaggio d´augurio introduttivo (picco d´ascolto 3 milioni e 268mila, pari al 19,01 per cento), «l´opera è patrimonio nazionale: un biglietto da visita unico della vocazione dell´Italia a essere paese d´arte».

Corriere della Sera 6.9.10
Rigoletto, un kolossal che non sfonda in tv
Parte con 3,5 milioni di telespettatori, poi cala
di Chiara Maffioletti

MILANO — Gli ascolti non sono stati certo da kolossal, ma il giorno dopo la messa in onda di «Rigoletto a Mantova», la Rai ha parlato comunque di «buon risultato». Sabato, il primo atto (gli altri due sono andati in onda ieri) del film in diretta da Mantova nei luoghi e nelle ore dell’opera verdiana è stato seguito da 2 milioni 659 mila spettatori, pari al 14,3% di share.
Numeri che saranno anche buoni visto che si parla di opera lirica — genere a cui il pubblico della tv è di certo poco addomesticato — ma comunque ben lontani dal 21,7% fatto registrare alla stessa ora (le 20.30) da «Velone», su Canale 5. Anche i precedenti esperimenti di film tratti da opere, sempre firmati da Andermann, avevano convinto di più: nel 2000 «La Traviata» toccò il 21,39% (il primo atto era andato in onda sempre di sabato alle 20.30 ma era durato mezz’ora) mentre nel 1992, il primo atto della «Tosca» (in onda un sabato dalle 12 alle 12.30) arrivò al 16,88%. L’altro ieri, calato il sipario sul primo atto, il protagonista, Placido Domingo, aveva sospirato: «È meraviglioso, speriamo che il pubblico abbia apprezzato». Scorrendo i dati si scopre che i telespettatori hanno amato di più le prime arie, seguite da oltre 3 milioni 500 mila telespettatori. Numeri a cui si devono però aggiungere anche quelli (non calcolati) del web: nonostante il criptaggio della Rai, poche ore dopo la diretta tutti i filmati di «Rigoletto a Mantova» erano stati caricati da pirateschi fan su YouTube. E in alta definizione.

Corriere della Sera 6.9.10
Spettacolo ibrido, ma la Rai fa bene a sostenerlo
Bellocchio evita ampollosità e ghirigori. Purtroppo il mezzo televisivo aggiunge enfasi al racconto
di Aldo Grasso

Chiariamo subito una cosa: la Rai fa benissimo a sostenere un’operazione come «Rigoletto a Mantova», spalmandola su due giornate e fregandosene degli ascolti (Raiuno, sabato sera in prima serata, domenica alle 14 e alle 23.30). Preceduta da un messaggio del presidente Giorgio Napolitano la celebre opera di Giuseppe Verdi è stata trasmessa in diversi Paesi e ben 148 se ne sono assicurati i diritti. Altro è promuovere il melodramma, altro è, invece, dare spazio a operazioni culturalmente modeste come i «Promessi sposi» di Michele Guardì.
Negli anni, Andrea Andermann ha messo a punto un format da evento mediatico. Tutto è iniziato nel 1992 a Roma con la messinscena di «Tosca nei luoghi e nelle ore di Tosca», è proseguito nel 2000 con «La Traviata à Paris» e si conclude, per ora, con «Rigoletto». L’idea di fondo è questa: per ridare vita all’immagine un po’ appannata dell’opera lirica (almeno nel gradimento popolare), il format di An-dermann prevede che gli interpreti cantino e recitino in diretta usando come location non il teatro ma i luoghi storici in cui si immagina sia stata ambientata la storia che Francesco Maria Piave e Giuseppe Verdi hanno tratto da «Le roi s’amuse» di Victor Hugo.
Dunque, mentre dal teatro Bibiena il maestro Zubin Metha dirige con le cuffie in testa l’Orchestra nazionale della Rai (una volta ce n’erano tre modeste adesso finalmente ce n’è una buona), i cantanti si muovono nelle splendide cornici di Palazzo Ducale, di Palazzo Te, della Rocca di Sparafucile, antico presidio militare dei Gonzaga, di alcune strade cittadine, anche se, per la diffusione delle note, ai moderni auricolari sono stati preferiti i più tradizionali altoparlanti. La regia è di Marco Bellocchio, meno incline rispetto a Franco Zeffirelli («Tosca») e Giuseppe Patroni Griffi («Traviata») all’ampollosità scenografica.
Andermann parla di film live, un film in diretta, che suona un po’ come un assurdo; forse televisione gli pare troppo poco. Ma questa è tv, ibridata con altri media, ma pur sempre tv. Ciò che cambia è la convenzione drammaturgica: la compressione teatrale (ambientazione, tempi e modi) si snoda qui per le strade di Mantova, in una sorta di turismo culturale, di divulgazione animata.
«Rigoletto a Mantova» è il superamento del concept «Arena di Verona», ovvero la ricerca di quel difficile punto di incontro tra la musica «colta» e il pubblico generalista; è una forma raffinata di kitsch, se così si può dire, ma è pur sempre kitsch. Niente di male, s’intende; più correttamente si potrebbe far riferimento a quella sensibilità «camp» su cui ha scritto pagine definitive Susan Sontag.
La tv, infatti, non fa che aggiungere l’enfasi del primo piano al già necessario decorativismo dell’opera lirica, con le sue macchine piene di addobbi, colori, movimenti mimici, ingegnose scenette a latere, figuranti: un esercizio di naturalismo spinto, anche nelle scene più «intime», agli estremi. Per fortuna la fotografia di Vittorio Storaro e la regia di Marco Bellocchio si sono dimostrate rispettose della lettera del discorso musicale, non eccedendo mai in inutili ghirigori.

domenica 5 settembre 2010

l’Unità 5.9.10
Contro lo sceriffo Sarkozy in piazza per difendere i rom
Contro la politica xenofoba del governo e le espulsioni dei rom esplode la rivolta in tutta la Francia. Proteste anche nelle altre città europee, compresa Roma, davanti alle ambasciate francesi.
di Luca Sebastiani

Al rientro dalle vacanze, per Sarkozy è già ora di piazza. In attesa di quella di martedì contro la riforma delle pensioni, ieri è stato il turno degli antirazzisti. Del resto dopo la calda campagna estiva contro gli immigrati e i rom, il presidente della Repubblica non poteva aspettarsi niente di meno.

Parigi, Bordeaux, Marsiglia, Montpellier. In tutto 138 manifestazioni che hanno portato in strada migliaia di francesi in ben 130 diverse città d’oltralpe con lo slogan «Contro la xenofobia e la politica della gogna». Sottotitolo: «Liberté, egalité, fraternité».
LA MOBILITAZIONE
Dalle 50mila persone che nella capitale hanno sfilato in un corteo aperto da una quarantina di rom travolti dagli sgomberi voluti da Sarkozy, alle centinaia che si sono assembrate di fronte alle ambasciate francesi d’Europa, Roma compresa, tutti hanno voluto manifestare il proprio sdegno per una politica «disumana» di rimpatrio dei rom e la propria preoccupazione per una svolta populista che rischia di portare il governo fuori del perimetro repubblicano. Presenti all’appello della Lega dei diritti dell’Uomo, decine di Ong, associazioni, sindacati e tutto l’arco della gauche plurielle: dal Ps ai Verdi, dai Comunisti ai trotzkisti dell’Npa. E anche se i sondaggi continuano a rilevare che seppur di poco la maggioranza dei francesi è col presidente, ieri nelle strade c’erano tante persone comuni, compresi i cattolici, che dal discorso di Grenoble sono entrati in fibrillazione.
Quel giorno di luglio nella città alpina il presidente aveva lanciato la nuova politica del governo in materia di repressione della delinquenza puntando il dito contro immigrati e rom. Per riprendere la mano sull’agenda politica travolta dagli scandali che avevano toccato i piani alti della Repubblique e del governo, e per fare diversione da certe rivelazioni giornalistiche che alludevano a bustarelle che avrebbero finanziato la sua campagna presidenziale del 2007, Sarkozy non aveva esitato a sfoderare l’artiglieria pesante.
IL DISCORSO DI GRENOBLE
A Grenoble aveva parlato direttamente e in maniera disinvolta del legame tra delinquenza e immigrazione, aveva ordinato lo sgombero dei campi rom e il rimpatrio dei loro abitanti, e minacciato il ritiro della nazionalità agli stranieri d’origine che si macchiano di certi reati.
Non è la prima volta che Sarkò mostra i muscoli. Anzi, nel 2002, ministro dell’Interno, la sicurezza è stato il trampolino del suo successo. Nel 2007 il suo capolavoro politico è stata addirittura la sottrazione dei voti al Fronte nazionale con l’assunzione dei temi nazional-popolari cari agli elettori di Jean Marie Le Pen. Allora il populismo sicuritario era stato ammantato di nobiltà repubblicana con la giustificazione che si trattava solo di una politica volta a riportare un certo elettorato all’interno dei perimetro della Republique.
Oggi però, a soli tre anni di distanza, sembra più vero il contrario, cioè che sia il sarkozismo ad esser uscito da quello stesso perimetro.
Se n’è accorto Papa Benedetto XVI, che in agosto ha richiamato il presidente francese agli obblighi morali «d’accoglienza» della Francia; e se n’è accorta la Lega dei diritti dell’Uomo, che ha atteso la fine delle vacanze e ha convocato ieri, anniversario della proclamazione della III Republique, una risposta popolare. «Abbiamo deciso di reagire perché un limite è stato attraversato – ha detto Jean Pierre Dubois, presidente della Lega medesima – Ciò che ci riunisce oggi è il nostro comune attaccamento alla democrazia».
Nonostante la risposta della piazza e le voci dissenzienti interne alla maggioranza, in particolare tra i centristi d’ascendenza cattolica e i gollisti ortodossi, Sarkozy ha però già annunciato che non arretrerà di una virgola.
Sondaggi alla mano i suoi esperti strateghi gli hanno infatti spiegato che i due punti di rimbalzo nel consenso popolare che lo hanno attestato intorno ad un gradimento del 34/35%, sono merito della svolta sicuritaria. Più complessa per lui la partita che invece si apre martedì: i sondaggi dicono infatti che sulle pensioni sette francesi su dieci sono con i sindacati e le opposizioni sono già al lavoro per legare la piazza di ieri e quella di dopodomani contro un presidente che rode i diritti di stranieri e lavoratori.

l’Unità 5.9.10
Intervista a Massimo L. Salvadori
«In Francia è forte lo spirito civico L’Italia l’ha perduto»
Lo storico: «Il capo dell’Eliseo ha superato il limite sconfinando dalla sicurezza alla xenofobia È la gauche ha reagito difendendo la tolleranza»
di Umberto De Giovannangeli

