martedì 14 settembre 2010


il Fatto 14.9.10
Psichiatria Democratica
I giovani turchi, Ferrero e i gruppi veltroniani Fotografia di un partito perennemente in analisi
Il 25 settembre Veltroni a Orvieto Potrebbe diventare la “Mirabello” di centrosinistra
di Luca Telese

ANTEFATTO ICONOGRAFICO. Guardate per un attimo la foto di questa pagina. Pier Luigi Bersani chiude la festa di Torino. In piedi, solo. Per la prima volta un leader del Pd parla senza angeli custodi, senza alfieri, senza l’abbraccio dei due principali dirigenti del partito, immancabilmente vicini a lui. Quanta distanza dal rituale di tutti gli altri anni: il segretario sul palco, e tutti i leader, simbolicamente stretti intorno. Magari ipocritamente, stretti, ma tutti, almeno una volta l’anno, lì, come nella foto della classe all’inizio dell’anno. Ora abbandoniamo la foto, e passiamo al calvario della cronaca, dalle faide dei giovani turchi ai rumors di scissione, ai motivi per cui Orvieto potrebbe diventare una “Mirabello” di centrosinistra.
RETROSCENA REDAZIONALE. Per una volta vale la pena di raccontarvi come si può decidere un articolo nella riunione di questo giornale. Eravamo appena tornati dalla meravigliosa festa della Versilia, e già i nostri telefoni tril-
lavano su un unico tema: il Pd. Un veltroniano ti dice peste e corna di un dalemiano e viceversa (fin qui nulla di nuovo); poi arrivano aggiornamenti, ritrattazioni, agenzie, colpi di scena. Quindi la girandola della rassegna stampa. In due giorni, dal documento dei quarantenni anti-veltroniani, alle correnti storiche, un fermento criptato e indecifrabile per chi non possiede i codici delle faide antiche. A questo punto il direttore si mette a solfeggiare e a parafrasare: “Pi.... Di...., Pi... Dì... Psichiatria Democratica”. Ovvero: ci sono chiari segni di distorsioni dell’ego e di alterazione delle percezioni dell’io, in quel partito. Lettere para-psicanalitiche ai giornali, mezze verità, indiscrezioni pilotate, colpi bassi. Per dire. Secondo Il Corriere della sera, la settimana scorsa Bersani avrebbe stretto un patto con Paolo Ferrero per eleggere dieci parlamentari nelle liste del partito, con una “ospitata” tecnica stile radicali. Cerco il segretario di Rifondazione al telefono per capire se le sue smentite siano rituali o credibili. Lui è furibondo: “Se stiamo dialogando con Bersani? Certo! Lo dico da mesi. Se è vero che abbiamo stretto un accordo per eleggere i nostri dirigenti? Assolutamente no si indigna è una follia paranoica, messa in giro con malizia dai veltroniani, magari per far piacere a Vendola”. Chiedi: in che senso? E lui: “È una cosa che non sta nè il cielo nè in terra rincara la dose Ferrero ma che punta a farci apparire come dei dirigenti all’asta che vanno da Bersani per farsi garantire con il piattino in mano. Beh ruggisce il segretario non è così!”. In fondo basta questo sfogo per capire che la situazione è incandescente, e che la frattura interna influenza anche i rapporti con gli altri. Però restano dei fatti: le dichiarazioni entusiastiche di Ferrero e Oliviero Diliberto sul “Nuovo Ulivo” bersaniano, e gli editoriali dei giornali amici (ad esempio quello di Stefano Menichini su Europa) che la settimana scorsa davano già per certo l’accordo. Frammenti di schizofrenia?
ENDORSING FAGIOLINO.
La nostra riunione finisce così, e l’articolo, è commissionato. Ore 13.15 (non è uno scherzo), sulle agenzie arriva l’endorsement di Massimo Fagioli, psichiatra e ricercatore della mente, che ufficializza la fine del rapporto con l’ex leader presidente della Camera Fausto Bertinotti: “Attualmente la simpatia è per Bersani”. Le ironie sono fuori luogo. Sembra piuttosto un segno, la spia di un disagio, il turbinare di un cortocircuito fra politica e psiche. Come è noto Fagioli era stato un fan accanito di Bertinotti, fino a che non era apparsa sulla scena Nichi Vendola. Dopo di allora lo psichiatra non aveva fatto mistero di considerarlo “deviante” per la sua omosessualità. Ora Fagioli spiega la sua nuova predilezione per Bersani: “È il solo in grado di provare a rimettere insieme la sinistra, l'unico che ancora mantiene laicità e saggezza”. Ma davvero c’è una crisi di identità nel Pd? L’ultima crisi di identità, è la grottesca storia dei cosiddetti “Giovani Turchi”, un gruppo di quarantenni vicini a D’Alema, che scrivono un documento caustico contro il fondatore del Pd convocando una riunione ad Orvieto: “La politica interpretata come Hollywood, come un tour promozionale per propagandare se stessi”. La vera accusa a Veltroni è, ancora una volta, psicanalistica: quella di essere inconsapevolmente berlusconiano, affetto da protagonismo e bisogno di leadership. Però “i giovani turchi” non hanno la tempra di Ataturk. Basta il pronunciamento di due ex veltroniane bersaniane, Stella Bianchi e Annamaria Parente perchè sia annullata l’iniziativa, prevista per il 25. Una indubbia vittoria dei veltroniani. Ma Orvieto è la città dove è nato il Pd, e dove Veltroni in un celebre discorso parlò per la prima volta della vocazione mag-
gioritaria: “Non so quando saranno, so che alle prossime elezioni andremo da soli”. Lo disse il sabato, il lunedì Mastella abbandonò la maggioranza, il giovedì cadde Prodi. Il 25, a Orvieto, si tiene anche un convegno di Libertà eguale (la componente ex riformista del partito) con Veltroni e Sergio Chiamparino.
I GRUPPI AUTONOMI. Ma cosa c’è di vero nell’ipotesi avanzata ancora una volta dal Corriere, che i veltroniani vogliono fare un gruppo autonomo”. Una follia? O un inconfessabile desiderio inconscio? Walter Verini, braccio destro di Veltroni sorride: “Balle”. E in serata Veltroni interviene: “Niente gruppi: c’è bisogno che il Pd recuperi forza, si deve lavorare per fare del Pd”. Ma a Orvieto Veltroni potrebbe meditare un nuovo strappo. Magari un appoggio tecnico al sindaco di Torino, già con un piede fuori dal partito, all’insegna dello slogan: “Oltre il Pd per tornare a vincere”. Fini torna nella “sua” Mirabello per costruire un’altra destra. Veltroni nella “sua” Orvieto per un altro centrosinistra.


