venerdì 10 settembre 2010

Repubblica 10.9.10
Bersani: a destra teatrino indecoroso il Nuovo Ulivo sarà come il New Labour
Il leader pd risponde a Vendola. "E se vuole le primarie entri nell´alleanza"
di Giovanna Casadio

Letta su Di Pietro: "A volte pare che preferisca Berlu-sconi in sella, non mandato a casa"

ROMA - «Questo è un teatrino indecoroso, il governo e la maggioranza sono in confusione mentale, non sanno cosa fare: se far battere la palla o buttarla fuori dagli spalti e alla fine cercheranno di prendere tempo. Con un piccolo particolare che i dati Ocse dicono che siamo in coda al treno della ripresa, che l´Italia arranca». Quindi - è la conclusione di Pier Luigi Bersani - davanti all´agonia del berlusconismo e al rischio reale che corre il paese, il Pd deve parlare di questioni concrete tirandosi «fuori dal teatrino» e tessere l´alternativa. Per il segretario democratico, passa attraverso una «politica delle alleanze, una chiamata a raccolta delle energie del paese che vogliono lasciarsi alle spalle il berlusconismo, che siano disposte a confrontarsi sui contenuti e non sulle geometrie politiche, che s´impegnino a costruire il Nuovo Ulivo o "next" Ulivo - come ci fu un New Labour e ci sarà un Next Labour - e nell´emergenza, a fare insieme le riforme a cominciare dalla legge elettorale».
È in viaggio ieri sera verso il Cilento, Bersani, per andare ai funerali del sindaco di Pollica, Angelo Vassallo assassinato in un agguato, e appunta l´intervento che terrà domenica a Torino a conclusione della festa del partito. Festa funestata mercoledì dalla «contestazione squadrista» - così l´ha definita - a Bonanni: e la cosa lascia il segno anche dentro il Pd. I veltroniani e gli ex Ppi vogliono che una direzione chiarisca quale rapporto i Democratici pensano di avere con la sinistra radicale e chiedono venga convocata subito la direzione. Ma ci sarà a ridosso del 28 settembre, prima che Berlusconi si presenti in Parlamento. Giovedì prossimo invece si riuniscono i big democratici: sul tavolo cosa fare. Veltroni condivide l´idea di un esecutivo di emergenza: «Irragionevole imporre elezioni anticipate». Enrico Letta critica Di Pietro: «Forse preferisce Berlusconi in sella» e Francesco Boccia, lettiano: «Oggi è più affidabile Casini che Di Pietro. Il leader Idv le corna ce le ha già fatte nel 2008». Suul´esecutivo di emergre
Bersani intanto si rivolge ancora a Nichi Vendola, il leader di Sinistra e Libertà che è restio a costruire insieme il Nuovo Ulivo: «Il Nuovo Ulivo è una solida alleanza e solo dopo che gli invitati avranno detto sì o no, si potranno fare le primarie di coalizione a cui Nichi tanto punta». Intanto noi - sempre dichiara Bersani - siamo gli unici ad avere messo le basi per una proposta di riforma elettorale: schema bipolare, ritorno delle preferenze, tipo Mattarellum. Violante sulla legge elettorale: «Cambiarla o un referendum abrogativo».
Anche Di Pietro indica la legge elettorale «uninominale: maggioritario con doppio turno di collegio in un sistema bipolare». Idv ha depositato ieri alla Camera una mozione di sfiducia a Berlusconi per l´interim sullo Sviluppo economico. Il leader Udc, Casini attacca: «Berlusconi rischia di fare la fine di Prodi benché abbiano vinto con 100 deputati di maggioranza. Tornare alle urne non è una soluzione ma un aggravamento del male. Si parla creare un´area politica di responsabilità, non vorrei fosse di trasformismo».

Corriere della Sera 10.9.10
L’accordo
Pier Luigi Bersani ha incaricato Maurizio Migliavacca di tessere i rapporti con i cespugli (Verdi, Socialisti, Prc e Comunisti Italiani) in vista delle prossime elezioni politiche, con lo scopo non di stringere un’alleanza elettorale, bensì di presentare direttamente nelle liste del Pd un gruppo di esponenti di queste forze politiche
In cambio, Paolo Ferrero e Oliviero Diliberto voteranno alle primarie per il candidato del Partito democratico, cioè, per il segretario Pier Luigi Bersani. Il che, sia detto per inciso, non costa molto né al leader del Prc né a quello del Pdci, visto che l’altro candidato sarà quel Nichi Vendola con cui sono entrambi in pessimi rapporti
Ferrero e Diliberto nelle liste pd, l’ira di Veltroni
di Maria Teresa Meli

L’ex segretario ai suoi: minata la ragione fondativa del partito. E con il leader prc collabora un ex br

ROMA — I veltroniani Marco Minniti, Giorgio Tonini e Walter Verini chiedono la convocazione di una Direzione nazionale. Gli ex popolari di Beppe Fioroni mordono il freno. Nel Pd si è aperto un vero e proprio «caso». Che, come diceva l’altroieri Walter Veltroni ai suoi, riuniti in fretta e furia in mattinata, rischia di minare «la ragione fondativa del partito».
L’accordo Il segretario del Partito democratico Pier Luigi Bersani, assieme a Paolo Ferrero, leader del Prc L’ex br Francesco Piccioni (il primo a sinistra) con Gallinari e Jannelli nel 1986 al processo «Moro ter»
Il fatto è questo: Pier Luigi Bersani ha incaricato Maurizio Migliavacca di tessere i rapporti con i cespugli (Verdi, Socialisti, Prc e Comunisti Italiani) in vista delle prossime elezioni politiche, con lo scopo non di stringere un’alleanza elettorale, bensì di presentare direttamente nelle liste del Pd un gruppo di esponenti di queste forze politiche. Ad allarmare una fetta del partito è l’indiscrezione secondo cui questo patto è stato già siglato con Oliviero Diliberto e Paolo Ferrero. E un patto di questo tipo, secondo i veltroniani, snaturerebbe il Pd.
Si parla di un accordo che prevede una decina di parlamentari del Prc e del Pdci eletti nelle liste del Partito democratico. Soprattutto deputati, perché i vertici di via del Nazareno ritengono che il Senato, dopo il voto, potrebbe diventare determinante: lì non è affatto scontato che Silvio Berlusconi ottenga la maggioranza. E allora mandare a Palazzo Madama esponenti di due partiti che hanno già annunciato la loro decisione di non entrare in nessun governo sarebbe controproducente: complicherebbe la partita del Pd al tavolo di un eventuale esecutivo «altro» con Pier Ferdinando Casini. Già, perché l’intesa prevede anche questo: che la sinistra possa non entrare in un futuribile governo. E la cosa rende ancora più inquieti i veltroniani che vedono svanire definitivamente il progetto originario del Pd.
In cambio, Paolo Ferrero e Oliviero Diliberto voteranno alle primarie per il candidato del Partito democratico, cioè, per il segretario Pier Luigi Bersani. Il che, sia detto per inciso, non costa molto né al leader del Prc né a quello del Pdci, visto che l’altro candidato sarà quel Nichi Vendola con cui sono entrambi in pessimi rapporti.
Veltroni, per opporsi a questa operazione, ha mandato avanti Minniti, Verini e Tonini a chiedere «che si riuniscano al più presto gli organismi collegiali di partito, a partire dalla Direzione Nazionale», perché «bisogna definire tutti insieme quale linea politica, ed eventualmente elettorale, tenere». Quel che più allarma l’ex leader del Pd è che non vi sia stata neanche la solita smentita di rito: segno che si è veramente molto avanti nel progetto del Nuovo Ulivo, che altro non sarebbe se non un Partito democratico allargato ai cespugli. Con Vendola invece una simile operazione è più difficile. Basta sentire quel che dice il governatore della Puglia: «Ferrero, Diliberto e Nencini hanno bisogno dell’ombrello protettivo del Pd, noi no».
In questo contesto si è aggiunto un altro elemento di preoccupazione per la minoranza del partito: la decisione di Ferrero di prendere a lavo-rare con sé l’ex brigatista Francesco Piccioni, che ora lavora al Manifesto. Piccioni, nome di battaglia Michele, partecipò all’assalto alla sede del comitato regionale della Democrazia cristiana in piazza Nicosia, a Roma, che si concluse con l’uccisione di due rappresentanti delle forze dell’ordine. Ex brigatista non pentito (dal carcere rivendicò politicamente, in quanto militante delle Br, gli attentati a Gino Giugni ed Ezio Tarantelli), ha scontato la sua pena, e adesso dovrebbe aiutare Ferrero, il quale inizialmente avrebbe voluto dargli il ruolo di portavoce. Il segretario di Rifondazione ha poi dovuto soprassedere per motivi di opportunità e ora vuole affidargli un ruolo importante, ma più in ombra. Anche questa notizia ha già fatto il giro dei palazzi della politica ed è giunta alle orecchie di più di un esponente del Pd. Facile immaginare le reazioni. Altrettanto facile prevedere che quello delle alleanze sarà uno dei primi ostacoli che Bersani dovrà affrontare.

Corriere della Sera 10.9.10
Bersani a Vendola: «Coalizione, poi le primarie»

ROMA — Il messaggio è per Nichi Vendola: «Con la festa di Torino chiuderemo le divagazioni. Si sta parlando di una solida alleanza di centrosinistra e bisogna capire chi è disposto a farla. Dopo questo, si vedrà il resto. Perché se diciamo "primarie di coalizione", prima bisogna accertare la disponibilità alla coalizione». Firmato Pier Luigi Bersani. Il segretario del Pd replica così al governatore della Puglia (nella foto), che insiste sulla necessità delle primarie, viste come la chiave per la rinascita del centrosinistra, e che continua a mostrarsi critico rispetto al progetto di un Nuovo Ulivo. «Un’alleanza appiccicaticcia», l’ha definita il leader di Sinistra ecologia e libertà, simbolo di una politica secondo lui «troppo privatizzata», che invece dovrebbe essere restituita ai cittadini attraverso le primarie. Bersani non ci sta, e il botta e risposta tra i due va avanti con cadenza quasi quotidiana. Secondo il segretario del Pd i tempi vanno invertiti: prima si crea «un’alleanza solida», e non l’ammucchiata di cui parlano i critici, e poi si dà la parola ai cittadini per scegliere il candidato premier del centrosinistra. Bersani parlerà domenica a Torino, a chiusura della festa del Pd, e annuncia di voler ragionare di Italia e non di alleanze e questioni interne al partito: «Se non torniamo a parlare dei problemi economici si rischia la totale delegittimazione della politica».

il Fatto 10.9.10
Dite la vostra: chi può fermare il Caimano?
Orfani di leadership
La svolta impressa da Fini alla legislatura e l’assenza di una figura che unisca le diverse forze contro Berlusconi
di Paolo Flores d’Arcais

SU ILFATTOQUOTIDIANO.IT abbiamo chiesto a chi affidereste la missione di fermare l’uomo che da oltre un quindicennio tiene in ostaggio la politica italiana. Il Pd resta il partito più forte del fronte anti-Caimano, ma Fini, con le sue ultime dichiarazioni (vedi Mirabello e Tg La7), ha di sicuro colpito anche una parte degli elettori del centrosinistra. Anche se, per chi ha votato sempre in quella direzione, non sarà facile dimenticare il passato “nero” del presidente della Camera, soprattutto l’acquiescenza con cui ha votato molte delle leggi vergogna imposte dal Cavaliere . Ma a fermare B. possono provarci anche personaggi stagionati della politica italiana come Marco Pannella. Ci sono anche Vendola, Di Pietro e Grillo. Neanche loro nuovissimi ma comunque noti all’opinione pubblica. Diversi tra loro pronti ma con la stessa voglia di strappare il potere a B. Questi i nomi che proponiamo pronti però ad allargare il ventaglio. f.c .

Pier Luigi Bersani
Pro Ha alle spalle una solida politica di sinistra. Contro Fa sembrare il Partito democratico in crisi di identità.
Beppe Grillo
Pro Ha riempito le piazze con iniziative di protesta come il Vday. Contro Non è percepito come un politico serio e affidabile.
Antonio Di Pietro
Pro È stato il vero oppositore del premier in questa legislatura. Contro È incapace di creare alleanze e aggregazioni.
Marco Pannella
Pro Sue le più grandi battaglie italiane: divorzio e aborto. Contro Fa parte di un altro mondo, un’altra cultura politica.
Gianfranco Fini
Pro Vuole fondare un partito di destra moder no. Contro Ha votato tutte le leggi ad personam del Cavaliere.
Nichi Vendola
Pro Da outsider ha vinto le Regionali in Puglia nel 2005 e 2010. Contro Non ha un programma politico solido e convincente.

L’offerta politica d’opposizione non è mai stata così ampia, variegata, lussureggiante, eppure mai come ora il cittadino che si oppone a Berlusconi si è sentito tanto orfano di rappresentanza. Se questa lancinante contraddizione non viene sanata prima delle elezioni, Berlusconi vincerà di nuovo e realizzerà la trasformazione del suo attuale regime in un totalitarismo vero e proprio. Diverso da quelli del secolo scorso, postmoderno e luccicante, ma egualmente mostruoso.
Oggi di opposizioni a Berlusconi (ciascuna con il suo leader) ne esistono almeno sei. Ecco una breve rassegna dell’appeal e delle magagne di ciascuna. L’opposizione oggi più rilevante, e sulla cresta dell’onda mediatica, è quella di Gianfranco Fini, a realizzazione del detto “gli ultimi saranno i primi”. Non si può però dimenticare che Fini era nella Genova del G8, durante la mattanza della caserma Diaz, e ha continuato a difendere i funzionari che per quell’abominio sono stati condannati in appello. A Mirabello Fini ha rivendicato come antecedente ideale Almirante (il “fucilatore Almirante”, non sono consentite amnesie) e fatto tributare l’ovazione a Mirko Tremaglia, volontario repubblichino non pentito (anzi). E ha continuato a sostenere che Berlusconi, fino a che è primo ministro, deve essere sottratto ai processi (un’opinione, benché aberrante e in contrasto con i richiami alla legalità) sul modello di altre democrazie europee (un fatto, ma falso).
E TUTTAVIA non sono pochi gli elettori tradizionalmente di sinistra (del Pd ma perfino di Rifondazione), che mai voterebbero Casini e che invece dichiarano che oggi, sic stantibus rebus, voterebbero Fini. Perché ha affermato senza troppi giri di frase che: Berlusconi ha una concezione proprietaria dello Stato, dunque agli antipodi di qualsiasi democrazia liberale; Berlusconi non capisce né la divisione dei poteri né il primato della legalità, che sono invece valori non negoziabili; Berlusconi usa i media per distruggere chi non si prostra ai suoi voleri; Berlusconi è uno stalinista. Fini insomma ha detto ciò che avrebbe dovuto dire qualsiasi oppositore. Lo dice con quindici anni di ritardo, ma nel Pd queste cose continua a non dirle nessuno.
Il Pd, dunque, ovvero il maggior partito della (non) opposizione. Il suo vizio di fondo è tutto qui. Eppure continua a raccogliere un quarto abbondante dei consensi di quanti dichiarano che parteciperanno al voto. E che tuttavia non perdono occasione per far capire ai dirigenti del partito che vorrebbero una politica ben diversa, definitivamente scevra da inciuci. E si ritrovano invece a dover ingoiare, nella “loro” festa, la presenza degli Schifani, come fossero degli statisti. Ma sui vizi ormai strutturali del ceto politico del Pd, comprese le new entries che spesso fanno rimpiangere i bolsi burocrati delle generazioni che li precede (sembra impossibile, ma è così) è inutile dilungarsi. Questo giornale è costretto a farlo ogni giorno. Resta la divaricazione – crescente – tra dirigenti (nazionali, regionali, provinciali, di quartiere, fatte salve le eccezioni canoniche e sempre più da lanternino) e militanti, tra dirigenti e potenziali elettori. Che restano un patrimonio insostituibile per l’opposizione, anche se oggi è un patrimonio congelato o sperperato, grazie a quei dirigenti che non riescono a rovesciare e che non si decidono ad abbandonare.
La riprova di questo scarto è la travolgente simpatia che accoglie e circonda Nichi Vendola nelle feste dell’Unità e in ogni occasione a forte presenza di base Pd. Simpatia meritata e significativa. Meritata, perché Vendola incarna un riformismo che rifiuta l’inciucio, e può esibire un buongoverno regionale introvabile nel sud e sempre più raro anche altrove (probabilmente la
Toscana e l’Emilia, e poco più). Significativa, perché Vendola ha vinto le primarie contro il Pd, e anzi direttamente contro D’Alema, ma con i voti di gran parte del “popolo Pd”. È convinto di poter ripetere il risultato della Puglia a livello nazionale. Ma qui viene fuori la debolezza della sua “narrazione”, difficilmente in grado di riunificare tutti i motivi di opposizione positiva a Berlusconi. Non per troppa radicalità, sia chiaro, ma per troppa vaghezza, di programmi e di staff. In concorrenza con Vendola c’è inoltre Di Pietro. La sua opposizione è l’unica che in Parlamento abbia coerenza, e a questo si deve perciò il raddoppio (e oltre) di voti alle elezioni europee, ma tale coerenza viene poi contraddetta con le scelte in fatto di dirigenti locali, in genere primatisti della transumanza da un partito all’altro, veri e propri fari di opportunismo e di imenoplastica politica. Di recente, dopo l’ennesimo scandalo che ha portato all’abbandono da parte di un parlamentare per diatribe interne Di Pietro, immaginando di formulare una domanda retorica, ha esclamato: dovrei cacciarli tutti? E invece la risposta è “sì”, un rotondo SI’, perché solo liberandosi della gran parte dei dirigenti locali entrerebbero finalmente nell’Idv le energie dei nuovi elettori, nate nei movimenti di impegno civile, che lo schifo per i cacicchi locali tiene lontane dalla “militanza” nell’Idv.
RESTA L’OPPOSIZIONE di Grillo. Che però rifiuta programmaticamente alleanze possibili con chicchessia, nella convinzione che l’autoreferenzialità sarà il veicolo di un consenso al suo “movimento cinque stelle” tale da travolgere non solo Berlusconi ma ogni berlusconismo anche senza il ducetto di Arcore. Temo si tratti di un wishful thinking.
Della sesta “opposizione”, quella “centrista”, quella di Cuffaro-Casini e di Rutelli-Montezemolo non vale avvero la pena parlare. Solo la stupidità ormai ciclopica dei dirigenti Pd può dare a tali figure un credito qualsivoglia. Dunque, sovrabbondanza di opposizioni, ma in realtà indigenza a tutt’oggi assoluta per la prospettiva di un’opposizione vincente. Alle sei figurine pubblicate ieri in prima pagina dovrebbe perciò essere aggiunto una casella bianca, un profilo vuoto con un punto interrogativo. Nessuno di quei sei leader può essere il leader che unifichi e porti alla vittoria una maggioranza “per la Costituzione”, i suoi valori e la sua realizzazione, che nel paese credo sia invece schiacciante. Come trovarlo, quel leader?
INNANZITUTTO bisogna aver chiaro che non potrà nascere da alchimie partitocratiche. Troppo spesso si ragiona – con perfetta mancanza di realismo – come se i partiti fossero proprietari dei rispettivi pacchetti di voti. E dunque, il Pd più l’Udc fa... Invece i partiti prendono quei voti, ma da elettori totalmente disaffezionati (tranne ristrettissime clientele), elettori che non intendono affatto ubbidire alle manovre e agli accordi tra le varie oligarchie e nomenklature della casta. Elettori che il leader capace di sconfiggere se lo vogliono scegliere. Altrimenti molti di loro alle urne neppure ci andranno (il Pd in un pugno di anni ha perso qualcosa come cinque milioni di voti!).
MA QUESTA non-rappresentatività dei partiti ha il suo lato positivo. Infatti ci sono incompatibilità fra gruppi dirigenti che non hanno un corrispettivo di incompatibilità tra gli elettori. Insomma, Bersani non riuscirà mai ad allearsi contemporaneamente con Di Pietro e con Casini, ma molti elettori di questi tre partiti non avranno alcuna difficoltà a unirsi sotto una leadership credibile per la realizzazione di un programma di “giustizia e libertà”. Perché quegli elettori, nella maggioranza dei casi, sono cittadini “senza collare”, senza fedeltà di appartenenze. La più estrema mobilità elettorale è oggi la costante. Le masse operaie di Sesto San Giovanni (la “Stalingrado d’Italia”!) sono passate a Forza Italia, alla Lega, poi di nuovo al centrosinistra, e magari schifate ora resteranno a casa. E la stessa cosa vale ormai ovunque nel Paese.
Perciò il leader capace di unificare la voglia crescente e smisurata di archiviare per sempre il regime delle cricche e delle menzogne, non potrà che essere individuato fuori degli apparati, non potrà che venire dalla società civile, da un grande movimento e sommovimento di opinione pubblica. E infine, attraverso primarie vere.