La gauche si è fatta interprete di una coscienza del limite” che segna fortemente una parte della società francese. E questo limite, invalicabile, è quello che Sarkozy ha inteso superare, sconfinando dalla sicurezza alla xenofobia. La leva della protesta è uno spirito civico che in Italia è andato sempre più scomparendo». A parlare è uno dei più autorevoli storici e scienziati della politica italiani: Massimo L.Salvadori.
La gauche ritrova forza e unità nel mobilitarsi contro la politica dei respingimenti voluta da Sarkozy. Qual è il segno di questa mobilitazione?
«È la rivendicazione di uno spirito civico, di una cultura della tolleranza che Sarkozy ha fortemente incrinato. La politica della sicurezza è stata un cavallo di battaglia di Sarkozy, che ha utilizzato con successo nella sua “scalata” all’Eliseo. Ma “Sarkò” è andato oltre il limite, determinando una reazione che indica una volontà che supera gli stessi confini della gauche e del partito-guida della sinistra: il Partito socialista...
Qual è questa volontà, professor Salvadori? «È la volontà di non lasciare che, in nome della sicurezza, vengano superati quei limiti oltre i quali la sicurezza apre la strada alla xenofobia, ad una politica di ostilità verso i diversi, e che si intende perciò affermare un principio che nella società francese è profondamente radicato. Certo, in Francia agisce una destra reazionaria, di cui Le Pen è stato l’espressione più significativa, non marginale. ma in Francia esiste un “anticorpo” possente: un tessuto civile, una ideologia repubblicana di lunga radice, in cui sono depositati quei principi di eguaglianza, di solidarietà, di fraternità, di tolleranza, di accoglienza che sono i principi che stanno diventando, in maniera molto energica, una forza di resistenza, di opposizione che vuole non solo porre limiti alla politica di sicurezza intesa alla Sarkozy, ma che intende poi passare al contrattacco, nel senso di rilanciare una politica di segno non solo diverso ma contrario alla politica di cui Sarkozy si è fatto rappresentante, attirandosi le critiche in sede europea, nella stampa americana...Questa mobilitazione delle coscienze che si trasforma in movimento reale, rappresenta un fenomeno molto positivo, che parla a tutta Europa e anche al nostro Paese...».
Ma in Italia esistono «orecchie» pronte ad ascoltare la «lezione» francese? «Non si può rimproverare al centrosinistra di non aver sollevato la propria protesta e di non aver fatto opposizione alle politiche “alla Sarkozy” in versione italiana. Questo rimprovero mi sembra francamente ingeneroso. C’è però da osservare che questa opposizione e questa protesta, in Parlamento e nel Paese, sono indebolite da un fattore su cui bisogna, a mio avviso, attirare l’attenzione...».
Vale a dire?
«Vale a dire il fatto che nel nostro Paese il berlusconismo ha messo a nudo, approfondendole, radici che erano precedenti alla scesa in campo del Cavaliere. Mi riferisco al preoccupante indebolimento dello spirito civile in Italia. Noi siamo il Paese in cui la criminalità organizzata occupa la scena con forza; una criminalità che sfrutta la forza lavoro schiavizzata; una criminalità che introduce un senso, insieme, di sfruttamento economico accompagnato da una ripulsa umana per i diversi, per gli immigrati. A ciò si aggiunge l’intolleranza di certe amministrazioni locali, di certi sindaci, di certi governatori che sono inclini alla politica delle ruspe contro i rom, inclini a circondare gli immigrati con una sorta di “filo spinato” fatto di ostilità, di controlli burocratici e polizieschi. E poi abbiamo il terzo fattore, quello politicamente più pregnante, in negativo...”
Terzo fattore. Qual è il suo nome?
«La Lega. Una forza in costante espansione. La Lega è intimamente parte della xenofobia europea. Ha portato in Italia un approccio di ostilità xenofoba che colpisce sia la popolazione italiana ricordiamo l’antimeridionalismo organico leghista sia gli extracomunitari. Una ostilità che colpisce gli immigrati non solo in quanto “poveracci” da tenere entro certi confini, ma è anche una intolleranza, quella di cui la Lega è la punta di diamante, di carattere culturale, religioso. Basti pensare all’ignobile atteggiamento che i leghisti hanno assunto nei confronti delle minoranze islamiche, negando loro i diritti di culto. Questo precario spirito civile che rafforza il duo B&B (Berlusconi-Bossi) rende ancor più ostico l’agire del centrosinistra, e di quanti hanno a cuore i principi di civiltà, su questo terreno».

il Fatto 5.9.10
I Rom di Roma
“Basta sgomberi, faremo un partito”

In piazza, con i bimbi e le loro manine sui lunghi striscioni, per chiedere il diritto all’esistenza nella Capitale degli sgomberi e nell’Europa delle espulsioni. Ieri rom e sinti si sono ritrovati a Roma, a Campo de’ Fiori, per chiedere “rispetto e integrazione” e protestare contro le politiche sui nomadi del governo e di Sarkozy in Francia. Poco più di 200 persone tra nomadi e militanti della sinistra radicale, in un torrido e tranquillo pomeriggio. Abbastanza per provocare la stizzita reazione del sindaco di Roma, Alemanno, che da Parigi (mentre migliaia di persone sfilavano per gli stessi motivi) ha parlato di “manifestazione ideologica e poco sostanziale”. Aggiungendo: “In autunno apriremo i cantieri per due-tre campi nomadi”. Molto diverso, nelle assicurazioni, dal campo nomadi abusivo abbattuto pochi giorni fa, dopo la morte di un bimbo in un incendio. Di certo i rappresentanti dei rom devono aver irritato Alemanno, con il loro ennesimo no al suo piano nomadi. “Non ci hanno minimamente coinvolto, fanno tutti da soli” protesta Nazzareno Guarnieri, presidente della fondazione Romanì. Che spiega: “I campi rom a Roma vanno tutti abbattuti, subito. Con quei soldi si potrebbe fare un serio piano case: ma il Comune non ne vuole sapere”. Ma Roma è solo un fronte evidente di un problema nazionale, anzi europeo. Guarnieri propone una soluzione inedita: “Stiamo lavorando a un partito dei rom con intellettuali della nostra etnia e non: speriamo di costituirlo prima della fine dell’anno assieme a una nostra rivista. Sia chiaro, però, non ci schiereremo con la sinistra o con la destra: porteremo avanti solo le nostre idee”. Attorno, diverse bandiere dei partiti della sinistra radicale: niente Pd, niente Idv. Il segretario del Prc, Paolo Ferrero, attacca dal microfono: “Siamo qui contro la bestia peggiore dell’Europa, il razzismo di Stato. Una volta l’obiettivo sono i rom, un’altra gli immigrati”.
AD ASCOLTARE c’è anche Mariana, nomade romena di 32 anni, compiuti proprio ieri. Ha portato con sé i suoi tre bimbi, che giocano con i fotografi. In Italia è arrivata tre anni fa. “Da noi c’era solo povertà, qui abbiamo trovato lavoro” spiega. I tre bimbi vanno a scuola, e si trovano bene. “A loro piace tanto, vanno d’accordo con i compagni”, assicura. Mariana non ha il permesso di soggiorno, ma la prossima settimana verrà ugualmente operata alla tiroide in un ospedale romano. Ammette: “Qualche volta ho paura, perché tanta gente ci vuole male. Ma noi non siamo tutti ladri”. Qualche metro più avanti c’è Gennaro, che avrà 80 anni. Si accalora: “La mia famiglia è rom e abruzzese, stiamo in Italia da sei secoli. Noi siamo italiani, non come quelli arrivati dalla Romania a cui ci ‘mischia’ l’informazione. Certo, molti dei ‘nuovi’ rubano. Ma se li metti nella sporcizia, non li aiuti. La gente la devi integrare”. Da Milano, rimbalzano nuovi numeri sull’emergenza: sei sgomberi di accampamenti nomadi in 24 ore, 12 rom denunciati.

l’Unità 5.9.10
Assalto dei «viola» a Schifani Il Colle: degrado allarmante
Fischi, urla, spintoni per la visita alla Festa del Pd del presidente del Senato Schifani. Un gruppo di grillini ha interrotto il discorso della seconda carica dello Stato. Dure le reazioni, da Bersani a Napolitano.
di Maria Zegarelli

