giovedì 9 settembre 2010

Corriere della Sera 9.9.10
Bersani si prepara alle primarie Vendola c’è, Chiamparino incerto
di Maria Teresa Meli

Il leader pd convinto che il sindaco di Torino rinuncerà

ROMA — «Questa non è la Camera dei Deputati, ma un manicomio e noi dei pazzi che in una confusione totale passiamo le giornate in congetture senza senso su quello che accadrà, senza sapere che succede veramente dall’altra parte». Seduto nel cortile di Montecitorio insieme ad alcuni deputati amici, Arturo Parisi regala questa fotografia della situazione. Nel Pd ci si interroga — a vuoto — sul futuro politico che verrà. L’altro ieri il caos in quel partito era tale che qualche dirigente ha cercato il direttore del Tg1 Augusto Minzolini (sì, proprio lui, quello che i Democratici criticano spesso e volentieri) nella speranza di conoscere le reali intenzioni di Berlusconi.
Il Pd assiste alla partita del centrodestra con la paura che, nonostante tutto, alla fine si vada veramente alle elezioni in tempi rapidi. E perciò, pur facendo i dovuti scongiuri, a Largo del Nazareno si ragiona anche su questo scenario. Quello del governo tecnico è definitivamente tramontato e, comunque, è stato agitato più per tattica che perché ci si credesse sul serio. «Se Berlusconi e Bossi vogliono andare al voto anticipato, non ci sono margini: ci si va», confidava ieri a un amico il vicecapogruppo al Senato Nicola Latorre.
Ma come andare al voto? Il Pd ha il problema delle alleanze, innanzitutto. Ieri Veltroni ha riunito i suoi proprio perché è preoccupato che il partito abbandoni definitivamente la sua «vocazione maggioritaria» e si butti in una sorta di Unione, ancor più confusa di quanto lo fosse quello schieramento. I segnali, secondo i veltroniani, ci sono tutti: basti pensare che Ferrero e Diliberto si dicono ben felici di allearsi con il Pd, ma aggiungono che, in caso di vittoria elettorale, non entreranno mai nel governo. Intanto nessuno dà per scontato il fatto che Di Pietro si allei con il Partito democratico. «Potrebbe andare da solo», dicono al Pd. E non sanno se questo sia un bene o un male.
Sulle alleanze qualche parola dirà Bersani, nel giorno di chiusura della Festa Democratica, ma non scioglierà tutti i nodi perché è ancora presto per farlo. Già, nel Pd non si è persa del tutto la speranza di agganciare Casini: «La partita non è chiusa», spiegava l’altro giorno il segretario ad alcuni parlamentari. In questo caso, ma solo in questo caso, non si terranno le primarie, a cui, com’è noto, il leader dell’Udc è allergico. Altrimenti, almeno questo punto è stato stabilito: per scegliere il candidato premier si passerà attraverso queste consultazioni. Anche perché rappresentano un passaggio obbligatorio se si vuole ottenere che Nichi Vendola scenda in campo alleandosi con il Pd.
Primarie, dunque. Probabilmente anche se la situazione dovesse precipitare nel giro di poco tempo. Primarie a cui si presenterà sicuramente Bersani. Il segretario ci crede e ha preparato non da ora la sua candidatura. È convinto di essere pronto per una sfida di questo genere. E sembra non dare troppo peso all’ipotesi che possa scendere in campo anche Sergio Chiamparino. Il sindaco di Torino — è il ragionamento che fanno sia Bersani che D’Alema — è molto bravo, ma da Roma in giù non è conosciuto. Contro di lui gioca anche un altro fatto: è sponsorizzato da Walter Veltroni e da un mondo editoriale e imprenditoriale che il segretario del Pd e il presidente del Copasir guardano con un certo sospetto. Insomma, per farla breve, Bersani è convinto che se scende in campo lui, Chiamparino, alla fine non si candiderà. Scontata, invece, la decisione di Vendola di presentarsi alle primarie. Ma al Pd ritengono di avere ancora un apparato tale da mobilitare la gente per il segretario.
Nel frattempo, in attesa di capire se si andrà al voto o no, in casa democratica si tifa per Fini. «Mai avrei pensato di passare più di un’ora ad ascoltare il suo discorso. È una persona di grande dignità», ammetteva ieri Livia Turco. Ragionamenti come questi mandano su tutte le furie Beppe Fioroni: «Non possiamo passare per quelli che considerano Fini il loro Messia. Se non vogliamo andare a sbattere, finiamola con questi giochi e prepariamoci alle elezioni, dimostrando di non averne paura».


l’Unità 9.9.10
Intervista con Achille Serra
Clima pericoloso. Ma
Pd lontano dal suo popolo
Il senatore democratico: queste manifestazioni prendono corpo quando c’è il caos quando c’è un governo che non governa e quando i partiti non capiscono più la loro base
di Claudia Fusani

C’è un clima molto pericoloso per la democrazia. Un clima di violenza che mi fa paura...». E se la paura entra nella pelle di un ex prefetto, ex questore, ex capo di squadra mobile, di uno che, prima di diventare senatore, ha passato la vita nelle questure e nelle prefetture di mezza Italia, che ha vissuto il terrorismo e ha fronteggiato la criminalità organizzata, questa paura è qualcosa di dannatamente serio che non può più, neppure per un secondo, essere sottovalutata. Achille Serra, terzo episodio di intollerenza e aggressione in meno di una settimana alla Festa nazionale del Pd. Un crescendo cominciato con Marini, andato avanti con Schifani e oggi con Bonanni. Che succede? «Queste manifestazioni prendono corpo quando c’è il caos, quando c’è un governo che non governa e, mi spiace dirlo, i partiti che non capiscono più il loro popolo. Tutti i partiti, a cominciare dal Pd visto che questi fatti, gravissimi, sono accaduti alla tradizionale Festa nazionale del partito». Vengono in mente brutti pensieri... «Diciamolo pure, viene in mente la contestazione di Luciano Lama alla Sapienza nel 1977 (17 febbraio, ndr). Allora erano i giovani di Autonomia operaia. Oggi non lo sappiamo, comunque giovani, cittadini, lavoratori incavolati neri. La contestazione a Lama fu il battesimo del Movimento del ‘77, con tutto quello che di buio, terrore, sangue e tensioni significò per l’Italia. Oggi non lo sappiamo, ancora. Ma dobbiamo vigilare. E noi, classe politica, dobbiamo interrogarci e trovare in fretta risposte».
Lei individua, anche, un problema politico, nel Pd. Ma prima di questo forse a Torino c’è stato un problema di poli-
zia e di sicurezza. Enrico Letta, ieri sul palco, ha puntato il dito sul questore. «Chiariamoci subito. L’ordine pubblico prevede tre fasi: intelligence, cioè acquisizione di informazioni, sapere se e cosa si sta muovendo per una certa occasione pubblica, un comizio o un corteo; prevenzione, cioè la Digos in strada in grado di distinguere tra chi vuole solo manifestare, e che deve avere il sacrosanto diritto di farlo, e chi invece ha un lacrimogeno in tasca; infine presenza degli uomini in divisa al comizio. Allora, a Torino è chiaro che c’è stata zero intelligence e scarsa prevenzione. Circa la massiccia presenza di uomini in divisa, bisogna chiarirsi perché è troppo facile scaricare sempre sulla polizia. Se ci sono troppi agenti, ci accusano di presidiare i liberi comizi democratici...». Qualche errore nella predisposizione dei servizi delle forze dell’ordine forse c’è stata?
«Qualcosa è stato sottavalutato. È il terzo episodio, c’è stato un crescendo preciso. Ma questa è l’analisi più semplice e anche scontata da fare. Vorrei andare oltre, prima che sia troppo tardi».
Oltre, dove?
«Non basta accusare chi protesta di essere squadrista. O puntare il dito sui servizi di polizia. Questi sono solo slogan. Non ho sentito nessuno dire che queste contestazioni sono prima di tutto attacchi al Pd. Provocazioni e attacchi. Servono iniziative, serve capire cosa sta succedendo». Sono attacchi alle istituzioni.
«Certo, tra cui il Pd. Le persone percepiscono la confusione e la denunciano. In modo sbagliato, ma questo stanno facendo». Un difetto di sintonia con il popolo? «C’è un muro sempre più alto. Non c’è, oppure non viene compreso, un progetto di risanamento economico, qualcosa per abbassare le sperequazioni dei redditi, sulla sicurezza, sulla legalità e sulle giustizia. Non si capisce la linea. Non si contestano certe baggianate della propaganda del centro destra, ad esempio i proclami del ministro Maroni sulle cifre degli arresti dei boss. La verità è che a Reggio Calabria l’ndrangheta è così forte da permettersi di fare attentati dentro il palazzo di giustizia e che la camorra può arrivare ad uccidere un sindaco simbolo come Vassallo. C’è il caos, si stracciano i contratti nazionali di lavoro, i telegiornali parlano di elezioni e delle pernachie di Bossi. La gente è nera, va ai dibattiti del suo partito e contesta. Siamo davanti a un crescendo pericoloso che richiama momenti difficili del passato. Attenzione».

l’Unità 9.9.10
Condanna Fiom «La democrazia è irrinunciabile»
Quattro ore di sciopero e l’invito a Fim e Uilm a congelare le trattative sulle deroghe al contratto in attesa di un referendum dei lavoratori. È la proposta Fiom dopo la disdetta del contratto 2008 da parte di Federmeccanica.
di Giuseppe Vespo

«Per la Fiom la democrazia è un principio irrinunciabile, basato sul confronto e sulla libertà di poter esprimere pubblicamente le proprie opinioni». Così le tute blu Cgil condannano la contestazione subita ieri dal leader Cisl Raffele Bonanni alla festa del Pd a Torino. Un messaggio chiaro che arriva alla fine di una giornata ancora segnata dalle polemiche sulla disdetta da parte di Federmeccanica del contratto nazionale dei metalmeccanici del 2008.
REFERENDUM
A questo proposito ieri si è riunito il comitato centrale del sindacato guidato da Maurizio Landini, che ha approvato la linea indicata dal suo segretario generale. Contro lo strappo degli industriali, il documento votato dalla maggioranza del comitato delle tute blu indice quattro ore di sciopero entro il 16 ottobre, giorno della manifestazione nazionale a Roma. La Fiom propone inoltre a Fim e Uilm di sospendere le trattative con Federmeccanica per chiamare ad un referendum sulle deroghe al contratto tutti i lavoratori. Quindi l’invito alla Cgil, affinché si mobiliti contro «l’attacco ai diritti», e la convocazione dell’assemblea nazionale dei delegati entro gennaio, in modo da preparare una nuova piattaforma per il rinnovo del contratto delle tute blu.
«Perché la disdetta di martedì conferma che il vero contratto di categoria è quello firmato nel 2008». Il parlamentino del sindacato è stato chiamato ad esprimersi su due proposte: quella dal segretario Landini, che ha ottenuto 92 voti (il 79% dei consensi), e quella dell’epifaniano Fausto Durante espressione della minoranza votato da 26 rappresentanti. Quest’ultimo, contrario al «muro contro muro», proponeva a Fim e Uilm di ripartire da zero: riaprire un tavolo e scrivere un nuovo contratto nazionale.
Ha prevalso la linea maggioritaria, che chiede dunque ai metalmeccanici di Cisl e Uil di rimettere tutto nelle mani dei lavoratori: indire un referendum sulle deroghe al contratto nazionale e sottostare poi tutti all’esito della consultazione. Una soluzione subito bocciata dalla Uilm, secondo cui il contratto nazionale dei metalmeccanici esiste già. È quello rinnovato -se nza la Fiom lo scorso anno.
Landini ha quindi ribadito che la disdetta di Federmeccanica è un atto «grave e irresponsabile», e per questo «siamo anche pronti al Tribunale. Perché ha sottolineato vogliono cancellare il contratto nazionale di lavoro». Per il sindacalista, «Confindustria ha ceduto al ricatto della Fiat che aveva minacciato di uscire dal sistema confindustriale», se non avesse avuto mani libere su Pomigliano. Un’accusa respinta al mittente da Emma Marcegaglia, che ha attaccato la Fiom («sono loro il problema»). Per la numero uno degli industriali la disdetta «è solo un atto di chiarezza», perché un contratto vigente c’è, è quello del 2009. Sulla stessa linea anche il ministro Sacconi.
Ma è proprio contro quest’asse, e più in generale contro l’«attacco ai diritti» che non riguarda solo i metalmeccanici, che la Fiom chiede alla Cgil di «pensare a forme di mobilitazione fino ad arrivare, se necessario, allo sciopero generale». Intanto a mobilitarsi ci hanno pensato gli operai dell’indotto Fiat di Grugliasco, Torino. Contro lo strappo sul contratto del 2008 alla Lear e all’Itca hanno già incrociato le braccia un’ora per ogni turno.

l’Unità 9.9.10
Lottare per il futuro
Noi studenti vogliamo la scuola pubblica
di Sofia Sabatino

Questo governo sta letteralmente distruggendo la scuola pubblica. L’attacco che si sta mettendo in campo non ha precedenti nella storia del nostro paese. Stanno, senza troppi convenevoli, smantellando ogni tassellino che con sforzi disumani, era stato messo in piedi da docenti, studenti e genitori che amano e difendono la scuola pubblica. La cosa peggiore che questo sfacelo viene attutito e celato da una fortissima campagna mediatica che la Gelmini, e questo governo in generale, hanno messo in campo. Il taglio di 8 miliardi di euro in 3 anni approvato dalla scorsa finanziaria, dovrebbe terribilmente stonare con l’idea di scuola che dice di portare avanti il nostro ministro: una scuola “meritocratica”, dove finalmente si sono abbandonati i buonismi del ‘68 e che predilige prima di tutto la qualità. Invece ci troviamo davanti ad una gigantesca psicosi fra la realtà che il nostro ministro descrive, e quello che ogni giorno si palesa davanti ai nostri occhi: una scuola pubblica che non è più pubblica, privata di tutto, che non ha neanche la possibilità di svolgere le sue funzioni ordinarie, figuriamoci la funzione di emancipazione sociale e azzeramento delle differenze fra gli individui.
Noi studenti ci chiediamo come faremo tra poche settimane a rientrare a scuola, con i nostri insegnanti, che fino all’anno scorso erano seduti nelle nostre aule, in presidi ̆ ̆permanenti e scioperi della fame, con delle scuole a cui sono stati azzerati tutti i fondi, nel caos più totale degli indirizzi e delle sperimentazioni scomparse, con meno ore ma gli stessi programmi e le stesse materie, senza laboratori, con costi esorbitanti a carico di noi studenti e delle nostre famiglie, con edifici fatiscenti su cui anche quest’anno non è stato speso un euro.
Si sta mettendo in atto una vera e propria svendita della scuola pubblica, che nonostante rimanga pubblica di facciata, nella sostanza viene depauperata, esautorata dalle sue funzioni. Siamo ritornati in un’Italia che speravamo aver abbandonato per sempre dopo tante lotte, un’Italia in cui l’abbandono scolastico cresce perché mandare un figlio a scuola costa troppo, in cui si lascia la scuola perché non ci si può permettere di recuperare tre insufficienze, in cui a parità di costi, il servizio privato (soprattutto le scuole private per cui fioccano finanziamenti statali) è sicuramente più funzionale di quello pubblico e allora ecco che il pubblico anche se rimane pubblico si svuota di significato. È per questo che dal primo giorno di scuola noi studenti della Rete degli studenti partiremo con delle azioni di protesta che proseguiranno per tutto l’anno scolastico, con una grande mobilitazione studentesca nel mese di ottobre e con la data del 17 novembre, giornata mondiale dei diritti degli studenti.

il Fatto 9.9.10
I precari della scuola in piazza per un lavoro
Contestato Dario Franceschini, “Non vogliamo baniere di partito, adesso aiutateci a far valere i nostri diritti”
di Caterina Perniconi

Una protesta senza bandiere. Ci tengono talmente tanto i precari della scuola da contestare alcuni politici scesi a portare la loro solidarietà alla manifestazione di piazza Montecitorio.
La pioggia rende difficile la riuscita della mobilitazione, ma in molti hanno deciso di raggiungere la Capitale per far sentire la loro voce di disoccupati della scuola. Una volta erano precari, dopo i tagli della nuova riforma varata dal ministro dell’Istruzione Mariastella Gelmini, non hanno più un incarico. Ma non permettono a nessuno di mettergli il cappello in testa, così si sentono più forti. “Siamo qui grazie al passaparola, alle convocazioni e non perché invitati da partiti o sindacati”. Eppure di un aiuto dalla politica hanno bisogno: “Portate il nostro problema in Parlamento”, chiede Caterina Altamore al presidente dei deputati del Partito democratico Dario Franceschini. La precaria, dopo lo sciopero della fame per far valere i propri diritti, oggi è una delle animatrici della protesta, assieme al Coordinamento dei precari e alla Rete precari della Scuola. Ma c’è chi urla: “Dovete cancellare il decreto Bersani sulle fondazioni nelle scuole perché noi non vogliamo i privati”.
“È normale che siano nervosi – ha detto Franceschini – sono insegnanti che non vedono riconosciuti i loro diritti e sono stati traditi dallo Stato. Noi non vogliamo la privatizzazione, e sono qui per questo, per promettere il nostro impegno”.
Intanto i precari stanno lanciando una piattaforma con 4 proposte che presenteranno durante l’assemblea nazionale che hanno convocato per il 25 settembre. “Chiediamo un immediato ritiro della legge 133 – spiegano – del decreto salva-precari, il rifinanziamento parziale dei fondi tagliati e l’assunzione sui posti vacanti”. In programma poi uno sciopero nazionale e tante iniziative di protesta: dall’occupazione delle scale del ministero al blocco dei traffici sullo Stretto di Messina previsto per il 12 settembre. “Faremo di tutto – spiegano ancora i precari – per far sì che la scuola torni un argomento centrale e non venga tirato fuori solo quando c’è da tagliare”. In piazza c’era anche il leader dell’Italia dei Valori Antonio Di Pietro. “Il governo potrebbe fare un ultimo atto di giustizia prima di andare a casa: ridare dignità a coloro che si occupano della scuola pubblica – ha detto Di Pietro – mettere in regola i precari e ridare quegli 8 miliardi di euro che si è fregato”.
Intanto la protesta si è diffusa a macchia d’olio in tutta Italia. Dopo gli scioperi della fame di Palermo, Pordenone e Benevento, a Nuoro è iniziato il boicottaggio sistematico di tutti gli incontri e le iniziative proposte dal ministero. Ad animare la protesta sarda sono le istituzioni, convinte che non si governi a colpi di tagli.