l’Unità 14.9.10
L’ex leader chiede «più coraggio». Ma Area democratica non lo segue
Veltroni: il Pd cambi Bersani: ma divisi non siamo credibili
Oggi Bersani riunisce al Nazareno tutti i big del partito: «Dobbiamo dimostrarci pronti a governare. Discutiamo pure, ma delle proposte per l’Italia». Veltroni chiede di recuperare lo «spirito originario» del Pd
di Simone Collini

«Di fronte alla crisi della maggioranza il Pd deve dimostrarsi pronto a governare il paese», dirà oggi Pier Luigi Bersani aprendo la riunione con tutti i big del partito. Ovvero è il ragionamento che farà il segretario del Pd agli altri membri del coordinamento convocati al Nazareno ben vengano discussioni sulle proposte concrete, ma perdersi ora in polemiche e divisioni può far perdere l’occasione di chiudere l’era del berlusconismo e tornare al governo. Un appello che arriva dopo che nei giorni immediatamente precedenti e successivi l’intervento di chiusura alla Festa del Pd alcuni giornali hanno parlato dell’irritazione dei veltroniani per un presunto accordo elettorale con Prc e Pdci (smentito da Bersani), poi per un’iniziativa a cui hanno dato vita alcuni quarantenni bersaniani (i cosiddetti “giovani turchi”), poi per la decisione di chiudere a Torino con la “vecchia formula” del comizio (a cui avevano rinunciato negli ultimi due anni Veltroni e Franceschini). Fino alla notizia che i veltroniani starebbero pensando di fare dei gruppi autonomi alla Camera e al Senato. Anche questa smentita, per bocca di Walter Verini: «È del tutto infondata». Restano però le critiche: «Il nostro partito dice il braccio destro di Veltroni riprendendo un sondaggio pubblicato da “Repubblica” e che dà il Pd al 26,5% raggiunge nei sondaggi il suo minimo storico, e questo in una condizione politica che dovrebbe essere assolutamente favorevole ad una forza di opposizione».
LINEE A CONFRONTO
Per Bersani non è però in questo modo che si rilancia il Pd: «Discutiamo pure, ma sulle proposte concrete da presentare all’Italia», è il messaggio che lancia agli altri dirigenti. «Adesso dobbiamo smetterla di guardarci la punta delle scarpe e dobbiamo rimboccarci le maniche, dobbiamo lanciare una forte mobilitazione già in questi giorni di riapertura delle scuole e poi attraverso l’Assemblea nazionale». Che si terrà ad ottobre a Milano, o comunque in una capitale del Nord (anche per rispondere alle sollecitazioni di Sergio Chiamparino nei confronti di questa parte del paese).
All’incontro di oggi Veltroni vuole andare senza provocare rotture ma comunque ribadendo la sua tesi per un cambio di linea. Il Pd deve cioè recuperare lo «spirito originario», dimostrare «più coraggio» nel mostrarsi come il partito «che combatte tutti i conservatorismi», presentarsi come la forza «che vuole il cambiamento». L’ex segretario non ci sta a passare per uno tentato dalla scissione: «Io ci credo più di altri nel Pd, l’ho fatto nascere si è sfogato con i suoi e voglio rafforzarlo». Anche il discorso delle alleanze, per Veltroni, va affrontato partendo da un «investimento» su questo partito, perché più forte è, più forte sarà la sua capacità attrattiva e meno potere di ricatto avranno le forze minori. Il discorso di Bersani alla Festa di Torino ha sì fissato dei paletti per quel che riguarda il confronto con l’Udc e l’esclusione di Prc e Pdci dal patto di governo, ma per Veltroni «la sfida è aprirci e raccogliere energie fresche e nuove», non cercare accordi politici in base a ragionamenti puramente aritmetici.
Veltroni andrà però al confronto anche sapendo che altri dirigenti di Area democratica come Dario Franceschini, Piero Fassino, Franco Marini, sono più vicini alle posizioni del segretario che alle sue, o a quelle dell’ex-ppi Beppe Fioroni o di Paolo Gentiloni. Entrambi, così come pure Veltroni e Chiamparino, saranno al convegno organizzato da LibertàEguale ad Orvieto la prossima settimana. Mentre tutti i veltroniani sembrano intenzionati a disertare le giornate di Area democratica che sta organizzando Franceschini ad Amalfi per la fine ottobre.

Repubblica 14.9.10
Veltroni, sfida aperta a Bersani un documento sul "Pd tradito"
Asse con gli ex ppi. I fedelissimi: può ritentare da premier
Raccolta di firme tra i parlamentari. Il segretario: non ci sono esclusive sullo spirito originario
di Goffredo De Marchis

ROMA Walter Veltroni prepara la campagna di autunno. Non solo per lanciare il libro di prossima uscita "Rivoluzione democratica" dove, dopo tanti romanzi, rimette al centro la politica e lo spirito originario del Pd rimosso dai successori. L´obiettivo finale dell´ex segretario è riprovare la corsa per Palazzo Chigi. «Mi sembra improbabile, ma non impossibile», dice il suo fedelissimo Stefano Ceccanti. «Vendola non ce la fa. Parla solo a un piccolo pezzo del Paese. Bersani nemmeno, figuriamoci. Con lui il Pd ha perso tutta la sua autorevolezza... «, spiega l´altro veltroniano, Giorgio Tonini. Dunque, solo Walter ha le carte in regola. Il libro è un singolo tassello della strategia. Nell´immediato c´è la denuncia di un tradimento. Quello compiuto da Bersani colpevole di aver dimenticato i valori fondativi del progetto, di rispolverare l´Ulivo e andare a caccia di alleati. Denuncia che finirà nero su bianco, in un documento programmatico su cui Veltroni in persona sta cercando firme tra i parlamentari.
L´ex sindaco sta scrivendo il testo che mette in mora l´attuale gestione del Pd. L´uscita è prevista per la fine della settimana, una volta raccolto un numero sufficiente di adesioni. Beppe Fioroni ha promesso un mare di autografi nel confine degli ex popolari. Ai quali si aggiungeranno i deputati e i senatori di stretta osservanza veltroniana. Fioroni e Veltroni si sono incontrati ieri per fare il punto. I bersagli sono due: Bersani e il capogruppo Franceschini. Il "manifesto" contesterà punto per punto la linea del partito e dichiarerà esaurita l´esperienza di Area democratica, la minoranza interna. Bisogna dimostrare che ormai il capogruppo Dario Franceschini si può considerare a tutti gli effetti un bersaniano doc. Il documento segna una novità assoluta nel percorso politico di Veltroni: la nascita di una corrente e la sua guida. Smentita, per il momento, l´ipotesi di dare vita a gruppi autonomi sul modello di Futuro e libertà. «Io sto nel Pd», dice l´ex leader. Ma le mosse del suo ritorno prepotente nel campo del centrosinistra sono evidenti. E innervosiscono il gruppo dirigente del Pd.
Oggi torna a riunirsi il caminetto. Ci sarà Veltroni, ci sarà D´Alema, ci sarà Bersani. Il segretario è pronto ad affrontare di petto le critiche, tanto più dopo l´esito considerato positivo del comizio alla Festa di Torino. Con un argomento polemico rivolto proprio a Veltroni. «Nessuno si può intestare lo spirito originario del Pd». Avremo perciò l´antipasto di uno scontro che presto potrebbe spostarsi sul terreno delle primarie. Per le quali sono già in campo Nichi Vendola e Sergio Chiamparino, non a caso anche loro autori di libri autobiografici appena usciti o in uscita. E per le quali Bersani è il candidato naturale del Pd. Anzi, per statuto l´unico democratico che può correre in quanto segretario. «È lo statuto voluto da Veltroni, no?», osserva il coordinatore Maurizio Migliavacca.
Tira un´aria cattiva nel cielo democratico ora che le elezioni si allontanano. I "giovani turchi", quarantenni che si richiamano al rinnovatore Ataturk, dopo una frenata sono pronti a rilanciare il loro documento, dura critica verso tutto il gruppo dirigente con attacchi personali rivolti soprattutto all´ex segretario. I veltroniani però faranno pesare le firme sotto il documento Veltroni-Fioroni. I maligni dicono: non arrivano a 20. Se fossero di più il problema si pone. Ma sono i numeri dei sondaggi a muovere la "campagna di Walter". Quello sul Pd, dove il partito si ferma a un misero 26,5 per cento e non guadagna voti dalla crisi del centrodestra, torna utile per contrastare la leadership di Bersani. Quello preoccupante sul gradimento dei leader, dove Veltroni scivola parecchio dietro Vendola, Chiamparino e Bersani, impone invece il cambio di passo.