La notizia sarebbe stata un’altra, se non fossero arrivati i grillini e pezzi di popolo viola alla festa democratica del Pd a Torino. La notizia sarebbe stata quella di un presidente del Senato che durante il suo intervento ad un dibattito su «Le istituzioni alla prova», insieme a Piero Fassino, ritiene le elezioni anticipate un danno per il Paese e riserva un richiamo al presidente del Consiglio Silvio Berlusconi nel momento stesso in cui difende con inusuale energia il Capo dello Stato e la Costituzione, «quella reale quella attuale, alla quale tutti ci dobbiamo inchinare». Sarà perché ospite del Pd, ma va giù pesante anche contro la «politica delle barbarie, dei gossip, delle invettive e degli attacchi personali» di cui il suo partito si è reso protagonista contro il presidente della Camera, Gianfranco Fini. Invece sono i fischi e gli insulti che lo accolgono «fuori la mafia dallo Stato», «mafioso», «vergogna» a conquistare la scena. Spintoni, gente portata via a braccio, tensione che sale alle stelle e che da Piazza Castello si sposta in Corso San Maurizio quando a sera arriva l’ex ministro Cesare Damiano e i grillini ripetono lo schema. Che sarebbero arrivati i contestatori lo si sapeva , già nelle prime ore del pomeriggio la Digos presidia Piazza Castello e il cordone intorno alla sala Norberto Bobbio è serrato. Quando arrivano e cercano di forzare per entrare, urlano contro il Pd, Arduino Salvatore, della lista civica a cinque stelle alle ultime elezioni regionali, fomenta la protesta, alcuni «grillini» imbucati entrano in scena, giacca e cravatta e tailleur di taglio buono. «Fuori la mafia dallo Stato», si alzano le agende rosse di Borsellino. I democratici in platea sono disorientati. Fassino tenta il dialogo: «Provate ad ascoltare...Noi abbiamo definito squadristi quelli che si stavano organizzando per andare a contestare Fini a Mirabello». Poi, Schifani prende il microfono: «Non saranno le vostre intemperanze a impedirmi di parlare in un assise di un partito che rispetto e che ringrazio per avermi invitato. Sono onorato di stare qui». Perde la calma il moderatore, Giuliano Giubileo, del Tg3, che prima urla verso i contestatori «Siete un esempio di antidemocrazia» e poi finisce per dargli dei «fascisti».
LE RIFORME
Ma il dibattito va avanti, riforme costituzionali, istituzionali. «Ci sono convergenze su alcuni punti...», dalla platea viene portato via un provocatore, la polizia blocca i manifestanti che vogliono entrare. «È stata l'estate dello scontro, dell’imbarbarimento«, prosegue Schifani. «...complessa la ricomposizione del Pdl, ma non impossibile...». «Lotta alla mafia...» urlano dal fondo. L’ex segretario del Pd alza la voce: «Noi le lezioni di antimafia non le accettiamo da nessuno, siamo il partito di La Torre, Mattarella», applausi, platea in piedi. «Se non fosse possibile ricomporre continua Schifani tutto torna nelle mani del Capo dello Stato, un grande statista. Lui è garante della Costituzione, lo è sempre stato. Ha dimostrato di esserlo in maniera impeccabile in ogni momento della vita del Paese. È un grande statista, ha un grande senso dello Stato, un grande senso di responsabilità e saprà lui fare le scelte migliori nel caso in cui la maggioranza dovesse andare in crisi...». Alla fine del dibattito si allontana velocemente in auto, tra gli applausi della platea, con un sorriso amaro sul volto. Il segretario del Pd, Pier Luigi Bersani, lo chiama al telefono, gli esprime la sua solidarietà «e profondo rammarico per la gazzarra». È stato giusto invitare Schifani? Chiedono i cronisti a Fassino. «Sì che lo è stato risponde noi siamo un partito che si confronta anche con chi la pensa diversamente da noi«. Le agenzie battono la nota del Quirinale con la quale Giorgio Napolitano deplora quanto accaduto. «Il tentativo di impedire con intimidatorie
gazzarre il libero svolgimento di manifestazioni e discorsi politici dice è un segno dell’allarmante degenerazione che caratterizza i comportamenti di gruppi sia pur minoritari incapaci di rispettare il principio del libero e democratico confronto e di riconoscere nel Parlamento e nella stessa magistratura le istituzioni cui è affidata nel sistema democratico ogni chiarificazione e ricerca di verità». Solidarietà anche dal presidente della Camera, Gianfranco Fini, da Rosy Bindi, che arriva poco dopo a Torino e ci tiene a precisare che non è stato il popolo Pd a contestare. Solidarietà da tutto il mondo politico, ma non da Antonio Di Pietro: «Stiamo dalla parte dei contestatori che sono semplicemente difensori del legalità, della democrazia e degli onesti cittadini. È ora di dire basta a questa ipocrisia imperante». Gasparri evoca il clima di odio fomentato dalla sinistra e da Bersani, che l’altro giorno aveva usato la parola «fogna». Chissà, nel frattempo, se il ministro Brambilla ha smesso di organizzare pullman di squadristi per contestare quello che ancora oggi resta il loro alleato, Fini.

il Fatto 5.9.10
Sì, si può fischiare Schifani
“Fuori la mafia dallo Stato”, “Mafioso” Alla festa Pd di Torino proteste contro il presidente del Senato per i suoi trascorsi siciliani
di Peter Gomez

È sbagliato paragonare agli “squadristi” i cittadini che hanno rumorosamente contestato la presenza di Renato Schifani alla festa del PD. Ieri a Torino, chi ha tentato di partecipare al dibattito pubblico tra il presidente del Senato e Piero Fassino, senza però poterlo fare a causa del servizio d’ordine, era infatti spinto non solo da una perfettamente legittima e democratica indignazione. A convincerlo alla protesta c’era pure un altro desiderio. Porre delle domande e avere delle spiegazioni. Ottenere dei chiarimenti sul passato della seconda carica dello Stato e sul tipo di attività professionale da lui svolta in favore di personaggi legati a Cosa Nostra. Nell’ultimo anno, del resto, sebbene sul conto di Schifani siano emersi interrogativi di ogni tipo, nessuno in Parlamento ha detto una parola. Il Fatto Quotidiano,assieme a pochi altri, con un duro lavoro d’inchiesta ha ricostruito parte della sua carriera di avvocato civilista e di affari. Ha fornito un primo elenco dei sui assistiti, i cui nomi erano fin qui rimasti segreti. E ha avanzato un quesito squisitamente politico: per il buon nome delle istituzioni è un bene o un male avere alla testa di Palazzo Madama un uomo che oggi si scopre aver fornito consulenze all’imprenditoria considerata mafiosa? È ovvio che gli eventuali aspetti penali della vita di Schifani siano di competenza della magistratura. In Parlamento non si può e non si deve discutere delle dichiarazioni, ancora da verificare, dei pentiti (Spatuzza e Campanella). Si può, e si deve, invece, discutere di fatti. In ogni democrazia che si rispetti il primo potere di controllo su ciò che accade nelle istituzioni e sul loro decoro non è né dei giornali, né dei giudici, ma delle opposizioni. Il Partito Democratico sul caso Schifani (e su molti altri), però non lo ha esercitato. E continua a non esercitarlo. Invitare alla propria festa il presidente del Senato, senza prima avergli domandato di chiarire tutto, magari rendendo nota la lista completa della sua discutibile clientela e dell’attività di consulenza legale e paralegale svolta per essa, vuol dire non capire ciò che chiedono gli elettori. E soprattutto vuol dire venir meno a un proprio dovere. Perché i cittadini leggono, s’informano sul Web, e domandano di essere rappresentati. Non farlo, per la democrazia, è molto più grave di qualche fischio e urlo indirizzato, non verso un avversario politico, ma contro chi ostinatamente siede ai vertici delle istituzioni rifiutando la trasparenza.

il Fatto 5.9.10
Appello ai viola: uniamo le forze
La formula del “No B day” è superata, mentre inedita è la partecipazione di gruppi della Chiesa “di base”. Lavoriamo insieme per la manifestazione del due ottobre
di Andrea Camilleri Paolo Flores d’Arcais Don Andrea Gallo Margherita Hack

Tra quattro settimane dovrebbe svolgersi a Roma una grande manifestazione che dica “basta” a Berlusconi e chieda la realizzazione della Costituzione. Se le divisioni tra i diversi gruppi viola non rovineranno tutto. Per evitare confusioni: vari siti (micromega, ilfatto, ecc.) hanno pubblicato un appello di quattro anziane persone (la più giovane veleggia verso i settanta) che, convinte della nausea crescente di questo Paese verso il regime di Berlusconi e della incapacità dell’opposizione parlamentare di interpretarla e mobilitarla, si sono rivolte alla società civile perché organizzi una grande manifestazione nazionale a Roma. La dizione “società civile” non è restata generica. L’appello si rivolge esplicitamente alla testate
giornalistiche, ai siti Web, ai club e associazioni, ai gruppi viola, e alle personalità della cultura, della scienza e dello spettacolo che godono del privilegio della visibilità pubblica.
MOLTI GRUPPI e molte personalità hanno cominciato ad aderire. Alcuni gruppi hanno chiesto un contatto telefonico diretto (in genere al direttore di MicroMega) a cui nella misura del possibile si è sempre risposto. Le quattro anziane persone sono ovviamente pronte (“da ciascuno secondo le sue possibilità”, come diceva il vecchio Marx) a dare una e anche quattro mani per questa manifestazione auto-organizzata (di cui non sono quindi gli organizzatori) e alle espressioni della società civile che si vogliono adoprare per essa. Tra i gruppi viola sono in corso polemiche, al punto che si parla di due manifestazioni. Sarebbe peggio di zero, sarebbero due fallimenti e un gigantesco regalo al regime. L’Italia che continua a volere “giustizia e libertà” non li perdonerebbe. Invitiamo perciò tutti i gruppi viola, e le numerose altre realtà che si stanno mobilitando (la mera replica del “No B day” è superata, davvero inedita è la partecipazione
(FOTO EPA / PIYAL ADHIKARY / ANSA)
sciagurato viene prontamente lasciato solo. Tutti gli altri, stesso partito, stesso gruppo, stessa motivazione politica, scoprono improvvisamente che – invece di tante discussioni sempre sulla stessa persona (per dire poi sempre le stesse cose, per esempio il noiosissimo conflitto di interessi) – c’è ben altro di cui occuparsi. È un ben altro che per forza dovremmo fare insieme. Ecco l’elenco, dal 1994: innovazione, modernizzazione, meritocrazia, privatizzazione, concorrenza, sostegno alle imprese. Controprova. C’è qualcuno, nel Gotha del Pd, ovvero del maggior partito di opposizione (come si usa dire e sperare) che abbia mai espresso il proprio giudizio morale e politico su Berlusconi come ha scelto di fare Marco Pannella, in una lettera-editoriale a Berlusconi (“Il Fatto”, 1 agosto)? “Sei davvero divenuto uno di quei
di personalità e gruppi della Chiesa “di base”, ad esempio, e di organizzazioni anticlericali) perché si riuniscano al più presto per organizzare insieme la manifestazione del 2 ottobre. Senza escludere nessuno e senza che nessuno si escluda (“di viola e di più”, si potrebbe dire). Se il nostro appello ha infastidito qualcuno se ne può fare carta straccia, purché restino i contenuti essenziali, “fuori Berlusconi e realizziamo la Costituizione”. Se infastidiscono le nostre persone togliamo tranquillamente il disturbo. Purché non si rovini, per incomprensibili particolarismi, l’occasione di una grande mobilitazione dell’Italia civile.