Repubblica 9.9.10
L'insostenibile declino di chi deve educare il Paese
Le polemiche sui tagli alla scuola e le proteste dei professori precari riportano d´attualità la questione della qualità dell´istruzione in Italia
di Domenico Starnone

Non è mai esistita un´età dell´oro dei docenti presso l´opinione pubblica. I luoghi comuni sono di antica data e duri a morire, ma nascono dai problemi reali irrisolti
È rimasto insoluto per oltre un secolo il problema della convivenza tra la concezione elitaria della cultura e la necessità della scolarizzazione di massa

C´è un libro che si chiama Il manuale del perfetto professore di Dino Provenzal. Si rivolge agli insegnanti di scuola media di inizio secolo (quelli che Papini partendo da "scuola media" aveva battezzato mezzani). La scuola è rappresentata come luogo di conflitto con gli alunni («il primo e più arduo problema è mantenere la disciplina», ci sono «professori che non oserebbero salire in cattedra una sola volta, senza quel fido compagno che è il registro») ; i docenti si interrogano per capire se sono miserabili impiegati (allora c´era anche chi li chiamava impiagati) o qualcosa in più; si ammette che «non tutti gli insegnanti sono cime»; si racconta la battaglia dura dei professori "rigorosi" contro quelli "lassisti"; si accenna alle piccole corruzioni, al mercato delle lezioni private (prezzo d´epoca: venticinque lire; lo stipendio di un docente era centotrentasei lire; con mille lire ci si poteva comprare sottobanco la licenza); si sottolinea l´avversione dei docenti per la pedagogia e per ogni didattica; si tratteggia l´ottusità degli ispettori ministeriali e, in un´epoca in cui non c´erano la tv e internet, si lancia persino il seguente grido d´allarme: «i giovani non leggono più nulla». Di conseguenza Provenzal così arringa i suoi colleghi: «Se appena puoi cavartela col solo stipendio, segui il mio paterno consiglio: fa´ poche ore di lezione e in quelle che ti rimangono libere, studia, leggi, scrivi, passeggia, vivi la vita di tutti gli altri uomini e fuggi lontano dalla scuola quanto più è possibile».
Questo libro è del 1921, in quell´anno era alla terza edizione.
Ce n´è un altro che si chiama Gli insegnanti bocciati, è di Evaristo Breccia. Non si rivolge ai professori ma sostanzialmente alle famiglie. Breccia, dopo aver spulciato negli elaborati degli insegnanti che hanno fatto concorsi a cattedra e sono stati bocciati, si dà da fare per dimostrare al suo pubblico che dall´università viene fuori gente di inimmaginabile ignoranza, che i docenti che non sono mai riusciti a superare un concorso insegnano tranquillamente da anni mentre invece andrebbero licenziati, che l´intero ingranaggio della pubblica istruzione è ormai privo di affidabilità.
Questo libro è del 1957, in quell´anno era alla settima edizione. Rispetto a Provenzal rincara la dose: se la prende con tutti gli insegnanti non di ruolo; bravi per lui sono solo quelli che hanno vinto un concorso: via i precari.
Cito questi due libri a mo´ d´esempio, per ricordare che forse non c´è mai stata un´età dell´oro dei docenti, presso l´opinione pubblica. Li cito anche per sottolineare che la crisi della figura del professore non ha inizio col fatale 1968, come il senso comune ripete di continuo, ma ha una lunga storia alle spalle che si può ripercorrere utilmente attraverso la pubblicistica, i romanzi, il cinema (ve li ricordate i professori di Fellini?) e la televisione. Li cito infine perché sono utili per segnalare che i luoghi comuni sulla categoria sono di lunga data, e se sono così duri a morire significa, anche quando sono beceri, che segnalano problemi seri irrisolti.
Voglio dire che la vecchia concezione elitaria degli studi non ha mai fatto veramente i conti, lungo tutto il Novecento, con il problema del diritto allo studio di tutti. Voglio dire che il docente è stato sempre più lasciato solo, dentro strutture inadeguate, con mezzi inadeguati, con una formazione inadeguata, a fare un lavoro mai veramente ed efficacemente ripensato in funzione dell´ostacolo degli ostacoli: la diseguaglianza naturale ed economico-sociale. Voglio dire che un lavoro durissimo, esposto in linea di massima sempre al fallimento (chi insegna con onestà sa che un´istruzione di qualità per tutti è nel migliore dei casi una spinta ideale contraddetta dalla brutalità dei fatti), è stato continuamente umiliato innanzitutto dallo scarsissimo credito che la politica gli ha assegnato, a partire dal momento in cui i docenti non sono più risultati un serbatoio affidabile di voti, e poi dalla sostanziale caduta del valore del titolo di studio. Voglio dire che negli ultimi trent´anni una scuola sempre più povera fatta da docenti sempre più poveri, se l´è dovuta vedere con lo strapotere delle immagini, con il tramonto della cultura del libro, con la perdita di autorità di una serie di profili professionali prima autorevoli che lavoravano con la scrittura, con strumenti tecnici e figure professionali nuove di una potenza formatrice non comparabile con quella della vecchia cattedra.
Concluderei perciò così: la crisi del docente, pensato come formatore di élites, è di vecchia data e comincia con gli albori della scuola di massa; sottoposto a due spinte divergenti (selezionatore autorevole e scontroso di classe dirigente o artefice sempre disponibile di un´istruzione qualitativamente alta per tutti), lasciato solo di fronte a problemi che non poteva risolvere da solo, è finito in stato di stallo, vale a dire nell´impossibilità di tornare alla vecchia funzione di selezionatore classista e, insieme, nell´impossibilità di lavorare in una scuola in grado di assicurare davvero il diritto di tutti a un´istruzione elevata. Crocifisso dunque alla storica incapacità (o impossibilità) della politica e della società civile di reinventare la scuola, oggi l´insegnante è una figura al tramonto, in tragico declino come tante altre figure intellettuali dell´era predigitale? Sì, se si continua a non muovere un dito. O a muoverlo malissimo, aggiungendo danno al danno, e naturalmente spaccando il centesimo.

Repubblica 9.9.10
La dedizione quotidiana di tanti docenti
Il cuore oltre la cattedra
di Chiara Saraceno

Nonostante le condizioni difficili e il rapporto sempre più complesso e complicato con i genitori ci sono tante persone che continuano a dare lezioni importanti, lavorando con passione nella scuola

Collocati sulla prima linea dei mutamenti familiari, culturali, sociali, gli insegnanti hanno sperimentato negli ultimi trent´anni un progressivo processo di declassamento: sul piano della remunerazione e su quello del prestigio sociale, accompagnato da una carenza di investimenti nella loro formazione. Quest´ultima negli ultimi anni è stata oggetto di riforme successive che si sono limitate a vanificare quelle precedenti e senza seguito sul piano del reclutamento. Quanto all´aggiornamento, quando non rappresenta un semplice strumento per aumentare il proprio punteggio a fini di carriera o mobilità, è per lo più a carico degli insegnanti e dei loro modesti stipendi. E non vi è nessun riconoscimento del lavoro, oltre che delle competenze, aggiuntivo richiesto dall´insegnamento nelle situazioni più problematiche. Tutto è affidato all´impegno individuale dell´insegnante, per altro spesso costretto, insieme ai suoi allievi, a lavorare in situazioni, anche ambientali, indecorose: scuole fatiscenti e insicure, aule cui mancano talvolta anche gli arredi essenziali, laboratori, ed oggi anche aule, sovraffollati, dotazione ridicola.
Non può stupire che i primi ad accorgersi di questo declassamento sono proprio gli studenti. La mancanza di rispetto che molti docenti lamentano non deriva solo dalla loro incapacità a farsi valere come autorevoli in forza della propria competenza sia disciplinare che relazionale. Deriva innanzitutto dalla immagine sociale del loro lavoro che viene restituita dal modo in cui sono trattati loro e la loro professione, dalla scarsità degli attrezzi – culturali e materiali – di cui vengono forniti per il loro mestiere. Senza che per altro siano sempre capaci, come individui e come organizzazioni, di reagire in un modo che vada al di là delle pur importanti rivendicazioni stipendiali o della difesa di diritti acquisiti. Le responsabilità sono molte e non solo recenti. Sembra che un insegnante sia destinato ad essere vuoi un eroe, che tutti i giorni scende nell´arena a fronteggiare una torma di sadici o di indifferenti, da cui difendersi e contemporaneamente sedurre, coinvolgere, oppure un impiegato della lezione, che fa le sue ore, cercando di attraversare la giornata e l´anno senza incidenti, giocando al ribasso per non esporsi a reazioni – degli allievi, ma anche dei genitori. Perché la, per altro giusta, caduta dal piedistallo dell´insegnante-Dio, le cui decisioni erano insindacabili e il potere sulla classe assoluto, è seguita non solo la legittima possibilità di argomentare le proprie ragioni, ma anche la squalifica tout court delle decisioni dell´insegnante se queste non piacciono agli allievi che ne sono oggetto e/o ai loro genitori. Come se la scuola fosse diventata il terreno di rapporti di forza, ove al sadismo e alla prepotenza di qualche insegnante si contrappongono quello degli studenti a volte spalleggiati dai genitori, dove la comunicazione è difficile e la fiducia reciproca scarsa.
Certo, la situazione media non è così drammatica, soprattutto per merito dei molti insegnanti che si arrabattano a far quadrare tutto e suppliscono a ciò che manca con la loro passione. Ma l´eroismo e l´altruismo degli insegnanti non possono essere la risorsa principale su cui conta una società per la formazione dei propri figli, tanto più se ogni giorno si impegna a squalificare e rendere difficile il lavoro alle stesse persone da cui si aspetta dedizione, competenza e, appunto, altruismo.

Repubblica 9.9.10
L'esperienza di un professore dopo trent'anni
La vera lotta di classe
di Marco Lodoli

È naturale che un uomo di oltre cinquant´anni non capisca una ragazzina di quindici. I film che vedo, la musica che ascolto, per loro non esistono. Hanno tagliato i ponti con gli adulti

Lunedì comincerò il mio trentesimo anno di insegnamento: era il 1980 quando entrai per la prima volta in classe e ricordo ancora bene quella lezione, preparata con cura e spavento, sul viaggio ultraterreno di Dante ma più in generale sul viaggio nella letteratura. In un´ora passai da Don Chisciotte a Pinocchio, da Rimbaud a Kerouac, dal Sorpasso a Pollicino, con una smania infinita di spiegare, di emozionare.
Avevo ventitré anni, leggevo dalla mattina alla sera, speravo che nei libri ci fosse tutto ciò che mi mancava: e quello che trovavo, subito lo comunicavo ai miei studenti, come un bene prezioso da condividere. Ero convinto che la bellezza, la poesia, la ricerca di senso riguardassero tutti gli adolescenti del mondo: che serve avere sedici se non si guarda in alto? Così mi dicevo, ma in realtà neanche me lo dicevo: ne ero certo. I ragazzi ascoltavano la musica che piaceva anche a me, i Talking Heads, i Cure, gli Smiths, i cantautori italiani, parlavano di calcio e di politica e di niente, e io li capivo. Insegnavo anche alle serali, a giardinieri più vecchi di me, e dopo aver letto una poesia di Pascoli o un racconto di Cechov ne parlavamo insieme, avevamo una lingua comune per scambiarci opinioni, anche per litigare. E gli anni, una settimana dopo l´altra, sono passati. Io ero sempre l´insegnante giovane, scapigliato, quello con la Vespa anche se diluvia, quello con i jeans bucati e persino con i dread, per un certo periodo. Per me capire i ragazzi era facile, anche se cambiavano i gruppi musicali, i film al cinema, i modi di vestirsi – come fosse sempre primavera. Qualche volta mi ritrovavo alunni o ex-alunni alle presentazioni dei miei libri, e loro erano orgogliosi di me e io di loro, ci davamo qualche pacca sulla spalla, imbarazzati, contenti.
Ora tutto è cambiato. È ovvio che sia così, mi dico, è normale che un uomo di cinquantatré anni non capisca una ragazzina di quindici. Metto le mani sul vetro, cerco di sbirciare, ma è tutto appannato, non si vede niente. Ai ragazzi parlo di letteratura, ma ormai è una lingua perduta, come il latino o l´aramaico. Parlo anche di cinema e di musica, ma i film che io vedo per loro non esistono, la musica che ascolto è muta. Non c´è alcuna contestazione, nessuno pensa che io sia in torto, che difenda chissà quale ordine infame: semplicemente questi ragazzi hanno tagliato i ponti con gli adulti. Prima la barca era una sola, ci si stava sopra tutti insieme, magari cercando di buttare di sotto i nemici: ora ogni generazione ha la sua scialuppa di salvataggio. Il marketing ha diviso la società in target. Ciò che interessa un trentenne non interessa un sedicenne. I miei studenti di periferia ascoltano i cantanti neomelodici napoletani, i rapper autoprodotti di Tor Bella Monaca, odiano il cinema perché bisogna stare due ore zitti e al buio, non fanno sport, chattano, passano il sabato nei centri commerciali. Ho alunni che spediscono trecento sms al giorno, tranquillamente. E allora uno ci prova ancora: On the road e Cervantes, i boschi dei fratelli Grimm e la selva oscura, il viaggio dietro a Moby Dick, la fuga di Gauguin fuori dal mondo, ma ascoltano in pochi, forse in certi momenti proprio nessuno, e così a tanti insegnanti viene lo scoramento. Perdiamo gli alunni e acquistiamo montagne di carte da riempire, labirinti in cui confondersi.
Trent´anni di disprezzo per la cultura – roba da poveracci, da infelici – hanno portato a questo: a un paese povero e infelice. Ma io non mollo, continuo a indicare ai miei studenti un punto più in alto, dove l´aria è migliore, dove si vede meglio il mondo.

Repubblica Firenze 9.9.10
Cgil, Cisl e Gilda chiamano a raccolta prof e custodi: il 60-70% degli istituti saranno chiusi
Suona la campanella della rivolta il 15 maxi assemblea dei sindacati
Inizio delle lezioni fortemente a rischio: "La scure del governo? Una tragedia"
di Ilaria Ciuti

Il primo giorno di scuola a Firenze sarà di protesta. Uniti, Cgil, Cisl e Gilda chiamano tutto il personale della scuola di ogni ordine e grado, docenti e non docenti, alla mega assemblea indetta per mercoledì 15 al Saschall dalle 8,30, alle 12,30. Quattro ore insieme «per tentare di arginare una tragedia», dicono i tre segretari provinciali di categoria, Alessandro Rapezzi per la Flc Cgil, Antonella Velani per la Cisl scuola e Valerio Cai per la Gilda-Unams. «Il primo giorno di scuola non a caso - spiegano - Ma per dare il segnale forte che è necessario di fronte ai tagli della Gelmini che rischiano di affossare la scuola pubblica e che solo a Firenze e provincia si riassumono drammaticamente in 2000 alunni e 89 nuove classi in più contro 219 docenti in meno rispetto all´organico di diritto e 54 all´organico di fatto, 148 non docenti che mancano e 2.429 supplenti nominati tardi che arriveranno inesorabilmente in ritardo e alla disperata rinfusa».
Una «tragedia» da combattere. «I genitori lo capiranno e ci aiuteranno». L´assemblea, precisano i sindacalisti, «è assolutamente legittima, il contratto vieta le assemblee solo in periodo di scrutini, siamo anche andati dal prefetto e tutto è regolare». D´altra parte, ragionano, «di fronte alla gravità della situazione non sarà un dramma se la scuola comincia il giorno dopo». D´altra parte i genitori, che comunque si informano dopo la liberalizzazione della data di inizio delle lezioni, sapranno in anticipo se la scuola dei figli sarà o non sarà aperta mercoledì, dicono i tre sindacalisti. Già da adesso, avverte Velani, tra il 60 e il 70% degli istituti di Firenze e provincia hanno detto che resteranno chiusi. Al più tardi entro domenica anche le altre scuole daranno informazioni certe. L´assemblea non è uno sciopero, i partecipanti devono avvertire con qualche giorno di anticipo.
Per il Saschall, racconta Velani, sono già stati prenotati pullman da tutta la provincia, da Greve, Scandicci, Calenzano, il Mugello, Montespertoli. «Prevediamo una grande affluenza», dicono anche Rapezzi e Cai. Tutti e tre sottolineano come i tagli si siano abbattuti su un paese che, stime Ocse, impiega il 9% della spesa pubblica per l´istruzione contro il 13% della media europea. Con un governo che non si occupa di ricerca e di qualità, aggiungono, ma solo di risparmiare senza criterio. «Siamo pronti a impegnarci a livello nazionale per rivedere la spesa scolastica con l´obiettivo di una maggiore qualità», dichiarano i tre sindacalisti: ma non a questo massacro che, sottolineano, raddoppierà l´anno prossimo, «tanto da far sospettare che la scuola pubblica debba sparire a favore della privatizzazione».
Per questo Cgil, Cisle e Gilda marciano insieme nella scuola nonostante idee anche diverse: «Di fronte a fatti così pesanti si lasciano da parte le ideologie». Un´unità in controtendenza in un momento di divisioni ma che, rivendicano, ha fatto guadagnare alla Toscana 80 supplenti annuali più del previsto. Con una decisione del governo, però, arrivata solo pochi giorni fa, dopo che già le nomine dei supplenti in generale erano arrivate solo a inizio agosto determinando un ritardo pauroso nell´assegnazione dei posti ai precari e, «quello che è più grave» dicono i sindacalisti, agli insegnanti di sostegno. La conseguenza è che nessuno potrà essere al suo posto fin dall´inizio.
Assemblee il 15 in tutta la Toscana (solo a Pistoia sarà il 17) dove, secondo le stime sindacali, i tagli riguardano 1.221 docenti e 732 tra tecnici, amministrativi e personale di servizio. In due anni, 4.288 posti in meno. Mentre, sottolineano Cgil, Cisl e Gilda fiorentine, Gelmini pagherà comunque 200.000 supplenti in Italia e invece di risparmiare aumenterà il precariato oltre che, con la loro nomina fuori tempo, il caos in scuole dove alle superiori si arriverà a 33 alunni per classe. Supplenti a cui, spiega Rapezzi, «si aggiungono gli spezzoni» che potrebbero portare i precari fiorentini della scuola a tremila.

l’Unità 9.9.10
Sospesa la condanna di Sakineh
Intervista a Margherita Hack
«Un segno di speranza, ma l’Occidente non abbassi la guardia»
La scienziata: «La condanna non è stata ancora annullata e tante altre donne sono imprigionate Quello iraniano è un regime barbaro e fanatico»
di Umberto De Giovannangeli