Corriere della Sera 10.9.10
Bersani: non blindo la festa E Brunetta attacca il Pd
Il ministro: «Ha l’anima squadrista». Il segretario: «Roba da 118»
di E. Mu.

La battaglia politica ora si gioca tutta sul vecchio servizio d’ordine e sulla concezione stessa di partito. Dopo la contestazione di mercoledì a Torino, con il lancio «antagonista» di un fumogeno al segretario della Cisl Bonanni, e quella di qualche giorno prima al presidente del Senato Schifani, il segretario del Pd Pier Luigi Bersani si ritrova a dover difendere la più antica delle istituzioni di massa: «Intendiamo tenere aperte le nostre feste, sono popolari e luoghi di dibattiti. L’ordine pubblico lo tutela chi deve tutelarlo».
«Vorrei incontrare la ragazza» Il segretario della Cisl Raffaele Bonanni ha voluto commentare i fatti di Torino, con un intervento video su Cisl Tv
Il rifiuto di blindare la Festa democratica è categorico. Come quello di ritornare alla fine degli anni Sessanta con i controlli programmati da quel Movimento studentesco che si autoconvocava in nome della provincia secessionista congolese: «Non vogliamo organizzare Katanga — dice Bersani —. Ho già espresso a Bonanni rincrescimento e condanna per l’aggressione subita. Vedo però che qualcuno mette in mezzo il Pd, pur non avendo io ricevuto notizia di uguali riflessioni quando ad Alzano Tremonti, Calderoli e Maroni subirono l’aggressione dei tifosi. In quel caso, nessuno disse che la Lega non era in grado di organizzare dibattiti». La polemica è diretta al ministro della Pubblica amministrazione Renato Brunetta, che da Atreju 2010 — la festa romana dei giovani del Pdl — accusa: «L’aggressione a Bonanni di mostra c he dentro l’anima vera del Pd si mantiene una componente squadrista, reazionaria, estremista e conservatrice. Sono azioni messe a punto da gruppi organizzati che hanno la connivenza di parte degli organizzatori, altrimenti non si avvicinerebbero nel raggio di tre chilometri». Brunetta è convinto che il segretario della Cisl rappresenti «una punta avanzata nel campo del riformismo sindacale. Ha contro di sé il più conservatore sindacato comunista d’Occidente, la Cgil, che ospita frange come la Fiom che a sua volta hanno al loro interno elementi vicini all’eversione». A lui risponde piccato Bersani: «Noi squadristi? Chiamiamo il 118 e risolviamola così». Offeso si dimostra anche Cesare Damiano, capogruppo del Pd in commissione Lavoro: «È sciacallaggio politico. Quando parla di estremismo, il ministro non deve guardare in casa del Pd». Brunetta però non si lascia sfuggire una controreplica al vetriolo: «Povero Damiano, non sa più a che santo votarsi. Invece di chiedere scusa a Bonanni e a tutti gli italiani, offende chi gli ricorda la storia del suo partito, il Pci, Pds, Ds, Pd che continua a consentire a gruppi violenti organizzati di colpire avversari politici ospiti alla sua festa». Incredulo, l’onorevole del Pd Sergio D’Antoni: «Brunetta indugia in sciocche strumentalizzazioni di parte».

l’Unità 10.9.10
Sakineh violenza ancestrale
La lapidazione, esclusa dal Corano, era prevista dalla Bibbia fino al fatto dell’adultera con Gesù Ora una battaglia contro le violenze alle donne
di Shukri Said

La lapidazione per adulterio e concorso in omicidio minacciata a Sakineh non è medievale, è ancestrale. Escluso che sia comminata nel Corano, che non la prevede mai, essa è invece prevista dalla Bibbia per il caso di adulterio (Deuteronomio 22: 22, 23). Il Deuteronomio risale al VI-V secolo a. C., ma Cristiani ed Ebrei hanno abbandonato tale pratica duemila anni fa quando, come riporta il Vangelo (Giovanni 8, 1-11), scribi e farisei portarono a Gesù una donna colta in flagrante adulterio interrogandolo sulla lapidazione prescritta da Mosè. E Gesù, con la famosa frase «Chi è senza peccato scagli la prima pietra», impose l’abbandono della feroce pratica. Né Maometto, l’ultimo dei profeti, avrebbe voluto ripristinare una così barbara sanzione tanto limpidamente eliminata dal “suo” predecessore Gesù. In effetti la lapidazione per adulterio fu introdotta nell’Islam con un Hadith di Omar, successore di Maometto (Hadith Sahih Muslim vol. 3, libro 17, n. 4206) e non appartiene all’esperienza diretta del Profeta narrata nel Corano, l’unica da osservare, dove si prevedono (Sura 24, 2-3, “La Luce”) “solo” 100 frustate per l’adulterio conclamato da quattro testimoni, maschi e attendibili, che dichiarino di aver assistito alla penetrazione. Il che equivale alla punizione, non dell’adulterio in sé, bensì dell’oltraggio al pudore (previsto come reato anche in Italia) suscettibile di scuotere, con lo scandalo che ne consegue, le regole di una sana comunità. Infatti, la sanzione è eseguita dalla folla in un rito di espiazione dell’affronto subito dalla collettività. Invece rimane senza conseguenze l’adulterio “privato” in cui, al marito che accusa con apposita formula coranica, può rispondere pariteticamente la moglie discolpandosi mediante il ribaltamento della medesima formula pronunciata dal marito. È inammissibile che nel terzo millennio siano considerati interlocutori della collettività internazionale paesi che ammettono ancora la lapidazione. Invece il mondo reagisce a questa barbarie di regime solo quando si lega a un nome.
Salviamo Sakineh oggi come quando salvammo la nigeriana Amina Lawal nel 2003. Queste reazioni internazionali, oltre che a salvare la vittima, mirano anche a sollevare dai sensi di colpa per il silenzio sui casi trascurati ma sicuramente esistenti. Perché chi deve impegnarsi per la salvezza della donna oppressa dai regimi canaglia, sono i governi di quei paesi dove l’opinione pubblica si mobilita e che di volta in volta si cimentano in compromessi per accontentare i loro elettori. Viene così l’idea che il nome della vittima trapeli in occidente non tanto per l’abilità informatica o informativa di qualche dissidente, quanto per la volontà del regime che della più efferata nefandezza permette il diffondersi della notizia proprio per conquistare il compromesso di cui ha bisogno.
Il caso di Sakineh è la dimostrazione di questo metodo adottato dal regime iraniano per uscire dall’isolamento diplomatico conseguente alla scelta nucleare. È trapelata la sua condanna alla lapidazione per un reato di adulterio che, in occidente, non dà neppure più luogo alla separazione con addebito e, al movimento d’opinione sollevatosi contro il supplizio, si è risposto con una ulteriore condanna a 99 frustate per l’inconcepibile delitto di aver mostrato i capelli in una foto che, addirittura, non riproduceva neppure Sakineh. È questo un chiaro pretesto del regime iraniano per rimanere al centro dell’attenzione di quella comunità internazionale che sarebbe veramente ora che si svegliasse.
La battaglia per i diritti umani non si fa saltuariamente. Per una Sakineh di cui traspare la triste storia, ci sono nel mondo tante altre donne, troppe, che anonimamente subiscono violenze e torture intollerabili. La violenza di tanti regimi è così antica e feroce che, anche per difendersene, le donne hanno mantenuto nei secoli le loro mutilazioni genitali, cioè la rinuncia alla sessualità. Non possiamo convincerle ad abbandonare definitivamente quelle pratiche se non combattiamo i regimi che infieriscono sulle donne tutte le volte che si affaccia il loro diritto alla femminilità. Se la democrazia non può essere esportata, come esperienze ancora in corso dimostrano, il suo seme può tuttavia essere piantato, ma va tenacemente coltivato.
Vogliamo che la battaglia per Sakineh sia l’ultima con un nome e che si apra finalmente la guerra alla violenza sulle donne ovunque, perché quella sulle donne è violenza capace di tutto e buona a nulla. Da estromettere dal Pianeta Terra con un formidabile rigurgito di dignità internazionale e non con intermittenti singhiozzi.

l’Unità 10.9.10
Sakineh, i figli: «Nessuna prova che la lapidazione sia sospesa»
di Marina Mastroluca

L’avvocato della donna dubita dell’annuncio del ministero degli esteri: «Solo belle parole»
A sera i media iraniani annunciano che Khamenei ha concesso la grazia ad alcuni detenuti
«Non abbiamo nessun documento legale». Il figlio e l’avvocato di Sakineh non si fidano dell’annunciata sospensione della lapidazione. Khamenei concede la grazia per alcuni detenuti in occasione della fine del Ramadan.

«Non abbiamo alcun documento legale o ufficiale sulla sospensione della sentenza di lapidazione». Non si fida il figlio di Sakineh, che a 22 anni si trova a combattere contro un potere tanto più forte di lui. E anche ora che il ministero degli esteri iraniano ha annunciato che l’esecuzione di Sakineh è stata sospesa, Sajjad non si accontenta delle parole. Non da parte di chi ha condannato sua madre a morire sotto una pioggia di pietre, non da parte di chi l’ha costretta a confessare in tv, senza nessuna protezione legale, di aver non solo tradito il marito, ma di essere stata complice nel suo omicidio. «Noi figli di Sakineh Mohammadi Ashtiani dichiariamo che nostra madre è innocente e deve essere liberata immediatamente», così scrive Sajjad, mentre chiede «ai Paesi del G8, ai governi di Turchia e Brasile e al mondo intero di continuare a fare pressioni e a non pensare che il caso sia risolto».
Non si fida neanche l’avvocato della donna, Javid Houtan Kian. Non si fida perché non può farlo, perché «il ministero degli esteri iraniano, e dunque il governo, non ha il potere di sospendere questa pena». Ad avere voce in capitolo sono «il capo del potere giudiziario Larijani e il capo del settore 9 del Consiglio supremo, Davoudi Mazandarani». E da loro non è arrivata nessuna comunicazione. «Se la sospensione fosse stata pronunciata dal potere giudiziario me l’avrebbero comunicato spiega il legale di Sakineh -. Io stesso ho effettuato ben dieci volte questa richiesta di sospensione senza mai ottenere alcuna risposta. Si tratta solo di belle parole per rispondere alla pressione internazionale». Ma allo stato dell’arte la sentenza potrebbe essere eseguita da un momento all’altro. «E con la fine del Ramadan la mia preoccupazione per la sorte di Sakineh si moltiplica per dieci».
Troppo presto per pensare che sia finita, dunque. La presidenza Ue, e così anche Amnesty International, chiedono l’annullamento definitivo della sentenza. La sospensione infatti era già stata annunciata all’inizio di luglio per poi essere smentita o confermata sempre verbalmente diverse volte, da istanze politiche o giudiziarie differenti, dando così l’impressione che intorno alla sorte di Sakineh si fosse innescato un braccio di ferro tra diverse anime del potere iraniano. Teheran è insofferente di fronte a quelle che considera ingerenze esterne anche ieri il ministro degli esteri Mottaki ha accusato l’Occidente di aver montato un caso per «motivazioni politiche», difendendo una donna «colpevole di adulterio e complicità in omicidio». Ma non c’è dubbio che le pressioni internazionali abbiano dato più forza a quanti all’interno dello stesso regime iraniano si oppongono sia pure solo per ragioni di opportunità alla lapidazione.
«NON MORIRÀ».
«Non credo che Sakineh verrà mai lapidata né impiccata», ha detto il presidente della commissione giustizia del parlamento iraniano, Ali Shahrokhi, incontrando a Teheran il vicepresidente della commissione giustizia del senato italiano, Alberto Maritati, secondo quanto riferito da quest’ultimo. All’esame del Consiglio dei Pasdaran ci sarebbe anche un disegno di legge già approvato dal parlamento sull’abolizione della lapidazione.
Nell’attesa, questo l’invito che arriva dal figlio di Sakineh, è importante non lasciar cadere l’attenzione. Ieri alla Mostra del Cinema di Venezia, Articolo 21 ha raccolto decine di nomi celebri sul suo appello: «liberate tutti e tutte le Sakineh nell’Iran e nel mondo». Ha firmato anche Quentin Tarantino.

l’Unità 10.9.10
«La mobilitazione internazionale sta dando i suoi frutti»
«Non è un caso isolato. Ci sono almeno altre 14 detenute nelle carceri iraniane che rischiano
di fare la stessa fine»
di Umberto De Giovannangeli

Secondo la dirigente radicale nei rapporti con Teheran nuoce sia l’eccessiva cautela della realpolitik sia la minaccia continua di sanzioni