Repubblica 5.9.10
Economia, Pd cauto sull´apertura di Tremonti
Enrico Letta al ministro: "Discutiamo, ma a Berlusconi interessa altro"
Bersani: restano delle criticità Fassina: spirito bipartisan dopo due anni di fiducie
di Luca Iezzi

ROMA - Speranza, ma anche tanta diffidenza arriva dal Pd alle proposte di Giulio Tremonti di aprire un nuovo confronto sulla competitività e le priorità dell´economia. «E´ oggettivamente un fatto nuovo e positivo, Tremonti ristabilisce la realtà - spiega il vice segretario del Pd Enrico Letta - tutto ciò di cui non abbiamo parlato questa estate. È evidente che la sua agenda non è quella di Berlusconi». Presto per capire quale prevarrà: «Tremonti sa che sono gli stessi problemi che agitano gli altri paesi d´Europa: la competitività, la tenuta dei conti pubblici, il nuovo Welfare. Berlusconi invece continua parlare di giustizia, dei magistrati, delle sue vicende personali. A dispetto di tutti» insiste il vicesegretario. Il segretario Pier Luigi Bersani rileva che le proposte del ministro per il rilancio dell´economia sono ancora insufficienti: permangono quelle criticità che non consentono di prendere in considerazione un lavoro bipartisan. Per il vicepresidente dei senatori del Pd Luigi Zanda: «In termini politici siamo già in pieno dopo-Berlusconi. Bossi, analizzando freddamente la situazione attuale, descrive un primo ministro dimezzato». Il responsabile economico del partito Stefano Fassina è più critico: «Di fronte all´agonia della maggioranza e del governo, Tremonti scopre lo spirito bipartisan. Dopo 2 anni e mezzo di decreti e voti di fiducia».
Letta è disposto al confronto, anche se la prospettiva di dialogo supera la tenuta del governo: «Berlusconi prova a fare marcia indietro - dice - dipende probabilmente dei sondaggi che parlano di un Pdl sotto il 30%, penalizzato soprattutto al Sud. La vicenda Fini ha fatto molto male al Cavaliere. Attendiamo di vedere oggi cosa dirà il presidente della Camera, mi aspetto che sancisca la fine della maggioranza come la conosciamo, sarà il loro 8 settembre». Però il discorso sulla competitività è più di lungo respiro, ha fatto capire Tremonti: «Deve valere anche per noi. Le alleanze tra le forze politiche si fanno trovando l´accordo su grandi progetti». Un passo decisivo per il Pd sarà «la nomina del ministro dello Sviluppo e del presidente della Consob». L´apertura di credito verso Tremonti insomma rimane, anche se le distanze sono ampie: «Accorgersi adesso che c´è un problema nazionale di competitività è curioso, sono mesi che Bersani chiede – spiega Letta - di affrontare in Parlamento la questione, ma non è mai stato tra le priorità della maggioranza. Per non parlare del fisco dove veniamo da 15 anni di promesse e di nulla. Ma noi per primi vogliamo essere propositivi. L´8 e 9 ottobre, nell´assemblea nazionale del Pd, proporremo una riforma fiscale ispirata alla parabola dei talenti: punire chi li sotterra e premiare chi li condivide, li mette a frutto. Significa penalizzare le rendite e favorire impresa e lavoro».

Repubblica 5.9.10
Libro-intervista del sindaco di Torino: "E´ fallito il progetto di fusione tra Ds e Margherita"
Chiamparino: "Un partito allo sbando io in ticket con Vendola per salvarci"
di Sergio Chiamparino

"Siamo nelle mani di correnti, salotti, caminetti che hanno perso il polso del Paese"
"Dopo le regionali Bersani avrebbe dovuto scuotere il partito. Invece tranquillizza"

«Abbiamo perso tre elezioni di fila in tre anni. Tra l´altro assortite tra di loro. Si è votato per il Parlamento nazionale, per le europee, per le provinciali e per le regionali. Tre sconfitte inframmezzate da pareggi comunali perché abbiamo vinto qualche città e ne abbiamo perse altre. Tutto questo è accaduto con tre segretari diversi, per cui non puoi nemmeno accusare noi del Pd di esserci intestarditi a mantenere lo stesso allenatore nonostante i risultati. Cambiano le poste in gioco, cambiano i segretari, cambiano persino le alleanze… L´unica costante è che perdi sempre... Il Pd, diciamolo, ha perso la sfida che stava alla base della sua nascita: è inutile girarci intorno, è fallita la scommessa primordiale, quella che aveva portato alla fusione tra Ds e Margherita».
Il welfare
«Oggi viviamo in una società che consente a quote crescenti di pensionati (non tutti, ovviamente) di farsi la vacanza all´estero e impedisce a quote crescenti di giovani di progettare un futuro: i primi vivono ancora nella stagione della società pre-globale, i secondi sono investiti in pieno dalla concorrenza al ribasso dei loro colleghi cinesi o indiani. Il sistema di welfare che abbiamo oggi, così com´è, è un lusso perché non è possibile estenderlo a tutti. Per una ragione molto semplice e amara: perché non c´è, né credo possa più esserci, lo sviluppo economico che lo potrebbe sostenere. Accade che oggi sia la destra a rappresentare meglio chi vive fuori dal giardino del welfare e subisce i rischi del mercato internazionale del lavoro. Questo è un paradosso perché a queste persone la destra propone una protezione dal resto del mondo che poi non potrà garantire, interpreta le loro paure piuttosto che risolvere i loro problemi.. I leader della destra sono stati capaci di presentarsi come la forza di contestazione del sistema. Sono loro che prendono il palazzo d´Inverno. E noi siamo lo zar che difende i privilegi e ammassa i comò contro la porta nell´estremo e disperato tentativo di fermarli. Noi siamo spesso identificati con la difesa dello statu quo… Noi siamo vissuti come se fossimo i rappresentanti in Italia dei banchieri della Bce. E siccome la Bce è quella che detta i vincoli e i limiti, siamo vissuti, in fondo, come fossimo i gendarmi della creatività italiana, i vigili urbani che danno la multa a chi lascia l´auto in doppia fila perché deve correre a prendere i figli a scuola…»
Il Pd
Oggi che cosa è il Pd?
«Non riesco a raccontarlo in un modo diverso se non come una somma di gruppi e sottogruppi più o meno accampati a Sant´Andrea delle Fratte. Quando ci arrivi è come se ci fosse una segnaletica stradale che ti indica i diversi piani e corridoi con i nomi delle correnti e delle loro varie componenti. È un problema logistico prima ancora che politico. La cosa, devo dire, non mi stupisce più di troppo. Anche alla fine della Prima Repubblica i gruppi e le fazioni sono diventati più importanti del partito stesso. È comprensibile, perché quello è il modo con cui ciascuno tenta di difendere il piccolo potere che ancora detiene….Saremmo probabilmente all´inizio di una storia nuova se Veltroni, dopo il discorso del Lingotto di avvio della sua candidatura, fosse riuscito a essere coerente con le parole dette. Invece purtroppo non è stato così. Sono tornati i caminetti, gli accampamenti dei valorosi, ognuno con le sue truppe….Se io fossi stato al posto di Bersani, dopo le regionali avrei fatto l´esatto opposto di quel che ha fatto lui. Avrei drammatizzato la crisi del partito, perché se tu la drammatizzi magari qualche risorsa sopita o nascosta viene anche fuori. Se invece tranquillizzi siamo sempre al punto di partenza: chi vive nel Palazzo d´Inverno sta sempre più sicuro e blindato nella sua stanza di Sant´Andrea delle Fratte e chi sta fuori starà sempre più fuori….Proviamo a immaginare che si vada a votare in primavera. Come è pensabile che la leadership che esprimerà il centrosinistra non sia un riferimento per un´area che va dal Veneto al Piemonte e che ha le dimensioni e il sistema economico di un medio stato europeo? L´alternativa è quella di lasciare queste plaghe totalmente in mano al centrodestra in uno scenario che per la sinistra non è dissimile da quello postapocalittico descritto da Cormac McCarthy nel suo La strada: chilometri e chilometri di desolazione. Ci vuole qualcuno che tenti, come il figlio del protagonista del romanzo, di salvarsi dalla disperazione.. Troverei utile se Bersani aprisse questo Pd avviando una discussione sulla leadership e il programma per le politiche coinvolgendo personaggi dentro e fuori il partito. Uno c´è già ed è Nichi Vendola, altri si possono aggiungere».
È ipotizzabile un ticket Chiamparino - Vendola per le politiche del 2013?
«Be´, io credo che tutto il tema dei diritti civili, ad esempio, sia molto sentito al Nord, forse più che al Sud e che Vendola sia certamente una persona che su quegli argomenti ha molto da dire. Così come è una persona che ha ben presente che cosa è la responsabilità dell´amministrare. Quanto ai ticket è noto che nascono dopo che le primarie hanno avuto il loro esito. In America accade così: Obama ha battuto Hillary Clinton alle primarie e poi è nata la collaborazione tra loro due. L´importante è che si riesca ad aprire un percorso in cui chi ha delle carte da giocare provi a giocarle. Non è che voglio sfuggire. Certo, se si aprisse un processo del genere ci penserei seriamente a provare a essere protagonista e a candidarmi. Perché penso che al Nord, e forse non solo al Nord, la mia figura possa rappresentare qualcosa nell´area del centrosinistra».


l’Unità 5.9.10
La distribuzione di ricchezza
E' possibile sopportare che, nel paese dove la disoccupazione giovanile ha raggiunto il 30%, si facciano contratti con compensi di 1.800.000 euro l'anno ad una presentatrice (Antonella Clerici) mentre, per guadagnare la stessa cifra, un lavoratore con stipendio annuo di 30.000 euro - un privilegiato - impiegherebbe 60 anni?
RISPOSTA La distribuzione diseguale delle ricchezze è la base naturale del conflitto sociale ed è al centro dello scontro politico ormai da due secoli. Accettarla o favorirla da posizioni di destra inasprisce il conflitto e lo scontro: con esiti imprevedibili. Annullarla con la forza (l’esperimento staliniano) porta ad un appiattimento verso il basso che Marx tacciava di “comunismo rozzo”. Una proposta più ragionevole è quella di uno Stato che redistribuisce le risorse: utilizzando i proventi di una tassazione progressiva per investire nell’istruzione pubblica (che favorisce la mobilità sociale), nella sanità e nella previdenza. Molto al di là delle pagliacciate di governo, il problema del nostro paese, oggi, è quello di una riforma del fisco che obblighi chi guadagna molto a pagare un po’ di più, che tassi le rendite finanziarie e che obblighi chi compra spendendo molto (dal Suv alla barca, dalle ville all’appartamento di lusso: in Italia o all’estero) a documentare da dove (patrimonio o guadagno) ha preso i soldi. Difficile, se non si parte da qui, dire che si vuole essere coerenti con il principio costituzionale delle pari opportunità.

l’Unità 5.9.10
Atrocità di ieri e di oggi
di Ezio Pelino

Lo storico del colonialismo italiano, Angelo Del Boca, ha da tempo sbugiardato la rassicurante autorappresentazione: “italiani brava gente”, documentando le atrocità commesse in Libia ed Etiopia, con l’ impiego massiccio di armi chimiche, con le deportazioni e uccisioni di massa, la creazione di veri e propri campi di concentramento e di annientamento. Sono le vergogne del regime fascista che abbiamo prima negato e per le quali, poi, abbiamo dovuto chiedere scusa. Ora la storia si ripete. L’antico carnefice si allea con le antiche vittime per annientare le nuove vittime. Gli ultimi della Terra che fuggono la fame, le malattie, le guerre fratricide. Il trattato italo-libico, trofeo leghista-berlusconiano, ha autorizzato la costituzione di campi di concentramento per i migranti africani. Il trattato non prevede che l’Italia o l’Europa possano effettuare controlli sulle condizioni dei prigionieri, mentre è notorio che si tratta di feroci luoghi di detenzione e di morte. Un’alleanza cristiano-islamica nel nome del dio degli affari.