Un regime barbaro, sadico, segnato da un fanatismo religioso ossessionato dal sesso. Un regime che non solo
condanna a morte per un reato l’adulterio che in tanti Paesi non è considerato tale, ma vuole anche dare una morte lenta alla “colpevole”, perché soffra in vita le pene dell’inferno. Questo è il regime che ha condannato alla lapidazione Sakineh, e come lei tante altre donne». A parlare è una delle più autorevoli e impegnate scienziate italiane: Margherita Hack. «La sospensione della condanna è una buona notizia afferma Hack è un segno di speranza, ma la guardia non va abbassata, la mobilitazione non deve venir meno. Perché si tratta di una sospensione e non di un annullamento della condanna, e perché nelle carceri iraniane ci sono tante altre donne nella condizione di Sakineh».
Le coscienze libere si sono mobilitate per aver salva la vita di Sakineh Mohammadi Ashtiani. Qual è il segno di questa vicenda?
«Innanzitutto va detto che non è la prima volta che in Iran si condannano alla lapidazione donne. Purtroppo è già avvenuto in passato e altre donne come Sakinek rischiano la stessa pena. Cosa dire...È una atrocità. Uccidere per un reato, l’adulterio, che in tanti altri Paesi non è più tale: è un retaggio barbarico che riporta indietro di secoli. E poi c’è questa ossessione del sesso che hanno tutte le religioni, per cui le donne sono sempre considerate le più colpevoli. In nome di questa ossessione sessuofobica si sono legittimati, “istituzionalizzati”, comportamenti discriminatori, anche in Italia, nei confronti delle donne».
Come definire un regime che condanna alla fustigazione le donne e, in molti casi, alla lapidazione? «Un regime barbaro, sadico...Anche nel modo di uccidere. Una morte lenta, atroce. Tutto questo in nome della religione. Di Allah...»
Neda, Sakineh...Donne divenute simbolo di un Iran che non si piega ad un potere che «lapida» i più elementari diritti della persona, a cominciare dal diritto alla vita. È solo una coincidenza, professoressa Hack?
«Direi proprio di no. Proprio perché sono le vittime quasi predestinate di regimi ossessionati dal sesso, le donne divengono simboli di riscatto. Un discorso che non vale solo per l’Iran».
Ma è possibile e come fermare la mano ai «lapidatori di Stato»? «Non si può certo dichiarare guerra all’Iran...Abbiamo già visto cosa ha portato penso all'Iraq la follia di voler imporre con la forza la democrazia ad un Paese. È importante la mobilitazione dell’opinione pubblica, la determinazione dei media a rompere il Muro del silenzio che viene innalzato per coprire questi crimini...Qualcosa si è ottenuto, se è vero che la sentenza di lapidazione di Sakineh è stata sospesa. Ma non bisogna abbassare la guardia. Perché la condanna è stata sospesa e non cancellata, e perché tante altre donne sono nel braccio della morte. L’obiettivo dovrebbe essere quello di premere su questi Paesi per cancellare leggi infami come quella sulla lapidazione...Gli strumenti vanno calibrati, forse sanzioni mirate a colpire gli interessi di quei regimi e della loro dirigenza». C’è chi sostiene che con certi regimi, quello iraniano ma anche al Libia del Colonnello Gheddafi, non si alzi troppo la voce sui diritti umani per non mettere a repentaglio gli affari...
«Gli affari prima di tutto..Questo è un fatto vergognoso. Perché prima di tutto dovrebbe venire il rispetto dei diritti delle persone, la giustizia...E poi quel Gheddafi...».
Cosa ha da dire sull’accoglienza riservata dal Governo italiano al leader libico? «Qualcosa di indecente, da vergognarsi...Lo hanno accolto come se fosse il padrone dell’Italia. Gli hanno permesso esibizioni intollerabili, dimenticando di chiedere conto a Gheddafi degli immigrati rinchiusi nei lager, dei respingimenti e della morte di tanta povera gente».
Cosa c’è dietro queste genuflessioni? «C’è l’immoralità di un potere che da tempo non maschera più se stesso, ma rivendica, esalta, amplifica attraverso le televisioni, pubbliche e private, di cui Berlusconi è proprietario o controllore, la cultura, oltre che la pratica, dell’immoralità. Basti pensare alla vergogna esibita delle leggi ad personam. Ma chi siano Berlusconi e i suoi sodali è risaputo. Ciò che spaventa è una sorta di narcotizzazione” delle coscienze, il venir meno di uno spirito civico che dovrebbe essere il collante che unisce un Paese, al di là di destra e sinistra, di appartenenze partitiche...E’ come se si fosse perso il diritto-dovere all’indignazione. E questo è grave, molto grave».

il Fatto 9.9.10
Fidel Castro attacca Ahmadinejad: “È antisemita”

Fidel Castro critica Mahmoud Ahmadinejad esortandolo a smetterla di negare l’Olocausto e a diffamare gli ebrei. In una lunga intervista alla rivista Usa “The Atlantic”, il Lìder maximo sottolinea che gli ebrei “vengono diffamati da oltre duemila anni. Credo che nessuno al mondo abbia ricevuto lo stesso trattamento riservato agli ebrei. Sono stati attaccati molto più che i musulmani. Sono stati sempre accusati di tutto. Nessuno ha mai addebitato ai musulmani ogni male. Gli ebrei hanno vissuto un’esistenza molto più difficile di qualunque altro. Non c'è niente a confronto dell’Olocausto”. Secondo il padre della rivoluzione cubana il governo di Teheran servirebbe meglio la causa della pace riconoscendo “l'unicità” della storia di Israele e provando a capire meglio perchè teme per la sua sopravvivenza. Castro ha raccontato come scoprì il concetto dell’antisemitismo: “Avevo 5 o 6 anni ed era venerdì santo. Quel giorno sentivo dire che Gesù era morto e che a ucciderlo erano stati gli ebrei. Pensate quanta era l'ignoranza popolare”. L’Iran dovrebbe capire che il popolo ebraico “è stato cacciato dalla sua terra e perseguitato in modo terribile in tutto il mondo per oltre 2000 anni. Sono sopravvissuti grazie alla loro cultura e alla loro religione, due elementi che li hanno tenuto insieme, uniti come una nazione”.
Il fratello di Raul ha anche fatto una sorta di marcia indietro sulla vicenda della crisi con gli Usa quando nel 1962 l'installazione di missili sovietici a Cuba fece sfiorare la guerra nucleare. “Dopo aver visto quel che ho visto e sapendo quel che so ora posso dire che non ne valeva la pena...”.

l’Unità 9.9.10
Mussolini, guardatevi dai falsi
Si parla ancora dei «Diari» trovati da Dell’Utri di prossima pubblicazione e della fine del Duce La Storia ha già detto cose non confutabil
di Nicola Tranfaglia

L’ultimo week-end di agosto come avviene ormai da moltissimi anni ha ospitato su alcune pagine di quotidiani (con particolare risalto su quelli più vicini al vangelo berlusconiano ma non solo) due notizie che sono sempre gradite ai tardivi estimatori dell’avventura mussoliniana nel nostro paese, pur dopo i settant’anni trascorsi da quel venten-
nio. La prima è che i Diari dal 1935 al 1939 di Benito Mussolini che il senatore siciliano Marcello Dell’Utri ha acquistato da un antiquario e che, incautamente, un editore italiano si prepara a pubblicare in tre volumi, sarebbero autentici.
La seconda, rilanciata dallo storico francese Pierre Milza che pure ha pubblicato un Dizionario del fascismo e del nazionalsocialismo di cui, alcuni anni fa, ho curato la traduzione italiana, è che Mussolini sarebbe stato ucciso nell’aprile 1945 non dai partigiani del Comitato di Liberazione dell’Alta Italia, ma da uomini del primo ministro inglese Winston Churchill, presente in quei giorni ma opportunamente travestito, nel territorio della Repubblica Sociale Italiana. Ora vale la pena parlarne, pensando sia agli anziani che hanno vissuto quegli anni o ne hanno sentito parlare più volte ma anche, e soprattutto alle nuove generazioni, del tutto estranee a quelle vicende e interessate agli aspetti misteriosi e imprevisti di quella tragica vicenda, sfociata nella seconda guerra mondiale e nella disfatta del nostro paese. A leggere le cinque agende che contengono quattro tra gli anni decisivi della vicenda mussoliniana (in pratica dall’impresa di Etiopia allo scoppio del secondo conflitto mondiale si ha un’impressione subito del già visto perché quegli appunti riecheggiano da vicino quel che i giornali del tempo rigidamente fascisti raccontavano del governo in carica e del carismatico presidente del consiglio.
Ma, poco dopo, è inevitabile osservare che alcuni tra gli avvenimenti che conosciamo attraverso altre fonti assai vicine al duce (per esempio, i diari, assai noti e pubblicati da molto tempo, di Galeazzo Ciano o di Giuseppe Bottai) sono del tutto trascurati nei diari acquisiti da Dell’Utri che dedicano spazio, al contrario, ad avvenimenti o udienze del duce ad altri personaggi di minore o scarsissimo rilievo politico.
Per esempio, nulla si dice rispetto alla legge che istituisce il grado di primo maresciallo dell’Impero il 28 marzo del 1937 e che fu, senza dubbio, alla base di un forte attrito tra Mussolini e Vittorio Emanuele III e, in generale, degli scontri che pure ci furono in quegli anni tra la monarchia e il governo fascista. Né cose nuove o aggiuntive rispetto agli incontri internazionali come quelli di Stresa e di Monaco o i viaggi del duce in Germania e di Hitler in Italia che, pure nel coro pressoché unanime dell’opinione pubblica italiana e tedesca suscitarono qualche reazione come sappiamo sempre da altre fonti. Lo stesso discorso vale per altri avvenimenti, come la creazione della Camera dei Fasci e delle Corporazioni nel 1934 o la riforma della scuola tre anni dopo che rappresentò un tentativo significativo del regime di fascistizzare l’istruzione nazionale con risultati contraddittori ma in qualche modo non irrilevanti. E l’esame dei testi potrebbe continuare, se poi non dovessimo prendere in esame il fatto che, da una parte, uno storico inglese come Dennis Mac Smith si era detto propenso a considerarli autentici ma senza un’analisi completa dei testi. Un giornalista americano come Brian Sullivan gli aveva anche fatto eco e, l’altro giorno, sul quotidiano Libero, si è prodotto in una ennesima difesa delle sue precedenti convinzioni.
Resta il fatto che tra gli storici italiani non soltanto chi scrive ma lo stesso Renzo De Felice, dal quale mi hanno sempre diviso molti tratti interpretativi, già nel 1994 aveva escluso qualsiasi autenticità ai Diari mussoliniani ed ora Emilio Gentile, uno dei maggiori studiosi del fascismo e che è stato molto vicino, almeno nei primi anni di ricerca, all’ispirazione dell’opera di De Felice, ha di recente compiuto un’accurata perizia analitica nel 2004 che condivido pienamente.
In particolare Gentile ha sottolineato l’ aspetto fondamentale del problema: da una parte i diari non contengono nulla che non sia presente, magari in maniera più ampia e chiara, da altre fonti edite già disponibili ma soprattutto l’immagine e il ritratto che emerge del dittatore è del tutto diversa e contraria da quello che emerge da altre fonti più dirette e attendibili.
Quanto al falso scoop che riguarda l’uccisione di Mussolini, devo dire che tutte le controversie suscitate in questi anni su quell’episodio possono mettere in dubbio quale sia stato l’individuo che premette il grilletto dell’arma che ammazzò il duce e Claretta Petacci ma non i mandanti legati al Comitato di Liberazione, rispetto ai quali possediamo testimonianze recenti e molto attendibili.

Corriere della Sera 9.9.10
Proteste, pedofilia (e indifferenza): le insidie del viaggio inglese del Papa
Anche il sacerdozio femminile tra i temi che si troverà ad affrontare
di Gian Guido Vecchi

CITTÀ DEL VATICANO — Volete contestare il Papa a Londra? L’appuntamento è a Hyde Park Corner, all’una e mezzo in punto del pomeriggio di sabato 18, una bella marcia attraverso Piccadilly e Trafalgar Square fino a Downing Street poche ore prima che alle 18,15 Benedetto XVI inizi ad Hyde Park la veglia di preghiera per la beatificazione del cardinale John Henry Newman, il grande teologo e filosofo ottocentesco convertito dall’anglicanesimo e considerato tra i precursori del Concilio. A sole dieci sterline più due di spedizione c’è pure la maglietta con scritto «Pope Nope», il cui ricavato «sarà devoluto alle vittime dei preti pedofili». Da mesi quelli del gruppo «Protest the Pope» battono il tam tam in Rete ( www.protest-the-po-pe.org.uk) in vista dei quattro giorni che da giovedì a domenica della prossima settimana porteranno il Papa in Scozia e Inghilterra. E da mesi — da una parte atei militanti, dall’altra ultras papisti non richiesti — dipingono e alimentano una tensione crescente.
Le trappole possibili non mancano, certo: polemiche sulla pedofilia nel clero, anzitutto, ma anche il sacerdozio femminile, i diritti degli omosessuali (il cardinale Newman chiese d’essere sepolto assieme all’amico reverendo Ambrose St.John ed è considerato un’icona dalla comunità gay), i preservativi e l’Aids, il vescovo lefebvriano negazionista Williamson eccetera. Del resto il lavoro di bonifica del clima procede, mica per niente l’arcivescovo di Southwark Peter Smith ha voluto incontrare ieri in territorio neutro (i locali londinesi di Scotland Yard) gli organizzatori della marcia, dal militante dei diritti dei gay Peter Thatchell alla «National Secular Society»: l’arcivescovo, chiarito che «grazie Dio c’è libertà d’espressione», ha chiesto una «protesta civile» mentre i militanti di «Protest the Pope» hanno garantito di «non avere alcuna intenzione di perturbare» la festa dei fedeli e si sono detti «rassicurati» dalla promessa di trasmettere al Papa la richiesta di «aprire i dossier» sui pedofili.
Come a Malta, del resto, il Papa potrebbe incontrare alcune vittime di abusi sessuali: sia lord Chris Patten sia l’arcivescovo di Westminster Vincent Nichols «non lo escludono»: «Ciò viene fatto senza alcun annuncio e in privato», Oltretevere confermano. La bonifica è anche mediatica: non ufficiale, ma «incoraggiato» dalla conferenza episcopale, è nato il sito www.catholicvoices.org.uk come «osservatorio» di ciò che dicono i media, gli «speaker» incaricati di informare e «chiarire» sono stati preparati da mesi. Né la beatificazione di Newman né la porta aperta agli anglicani in uscita sembrano aver creato problemi con il primate anglicano Rowan Williams.
Benedetto XVI vedrà anche la reverenda Jane Hedges, donna pastore impegnata nella campagna per le donne vescovo anglicane, ma in Vaticano non temono polemiche: «È normale, il Santo Padre ha incontrato e stretto la mano innumerevoli volte a donne pastore». Piuttosto, ci sono state contestazioni per la prima «visita di Stato» d’un pontefice e l’avvocato Geoffrey Robertson ha chiesto che Ratzinger fosse arrestato «per crimini contro l’umanità», negando sia Capo di Stato: il Foreign Office gli ha ricordato che le prime relazioni con la Santa Sede risalgono «al 1479». Benedetto XVI incontrerà giovedì a Edimburgo Elisabetta II e ieri l’ha ringraziata, «sono molto grato a sua maestà la Regina e a sua grazia l’arcivescovo di Canterbury per l’invito». Oltretevere l’impressione è che «la tensione stia calando». Un sondaggio di The Tablet ha mostrato che il 25% degli abitanti del Regno Unito è a favore della visita e solo l’11 contrario. La maggior parte, il 63 per cento, è indifferente. Newman, del resto, è un modello di dialogo con la modernità. «Non vedo l’ora di intraprendere il mio viaggio e invio saluti di cuore».

il Fatto 9.9.10
L’infanzia negata
In Italia 56 bambini vivono dietro le sbarre con le madri nella totale indifferenza del Parlamento
di Silvia D’Onghia

“Vidi una bimba che cercava di mettersi in tasca la neve. Le chiesi: ‘Cosa stai facendo?’. Mi rispose: ‘La porto alla mamma’”. Leda Colombini è la presidente dell’associazione “A Roma, insieme”, che dal settembre del 1994 lavora nella sezione femminile del carcere romano di Rebibbia. Al fianco delle detenute madri e dei loro bambini. Sì, perché non tutti sanno che, nelle carceri italiane, vivono anche 56 bambini, vittime della detenzione delle loro mamme. La maggior parte delle quali straniere, 31 di loro con sentenza definitiva. I dati li ha forniti ieri, in commissione Giustizia alla Camera, il capo del dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria, Franco Ionta. E proprio ieri, nella sala Santa Rita della Capitale, è stata inaugurata la mostra “Che ci faccio io qui?”, un reportage realizzato da cinque fotografi di fama internazionale, nato dalla collaborazione tra l’agenzia fotografica “Contrasto” e l’associazione “A Roma, insieme”. “Ogni sabato portiamo i bambini fuori dal carcere – racconta Leda Colombini –. Li portiamo al mare, in montagna, e tutte le volte vorrei che il mondo intero fosse lì per assistere allo stupore di quei bambini”. Che invece vivono reclusi. Il loro unico orizzonte è il muro, quello della cella, quello del corridoio, quello di recinzione. “Tutto questo genera enormi problemi – prosegue Colombini –. Il primo è alla vista: questi piccoli sono privati degli spazi, degli orizzonti, delle altezze, del movimento della città. Sono tutti stimoli necessari a un’adeguata crescita del senso della vista. Per non parlare del mondo delle relazioni. Le uniche persone con cui sono a contatto per i primi tre anni di vita sono le madri, il personale penitenziario e gli altri bambini. Il loro mondo finisce qui. Chi li ripaga di queste carenze? Che cosa si produce al livello della mente?”. Da un punto di vista materiale ai bambini non manca nulla All’inizio della loro attività, con una battaglia durata un anno, i volontari dell’associazione hanno ottenuto che i figli delle recluse frequentassero asili comunali esterni al penitenziario. E questo significa che almeno una parte della giornata trascorre senza un muro all’orizzonte.
Le celle si aprono alle 8 del mattino, per richiudersi alle 8 di sera. I bimbi possono giocare (anche se non tutti i giocattoli possono essere portati in carcere) e, d’estate, hanno “addir ittura” la possibilità di correre in giardino. Quasi un lusso. “Festeggiamo tutti i compleanni – racconta Colombini –, le madri, il personale, i volontari si ritrovano tutti a spegnere le candeline assieme ai bambini. Cerchiamo di rendere speciale ogni occasione”. Ma è una goccia in un mare che non dovrebbe esistere.
Le proposte inascoltate
“SONO tre legislature che avanziamo proposte perché si ottenga che nessun bambino varchi più la soglia del carcere – spiega Colombini, e la sua voce pacata si increspa di rabbia – Tutti i ministri si sono impegnati, ma la soluzione non è mai arrivata. Ora abbiamo presentato cinque testi di legge: due al Senato, tre alla Camera, dove si è arrivati a un testo unificato attualmente in discussione in commissione Giustizia”. La speranza, però, è ridotta al lumicino: “Non a caso il problema più grande riguarda le straniere. La legge Bossi-Fini prevede che, una volta scontata la pena, l’espulsione sia automatica. Una volta, per esempio, una donna è stata rispedita in Nigeria mentre il figlio era al nido. Le italiane che hanno una famiglia e un tetto sulle spalle, presentano le condizioni per i domiciliari o per l’affidamento in prova. Le straniere non ottengono neanche i permessi premio”. Non solo: quando i bimbi compiono i tre anni, vengono separati dalle madri e finiscono in affidamento. Chi li ripagherà di tutto questo?