Penso ai molti scettici che continuavano a ripetere che le mobilitazioni non servono, non pagano quando si ha a che fare con regimi autoritari come quello iraniano. Questi seminatori di scetticismo sono serviti: la mobilitazione per Sakineh un primo risultato lo ha ottenuto. Ora però non bisogna mollare la presa. La mobilitazione va rilanciata per ottenere la libertà per Sakineh e per le altre che come lei sono nel braccio della morte in qualche carcere iraniano». A parlare è Emma Bonino, Vicepresidente del Senato e leader radicale.
La condanna alla lapidazione di Mohammadi Ashtiani è stata sospesa... «E questa è la dimostrazione che in un mondo globale, in un modo o nell’altro l’influenza esterna conta. Ed è importante estendere e rafforzare quanto più possibile questa idea di cittadinanza globale. Mi auguro che i molti scettici che continuavano a ripetere che contro certi regimi la mobilitazione non serve, abbiano imparato la lezione. Però...».
Però?
«Ora non bisogna abbassare la guardia. Ha contato molto la personalizzazione di questa battaglia contro la pena di morte, in qualunque modo essa venga inflitta. Sakineh è divenuta il simbolo di una battaglia di civiltà, quella per l’abolizione della pena di morte, che riguarda tutti quegli uomini e quelle donne che si trovano nei bracci della morte. Questa personalizzazione non deve far dimenticare che in Iran ci sono altre Sakineh, almeno 14, Così come in altre parti nel mondo vi sono uomini e donne “senza volto” pronte per i “boia di Stato”».
Un simbolo che rischia ancora la morte. «Per questo la mobilitazione non solo non deve venir meno ma al contrario deve essere ampliata, coinvolgendo istituzioni, governi, parlamenti, società civile, opinione pubblica. Siamo solo ad un primo risultato. Importante ma non sufficiente. Come è importante che questo spirito di corresponsabilizzazione e di cittadinanza globale che è emerso nella vicenda di Sakineh permei sempre più la diplomazia e i rapporti tra gli Stati. Occorre fare sinergia: istituzioni, Ong, governi, società civile...».
Sakineh come simbolo abolizionista. A che punto è l'iniziativa per la moratoria della pena di morte? «A uno snodo cruciale. Come dimostra il recente rapporto di “Nessuno Tocchi Caino”, il fronte abolizionista ha conquistato nuovi Paesi. Ma altri, e importanti, ancora resistono. L’Assemblea generale dell’Onu sta discutendo una seconda risoluzione sulla moratoria. Occorre far vivere la vicenda di Sakineh per ciò che essa rappresenta anche a New York».
Cos’altro insegna questa vicenda?
«Che esiste un’alternativa seria, praticabile, al silenzio della realpolitik e alle invocazioni allo scontro frontale con Teheran dei duri e puri. È l’alternativa che come “Non c’è pace senza Giustizia” abbiamo provato a indicare dopo aver ascoltato le donne, i giovani, gli intellettuali, personalità in prima fila nella lotta per i diritti umani, come la premio Nobel Shirin Ebadi, che in Iran stanno combattendo per una società, un Paese più libero e giusto. Sono loro ad aver indicato la strada da perseguire...».
E quale sarebbe questa strada?
«È una strada tortuosa, complessa, che non contempla lo scontro frontale con il regime. Questo scontro va evitato, ci hanno ripetuto i nostri interlocutori iraniani. Il nucleare è importante, ci hanno detto, ma quel dossier non può, non deve mettere a rischio le possibilità, che esistono, di ottenere maggiori spazi di libertà. Questo, è bene sottolinearlo ancora, potrà non piacere ai fautori del pugno di ferro, agli evocatori di boicottaggi, sanzioni, scontri frontali. Può non piacergli ma è ciò che dall’Iran dei diritti ci viene chiesto».
Come tradurre questa indicazione?
«Evitando azioni che possano isolare i cittadini e la società civile iraniani, e sviluppando invece iniziative più “discrete” è anche per questo più incisive. Puntare, ad esempio, al sostegno di quelle associazioni per i diritti delle donne, dei bambini, dei lavoratori. E affrontando una questione sentitissima oggi in Iran: la questione della droga. Costruire partnership con organizzazioni iraniane che si occupano di temi “meno conflittuali”, lavorando per scambi tra Università, per un sostegno nei campi della letteratura, della filosofia, delle arti...E tener conto dei leader locali e delle priorità che loro ci indicano. Vi sono, mi ha ripetuto recentemente Shirin Ebadi, delle “zone rosse” che non vanno oltrepassate. Perché a rimetterci non sarebbe il regime, ma chi in Iran si batte per le libertà».

il Fatto 10.9.10
Come avviene una lapidazione
“Sassi rotondi e lisci, la famiglia offesa scaglia la prima pietra”
di Elisa Battistini

Tutto il mondo continua a mobilitarsi per salvare Sakineh Ashtiani dalla lapidazione e ancora non si sa se la pena sia stata davvero sospesa (ieri l’avvocato della donna iraniana ha detto di dubitarne). Una certezza però c’è: in alcuni paesi, tra cui l’Arabia Saudita, la Nigeria, il Sudan e l’Iran questa forma di pena di morte continua ad esistere. Ma cosa significa? E come si svolge un’esecuzione di questo tipo? Franco Cardini, storico e saggista, docente all’Università di Firenze, racconta la concreta brutalità di questa pratica.
Esistono delle regole per lapidare una persona? La cosa più importante è che, a scagliare la prima pietra, siano i familiari di chi ha subito il torto. L’esecuzione può avvenire all’aperto o al chiuso, ma non è una prescrizione. Mentre è fondamentale che sia il “clan” di chi è stato offeso dal reato a guidare il sacrificio. Di solito, poi, vengono scagliate altre pietre da altre persone, legate in qualche modo alla famiglia “offesa”. Scagliare pietre è un gesto molto violento, ma il principio di fondo non è differente da quello che permette ai parenti delle vittime, negli Stati Uniti, di assistere in prima fila a un’esecuzione capitale. È una forma di pena di morte, cioè di estinzione del reato attraverso un sacrificio. Nella lapidazione è importante che il primo sasso non sia scagliato da chi non ha nulla a che fare con l'accaduto: sarebbe un gesto grave e inammissibile. Darebbe vita a una nuova spirale di vendetta.
Come devono essere le pietre?
I sassi devono essere lisci, rotondeggianti. L’origine ebraica della pena proviene dai clan di pastori e il sasso era il mezzo più comune per tenere assieme le pecore e punirle se sfuggivano al gregge. Infatti la lapidazione viene comminata solo per certi reati. Chi ruba non verrà mai lapidato. Viene lapidato, invece, chi si è reso colpevole di un crimine privato che offende la comunità perché ne viola i principi. Come l’adulterio, il tradimento della parola data, l’incesto, la mancanza di rispetto verso i genitori, l’omosessualità: sono reati che pongono l’individuo al di fuori del proprio gruppo. L'esecuzione è un sacrificio pubblico per estinguere un’offesa arrecata a tutti.
Quanto dura una lapidazione?
Finché la vittima non è sepolta e ricoperta dai sassi, anche se è già morta. La vittima può anche morire al primo colpo, ma il fine simbolico dell’atto non è la morte in sè. Il sasso è un’arma che non si adopera per gli esseri umani. Viene lapidato chi, con i suoi comportamenti, si è posto al di fuori del consorzio degli uomini. La lapidazione esprime un senso di repulsione, di estraneità. È la cacciata dal consorzio umano. La pietra si usa con le bestie. E la sepoltura del lapidato è un atto rituale: si continuano a scagliare sassi fino a che la persona punita non scompare dalla vista. Quanto è importante che la persona soffra?
Pochissimo. Non è questo l’obiettivo. L’obiettivo è il “risanamento” della comunità che ha subito un torto considerato molto grave. Il lapidato è il capro espiatorio da punire per ristabilire l’ordine.
Dove avvengono queste pratiche mortali? Non molto in Iran, che è un paese fondamentalmente occidentalizzato dal 1979. Sono più frequenti invece Arabia Saudita. Noi ci stiamo appassionando al caso della povera Sakineh in modo un po’ pretestuoso: chissà quante persone vengono lapidate e non lo sappiamo. Sakineh è diventata un simbolo. È giusto opporsi. Ma la pratica dell’iniezione letale di fronte alla famiglia della vittima non mi pare più civile.

l’Unità 10.9.10
Kabul, soldati Usa sotto inchiesta Uccidevano civili per divertimento
Tagliavano un dito ai cadaveri e lo tenevano come ricordo

Cinque soldati americani sono stati incriminati per aver ammazzato civili in Afghanistan senza motivo. «Uccidevano a casaccio e collezionavano le dita dei morti come trofei», scrive il quotidiano britannico «Guardian» citando fonti investigative e documenti legali.
Cinque membri di una sedicente «squadra omicidi» («kill team») rischiano la pena di morte per aver ucciso tre uomini afghani per puro divertimento in distinte «esecuzioni a casaccio» avvenute nel corso di quest'anno. Altri sette soldati avrebbero nascosto i delitti dei compagni e picchiato una recluta che aveva denunciato gli assassini. Il sergente Calvin Gibbs, 25 anni, avrebbe formato il gruppo criminale assieme ai commilitoni Jeremy Morlock, Michael Wagon, Adam Winfield e Andrew Holmes. Tutti negano le accuse.
Secondo il Guardian, che riprende un servizio del quotidiano dell' esercito Usa «Army Times», le accuse nei confronti di Gibbs e dei suoi complici sono le più gravi maiemerse sinora per crimini di guerra compiuti nel teatro afghano. Gli investigatori sostengono che i cinque, tutti membri di una unità di fanteria basata a Ramrod, nella provincia meridionale di Kandahar, abbiano cominciato a progettare le loro infamie lo scorso novembre. Alcuni testimoni hanno riferito agli inquirenti militari che Gibbs si era vantato di averla fatta franca in Iraq, dove aveva perpetrato misfatti analoghi. In particolare disse che sarebbe stato molto facile «lanciare una bomba a mano contro qualcuno e ucciderlo».
La prima vittima, lo scorso gennaio, fu un certo Gul Mudin, ferito con una granata e finito a fucilate in un campo di papaveri vicino al villaggio di La Mohammed Kalay. Poi venne il turno di Marach Agha, il mese successivo. In maggio toccò a Mullah Adahdad. Secondo l'Army Times, uno dei soldati killer collezionava le dita dei morti come «souvenir». Qualcuno amava farsi fotografare accanto ai cadaveri.

l’Unità Firenze 10.9.10
Prato, brutto risveglio all’ombra del razzismo
di Mara Conti

Alle 2 di notte, finita la festa, l'assessore alla sicurezza del Comune di Prato Aldo Milone ha acceso il computer per condividere con il popolo del web un suo telegrafico pensiero: «Stasera abbiamo assistito ad una situazione umiliante per la nostra città. Il presidente della Provincia e la sua giunta non ha partecipato alla tradizionale festa cittadina perché pretendeva la presenza di mafiosi cinesi nel corteggio storico». Un epitaffio provocatorio dalla grammatica traballante, a conclusione del crescendo di polemiche che ha caratterizzato il lato profano della festa dell'8 settembre. La dichiarazione
ha sollevato preoccupazioni nel gruppo Pd in consiglio comunale, che ieri in un comunicato del suo presidente Massimo Carlesi ha chiesto a Milone di «parlare se sa qualcosa sugli ospiti del presidente della Provincia. Altrimenti, eviti di gettare benzina sul fuoco». «Sono completamente d'accordo ha scritto il segretario del Pd Bruno Ferranti con le decisioni assunte dal presidente della Provincia e col merito delle sue iniziative. La storia e le tradizioni culturali vivono e hanno un senso se hanno la capacità di parlare al presente e alla complessità di una società fortemente mutata».
Il sindaco Cenni ha indetto una conferenza stampa per ribadire la necessità di «salvaguardare il Corteggio dalla dannosa ingerenza della politica» e dalla «spasmodica ricerca di visibilità», rispettando il cerimoniale e il duro lavoro di preparazione dell' evento folkloristico. Sollecitato dai giornalisti per un commento sulla dichiarazione on line dell'assessore Milone, il primo cittadino ha minimizzato dichiarandola inevitabile conseguenza del clima creato dalla strumentalizzazione politica, per poi lanciarsi nella descrizione a tinte fosche di un mondo di illegalità e violenza, completamente succube della «mafia gialla» nei rapporti economici e sociali.
Ha portato lontano la «scandalosa» iniziativa del presidente Lamberto Gestri di invitare al Corteggio dietro al Gonfalone della Provincia una rappresentanza di cittadini migranti. La mattina del day after, le locandine dei giornali locali nel consueto stile lapidario sintetizzavano così l'accaduto: «Clamorosa rottura. La Provincia diserta il Corteggio dopo una lite col Comune sulla presenza degli stranieri», «Corteggio, lite per i cinesi. Gestri non sfila con le autorità». In realtà, come ha scritto sulla pagina Facebook della Provincia, il presidente c'era: «ho vissuto la festa da pratese tra i pratesi. È stata un' emozione forte, quella di scegliere di stare per le strade e nelle piazze con i pratesi. Quelli nati a Prato e quelli nati altrove che nella nostra città vivono e lavorano onestamente. Sono dispiaciuto perché non ho sfilato accanto al gonfalone? Sarei bugiardo se dicessi di no. Sento però di essere rimasto fedele al mio compito di presidente della Provincia che ha a cuore la sua gente e il futuro della sua comunità». Naturalmente tra gli invitati dalla Provincia non c'erano solo cinesi, ma anche rumeni, ecuadoregni, peruviani, pakistani, marocchini, senegalesi. Cittadini impegnati attivamente per la convivenza e nei rapporti con le istituzioni pratesi, che con malcelato disagio si sono ritrovati al centro di una situazione assai confusa, “colpevoli" solo di aver accolto con favore il gesto di amicizia della giunta provinciale.

Al comune di Prato, la più grande città della Toscana dopo Firenze, dalle ultime amministrative governa la destra
Repubblica Firenze 10.9.10
Intervista a Edoardo Nesi
Lo scrittore: la reazione del Comune è stata sorprendente, gli stranieri non hanno tre nasi e la coda
Chinatown e l’occasione persa
"Non parlateci più di integrazione"
di Maurizio Bologni

"Quel gesto simbolico ignorato per uscire dalla nostra trincea"
Nesi: dobbiamo diventare un laboratorio dell´immigrazione

Lavorano come schiavi Sono d´accordo con Cenni quando dice che i cinesi devono uscire dall´illegalità
Sono come noi, di grandissima umanità Non si può umiliare così persone che sono venute nella tua terra
Un politico deve tentare di trasformare la presenza di una comunità così forte in occasione di sviluppo

«Mi ha sorpreso che il sindaco non abbia voluto gli immigrati al corteggio, l´integrazione parte da gesti simbolici come questi». Parola di Edoardo Nesi, scrittore e assessore alla cultura della Provincia di Prato.
Che valutazione dà del "no" del sindaco Cenni alla richiesta del presidente della Provincia Gestri?
«Quando la Provincia chiede una cosa tanto semplice, ovvero di far partecipare alla propria delegazione del Corteggio storico un gruppo ristretto di immigrati, crede di fare una richiesta da accettare subito e senza riserve. È il minimo armamentario della coscienza politica. Non siamo un´associazione di scacchi. Siamo qui per far politica. Siamo qui per affermare dei valori che in questo caso mi sembrano di elementare condivisione. La reazione dell´amministrazione comunale mi ha sorpreso. Tutto mi aspettavo tranne che venisse mossa un´eccezione. Non vedo come la partecipazione di qualche cittadino immigrato potesse alterare il corteggio storico. La mattina avevamo ricevuto in Provincia i rappresentanti di tutte le comunità straniere di Prato, non solo quella cinese. Non è gente che ha tre nasi, le ali e la coda. Sono come noi, di grandissima umanità. Non si può umiliare così persone che sono venute nella tua terra».
Il problema, forse, è che Prato identifica gli immigrati con l´economia illegale dei cinesi. Non è così?
«Sento di avere le carte in regola per parlare dei cinesi a Prato perché nel mio ultimo libro non faccio sconti all´illegalità cinese. Ho partecipato ad un blitz del cosiddetto gruppo interforze in un magazzino cinese e quello che ho visto mi ha profondamente turbato. Questa esperienza è finita nel libro con tutta l´indignazione che mi ha suscitato. Penso, in proposito, che noi occidentali non diamo sufficiente importanza ad una delle maggiori conquiste civili, ovvero la nostra legislazione sul lavoro, un meccanismo che va avanti da secoli in un´unica direzione: quella di dare più diritti a chi lavora».
E invece in quel magazzino lei ha trovato schiavi cinesi?
«Gente che lavora in condizioni inaccettabili. In quel momento ho pensato che a sinistra bisognava dire forte che sono i nostri principi fondanti che vengono calpestati, roba nostra insomma. E quindi sono d´accordo con il sindaco Cenni quando dice che i cinesi devono uscire dall´illegalità».
Però?
«Però a questo bisogna agganciare un altro meccanismo egualmente universale. L´integrazione. Mettiamo pure da parte la necessità storica, politica, morale e etica di questo processo. Un politico che ha a cuore la propria città deve tentare in ogni modo di trasformare la presenza di una comunità straniera così importante in un´occasione di sviluppo economico. Proviamo a ragionare solo da un punto di vista di opportunità: l´integrazione bisogna farla anche solo per questo. E spesso l´atto simbolico, come sarebbe stata la partecipazione degli immigrati al corteo, è quello che consente di cominciare una politica. In questo caso una politica di integrazione».
Ma non è che i gesti simbolici arrivano in ritardo? Non è che l´integrazione sarebbe dovuta iniziare dieci anni fa?
«Che si sia perso tempo è evidente. Ma insisto: per quanto riguarda la comunità cinese, credo che l´integrazione economica sia la chiave di volta. Devono emergere dal lavoro nero, mettersi in regola. E noi dobbiamo stimolarli a comprare i tessuti dalle aziende pratesi. All´interno della comunità cinese ci sono diverse sensibilità, posizioni, tipi di aziende, persone. E credo che si debba cominciare dalle aziende più strutturate aiutandole a mettersi in regola. Con la Regione stiamo lavorando ad un piano che va in questa direzione. Non è un obiettivo impossibile perché anche gli imprenditori cinesi si stanno rendendo conto che non possono andare avanti così. Il loro modello di business non splende più. Sentono la crisi, anche perché se vendi i prodotti agli ambulanti dei mercati, come fanno loro, il margine di guadagno è ridotto. Penso che l´integrazione possa avvenire, anzi avverrà sicuramente, su livelli di qualità produttiva alta, coi pratesi che forniranno i tessuti. È una collaborazione che è già iniziata. Così come ci sono italiani che lavorano in aziende cinesi. Ma queste sono storie che non si raccontano mai».
La sensazione è però che le due comunità non dialoghino e ciascuna viva la propria vita separata in spazi cittadini diversi.
«È l´impressione che ha chi viene a Prato una volta ogni tanto. Vai al Macrolotto e pensi di essere sbarcato in Cina. Ma c´è una generazione di cinesi che vanno a scuola coi nostri figli, parlano pratese, vestono gli stessi abiti, viaggiano sugli stessi vespini, ragazzi la cui presunta differenza svanisce come è giusto che sia. E come si fa a pensare che non è pratese un ragazzo che nasce nell´ospedale di Prato, studia nelle scuole di questa città, gioca e comincia a lavorare qui. È retorica vuota evocare il "pratese". Ma chi è questo "pratese"? Si dimentica che quasi il 50% degli italiani di Prato non è nato qui ma è immigrato nel dopoguerra».
E la Provincia che cosa fa per agevolare l´integrazione culturale?
«Abbiamo pubblicato e fatto pubblicare un libro sull´immigrazione cinese. Sandro Veronesi e io abbiamo lanciato un concorso letterario per pratesi i cui genitori non siano di madre lingua. Teniamo aperti i contatti con esponenti di comunità cinesi anche in prospettiva di scambi con il Paese d´origine: la globalizzazione ci ha già fregato una volta, ora è tempo di cercare di trarne vantaggio creando i canali perché i cinesi a Prato ci vengano da turisti. Ma vorrei chiedere un aiuto al Pd nazionale e regionale. Vengano a parlare con noi della Provincia, ci ascoltino, ci diano consigli, perché Prato diventi il laboratorio dell´immigrazione. Il gesto di Gestri ha avuto il grande merito di sollevare questo problema e di portarlo all´attenzione dell´Italia. Così non può durate. È interesse e dovere integrare. Ma abbiamo bisogno di aiuto. Non possiamo rimanere soli in trincea».