l’Unità 5.9.10
«Chi s’incatena per insegnare ha una passione che va compresa»
Gli scrittori del Campiello e la protesta dei precari Gad Lerner: un dramma sociale, umano ed esistenziale da cui non possiamo distogliere gli occhi
di Roberto Carnero

La protesta dei precari della scuola ha tenuto banco anche al premio Campiello, assegnato ieri a Venezia. È naturale che le sorti della cultura stiano particolarmente a cuore a chi, dei libri, ha fatto la propria scelta di vita. Così nella conferenza stampa della mattinata i cinque finalisti del prestigioso riconoscimento letterario (quest’anno alla sua quarantottesima edizione) non hanno mancato di stigmatizzare l’atteggiamento del ministro dell’istruzione Maristella Gelmini. Durissimo Gad Lerner, in cinquina con Scintille. Una storia di anime vagabonde (Feltrinelli): «Quello dei 200 mila precari della scuola è un dramma sociale, umano ed esistenziale da cui non possiamo distogliere gli occhi. Sono rimasto basito quando ho sentito la Gelmini affermare che non avrebbe parlato con loro perché, a suo dire, fanno politica. Ma scusi, signor ministro, lei invece cosa fa dalla mattina alla sera? È una reazione che non ha senso. La protesta dei precari non è solo la difesa sindacale, pure assolutamente legittima, di un posto di lavoro. È anche il segnale di un malessere diffuso nella scuola italiana, da troppo tempo penalizzata da tagli indiscriminati».
La critica più forte è che senza risorse e senza investimenti non è possibile offrire un’istruzione di qualità. È per questo che Laura Pariani, finalista con Milano è una selva oscura (Einaudi), da ex insegnante di Lettere in un istituto professionale lombardo, racconta come e perché ha deciso di lasciare la scuola circa una decina di anni fa: «La scuola non mi sembrava più un luogo di formazione e di educazione, ma il regno della burocrazia. Ed è chiaro che se non si investono denaro e attenzione in questo settore così strategico per il futuro del Paese le cose non potranno che peggiorare. Non crescerà la cultura, ma la barbarie. Per questo servono insegnanti motivati. Forse bisognerebbe capire che chi si incatena davanti a Montecitorio per chiedere di poter continuare a insegnare dopo molti anni che lo faceva rivendica anche tutta la passione per quel lavoro».
È d’accordo Gianrico Carofiglio, autore per Sellerio del romanzo Le perfezioni provvisorie, nonché attualmente senatore del Pd: «La miopia di questo governo sta nel pensare che ciò che non produce un reddito immediato, come la cultura, valga poco, cioè non valga la pena investirci troppo. Anzi, si taglia. Invece le cose stanno proprio all’opposto: nei momenti di crisi e di difficoltà economiche generali, è nella formazione e nella cultura che bisogna investire. Come stanno facendo governi più lungimiranti del nostro: in Spagna, Francia, Regno Unito, Germania». E anche Michela Murgia (Accabadora, Einaudi) sottolinea che la cultura non può mai essere vista come un valore antitetico a quelli economici: «L’ho capito in questi giorni qui a Venezia, parlando con gli industriali veneti che organizzano il Campiello: esempio di un’economia che valorizza la cultura. Cosa che non si può certo dire di Berlusconi, di Tremonti o della Gelmini». Silvia Avallone, vincitrice del Campiello opera prima con Acciaio (Rizzoli), si spinge ad affermare che se non fosse stato per questo suo fortunato romanzo (tra l’altro, anche secondo allo Strega) probabilmente oggi sarebbe anche lei tra gli insegnanti precari che manifestano in piazza: «Mi sto laureando in Lettere perché da sempre sogno di insegnare nella scuola secondaria. Purtroppo gli amici che si sono laureati in questi ultimi tempi, mentre io rallentavo il ritmo degli esami per scrivere il romanzo, non sono riusciti ad approdare alla scuola, a causa dei tagli agli organici. Mi ritengo fortunata, perché grazie al mio libro sono riuscita a sopravvivere, inventandomi, per così dire, un altro lavoro. Ma mi chiedo che cosa sarà domani. Anche perché non ho rinunciato al mio sogno di diventare professoressa».

l’Unità 5.9.10
Tubi rotti e lavagne multimediali
Così faremo scuola a Palermo
Da quarant’anni (provvisoriamente si fa per dire) un magazzino è stato adibito a succursale dell’istituto dove io insegno. L’estate non è bastata per aggiustare,
nemmeno i vetri...
di Mila Spicola

Prima ora: lezione di federalismo. A partire però dal mitico «caso concreto». Qualcuno potrebbe obiettarmi: in queste ore di urgenze ed emergenze, di protesta del mondo della scuola che monta e cresce, tu te ne vieni fuori con l’argomento più ammosciante, incomprensibile, da addetto ai lavori che esista in Italia? Vi riporto dal cielo alle fogne.
A chi tocca aggiustare la mia scuola? Come dire: è meglio approcciare il problema da un punto di vista sistemico o cartesiano oppure meglio ancora ripartire dai vissuti fenomenologici? Il fatto è che nel corridoio della succursale della scuola dove insegno, e io insegno esattamente nella succursale, ebbene, in quel corridoio esalano i tubi rotti che provengono dai bagni dei maschi. Tra la questione «federalismo» e «il tubo rotto» ci sta in mezzo tutta una galassia. Cominciamo dall’inizio e spero di farla breve: a Palermo su 280 scuole di pertinenza comunale (ormai sono ferratissima in materia: pertinenze, competenze , fondi, finanziamenti, rimbalzi), e cioè elementari e medie, 81 sono in locali in affitto. Quando va bene si va avanti, quando va male va malissimo. Il problema è che va quasi sempre malissimo. La mia succursale è proprio in un locale in affitto. Momentaneamente da quarant’anni: un ex magazzino trasformato in scuola: un ingresso, due corridoi lunghi, ai due lati le aule, in fondo i bagni. Potrebbe essere una camerata di un esercito, un ospedale, un manicomio, un campo di concentramento. Con
nera ironia potrei dire che a volte è un po’ di tutto ciò.
Da quarant’anni nessuno si è preso la briga di effettuare manutenzione ordinaria. Apri oggi, apri domani, anche l’infisso più bello si rompe, l’intonaco si scrosta, i bagni diventano latrine. Lo scorso anno abbiamo avuto la visita di diversi personaggi: scarafaggetti, un topino morto, muffe, e poi riscaldamenti a singhiozzo, e vabbè. Vetri rotti, e vabbè. Acqua dal cielo: sia ringraziato il cielo che ce la manda. Ed è iniziato il minuetto delle responsabilità. Sotto a chi tocca aggiustare tutto ciò: al proprietario? No. Al Comune. No. Alla Regione? No. Allo Stato? No. Ricominciamo dall’ultimo banco. A chi tocca? Al proprietario? «guardi che non vi paghiamo l’affitto», intima il Comune. Ecco. Forse tocca al proprietario. Intanto siamo a febbraio. Piove, fischia il vento, urla la bufera e noi stiamo lì. Intanto il ministro ci manda due bellissime lavagne multimediali. Fatto sta che non abbiamo in questo istante l’aula dove metterla, in succursale almeno. La piazziamo nella sala professori?
Ma sì, dietro la fotocopiatrice guasta, accanto al tavolone, con intorno sedie tutte diverse. No, non è design scandinavo: mancano proprio le sedie e a volte mi capita di trascinarmela dietro, la mia sedia. A me come ai ragazzi. E pure il banco. Manco fosse quello di Marx alla British Library, ancora lì col suo nome e cognome.
La preside inizia a far il suo tipo di rumore: un fax dai toni allarmanti indirizzato al prefetto, al sindaco, all’edilizia scolastica, al patrimonio, al consiglio comunale, al presidente della regione Sicilia, eccetera, eccetera, eccetera.
E poi viene maggio e giugno e la scuola è finita. Durante l’estate li fanno questi lavori è vero, ma solo ieri abbiamo visto cosa, delle cose che ci servivano è stato fatto... Si prospettano guai, doppi turni, riunioni sindacali, genitori allarmati e fax. Fiumi di fax. Si prospettano ragazzini dimenticati in modo ignobile. Qualcuno mi spieghi meglio e bene: il federalismo, il titolo V della Costituzione Italiana (quello della delega amministrativa delle competenze alle regioni anche in materia scolastica), la questione meridionale (saremmo a statuto speciale qua in Sicilia, speciale non si capisce bene in cosa... è una battuta), l’antimafia, la furbizia, il senso del dovere, la saggezza e l’umile buon senso. Entro cinque minuti però, sennò ve lo spiego io. E altro che cinque in condotta. Sarebbero da espulsione da tutte le scuole del regno, come si diceva una volta. Io invece in quella scuola ci devo entrare e ci devo stare. Con 300 ragazzi dal 15 settembre.

l’Unità 5.9.10
L’allarme del figlio di Sakineh: accelerano, vogliono lapidarla
La pena di morte a cui è condannata, sospesa per le pressioni internazionali, potrebbe essere eseguita da un momento all’altro. Lo denuncia il figlio insieme alla sparizione del dossier sull’omicidio del padre.
di Rachele Gonnelli