l’Unità 9.9.10
Marco e le sue sorelle: «Racconto il vivere in un’epoca sbagliata»
Il regista, il progetto collettivo nella sua Bobbio e l’Italia vista da lì: «La vera tragedia è che la gente non reagisce più a niente, non si accorge di nulla, come nei periodi più bui...»
di Gabriella Gallozzi

Ancora la famiglia, suo territorio d’indagine privilegiato fin dai tempi de I pugni in tasca. Le strade della creazione, poi. E la politica, per la quale non si tratta più di «disinteresse ma di assenza totale». Marco Bellocchio è uno dei pochissimi grandi nomi del nostro cinema che quando parla ti guarda negli occhi. Ti ascolta e non risponde mai con la prima banalità che gli viene in mente. Anche se il contesto è quello degli affollati incontri per la stampa tipici dei grandi festival. Mostra compresa. Dove ieri è passata Fuori concorso la sua ultima fatica: Sorelle Mai, una sorta di diario di famiglia dilatato nel corso di quasi dieci anni. Ogni estate, nella sua Bobbio, Bellocchio alla testa di una scuola di cinema (Fare cinema) ha messo insieme attori, amici e familiari per realizzare un racconto corale, fatto di frammenti di vita, di cui una prima parte (Sorelle) era già passata al Festival di Roma e di cui Sorelle Mai è il completamento. Le sorelle del titolo sono, infatti, le sue vere sorelle, Letizia e Maria Luisa, anziane «signorine» che, in questa loro «sorellanza sono rimaste imprigionate, come in una trappola, che ha impedito loro di vivere». E poi il fratello Alberto e i suoi figli, Elena la più piccola e Pier Giorgio, il figlio maggiore che nel cinema di papà, racconta, è stato coinvolto fin dai tempi di Salto nel vuoto, e che per parlare di questo ultimo impegno come «un’occasione che papà ha creato per stare tutti insieme l’estate». Il resto è venuto da sé. Gli attori professionisti (Donatella Finocchiaro, Alba Rohrwacher) e le cose da raccontare, condivise e scritte insieme ai partecipanti al Laboratorio.
«È un piccolo film dice il regista ma per me molto importante. Ed è partito dal desiderio di mettere in scena il destino delle mie sorelle, della loro vita molto protetta, quasi fossero vissute in un’epoca sbagliata. Mentre il mondo si apriva al femminismo, all’emancipazione, loro rimanevano chiuse, per niente incoraggiate a vivere la loro vita». Torna, insomma, il tema della famiglia i cui «valori prosegue Bellocchio non ho mai esaltato. Eppure oggi il mio atteggiamento è cambiato: nell’Ora di religione mostro il fratello assassino che finisce in manicomio, nella consapevolezza che una posizione del genere porta all’autodistruzione». E la politica, vista attraverso il suo cinema. «Ho voglia di fare un film sull’Italia contemporanea dice ma non lo farei mai direttamente su Berlusconi. E non certo perché sono un pavido. La mia narrazione non dico che si muove attraverso le metafore, ma non affronta mai di piatto l’attualità». Un’attualità, la nostra, che è impressionante. Basti pensare al nuovo disegno di legge di Bondi sul cinema che prevede il divieto ai minori di dieci anni. «È indegno attacca vorrà dire che invece di fare film faremo cartoni animati!». Ma quello che più colpisce, conclude Bellocchio, è «che di fronte a tutto questo non c’è più neanche sgomento. La gente non si accorge di nulla, come nei periodi più bui. Così come gli italiani erano tutti fascisti, oggi la maggioranza ha votato Berlusconi. La maggioranza del paese è così. Ed è questa la vera tragedia, di cui responsabile è anche la sinistra. Senza più un riferimento, un sindacato... E così più che al disinteresse siamo di fronte all’assenza totale».

l’Unità 9.9.10
Fuori concorso
Interni di famiglia con ritratto di zie
Seguito di «Sorelle» del 2006, «Sorelle mai» di Bellocchio è un diario che mescola finzione alla vita vera del regista
di Alberto Crespi

Marco Bellocchio, a 71 anni, sta vivendo una stagione creativamente straordinaria. I suoi ultimi film narrativi sono magnifici (L’ora di religione, Buongiorno notte, Il regista di matrimoni, Vincere): in parallelo, procede un’attività quasi da film-maker sperimentale, con esiti sorprendenti. Sorelle mai è lo sviluppo di Sorelle, del 2006. È un work-in-progress, costruito negli anni grazie all’attività del laboratorio Fare Cinema di Bobbio e al decisivo apporto della montatrice Francesca Calvelli. Come lo definisce lo stesso Bellocchio, «un film che non poteva essere più condizionato (non c’era una lira e poi un euro) e nello stesso tempo più libero». Sorelle era un diario privato in cui Marco «pedinava» in modo quasi zavattiniano le proprie mitiche zie, Letizia e Maria Luisa. I «bellocchiani» doc le conoscono bene, compaiono in diversi suoi film (la loro apparizione nell’Ora di religione, come zie del protagonista Castellitto, era memorabile). Ora Sorelle si è evoluto in Sorelle mai, film dalla durata canonica di 105 minuti in cui la famiglia Bellocchio (c’è anche il figlio Pier Giorgio, uno dei brigatisti di Buongiorno notte) si «contamina», per così dire, con materiali di pura finzione. Pier Giorgio fa Giorgio, quindi se stesso o quasi, mentre Donatella Finocchiaro recita il ruolo fittizio di Sara, sua sorella, madre un po’ distratta della piccola Elena che vive con le zie mentre lei sta a Milano inseguendo il sogno di fare l’attrice. Nella casa delle zie c’è una pensionante, una giovane professoressa interpretata da Alba Rohrwacher: qui il film apre una sorta di lunga parentesi in cui assistiamo agli scrutini della scuola dove la prof lavora, con un altro Bellocchio (Alberto) nel ruolo, splendido, del preside. La casa di Bobbio dove tutto si svolge è quella avìta dei Bellocchio ed è la stessa dove, 45 anni fa, Marco girò I pugni in tasca. I rimandi a due differenti contesti il cinema di Bellocchio, la sua famiglia fanno di Sorelle mai una sorta di ipertesto. È come se il regista ci facesse entrare, come un artista rinascimentale, nella sua bottega, mostrandoci al tempo stesso l’inconscio dei suoi film. Co-prodotto con Rai Cinema, Sorelle mai sarà per gli spettatori un’esperienza spiazzante, ma è un gioiello, profondamente personale.

Repubblica 9.9.10
Il regista ha presentato "Sorelle Mai", piccolo film familiare tra realtà e finzione
Bellocchio: non sono più ribelle ma è ora che gli italiani si indignino
di Paolo D'Agostini

Nel film attrici professioniste, come Finocchiaro e Rohrwachwer, e non professionisti

Sollecitato, come sempre impavido e un po´ imprudente, Marco Bellocchio non si è fatto pregare a distillare qualche pillola del suo lucido pessimismo dichiarando più o meno: «Oggi le persone non si indignano più, non si levano voci contro, stiamo vivendo un periodo che fa pensare a certi momenti bui della nostra storia. Perché erano tutti fascisti? Eppure lo erano. Perché erano tutti nazisti? Eppure lo erano. Perché oggi c´è una maggioranza berlusconiana? La maggior parte della gente ha acquisito quella mentalità. E´ una tragedia. Le forze di opposizione ci sono ma non fanno presa».
Il regista è a Venezia per presentare fuori concorso un piccolissimo film che però a dispetto delle sue dimensioni quasi amatoriali (dimensione e non qualità amatoriale, naturalmente) contiene moltissimo di lui o comunque moltissimo di ciò che Bellocchio è stato. S´intitola Sorelle Mai. Il regista lo ha realizzato a Bobbio, il paese del Piacentino di cui è originaria la sua famiglia e dove c´è tuttora una casa di famiglia. Del resto ha anche chiamato a interpretarlo, accanto alle attrici professioniste Donatella Finocchiaro e Alba Rohrwacher (a loro volta risucchiate in questa dimensione artigianale e familiare), tutte persone di famiglia. Le due sorelle, il fratello e i suoi due figli. E l´amico di sempre Gianni Schicchi. Si tratta in realtà del risultato di un laboratorio di regia che Bellocchio conduce già da parecchi anni ogni estate proprio a Bobbio. Ha utilizzato materiale che era andato girando e accumulando nel corso degli anni, a partire dalla seconda metà degli anni Novanta. Una ragione di partenza di tipo didattico, ma un risultato personalissimo. Del resto lo confessa: non sarebbe capace di "insegnare" in un´altra maniera, senza soddisfare il bisogno di mettersi in gioco e, diciamo, di giocare con lo strumento che gli è congeniale. Il cinema.
Attraverso sei episodi si snodano vicende e atmosfere che, sia pur riferite a personaggi che non lo rappresentano in maniera diretta, ci tuffano nuovamente in quello che è stato l´inizio di tutto. L´inizio dell´avventura artistica di Bellocchio. Il nodo delle origini e della famiglia, oggetto condizionante e fonte di ispirazione, meritevole di rifiuto e ribellione giovanile. Insomma la materia di I pugni in tasca.
La dice lunga un finale di sapore onirico in cui l´amico Schicchi è chiamato a interpretare quello che pare sia un suo cavallo di battaglia. Vecchio frac, la canzone di Domenico Modugno. Non staremo ad anticipare tutti i risvolti di questo finale piuttosto ad effetto, ma è proprio questo finale che fa dire al regista così: «E´ la fine, non c´è più spazio per i ricordi. La ricognizione degli affetti si chiude con questo film in modo definitivo. Lunga vita a tutti ma questa è una esperienza conclusa. Può darsi si torni a Bobbio a fare cinema però partendo da altre cose». Insomma Sorelle Mai segnerebbe il definitivo congedo, nel limite del possibile pacificato e rasserenato, dell´antico ribelle dal già odiato natìo borgo selvaggio.

mercoledì 8 settembre 2010

Terra 29.5.09
Nelle librerie l’ultimo lavoro di Mario Vegetti, «Un paradigma in cielo». Una rassegna della fortuna del pensatore politico da Aristotele a Kant e Hegel, fino ai giorni nostri. Con un’attenzione particolare al Novecento
Né in cielo né in terra. Lo Stato perfetto di Platone
Precursore di tutti i totalitarismi. La sua «ingegneria sociale utopica» è indifferente alla violenza richiesta per fondare una società nuova
di Noemi Ghetti

L’iperuranio delle idee platoniche era la reazione all’antimetafisica dei sofisti, che con Protagora avevano posto «l’uomo a misura di tutte le cose»: una risposta a quello che oggi si chiamerebbe “relativismo”, paventato elemento disgregatore della “pólis”, a cui il metodo maieutico di Socrate non aveva saputo porre rimedio. Il «sapere di non sapere», cardine dell’intellettualismo etico socratico, si era rivelato infatti un principio inadeguato alla ricerca del «Sommo Bene», cioè della verità assoluta. Platone rispose con la proposizione teorica di un fondamento divino, eterno ed immutabile della conoscenza, che poteva essere solo “reminiscenza” di quanto l’anima razionale, e di necessità immortale, conosceva “ab aeterno”, per averlo mutuato nell’iperuranio da cui proveniva. Sembrerebbe una questione filosofica, e invece era una questione eminentemente politica: «la teoria delle idee - secondo Popper - è lo strumento teorico che consente di delineare, e di fondare, il “modello dello stato perfetto”, per definizione immutabile e invariante».
«Un paradigma in cielo» (Carocci), il nuovo libro di Mario Vegetti, ci conduce attraverso un’interessante rassegna della fortuna del Platone politico da Aristotele ai giorni nostri, con un’attenzione particolare al Novecento. Il titolo del libro è una citazione di un passo della Repubblica platonica in cui a Glaucone, che obietta che la città della cui fondazione si parla non esiste da nessuna parte della terra, Socrate risponde che essa è posta in cielo come modello (“paradeigma”) per chi voglia, tenendolo a mente, rifondare se stesso. Di una rifondazione del sapere si sentiva in verità bisogno, se si consideravano gli esiti della scandalosa condotta politica di cui aveva dato prova la nuova leva di filosofi cresciuti, alla fine del V secolo, in ambito sofistico-socratico. Nel 415 a.C., mentre infuriava la guerra del Peloponneso, Alcibiade, il dissoluto e ambizioso pupillo amato da Socrate nel Simposio, aveva promosso la disastrosa spedizione militare ateniese di 30.000 uomini in Sicilia, che segnò l’inizio del declino di Atene. Nel 404 a.C. il sanguinario Crizia, un altro allievo di Socrate, era stato il capo dei Trenta tiranni, il governo fantoccio imposto dagli spartani agli ateniesi sconfitti, che si era macchiato - oltre che dell’assassinio dello stesso Alcibiade - di confische, esili e uccisioni di stranieri senza cittadinanza, allora il nerbo produttivo della città.
Per Platone dunque l’interesse politico è tutt’uno con quello filosofico, e le sue opere più direttamente politiche, la Repubblica, il Politico e le Leggi, costituiscono la parallela elaborazione filosofica del progetto politico di instaurare il suo stato ideale nella Siracusa del tiranno Dionisio I e poi di Dionisio II. Il progetto, vagheggiato sulla base di un rapporto di intima amicizia con l’ammiratore e seguace siciliano Dione, cognato di Dionisio I, fu perseguito da Platone nell’arco di un trentennio, con tre a dir poco problematiche spedizioni in Sicilia.
La malattia della “pólis” della fine del V secolo e la cura ideata da Platone, una “politéia” governata da una casta illuminata di filosofi-legislatori, in cui l’ordine sia assicurato da una classe di guardiani, che garantiscano l’obbedienza del vasto gregge dei lavoratori, nel Medio Evo attirò l’interesse dei teologi cristiani, e sembrò quasi incarnarsi nel modello teocratico cristiano. Ma fu a partire da Kant e Hegel che, per tutto l’Ottocento e il Novecento, si avvicendarono le interpretazioni più disparate del pensiero di Platone, divenuto ineludibile banco di prova di ogni filosofia della politica. Tra slittamenti semantici significativi, valorizzazioni di aspetti parziali a discapito di altri, arbitrarie appropriazioni e deformazioni, la rassegna di Vegetti procede agile e nello stesso tempo approfondita, fornendoci una storia della cultura degli ultimi due secoli filtrata alla luce della teoria platonica dello stato. Incontriamo così un Platone liberale e uno socialista, un Platone nazista e uno comunista, uno fascista e uno cattolico. E non mancano quello utopico, quello ironico e addirittura quello impolitico.
Nel Novecento i tedeschi individuarono in Platone la guida spirituale della rinascita dalla sconfitta della prima guerra mondiale e dal trauma della rivoluzione repubblicana. Al nazionalsocialismo piacquero la superiorità ariana della casta dei filosofi, la militarizzazione dello stato e l’eugenetica al servizio dell’idea di razza. I bolscevichi dei primi anni della rivoluzione accolsero l’utopia platonica come premessa ad una radicale trasformazione educativa e morale della società, affascinati dall’opera di collettivizzazione, dall’abolizione della proprietà privata e della famiglia teorizzati dalla Repubblica. Ma nel 1923 le opere di Platone furono escluse dalla libera consultazione nelle biblioteche sovietiche, insieme con quelle di Kant e Nietzsche.
Per Platone, scriveva Popper nel 1944, mentre la seconda guerra mondiale infuriava, «l’individuo è il Sommo Male in senso assoluto»: questo è il punto nodale, che lo rende precursore di tutti i totalitarismi. Presa dal sacro fuoco di fondare la società nuova, «l’ingegneria sociale utopica» di Platone è indifferente alla violenza che si richiede per costituirla. Insomma, per l’arbitrarietà dei fini e l’impossibilità di controllare la sequenza dei mezzi, il filosofo della «società aperta» riteneva molto probabile che essa portasse sulla terra, invece che il cielo, l’inferno. Il potenziale antidemocratico della «scrittura velenosa», perché affascinante, della Repubblica è ancora ben lungi, Popper concludeva, dall’essere esaurito.
«Che cosa resta oggi di Platone? » si chiede Vegetti alla fine del suo saggio.
La ricerca sulle cause profonde della plurimillenaria fascinazione, subita sia dai conservatori che dai rivoluzionari, di un modello politico totalitario fondato sulla negazione della sessualità e dell’identità delle donne, relegate al ruolo riproduttivo di fattrici per la patria, e sull’elevazione del rapporto pederastico a modello ideale di eros, rimane tuttora aperta.


Sommarietto:

Abbiamo un Platone liberale e uno socialista, uno fascista e uno cattolico,
uno nazista e uno bolscevico

l’Unità 8.9.10
Intervista a Maurizio Landini
Tute blu: è solo l’inizio, se la deroga si fa regola il contratto non esiste più
Il leader Fiom: «Il problema non riguarda solo i metalmeccanici, ma tutti i lavoratori italiani»
di Luigina Venturelli

Quello di Federmeccanica è «un atto politico preciso, grave ed irresponsabile, perchè produce la rottura delle relazioni industriali democratiche in questo Paese». Dunque la risposta della Fiom non potrà che essere politica: «Nel comitato centrale discuteremo tutte le iniziative necessarie, valuteremo gli strumenti legali, organizzeremo una campagna di discussione tra tutti i lavoratori, ci batteremo anche nelle fabbriche, e la manifestazione del 16 ottobre per la difesa dei diritti assumerà ulteriore importanza» assicura il segretario generale Maurizio Landini. La disdetta di Federmeccanica è una dichiarazione di guerra alla Fiom? «Piuttosto è una dichiarazione di guerra a tutti i lavoratori metalmeccanici, perchè si vuol far saltare il loro contratto nazionale lasciandoli privi di qualsiasi strumento di contrattazione, secondo il presupposto inaccettabile che le industrie possano funzionare ed essere competitive solo cancellando i loro diritti fondamentali».
Questa è la teoria del Lingotto.
«Infatti non bisogna dimenticare che questa accelerazione di Federmeccanica nasce da un ultimatum della Fiat dopo la vicenda di Pomigliano. Ma se c’è un sindacato che firma gli accordi per la produttività e la competitività, e senza bisogno di deroghe al contratto, quello è la Fiom. Sfido le aziende metalmeccaniche a dimostrare il contrario».
Da un punto di vista pratico, che cosa succederà adesso? «Per quanto ci riguarda, resta in vigore il contratto del 2008, firmato da tutte le organizzazioni sindacali ed approvato dai lavoratori metalmeccanici con un referendum. Il comitato centrale della Fiom discuterà anche di come, quando, e con quali contenuti presentare la piattaforma per il suo rinnovo. Invece vorrei chiedere a Fim e Uilm chi ha dato loro il mandato per cancellare il contratto nazionale». Domanda retorica.
«La questione non riguarda solo i lavoratori metalmeccanici. Se la derogabilità diventa la regola, allora è chiaro che i contratti nazionali non esistono più. Un vero disastro per i lavoratori, ma anche per le imprese, che perderebbero un pungolo industriale verso la ricerca, la qualità e l’innovazione, e cadrebbero nella competizione al ribasso sul costo del lavoro».

l’Unità 8.9.10
Bersani: grave errore voler dividere il mondo del lavoro
di Giuseppe Vespo

Dal 2012 la Panda sarà prodotta su 18 turni e straordinario decisi dall’azienda
Sacconi: auspichiamo l’ulteriore evoluzione delle relazioni industriali...