l’Unità 14.9.10
Nuovo Ulivo alleato con l’Udc Restano i dubbi di Idv e Vendola
Di Pietro: «A Bersani risponderò a Vasto, ma Casini resta un avversario. E il governatore: «L’alternativa non si fa nei palazzi». Giordano: «Le alleanze? Decide chi vince le primarie»
di Andrea Carugati

Nessuna bottiglia di champagne, in casa dei dipietristi e dei vendoliani, dopo il discorso con cui Bersani a Torino ha rilanciato la proposta di alleanza tra nuovo Ulivo e Udc. Ma le reazioni del giorno dopo fanno capire che qualcosa è cambiato da fine agosto, quando Bersani aveva lanciato per la prima volta l’idea di un’alleanza a «due cerchi» e le rispo-
ste di Tonino e dei vendoliani erano state tranchant: «Casini è un’avversario». Stavolta Idv e Sel hanno capito che si fa sul serio, che è ora di mettersi a un tavolo con Bersani per costruirla davvero, un’alternativa a Berlusconi. E allora i toni sfumano. Di Pietro prima detta alle agenzie una dichiarazione dura: «Vogliamo allearci con quella parte del Pd che non vuole fare inciuci con gli avversari, e Fini e l’Udc sono nostri avversari». Poi corregge il tiro: «A Bersani risponderemo nella nostra assemblea programmatica a Vasto questo fine settimana. Li tracceremo condizioni e limiti della coalizione che abbiamo in mente. Ho ascoltato il leader Pd, ci sono luci e ombre, ma dobbiamo trovare un punto d’incontro». Nel pomeriggio Di Pietro riunisce i suoi parlamentari, per fare il punto su cosa dire a Vasto. Sintetizza all’uscita il capogruppo Donadi: «Abbiamo parlato del perimetro del centrosinistra, e Casini non ne fa parte».
Vendola, pur memore delle ruggini pugliesi, è più possibilista. «Costruiamo un vocabolario che metta insieme le parole del futuro, questo è l’inizio del cambiamento, un’operazione che non si può concludere al chiuso dei palazzi e delle segreterie». E Casini? «I veti non bisogna né subirli né esercitarli, non bisogna mai mettere il carro davanti ai buoi. I volenterosi, se fossero disponibili a voltar pagina, dovrebbero essere i benvenuti nella coalizione del cambiamento». Spiega il suo braccio destro Nicola Fratoianni: «Noi vogliamo una coalizione, il dialogo col Pd è aperto e sui contenuti Bersani ha detto molte cose convincenti. Ma appunto non si può discutere di alleanze con l’Udc prima che di programmi, altrimenti finisce come in Puglia dove il Pd ha aspettato per mesi il Godot Casini... Prima bisogna mettersi d’accordo sui punti chiave del programma, poi scegliere il leader con le primarie e solo alla fine si valuta se è possibile allargare l’alleanza al centro». Ancora più netto Franco Giordano: «Noi non mettiamo veti sull’Udc, ma la proposta di Bersani così com’è sa di status quo, manca un’invenzione che coinvolga il nostro popolo. Prima bisogna fare le primarie, è lì che si decide quale coalizione e quale programma. Non le puoi convocare quando hai già deciso tutto...». E se poi l’Udc non ci sta? «Anche in Puglia si è detto per mesi che senza l’Udc non si vinceva, e invece...», sorride Fratoianni.

l’Unità 14.9.10
Forse per Gelmini la scuola pubblica è di sinistra?
di Fabio Luppino

P oteva fermarsi alla sottovalutazione bonaria dei simboli leghisti nella scuola di Adro, comunque fatto grave per un ministro. Gelmini ha voluto strafare, denotan-
do protervia culturale e voglia di rivincite antiche quando ha detto che il pericolo vero sono i simboli di sinistra nelle scuole. Sono progressista di formazione, di sinistra ma senza illusioni, scarsamente ideologico, socialdemocratico dentro il Pci. Ma mi avrebbe molto seccato, fortemente contrariato trovare nelle scuole dei miei figli «simboli di sinistra», così come le pennellate celtiche di Adro, anche di più. Passo in rivista più e più volte quello che vedo entrando in una scuola (perché non si può essere sempre contro per principio), ma ho grandi difficoltà ad accogliere la preoccupazione del ministro. Il crocefisso? No. La foto del Presidente della Repubblica? No, non poteva parlare di quella. I presidi con la porta aperta, a volte? Certo potrebbero generare sospetti, ma di sinistra è un po’ più forte, direi. Bidelli (personale Ata, sì) senza divisa? Certo, qualche decennio fa le avevano, a volte azzurre, a volte nere, ma adesso i soldi non ci sono nemmeno per quelle. No, passiamo oltre.
O forse che siano di sinistra i banchi rotti, i muri scrostati, i bagni non puliti, le palestre senza l’agibilità, la mancanza della carta igienica, le serrande rotte, le porte che non si chiudono e che nessuno aggiusta? Potrebbero, forse, come conseguenza di un modo rivoluzionario di stare a scuola dei ragazzi, al pari della gelatina sui capelli, dei pantaloni portati più bassi delle mutande, dell’orecchino, del piercing, della capacità a volte di fare domande intelligenti...
Ecco, forse ci sto arrivando. Se uno studente sa parlare, pensare, studiare, educato come cittadino consapevole, forse è questo il punto, il problema. Se la scuola Gelmini è di destra, perché la riforma delle superiori tagliando il sapere sta affievolendo i presupposti dell’Istruzione costituzionale, la scuola pubblica, laica, nata per formare, includere, consentire l’ascensore sociale, garantire l’attuazione del principio di eguaglianza è di sinistra. La scuola, è di sinistra!
Allora, il punto è questo. Avere libri non orientati, insegnanti capaci di destare lo spirito critico, scrivere, formarsi un’opinione libera, non aderire a schemi precostituiti, esercitare obiezione di coscienza grazie ad una approfondita conoscenza delle cose. Tutto questo è di sinistra, forse? Se è così, rivendichiamo che questa sia la scuola, pubblica, e anche non pubblica. Quello che Gelmini e il governo di cui fa parte stanno aspramente combattendo da due anni con geometrica potenza.