l’Unità 10.9.10
Chi parla male pensa male
Il futuro della politica? È scritto nei cartoni animati...
Gli ottimisti: c’è chi pensa che l’unica speranza siano i giovani. I pessimisti: no, rischiano la catatonia derivata da sovraesposizione mediatica. E allora? Il fatto è che gli anticorpi al «lato oscuro della forza» sono sempre meno...
di Mauro Barberis, filosofo del diritto

La politica dell’urlo, che ha dominato quest’estate sciamannata, viene da lontano, ma passa sicuramente per un (non) luogo familiare: la televisione. L’urlo non corrisponde solo al bisogno di farsi sentire nel rumore mediatico, che così finisce per diventare assordante, ma a un paesaggio antropologico colonizzato dai luoghi (comuni) e dai tempi (frenetici) della televisione. La verità è che siamo un generazione venuta su a merendine e Iva Zanicchi, yogurt lassativi e Gerry Scotti: una generazione perduta, insomma. Il vero problema, a questo punto, diventa: anche tutto ciò, come i diamanti o come il letame, sarà per sempre? L’interrogativo davvero inquietante è: riuscirà la televisione a rimbecillire anche i nostri figli?
Su questa domanda, in effetti, si confrontano due scuole di pensiero. Gli ottimisti pensano che di fronte alla mostruosità dell’attuale gerontocrazia, non basti neppure invocare il ricambio generazionale – gli attuali quarantenni sono forse meglio dei sessantenni? – e occorra puntare direttamente sui ventenni. I pessimisti, invece, vedono i ventenni afflitti, al quadrato o al cubo, dagli stessi difetti di padri e nonni; all’influsso della televisione si aggiunge quello ancor più mefitico dei nuovi media, dal cellulare alla playstation sino ai videogiochi del computer. Tutto ciò contribuirebbe a tenere «i giovani» in uno stato di catatonia culturale, morale politica: dal quale riemergerebbero solo per mettere su You Tube le torture imposte a qualche disabile.
Quest’agosto ho fatto un esperimento: ho provato su me stesso, a dosi massicce, gli stessi media cui sono quotidianamente esposti i miei figli. Playstation e videogiochi erano troppo anche per me: anche se Guerre stellari, ormai, ci vanno vicino.
Dalla mia bella razione di cartoni animati e sitcom, comunque, ho tirato impressioni molto nette: benché oscillanti fra ottimismo e pessimismo. Dal lato dell’ottimismo, non solo cartoon come i Simpson, Futurama e i Griffin, o serie come Camera cafè, tutte su Italia Uno, sono infinitamente più intelligenti della programmazione media, ma comunicano messaggi diametralmente opposti all’ideologia del proprietario della rete; gli autori sono evidentemente gente come voi e me, disgustati dalle stesse cose che disgustano noi.
Dal lato del pessimismo, anche nella programmazione migliore non s’incontrano mai messaggi positivi, né facili da decodificare, per chi non abbia avuto le nostre stesse esperienze. Homer Simpson, operaio-massa in una centrale nucleare, è troppo stupido per le prediche politicamente corrette di Lisa; i Griffin non sono solo brutti e cattivi ma acidamente stupidi, sempre disposti a scegliere voluttuosamente il peggio; il sindacalista traffichino Luca Nervi, poi, è persino peggio di quel bruto di Paolo Bitta, per non parlare del suo bastardo direttore e dei suoi impresentabili colleghi. Il panorama è talmente tetro da risultare alla fine, consolatorio: la nostra vita quotidiana, dopotutto, è migliore.
Ma cosa può capire, di tutto questo, chi non abbia letto, non dico Marx, ma neppure Cent’anni di solitudine? A occhio e croce, i nostri figli non si aspetteranno mai che un bel giorno arrivino i buoni: ma questo non è necessariamente un male. Se non crederanno alle favole che hanno raccontato a noi – dalla rivoluzione permanente all’arricchimento individuale – neppure passeranno senza accorgersene il confine che un tempo ci separava dal Lato Oscuro della Forza. L’unica cosa certa è che, con questi ventenni, gli attuali politici faranno una fatica del boia già per convincerli ad andare a votare.

il Fatto 10.9.10
Fidel, messia contro l’atomica: “Il modello cubano non funziona”
Da lìder maximo a profeta solitario, il ritorno in scena di Castro
di Massimo Cavallini

Fidel è tornato. Anzi: è morto ed è quindi risorto, come lo stesso Castro s’è premurato di raccontare nel corso d’una recente intervista che proprio così – Llegué a estar muerto, pero resucité – è stata titolata dal quotidiano messicano La Jornada. E a noi non resta, a questo punto, che chiederci la vera ragione di tanto miracolo. Perché, dunque, Fidel è, non “guarito”, ma “resuscitato”? Facile la risposta: per l’unica ragione che può spingere un personaggio come il gran leader della rivoluzione cubana – notoriamente mai avaro di messianici accenti, specie quando parla di sè – a tornare tra i vivi che lo avevano (politicamente) dato per morto. Ovvero, semplicemente: per redimere il mondo.
L’ultima metamorfosi
NELLE ULTIME settimane, allorché, in accelerato crescendo, Fidel ha cominciato a riapparire ed a parlare in pubblico, molti si sono chiesti in che misura il “líder maximo” fosse in procinto di tornare ad occupare il potere. Ma, in questo modo, i meno avveduti tra i “castrologi” hanno una volta di più dimostrato di sottovalutare la statura politica e le smisurate ambizioni dell’uomo che, nell’ultimo mezzo secolo più d’ogni altro ha cambiato il corso della storia dell’America Latina. No, non è per tornare ad occupare uno o più posti di comando (o per mettere le briglie a Raúl) che Fidel ha attraversato in senso contrario le limacciose acque dello Stige. E lui stesso ha molto chiaramente provveduto a comunicare, “per immagini”, questo suo disdegno per il passato. Dalla sua storica divisa verde olivo – di nuovo indossata in pubblico – sono ostentatamente scomparsi, infatti, tutti i fregi e tutti i gradi. E lo scorso 7 di agosto, quando è tornato a parlare di fronte al Poder Popular, Fidel ha altrettanto ostentatamente evitato di sedersi sulla poltrona che fu sua. No. Il nuovo Fidel post-resurrezione non è più – né ha intenzione di tornare ad essere – un “comandante en jefe”, o un capo di Stato. È, piuttosto – in uno straordinario e per molti aspetti sconcertante processo di reinvenzione di se stesso – un grande saggio, un profeta che vuol salvare l’umanità da se stessa o, molto più concretamente, da un ormai imminente olocausto nucleare. Meglio ancora: è un profeta la cui missione nasce dalla piena coscienza d’esser l’unico che, per autorità morale e per visione politica, può oggi salvare il pianeta Terra dall’autodistruzione.
Una teoria della cospirazione
SU QUESTO PUNTO Fidel è stato chiarissimo nel discorso che, sullo sfondo della storica scalinata dell’Università dell’Avana, ha marcato, nella prima mattinata del 3 settembre, il suo ritorno ai comizi di massa. “Al mondo è stata deliberatamente nascosta questa verità (l’imminenza d’un olocausto nucleare, ndr) ed è toccato a Cuba (cioè a lui, ndr) il duro compito di avvertire l’umanità del pericolo che incombe”. Insomma: giovane o vecchio, tiranno o patriarca benevolo, risorto o semplicemente guarito, con voce stentorea o affievolita dall’età e dalla malattia, Fidel continua ad essere quel che è sempre stato: un leader che, non importa quanto piccolo sia il suo regno, pensa la politica in termini universali. Fin qui, tutto chiaro. Molto meno chiari, tuttavia – anzi decisamente nebbiosi – diventano i panorami quando il salvifico messaggio del “Fidel risorto” viene confrontato con la realtà. Nel corso delle sue recenti apparizioni Castro ha detto, di passaggio, alcune cose che hanno attirato l’attenzione dei media. Ha accennato, ad esempio, ad una autocritica per il trattamento inflitto agli omosessuali negli anni ’60 e ’70. E parlando con il giornalista Jeffrey Goldberg ha duramente criticato l’antisionismo negazionista di Mahmud Ahmadinejad, nonché decretato la non esportabilità di un sistema economico – quello adottato da Cuba – che “non funziona più nemmeno per i cubani”. Ma il vero cuore delle sue argomentazioni è stata la salvaguardia di un’umanità inconsapevolmente minacciata dal confronto, in Medioriente, tra Occidente ed Iran. In questo confronto vi sono, secondo Fidel, tutte le premesse non solo d’un conflitto, ma di una guerra nucleare globale. Unica speranza di salvezza: convincere Obama a non premere il bottone fatale. C’è nelle posizioni di questo Fidel “nuovo e risorto”, che a tratti parla come fosse appena uscito
da un coma profondo iniziato nel pieno della Guerra Fredda, un ovvio paradosso. E Jeffrey Goldberg non ha mancato di farlo notare. “Lei – ha detto a Fidel – mette il mondo in guardia contro i pericoli di un conflitto nucleare. Ma nel 1963 fu proprio lei a scrivere a Kruscev una lettera nella quale raccomandava di usare la bomba atomica contro gli Stati Uniti”. Piuttosto surreale la risposta: “Se avessi saputo allora quello che so oggi – ha, secondo Goldberg, risposto Fidel – quella lettera non l’avrei mandata”. Dunque così stanno le cose: Fidel – lo stesso Fidel che oggi vuole, solitario profeta, predicare ad un mondo ignaro i pericoli della guerra nucleare – non conosceva i pericoli della bomba nel 1963, quando questi pericoli erano noti anche i bambini. Difficile raccapezzarsi. E a complicare le cose vi è un altro e, se possibile, ancor più stravagante dettaglio: la travolgente passione del Fidel-risorto per le più bizzarre teorie cospirative del momento. In particolare, per quelle illustrate da Daniel Istulin, un lituano transfuga della vecchia Unione Sovietica, anticomunista doc i cui libri sono molto popolari soprattutto nell’ala “libertaria” della più estrema destra americana. Alle teorie di Istulin – convinto che tutti crimini commessi nel mondo nell’ultimo mezzo secolo siano opera del “Gruppo di Bilderberg” una sorta di governo mondiale retto da una quindicina di superpotenti personaggi – Castro ha dedicato tre delle sue ultime “riflessioni” che, ogni volta, hanno occupato ben tre delle sei pagine quotidiane Granma. Ed il tutto per spiegare al mondo, tra le altre cose, come la musica rock sia stata inventata negli anni ’60 dal summenzionato “Gruppo di Bilderberg”, con la complicità della Scuola di Francoforte, per distrarre una gioventù fattasi ribelle negli anni del Vietnam.
E all’Avana comparve John Lennon
CHE COSA ha spinto Fidel a sposare queste fanfaronate? Impossibile rispondere. Ma, nel leggere il chilometrico omaggio di Fidel ad Istulin (che è stato anche, di recente, suo ospite a Cuba), il pensiero di molti è corso alla statua di John Lennon, eretta non molti anni or sono, con qualche solennità, in un piccolo giardino dell’Avana. Voleva, quella statua, essere una sorta di silenziosa e tardiva riparazione, l’omaggio ad un artista la cui musica era stata, negli anni ‘60 e ’70, proibita dal regime. Chissà. Potrebbe essere proprio lui – quel piccolo Lennon in bronzo tra le palme del Vedado – la prima vittima dell’ “olocausto” che Fidel va con tanta forza pronosticando.

Repubblica 10.9.10
Fuentes: "Sono sconcertato, forse è un messaggio a Obama"

«SONO DAVVERO SCONCERTATO - dice lo scrittore cubano Norberto Fuentes - Fidel ha messo la parola fine sulla rivoluzione del 1959 visto che tutti insieme la facemmo per costruire il socialismo. Forse lo ha detto per aiutare Raul, o magari perché spera ancora di vincere il Premio Nobel per la Pace, ma mi chiedo cosa penseranno adesso tutti i militanti del partito comunista che, per Fidel e per il socialismo, hanno sofferto anni di sacrifici e prove durissime».
Prima o poi doveva succedere, in fondo anche lei - come tanti - se ne andò in esilio convinto che "il modello non funzionava"...
«Vero, ma allora perché ha fatto fucilare il generale Ochoa e Tony de la Guardia nel 1989? Perché ha messo agli arresti domiciliari Carlos Lage e Robertico Robaina? Perché ha distrutto la vita di Carlos Aldana? Era gente che voleva le riforme, che aveva capito con molto anticipo che "il modello non funzionava". Non erano controrivoluzionari, e alcuni sono morti ammazzati».
Cosa accadrà ora?
«Non lo so. Purtroppo da diversi anni sono giunto alla conclusione che l´unica bussola di Castro è la conservazione del potere, il suo e quello della sua famiglia. Oggi ha consegnato la rivoluzione ai "gusanos" di Miami. Hanno vinto loro. Magari spera di ottenere un accordo con Obama che consenta a suo fratello di restare al potere e a lui di morire nel suo letto. Una dittatura con libero mercato ed economia capitalista».
(o.c.)

Corriere della Sera 10.9.10
La ragazza che rinuncia all’aborto. Le tolgono la figlia: «È povera»
Guadagna 500 euro al mese. Il Tribunale: non garantisce stabilità
di Francesco Alberti

Non ci sono droghe, né condanne, né casi di dissolutezza nel passato di Anna. C’è solo una vita complicata. E una personalità, come dice il suo legale, «fragile, immatura, ma con tante risorse».