Il leader del Pd boccia la scelta di Federmeccanica: «Un errore». Dal piano Fabbrica Italia a Pomigliano, le tappe della disdetta che tiene il Lingotto in Confindustria e gli garantisce «le misure correttive» chieste da Marchionne.

Dal 2012 la Panda, e non solo quella, potrà essere prodotta come vuole Marchionne: su 18 turni, con 120 ore all’anno di straordinario decise dall’azienda senza accordo sindacale (oggi sono 40 ore), con tre pause da dieci minuti per ogni turno contro le due da venti minuti di adesso con qualche voce retributiva in meno per i nuovi assunti e la mensa aperta solo a fine turno; senza la possibilità di scioperare contro le suddette regole e senza la Fiom che chiami in causa i Tribunali.
«UN ERRORE»
Il piano voluto dal Lingotto per portare l’utilitaria in Campania dà già l’idea di come sarà la nuova Fiat, e forse non solo quella. Ma è da lì, dal Gian Battista Vico, che si deve partire per ripercorrere le tappe che hanno portato alla decisione presa ieri da Federmeccanica: la disdetta preventiva del contratto dei metalmeccanici 2008. Una scelta sbagliata, per il segretario del Pd Pierluigi Bersani: «È un errore commenta a caldo impostare le relazioni industriali mettendo in premessa la divisione delle organizzazione dei lavoratori». Spiega il leader dei Democratici: «C’è uno sforzo comune da fare e io dico che servono due tipi di intervento: innanzitutto delle regole, di cui si occupa anche il legislatore, su salario minimo, sicurezza sul lavoro, malattia... E poi bisogna trovare qualche meccanismo che garantisca la partecipazione dei lavoratori. Non
mi piace aggiunge che tutto questo tema venga affidato a deliri tra il mistico e l’ideologico». Ma tant’è: da oggi la strada è segnata, e per il ministro del Welfare Sacconi ora «si tratta di auspicare l’ulteriore evoluzione delle relazioni industriali», superando «il vecchio impianto ideologico che voleva il necessario conflitto tra capitale e lavoro».
Allo strappo di ieri si è arrivati nel giro di qualche mese, a cavallo di quest’estate fatta di crisi, licenziamenti e «diktat». Era il 22 aprile quando Marchionne annunciava il piano «Fabbrica Italia» e «le misure correttive» da applicare agli stabilimenti della casa torinese per investire quasi 20 miliardi di euro. Neanche un mese dopo i sindacati, senza la Fiom e con il placet del governo, firmavano l’accordo voluto dal Lingotto per produrre la Panda a Pomigliano d’Arco. Un’intesa benedetta solo dal 62% dei dipendenti dello stabilimento chiamati al referendum: pochi per lo stesso Marchionne, che di fronte al «prendere o lasciare» aspettava un plebiscito. Da qui l’idea di newco per il Gian Battista Vico, nata il 19 luglio già fuori da Federmeccanica, e la «minaccia» con tanto di disdetta già pronta di lasciare l’associazione confindustriale per avere mani libere dal contratto delle tute blu. Un brutto affare anche per Viale dell’Astronomia, che con la presidente Marcegaglia ha poi ottenuto qualche mese di calma per trovare una soluzione, salvare la permanenza di Fiat in Confindustria e le esigenze produttive del Lingotto. Ed eccola la soluzione. Era attesa ed è arrivata col direttivo degli industriali metalmeccanici. Ma non sarebbe stata possibile senza l’accordo separato sul nuovo modello contrattuale di gennaio, non firmato dalla Cgil, e il contratto delle tute blu del 2009, non sottoscritto dalla Fiom.
Ora vedremo le contromosse dei meccanici Cgil. Che, lascia intendere il responsabile del settore auto Enzo Masini, potrebbero sfruttare la loro presenza nelle aziende e organizzare il malcontento dei lavoratori contro ulteriori deroghe al contratto. La partita è aperta. La Fiom la giocherà sulla rappresentanza. «Così si apre lo scontro sociale», dice il segretario nazionale Giorgio Cremaschi: «Solo pochi illusi potevano pensare che con Pomigliano si affrontasse una situazione particolare». Mentre per Fim-Cisl e Uil-Uilm non cambia nulla: «Il nostro contratto è quello del 2009», affermano i segretari Giuseppe Farina e Rocco Palombella. Ma fuori dal mondo sindacale sono diversi i «no» alla disdetta. Una scelta che «complica inutilmente lo scenario», la bolla Stefano Fassina, responsabile economico del Pd. Negativo anche il giudizio di Sergio Cofferati, mentre il sindaco di Torino Chiamparino boccia gli «atti unilaterali».

Repubblica 8.9.10
Il pugno di ferro degli industriali
di Luciano Gallino

Il contratto nazionale di lavoro dovrebbe svolgere due funzioni fondamentali: perseguire una distribuzione del Pil passabilmente equa tra il lavoro e le imprese, e stabilire quali sono i diritti e i doveri specifici dei lavoratori e dei datori.
Diritti e doveri al di là di quelli sanciti in generale dalla legislazione in vigore. La disdetta del contratto nazionale dei metalmeccanici da parte di Federmeccanica compromette ambedue le funzioni, a scapito soprattutto dei lavoratori. Caso mai ve ne fosse bisogno. I redditi da lavoro hanno infatti perso negli ultimi venticinque anni almeno 7-8 punti sul Pil a favore dei redditi da capitale (dati Ocse). Perdere 1 punto di Pil, va notato, significa che ogni anno 16 miliardi vanno ai secondi invece che ai primi. Questa redistribuzione del reddito dal basso verso l´alto ha impoverito i lavoratori, contribuito alla stagnazione della domanda interna, ed è uno dei maggiori fattori alla base della crisi economica in corso.
Quanto ai diritti, sono sotto attacco sin dai primi anni ´90 e la loro erosione ha preso forma della proliferazione dei contratti atipici che sono per definizione al di fuori del contratto nazionale. Per cui lasciano ai datori di lavoro la possibilità di imporre a loro discrezione, a milioni di persone, quali debbano essere le retribuzioni, gli orari, l´intensità e le modalità della prestazione, e soprattutto la durata del contratto.
Si potrebbe obbiettare che il contratto dei metalmeccanici riguarda solo un milione di persone, su diciassette milioni di lavoratori dipendenti. Ma non si può avere dubbi sul fatto che altri settori dell´industria e dei servizi seguiranno presto l´esempio di Federmeccanica. Dietro la quale è sin troppo agevole scorgere non l´ombra, bensì il pugno di ferro che la Fiat sembra aver scelto a modello per le relazioni industriali.
Le conseguenze? Ci si può seriamente chiedere come possa mai immaginarsi un imprenditore o un manager, e come possa sostenere in pubblico senza arrossire, di riuscire a competere con i costi del lavoro di India e Cina, Messico e Vietnam, Filippine e Indonesia, cercando di tenere fermi i salari dei lavoratori italiani mentre li si fa lavorare più in fretta, con meno pause e con un rispetto ossessivo dei metodi prescritti. Magari a mezzo di altoparlanti e Tv in reparto, come già avviene in aziende del gruppo Fiat. Allo scopo di competere con tali paesi bisognerebbe produrre beni e servizi che essi non sono capaci di produrre, o perché sono altamente innovativi, oppure perché sono destinati al nostro mercato interno. Ma per farlo occorrerebbe aumentare di due o tre volte gli investimenti in ricerca e sviluppo, che ora vedono l´Italia agli ultimi posti nella Ue. Affrontare una buona volta il problema dello sviluppo di distretti industriali funzionanti come fabbriche distribuite organicamente sul territorio, tipo i poli di competitività francesi o le reti di competenze tedesche. Accrescere gli stanziamenti per la formazione professionale, le medie superiori e l´università, invece di tagliarli con l´accetta come si sta facendo.
A fronte di ciò che sarebbe realmente necessario per competere efficacemente con i paesi emergenti, la guerra scatenata da Fiat e Federmeccanica al contratto nazionale di lavoro è un povero ripiego. Che farà salire la temperatura del conflitto sociale. Per di più impoverirà ulteriormente i lavoratori, che così acquisteranno meno merci e servizi, abbasseranno gli anni di istruzione dei figli e dovranno andare in pensione prima perché non possono reggere a un lavoro sempre più usurante. Fa un certo effetto vedere degli industriali che nel 2010, a capo di fabbriche super tecnologiche, si danno la zappa sui piedi.

l’Unità 8.9.10
Bersani: «Non c’è ancora la Costituzione di Arcore»
Risposta a Vendola
di Simone Collini

Il leader Pd dà l’altolà al premier e a Bossi. «Il voto? Non ci spaventa, non siamo impreparati»
Al lavoro per la legge elettorale. «Anche con Fini: lui resta a destra ma è un interlocutore»
Risposta a Vendola: «Prepararci al voto? Il Pd è pronto, ma la crisi è tutta di Berlusconi»

Il segretario democratico dà l’altolà a Berlusconi e Bossi: «Quando avremo la Costituzione di Arcore potranno chiedere le dimissioni del presidente della Camera». Al lavoro per la riforma elettorale.

Bersani si aspetta ancora «pericolosi colpi di coda» da parte di un Berlusconi in difficoltà ma ancora tutt’altro che sconfitto. E la pretesa delle dimissioni di Fini e l’annuncio di una richiesta di incontro al Quirinale per perorare la causa confermano i timori del leader del Pd. «Berlusconi e Bossi non hanno a disposizione le istituzioni, e questo devono metterselo in testa», è l’altolà che lancia. «Quando avremo la Costituzione di Arcore allora potranno chiedere le dimissioni del presidente della Camera», ironizza. Ma le ultime ventiquattro ore per Bersani dicono che c’è poco da scherzare e che la crisi politica aperta nel centrodestra difficilmente potrà trascinarsi per molto. Così, se fino a qualche settimana fa insisteva sulla necessità di dar vita a un governo tecnico, ora il segretario del Pd ci tiene a sottolineare che i Democratici sono «pronti», se si andrà alle urne in primavera.
PD PRONTO AL VOTO
L’unica cosa che si esclude, al Nazareno, è uno show down immediato che porti ad elezioni in autunno. Per il resto, Bersani dice che se anche si dovesse andare al voto tra sei mesi, il Pd non è affatto «impreparato». Una risposta a Vendola, che chiede di tenere al più presto le primarie del centrosinistra, ma non solo. «Davanti a eventuali elezioni anticipate siamo pronti. Se si arrivasse al voto deve essere però chiaro che questo avrebbe un padre e una madre, e cioè Berlusconi e la sua crisi. Dopodiché, noi non siamo né preoccupati né spaventati».
IL NODO DELLA LEGGE ELETTORALE
Non è però il ritorno anticipato alle urne lo scenario auspicato dal leader Pd. Con questa legge elettorale rischia infatti di ricrearsi una situazione di paralisi, visto che l’intenzione del leader Udc di andare da solo potrebbe consentire a Pdl e Lega di conquistare il premio di maggioranza alla Camera (basta un voto in più per avere il 55% dei seggi) e invece potrebbe impedire un’analoga maggioranza al Senato (dove il premio viene assegnato su base regionale).
Per questo Bersani continua a lavorare per verificare se sia possibile dar vita in Parlamento a una maggioranza in grado di cambiare la legge elettorale. Il leader del Pd vuole coinvolgere anche Fini perché, dice, «la modifica non possiamo farla da soli ma con chi è disponibile» e perché il presidente della Camera viene
giudicato «un interlocutore per le regole del gioco». Fini, dice Bersani anche dopo averlo ascoltato al Tg di Mentana, «è un esponente del centrodestra e fa parte di questo litigio che sta avvenendo nel centrodestra». Però dice anche «non mi è dispiaciuto», quando gli viene richiesto un commento sul passaggio di Fini a Mirabello sulla necessità di cambiare la legge elettorale. «Abbiamo bisogno di dare ai cittadini la possibilità di scegliere i propri rappresentanti, e dobbiamo privilegiare questo aspetto, senza scoraggiare il bipolarismo», dice Bersani. Che alla domanda se abbia sentito Fini dopo Mirabello risponde con un secco «no». E a quella successiva se lo incontrerà nei prossimi giorni, risponde con un sorriso: «Vedremo».
Il problema è che sul tipo di modello con cui sostituire il “porcellum” la discussione è in alto mare. L’Udc punta al proporzionale alla tedesca o al “provincellum” (sistema utilizzato per le Province, ma senza premio di maggioranza). Due ipotesi bocciate dal costituzionalista veltroniano Ceccanti, solo per rimanere in casa Pd («il tedesco è peggiorativo rispetto all’attuale legge e il provincellum è il sistema abrogato col referendum del ‘93»). Quanto poi al finiano Urso, il viceministro dalla Festa del Pd di Torino ha definito l’uninominale «la soluzione migliore».

l’Unità 8.9.10
Bindi: ora il nuovo Ulivo Vendola: è già vecchio
Il presidente Pd: noi voteremo Bersani
di Maria Zegarelli

Il ticket con Chiamparino. Il leader Sel lo smonta.
Il governatore della Puglia Accoglienza da star alla Festa per un dibattito con Rosy Bindi
Primarie «Servono subito». Il presidente Pd: «Dopo la crisi di governo. Nichi sa come vincerle»

Il governatore della Regione Puglia Nichi Vendola ieri ospite alla Festa Pd ha ribadito la necessità di andare alle primarie il prima possibile. Bindi ha risposto: «Dopo la crisi di governo».

Sono arrivati un’ora prima per essere sicuri di trovare il posto. È l'appuntamento del giorno, il più atteso. Tutti in piazza Castello per ascoltare Nichi Vendola, che già scalda i muscoli in vista delle elezioni e che, ha già fatto sapere dal mattino, proprio da questo palco lancerà la sfida a Rosy Bindi e al Pd: «Primarie subito, ora».
La sala scoppia, impossibile entrare già alle otto e mezzo di sera. C'è un cartello che campeggia. «Nichi e Rosy oggi sposi». Quando arrivano sul palco lo vedono e sorridono. Sposi proprio no, per ora ci si corteggia. Nichi la star, superacclamato, applaudito, un po’ poeta, un po’ visionario, come si definisce lui stesso, Rosy, concreta, gentile, ma ferma, che alla gara dell' applausometro forse arriva seconda, ma è una bella sfida. «Le primarie per fare il premier si fanno, non ci sono dubbi risponde infatti quando Vendola rilancia -, abbiamo parlato di primarie di coalizione, lo scelgono i cittadini, gli iscritti. Ho qualche dubbio sulla tua proposta di farle subito: portasse un po’ male, aspettiamo che cada il governo. Noi sappiamo come farle, Nichi sa come vincere ma ogni volta è diverso».
Si rilanciano battute, accendono la platea, «è davvero una bella serata», ma potete starne certi non si risparmiano le critiche. Nichi resta sulle sue posizioni, quelle che qui a Torino va ripetendo dalla mattina, «Ieri era troppo presto per convocare le primarie, domani troppo tardi, allora le si convochi ora». Anzi, oggi è il tempo di metterci attorno al tavolo per definire il regolamento delle primarie e non sfuggire a quello che è percepito dal popolo del centrosinistra come un appuntamento fondamentale». Perché «la bella favola di Berlusconi, per metà Peron, per metà Vanna Marchi, è finita».
E il «grande animale politico», sta-
volta «ha paura del responso elettorale». Adesso davanti a migliaia di persone dice che non basta un atto di buona volontà per smontare il berlusconismo che è stato un mix di liberismo e populismo, che ci ha trasformato tutti da cittadini «a clienti, telespettatori», che ha cambiato antropologicamente il Paese.
Non basta perché «il centrosinistra si costruisce attorno ai precari, ad un nuovo modello di scuola, di società». E se al mattino smonta, con gentilezza, il ticket con il sindaco di Torino Sergio Chiamparino, di cui ha una «grande stima» e di cui apprezza la sua voglia di mettere a disposizione l'esperienza torinese per trasferirla sul piano nazionale, di sera torna sul centrosinistra, popolato da «anime morte», temporeggia sul nuovo Ulivo, quando Bindi glielo chiede esplicitamente, lui risponde «In Puglia ci sono 60 milioni di ulivi».
Ma non ripete quando detto durante una video chat a La Stampa, il nuovo Ulivo «sarebbe un suicidio», inutile unire «i vecchi cocci» di quello vecchio "non avrebbe nessun appeal. Sarà perché Rosy Bindi dice che quel nuovo Ulivo è un cantiere a cui si deve lavorare tutti insieme, «non si fa senza di lui» sarà perché questo popolo di centrosinistra arrivato ad ascoltarlo chiede unità e non divisione, ma i toni sembrano più soft. «Per costruire l'alleanza, risponde, adesso, dobbiamo mettere insieme il lavoro e i diritti sociali». Ma per vincere non basta fare «un raduno, una sommatoria, bisogna ricostruire culturalmente l'orizzonte del cambiamento, occorre il coraggio del cambiamento».
E sulla riforma elettorale Bindi propone una riforma quale scopo unico del governo di transizione. Vendola è scettico: ho il calice pronto per brindare ma non credo che si trovi la maggioranza».
Ai Ferrero, i Diliberto, i Nencini e i Bonelli che non hanno apprezzato ilo giudizio sul progetto lanciato da Bersani, risponde che a lui non interessa «lo spazio per sventolare la mia bandierina», a lui interessa «che il centrosinistra diventi un nuovo racconto».
Bindi rilancia: scriviamolo il nuovo racconto, insieme, ritroviamo quello spiriuto che l'Ulivo diede al paese e ai cittadini, anche se sarà difficile oggi convincere le persone che pagare le tasse è giusto, che saranno necessari sacrifici.
Poi la chiusura. Se Vendola ribadisce che si candiderà alle primarie Bindi gli risponde: «Io ribadisco che voterò Bersani». Se ne vanno tra l’ovbazione del pubblico.

il Fatto 8.9.10
Tra i militanti del Pd
Il “partito delle anime morte” si infiamma per Vendola
di Stefano Caselli

“C ome accoglieremo Vendola? Con stima e affetto. E te lo dice uno che con Nichi ha diviso l’appartamento per tre anni ai tempi della Fgci...”. Parola di un dirigente del Pd. Le storie hanno sorgenti comuni ma poi, come un torrente, si divaricano. Ieri, alla Festa democratica di Torino, è stato il giorno di Vendola; l’ufo, l’outsider, il guastafeste. E come tale è stato atteso per tutta la giornata, con “stima e affetto”. Ma il popolo del Pd lo ha accolto con un entusiasmo senza precedenti alla festa: 8 applausi solo nei primi 5 minuti. Nichi non perde tempo. La sua è una giornata torinese intensa, ma non prevede un incontro con Sergio Chiamparino; forse perché il sindaco era altrove, o forse perché il presidente della Puglia manifesta stima per il primo cittadino di Torino, tuttavia declina l’invito al tandem di cui tanto si è parlato: “È un eccellente sindaco – dichiara – e sono contento se si candiderà alle primarie, ma dal mio punto di vista è sbagliato indicare un ticket”. Chiamparino accanto a Vendola sembrerebbe la formula perfetta per la digeribilità. Il diavolo e l’acqua santa, il visionario e il pragmatico, la tequila bum-bum e la tisana di passiflora; ma le primarie non sembrano affatto un desiderio impellente tra gli stand della Festa democratica. Meno che mai se a reclamarle è qualcuno, ormai, percepito come estraneo. Come a dire: la leadership è roba nostra, Vendola non tenti la scalata a un partito che non è il suo.
A casa sua il presidente della Puglia ci passa brevemente: una rapida passeggiata intorno alle 19 alla Festa di Sinistra e Libertà all’Anatra Zoppa (storico locale della sinistra torinese) poco prima del dibattito con Rosy Bindi in piazza Castello. Nel primo pomeriggio, invece, lunga tappa alla festa della Fiom ad Orbassano, in un’antica cascina aggrappata a una delle più brutte periferie torinesi, a poche centinaia di metri dai lembi estremi della Grande Mirafiori. Ad aspettarlo ci sono decine e decine di giovani. Certo, alle quattro del pomeriggio di un giorno feriale, in un posto del genere, è più facile incontrare uno studente universitario che un impiegato, ma la differenza tra l’età media delle platee della Festa Democratica e quella che, nonostante mosche ed umidità, ascolta Vendola per oltre un’ora, salta all’occhio. Sono ragazzi che non si scandalizzano a sentir parlare di operai e padroni, citano Garcia Marquez e Antonio Gramsci, ascoltano volentieri parole come “principio di speranza” e “politica come grande narrazione”. Chiedono a Vendola di “dare un segno” e loro saranno pronti a seguirlo, “senza deleghe in bianco”, precisano. In pochi hanno votato Pd, ma sarebbero pronti a farlo se il leader fosse lui. Alle primarie, però, non ci credono: “Non gliele faranno fare – è l’opinione di uno studente – e se le fanno le taroccano”. Ma Vendola insiste: “Primarie subito”. E replica a Rosy Bindi ancor prima di incontrarla in piazza Castello: “Rosy Bindi dice che fare le primarie ieri era troppo presto, farle domani è troppo tardi. Io allora dico: le si convochi oggi”. Il pezzo forte del suo discorso è quando paragona il Pd a un partito di “anime morte” come il romanzo di Gogol. Giura di ripeterlo anche a casa del Pd.