Repubblica 14.9.10
Il successo dell´ultimo saggio "Comune" che esce ora in Italia
Quel che l´America legge in Toni Negri
di Federico Rampini

È un segno della confusione dei tempi: Candy Crowley, la più autorevole anchorwoman politica di Cnn, nel suo Tg fa un elogio del nuovo capo-economista della Casa Bianca, Austan Goolsbee, «perché finalmente cita Marx e Trotsky nei suoi discorsi». Goolsbee ha solo 41 anni e ha già alle spalle una brillante carriera accademica alla University of Chicago. Ma sì, proprio quella di Milton Friedman, il padre del neoliberismo reaganiano. Suo amico di lunga data, Obama lo ha appena nominato alla guida del Council of Economic Advisers. Ma Goolsbee ha un vizietto che di questi tempi potrebbe giorcargli brutti scherzi: adora dissacrare, ironizza su se stesso e sul presidente, va ai talkshow satirici come quello di Jon Stewart a fare l´auto-caricatura dell´economista-guru. Le sue citazioni di Marx e Trotsky – «i testi sacri che abbiamo rispolverato per capire questa crisi» – sono frecciate contro l´accademia e il pensiero unico che ha dominato la politica economica americana negli ultimi trent´anni. Colpisce nel segno, anche perché la destra americana è pronta a vedere il socialismo in agguato dietro l´angolo. E questa è senza dubbio una chiave del sorprendente successo di Toni Negri in America. Ora che esce in Italia la traduzione della sua ultima opera firmata con Michael Hardt, Comune (Rizzoli), vale la pena ricordare com´è stata accolta un anno fa negli Stati Uniti. In un´America sotto choc per la sua recessione più grave dagli anni Trenta, il Wall Street Journal salutava il saggio di Negri con un «Benvenuti nel Manifesto del partito comunista, versione 2.0», come si usa designare l´ultimo e più avanzato modello di un software digitale. Il quotidiano di Rupert Murdoch, la Bibbia della classe dirigente capitalista, sentenziava in quell´occasione: «Karl Marx è tornato di moda». E aggiungeva: «Antonio Negri e Michael Hardt sono nella posizione ideale per sfruttare questo revival visto che il loro libro reinventa un marxismo per il XXI secolo». Per Brian Anderson, sulla pagina dei commenti del Wall Street Journal che è un barometro fedele dell´intellighenzia di destra, «è inquietante che Comune sia stato pubblicato sotto un´insegna prestigiosa come quella della Harvard University Press». Il saggio è pericoloso? Abbastanza da essere definito: «la miscela dello stregone del radicalismo contemporaneo». La fortuna di Negri, in un certo senso, coincide con la sfortuna di Obama. La trilogia composta dalle opere Impero, Moltitudine e Comune non si distingue molto da quella prolifica vena di saggistica anti-capitalista, anti-globalizzazione e anti-americana che ha conosciuto un boom almeno dai tempi della rivolta di Seattle contro l´Organizzazione del commercio mondiale, nel 1999. Risale a quelle giornate di guerriglia urbana la rinascita di un movimento di contestazione radicale, che si voleva erede del Maggio Sessantotto, delle lotte operaie e studentesche degli anni Settanta. In qualsiasi libreria italiana o francese, tedesca o spagnola, la trilogia di Negri-Hardt si perde in mezzo a una montagna di opere simili, e similmente ripetitive. In America però tocca un nervo scoperto. Coincide con i sospetti della destra, soprattutto l´ala populista e movimentista del Tea Party, sul presunto "socialismo" di Obama e del suo clan. Nell´arco di dodici mesi, la crisi che ha messo a nudo tutte le storture del capitalismo americano, è stata rovesciata contro l´attuale presidente e viene riletta come una crisi dovuta all´eccesso di interventismo pubblico, al ritorno dello Stato Leviatano. Comune diventa così un testo sospetto, perché gli oltranzisti di destra guidati da Sarah Palin e Glenn Beck hanno questo in comune con Negri: sono convinti anche loro che il comunismo sia attuale, praticamente dietro l´angolo. Quello della Casa Bianca.

Corriere della Sera 14.9.10
In sintesi, l’ubiquità di questo tipo di leggi mostra che, nel pur complesso mondo della natura e della mente, c’è più ordine e regolarità di quanto si pensasse
Corpo e pensiero. L’attività è scandita da regole matematiche
Scoperte le «leggi di scala» legate anche ai processi cognitivi
Nel linguaggio prevalgono le parole corte