TRENTO — Si è vista portare via la bambina poche ore dopo averla messa alla luce, nemmeno il tempo di attaccarla al seno. I servizi sociali avevano segnalato il caso. Il Tribunale dei minori aveva dettato la linea. Quella mamma poco più che ventenne, alla quale era stato addirittura consigliato di abortire, non avrebbe potuto essere una brava mamma: troppo precaria la sua vita, troppo fragile la sua personalità, troppo vuoto il suo portafoglio (sì, anche questo, «troppo povera», lei che guadagna 500 euro al mese, non ha più una casa, vive in una struttura e si è appena separata dal marito).
Sono passati 9 mesi da quel giorno di gennaio. Anna (la chiameremo così) non ha più avuto notizie di quella bimba intravista al momento del parto. Ma non si è rassegnata. Si è affidata a un legale. In agosto si era anche illusa, quando una perizia disposta dal Tribunale dei minori aveva ventilato la possibilità di offrire una sorta di «periodo di prova» alla giovane madre e alla piccola, consentendo loro un primo, graduale, approccio. Ma due giorni fa il castello di Anna è crollato: il Tribunale dei minori di Trento, con sentenza che sta scatenando polemiche, ha affossato ogni possibilità di riavvicinamento, dichiarando «lo stato di adottabilità della bimba e il suo affidamento in strutture». Che, fuor di burocratese, significa che la piccola avrà un’altra famiglia e un’altra madre. E che ad Anna non resta ora che una strada: quella del ricorso in Appello («Lo faremo sicuramente» ha già annunciato il suo avvocato, Maristella Paiar).
Uscita di casa giovanissima, la ragazza si è sposata con un tunisino dal quale ha avuto un primo figlio. Le difficoltà sono cominciate subito e Anna, mentre il rapporto con il marito si faceva sempre più rarefatto, ha deciso di dare il piccolo in affido condiviso, pur continuando a vederlo periodicamente. Poi ecco arrivare la seconda gravidanza. Nelle condizioni peggiori: il marito era tornato in Tunisia e Anna, persa la casa, era ospite di una struttura. Unico lato positivo, il coinvolgimento in un progetto d'avviamento al lavoro che le garantisce una prospettiva (e 500 euro al mese).
La sentenza ha spiazzato anche l’avvocato di Anna, Maristella Paiar: «Siamo delusi. La consulenza aveva evidenziato che la madre non ha estremi di irrecuperabilità e che, grazie al sostegno dei servizi, vi era la possibilità di una sua maturazione. E comunque gli orientamenti della Cassazione e della Corte Europea suggeriscono di vagliare ogni strada prima di intaccare il diritto del minore a crescere con i genitori naturali». Lo stesso perito del tribunale, il professor Ezio Bincoletto, si dice sorpreso: «La perizia individuava nella donna futuri spazi di crescita...». Possibilità esclusa invece dai giudici («Previsioni non realistiche»), che hanno riaffermato il diritto della figlia ad uscire «dal limbo della non appartenenza a un nucleo stabilito». «Sentenza che sconcerta» è il commento del presidente degli avvocati matrimonialisti, Gian Ettore Gassani. E su Facebook, al grido «Rapimento di Stato», si leva il coro dei tifosi di Anna, mamma a 500 euro al mese.

giovedì 9 settembre 2010

Corriere della Sera 9.9.10
Bersani si prepara alle primarie Vendola c’è, Chiamparino incerto
di Maria Teresa Meli

Il leader pd convinto che il sindaco di Torino rinuncerà

ROMA — «Questa non è la Camera dei Deputati, ma un manicomio e noi dei pazzi che in una confusione totale passiamo le giornate in congetture senza senso su quello che accadrà, senza sapere che succede veramente dall’altra parte». Seduto nel cortile di Montecitorio insieme ad alcuni deputati amici, Arturo Parisi regala questa fotografia della situazione. Nel Pd ci si interroga — a vuoto — sul futuro politico che verrà. L’altro ieri il caos in quel partito era tale che qualche dirigente ha cercato il direttore del Tg1 Augusto Minzolini (sì, proprio lui, quello che i Democratici criticano spesso e volentieri) nella speranza di conoscere le reali intenzioni di Berlusconi.
Il Pd assiste alla partita del centrodestra con la paura che, nonostante tutto, alla fine si vada veramente alle elezioni in tempi rapidi. E perciò, pur facendo i dovuti scongiuri, a Largo del Nazareno si ragiona anche su questo scenario. Quello del governo tecnico è definitivamente tramontato e, comunque, è stato agitato più per tattica che perché ci si credesse sul serio. «Se Berlusconi e Bossi vogliono andare al voto anticipato, non ci sono margini: ci si va», confidava ieri a un amico il vicecapogruppo al Senato Nicola Latorre.
Ma come andare al voto? Il Pd ha il problema delle alleanze, innanzitutto. Ieri Veltroni ha riunito i suoi proprio perché è preoccupato che il partito abbandoni definitivamente la sua «vocazione maggioritaria» e si butti in una sorta di Unione, ancor più confusa di quanto lo fosse quello schieramento. I segnali, secondo i veltroniani, ci sono tutti: basti pensare che Ferrero e Diliberto si dicono ben felici di allearsi con il Pd, ma aggiungono che, in caso di vittoria elettorale, non entreranno mai nel governo. Intanto nessuno dà per scontato il fatto che Di Pietro si allei con il Partito democratico. «Potrebbe andare da solo», dicono al Pd. E non sanno se questo sia un bene o un male.
Sulle alleanze qualche parola dirà Bersani, nel giorno di chiusura della Festa Democratica, ma non scioglierà tutti i nodi perché è ancora presto per farlo. Già, nel Pd non si è persa del tutto la speranza di agganciare Casini: «La partita non è chiusa», spiegava l’altro giorno il segretario ad alcuni parlamentari. In questo caso, ma solo in questo caso, non si terranno le primarie, a cui, com’è noto, il leader dell’Udc è allergico. Altrimenti, almeno questo punto è stato stabilito: per scegliere il candidato premier si passerà attraverso queste consultazioni. Anche perché rappresentano un passaggio obbligatorio se si vuole ottenere che Nichi Vendola scenda in campo alleandosi con il Pd.
Primarie, dunque. Probabilmente anche se la situazione dovesse precipitare nel giro di poco tempo. Primarie a cui si presenterà sicuramente Bersani. Il segretario ci crede e ha preparato non da ora la sua candidatura. È convinto di essere pronto per una sfida di questo genere. E sembra non dare troppo peso all’ipotesi che possa scendere in campo anche Sergio Chiamparino. Il sindaco di Torino — è il ragionamento che fanno sia Bersani che D’Alema — è molto bravo, ma da Roma in giù non è conosciuto. Contro di lui gioca anche un altro fatto: è sponsorizzato da Walter Veltroni e da un mondo editoriale e imprenditoriale che il segretario del Pd e il presidente del Copasir guardano con un certo sospetto. Insomma, per farla breve, Bersani è convinto che se scende in campo lui, Chiamparino, alla fine non si candiderà. Scontata, invece, la decisione di Vendola di presentarsi alle primarie. Ma al Pd ritengono di avere ancora un apparato tale da mobilitare la gente per il segretario.
Nel frattempo, in attesa di capire se si andrà al voto o no, in casa democratica si tifa per Fini. «Mai avrei pensato di passare più di un’ora ad ascoltare il suo discorso. È una persona di grande dignità», ammetteva ieri Livia Turco. Ragionamenti come questi mandano su tutte le furie Beppe Fioroni: «Non possiamo passare per quelli che considerano Fini il loro Messia. Se non vogliamo andare a sbattere, finiamola con questi giochi e prepariamoci alle elezioni, dimostrando di non averne paura».


l’Unità 9.9.10
Intervista con Achille Serra
Clima pericoloso. Ma
Pd lontano dal suo popolo
Il senatore democratico: queste manifestazioni prendono corpo quando c’è il caos quando c’è un governo che non governa e quando i partiti non capiscono più la loro base
di Claudia Fusani

C’è un clima molto pericoloso per la democrazia. Un clima di violenza che mi fa paura...». E se la paura entra nella pelle di un ex prefetto, ex questore, ex capo di squadra mobile, di uno che, prima di diventare senatore, ha passato la vita nelle questure e nelle prefetture di mezza Italia, che ha vissuto il terrorismo e ha fronteggiato la criminalità organizzata, questa paura è qualcosa di dannatamente serio che non può più, neppure per un secondo, essere sottovalutata. Achille Serra, terzo episodio di intollerenza e aggressione in meno di una settimana alla Festa nazionale del Pd. Un crescendo cominciato con Marini, andato avanti con Schifani e oggi con Bonanni. Che succede? «Queste manifestazioni prendono corpo quando c’è il caos, quando c’è un governo che non governa e, mi spiace dirlo, i partiti che non capiscono più il loro popolo. Tutti i partiti, a cominciare dal Pd visto che questi fatti, gravissimi, sono accaduti alla tradizionale Festa nazionale del partito». Vengono in mente brutti pensieri... «Diciamolo pure, viene in mente la contestazione di Luciano Lama alla Sapienza nel 1977 (17 febbraio, ndr). Allora erano i giovani di Autonomia operaia. Oggi non lo sappiamo, comunque giovani, cittadini, lavoratori incavolati neri. La contestazione a Lama fu il battesimo del Movimento del ‘77, con tutto quello che di buio, terrore, sangue e tensioni significò per l’Italia. Oggi non lo sappiamo, ancora. Ma dobbiamo vigilare. E noi, classe politica, dobbiamo interrogarci e trovare in fretta risposte».
Lei individua, anche, un problema politico, nel Pd. Ma prima di questo forse a Torino c’è stato un problema di poli-
zia e di sicurezza. Enrico Letta, ieri sul palco, ha puntato il dito sul questore. «Chiariamoci subito. L’ordine pubblico prevede tre fasi: intelligence, cioè acquisizione di informazioni, sapere se e cosa si sta muovendo per una certa occasione pubblica, un comizio o un corteo; prevenzione, cioè la Digos in strada in grado di distinguere tra chi vuole solo manifestare, e che deve avere il sacrosanto diritto di farlo, e chi invece ha un lacrimogeno in tasca; infine presenza degli uomini in divisa al comizio. Allora, a Torino è chiaro che c’è stata zero intelligence e scarsa prevenzione. Circa la massiccia presenza di uomini in divisa, bisogna chiarirsi perché è troppo facile scaricare sempre sulla polizia. Se ci sono troppi agenti, ci accusano di presidiare i liberi comizi democratici...». Qualche errore nella predisposizione dei servizi delle forze dell’ordine forse c’è stata?
«Qualcosa è stato sottavalutato. È il terzo episodio, c’è stato un crescendo preciso. Ma questa è l’analisi più semplice e anche scontata da fare. Vorrei andare oltre, prima che sia troppo tardi».
Oltre, dove?
«Non basta accusare chi protesta di essere squadrista. O puntare il dito sui servizi di polizia. Questi sono solo slogan. Non ho sentito nessuno dire che queste contestazioni sono prima di tutto attacchi al Pd. Provocazioni e attacchi. Servono iniziative, serve capire cosa sta succedendo». Sono attacchi alle istituzioni.
«Certo, tra cui il Pd. Le persone percepiscono la confusione e la denunciano. In modo sbagliato, ma questo stanno facendo». Un difetto di sintonia con il popolo? «C’è un muro sempre più alto. Non c’è, oppure non viene compreso, un progetto di risanamento economico, qualcosa per abbassare le sperequazioni dei redditi, sulla sicurezza, sulla legalità e sulle giustizia. Non si capisce la linea. Non si contestano certe baggianate della propaganda del centro destra, ad esempio i proclami del ministro Maroni sulle cifre degli arresti dei boss. La verità è che a Reggio Calabria l’ndrangheta è così forte da permettersi di fare attentati dentro il palazzo di giustizia e che la camorra può arrivare ad uccidere un sindaco simbolo come Vassallo. C’è il caos, si stracciano i contratti nazionali di lavoro, i telegiornali parlano di elezioni e delle pernachie di Bossi. La gente è nera, va ai dibattiti del suo partito e contesta. Siamo davanti a un crescendo pericoloso che richiama momenti difficili del passato. Attenzione».

l’Unità 9.9.10
Condanna Fiom «La democrazia è irrinunciabile»
Quattro ore di sciopero e l’invito a Fim e Uilm a congelare le trattative sulle deroghe al contratto in attesa di un referendum dei lavoratori. È la proposta Fiom dopo la disdetta del contratto 2008 da parte di Federmeccanica.
di Giuseppe Vespo

«Per la Fiom la democrazia è un principio irrinunciabile, basato sul confronto e sulla libertà di poter esprimere pubblicamente le proprie opinioni». Così le tute blu Cgil condannano la contestazione subita ieri dal leader Cisl Raffele Bonanni alla festa del Pd a Torino. Un messaggio chiaro che arriva alla fine di una giornata ancora segnata dalle polemiche sulla disdetta da parte di Federmeccanica del contratto nazionale dei metalmeccanici del 2008.
REFERENDUM
A questo proposito ieri si è riunito il comitato centrale del sindacato guidato da Maurizio Landini, che ha approvato la linea indicata dal suo segretario generale. Contro lo strappo degli industriali, il documento votato dalla maggioranza del comitato delle tute blu indice quattro ore di sciopero entro il 16 ottobre, giorno della manifestazione nazionale a Roma. La Fiom propone inoltre a Fim e Uilm di sospendere le trattative con Federmeccanica per chiamare ad un referendum sulle deroghe al contratto tutti i lavoratori. Quindi l’invito alla Cgil, affinché si mobiliti contro «l’attacco ai diritti», e la convocazione dell’assemblea nazionale dei delegati entro gennaio, in modo da preparare una nuova piattaforma per il rinnovo del contratto delle tute blu.
«Perché la disdetta di martedì conferma che il vero contratto di categoria è quello firmato nel 2008». Il parlamentino del sindacato è stato chiamato ad esprimersi su due proposte: quella dal segretario Landini, che ha ottenuto 92 voti (il 79% dei consensi), e quella dell’epifaniano Fausto Durante espressione della minoranza votato da 26 rappresentanti. Quest’ultimo, contrario al «muro contro muro», proponeva a Fim e Uilm di ripartire da zero: riaprire un tavolo e scrivere un nuovo contratto nazionale.
Ha prevalso la linea maggioritaria, che chiede dunque ai metalmeccanici di Cisl e Uil di rimettere tutto nelle mani dei lavoratori: indire un referendum sulle deroghe al contratto nazionale e sottostare poi tutti all’esito della consultazione. Una soluzione subito bocciata dalla Uilm, secondo cui il contratto nazionale dei metalmeccanici esiste già. È quello rinnovato -se nza la Fiom lo scorso anno.
Landini ha quindi ribadito che la disdetta di Federmeccanica è un atto «grave e irresponsabile», e per questo «siamo anche pronti al Tribunale. Perché ha sottolineato vogliono cancellare il contratto nazionale di lavoro». Per il sindacalista, «Confindustria ha ceduto al ricatto della Fiat che aveva minacciato di uscire dal sistema confindustriale», se non avesse avuto mani libere su Pomigliano. Un’accusa respinta al mittente da Emma Marcegaglia, che ha attaccato la Fiom («sono loro il problema»). Per la numero uno degli industriali la disdetta «è solo un atto di chiarezza», perché un contratto vigente c’è, è quello del 2009. Sulla stessa linea anche il ministro Sacconi.
Ma è proprio contro quest’asse, e più in generale contro l’«attacco ai diritti» che non riguarda solo i metalmeccanici, che la Fiom chiede alla Cgil di «pensare a forme di mobilitazione fino ad arrivare, se necessario, allo sciopero generale». Intanto a mobilitarsi ci hanno pensato gli operai dell’indotto Fiat di Grugliasco, Torino. Contro lo strappo sul contratto del 2008 alla Lear e all’Itca hanno già incrociato le braccia un’ora per ogni turno.

l’Unità 9.9.10
Lottare per il futuro
Noi studenti vogliamo la scuola pubblica
di Sofia Sabatino

Questo governo sta letteralmente distruggendo la scuola pubblica. L’attacco che si sta mettendo in campo non ha precedenti nella storia del nostro paese. Stanno, senza troppi convenevoli, smantellando ogni tassellino che con sforzi disumani, era stato messo in piedi da docenti, studenti e genitori che amano e difendono la scuola pubblica. La cosa peggiore che questo sfacelo viene attutito e celato da una fortissima campagna mediatica che la Gelmini, e questo governo in generale, hanno messo in campo. Il taglio di 8 miliardi di euro in 3 anni approvato dalla scorsa finanziaria, dovrebbe terribilmente stonare con l’idea di scuola che dice di portare avanti il nostro ministro: una scuola “meritocratica”, dove finalmente si sono abbandonati i buonismi del ‘68 e che predilige prima di tutto la qualità. Invece ci troviamo davanti ad una gigantesca psicosi fra la realtà che il nostro ministro descrive, e quello che ogni giorno si palesa davanti ai nostri occhi: una scuola pubblica che non è più pubblica, privata di tutto, che non ha neanche la possibilità di svolgere le sue funzioni ordinarie, figuriamoci la funzione di emancipazione sociale e azzeramento delle differenze fra gli individui.
Noi studenti ci chiediamo come faremo tra poche settimane a rientrare a scuola, con i nostri insegnanti, che fino all’anno scorso erano seduti nelle nostre aule, in presidi ̆ ̆permanenti e scioperi della fame, con delle scuole a cui sono stati azzerati tutti i fondi, nel caos più totale degli indirizzi e delle sperimentazioni scomparse, con meno ore ma gli stessi programmi e le stesse materie, senza laboratori, con costi esorbitanti a carico di noi studenti e delle nostre famiglie, con edifici fatiscenti su cui anche quest’anno non è stato speso un euro.
Si sta mettendo in atto una vera e propria svendita della scuola pubblica, che nonostante rimanga pubblica di facciata, nella sostanza viene depauperata, esautorata dalle sue funzioni. Siamo ritornati in un’Italia che speravamo aver abbandonato per sempre dopo tante lotte, un’Italia in cui l’abbandono scolastico cresce perché mandare un figlio a scuola costa troppo, in cui si lascia la scuola perché non ci si può permettere di recuperare tre insufficienze, in cui a parità di costi, il servizio privato (soprattutto le scuole private per cui fioccano finanziamenti statali) è sicuramente più funzionale di quello pubblico e allora ecco che il pubblico anche se rimane pubblico si svuota di significato. È per questo che dal primo giorno di scuola noi studenti della Rete degli studenti partiremo con delle azioni di protesta che proseguiranno per tutto l’anno scolastico, con una grande mobilitazione studentesca nel mese di ottobre e con la data del 17 novembre, giornata mondiale dei diritti degli studenti.