Corriere della Sera 8.9.10
Vendola star alla festa pd «Nuovo Ulivo? Non serve»
di Elsa Muschella

Veltroni: in caso di crisi governo anche con Fini

TORINO — L’investitura arriva direttamente dalla folla stipata in piazza Castello: c’è Nichi Vendola, ed è un’ovazione. Accolto come un divo da una sala «piena almeno il triplo di quando è venuto D’Alema» (o almeno così giura chi non s’è perso nemmeno un incontro della Festa democratica), il governatore pugliese si ritrova accanto a una sorridente Rosy Bindi — che commenta l’inclemenza del tempo con un «Piove, governo ladro!» — e saluta Torino: «Il popolo del centrosinistra batte un colpo, costruiamo il cantiere della vittoria».
Assolutamente d’accordo con la presidente del Pd sulla «grande soddisfazione nel vedere Berlusconi che adesso conta i voti sapendo la fatica che facevamo noi...», Vendola sembra concedere un’apertura di credito anche sul tema che oggi interessa di più ai riformisti: la legge elettorale e l’ipotesi di un governo di garanzia capace di traghettare il Paese alle urne con un nuovo sistema di voto, eventualità benedetta anche da Walter Veltroni alla Festa dell’Unità di Bologna («Se si apre la crisi, subito un governo di emergenza, anche con Fini»). «Se si trova una maggioranza in Parlamento ho pronto il calice per brindare — dice ora "il ragazzo di Puglia" —. E soprattutto ho un’intera collezione di spumanti se si riesce a fare una legge sul conflitto d’interessi. Ma dubito che si avrà successo — sostiene sulla coda di un applauso fragoroso —. Il centrosinistra non ha saputo fare una legge sul conflitto d’interessi quando governava, come può pensare di riuscire ora?».
Il muro di sarcasmo retroattivo investe anche l’esperienza del vecchio Ulivo: «Ma come fa Bersani a pensare a un nuovo cantiere? Avrà pure lusingato Diliberto, Ferrero, Bonelli e Nencini, pronti alla cooptazione nel Nuovo Ulivo, a una rendita di posizione e a spergiurare, oggi, "stavolta faremo i bravi, faremo un fioretto". Il mio problema non è avere lo spazio per sventolare la mia bandierina, non è avere il mio ceto politico e la mia forza di interdizione. Il mio problema, compagni e compagne, vabbé, amici e amiche — sorride Vendola scatenando il tripudio — è cambiare la storia d’Italia e ricostruire finalmente una grande speranza per questo Paese». Ecco perché allora l’unica strada percorribile è quella di «ridare la parola al popolo», ecco perché è questo il tempo per la sinistra di uscire dalla propria «nicchia ideologica», di rinunciare alla resurrezione dell’Ulivo e di puntare sull’unico strumento in grado di assicurare potere al popolo: «Le primarie. Consideratele pure uno strumento rudimentale e rozzo, ma l’esperienza pugliese ha dimostrato quanto siano astruse tutte le geometrie politiche dei grandi strateghi».
Su questo orizzonte l’apertura della Bindi è totale: «Le primarie per scegliere il candidato premier si faranno eccome, caro Nichi: è stato proprio il cammino congressuale di Bersani a stabilirlo. Vedete, Nichi ha ragione: non si può dire che ieri era presto e oggi è troppo tardi, le primarie bisogna farle». E sulle difficoltà dei tempi organizzativi, l’ex ministro non si lascia intimorire: «E quanto ci vorrà a mobilitare il nostro popolo? Guardate qua, stasera, cosa sono riusciti a fare due come noi con tutta questa meravigliosa gente... Certo, Nichi sa vincerle le primarie, ma noi sappiamo come farle!». La Bindi però non molla la presa, e incalza il governatore sulle future alleanze: «Nichi, io sulle primarie ti ho dato ragione, ora però tu mi devi una risposta sull’Ulivo e me la devi stasera perché senza di te questa cosa non si fa». Lui non concede nulla e anzi fa appello allo spirito: «Io in Puglia ho già 60 milioni di piante di ulivo». Gli risponde da Roma il segretario del Pd Pier Luigi Bersani, che dopo aver attaccato Bossi e Berlusconi («Le istituzioni non sono a loro disposizione») replica all’outsider necessario ma ingombrante: «Vendola stia tranquillo, noi non temiamo le elezioni e non siamo affatto impreparati al voto».

l’Unità 8.9.10
La distruzione della scuola
Istruzione. La linea suicida di Gelmini
di Vittorio Emiliani

Da anni l’Italia spende poco e male per l’istruzione. Ma con questo governo spende sempre meno e sprofonda al penultimo gradino fra i 33 Paesi dell’Ocse, lontanissima da Scandinavia, Usa, Regno Unito, o Francia, lontana da Austria e Portogallo. Dal 5 % circa di PIL del governo Prodi al 4,7 % indicato dall’Ocse prima dell’ultima sciagurata manovra. Il ministro Gelmini prende lo spunto per gloriarsi dei suoi tagli sulla pelle dei precari sostenendo che il rapporto “spinge ad andare avanti con le riforme”. Quali, se per ora l’intero comparto – dalle materne all’Università – viene sottoposto ad una dieta delle più debilitanti? Avremmo capito se avesse mantenuto inalterata la spesa e destinato una quota maggiore ad investimenti in strutture, edifici, laboratori, servizi di supporto, e ad incentivi al merito. No, siamo di fronte ad un governo che sa solo calare la scure su istruzione, cultura e ricerca, cioè sul futuro del Paese. Una linea suicida.
Tanto più che l’Italia detiene già la “maglia nera” dei laureati. Stiamo infatti andando (ma con le discusse lauree brevi) verso il 14 % di giovani e adulti, roba da arrossire rispetto agli altri Paesi europei che stanno al doppio e oltre, Spagna inclusa. Di donne laureate la Finlandia ne vanta più del triplo di noi e il Regno Unito poco di meno. Siamo tuttora il Paese in cui il 25 % degli abitanti in età ha a malapena la V Elementare o neanche quella (in pratica semi-analfabeti) e un altro terzo circa si è fermato alla III Media. Col Nord che non brilla per niente e coi giovani di famiglie “a basso livello di formazione” che, al 90 %, non arriveranno ad una laurea. Paese ingiusto, e ottuso: per l’Ocse infatti, un individuo con un livello alto di istruzione, “genererà nel corso della vita lavorativa una somma supplementare di 119.000 dollari tra imposte sul reddito e contributi sociali” rispetto ad un individuo con una istruzione più bassa. Senza contare l’apporto che potrà dare a tutti in creatività.
Ecco perché indignano i Tg di questi giorni in cui si vedono insegnanti e genitori che si ingegnano a rendere accettabili aule fatiscenti, a trovare altri banchi, a portare pennarelli, quaderni, persino la carta igienica. Sono gli stessi italiani a reddito fisso ai quali questo fisco sommamente ingiusto non fa sconti di sorta, i soli, coi pensionati e coi titolari di partite Iva, a pagare al centesimo tasse e imposte. Senza le quali anche quel misero 4,7 % del Pil non potrebbe essere assegnato all’istruzione pubblica. “Non è mai troppo tardi” fu una bandiera della tanto rimpianta Rai del servizio pubblico quando faceva cultura con l’Approdo e insegnava a leggere e scrivere con l’indimenticabile maestro Manzi. Non è mai troppo tardi. Per cambiare anzitutto.

l’Unità 8.9.10
L’Ocse: in Italia si spende poco per la scuola. Prof in piazza
di G. V.

Il dossier è spietato: il nostro Paese agli ultimi posti, così gli stipendi
Gelmini: ci dà ragione. Replica Pd: senza investimenti l’istruzione è morta
L’Ocse ci consegna un quadro deprimente dell’Istruzione italiana e Gelmini si sente rinfrancata. Il nostro Paese è agli ultimi posti per investimenti nella scuola, i nostri insegnanti i peggio pagati.

L'Italia spende il 4,5% del pil nelle istituzioni scolastiche, contro una media Ocse del 5,7%. Solo la Repubblica Slovacca spende meno tra i paesi industrializzati, secondo quanto emerge dallo studio Ocse sull'istruzione. Nel suo insieme, la spesa pubblica nella scuola (inclusi sussidi alle famiglie e prestiti agli studenti) è pari al 9% di quella pubblica totale, il livello più basso tra i paesi industrializzati (13,3% la media Ocse) e l'80% della spesa corrente è assorbito dalle retribuzioni del personale, docente e non, contro il 70% medio nell'Ocse. La spesa media annua complessiva per studente è di 7.950 dollari, non molto lontana dalla media (8.200), ma focalizzata sulla scuola primaria e secondaria e a scapito dell'università, dove la spesa media per studente, inclusa l'attività di ricerca, è 8.600 dollari, contro i quasi 13mila Ocse.
La spesa cumulativa per uno studente dalla prima elementare alla maturità è di 101mila dollari (contro 94.500 media Ocse), cui vanno aggiunti i 39mila dollari dell'università contro i 53mila della media Ocse. Nella scuola primaria il costo salariale per studente è 2.876 dollari, 568 in più della media Ocse, ma il salario medio dei docenti è inferiore di 497 dollari alla media che è di 34.496 dollari. Gli insegnanti sono pagati meno della media, soprattutto ai livelli più alti di anzianità di servizio. Un maestro di scuola elementare inizia con 26mila dollari e al top della carriera arriva a 38mila (media Ocse 48mila). Un professore di scuola media parte da 28mila per arrivare a un massimo di 42mila (51mila Ocse), mentre un professore di liceo a fine carriere arriva a 44mila (55mila). Al tempo stesso, però, l'Italia è quint’ultima per le ore di insegnamento diretto. Sono 601 l'anno nella scuola secondaria, contro una media Ocse di 703.
Per quanto riguarda i laureati, sono pochi e pagati bene, a patto di essere uomini e preferibilmente oltre i 45 anni, mentre per le donne la strada dopo l'università è decisamente più in salita, soprattutto nei guadagni.
Gelmini in uno scarno comunicato ha semplicemente detto che l’Ocse le dà ragione. L’evidenza dice il contrario. «Deve essere una gran bella soddisfazione, per Tremonti e Gelmini, sapere che l`Italia è fanalino di coda nella spesa per l`istruzione e che persino Brasile ed Estonia sono più generosi. Peggio di noi c`è solo la Slovacchia ma diamo tempo a questo governo e certamente non ci negherà anche questa soddisfazioneUna scuola nella quale non si investe è una scuola morta», avverte Francesca Puglisi responsabile Pd Scuola. Oggi a Roma i precari delle reppresentanze di base manifesteranno davanti Montecitorio. Nella giornata di lotta europea del 29 settembre, che oltre quella di Bruxelles vedrà una manifestazione anche a Roma, sui temi dello sviluppo, della crescita, delle politiche industriali, dell'occupazione e del welfare, «tema fondamentale sarà anche la lotta alla precarietà con la mobilitazione nazionale di tutti i precari dei settori della conoscenza». Lo annuncia una nota della segreteria nazionale della Cgil nel denunciare come «la dissennata politica dei tagli sulle fondamentali funzioni pubbliche, che ha come obiettivo finale quello della privatizzazione dei beni pubblici, si è abbattuta pesantemente sul sistema dell'istruzione e della ricerca e sull'insieme dell'
intervento pubblico».

il Fatto 8.9.10
L’Italia abbandona la scuola
Peggio di noi solo la Slovacchia
Il Rapporto Ocse sull’Istruzione rivela le bugie della Gelmini
di Mario Reggio e Caterina Perniconi

Spendiamo il 4,5% del Pil contro una media dei Paesi Ocse del 5,7%

La scuola non è una priorità del governo italiano. Per l’istruzione spediamo poco. Po-
chissimo. Siamo penultimi in graduatoria tra i Paesi Ocse, e peggio di noi fa solo la Slovacchia. Gli studenti italiani tra i 7 i 14 anni passano a scuola circa 8.200 ore contro una media dei paesi Ocse di 6.700. I nostri insegnanti hanno uno stipendio inferiore alla media dei colleghi europei, e il divario si accentua con il passare degli anni di servizio. Una situazione preoccupante, illustrata dall’ultimo rapporto sull’educazione dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico, reso noto ieri. Malgrado questo quadro sconsolante il ministro della Pubblica Istruzione, Mariastella Gelmini, conferma le valutazioni del governo sul “sistema scolastico e la necessità di proseguire sulla strada delle riforme, per questo, stiamo cercando di liberare risorse da destinare a innovazione, merito e qualità”.
La mannaia dei tagli
IL MINISTRO della Pubblica istruzione dimentica di ricordare che il bilancio della scuola pubblica italiana è stato, e verrà decurtato, in tre anni di oltre 9 miliardi. È tradizione tutta italiana annunciare riforme della scuola, tutte a costo zero. Perché la prima mossa tocca da sempre al ministro dell’Economia. Il bilancio dello Stato è in bilico: il primo pensiero corre subito alla scuola, all’università, alla ricerca. Riforma sì ma senza tirare fuori un euro. Salvo poi stracciarsi le vesti a favore dell’importanza della cultura, dell’innovazione, della tutela degli studenti. È successo anche con i governi precedenti. Ma mai era successo che una riforma della scuola venisse annunciata tagliando il bilancio di tanti miliardi. Non se l’era permesso neanche il ministro Letizia Moratti. Anche lei, assieme all’allora presidente del Consiglio Silvio Berlusconi, era il 5 febbraio del 2002, annunciò la prima riforma della scuola dopo quella di Gentile. Cosa è rimasto di quella tanto strombazzata riforma? Nulla o quasi. Anche il risibile portfolio delle conoscenze non lo ricorda più nessuno. Anzi, una cosa è rimasta: l’assunzione in ruolo dei 12 mila insegnanti della religione cattolica, senza concorso, inamovibili, con il diritto di cambiare cattedra nel caso perdessero la fede. Svanita la Moratti è arrivato Fioroni, convinto assertore della teoria del “cacciavite”. Nessuna riforma epocale, ma solo interventi mirati senza sconvolgere la scuola. Poi tocca a Mariastella Gelmini. E riecco un’altra riforma stellare e tanto per non smentire il presidente del Consiglio “la prima da quella di Giovanni Gentile”.
Ma il bilancio dello Stato non è in grado di sostenere il peso della scuola pubblica: 45 miliardi di euro l’anno, più di 700 mila insegnanti di ruolo, 200 mila precari. Bisogna risparmiare: Tremonti decide di tagliare 9 miliardi, approfittando anche del pensionamento di decine di migliaia di insegnanti e non docenti che sono arrivati alla fine della loro carriera. Tagliare, tagliare è la parola d’ordine. In nome del merito, della modernizzazione, della qualità. E poi gli studenti italiani passano troppe ore a scuola, occorre snellire le materie ed asciugare le cattedre. Quindi, per la Gelmini, i dati dell’Ocse sono i benvenuti.
Ma a proposito delle ore passate in classe, il confronto con la Finlandia, da alcuni anni ai vertici per la qualità ed i risultati di apprendimento degli studenti, è fuori luogo. È vero che nel paese nordico gli studenti trascorrono in classe pocopiùdi6milae500ore nell’arco dell’anno scolastico, ma se si sommano a quelle destinate alle attività sperimentali esterne o nei laboratori il totale delle ore di apprendimento raggiungono la media annua della scuola italiana.
Dati strumentalizzati
DURA LA replica dell’opposizione e degli studenti che “bocciano” la Gelmini e il suo operato, mentre secondo Manuela Ghizzoni, capogruppo del Partito democratico in commissione Cultura della Camera “L’Italia è il fanalino di coda in Europa in termini di spesa pubblica per istruzione e anche tra i paesi Ocse è sotto la media. Spendiamo 7.948 dollari per studente mentre la Francia 8.932 dollari, la Germania 8.270, la Finlandia 8.440, la Spagna 8.618, la Svezia 10.262, la Svizzera 13.031, gli Stati Uniti 14.269. Insomma, non si capisce che film abbia visto il ministro e stupisce che, dati alla mano, si continui a far finta di niente cercando di truccare i dati dell’Ocse”. Che l’Italia sia storicamente avara negli investimenti per la scuola è cosa nota. Spende infatti il 4,5% del Pil, la Slovacchia il 4%, contro una media dei Paesi Ocse del 5,7%, dove ai primi posti si piazzano Islanda, Stati Uniti e Danimarca.
Altra nota dolente gli stipendi: in Italia una maestra guadagna poco più di 26 mila dollari l’anno all’inizio della carriera contro una media di 29 mila. Alle soglie della pensione il divario raggiunge i 10 mila dollari. Stessa musica per i professori anche se quelli delle superiori toccano i 44 mila dollari a fine carriera. Ma sempre 10 mila in meno della media Ocse.

l’Unità 8.9.10
Napolitano al fianco di Sakineh
Teheran: «Il caso è in riesame»
di Marina Mastroluca

Stop alle ingerenze Le autorità iraniane: «Francia e Italia hanno notizie false, è un’assassina»
La mobilitazione La foto della donna che rischia la lapidazione esposta in molte città italiane
Il presidente Napolitano al fianco di Sakineh, la donna iraniana condannata alla lapidazione. Il ministro Frattini: «No alla rottura delle relazioni diplomatiche». Teheran: «Il caso è ancora all’esame, basta ingerenze».