«Se non ci fossero le pressioni internazionali mia madre sarebbe già morta». Il figlio di Sakineh Ashtiani, la donna iraniana condannata alla lapidazione, da quattro anni nel braccio della morte del carcere di Tabriz, non esclude che l’esecuzione ufficialmente sospesa possa però avvenire nelle prossime ore. Sajjad Ghaderzadeh, 22 anni, ha inviato una lettera di denuncia al sito ito «The International Committee Against Executions» e ha concesso una lunga intervista al quotidiano della sinistra francese Libération. In base alle informazioni ottenute dall’avvocato d’ufficio trramite il passa-parola delle altre detenute pare che Sakineh sia stata anche condannata ad una pena ulteriore per una foto pubblicata da Times di Londra a capo scoperto, cioè senza indossare l’hijab d’ordinanza. Condannata 99 frustate per aver diffuso corruzione e indecenza.
L’IMBROGLIO
Peccato che oltretutto la foto in questione non ritraesse Sakineh ma, a quanto racconta il figlio, un’altra donna. Sajjad non sa spiegarsi perchè il rigoroso quotidiano britannico, che pure si è scusato pubblicamente dell’errore, abbia sbagliato foto che gli sarebbe stata fornita dall’ex legale di Sakineh, l’avvocato Mohammad Mostafei che proprio per aver difeso sua madre è stato costretto a lasciare l’Iran e a rifugiarsi in Norvegia. Il figlio di Sakineh non nutre rancore verso Mostafei neanche per aver recentemente avanzato anche lui dubbi sulla colpevolezza della donna nella complicità per l’omici del marito, il padre di Sajjad. Il ragazzo è fermamente convinto dell’innocenza della madre. E racconta tramite la giornalista franco iraniana che l’ha intervistato di aver perdonato anche il vero assassino di suo padre, Taheri, che ha confessato in lacrime a lui e a sua sorella la verità. L’uomo, con cui secondo la giustizia iraniana Sakineh aveva una relazione adulterina, è libero. Ma questo per Sajjad è giusto, essendosi sposato e padre di una bambina di tre anni.
Sajjad che fa il bigliettaio a Tabriz, la città dove la madre è detenuta ma non può vederla -, scusa tutti. Per lui l’avvocato Mostafei «ha fatto un buon lavoro» e i suoi dubbi sulla colpevolezza della madre sono solo frutto della paura per ciò che può succedere alla sua famiglia in Iran. Non sono basati su prove perché de-
nuncia Sajjad il legale non ha avuto accesso al fascicolo dell’inchiesta sulla morte del padre. Quel fascicolo infatti sarebbe sparito dagli archivi. Il suo nuovo avvocato, Houtan Kian, non sarebbe riuscito a trovarne una copia neanche negli archivi del villaggio di Oskou da dove è originaria la sua famiglia. Per il giovane Sajjad la sparizione delle prove sarebbe la dimostrazione che le autorità iraniane stiano tentando di «aggiustare» il caso per giustificare una sentenza sbagliata e non coprirsi di ridicolo di fronte al mondo. Sajjad sa, sempre dalle altre detenute che i carcerieri minacciano continuamente la madre di morte. Ora le prospettano altre 99 frustate. Sajjad era presente, aveva 16 anni, nel 2006 quando fu sottoposta alla prima fustigazione nel 2006. In carcere da allora poteva visitarla una volta a settimana, il giovedì. Ma i colloqui sono stati sospesi da quando un mese fa è comparsa in diretta nella tv di Stato e ha confessato tutti i crimini di cui è accusata. Una confessione estorta con le torture, il figlio ne è certo. Così come è sicuro che il regime subisce le critiche. Ieri Teheran ha punito il capitano della Roma Francesco Totti per le sue rose a sostegno della campagna per Sakineh. Un mese di oscuramento della squadra per «l’interferenza».

Repubblica 5.9.10
"Ecco casa Freud tra papà Lucian e l’ombra di Sigmund"
Esther Freud, ritratto di famiglia
di Enrico Franceschini

Sigmund, il bisnonno, inventò la psicanalisi: "Dai vecchi mobili salta ancora fuori qualche suo foglietto". Ernst, il nonno, fu un grande architetto. Suo padre, Lucian, è uno dei maggiori pittori viventi: "Davvero ha avuto quaranta figli?". Lei, scrittrice, qui si confessa: "Non mi sveglio al mattino pensando al mio cognome"

Chissà cosa avrebbe commentato il suo celebre bisnonno, considerato che la casa in cui Esther ha traslocato, ad Highgate, è vicina a quella in cui visse il fondatore della psicoanalisi, ad Hampstead, ora diventata un museo. Una coincidenza? Non è lontana nemmeno la casa di Ernst Freud, uno dei figli di Sigmund, a St. John´s Wood, e in fondo anche la casa-studio in cui abita il figlio di Ernst, il pittore Lucian, a Notting Hill, appartiene alla medesima zona di Londra: la parte settentrionale dell´immensa metropoli, la più intellettuale, progressista, influenzata e attraversata nel tempo dalla presenza ebraica.
Sigmund Freud arrivò a Londra da Vienna nel 1938, l´anno in cui l´Austria fu annessa al Terzo Reich, mentre nella Germania nazista esplodeva l´antisemitismo, presagio dell´Olocausto e della Seconda guerra mondiale: sarebbe morto appena un anno più tardi, nella capitale britannica. Suo figlio Ernst Ludwig Freud era un affermato architetto a Berlino, quando nel 1933 sentì che l´aria era pericolosamente cambiata e precedette il padre a Londra, dove ricominciò subito a lavorare con successo: fu lui a restaurare la casa di Hampstead in cui si trasferì Sigmund, quella che adesso è un museo. Ernst morì trent´anni fa. In Germania gli erano nati tre figli, di cui due maschi, uno dei quali, Clement, deceduto a Londra lo scorso anno, è stato un uomo politico e notissimo commentatore radiofonico nel Regno Unito; l´altro, Lucian, nato a Berlino nel 1922, immigrato in Inghilterra con i genitori quando era undicenne, è considerato uno dei maggiori pittori viventi. I suoi quadri di parenti, amici, personalità dello spettacolo, della moda, dell´alta società, spesso ritratti nudi, distesi su un letto o su un divano, a tinte fosche, cariche di drammatico erotismo, sono un´icona dell´arte contemporanea.
L´erotismo che lo contraddistingue non si limita al suo atelier di artista, dove quando è al lavoro rimane chiuso per ore, giorni, indossando un lungo grembiule da macellaio macchiato di vernice, e talvolta poco altro sotto di quello. Lucian Freud ha pure fama di insaziabile dongiovanni, o predatore secondo i maligni. La leggenda afferma che ha avuto quaranta figli, all´incirca da altrettante donne. Mesi fa lo incontrai a un party della Londra bene: c´erano l´attrice Christine Scott Thomas, il cantante Brian Eno, tanti vip, ma la vera star della serata era lui, che a ottantotto anni si aggirava silenzioso fra gli invitati, sguardo rapace, camicia di fuori e cravatta penzolante, seguito da una giovane donna che gli andava dietro come un cagnolino.
«Quaranta figli?», sorride Esther, che è una di loro. Non pare imbarazzata, casomai divertita. «Non saprei il numero esatto. Di certo siamo tanti. Con molti mi sono incontrata, con alcuni abbiamo creato un bel rapporto. Ma sono consapevole che ve ne sono altri di cui nemmeno conosco l´esistenza. Penso che ci incontreremo tutti soltanto dopo la morte di mio padre, davanti a un notaio, alla lettura del testamento».
Esther Freud ha praticamente conosciuto suo padre soltanto dopo avere compiuto sedici anni. Sua madre ebbe una breve relazione con Lucian: «Non stavano già più insieme quando io sono nata», ricorda. «Da piccola andavo a trovarlo un paio di volte l´anno. Ma solo quando sono cresciuta abbiamo cominciato a frequentarci regolarmente e a sviluppare un vero rapporto padre-figlia». I suoi due romanzi più famosi hanno una forte chiava autobiografica: Innamoramenti (pubblicato in Italia da Voland) è la storia di una sedicenne che impara a conoscere il padre; e Marrakech (di prossima uscita per la stessa casa editrice) è il ricordo del tumultuoso viaggio e delle impreviste avventure in Marocco, negli anni Sessanta dei figli dei fiori, di una bambina di cinque anni con la madre, proprio come accadde a lei da piccola. Un libro, quest´ultimo, che in Gran Bretagna la fece entrare nella classifica dei «venti scrittori giovani più promettenti» stilata dalla rivista Granta.
Nonostante i suoi successi nella narrativa e il matrimonio con un affermato attore inglese, David Morissey (l´interprete di Basic Instinct 2 accanto a Sharon Stone), Esther è abituata a suscitare curiosità per il suo cognome. «Del mio bisnonno, naturalmente, ho solo sentito parlare», racconta. «E neanche molto. Mio padre aveva diciassette anni quando Sigmund Freud morì. Si ricorda del nonno, ma ne parla di rado. Dice che era buffo, divertente. Tirava i denti a lui e ai suoi fratelli, quando erano bambini, per gioco. Scherzava volentieri, almeno con loro. Non so quanto il nome Freud abbia pesato su mio padre, se e quanto si sia interrogato sul nonno. Una volta mi disse di avere scoperto un foglietto di carta, apparentemente nascosto in un vecchio tavolo che era stato nella casa di Sigmund e poi era finito nella sua. C´era scarabocchiato qualcosa in tedesco, mio padre lo fece tradurre pensando che potesse contenere un messaggio, magari, fantasticava, le ultime parole di Freud sulla psicoanalisi, dall´aldilà: invece era solo una lista della spesa, o qualcosa del genere, senza importanza, e probabilmente nella fessura del tavolo ci si era ficcato per sbaglio».
Lucian non ha nulla del nonno, secondo sua figlia. «Ne è l´antitesi. Sigmund è lo scopritore dell´inconscio, fruga nei significati reconditi dietro ogni nostra azione. Mio padre è l´uomo più istintivo che io conosca. Per questo non si può criticare il suo comportamento privato, con le donne o con altri: tutto quello che fa, lo fa a pelle, di getto, con incredibile naturalezza. Mio padre non ha mai fatto analisi, non è mai stato da uno psicoterapeuta, non è il tipo». La sessualità, però, è stata un tema al centro degli studi di Freud ed è un elemento cruciale anche dei quadri di Lucian. «È vero. Ma le confido un curioso aneddoto su mio padre. In uno solo dei miei romanzi ci sono pagine di sesso, che descrivono esplicitamente una coppia che fa l´amore. Poiché il protagonista è un artista, lo diedi da leggere a mio padre, per sapere se il personaggio era realistico. Mi disse che l´artista andava benissimo, ma che le scene di sesso, secondo lui, erano troppo esplicite, e non aggiungevano nulla alla storia. Suggerì di tagliarle».
Esther è stata a casa di Sigmund Freud solo dopo che l´edificio era diventato un museo. «La prima volta mi ha fatto un effetto strano. La sentivo estranea e familiare al tempo stesso. Non sono una che si sveglia al mattino pensando: mi chiamo Freud. Eppure, in quella casa, provai un brivido». Ernst Freud morì quando lei era una bambina di sette anni: «Credo di averlo visto in tutto un paio di volte il nonno. Più tardi visitai la nonna, nella casa di St. John´s Wood, volevo sapere di più su di loro, e sul padre di Ernst, su Sigmund. Il genio, e la sregolatezza che spesso l´accompagna, forse si sono tramandati saltando una generazione, nella nostra famiglia: da Sigmund a mio padre Lucian, saltando Ernst, che era un architetto stimatissimo ma una persona molto ordinata e regolare, proprio come me. Mio nonno avrebbe potuto essere un ottimo rabbino, se fosse stato religioso, senonché suo padre, Sigmund, aveva respinto totalmente la fede e la religiosità, e i figli sono cresciuti alla stessa maniera».
Nella casa di Highgate, Esther apre un cassetto, estrae un vecchio quaderno: elenchi di nomi, appunti sparsi, il menù di una cena del 1928, vergati con bella calligrafia da suo nonno Ernst. Dalle pagine ingiallite salta fuori un foglietto piegato a metà: «Una lettera di Sigmund Freud a suo figlio Ernst, avevo dimenticato di averla, non so nemmeno cosa ci sia scritto, né ricordo come l´ho avuta». Cerca di tradurre qualche parola, con il poco di tedesco che ha imparato: una lingua che ha voluto studiare, un legame anche quello con il bisnonno, con il passato. Alle sue spalle, appesa al muro, c´è una grande fotografia: ritrae suo padre Lucian che sta facendo il ritratto a suo figlio Albie. In un angolo della foto si intravede un piede, una gamba: «È la mia, ero seduta per terra nello studio di papà, a Notting Hill, stavo leggendo l´Hobbit a mio figlio, per distrarlo nella lunga seduta di posa». Si sofferma in silenzio a guardarla. È il ritratto di suo padre, grande pittore? O di suo padre che ritrae suo figlio, il più piccolo dei Freud, sebbene porti il cognome del padre? Oppure il vero soggetto dell´immagine è quello fuori quadro, è quello che guarda non visto dall´esterno, è lei, Esther Freud? «Forse è il ritratto di tutti e tre. Non capita spesso che più generazioni della nostra famiglia si ritrovino insieme, nella stessa casa». Casa Freud. La casa che Esther infine ha trovato, e che ha smesso di sognare.