di Massimo Piattelli Palmarini


Carta, matita e quattro minuti di tempo. Pronti? Fate una lista di ciò che vi ricordate di aver fatto ieri (appuntamenti, impegni di lavoro, attività in famiglia e così via). Fatto? Ora, di nuovo la stessa situazione, ma adesso scrivete ciò che vi ricordate per il mese scorso. Poi, fatto questo, ciò che vi ricordate per l’anno passato. Ebbene, in ciascuno di questi compiti avrete scritto cinque vostri ricordi al minuto, indipendentemente dal lasso di tempo mentalmente immaginato (giorno, mese, anno). Appena un po’ più di cinque se vi avessi, invece, chiesto di fare una lista di ciò che intendete fare domani, o nel prossimo mese o nell’anno che viene. La lezione da trarre da questo esperimentino è che esistono delle costanti di scala, delle regole, anche per i nostri processi mentali.
Tali leggi si estendono dalla memoria al linguaggio, dalla percezione al controllo della motricità. In altre parole, il nostro cervello, come anche quello di altre specie, lavora secondo notevoli regolarità. Intuitivamente, questo significa che, passando da piccole a grandi dimensioni, i rapporti tra varie altre grandezze restano costanti.
Molti fenomeni di questo tipo sono stati scoperti in biologia. Per esempio, il fisiologo svizzero Max Kleiber, fino dai primi anni Trenta del Novecento, scoprì che l’attività metabolica di tutti gli animali (pensiamo per semplicità alla spontanea produzione di calore corporeo) segue la legge della potenz a t r e q u a r t i . Ci o è , p e r esempio, un animale che è cento volte più grande di un altro produce un calore che è solo 31 volte maggiore.
Dal topo-ragno, il più piccolo mammifero esistente, alla balena azzurra, il più grande, questa legge di scala è rigorosamente rispettata. Un altro esempio: nel corso di un’intera vita, in media, il numero complessivo di battiti cardiaci per ogni mammifero, noi compresi, è lo stesso. Vita più breve, e quindi dimensioni corporali minori, ma frequenza cardiaca più alta, secondo la legge di scala.
Ciò che adesso ci dicono, sulla rivista scientifica «Trends in Cognitive Sciences», sette ricercatori distribuiti tra California ed Europa, è che le leggi di scala esistono anche nel mondo della cognizione. Mettendo insieme, comparativamente, un gran numero di esperimenti pubblicati lungo il corso degli anni e ricalcolando in modo originale i dati salienti, hanno distillato svariate leggi di scala. Uno degli autori, Ramon Ferrer-i-Cancho, fisico, linguista teorico e esperto di scienze della computazione all’Università Politecnica della Catalogna a Barcellona, così mi descrive l’importanza di questa scoperta: «Il fatto che svariati processi cognitivi seguano le stesse leggi statistiche, sposino le stesse equazioni matematiche, dai più elementari processi neuronali su su fino ai più complessi comportamenti umani, rappresenta un ponte tra fisica, biologia e psicologia. L’adattamento e la flessibilità dei processi mentali ne emergono forti e chiari. Inoltre, cominciamo a poter trattare con metodi ben noti in fisica fenomeni cerebrali complessi, prossimi ai punti critici, cioè a situazioni nelle quali minimi cambiamenti in certe variabili producono cambiamenti subitanei e qualitativi».
Oltre a connettere tra di loro diverse discipline scientifiche, queste leggi di scala accomunano la nostra specie ad altre specie. Più sorprendente, ma vero, è che tali formule, valgono anche per la ricerca mentale in soggetti umani. Il caso più esemplare, nel mondo del linguaggio, la cosiddetta legge di Zipf, resa popolare dal linguista americano George Kingsley Zipf. In qualunque testo scritto, o in qualunque conversazione spontanea, la frequenza media di parole corte è maggiore di quella delle parole lunghe. Misurando queste grandezze rigorosamente, si trova una legge di scala che ha come esponente la potenza meno uno, cioè sono l’inverso una dell’altra. Misurando, invece, nelle frasi, la distanza tra le parole e i rapporti sintattici tra di esse, si ha di nuovo una legge di scala, ma diversa, cioè un decadimento molto più rapido.

Corriere della Sera 14.9.10
Le pillole di 2000 anni fa

Hanno più di duemila anni le pillole preparate dagli antichi greci, che archeologi americani sono riusciti ad analizzare con l’esame del Dna. Le pillole sono state trovate in una nave affondata al largo della Toscana nel 130 a.C. che trasportava medicine. Gli esperti sono stati in grado di analizzare queste compresse millenarie, scoprendo che erano realizzate mescolando più di dieci estratti di diverse piante, tra cui l’ibisco (importato probabilmente dal medio Oriente o dall’India e dall’Etiopia), il sedano, le carote e le cipolle selvatiche. «Per la prima volta possiamo confermare quanto scrissero Dioscoride e Galeno e quanto prescritto dai medici greci dell’antichità» ha affermato Alain Touwaide, dello Smithsonian National Museum of Natural History di Washington (Usa).

Avvenire 14.9.10
Intervista. Per il paleontologo francese Yves Coppens «l’essere umano appare sensibile al sacro a partire dalla sua prima comparsa sulla Terra»
L’Homo? Religiosus fin dalle caverne
«Non c’è distanza fra l’apparizione dell’uomo e l’apparizione del suo pensiero religioso. L’uno e l’altro sono parti di una stessa condizione, come appare evidente dai riti funebri più antichi»
di Daniele Zappalà



«P er me, l’origine dell’uomo resta la più bella storia in assoluto e quando la scienza cerca di comprenderla è sempre costretta a constatare al contempo il carattere per così dire stravagante di questa storia, accanto alla sua dimensione d’umiltà». Dopo una vita di studi e campagne scientifiche sul campo talora esaltanti, Yves Coppens esibisce sempre verso il mondo preistorico una curiosità e un’ammirazione quasi spiazzanti.

Il grande antropologo e paleontologo francese, fra gli scopritori della nostra antenata più famosa, Lucy, è anche un brillante divulgatore. Come mostra la raccolta di testi brevi Il presente del passato , in uscita oggi per Jaca Book (pagine 168, euro 18,00). 

Professore, perché la preistoria ci affascina tanto? 

«Gli interrogativi sul nostro statuto sulla Terra, sulla nostra origine e sulla nostra direzione, per così dire, fanno parte di un bisogno connaturato in noi. Al contempo, molti avvertono una grande precarietà nella situazione attuale.

E in proposito, pur non condividendo personalmente questo punto di vista, ho l’impressione che nelle risposte sulla nostra origine si cerca pure una sorta di ancoraggio o di aiuto.

Dei visitatori di mostre che ho curato, del resto, hanno spesso confessato che questa mano tesa verso il passato più profondo li rassicurava». 

Lei ha scritto che il percorso dell’uomo offre un grande messaggio d’umiltà. Cosa intende? 

«Si tratta della storia di un essere vivente apparso come qualsiasi altro essere vivente in una fase di adattamento climatico. Dopo il successo ottenuto in quest’adattamento, si è in seguito sviluppato grazie alle risorse di cui disponeva, compresa la cultura, nata dall’apparizione della coscienza. In generale, l’uomo è un mammifero di dimensioni medie in un pianeta in mezzo ad altri attorno a una stella, a sua volta, in mezzo a miliardi di altre in una galassia, a sua volta, in mezzo a miliardi di altre. Non si può che restare umili». 

Per lei l’uomo si è comportato 'come un podista di fondo'.

Perché? 

«I paleontologi e gli anatomisti hanno seguito l’evoluzione della locomozione preumana e umana lungo dieci milioni di anni.

All’inizio, vi fu l’associazione di una vita arboricola e di una bipedia alquanto goffa. Una bipedia più stabile, efficace e fluida si è sviluppata molto progressivamente. L’accesso alla stazione eretta e alla locomozione come la concepiamo oggi fu davvero lento e meritato. La facoltà di correre è giunta relativamente tardi». 

In quest’evoluzione, c’è una fase che ancor oggi la affascina più di altre? 

«L’apparizione stessa del genere umano, con lo sviluppo del suo encefalo e con la scelta di un’alimentazione a largo spettro che si è rivelata un successo decisivo per le fasi successive». 

A proposito del mistero della coscienza, antropologi culturali come René Girard sostengono la centralità della dimensione sacra. Sul campo, a che punto sono giunte le ricerche sulla religiosità primitiva? 