Tutta l’Italia è con Sakineh. Il presidente Napolitano rilancia l’appello per salvare la donna iraniana condannata alla lapidazione, «per evitare che si compia un atto altamente lesivo dei principi di libertà e di difesa della vita». «La posizione del governo italiano è stata molto netta e non solo di principio ha ricordato il capo dello Stato -. C’è stata un’iniziativa nei confronti del governo iraniano e lo stesso ministro Frattini mi ha riferito che nessuna decisione è stata presa a riguardo. La sollecitazione forte del governo, di tutte le istituzioni e dell’opinione pubblica italiana continua ad essere intensa».
L’Italia era stata chiamata in causa dal figlio della stessa Sakineh, che aveva chiesto di esercitare pressioni concrete su Teheran. Il ministro degli esteri Frattini, che lunedì sera ha detto di aver avuto assicurazioni da Teheran sul fatto che non è stato ancora stabilito nulla sull’esecuzione della donna, ieri ha comunque escluso la possibilità di rompere i rapporti diplomatici con l’Iran, come suggerito anche da europarlamentari Pdl. «Non possiamo immaginare di fare politica estera in questa maniera ha detto il ministro parlando a Radio 24 -. Le relazioni diplomatiche sono necessarie anche per ottenere le decisioni che vogliamo, ad esempio quella di graziare Sakineh e risparmiarle la vita. Sono decisioni che non si prendono sull’onda dell’emozione». Frattini ha ricordato di aver «fatto passi diplomatici anche negli ultimi giorni»: l’ambasciatore italiano a Teheran ha incontrato le autorità iraniane e altrettanto hanno fatto i rappresentanti della Ue. Pressioni che a suo avviso hanno già prodotto qualche risultato. «So che all’interno del sistema iraniano si è aperto un dibattito sulla praticabilità di questa esecuzione», ha aggiunto il ministro.
La fine del Ramadan, accompagnata tradizionalmente dalla ripresa delle esecuzioni, aumenta il senso di urgenza della campagna per salvare Sakineh. Ieri Teheran ha confermato che la sentenza è stata sospesa. «La situazione della signora Mohammadi Ashtiani è ancora sotto esame ha detto il portavoce del ministero degli esteri Ramin Mehmanparast -. Il verdetto (di lapidazione, ndr) è stato sospeso e viene attualmente riesaminato. Un nuovo procedimento per omicidio e complicità in omicidio è all’esame». La revisione del caso davanti alla Corte Suprema potrebbe lasciare uno spiraglio per Sakineh, a sollecitarla sono stati infatti gli avvocati della donna. Ma quello di Teheran non è stato un messaggio distensivo. Il ministero degli esteri iraniano ha criticato esplicitamente «Francia e Italia» per il loro intervento nella vicenda di Sakineh «purtroppo sulla base di informazioni false». «Il caso di un sospetto omicidio non dovrebbe essere trasformato in un caso politico e di diritti umani» ha aggiunto il portavoce iraniano.
GIGANTOGRAFIE
Parigi ha immediatamente ribattuto che continuerà il suo impegno per salvare Sakineh. «Continueremo con la nostra azione e con le nostre condanne e vogliamo parlare di questa vicenda anche con i nostri partner europei», ha affermato un portavoce del ministero degli esteri francese. Bernard Kouchner ha scritto la settimana scorsa all’Alto rappresentante per la politica estera dell'Ue, Catherine Ashton, per chiedere di valutare l’opportunità di nuove sanzioni contro Teheran.
In Italia a rispondere sono state soprattutto le istituzioni locali che hanno moltiplicato le iniziative a favore di Sakineh. Il volto velato della donna da ieri è esposto anche sulla facciata della sede della regione Emilia Romagna e delle province di Palermo, di Bologna e Perugia, sul comune di Ravenna e Spoleto. La provincia di Venezia, oltre ad esporre uno striscione con la foto di Sakineh, si è fatta avanti per dare asilo alla donna. Sergio Chiamparino presidente dell’Anci e sindaco di Torino ha invitato tutti i comuni ad esporre la foto di Sakineh. Da domani una gigantografia di Sakineh apparirà anche sul palazzo della regione Lazio.
FIACCOLATA A STRASBURGO
Ieri intanto a Strasburgo le europarlamentari del Pd hanno organizzato una fiaccolata, chiedendo a Catherine Ashton e alla commissaria Ue per i diritti umani Viviane Reding di fare «senza ulteriori indugi tutti i passi necessari presso il governo iraniano», per salvare la donna e perchè «sia abbandonata la pratica barbara della lapidazione». E per dare «nuovo impulso alla battaglia per la moratoria sulla pena di morte».

il Fatto 8.9.10
La Ue contro i razzisti d’Europa a Francia e Italia fischiano le orecchie
di Giampiero Gramaglia

Borroso lancia l’allarme immigrazione

Nel giorno in cui, per la prima volta, un presidente della Commissione europea pronuncia il discorso
‘sullo stato dell’Unione’ di fronte al Parlamento europeo, l’Italia, un tempo campione d’europeismo e di solidarietà, finisce implicitamente sotto accusa per la politica sull’emigrazione e sui rom. José Luis Durão Barroso non la cita per nome, come non chiama direttamente in causa la Francia, ma afferma che “in Europa non c’è posto per il razzismo” e invita tutti “ad agire con sensibilità” su “questioni così delicate” come i diritti degli emigrati, specie quando sono cittadini comunitari, senza risvegliare “fantasmi del passato”. Barroso è già chiaro del suo, ma i capigruppo lo sono ancora di più: puntano il dito sulla Francia, che camuffa da partenze volontarie il rimpatrio dei rom verso i Paesi d’origine, ma pensano anche all’Italia della Lega o all’Olanda dove un partito xenofobo è divenuto seconda forza politica.
Ogni forma di discriminazione “è puramente inaccettabile”, avverte Barroso: tutti i cittadini hanno “diritti e doveri” e ci vuole “equilibrio” tra il rispetto del principio della libera circolazione e quello della sicurezza, evitando “strumentalizzazioni populiste”. Parole che fischiano nelle orecchie del presidente Sarkozy e dei leader leghisti.
IL CAPOGRUPPO socialista Martin Schulz, quello cui Berlusconiungiornodiededelkapò, include “il governo francese di Sarkozy e Fillon” fra xenofobi e razzisti d’Europa. E il capogruppo dei liberal-democratici, il belga Guy Verhofstadt, definisce “inaccettabile” quello che sta accadendo in Francia e aggiunge: “Purtroppo non è un caso isolato”, perché “diversi altri governi piombano nelle tentazioni del populismo, della xenofobia e del razzismo, e strumentalizzano paure e inquietudini”.
Nella scia del dibattito, la Commissioneannuncialacreazione di una task force per valutare l’uso fatto nei vari Paesi dei fondi Ue per l’integrazione dei rom. Il discorso di Barroso non ha (ancora?) il fascino e l’autorità del discorso sullo stato dell’Unione che il presidente Usa fa ogni fine gennaio. Ma l’emiciclo di Strasburgo è gremito per il ‘primo giorno di scuola’ delle istituzioni comunitarie dopo la pausa estiva. E non c’è bisogno di minacciare multe agli eurodeputati renitenti: il progetto, contestatissimo, viene abbandonato, ma pochi seggi restano vuoti. Il presidente delinea priorità, ma inanella slogan (“Agire compatti per il successo”, “O nuotiamo insieme o affondiamo insieme”, “Più scienza e meno burocrazia”, bisogna “lavorare di più”).
PUNTI CONCRETI ve ne sono. Barroso rilancia l’idea di eurobond per finanziare le infrastrutture europee; vuole tassare letransazionifinanziariee“bandire le vendite allo scoperto”. Si delineano conflitti con i governi dei 27. Nonostante divisioni su tasse e banche, l’Ecofin vara il semestre europeo per coordinare le finanziarie nazionali e porta avanti la riforma della Vigilanza finanziaria.

l’Unità 8.9.10
Nietzsche? Tutto ma non fascista
di Bruno Gravagnuolo

Nietzsche non fu il precursore ma il costruttore del cuore del fascismo». È lapidario Armando Torno, sul Corsera di ieri l’altro, nella chiusa finale della sua recensione alla nuova traduzione di Così parlò Zarathustra a cura di Sossio Giametta (Bompiani, pp. 1228, Euro 30). Lapidario e brutale, come se a riguardo non fossero state versate tonnellate filologiche di inchiostro. In revisione di un lungo e trito luogo comune: il fascismo, anzi il nazismo vocazionale di Nietzsche. E quel luogo comune, lo ricordiamo, era condiviso sia dai «nazificatori» di Nietzsche, da Rosenberg allo stesso Hitler, sia dai marxisti alla Lukàcs, che del «superuomo» fecero il vessillifero dell’imperialismo razzista. Persino Mussolini pensava di essere «nietzscheano», discettando da giovane di masse e capi. Mentre di recente Ernst Nolte, «giustificatore» di certe ossessioni naziste, ha creduto, da destra, di ravvisare in Nietzsche il segnale delle reazione borghese europea contro la minaccia dell’«annientamento proletario», incombente tra otto e novecento. Infine, il marxista Domenico Losurdo. Che ha rispolverato la reazionarietà razzista e imperialista del pensatore dell’Eterno Ritorno. Intendiamoci, Nietzsche non era di sinistra e nemmeno progressista. E la curvatura apocalittica e a tratti risentita dei suoi pensieri, va anche in senso conservatore: filippiche contro l’umanitarismo, il progresso, la morale dei deboli etc. Ma la direzione del suo pensiero è un’altra. È una critica dirompente delle false giustificazioni del potere e della morale. Una destructio integrale del rapporto servo/ padrone, volta alla liberazione delle energie vitali della soggettività soggiogata. Nietzsche, campione di psicologia politica, parla all’anima di ciascuno, invitando ciascuno alla ribellione. Contro tutti i totem della massificazione e del conformismo. Ben per questo Freud scorse in lui il vero scopritore dell’inconscio oppresso. E ben per questo, come attesta Nolte, con Marx ed Engels, era la lettura preferita degli operai tedeschi nella Germania guglielmina. Solo un caso?

Corriere della Sera 8.9.10
Un appello perché, prima di votare, si cambi questa brutta legge elettorale
di Rino Formica e Emanuele Macaluso

Illustri Presidenti, i nostri padri costituenti prima di dare inizio alla elaborazione del testo costituzionale affrontarono due temi dirimenti e pregiudiziali: 1. La forma di Stato; 2. La struttura formale della Carta.
Sul primo punto si votò l’o.d.g. Petrassi (no al Governo presidenziale e no al Governo direttoriale sì ad un sistema parlamentare). Sul 2˚punto si aprì una discussione intorno a 3 o.d.g. (Bozzi, Calamandrei e Dossetti). L’Assemblea approvò l’o.d.g. Bozzi integrato dai suggerimenti di Togliatti e di Piccioni («il testo della Costituzione dovrà contenere nei suoi articoli disposizioni concrete di carattere normativo e istituzionale, anche nel campo economico e sociale»).
I Costituenti, per tenere insieme la costruzione di un ordinamento istituzionale democratico ed equilibrato, previdero poteri bilanciati da sostenere con un sistema di garanzie regolato sul principio della rappresentanza proporzionale della volontà popolare. (La Costituente votò un o.d.g. di Antonio Giolitti in tal senso).
Noi che scriviamo questa lettera siamo in condizioni di poter parlare con scienza e coscienza di esperienza vissuta e partecipata, perché abbiamo attraversato tutte le fasi pacifiche e drammatiche della vita repubblicana dalla Costituente ad oggi. Non vogliamo affrontare i temi caldi che attualmente incidono sull’equilibrio costituzionale: la crisi dello Stato nazionale; la crisi del partito politico e della democrazia organizzata; il lento svanire della democrazia parlamentare.
Vogliamo cogliere l’occasione che ci offre la discussione in corso sulla possibile fine anticipata della legislatura per porre alle più alte cariche istituzionali un problema ineludibile: o si cambia la legge elettorale in senso proporzionalistico o si cambiano i quorum di garanzie degli artt.64 (regolamenti della Camera), art.83 (elezione Presidente della Repubblica), art.135 (elezione giudici della Corte Costituzionale), art.138 (procedura di revisione costituzionale).
La questione non è nuova, ma oggi il conflitto tra quorum di garanzia costituzionale e legge elettorale maggioritaria, è più grave del passato a causa della debolezza delle forze politiche e per la crisi del bipolarismo bipartitico. La stessa sconcezza della nomina diretta dei parlamentari da parte dei capi partito appare come una infelice irrisione di ogni principio di libera determinazione della volontà popolare.
Dalla Costituente (1946) alla XI legislatura (1992) la rappresentanza parlamentare è stata eletta con leggi proporzionali. Il tema dei quorum di garanzia è nato con il Referendum abrogativo del 18 aprile 1993 su la legge elettorale del Senato.
Il Gruppo Socialista, pochi giorni dopo quel voto, presentò il 14 maggio 1993 la proposta di legge costituzionale (atto Camera n.2665) per l’abrogazione del terzo comma dell'art.138. Il 3 novembre 1993 il testo approdò in Aula. Tutti i Gruppi si dichiararono d’accordo con l’eccezione di Rifondazione comunista e i Radicali. Il testo fu approvato con 341 voti a favore e 7 voti contrari. Lo scioglimento delle Camere affossò la modifica dell’art. 138.
Il 28 febbraio 1995 il centro-sinistra presentò una organica proposta di legge costituzionale (atto Camera n.2115) per la modifica degli artt. 64, 83, 135 e 138. Tutti gli altri Gruppi presentarono proposte di modifiche del 138. La discussione si svolse su tutte le proposte, il 2 e 3 agosto 1995 ed ebbe il parere favorevole del Governo. Ma anche in questo caso l’anticipato scioglimento delle Camere (1996) affossò le modifiche costituzionali.
Sul tema cadde il silenzio interrotto da una proposta alla Camera nella fine della XV legislatura e nella riproposizione del testo al Senato all’inizio dell’attuale legislatura (4 giugno 2008) a firma Oscar Luigi Scalfaro (atto Senato n.741). L’argomento è ancora una modifica del quorum dell’art. 138, e ancora una volta si osserva che la nuova legge per l’elezione della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica con premio di maggioranza, consente a maggioranze relative di elettori di diventare maggioranze assolute dei deputati e dei senatori; pertanto la quota di voti parlamentari necessaria per l’approvazione in seconda deliberazione di riforme costituzionali (metà più uno degli eletti) è, per così dire, «a portata di mano» per cambiare le regole e i principi della Costituzione secondo le opinioni o, peggio, le convenienze dei vincitori nell’ultima competizione elettorale.
A questo punto c’è da chiedersi: perché le forze politiche che da 17 anni hanno sempre votato alla quasi unanimità in prima lettura le proposte di modifica dei quorum di garanzia costituzionale come necessario bilanciamento alla introduzione delle leggi elettorali maggioritarie, hanno accantonato la questione?
A questa domanda si può dare una sola risposta: nel potere costituito è prevalsa la convinzione che l’attenuarsi delle garanzie costituzionali può essere giocata come arma politica aggiuntiva da una parte politica contro l'altra.
Noi ci rivolgiamo a Voi come supremi garanti della democrazia italiana, perché sia posto al Parlamento, prima dello scioglimento delle Camere, il tema per deliberare o una modifica in senso proporzionalista della legge elettorale o una modifica dei quorum di garanzia costituzionale.
Il tempo stringe e non consente oziose e inconcludenti discussioni. La nostra generazione si ribellò alla notte buia della dittatura, ed ha avuto l’onore di partecipare alla costruzione di una grande democrazia moderna. Noi temiamo che disattenzione o, peggio, fatalistica rassegnazione, possa distruggere un'opera preziosa per tutti.