il Fatto 9.9.10
I precari della scuola in piazza per un lavoro
Contestato Dario Franceschini, “Non vogliamo baniere di partito, adesso aiutateci a far valere i nostri diritti”
di Caterina Perniconi

Una protesta senza bandiere. Ci tengono talmente tanto i precari della scuola da contestare alcuni politici scesi a portare la loro solidarietà alla manifestazione di piazza Montecitorio.
La pioggia rende difficile la riuscita della mobilitazione, ma in molti hanno deciso di raggiungere la Capitale per far sentire la loro voce di disoccupati della scuola. Una volta erano precari, dopo i tagli della nuova riforma varata dal ministro dell’Istruzione Mariastella Gelmini, non hanno più un incarico. Ma non permettono a nessuno di mettergli il cappello in testa, così si sentono più forti. “Siamo qui grazie al passaparola, alle convocazioni e non perché invitati da partiti o sindacati”. Eppure di un aiuto dalla politica hanno bisogno: “Portate il nostro problema in Parlamento”, chiede Caterina Altamore al presidente dei deputati del Partito democratico Dario Franceschini. La precaria, dopo lo sciopero della fame per far valere i propri diritti, oggi è una delle animatrici della protesta, assieme al Coordinamento dei precari e alla Rete precari della Scuola. Ma c’è chi urla: “Dovete cancellare il decreto Bersani sulle fondazioni nelle scuole perché noi non vogliamo i privati”.
“È normale che siano nervosi – ha detto Franceschini – sono insegnanti che non vedono riconosciuti i loro diritti e sono stati traditi dallo Stato. Noi non vogliamo la privatizzazione, e sono qui per questo, per promettere il nostro impegno”.
Intanto i precari stanno lanciando una piattaforma con 4 proposte che presenteranno durante l’assemblea nazionale che hanno convocato per il 25 settembre. “Chiediamo un immediato ritiro della legge 133 – spiegano – del decreto salva-precari, il rifinanziamento parziale dei fondi tagliati e l’assunzione sui posti vacanti”. In programma poi uno sciopero nazionale e tante iniziative di protesta: dall’occupazione delle scale del ministero al blocco dei traffici sullo Stretto di Messina previsto per il 12 settembre. “Faremo di tutto – spiegano ancora i precari – per far sì che la scuola torni un argomento centrale e non venga tirato fuori solo quando c’è da tagliare”. In piazza c’era anche il leader dell’Italia dei Valori Antonio Di Pietro. “Il governo potrebbe fare un ultimo atto di giustizia prima di andare a casa: ridare dignità a coloro che si occupano della scuola pubblica – ha detto Di Pietro – mettere in regola i precari e ridare quegli 8 miliardi di euro che si è fregato”.
Intanto la protesta si è diffusa a macchia d’olio in tutta Italia. Dopo gli scioperi della fame di Palermo, Pordenone e Benevento, a Nuoro è iniziato il boicottaggio sistematico di tutti gli incontri e le iniziative proposte dal ministero. Ad animare la protesta sarda sono le istituzioni, convinte che non si governi a colpi di tagli.

Repubblica 9.9.10
L'insostenibile declino di chi deve educare il Paese
Le polemiche sui tagli alla scuola e le proteste dei professori precari riportano d´attualità la questione della qualità dell´istruzione in Italia
di Domenico Starnone

Non è mai esistita un´età dell´oro dei docenti presso l´opinione pubblica. I luoghi comuni sono di antica data e duri a morire, ma nascono dai problemi reali irrisolti
È rimasto insoluto per oltre un secolo il problema della convivenza tra la concezione elitaria della cultura e la necessità della scolarizzazione di massa

C´è un libro che si chiama Il manuale del perfetto professore di Dino Provenzal. Si rivolge agli insegnanti di scuola media di inizio secolo (quelli che Papini partendo da "scuola media" aveva battezzato mezzani). La scuola è rappresentata come luogo di conflitto con gli alunni («il primo e più arduo problema è mantenere la disciplina», ci sono «professori che non oserebbero salire in cattedra una sola volta, senza quel fido compagno che è il registro») ; i docenti si interrogano per capire se sono miserabili impiegati (allora c´era anche chi li chiamava impiagati) o qualcosa in più; si ammette che «non tutti gli insegnanti sono cime»; si racconta la battaglia dura dei professori "rigorosi" contro quelli "lassisti"; si accenna alle piccole corruzioni, al mercato delle lezioni private (prezzo d´epoca: venticinque lire; lo stipendio di un docente era centotrentasei lire; con mille lire ci si poteva comprare sottobanco la licenza); si sottolinea l´avversione dei docenti per la pedagogia e per ogni didattica; si tratteggia l´ottusità degli ispettori ministeriali e, in un´epoca in cui non c´erano la tv e internet, si lancia persino il seguente grido d´allarme: «i giovani non leggono più nulla». Di conseguenza Provenzal così arringa i suoi colleghi: «Se appena puoi cavartela col solo stipendio, segui il mio paterno consiglio: fa´ poche ore di lezione e in quelle che ti rimangono libere, studia, leggi, scrivi, passeggia, vivi la vita di tutti gli altri uomini e fuggi lontano dalla scuola quanto più è possibile».
Questo libro è del 1921, in quell´anno era alla terza edizione.
Ce n´è un altro che si chiama Gli insegnanti bocciati, è di Evaristo Breccia. Non si rivolge ai professori ma sostanzialmente alle famiglie. Breccia, dopo aver spulciato negli elaborati degli insegnanti che hanno fatto concorsi a cattedra e sono stati bocciati, si dà da fare per dimostrare al suo pubblico che dall´università viene fuori gente di inimmaginabile ignoranza, che i docenti che non sono mai riusciti a superare un concorso insegnano tranquillamente da anni mentre invece andrebbero licenziati, che l´intero ingranaggio della pubblica istruzione è ormai privo di affidabilità.
Questo libro è del 1957, in quell´anno era alla settima edizione. Rispetto a Provenzal rincara la dose: se la prende con tutti gli insegnanti non di ruolo; bravi per lui sono solo quelli che hanno vinto un concorso: via i precari.
Cito questi due libri a mo´ d´esempio, per ricordare che forse non c´è mai stata un´età dell´oro dei docenti, presso l´opinione pubblica. Li cito anche per sottolineare che la crisi della figura del professore non ha inizio col fatale 1968, come il senso comune ripete di continuo, ma ha una lunga storia alle spalle che si può ripercorrere utilmente attraverso la pubblicistica, i romanzi, il cinema (ve li ricordate i professori di Fellini?) e la televisione. Li cito infine perché sono utili per segnalare che i luoghi comuni sulla categoria sono di lunga data, e se sono così duri a morire significa, anche quando sono beceri, che segnalano problemi seri irrisolti.
Voglio dire che la vecchia concezione elitaria degli studi non ha mai fatto veramente i conti, lungo tutto il Novecento, con il problema del diritto allo studio di tutti. Voglio dire che il docente è stato sempre più lasciato solo, dentro strutture inadeguate, con mezzi inadeguati, con una formazione inadeguata, a fare un lavoro mai veramente ed efficacemente ripensato in funzione dell´ostacolo degli ostacoli: la diseguaglianza naturale ed economico-sociale. Voglio dire che un lavoro durissimo, esposto in linea di massima sempre al fallimento (chi insegna con onestà sa che un´istruzione di qualità per tutti è nel migliore dei casi una spinta ideale contraddetta dalla brutalità dei fatti), è stato continuamente umiliato innanzitutto dallo scarsissimo credito che la politica gli ha assegnato, a partire dal momento in cui i docenti non sono più risultati un serbatoio affidabile di voti, e poi dalla sostanziale caduta del valore del titolo di studio. Voglio dire che negli ultimi trent´anni una scuola sempre più povera fatta da docenti sempre più poveri, se l´è dovuta vedere con lo strapotere delle immagini, con il tramonto della cultura del libro, con la perdita di autorità di una serie di profili professionali prima autorevoli che lavoravano con la scrittura, con strumenti tecnici e figure professionali nuove di una potenza formatrice non comparabile con quella della vecchia cattedra.
Concluderei perciò così: la crisi del docente, pensato come formatore di élites, è di vecchia data e comincia con gli albori della scuola di massa; sottoposto a due spinte divergenti (selezionatore autorevole e scontroso di classe dirigente o artefice sempre disponibile di un´istruzione qualitativamente alta per tutti), lasciato solo di fronte a problemi che non poteva risolvere da solo, è finito in stato di stallo, vale a dire nell´impossibilità di tornare alla vecchia funzione di selezionatore classista e, insieme, nell´impossibilità di lavorare in una scuola in grado di assicurare davvero il diritto di tutti a un´istruzione elevata. Crocifisso dunque alla storica incapacità (o impossibilità) della politica e della società civile di reinventare la scuola, oggi l´insegnante è una figura al tramonto, in tragico declino come tante altre figure intellettuali dell´era predigitale? Sì, se si continua a non muovere un dito. O a muoverlo malissimo, aggiungendo danno al danno, e naturalmente spaccando il centesimo.

Repubblica 9.9.10
La dedizione quotidiana di tanti docenti
Il cuore oltre la cattedra
di Chiara Saraceno

Nonostante le condizioni difficili e il rapporto sempre più complesso e complicato con i genitori ci sono tante persone che continuano a dare lezioni importanti, lavorando con passione nella scuola

Collocati sulla prima linea dei mutamenti familiari, culturali, sociali, gli insegnanti hanno sperimentato negli ultimi trent´anni un progressivo processo di declassamento: sul piano della remunerazione e su quello del prestigio sociale, accompagnato da una carenza di investimenti nella loro formazione. Quest´ultima negli ultimi anni è stata oggetto di riforme successive che si sono limitate a vanificare quelle precedenti e senza seguito sul piano del reclutamento. Quanto all´aggiornamento, quando non rappresenta un semplice strumento per aumentare il proprio punteggio a fini di carriera o mobilità, è per lo più a carico degli insegnanti e dei loro modesti stipendi. E non vi è nessun riconoscimento del lavoro, oltre che delle competenze, aggiuntivo richiesto dall´insegnamento nelle situazioni più problematiche. Tutto è affidato all´impegno individuale dell´insegnante, per altro spesso costretto, insieme ai suoi allievi, a lavorare in situazioni, anche ambientali, indecorose: scuole fatiscenti e insicure, aule cui mancano talvolta anche gli arredi essenziali, laboratori, ed oggi anche aule, sovraffollati, dotazione ridicola.
Non può stupire che i primi ad accorgersi di questo declassamento sono proprio gli studenti. La mancanza di rispetto che molti docenti lamentano non deriva solo dalla loro incapacità a farsi valere come autorevoli in forza della propria competenza sia disciplinare che relazionale. Deriva innanzitutto dalla immagine sociale del loro lavoro che viene restituita dal modo in cui sono trattati loro e la loro professione, dalla scarsità degli attrezzi – culturali e materiali – di cui vengono forniti per il loro mestiere. Senza che per altro siano sempre capaci, come individui e come organizzazioni, di reagire in un modo che vada al di là delle pur importanti rivendicazioni stipendiali o della difesa di diritti acquisiti. Le responsabilità sono molte e non solo recenti. Sembra che un insegnante sia destinato ad essere vuoi un eroe, che tutti i giorni scende nell´arena a fronteggiare una torma di sadici o di indifferenti, da cui difendersi e contemporaneamente sedurre, coinvolgere, oppure un impiegato della lezione, che fa le sue ore, cercando di attraversare la giornata e l´anno senza incidenti, giocando al ribasso per non esporsi a reazioni – degli allievi, ma anche dei genitori. Perché la, per altro giusta, caduta dal piedistallo dell´insegnante-Dio, le cui decisioni erano insindacabili e il potere sulla classe assoluto, è seguita non solo la legittima possibilità di argomentare le proprie ragioni, ma anche la squalifica tout court delle decisioni dell´insegnante se queste non piacciono agli allievi che ne sono oggetto e/o ai loro genitori. Come se la scuola fosse diventata il terreno di rapporti di forza, ove al sadismo e alla prepotenza di qualche insegnante si contrappongono quello degli studenti a volte spalleggiati dai genitori, dove la comunicazione è difficile e la fiducia reciproca scarsa.
Certo, la situazione media non è così drammatica, soprattutto per merito dei molti insegnanti che si arrabattano a far quadrare tutto e suppliscono a ciò che manca con la loro passione. Ma l´eroismo e l´altruismo degli insegnanti non possono essere la risorsa principale su cui conta una società per la formazione dei propri figli, tanto più se ogni giorno si impegna a squalificare e rendere difficile il lavoro alle stesse persone da cui si aspetta dedizione, competenza e, appunto, altruismo.

Repubblica 9.9.10
L'esperienza di un professore dopo trent'anni
La vera lotta di classe
di Marco Lodoli

È naturale che un uomo di oltre cinquant´anni non capisca una ragazzina di quindici. I film che vedo, la musica che ascolto, per loro non esistono. Hanno tagliato i ponti con gli adulti

Lunedì comincerò il mio trentesimo anno di insegnamento: era il 1980 quando entrai per la prima volta in classe e ricordo ancora bene quella lezione, preparata con cura e spavento, sul viaggio ultraterreno di Dante ma più in generale sul viaggio nella letteratura. In un´ora passai da Don Chisciotte a Pinocchio, da Rimbaud a Kerouac, dal Sorpasso a Pollicino, con una smania infinita di spiegare, di emozionare.
Avevo ventitré anni, leggevo dalla mattina alla sera, speravo che nei libri ci fosse tutto ciò che mi mancava: e quello che trovavo, subito lo comunicavo ai miei studenti, come un bene prezioso da condividere. Ero convinto che la bellezza, la poesia, la ricerca di senso riguardassero tutti gli adolescenti del mondo: che serve avere sedici se non si guarda in alto? Così mi dicevo, ma in realtà neanche me lo dicevo: ne ero certo. I ragazzi ascoltavano la musica che piaceva anche a me, i Talking Heads, i Cure, gli Smiths, i cantautori italiani, parlavano di calcio e di politica e di niente, e io li capivo. Insegnavo anche alle serali, a giardinieri più vecchi di me, e dopo aver letto una poesia di Pascoli o un racconto di Cechov ne parlavamo insieme, avevamo una lingua comune per scambiarci opinioni, anche per litigare. E gli anni, una settimana dopo l´altra, sono passati. Io ero sempre l´insegnante giovane, scapigliato, quello con la Vespa anche se diluvia, quello con i jeans bucati e persino con i dread, per un certo periodo. Per me capire i ragazzi era facile, anche se cambiavano i gruppi musicali, i film al cinema, i modi di vestirsi – come fosse sempre primavera. Qualche volta mi ritrovavo alunni o ex-alunni alle presentazioni dei miei libri, e loro erano orgogliosi di me e io di loro, ci davamo qualche pacca sulla spalla, imbarazzati, contenti.
Ora tutto è cambiato. È ovvio che sia così, mi dico, è normale che un uomo di cinquantatré anni non capisca una ragazzina di quindici. Metto le mani sul vetro, cerco di sbirciare, ma è tutto appannato, non si vede niente. Ai ragazzi parlo di letteratura, ma ormai è una lingua perduta, come il latino o l´aramaico. Parlo anche di cinema e di musica, ma i film che io vedo per loro non esistono, la musica che ascolto è muta. Non c´è alcuna contestazione, nessuno pensa che io sia in torto, che difenda chissà quale ordine infame: semplicemente questi ragazzi hanno tagliato i ponti con gli adulti. Prima la barca era una sola, ci si stava sopra tutti insieme, magari cercando di buttare di sotto i nemici: ora ogni generazione ha la sua scialuppa di salvataggio. Il marketing ha diviso la società in target. Ciò che interessa un trentenne non interessa un sedicenne. I miei studenti di periferia ascoltano i cantanti neomelodici napoletani, i rapper autoprodotti di Tor Bella Monaca, odiano il cinema perché bisogna stare due ore zitti e al buio, non fanno sport, chattano, passano il sabato nei centri commerciali. Ho alunni che spediscono trecento sms al giorno, tranquillamente. E allora uno ci prova ancora: On the road e Cervantes, i boschi dei fratelli Grimm e la selva oscura, il viaggio dietro a Moby Dick, la fuga di Gauguin fuori dal mondo, ma ascoltano in pochi, forse in certi momenti proprio nessuno, e così a tanti insegnanti viene lo scoramento. Perdiamo gli alunni e acquistiamo montagne di carte da riempire, labirinti in cui confondersi.
Trent´anni di disprezzo per la cultura – roba da poveracci, da infelici – hanno portato a questo: a un paese povero e infelice. Ma io non mollo, continuo a indicare ai miei studenti un punto più in alto, dove l´aria è migliore, dove si vede meglio il mondo.