«Sappiamo o abbiamo ormai il presentimento, dato che non sono sempre disponibili le prove definitive, che l’homo religiosus 

coincide con l’uomo in generale.

L’essere umano, fin dallo sbocciare della sua umanità, è sensibile al sacro e possiede una dimensione spirituale. Personalmente, sono convinto che non ci sia distanza fra l’apparizione dell’uomo e l’apparizione del suo pensiero religioso. L’uno e l’altro sono parti di una stessa condizione». 

Quali ricerche concrete paiono 

provarlo? 

«Non è semplice sugli esseri più antichi scoprire delle dimostrazioni di questa dimensione religiosa. Ma abbiamo ad esempio degli elementi che provano il trattamento dei morti fin da un milione di anni fa, o ancor prima. All’inizio, questi trattamenti furono forse un po’ rudimentali, ma restano comunque dei trattamenti.

Mostrano che l’uomo tratta i suoi morti con un altro occhio, altri sentimenti, rispetto agli animali». 

Le recenti celebrazioni di Darwin hanno riacceso lo scontro fra darwinisti puri e duri, per così dire, e neodarwinisti.

Scientificamente, resta un dibattito costruttivo? 

«Le concezioni di Darwin hanno centocinquant’anni. Da allora, la scienza ha fatto progressi considerevoli. È evidente che la selezione naturale predicata da Darwin resta verificata, ma oggi si riconosce che la parte dovuta al caso è molto inferiore rispetto a quanto Darwin immaginasse.

Darwin non conosceva le leggi dell’eredità e tanto meno ciò che oggi chiamiamo epigenetica. In altri termini, l’evoluzione è molto più complessa e diversificata di quanto egli pensasse. L’opera di Darwin resta esemplare e continua ad ispirarci. Ma l’evoluzione come oggi la intendiamo non può più essere definita col nome di darwinismo. Darwinismo ed evoluzione sono ormai due parole ben separate, anche se il darwinismo rappresentò una delle origini della riflessione sull’evoluzione». 

Quale le pare oggi la più grande sfida per la conoscenza della preistoria? 

«Credo sia proprio una migliore comprensione delle modalità dell’evoluzione. Sappiamo che l’evoluzione è una realtà. Ma non conosciamo tutti i meccanismi che essa utilizza per realizzarsi. La biologia, la genetica e la paleontologia hanno ancora molte ricerche da compiere per approdare a una comprensione collaudata e condivisa». 

Nel suo libro in uscita in Italia, lei si sofferma anche sul pensatore e scienziato gesuita Pierre Teilhard de Chardin. In che senso, la sua lezione resta attuale? 

«Sono molti gli aspetti attuali della sua riflessione. Teilhard fu grande innanzitutto perché seppe ben percepire la continuità della storia dell’universo, della Terra, della vita e dell’uomo. Ma anche perché intuì e anticipò l’evoluzione dell’umanità con le sue odierne reti. Del resto, potremmo benissimo chiamare internet 'noosfera'. Merita di essere riletto e meglio compreso». 




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lunedì 13 settembre 2010

l’Unità 13.9.10
La scuola precaria
di Mila Spicola

Metto subito le mani avanti: non sarò obiettiva. Ci sono gli ultimi miei tre anni nella manifestazione di ieri. 12 settembre 2010, appuntamento alla stazione centrale di Palermo, alla volta di Messina, per “occupare lo Stretto” a difesa della scuola, a difesa della Sicilia, a difesa del lavoro. («Emma, ma come cavolo lo occupi lo Stretto? Che faremo? Ci buttiamo a mare?») A difesa di tutto quello di bello e giusto ci venga in testa quando intorno di bello e giusto ne vediamo sempre meno a Palermo, in Sicilia. In Italia. Un ponte, un simbolo: il ponte che non s’ha da fare, quello di cemento e quello che s’ha da ricostruire: la solidarietà. Ci ritroviamo lì alle 7.30 una domenica mattina, alla spicciolata, e la retorica sparisce all’istante. Ecco Luigi Del Prete, laurea in filosofia, precario napoletano, “emigrato” per amore a Palermo, Dario Librizzi, calato giù dalle montagne madonite, storico dell’arte, precario anche lui, ecco Barbara Evola, la “donna megafono”, e poi a Messina ci aspettano “gli altri”, ci conosciamo quasi tutti: Emma Giannì, di Sciacca, una delle organizzatrici di questa giornata, Claudia Urzì, la pasionaria di Catania, Antonella Vaccaro, che è arrivata con gli altri da Napoli.. E poi..Sul pullman monta la solita discussione: «Voi del Pd» e «Voi del Cps» e «Voi altri di Sel»... per poi finire a litigare ferocemente di valutazione dei ragazzi, di meritocrazia, di formazione permanente dei docenti. La valutazione dei docenti: questo vuole l’opinione pubblica, no? Ma come valutare il merito di un ragazzo e di conseguenza del suo professore? Non sarebbe meglio un rigore estremo nella formazione degli insegnanti, un aggiornamento continuo ma adeguato? Mi replica Luigi. Non gli aggiornamenti astrusi e astratti, ma sulla gestione dei conflitti, sui nuovi linguaggi, sul mondo globale. Siamo gente di scuola noi, precari o non precari, noi sì che possiamo accapigliarci su queste cose, altri, no, vi prego no. Intorno la scuola si sfalda, mentre studiano il pelo della valutazione.
Gli ultimi due anni di proteste solitarie ci scorrono come un sottotesto: «Quanti saremo secondo te?». A differenza delle tante altre volte, ci confortano i pullman prenotati. Cinque da Palermo, tre da Trapani, ogni provincia è coperta. Mi piace l’idea di veder gente nuova, mi piace meno l’idea della “protesta dei precari”. È la scuola che è precaria, lo dico e lo ripeto, ce lo ripetiamo da mattina a sera. Dobbiamo convincere la casalinga di Mestre, mica noi stessi.
Antonella mi racconta che a Sciacca si è formata una classe di prima liceo scientifico di 38 ragazzi con disabile annesso. Ho gli occhiali da sole e non mi vergogno a dire che mi spuntano le lacrime. Anch’io nel 1980 iniziai il ginnasio in una classe di 33, ci siamo maturati in 16 dopo cinque anni. È questo quello che vogliamo? Una bidella, ops, “personale ata”, mi racconta di una scuola con le porte divelte. Nulla di nuovo sul fronte occidentale: ho trascorso un anno intero in una delle mie classi senza porta. Ma a chi frega? La colpa sarà comunque di un insegnante fannullone. Siamo a Messina. Sul molo, di fronte agli imbarcadero. Tanti, tantissimi. A grappoli come in un film di Gianni Amelio. La scuola s’è desta? Resta da svegliare gli italiani.

l’Unità 13.9.10
«Prepariamo il risveglio italiano». E sfida il governo su scuola, lavoro, ricerca, fisco, immigrazione
Bersani mobilita il partito: «Il governicchio non durerà»
di Simone Collini

Comizio affollato e applaudito
per concludere la Festa del Pd a Torino. Bersani attacca il «governicchio», lo sfida sulle elezioni e sui temi concreti: precariato, scuola, lavoro, fisco. «Il voto? Sono loro ad aver paura».