"La scuola intontisce"
n realtà non crediamo alla possibilità di una visita a Vienna da parte di Oli e di Henni, anche se li vedremmo volentieri. Il mio viaggio per il matrimonio a Berlino è infatti molto incerto.
Se devo ritagliarmi tre mesi di ferie, qui non posso perdere nemmeno un giorno per la carriera.
A casa tutto bene. Anna è senz´altro molto allegra, benché nel suo futuro non veda nulla di ciò che desidera. Heinele cresce bene, in generale ci si chiede se la scuola riuscirà a intontire anche questo bambino. Harry si sta riprendendo dall´itterizia per un´influenza.
L´ultima foto di Henni con Gabriel non era buona, mostra una decadenza dell´arte di Oli. Quanto a Michael, in lui non c´è ancora nulla di autentico.
Per il resto Vienna è molto ripugnante.
Cari saluti a te e, tramite te, a Lux
Tuo padre
(Traduzione di Alessandra Henke. Trascrizione di Harald Toniatti. Si ringrazia per la collaborazione l´Archivio di Stato di Bolzano)

Repubblica 5.9.10
La cultura e l’aria di libertà
di Adriano Prosperi

Vorrei dire due parole sulla questione aperta – e chiusa – da Vito Mancuso. Lo faccio sfidando consapevolmente un forte senso del ridicolo. Che l´opinione di qualche saggista e di qualche professore sulla propria collaborazione con le edizioni Einaudi e Mondadori possa avere un qualche interesse per i lettori o addirittura un peso politico è – secondo me – un seducente autoinganno. Ma il problema soggettivo e morale esiste: e vorrei spiegare come l´ho personalmente affrontato. Lo faccio in pubblico perchè mi preoccupa il clima che sta montando intorno a un ambiente di lavoro che conosco e che mi è caro: quello, appunto dell´Einaudi. Anni fa , quando avvenne il passaggio di proprietà della Mondadori e dell´Einaudi, la scelta di andarsene da parte di autori storici come Carlo Ginzburg e Corrado Stajano pose anche agli altri il problema della compatibilità tra il lavoro intellettuale e il rapporto con la proprietà di Berlusconi. La mia scelta privata, privatissima, fu quella di continuare in una collaborazione da cui avevo avuto ben più di quanto potessi sperare di riuscire a dare. Pensai allora che la corruzione di un sistema si ostacola cercando di contendergli il terreno, di salvare quello che vale la pena di trasmettere. Avevo in mente il modo in cui Benedetto Croce aveva risolto il problema – ben più grave – del suo rapporto con l´Italia fascista: espatriare o restare? Un problema che qualcuno si è posto di nuovo in questi anni e che forse potrebbe diventare attuale se andranno in porto le «riforme» della giustizia, l´informazione, la scuola e l´università concepite dal regime attualmente dominante. Arginare la corruzione, salvare gli strumenti e la memoria del lavoro culturale. Questa fu la giustificazione morale che mi detti e che ancor oggi mi sembra valida. L´Einaudi valeva la pena. Einaudi era allora - e continua a essere oggi - una casa editrice con una identità scolpita nel suo catalogo, con una storia speciale nel contesto della cultura italiana: una storia condivisa e mantenuta in vita da una folla di dirigenti, redattori, impiegati, collaboratori, autori, traduttori, correttori di bozze e – non certo ultimi – da una rete di librai e di venditori rateali, tramite prezioso con la comunità dei lettori. Farne parte, sia pure a livelli minimi, era – è – un onore: un onore per se stessi, un qualcosa che rincuora, non una patacca di appartenenza a una scuderia di cavalli di razza. Perché una cosa va detta a scanso di equivoci: non si è «autori di qualcuno»; non si è una merce posseduta da un padrone. Nell´umbratile campo dove lavoro l´unica cosa di cui si ha bisogno è la libertà. Quell´aria di libertà che ho ritrovato nell´ambiente di «Repubblica» non è diversa da quella che si è respirata all´Einaudi in tempi ben più difficili di quelli presenti e che ancora vi si respira.

Repubblica 5.9.10
Gli italiani di Mazzacurati cialtroni ma pieni di passione
Il regista firma una commedia amara con Orlando e Battiston
di Paolo D’Agostini

VENEZIA - Una banda di disgraziati, un´accozzaglia di cialtroni, un raccogliticcio gruppo di tipi votati alla sconfitta. Ma qualcosa in fondo a loro li fa sentire uniti e uomini, li costringe almeno per il soffio di un momento a riscattare la propria dignità. Vi suona? È quello che avete già visto, riso e pianto, parecchie volte nel cinema italiano. I soliti ignoti, La grande guerra, I compagni, L´armata Brancaleone. I film di Mario Monicelli. Carlo Mazzacurati, come Paolo Virzì, cura con la passione (già, La Passione, recita il titolo: più "parola chiave" di così) di un figlio riconoscente ma anche deciso a fare di testa sua l´eredità che gli è toccata. Che si è scelta.
Silvio Orlando è (come nel Caimano) un regista fuori corso e fuori mercato, fuori tutto e insomma alla canna del gas. Si chiama Gianni Dubois. Mentre spunta la miracolosa e pietosa offerta di ideare una storia per una divetta televisiva (Cristiana Capotondi) decisa a farsi nobilitare dal grande schermo, succede che Dubois deve scapicollarsi nel bel paesino toscano dove, chissà come lui così spiantato, possiede una bella casetta antica. L´impianto idrico fatiscente della bella casetta confina purtroppo con la parete affrescata del duomo. Con il più disarmato dei sorrisi e le più accattivanti professioni di ammirazione per lui, la sindachessa (Stefania Sandrelli) e l´assessore (Marco Messeri) lo ricattano: o "il maestro" si presta ad allestire l´annuale e consueta sacra rappresentazione del Venerdì Santo oppure parte una denuncia alle Belle Arti. Mancano cinque giorni. Disperato, Dubois, dice sì. Arrampicandosi sugli specchi con quelli che aspettano la storia per la divetta e che lo trattano come una merda.
Il materiale umano a disposizione è quello che è. Il più cane di tutti è la star della tv locale (Corrado Guzzanti), attore cane che recita da cane anche le previsioni del tempo, suo cavallo di battaglia. Dovrà essere lui (ma, colpo di scena finale, non sarà) Gesù. La svelta camerierina polacca del bar (Kasia Smutniak) teneramente attratta dallo sgualcito Dubois, farà la Maddalena. Fido assistente sarà Ramiro (Giuseppe Battiston più grande che mai), ex galeotto conosciuto da Dubois quando il regista ha tenuto un seminario in carcere, provvidenzialmente incontrato mentre gira da queste parti con un suo miserevole spettacolino di strada. Si può immaginare il vortice di malintesi. E si può immaginare il sentimento di Dubois, schifato per essere finito tanto in basso.
Ma ci siamo. La processione deve partire, le strade e le stazioni dove la processione si fermerà per rappresentare i vari quadri, inclusi ovviamente l´Ultima Cena e il Golgota, sono gremite di gente. L´attore cane è fuori uso dopo un incidente. C´è da sostituire Gesù. L´abbraccio tra Orlando e Battiston porta in sé la commozione e la solidarietà dell´ultimo estremo gesto che affratella i fanti infingardi Busacca e Jacovacci. Non cambieranno le loro vite, tantomeno cambierà la Vita e la Storia. Ma una luce, un lampo di riscatto c´è stato e resterà indimenticabile.
Non è un "film serio", è tutto per scherzo. Ed è tutto così mediocremente rinchiuso dentro la futilità del fare spettacolo, oltretutto a livelli meno che bassi. Ma Il Grande Dittatore non era uno scherzo? E Vogliamo vivere di Lubitsch non era una pagliacciata? Un bel film dedicato a tutti coloro che "ci mettono l´anima". Di qualsiasi cosa si tratti, è una questione di principio. E di dignità.