Repubblica Firenze 9.9.10
Cgil, Cisl e Gilda chiamano a raccolta prof e custodi: il 60-70% degli istituti saranno chiusi
Suona la campanella della rivolta il 15 maxi assemblea dei sindacati
Inizio delle lezioni fortemente a rischio: "La scure del governo? Una tragedia"
di Ilaria Ciuti

Il primo giorno di scuola a Firenze sarà di protesta. Uniti, Cgil, Cisl e Gilda chiamano tutto il personale della scuola di ogni ordine e grado, docenti e non docenti, alla mega assemblea indetta per mercoledì 15 al Saschall dalle 8,30, alle 12,30. Quattro ore insieme «per tentare di arginare una tragedia», dicono i tre segretari provinciali di categoria, Alessandro Rapezzi per la Flc Cgil, Antonella Velani per la Cisl scuola e Valerio Cai per la Gilda-Unams. «Il primo giorno di scuola non a caso - spiegano - Ma per dare il segnale forte che è necessario di fronte ai tagli della Gelmini che rischiano di affossare la scuola pubblica e che solo a Firenze e provincia si riassumono drammaticamente in 2000 alunni e 89 nuove classi in più contro 219 docenti in meno rispetto all´organico di diritto e 54 all´organico di fatto, 148 non docenti che mancano e 2.429 supplenti nominati tardi che arriveranno inesorabilmente in ritardo e alla disperata rinfusa».
Una «tragedia» da combattere. «I genitori lo capiranno e ci aiuteranno». L´assemblea, precisano i sindacalisti, «è assolutamente legittima, il contratto vieta le assemblee solo in periodo di scrutini, siamo anche andati dal prefetto e tutto è regolare». D´altra parte, ragionano, «di fronte alla gravità della situazione non sarà un dramma se la scuola comincia il giorno dopo». D´altra parte i genitori, che comunque si informano dopo la liberalizzazione della data di inizio delle lezioni, sapranno in anticipo se la scuola dei figli sarà o non sarà aperta mercoledì, dicono i tre sindacalisti. Già da adesso, avverte Velani, tra il 60 e il 70% degli istituti di Firenze e provincia hanno detto che resteranno chiusi. Al più tardi entro domenica anche le altre scuole daranno informazioni certe. L´assemblea non è uno sciopero, i partecipanti devono avvertire con qualche giorno di anticipo.
Per il Saschall, racconta Velani, sono già stati prenotati pullman da tutta la provincia, da Greve, Scandicci, Calenzano, il Mugello, Montespertoli. «Prevediamo una grande affluenza», dicono anche Rapezzi e Cai. Tutti e tre sottolineano come i tagli si siano abbattuti su un paese che, stime Ocse, impiega il 9% della spesa pubblica per l´istruzione contro il 13% della media europea. Con un governo che non si occupa di ricerca e di qualità, aggiungono, ma solo di risparmiare senza criterio. «Siamo pronti a impegnarci a livello nazionale per rivedere la spesa scolastica con l´obiettivo di una maggiore qualità», dichiarano i tre sindacalisti: ma non a questo massacro che, sottolineano, raddoppierà l´anno prossimo, «tanto da far sospettare che la scuola pubblica debba sparire a favore della privatizzazione».
Per questo Cgil, Cisle e Gilda marciano insieme nella scuola nonostante idee anche diverse: «Di fronte a fatti così pesanti si lasciano da parte le ideologie». Un´unità in controtendenza in un momento di divisioni ma che, rivendicano, ha fatto guadagnare alla Toscana 80 supplenti annuali più del previsto. Con una decisione del governo, però, arrivata solo pochi giorni fa, dopo che già le nomine dei supplenti in generale erano arrivate solo a inizio agosto determinando un ritardo pauroso nell´assegnazione dei posti ai precari e, «quello che è più grave» dicono i sindacalisti, agli insegnanti di sostegno. La conseguenza è che nessuno potrà essere al suo posto fin dall´inizio.
Assemblee il 15 in tutta la Toscana (solo a Pistoia sarà il 17) dove, secondo le stime sindacali, i tagli riguardano 1.221 docenti e 732 tra tecnici, amministrativi e personale di servizio. In due anni, 4.288 posti in meno. Mentre, sottolineano Cgil, Cisl e Gilda fiorentine, Gelmini pagherà comunque 200.000 supplenti in Italia e invece di risparmiare aumenterà il precariato oltre che, con la loro nomina fuori tempo, il caos in scuole dove alle superiori si arriverà a 33 alunni per classe. Supplenti a cui, spiega Rapezzi, «si aggiungono gli spezzoni» che potrebbero portare i precari fiorentini della scuola a tremila.

l’Unità 9.9.10
Sospesa la condanna di Sakineh
Intervista a Margherita Hack
«Un segno di speranza, ma l’Occidente non abbassi la guardia»
La scienziata: «La condanna non è stata ancora annullata e tante altre donne sono imprigionate Quello iraniano è un regime barbaro e fanatico»
di Umberto De Giovannangeli

Un regime barbaro, sadico, segnato da un fanatismo religioso ossessionato dal sesso. Un regime che non solo
condanna a morte per un reato l’adulterio che in tanti Paesi non è considerato tale, ma vuole anche dare una morte lenta alla “colpevole”, perché soffra in vita le pene dell’inferno. Questo è il regime che ha condannato alla lapidazione Sakineh, e come lei tante altre donne». A parlare è una delle più autorevoli e impegnate scienziate italiane: Margherita Hack. «La sospensione della condanna è una buona notizia afferma Hack è un segno di speranza, ma la guardia non va abbassata, la mobilitazione non deve venir meno. Perché si tratta di una sospensione e non di un annullamento della condanna, e perché nelle carceri iraniane ci sono tante altre donne nella condizione di Sakineh».
Le coscienze libere si sono mobilitate per aver salva la vita di Sakineh Mohammadi Ashtiani. Qual è il segno di questa vicenda?
«Innanzitutto va detto che non è la prima volta che in Iran si condannano alla lapidazione donne. Purtroppo è già avvenuto in passato e altre donne come Sakinek rischiano la stessa pena. Cosa dire...È una atrocità. Uccidere per un reato, l’adulterio, che in tanti altri Paesi non è più tale: è un retaggio barbarico che riporta indietro di secoli. E poi c’è questa ossessione del sesso che hanno tutte le religioni, per cui le donne sono sempre considerate le più colpevoli. In nome di questa ossessione sessuofobica si sono legittimati, “istituzionalizzati”, comportamenti discriminatori, anche in Italia, nei confronti delle donne».
Come definire un regime che condanna alla fustigazione le donne e, in molti casi, alla lapidazione? «Un regime barbaro, sadico...Anche nel modo di uccidere. Una morte lenta, atroce. Tutto questo in nome della religione. Di Allah...»
Neda, Sakineh...Donne divenute simbolo di un Iran che non si piega ad un potere che «lapida» i più elementari diritti della persona, a cominciare dal diritto alla vita. È solo una coincidenza, professoressa Hack?
«Direi proprio di no. Proprio perché sono le vittime quasi predestinate di regimi ossessionati dal sesso, le donne divengono simboli di riscatto. Un discorso che non vale solo per l’Iran».
Ma è possibile e come fermare la mano ai «lapidatori di Stato»? «Non si può certo dichiarare guerra all’Iran...Abbiamo già visto cosa ha portato penso all'Iraq la follia di voler imporre con la forza la democrazia ad un Paese. È importante la mobilitazione dell’opinione pubblica, la determinazione dei media a rompere il Muro del silenzio che viene innalzato per coprire questi crimini...Qualcosa si è ottenuto, se è vero che la sentenza di lapidazione di Sakineh è stata sospesa. Ma non bisogna abbassare la guardia. Perché la condanna è stata sospesa e non cancellata, e perché tante altre donne sono nel braccio della morte. L’obiettivo dovrebbe essere quello di premere su questi Paesi per cancellare leggi infami come quella sulla lapidazione...Gli strumenti vanno calibrati, forse sanzioni mirate a colpire gli interessi di quei regimi e della loro dirigenza». C’è chi sostiene che con certi regimi, quello iraniano ma anche al Libia del Colonnello Gheddafi, non si alzi troppo la voce sui diritti umani per non mettere a repentaglio gli affari...
«Gli affari prima di tutto..Questo è un fatto vergognoso. Perché prima di tutto dovrebbe venire il rispetto dei diritti delle persone, la giustizia...E poi quel Gheddafi...».
Cosa ha da dire sull’accoglienza riservata dal Governo italiano al leader libico? «Qualcosa di indecente, da vergognarsi...Lo hanno accolto come se fosse il padrone dell’Italia. Gli hanno permesso esibizioni intollerabili, dimenticando di chiedere conto a Gheddafi degli immigrati rinchiusi nei lager, dei respingimenti e della morte di tanta povera gente».
Cosa c’è dietro queste genuflessioni? «C’è l’immoralità di un potere che da tempo non maschera più se stesso, ma rivendica, esalta, amplifica attraverso le televisioni, pubbliche e private, di cui Berlusconi è proprietario o controllore, la cultura, oltre che la pratica, dell’immoralità. Basti pensare alla vergogna esibita delle leggi ad personam. Ma chi siano Berlusconi e i suoi sodali è risaputo. Ciò che spaventa è una sorta di narcotizzazione” delle coscienze, il venir meno di uno spirito civico che dovrebbe essere il collante che unisce un Paese, al di là di destra e sinistra, di appartenenze partitiche...E’ come se si fosse perso il diritto-dovere all’indignazione. E questo è grave, molto grave».

il Fatto 9.9.10
Fidel Castro attacca Ahmadinejad: “È antisemita”

Fidel Castro critica Mahmoud Ahmadinejad esortandolo a smetterla di negare l’Olocausto e a diffamare gli ebrei. In una lunga intervista alla rivista Usa “The Atlantic”, il Lìder maximo sottolinea che gli ebrei “vengono diffamati da oltre duemila anni. Credo che nessuno al mondo abbia ricevuto lo stesso trattamento riservato agli ebrei. Sono stati attaccati molto più che i musulmani. Sono stati sempre accusati di tutto. Nessuno ha mai addebitato ai musulmani ogni male. Gli ebrei hanno vissuto un’esistenza molto più difficile di qualunque altro. Non c'è niente a confronto dell’Olocausto”. Secondo il padre della rivoluzione cubana il governo di Teheran servirebbe meglio la causa della pace riconoscendo “l'unicità” della storia di Israele e provando a capire meglio perchè teme per la sua sopravvivenza. Castro ha raccontato come scoprì il concetto dell’antisemitismo: “Avevo 5 o 6 anni ed era venerdì santo. Quel giorno sentivo dire che Gesù era morto e che a ucciderlo erano stati gli ebrei. Pensate quanta era l'ignoranza popolare”. L’Iran dovrebbe capire che il popolo ebraico “è stato cacciato dalla sua terra e perseguitato in modo terribile in tutto il mondo per oltre 2000 anni. Sono sopravvissuti grazie alla loro cultura e alla loro religione, due elementi che li hanno tenuto insieme, uniti come una nazione”.
Il fratello di Raul ha anche fatto una sorta di marcia indietro sulla vicenda della crisi con gli Usa quando nel 1962 l'installazione di missili sovietici a Cuba fece sfiorare la guerra nucleare. “Dopo aver visto quel che ho visto e sapendo quel che so ora posso dire che non ne valeva la pena...”.

l’Unità 9.9.10
Mussolini, guardatevi dai falsi
Si parla ancora dei «Diari» trovati da Dell’Utri di prossima pubblicazione e della fine del Duce La Storia ha già detto cose non confutabil
di Nicola Tranfaglia

L’ultimo week-end di agosto come avviene ormai da moltissimi anni ha ospitato su alcune pagine di quotidiani (con particolare risalto su quelli più vicini al vangelo berlusconiano ma non solo) due notizie che sono sempre gradite ai tardivi estimatori dell’avventura mussoliniana nel nostro paese, pur dopo i settant’anni trascorsi da quel venten-
nio. La prima è che i Diari dal 1935 al 1939 di Benito Mussolini che il senatore siciliano Marcello Dell’Utri ha acquistato da un antiquario e che, incautamente, un editore italiano si prepara a pubblicare in tre volumi, sarebbero autentici.
La seconda, rilanciata dallo storico francese Pierre Milza che pure ha pubblicato un Dizionario del fascismo e del nazionalsocialismo di cui, alcuni anni fa, ho curato la traduzione italiana, è che Mussolini sarebbe stato ucciso nell’aprile 1945 non dai partigiani del Comitato di Liberazione dell’Alta Italia, ma da uomini del primo ministro inglese Winston Churchill, presente in quei giorni ma opportunamente travestito, nel territorio della Repubblica Sociale Italiana. Ora vale la pena parlarne, pensando sia agli anziani che hanno vissuto quegli anni o ne hanno sentito parlare più volte ma anche, e soprattutto alle nuove generazioni, del tutto estranee a quelle vicende e interessate agli aspetti misteriosi e imprevisti di quella tragica vicenda, sfociata nella seconda guerra mondiale e nella disfatta del nostro paese. A leggere le cinque agende che contengono quattro tra gli anni decisivi della vicenda mussoliniana (in pratica dall’impresa di Etiopia allo scoppio del secondo conflitto mondiale si ha un’impressione subito del già visto perché quegli appunti riecheggiano da vicino quel che i giornali del tempo rigidamente fascisti raccontavano del governo in carica e del carismatico presidente del consiglio.
Ma, poco dopo, è inevitabile osservare che alcuni tra gli avvenimenti che conosciamo attraverso altre fonti assai vicine al duce (per esempio, i diari, assai noti e pubblicati da molto tempo, di Galeazzo Ciano o di Giuseppe Bottai) sono del tutto trascurati nei diari acquisiti da Dell’Utri che dedicano spazio, al contrario, ad avvenimenti o udienze del duce ad altri personaggi di minore o scarsissimo rilievo politico.
Per esempio, nulla si dice rispetto alla legge che istituisce il grado di primo maresciallo dell’Impero il 28 marzo del 1937 e che fu, senza dubbio, alla base di un forte attrito tra Mussolini e Vittorio Emanuele III e, in generale, degli scontri che pure ci furono in quegli anni tra la monarchia e il governo fascista. Né cose nuove o aggiuntive rispetto agli incontri internazionali come quelli di Stresa e di Monaco o i viaggi del duce in Germania e di Hitler in Italia che, pure nel coro pressoché unanime dell’opinione pubblica italiana e tedesca suscitarono qualche reazione come sappiamo sempre da altre fonti. Lo stesso discorso vale per altri avvenimenti, come la creazione della Camera dei Fasci e delle Corporazioni nel 1934 o la riforma della scuola tre anni dopo che rappresentò un tentativo significativo del regime di fascistizzare l’istruzione nazionale con risultati contraddittori ma in qualche modo non irrilevanti. E l’esame dei testi potrebbe continuare, se poi non dovessimo prendere in esame il fatto che, da una parte, uno storico inglese come Dennis Mac Smith si era detto propenso a considerarli autentici ma senza un’analisi completa dei testi. Un giornalista americano come Brian Sullivan gli aveva anche fatto eco e, l’altro giorno, sul quotidiano Libero, si è prodotto in una ennesima difesa delle sue precedenti convinzioni.
Resta il fatto che tra gli storici italiani non soltanto chi scrive ma lo stesso Renzo De Felice, dal quale mi hanno sempre diviso molti tratti interpretativi, già nel 1994 aveva escluso qualsiasi autenticità ai Diari mussoliniani ed ora Emilio Gentile, uno dei maggiori studiosi del fascismo e che è stato molto vicino, almeno nei primi anni di ricerca, all’ispirazione dell’opera di De Felice, ha di recente compiuto un’accurata perizia analitica nel 2004 che condivido pienamente.
In particolare Gentile ha sottolineato l’ aspetto fondamentale del problema: da una parte i diari non contengono nulla che non sia presente, magari in maniera più ampia e chiara, da altre fonti edite già disponibili ma soprattutto l’immagine e il ritratto che emerge del dittatore è del tutto diversa e contraria da quello che emerge da altre fonti più dirette e attendibili.
Quanto al falso scoop che riguarda l’uccisione di Mussolini, devo dire che tutte le controversie suscitate in questi anni su quell’episodio possono mettere in dubbio quale sia stato l’individuo che premette il grilletto dell’arma che ammazzò il duce e Claretta Petacci ma non i mandanti legati al Comitato di Liberazione, rispetto ai quali possediamo testimonianze recenti e molto attendibili.