Attacca il premier, sfotte la Lega, invita gli alleati a smetterla di prendersela col Pd per far vedere quanto sono antiberlusconiani e ricorda agli stessi compagni di partito che in un “collettivo” ognuno deve caricarsi delle proprie responsabilità: “Non accetterò che ci si tiri la palla in casa, se la palla è di là nel loro campo”. Ma soprattutto, Pier Luigi Bersani chiude la Festa democratica di Torino parlando delle proposte del Pd per determinare quel “risveglio italiano” di cui c’è bisogno dopo questi anni di cura berlusconiana: “Perché sia chiaro, siamo un partito di governo momentaneamente all’opposizione”.
Piazza Castello è gremita di gente, “rimbocchiamoci le maniche” è lo slogan che campeggia sul palco. Bersani si arrotola le sue prima di avvicinarsi al microfono, poi comincia a parlare e scatta forte l’applauso quando promette una “opposizione durissima contro questo governicchio”, si levano risate quando dice che la Lega, “quella della spada che non conosce fodero, ormai fa da sottovaso al Cavaliere”, partono fischi all’indirizzo di Berlusconi quando, dopo aver dedicato la conclusione della Festa ad Angelo Vassallo, Bersani critica duramente il comportamento del premier di fronte all’uccisione del sindaco di Pollica per mano di “bestie criminali”: “Il Parlamento europeo gli ha dedicato un minuto di silenzio, il nostro presidente del Consiglio non ha trovato una parola per lui”. E poi è un boato quando il segretario del Pd sfida Berlusconi e Bossi: “Ma se abbiamo cosi paura noi, perché ve le siete rimesse in tasca voi le elezioni? Quando ci sarà il voto anticipato, perché tutti lo vedono che tre anni sono troppo lunghi, noi comunque saremo pronti”.
L’immagine, dopo oltre un’ora di intervento e applausi, è che c’è un leader di partito e c’è un popolo che vuole darsi da fare. Bersani si appella al senso di responsabilità del gruppo dirigente, quella quarantina di personalità sedute sul palco dietro di lui e tutti gli altri che a Torino non sono venuti. Perché presto o tardi che si vada alle urne, il Pd ci dovrà arrivare senza bastoni tra le ruote e avendo saputo trasformare questa voglia di partecipazione in forza organizzata. “Non possiamo più guardarci la punta delle scarpe, abbiamo scelto di non essere un partito personale perché non crediamo in una democrazia personale”, dice annunciando per l’autunno “una grande mobilitazione” e invitando chi ha responsabilità di partito a “muoversi assieme, combattere assieme, rimboccarsi le maniche tutti assieme”. Di fronte alla “crisi conclamata del centrodestra” e in un momento come questo in cui “l’immagine dell’Italia all’estero è devastata”, ora che “Berlusconi e la Lega hanno lasciato il Paese senza un’idea di futuro, gli hanno rubato l’orizzonte”, con “il berlusconismo che ha accompagnato lo scivolamento dell’Italia, ha favorito la disarticolazione del Paese e ne impedisce la riscossa”, è il messaggio che vuole lanciare, sta all’opposizione dimostrarsi un’alternativa credibile. Ribadisce che la soluzione migliore sarebbe un breve governo di transizione che porti a una nuova legge elettorale per poi andare alle urne. Ma anche che il Pd è pronto, lavorando per dar vita a un “nuovo Ulivo”: “Meccanismi di alleanza non affidabili come l’Unione non li vogliamo più”.
Per questo presenta una sorta di manifesto del Pd, fatto di proposte sul fisco (meno tasse su lavoro e impresa e maggior carico su rendite e patrimoni), immigrazione (cittadinanza italiana per i figli di immigrati), innovazione, ricerca, lavoro. Un tema a cui tiene molto. A Tremonti, nel giorno dopo la drammatica morte dei tre operai di Capua, dice che le normative sulla sicurezza non sono affatto “un lusso”. E al governo, che lavora per dividere i sindacati, dice: “C’è molta tensione in giro. Se un governo accende i fuochi, chi li spegnerà?”.

Repubblica 13.9.10
Il pdl sotto il 30% a sinistra giochi aperti
di Ilvo Diamanti

Le difficoltà del Cavaliere riflettono la crescente sfiducia nel governo: undici punti in meno in tre mesi
L´Udc tiene ma non cresce e non pare in grado d´imporre l´alternativa di Centro Pd, Bersani regge