Corriere della Sera 5.9.10
Il saggio di Yerushalmi
Spagna, 1492: l’antisemitismo prima di Hitler
di Stefano Jesurum

I nazionalismi c’entrano poco o nulla, i processi politici o l’affermazione di una visione secolarizzata e laicizzata della Storia pure. Ciò che conta veramente è «il sangue», la discriminante «fisica», quell’essere, e proprio quello, uomo e donna, vecchio e bambino. Non è dunque vero che antigiudaismo religioso (cristiano) e antisemitismo razzista siano momenti storico-ideologici disgiunti: insomma, è stata l’Europa moderna la grande incubatrice di Auschwitz. Di conseguenza, il pregiudizio razziale, l’incubo del «meticciato» — con cui ancora oggi ci troviamo spesso a fare i conti — sono il nucleo di un percorso che agisce nel profondo della (nostra) cultura. Ecco perché il monitoraggio continuo diventa obbligo, etico prima ancora che politico. È questa la dirompente lettura lasciataci da Yosef Hayim Yerushalmi (lo storico della Columbia University di New York scomparso l’anno scorso) nel suo Assimilazione e antisemitismo razziale: i modelli iberico e tedesco (traduzione di R. Volponi, introduzione di D. Bidussa, Giuntina, pp. 74, 8). Una lezione che dice come tra la Spagna della Grande Espulsione (1492) e la Germania di Hitler o l’Italia di Mussolini esista una comunanza tragica, la pretesa purezza della stirpe. Lo sottolinea Bidussa: «La limpieza de sangre non è l’ultimo residuo premoderno di un’Europa altrimenti volta verso la modernità. È parte del processo di costruzione dell’Europa moderna, dell’idea di nazione che la caratterizza». Ne discende che se alla base della violenta unificazione religiosa attuata in Spagna e Portogallo da Isabella la Cattolica c’era una concezione dell’ebreo identificato non su basi religiose ma fisiche, quello è l’imprinting su cui, consciamente o no, ci muoviamo a tutt’oggi nei confronti delle minoranze. Lo spiega Yerushalmi: «Nel Medioevo l’intera Europa cristiana aveva percepito il suo problema ebraico essenzialmente in una stessa ottica: quella della conversione. Gli ebrei erano un gruppo a sé perché rifiutavano ostinatamente di accettare la verità cristiana dominante. Se si fossero convertiti, sarebbero scomparsi come entità distinta e il problema, per definizione, avrebbe cessato di esistere. Di tutti i Paesi, la Spagna era quello che era giunto più vicino a realizzare il sogno paneuropeo. Per ironia della sorte, solo a quel punto un numero crescente di spagnoli cominciò a capire, con una sensazione di forte trauma, che, ben lungi dall’aver risolto il problema, le conversioni di massa lo avevano solo acerbato. Fino a quando erano rimasti all’interno della loro antica religione si era anche potuto contenerli attraverso leggi restrittive, entro limiti ben definiti. Ora, all’improvviso, l’intero corpus della legislazione antiebraica non era più applicabile nei confronti dell’enorme gruppo di conversos. Tecnicamente e legalmente cristiani, essi potevano fare ciò che volevano, e per molti spagnoli ciò era intollerabile». Il «nemico» da «esterno» si era tramutato in «interno». Lezione importante per il dibattito sulle integrazioni possibili.

Corriere Fiorentino 5.9.10
Primo giorno di scuola, ed è subito assemblea: Cgil contro la Gelmini
Tagli e precari: lezioni nel caos il 15 settembre
di Alessio Gaggioli

Il primo giorno di scuola non sarà il 15 settembre, ma il 16. Cgil, Cisl (i sindacati più forti tra gli insegnanti) e Gilda hanno indetto proprio per il 15, e non caso, l’assemblea sindacale aperta a tutto il personale docente e ata di tutti gli ordini della scuola statale di Firenze e provincia. Quattro ore— dalle 8,30 alle 12,30— di quella che non sarà una semplice riunione, perché la sede dell’assemblea sarà il Saschall. Non si tratterà formalmente di uno sciopero, ma la chiusura delle scuole nel giorno della riapertura è pressoché sicura. Proprio in questi ultimi giorni, infatti, viste le adesioni di insegnanti e bidelli, stanno informando le famiglie dell’obbligato posticipo dell’inaugurazione dell’anno scolastico delle scuole dell’infanzia, elementari, medie e superiori.
«La scelta di fare l’assemblea il primo giorno del nuovo anno scolastico ha un forte valore simbolico— dicono i sindacati sul volantino che circola da settimane nelle scuole— perché vogliamo dare all’opinione pubblica un segnale chiarissimo del forte ridimensionamento della scuola statale causato dalla politica governativa, tesa da un lato alla sua destrutturazione e dall’altro a favorire la privatizzazione del servizio». La protesta riguarda ovviamente l’eccessivo numero di precari e il presunto taglio degli organici. Di questo si parlerà nell’assemblea del 15. Da cui però ha deciso di tirarsi indietro la Uil— e la Cisl che aderirà solo all’assemblea del Saschall e a Pisa, «le due situazioni più problematiche, due scelte mirate salvo ripensamenti perché abbiamo notizie di stampa che in questi giorni ci sarebbe stato un adeguamento degli organici», spiega la segretaria regionale Cristina Zini— che a Firenze organizzerà un’assemblea sindacale lo stesso giorno, ma alle 17 — per non incidere sul servizio — nella sede di via Corcos.
«Stavamo lavorando di comune accordo su una iniziativa di protesta— spiegano i responsabili della Uil, Cristiano Di Donna e Alessandro Rizzello — ma non interrompere il servizio e soprattutto organizzare una manifestazione di quel tipo: un po’ troppo politica per i nostri gusti e a cui parteciperanno anche assessori che interverranno (annunciata anche la presenza dell’onorevole del Pd Rosa De Pasquale, ndr) ». Al Saschall ci saranno gli assessori alla scuola del Comune Rosa Maria Di Giorgi e della Provincia Giovanni Di Fede. «Sono molto perplessa sulla forma che è stata scelta che produrrà un forte disagio alle famiglie. Ma sono stata invitata e ci sarò perché ritengo — spiega Di Giorgi— si debba fare pressione contro quella che non è una riforma, ma solo una manovra economica».
«Non aderisco alla manifestazione, partecipo e basta — replica Di Fede — perché è giusto che io segua un dibattito sui problemi dell’istruzione. Esercito comunque un ruolo politico, ma istituzionale che va oltre gli schieramenti. E dunque cerco di fare il bene della scuola. Se interverrò spiegherà cosa stiamo facendo sulla Provincia, non terrò certo un comizio». Assemblea o manifestazione (politica) con il capro espiatorio Gelmini? «La politica sta in tutto, anche in quello che mangiamo— risponde Antonella Velani, segretaria provinciale per la Cisl— noi abbiamo invitato i nostri interlocutori istituzionali che sono gli assessori, a prescindere dal colore di appartenenza».

Il Sole 24 Ore Domenica 5.9.10
Dietrotogie
Hitler, leggende e Dna
L'uso idelogico della scienza arriva a manipolare lke teorie genetiche per affermare la divisione in razze e le origini ebraiche del Fuhrer
di Anna Foa

La notizia apparsa nei giorni scorsi su alcuni giornali che Hitler avesse origini ebraiche è una di quelle leggende che da decenni riappaiono periodicamente sulla stampa. Essa attrae immediatamente l'attenzione dei lettori per il suo carattere dietrologico, qualità che piace immensamente ai più, sempre ansiosi di scoprire quali sono le cause occulte delle cose. In più essa ha un evidente carattere antisemita, vuole cioè dimostrare che gli ebrei si sono sterminati da soli, che era ebreo anche chi ha concepito la Shoah. Argomentazione, sia detta en passant, che è stata fatta anche a proposito dell'Inquisizione spagnola, ovviamente un'invenzione ebraica, e del sommo inquisitore Torquemada, di cui si è indagata la possibilità di una sia pur lontana origine ebraica. Anche in questo caso, sarebbe stato ebreo, sia pur convertito, tanto chi saliva sui roghi che chi accumulava la legna per il rogo! Idea che ben corrisponde all'immagine prettamente antisemita di un ebraismo onnipresente e tentacolare, all'origine di ogni evento. Un antisemitismo, inoltre, in qualche modo inconsapevole, che non odia gli ebrei, ma si limita a svelarne l'inquietante presenza. E una tesi che conforta perfino l'idea, diffusa questa nel mondo ebraico, dell'esistenza di tanti ebrei antisemiti e negatori di sè stessi.
A rendere però più discutibile e pericolosa questa ennesima versione della leggenda è l'abito scientifico che riveste: secondo il «Daily Telegraph» che riprende a sua volta la rivista belga «Knack», uno studio condotto sul Dna di 39 parenti di Hitler, sulla cui identità viene tenuto un rigoroso segreto per non esporli al pubblico ludibrio, ma che hanno gentilmente prestato la loro saliva per questa ricerca, ha individuato nel loro Dna un cromosoma raro fra gli occidentali e comune fra gli ebrei e i berberi. Il problema non è l'evidente malafede dell'operazione, rna l'uso che viene fatto della scienza: invece di essere la dimostrazione dell'infinito meticciato degli esseri umani, il Dna diventa così il sostegno scientifico alla teoria di una divisione degli esseri umani in razze. Anche Sarrazin, ricordiamolo, nelle sue affermazioni che gli sono costate il posto e la reputazione ha usato l'espressione "un unico gene" per attribuire agli ebrei una diversità naturale. Dietro il linguaggio scientifico male interpretato riemerge una cultura della razza che credevamo sconfitta per sempre dai suoi terribili esiti nella Shoah ma che nel secolo precedente aveva egemonizzato la cultura europea.
Eppure, le recenti teorie genetiche portano nella direzione opposta. L'indagine sul genoma ha dato un'immagine unitaria del genere umano: l'origine è una sola, le differenziazioni appartengono alla storia. Gli studi dei genetisti dimostrano che ci sono differenze genetiche più sensibili tra un ragioniere di Cmno e il suo vicino di casa, che fra lo stesso ragioniere e un cinese. Le differenze, ci spiegano, sono tra individui, non tra "razze". Il colore della pelle è solo una tra le infinite variabili della diversità fra individuo e individuo. Eppure, se mi capita di toccare l'argomento a lezione, i miei studenti si stupiscono. Semplicemente, non lo sanno, nessuno gliel'ha mai spiegato a scuola. Se questo succede in una facoltà universitaria umanistica, figuriamoci a livello di cultura diffusa. Nella testa dei più, le argomentazioni della scienza forniscono il supporto a un'immagine dell'umanità sostanzialmente simile a quella di un secolo fa. Scienza è uguale a natura, a immutabilità, a necessità. La sfera della libertà e della infinita mutabilità è, nell'immaginario dei più, quella dello spirito, dell'etica, della religione e non altra. Si può essere antirazzisti per motivi etici e religiosi, ma non scientifici: se si parla di Dna ecco che si riaffaccia l'idea di razza, l'idea che i geni dimostrino la diversità di questo o quel gruppo. E un problema di mentalità oltre che di vera e propria ignoranza, e per cambiare le mentalità ci vogliono tempi lunghi. Nel frattempo, non stupiamoci di vedere geni e Dna utilizzati come armi improprie, forse per dimostrare, dopo Hitler, che anche Goebbels ed Eichmann erano ebrei e che i geni degli ebrei, portatori di una diversità immutabile, serpeggiano occulti tra noi.