Corriere della Sera 9.9.10
Proteste, pedofilia (e indifferenza): le insidie del viaggio inglese del Papa
Anche il sacerdozio femminile tra i temi che si troverà ad affrontare
di Gian Guido Vecchi

CITTÀ DEL VATICANO — Volete contestare il Papa a Londra? L’appuntamento è a Hyde Park Corner, all’una e mezzo in punto del pomeriggio di sabato 18, una bella marcia attraverso Piccadilly e Trafalgar Square fino a Downing Street poche ore prima che alle 18,15 Benedetto XVI inizi ad Hyde Park la veglia di preghiera per la beatificazione del cardinale John Henry Newman, il grande teologo e filosofo ottocentesco convertito dall’anglicanesimo e considerato tra i precursori del Concilio. A sole dieci sterline più due di spedizione c’è pure la maglietta con scritto «Pope Nope», il cui ricavato «sarà devoluto alle vittime dei preti pedofili». Da mesi quelli del gruppo «Protest the Pope» battono il tam tam in Rete ( www.protest-the-po-pe.org.uk) in vista dei quattro giorni che da giovedì a domenica della prossima settimana porteranno il Papa in Scozia e Inghilterra. E da mesi — da una parte atei militanti, dall’altra ultras papisti non richiesti — dipingono e alimentano una tensione crescente.
Le trappole possibili non mancano, certo: polemiche sulla pedofilia nel clero, anzitutto, ma anche il sacerdozio femminile, i diritti degli omosessuali (il cardinale Newman chiese d’essere sepolto assieme all’amico reverendo Ambrose St.John ed è considerato un’icona dalla comunità gay), i preservativi e l’Aids, il vescovo lefebvriano negazionista Williamson eccetera. Del resto il lavoro di bonifica del clima procede, mica per niente l’arcivescovo di Southwark Peter Smith ha voluto incontrare ieri in territorio neutro (i locali londinesi di Scotland Yard) gli organizzatori della marcia, dal militante dei diritti dei gay Peter Thatchell alla «National Secular Society»: l’arcivescovo, chiarito che «grazie Dio c’è libertà d’espressione», ha chiesto una «protesta civile» mentre i militanti di «Protest the Pope» hanno garantito di «non avere alcuna intenzione di perturbare» la festa dei fedeli e si sono detti «rassicurati» dalla promessa di trasmettere al Papa la richiesta di «aprire i dossier» sui pedofili.
Come a Malta, del resto, il Papa potrebbe incontrare alcune vittime di abusi sessuali: sia lord Chris Patten sia l’arcivescovo di Westminster Vincent Nichols «non lo escludono»: «Ciò viene fatto senza alcun annuncio e in privato», Oltretevere confermano. La bonifica è anche mediatica: non ufficiale, ma «incoraggiato» dalla conferenza episcopale, è nato il sito www.catholicvoices.org.uk come «osservatorio» di ciò che dicono i media, gli «speaker» incaricati di informare e «chiarire» sono stati preparati da mesi. Né la beatificazione di Newman né la porta aperta agli anglicani in uscita sembrano aver creato problemi con il primate anglicano Rowan Williams.
Benedetto XVI vedrà anche la reverenda Jane Hedges, donna pastore impegnata nella campagna per le donne vescovo anglicane, ma in Vaticano non temono polemiche: «È normale, il Santo Padre ha incontrato e stretto la mano innumerevoli volte a donne pastore». Piuttosto, ci sono state contestazioni per la prima «visita di Stato» d’un pontefice e l’avvocato Geoffrey Robertson ha chiesto che Ratzinger fosse arrestato «per crimini contro l’umanità», negando sia Capo di Stato: il Foreign Office gli ha ricordato che le prime relazioni con la Santa Sede risalgono «al 1479». Benedetto XVI incontrerà giovedì a Edimburgo Elisabetta II e ieri l’ha ringraziata, «sono molto grato a sua maestà la Regina e a sua grazia l’arcivescovo di Canterbury per l’invito». Oltretevere l’impressione è che «la tensione stia calando». Un sondaggio di The Tablet ha mostrato che il 25% degli abitanti del Regno Unito è a favore della visita e solo l’11 contrario. La maggior parte, il 63 per cento, è indifferente. Newman, del resto, è un modello di dialogo con la modernità. «Non vedo l’ora di intraprendere il mio viaggio e invio saluti di cuore».

il Fatto 9.9.10
L’infanzia negata
In Italia 56 bambini vivono dietro le sbarre con le madri nella totale indifferenza del Parlamento
di Silvia D’Onghia

“Vidi una bimba che cercava di mettersi in tasca la neve. Le chiesi: ‘Cosa stai facendo?’. Mi rispose: ‘La porto alla mamma’”. Leda Colombini è la presidente dell’associazione “A Roma, insieme”, che dal settembre del 1994 lavora nella sezione femminile del carcere romano di Rebibbia. Al fianco delle detenute madri e dei loro bambini. Sì, perché non tutti sanno che, nelle carceri italiane, vivono anche 56 bambini, vittime della detenzione delle loro mamme. La maggior parte delle quali straniere, 31 di loro con sentenza definitiva. I dati li ha forniti ieri, in commissione Giustizia alla Camera, il capo del dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria, Franco Ionta. E proprio ieri, nella sala Santa Rita della Capitale, è stata inaugurata la mostra “Che ci faccio io qui?”, un reportage realizzato da cinque fotografi di fama internazionale, nato dalla collaborazione tra l’agenzia fotografica “Contrasto” e l’associazione “A Roma, insieme”. “Ogni sabato portiamo i bambini fuori dal carcere – racconta Leda Colombini –. Li portiamo al mare, in montagna, e tutte le volte vorrei che il mondo intero fosse lì per assistere allo stupore di quei bambini”. Che invece vivono reclusi. Il loro unico orizzonte è il muro, quello della cella, quello del corridoio, quello di recinzione. “Tutto questo genera enormi problemi – prosegue Colombini –. Il primo è alla vista: questi piccoli sono privati degli spazi, degli orizzonti, delle altezze, del movimento della città. Sono tutti stimoli necessari a un’adeguata crescita del senso della vista. Per non parlare del mondo delle relazioni. Le uniche persone con cui sono a contatto per i primi tre anni di vita sono le madri, il personale penitenziario e gli altri bambini. Il loro mondo finisce qui. Chi li ripaga di queste carenze? Che cosa si produce al livello della mente?”. Da un punto di vista materiale ai bambini non manca nulla All’inizio della loro attività, con una battaglia durata un anno, i volontari dell’associazione hanno ottenuto che i figli delle recluse frequentassero asili comunali esterni al penitenziario. E questo significa che almeno una parte della giornata trascorre senza un muro all’orizzonte.
Le celle si aprono alle 8 del mattino, per richiudersi alle 8 di sera. I bimbi possono giocare (anche se non tutti i giocattoli possono essere portati in carcere) e, d’estate, hanno “addir ittura” la possibilità di correre in giardino. Quasi un lusso. “Festeggiamo tutti i compleanni – racconta Colombini –, le madri, il personale, i volontari si ritrovano tutti a spegnere le candeline assieme ai bambini. Cerchiamo di rendere speciale ogni occasione”. Ma è una goccia in un mare che non dovrebbe esistere.
Le proposte inascoltate
“SONO tre legislature che avanziamo proposte perché si ottenga che nessun bambino varchi più la soglia del carcere – spiega Colombini, e la sua voce pacata si increspa di rabbia – Tutti i ministri si sono impegnati, ma la soluzione non è mai arrivata. Ora abbiamo presentato cinque testi di legge: due al Senato, tre alla Camera, dove si è arrivati a un testo unificato attualmente in discussione in commissione Giustizia”. La speranza, però, è ridotta al lumicino: “Non a caso il problema più grande riguarda le straniere. La legge Bossi-Fini prevede che, una volta scontata la pena, l’espulsione sia automatica. Una volta, per esempio, una donna è stata rispedita in Nigeria mentre il figlio era al nido. Le italiane che hanno una famiglia e un tetto sulle spalle, presentano le condizioni per i domiciliari o per l’affidamento in prova. Le straniere non ottengono neanche i permessi premio”. Non solo: quando i bimbi compiono i tre anni, vengono separati dalle madri e finiscono in affidamento. Chi li ripagherà di tutto questo?


l’Unità 9.9.10
Marco e le sue sorelle: «Racconto il vivere in un’epoca sbagliata»
Il regista, il progetto collettivo nella sua Bobbio e l’Italia vista da lì: «La vera tragedia è che la gente non reagisce più a niente, non si accorge di nulla, come nei periodi più bui...»
di Gabriella Gallozzi

Ancora la famiglia, suo territorio d’indagine privilegiato fin dai tempi de I pugni in tasca. Le strade della creazione, poi. E la politica, per la quale non si tratta più di «disinteresse ma di assenza totale». Marco Bellocchio è uno dei pochissimi grandi nomi del nostro cinema che quando parla ti guarda negli occhi. Ti ascolta e non risponde mai con la prima banalità che gli viene in mente. Anche se il contesto è quello degli affollati incontri per la stampa tipici dei grandi festival. Mostra compresa. Dove ieri è passata Fuori concorso la sua ultima fatica: Sorelle Mai, una sorta di diario di famiglia dilatato nel corso di quasi dieci anni. Ogni estate, nella sua Bobbio, Bellocchio alla testa di una scuola di cinema (Fare cinema) ha messo insieme attori, amici e familiari per realizzare un racconto corale, fatto di frammenti di vita, di cui una prima parte (Sorelle) era già passata al Festival di Roma e di cui Sorelle Mai è il completamento. Le sorelle del titolo sono, infatti, le sue vere sorelle, Letizia e Maria Luisa, anziane «signorine» che, in questa loro «sorellanza sono rimaste imprigionate, come in una trappola, che ha impedito loro di vivere». E poi il fratello Alberto e i suoi figli, Elena la più piccola e Pier Giorgio, il figlio maggiore che nel cinema di papà, racconta, è stato coinvolto fin dai tempi di Salto nel vuoto, e che per parlare di questo ultimo impegno come «un’occasione che papà ha creato per stare tutti insieme l’estate». Il resto è venuto da sé. Gli attori professionisti (Donatella Finocchiaro, Alba Rohrwacher) e le cose da raccontare, condivise e scritte insieme ai partecipanti al Laboratorio.
«È un piccolo film dice il regista ma per me molto importante. Ed è partito dal desiderio di mettere in scena il destino delle mie sorelle, della loro vita molto protetta, quasi fossero vissute in un’epoca sbagliata. Mentre il mondo si apriva al femminismo, all’emancipazione, loro rimanevano chiuse, per niente incoraggiate a vivere la loro vita». Torna, insomma, il tema della famiglia i cui «valori prosegue Bellocchio non ho mai esaltato. Eppure oggi il mio atteggiamento è cambiato: nell’Ora di religione mostro il fratello assassino che finisce in manicomio, nella consapevolezza che una posizione del genere porta all’autodistruzione». E la politica, vista attraverso il suo cinema. «Ho voglia di fare un film sull’Italia contemporanea dice ma non lo farei mai direttamente su Berlusconi. E non certo perché sono un pavido. La mia narrazione non dico che si muove attraverso le metafore, ma non affronta mai di piatto l’attualità». Un’attualità, la nostra, che è impressionante. Basti pensare al nuovo disegno di legge di Bondi sul cinema che prevede il divieto ai minori di dieci anni. «È indegno attacca vorrà dire che invece di fare film faremo cartoni animati!». Ma quello che più colpisce, conclude Bellocchio, è «che di fronte a tutto questo non c’è più neanche sgomento. La gente non si accorge di nulla, come nei periodi più bui. Così come gli italiani erano tutti fascisti, oggi la maggioranza ha votato Berlusconi. La maggioranza del paese è così. Ed è questa la vera tragedia, di cui responsabile è anche la sinistra. Senza più un riferimento, un sindacato... E così più che al disinteresse siamo di fronte all’assenza totale».

l’Unità 9.9.10
Fuori concorso
Interni di famiglia con ritratto di zie
Seguito di «Sorelle» del 2006, «Sorelle mai» di Bellocchio è un diario che mescola finzione alla vita vera del regista
di Alberto Crespi

Marco Bellocchio, a 71 anni, sta vivendo una stagione creativamente straordinaria. I suoi ultimi film narrativi sono magnifici (L’ora di religione, Buongiorno notte, Il regista di matrimoni, Vincere): in parallelo, procede un’attività quasi da film-maker sperimentale, con esiti sorprendenti. Sorelle mai è lo sviluppo di Sorelle, del 2006. È un work-in-progress, costruito negli anni grazie all’attività del laboratorio Fare Cinema di Bobbio e al decisivo apporto della montatrice Francesca Calvelli. Come lo definisce lo stesso Bellocchio, «un film che non poteva essere più condizionato (non c’era una lira e poi un euro) e nello stesso tempo più libero». Sorelle era un diario privato in cui Marco «pedinava» in modo quasi zavattiniano le proprie mitiche zie, Letizia e Maria Luisa. I «bellocchiani» doc le conoscono bene, compaiono in diversi suoi film (la loro apparizione nell’Ora di religione, come zie del protagonista Castellitto, era memorabile). Ora Sorelle si è evoluto in Sorelle mai, film dalla durata canonica di 105 minuti in cui la famiglia Bellocchio (c’è anche il figlio Pier Giorgio, uno dei brigatisti di Buongiorno notte) si «contamina», per così dire, con materiali di pura finzione. Pier Giorgio fa Giorgio, quindi se stesso o quasi, mentre Donatella Finocchiaro recita il ruolo fittizio di Sara, sua sorella, madre un po’ distratta della piccola Elena che vive con le zie mentre lei sta a Milano inseguendo il sogno di fare l’attrice. Nella casa delle zie c’è una pensionante, una giovane professoressa interpretata da Alba Rohrwacher: qui il film apre una sorta di lunga parentesi in cui assistiamo agli scrutini della scuola dove la prof lavora, con un altro Bellocchio (Alberto) nel ruolo, splendido, del preside. La casa di Bobbio dove tutto si svolge è quella avìta dei Bellocchio ed è la stessa dove, 45 anni fa, Marco girò I pugni in tasca. I rimandi a due differenti contesti il cinema di Bellocchio, la sua famiglia fanno di Sorelle mai una sorta di ipertesto. È come se il regista ci facesse entrare, come un artista rinascimentale, nella sua bottega, mostrandoci al tempo stesso l’inconscio dei suoi film. Co-prodotto con Rai Cinema, Sorelle mai sarà per gli spettatori un’esperienza spiazzante, ma è un gioiello, profondamente personale.

Repubblica 9.9.10
Il regista ha presentato "Sorelle Mai", piccolo film familiare tra realtà e finzione
Bellocchio: non sono più ribelle ma è ora che gli italiani si indignino
di Paolo D'Agostini

Nel film attrici professioniste, come Finocchiaro e Rohrwachwer, e non professionisti

Sollecitato, come sempre impavido e un po´ imprudente, Marco Bellocchio non si è fatto pregare a distillare qualche pillola del suo lucido pessimismo dichiarando più o meno: «Oggi le persone non si indignano più, non si levano voci contro, stiamo vivendo un periodo che fa pensare a certi momenti bui della nostra storia. Perché erano tutti fascisti? Eppure lo erano. Perché erano tutti nazisti? Eppure lo erano. Perché oggi c´è una maggioranza berlusconiana? La maggior parte della gente ha acquisito quella mentalità. E´ una tragedia. Le forze di opposizione ci sono ma non fanno presa».
Il regista è a Venezia per presentare fuori concorso un piccolissimo film che però a dispetto delle sue dimensioni quasi amatoriali (dimensione e non qualità amatoriale, naturalmente) contiene moltissimo di lui o comunque moltissimo di ciò che Bellocchio è stato. S´intitola Sorelle Mai. Il regista lo ha realizzato a Bobbio, il paese del Piacentino di cui è originaria la sua famiglia e dove c´è tuttora una casa di famiglia. Del resto ha anche chiamato a interpretarlo, accanto alle attrici professioniste Donatella Finocchiaro e Alba Rohrwacher (a loro volta risucchiate in questa dimensione artigianale e familiare), tutte persone di famiglia. Le due sorelle, il fratello e i suoi due figli. E l´amico di sempre Gianni Schicchi. Si tratta in realtà del risultato di un laboratorio di regia che Bellocchio conduce già da parecchi anni ogni estate proprio a Bobbio. Ha utilizzato materiale che era andato girando e accumulando nel corso degli anni, a partire dalla seconda metà degli anni Novanta. Una ragione di partenza di tipo didattico, ma un risultato personalissimo. Del resto lo confessa: non sarebbe capace di "insegnare" in un´altra maniera, senza soddisfare il bisogno di mettersi in gioco e, diciamo, di giocare con lo strumento che gli è congeniale. Il cinema.
Attraverso sei episodi si snodano vicende e atmosfere che, sia pur riferite a personaggi che non lo rappresentano in maniera diretta, ci tuffano nuovamente in quello che è stato l´inizio di tutto. L´inizio dell´avventura artistica di Bellocchio. Il nodo delle origini e della famiglia, oggetto condizionante e fonte di ispirazione, meritevole di rifiuto e ribellione giovanile. Insomma la materia di I pugni in tasca.
La dice lunga un finale di sapore onirico in cui l´amico Schicchi è chiamato a interpretare quello che pare sia un suo cavallo di battaglia. Vecchio frac, la canzone di Domenico Modugno. Non staremo ad anticipare tutti i risvolti di questo finale piuttosto ad effetto, ma è proprio questo finale che fa dire al regista così: «E´ la fine, non c´è più spazio per i ricordi. La ricognizione degli affetti si chiude con questo film in modo definitivo. Lunga vita a tutti ma questa è una esperienza conclusa. Può darsi si torni a Bobbio a fare cinema però partendo da altre cose». Insomma Sorelle Mai segnerebbe il definitivo congedo, nel limite del possibile pacificato e rasserenato, dell´antico ribelle dal già odiato natìo borgo selvaggio.