Repubblica 8.9.10
Le regole calpestate
di Stefano Rodotà

In una ben ordinata repubblica la bagarre istituzionale montata intorno al Presidente della Camera dei deputati sarebbe impensabile. Ma dalle nostre parti si inventa ogni giorno una qualche "costituzione materiale", sì che siamo obbligati non solo a richiamare i dati costituzionali corretti, ma soprattutto a segnalare le forzature e i rischi grandi delle pretese di questi giorni, che tendono, una volta di più, ad eliminare persone e istituzioni che sono percepite come intralci sulla strada sempre più accidentata della ormai sconquassata (ex?) maggioranza di governo.
La prima considerazione, allora, richiama una tecnica ben conosciuta in politica, quella di inventarsi un nemico interno o esterno per distogliere l´attenzione dalle difficoltà reali. Prigioniera di scandali gravi, falcidiata dalle inevitabili dimissioni di due ministri, sconfitta in Parlamento su questioni come quella della legge bavaglio, incrinata nel collante finora rappresentato dal potere assoluto di Berlusconi, la maggioranza uscita vittoriosa dalle elezioni del 2008 sfugge alla resa dei conti politici e dirige il fuoco mediatico su Gianfranco Fini, concentrato di tutti i mali, sì che, una volta caduta la sua testa, si tornerebbe nel migliore dei mondi.
Ma questa non è soltanto una impostazione palesemente pretestuosa. Com´è altre volte avvenuto in questa sciagurata stagione politica, l´interesse di breve periodo di una persona o di un gruppo non esita di fronte alle spallata istituzionale, proseguendo in una strategia che sta riducendo il nostro sistema ad un cumulo di macerie. Elementari regole di diritto parlamentare dovrebbero insegnare che il presidente del Senato o della Camera non possono essere sfiduciati o essere costretti alle dimissioni. La ragione di questa regola è evidente. Solo così l´alta funzione di dirigere una assemblea parlamentare, nell´interesse dell´assemblea stessa e non di una sua parte, può essere sottratta a pressioni, non dirò a ricatti, tendenti proprio a distorcere la funzione di garanzia, che esige distacco in primo luogo dai gruppi che lo hanno eletto. Il potere di questi gruppi si esaurisce nel momento dell´elezione. Lo sanno benissimo quelli che, all´interno della stessa maggioranza, mantengono senso dello Stato e rispetto delle istituzioni, come Giuseppe Pisanu, che non a caso ha liquidato ieri con poche parole la tesi delle dimissioni necessarie del presidente della Camera. E, invece, in questi giorni è stata sostenuta la tesi, francamente eversiva, secondo la quale il presidente della Camera sarebbe "il garante dell´attuazione del programma di governo", tramutando così una carica istituzionale di garanzia in un semplice terminale della volontà governativa. Non v´è bisogno d´invocare la separazione dei poteri per accorgersi dell´improponibilità di questa tesi, che conferma la voracità proprietaria di un Berlusconi che vuole ingoiare tutte le istituzioni. Peraltro, anche i precedenti evocati con molta approssimazione, come le dimissioni di Sandro Pertini dopo la fine dell´unità socialista, provano se mai il contrario, visto che, respingendo quelle dimissioni, la Camera ribadì proprio l´irrilevanza delle vicende successive al momento dell´elezione del presidente.
A questa forzatura se ne è aggiunta una seconda, gravissima, con l´annuncio di Berlusconi e Bossi di recarsi dal presidente della Repubblica per chiedere appunto le dimissioni di Fini. Solo una sgrammaticatura istituzionale, l´ennesima? Molto peggio. I due nominati, per quanto abbiano dato infinite prove di totale insensibilità istituzionale, sanno benissimo che mai un presidente rigoroso come Giorgio Napolitano potrebbe dare il pur minimo ascolto ad una richiesta del genere. E allora? Quell´annuncio era rivolto all´opinione pubblica, per dar ad intendere che, se lo volesse, il presidente della Repubblica potrebbe porre fine a questa vicenda. Una volta divenuto chiaro che non è possibile alcun intervento di Napolitano, rimarrebbe comunque un fondo torbido, una sorta di sciagurato ammiccamento che allude ad un filo che lega presidente della Repubblica e presidente della Camera.
Non sarebbe una novità. In modo sfrontato, e di nuovo ignorante d´ogni regola istituzionale, Berlusconi accusò pubblicamente Napolitano di non essere intervenuto sulla Corte costituzionale per impedire che fosse dichiarato illegittimo il Lodo Alfano. Anche il presidente della Repubblica è percepito come un intralcio, al quale possono essere rivolte richieste "irrituali" o vere e proprie minacce, come ha fatto Bossi evocando un milione di persone che arriverebbe a Roma per imporgli lo scioglimento delle Camere.
La vicenda Fini dimostra una volta di più quanto sia profondo il malessere istituzionale. Per questo nessuna compiacenza è possibile. Non si tratta di difendere una persona, ma di recuperare quel po´ di senso delle istituzioni senza il quale la democrazia muore. Siamo ancora in tempo.

Repubblica 8.9.10
"Resto in Israele, la patria degli ebrei ma la pace coi palestinesi è essenziale"
David Grossman: "Il futuro del Paese più importante dei confini territoriali"
di Fabio Scuto

I miei detrattori dovranno continuare a sopportare le mie idee: l´esistenza di due Stati non ha alternative
Non è vero che voglio andar via: nell´intervista alla tv inglese è stata estrapolata una frase fuori contesto

«In quell´intervista alla tv inglese ho parlato di me e della mia famiglia, di come vedo in Israele la mia patria, del mio futuro e dei miei figli; da lì è stata estrapolata fuori contesto una frase, anzi una parte, e i giornali ci hanno fatto i titoli. Ai miei detrattori, a quelli che non aspettano altro per attaccarmi, voglio dire: resto qui e dovranno continuare a sopportarmi con le mie opinioni». Non ha perso il filo della sua ironia, ma certamente David Grossman è molto arrabbiato: «Le mie parole sono state riportate in maniera imprecisa, fuori dal loro contesto». Da tempo - in Israele e nel mondo - il cinquantaseienne scrittore israeliano non è più un privato cittadino, ma un´icona, un punto di riferimento obbligato, per la chiarezza del suo pensiero e del sentimento che lo anima. Dopo la drammatica morte del figlio Uri, ucciso in combattimento con gli Hezbollah negli ultimi giorni della guerra del 2006, Grossman si è trovato «in una situazione estrema», in cui ha esaminato cose diverse, l´idea di lasciare Israele «è stata pure evocata, ma al solo scopo di scartarla».
Ci parli di quei giorni...
«Dopo quella tragedia mi sono tormentato la mente, in quei momenti è il dolore a guidare i tuoi pensieri. Niente ti sembra più scontato, guardi alla tua vita e ti fai delle domande, per esempio: se non fossimo stati qui non sarebbe accaduto. Ma la risposta dentro di me allora come oggi è stata chiara: sono nato qui, appartengo a questa terra, vedo il mio futuro qui e da 30 anni questo posto è il centro di tutto ciò che dico e scrivo. Per noi israeliani la patria è qui, qui dobbiamo affrontare la realtà e affrontare il nostro futuro. E in tutta quell´intervista ho parlato di questo e di quanto sia forte il mio desiderio che Israele sia davvero la "casa" che dovrebbe essere per noi ebrei».
Non è la prima volta che lei diventa un bersaglio per le sue opinioni…
«È mio pieno diritto avere opinioni di sinistra. Essere a favore della spartizione di questa terra in due Stati, di fare rinunce per arrivare alla pace. Ma detto questo è necessario sapere che queste convinzioni vengono proprio da una preoccupazione profonda, da un impegno, da un amore per questa terra. Ci sono persone che la pensano come me e altre che aspettano ogni scusa per attaccarmi. Mi spiace per la loro reazione ma io sono e resto qui. In genere sono felicemente contento di essere un loro bersaglio ma questa volta non posso collaborare, diventare un bersaglio per una cosa che non ho fatto e non ho detto, proprio no. Ripeto sono e resto qui e dovranno continuare a sopportarmi con le mie opinioni»
È preoccupato per il futuro di Israele?
«Sono sempre preoccupato per il futuro del mio Paese. Israele viene sempre più isolato e io credo che invece il futuro sia di essere integrato e di essere il paese che deve essere, cioè uno Stato che esplora, che espande le sue capacità e che realizza il suo grande potenziale. Ma tutto questo dipende dalla capacità di vivere in pace con i Paesi vicini, ma certo non sappiamo se la pace sia garanzia che ciò accada veramente. Viviamo in una regione molto imprevedibile e tanti elementi estremi stanno provando a fare di tutto per assassinare questa pace. Quello che posso garantire è che se non c´è nessuna pace la nostra situazione sarà sempre più pericolosa».
E timori per la democrazia interna?
«Sì certamente ne ho. Perché se continuiamo a vivere in situazioni così estreme la gente sarà presa dall´ansia e dalla disperazione, ci saranno sempre più estremisti che sfrutteranno questa situazione. I nazionalisti, i fondamentalisti e molti altri con le loro promesse di rapide e facili soluzioni. L´unico modo per rimanere veramente noi stessi e per affrontare ciò è guardare la realtà dritta negli occhi, in tutta la sua complessità e possibilità. E di ricordare che noi abbiamo ricevuto una meravigliosa opportunità dalla Storia quando è nato Israele nel 1948 e dobbiamo essere rispettosi di questo privilegio. Dobbiamo capire che il futuro di Israele, la sua identità di Stato e quella dei suoi cittadini sono cose molto, molto, più importanti dei problemi sui confini territoriali».
Grossman che sensazione ha ricavato dalla ripresa del negoziato di pace a Washington dopo quasi due anni di gelo diplomatico?
«Molto dipende dai due leader, sono loro che devono prendere delle decisioni. Io spero che superino le paure e le diffidenze reciproche e che capiscano che la pace è la sola alternativa per noi, per avere una vita qui, per avere una vera vita. Ma penso anche che dopo anni di violenza talvolta noi non agiamo sempre nel vero interesse e spesso abbiamo fatto la scelta sbagliata. Domani sera per noi ebrei è Rosh Hashanah, è Capodanno, il mio auspicio per il nuovo anno è che finalmente saremo tanto coraggiosi da fare l´inevitabile: trovare una soluzione-compromesso per questa terra e non importa quanti problemi avremo poi per questa fragile pace, ma loro la mantengano. O almeno per una volta ci provino davvero».

Repubblica 8.9.10
Uno studio di due psicologi illustra come sono cambiate nel corso della storia le virtù richieste a chi comanda: nell´antichità contava la forza, ora vale molto di più l´intelligenza emotiva
Dai muscoli all´empatia ecco l´evoluzione del capo
di Enrico Franceschini

«Gordon Brown ha grande intelligenza analitica, ma zero intelligenza emozionale». Tony Blair spiega così, discutendo il libro di memorie in cui ha vuotato il sacco sulla loro conflittuale relazione, il fallimento del suo successore come primo ministro, l´incapacità di Brown di connettere con la gente e apparire un vero leader. Di intelligenza emozionale, invece, lui ne aveva da vendere: anche i suoi detrattori concordano che raramente è apparso in politica un comunicatore come Blair. Ma cosa serve per fare il leader? Capi si nasce o si diventa? E perché certi di noi sembrano fatti fin da piccoli per dirigere e altri per seguire? Libri e studi dibattono attorno a questo tema, con una tesi che sarebbe piaciuta a Darwin: la leadership è una caratteristica innata dell´uomo, perlomeno di certi uomini (e anche - almeno oggi, finalmente - di certe donne). Ha accompagnato l´evoluzione della nostra specie, aiutandoci nella lotta per la sopravvivenza. E fornendoci pure dei campanelli d´allarme per contrastare ed eventualmente rovesciare un leader, quando è la sua presenza, il suo modo di fare, che sembrano una minaccia alla nostra vita.
È un cammino lungo milioni di anni, quello del leader, scrivono Mark van Vugt e Anjana Ahuja, docenti di psicologia dell´università di Amsterdam, in Selected: why some people lead, why others follow and why it matters ("Selezionati: perché certe persone dirigono, perché altri seguono e perché è importante"). Si va dal primo cavernicolo, che impugnò la clava e guidò la propria tribù o la propria famiglia nella caccia o nella lotta contro i suoi simili, al mito omerico di Achille, da Giulio Cesare a re Artù, da Napoleone a Garibaldi, da Churchill a Barack Obama. I leader sono coloro che si distinguono e prevalgono, in guerra, in politica, negli affari, così come nella fede o nello spettacolo. Ma perché tutti gli altri, quelli che non comandano ma obbediscono o comunque seguono, scelgono proprio quella persona lì come capo e punto di riferimento?
Il primo fattore, nella preistoria, rispondono i due psicologi, era ovviamente la prestanza fisica, la statura, i muscoli, visto che i problemi, di ogni tipo, venivano risolti con la forza. Questa caratteristica però non è scomparsa del tutto quando l´Homo è diventato Sapiens e poi si è ulteriormente civilizzato (e un po´ rammollito): tanto è vero, nota uno studio americano, che i candidati più alti e prestanti solitamente vincono le elezioni presidenziali Usa. Obama, in effetti, sovrastava nettamente McCain. Un secondo elemento di leadership, dagli uomini primitivi in poi, è il tribalismo, l´appartenenza al proprio clan, partito, religione: meglio uno dei nostri, anche se incapace, piuttosto che uno degli altri, è il ragionamento che l´uomo ha portato avanti per millenni, osservano vari studiosi.
Con il passaggio dalla caccia all´agricoltura affiora un altro motivo di leadership, destinato a risultare sempre più importante: la ricchezza. Gli agricoltori che accumulavano più granaglie, e più tardi più bestie, più merci, con le quali potevano procurarsi altri beni, si accorgevano di quanto fosse facile comandare all´interno della propria comunità (e anche, notano gli psicologi nel libro, di potere avere le donne più belle, quelle prima attirate solo dalla forza maschile).
Ma fin dall´antichità non c´era solo Achille: c´era anche Ulisse, la cui scaltrezza dipendeva non poco dalla sua capacità di comunicare, di relazionare, di emozionare. È l´intelligenza emozionale che Blair aveva e Brown no: il "caldo" vince sul "freddo". Commentando il libro dei due scienziati di Amsterdam, il Daily Telegraph si chiede se il favorito per la guida del Labour, David Miliband, abbia appunto questo calore.
«I leader sono come una colla che unisce i loro seguaci», spiega il professor van Vugt. La colla, tuttavia, talvolta diventa troppo appiccicosa: nell´animo umano, avverte il loro libro, c´è un ancestrale meccanismo di rigetto dei leader che si approfittano troppo del proprio potere. E che allora vengono dileggiati, contestati, abbandonati.

Repubblica 8.9.10
Le passioni secondo Shakespeare
Il nuovo saggio di Nadia Fusini svela i meccanismi con cui il grande scrittore mette in scena l’animo umano grazie alla finzione del teatro
di Giuseppe Montesano

Chi è Shakespeare, il misterioso e immenso continente dove la poesia si è fatta più reale della realtà? Di lui non sappiamo nemmeno che faccia avesse. Quando nell´800 fu esposto il suo ritratto più attendibile, il rifiuto fu unanime: aveva le labbra troppo "lubriche", la faccia era troppo "licenziosa", la carnagione troppo scura, i tratti somatici troppo da "italiano" o da "ebreo" e troppo poco britannici.
E l´orecchino! In quel ritratto Shakespeare porta un orecchino d´oro che gli dà un´aria davvero troppo da avventuriero. E anche nella sua opera tutto sembra troppo: la vita, la morte, l´amore, i sogni, il dolore, tutto nell´ambigua stregoneria evocatoria di Shakespeare sembra cantare per far smarrire lettori e esegeti. Ma è proprio dentro questo traboccare che toglie il fiato che si immerge l´ultimo libro di Nadia Fusini, Di vita si muore. Lo spettacolo delle passioni nel teatro di Shakespeare (Mondadori, pagg. 496, euro 22) riemergendone con uno Shakespeare per noi, qui e oggi.
La Fusini apre Di vita si muore dichiarando di averlo scritto nel "modo dell´amore", vale a dire nell´ebbrezza scaturita dalla lettura quotidiana di Shakespeare, e confessando che il saggista ha qui preso le vesti di un interprete rabbinico: «Qui si esercita un modo di lettura che del midrash ha l´andamento; ovvero il movimento di chi cerca il significato di quel che è scritto risolvendo qualsiasi domanda o questione, che dallo scritto possa sorgere, dentro il testo stesso».
Da questo voltare le spalle a una critica accademica nasce l´oggettività innamorata che divampa in Di vita si muore, una oggettività che può concedersi l´accensione passionale e l´illuminazione imprevista perché sa che bisogna fondarle sull´acribia filologica e sull´acume critico. Al centro del libro c´è l´intreccio tra le passioni e la ragione sondato in spirali continue, spire che si avvolgono intorno al loro oggetto per spremere da esso verità, e che affondano l´opera di Shakespeare nelle contraddizioni della sua epoca non per appiattirne l´unicità ma per farla brillare in tutta la sua energia. Così se è il rapporto tra corpo e linguaggio che si accampa nel cuore del racconto conoscitivo della Fusini, in esso emergono in dettaglio anche gli influssi culturali dei quali si nutriva Shakespeare, da Aristotele al Principe, da Galeno al Leviatano, dall´Edipo a Colono ai Passion Plays del medioevo cristiano, da Marlowe alle Anatomie medico-morali degli elisabettiani.
In Di vita si muore scopriamo così uno Shakespeare che cita da The Anatomie of the Minde di Thomas Rogers, e che in Amleto richiama il trattato On Melancholy di Timothy Bright; ci appare un poeta che conosce bene, e indaga, le controversie tra Lutero e i cattolici; capiamo meglio quanto Shakespeare sia prossimo al pensiero della nuova scienza di Hobbes e Spinoza; e vediamo come questa materia divenga memorabile teatro.
Il miracolo di questa metamorfosi che trasforma le idee e le ideologie in persone e vite non lontane dalla equanime ferocia di Dostoevskij sta nella natura doppia del teatro, il teatro che, come il romanzo, mette in scena la finzione per smascherarla, crea una dialettica tra bene e male sottratta alle ovvietà morali e giunge a quel culmine conoscitivo in cui l´emozione getta un fascio di luce sul male non per fingere di annullarlo, ma per scoprirne le ambiguità. E lo strumento sovrano di tale operazione è per la Fusini il linguaggio, il luogo della metamorfosi e della conoscenza in Shakespeare: «E´ l´invenzione di una lingua che non è dialettica né discorsiva, ma è tesa nell´irriducibile contrasto dell´ossimoro, figura connaturata a questo linguaggio teatrale che nega la sintesi e con essa ogni idea di armonia degli opposti, operando piuttosto per congiunzioni di pensiero illegittime… Sì, questa lingua "sforza" le parole, le violenta… E´ così che un linguaggio, che dispera dell´ordine, inventa altri gradini per conquistare la torre di Babele. La sua disperazione è la sua forza, la sua povertà la sua grandezza».
Ecco indicata, e stupendamente, la verità di Shakespeare, il luogo dove lo scontro tra passione e ragione si duplica nello scontro tra tragico e comico e tra giusto e ingiusto, il luogo in cui è possibile porsi domande sul mondo che è out of joints, "fuori dai cardini", in una lingua che per raccontare la nascente Modernità le offre la recita della sua lacerazione nella lingua stessa della lacerazione.
Allora i drammi e le tragedie che la Fusini legge e interpreta in Di vita si muore si illuminano di una luce nuova, e le intuizioni abbondano: in Macbeth sono la droga della paura e il desiderio di ignoranza di Macbeth come salvezza dalla lucidità del pensiero; in Amleto è l´indagine sottile sul Tempo a partire dal "frattempo", la pausa in cui la vicenda è un fantasma immaginato dalla mente di Amleto; in Otello è una lettura che andrebbe citata riga per riga: dall´intuizione di Iago come uomo nuovo della Modernità che si fonda sull´Economico e "stupra l´anima" di Otello, a quella di Iago che "fa teatro con le parole" come Shakespeare; dall´intuizione magnifica che è Otello e non Iago il vero traditore dell´amore, a quella che nell´Otello le parole tradiscono se stesse; da quella che vede Otello naufragare perché considera l´amore secondo il "principio di proprietà", a quella dell´amore di Desdemona come forza al di là del bene e del male borghesi.
Alla fine non c´è dubbio: Di vita si muore non è solo un libro bello, è anche un libro importante. Le grandi opere letterarie vanno interpretate attraverso se stesse, e non siamo noi a svelarle ma semmai sono loro che ci svelano a noi stessi: mettendoci senza riguardi di fronte a ciò che non avevamo la forza o la passione per vedere. Quanto costa andare verso le verità che Shakespeare o Kafka o Baudelaire ci mostrano nel terrore e nella pietà? Niente di meno che l´anima, ecco cosa chiede la letteratura. Ma in cambio offre qualcosa di impagabile: una brace accesa nella notte dell´anima, un sovrabbondare di vita nella nostra miseria quotidiana.