L´orientamento degli italiani, in questa fase, appare piuttosto disorientato. Riflesso del disordine che attraversa il sistema politico. Il sondaggio dell´Atlante politico di Demos condotto nei giorni scorsi fornisce, al proposito, molte tracce interessanti.
E una chiave di lettura: l´origine del disordine è, soprattutto, Silvio Berlusconi. Da 16 anni punto di riferimento – attrazione e divisione - del sistema partitico e degli atteggiamenti sociali. Oggi appare in difficoltà, insieme al PdL. Non solo in Parlamento, dove i numeri non garantiscono più la maggioranza (certa) alla maggioranza. Anche fra gli elettori. Il PdL, infatti, aveva conquistato il 37% alle elezioni del 2008. Ora, nelle stime di voto, è sceso appena sotto al 30%. Così il Pd, attestato un poco oltre il 26%, in questa corsa all´indietro fra i partiti maggiori, ha ridotto il distacco. Lega e IdV, gli alleati-concorrenti, non si sono rafforzati. La Lega si mantiene intorno all´11%. Ma, rispetto alla precedente rilevazione di giugno, appare in lieve calo. Mentre i consensi all´IdV, negli ultimi mesi, si sono ridotti in modo vistoso (circa 3 punti rispetto a giugno). Il fatto è che sul mercato elettorale si sono affacciati altri leader e partiti, che, secondo l´Atlante, ottengono consensi crescenti. Fini, Vendola e Grillo. FLI, SEL, il Movimento 5 stelle. Così il gioco politico è divenuto più competitivo. E, come abbiamo detto, più instabile. Prima causa, il declino elettorale del PdL e il parallelo appannarsi dell´immagine di Berlusconi. La cui condotta, in questa fase, è giudicata almeno "sufficiente" (con un voto pari o superiore a 6) dal 37,6% degli italiani. Si tratta della valutazione peggiore nella storia di questo governo: 5 punti meno di tre mesi fa, 10 rispetto alla rilevazione dello scorso febbraio.
I dati dell´Atlante di Demos suggeriscono, al proposito, alcune spiegazioni.
1. Le difficoltà del PdL e di Berlusconi, in questo momento, riflettono, anzitutto, la crescente sfiducia nel governo. Oggi ha l´approvazione del 30% degli elettori: 11 punti meno di tre mesi fa. Il minimo da quando è cominciata la sua esperienza. Certo, neppure l´opposizione gode di buona salute. Ma questa non è una novità. Semmai un´aggravante, per la maggioranza. Peraltro, anche il giudizio nei confronti delle politiche del governo è negativo. Soprattutto riguardo alle tasse, al federalismo ma in particolare alla disoccupazione. Vero fattore di depressione sociale. Migliore appare il giudizio sull´azione di contrasto alla corruzione (forse per "merito" delle dimissioni di alcuni ministri) e alla crisi economica. Ciò giustifica il consenso verso Tremonti. Il quale ha perduto oltre 6 punti di gradimento negli ultimi mesi, ma resta, comunque, il più apprezzato, tra i leader politici. Molto più del premier.
2. Il sostegno a Berlusconi e al PdL è complicato anche dal conflitto con Fini e con FLI. Certo, Fini ha perduto molta della fiducia di cui disponeva in passato. Ma è, comunque, ancora molto popolare (41,7% di giudizi positivi). E la sua formazione politica, il FLI, nelle stime elettorali, ha superato il 6%. Attingendo voti da centro-sinistra, ma anche da destra. Dove intercetta il consenso di molti "vecchi" elettori di AN che non hanno mai accettato l´ingresso nel PdL. Il partito del premier, dunque, paga la delusione dei settori più tiepidi della propria base e il disamore dei nostalgici di AN. Non a caso, il PdL pare tornato al livello di consensi elettorali ottenuti nel 2001 da Forza Italia. Da sola.
3. Sulla sfiducia verso il premier e il principale partito di governo pesa anche la sensazione di instabilità politica, in un momento particolarmente grave per l´economia. Infatti, la maggioranza (per quanto ridotta) degli elettori pensa – realisticamente –che la legislatura finirà prima della scadenza. Per colpa di Berlusconi.
4. Parallelamente, si percepisce un certo fastidio per il divario abissale tra i problemi della società (soprattutto il lavoro) e i temi del dibattito politico - imposti dal governo e dal premier. La polemica con Fini, il conflitto infinito con la magistratura. Verso cui, non a caso, cresce sensibilmente la fiducia dei cittadini. Mentre il consenso nei confronti del Presidente Napolitano (80%) testimonia quanto sia ampia, nella società, la domanda di stabilità e di moderazione. In questa fase precaria ed esagerata.
5. La Lega, per la prima volta dopo tanto tempo, perde qualcosa nelle stime elettorali. La tecnica di presentarsi come partito di opposizione e di governo, praticata dalla Lega con grande abilità, forse, comincia a logorarsi. E a logorare. D´altronde, è difficile partecipare a un governo impopolare senza venirne, in qualche misura, contagiati. Chiamarsi dentro e fuori, a seconda del momento. Reclamare il voto un giorno sì e l´altro anche. Senza far seguire alle minacce comportamenti coerenti. Rischia di far perdere credibilità. Anche il federalismo, evocato e invocato, dalla Lega. Non si sa quando e se arriverà. Ed è visto come un pericolo da metà del paese. Il Sud. Dove la Lega non prende voti. Ma il PdL sì.
6. Questo clima di instabilità coinvolge anche il resto dello schieramento politico. L´Udc tiene. Ma non cresce. Non pare in grado di imporre l´alternativa di Centro. Perché il Centro, da solo, non è ancora alternativo. Costruire il Partito della Nazione, insieme a FLI, API e altri soggetti, come ha annunciato Casini, potrebbe allargare la concorrenza, invece dei consensi.
Anche a Centrosinistra il gioco è aperto. Soprattutto a Sinistra. Dove il Movimento 5 stelle di Beppe Grillo e il Sel di Nichi Vendola fanno concorrenza soprattutto a Di Pietro. Il quale, per la prima volta, dopo molti anni, perde consensi, nelle stime elettorali.
7. Nel centrosinistra, la competizione si è aperta anche per quel che riguarda la leadership. Bersani, tutto sommato, tiene. Ma in testa alle preferenze degli elettori di Centrosinistra oggi troviamo Vendola e Chiamparino. Praticamente alla pari. A ridosso di Tremonti (anch´egli candidato alla leadership. Del Centrodestra). Un buon segnale in vista delle primarie annunciate, in caso di elezioni. Se saranno primarie vere…
In generale, come diceva qualcuno prima di noi, c´è grande disordine sotto il nostro cielo. Annuncia grandi cambiamenti. Non è detto che le cose, in seguito, andranno meglio. Ma peggio di così ci pare francamente difficile.

Repubblica 13.9.10
Lo schema di alleanze di Bersani: no a Rifondazione. Pd, Idv, Sel e Udc per l´alternativa a Berlusconi
E il segretario traccia il Nuovo Ulivo "Vendola e Di Pietro, poi Casini"
di Goffredo De Marchis

"Nichi e Tonino devono rinunciare ai veti, alle esclusioni. Questa è la nostra offerta"
"Le primarie? In grado di farle anche in pochi giorni, anche se si votasse tra 3 mesi"

TORINO - La camicia bianca da strizzare dopo due ore sotto il sole, Bersani spiega lo schema di alleanze che ha in mente. «Nel Nuovo Ulivo per me ci sono Vendola e Di Pietro». E la bacchettata assestata all´ex pm? Il segretario, davanti alla sua gente, ha ammonito l´Idv: «Finiamola coi giochetti del tipo che per far vedere quanto si è contro Berlusconi uno se la prende col Pd». Un monito, dice Bersani nel salottino dietro al palco riservato ai dirigenti. Ma Di Pietro, nel Nuovo Ulivo, c´è. Ossia, in un patto di governo vero e proprio che vada oltre le alleanze democratiche tutti dentro e l´idea di un governo di transizione rilanciata alla Festa di Torino ma oggi non più dietro l´angolo.
A Tonino e al governatore della Puglia Bersani propone però un patto più stringente. «Vanno unite le opposizioni, come si fa in tutti i Paesi del mondo. Non si vede perché in Italia dovrebbe essere diverso. Per questo sia Nichi sia Di Pietro si devono convincere a venire con noi per proporre un´alleanza programmatica a Casini. A loro bisogna dire di rinunciare ai veti, alle esclusioni. Questa è la nostra offerta». La variabile Casini, il suo interesse alla costruzione del terzo polo, Bersani non la sottovaluta affatto. «Ma anche lui prima o poi dovrà dare una risposta a un progetto serio e compiuto».
In questo schema il ritorno all´Unione è visto come il fumo negli occhi. «Una formula inaffidabile», taglia corto Bersani. «Rifondazione, con il Nuovo Ulivo, non c´entra. Non interessa né a noi né a loro. Si può fare un discorso sulla legge elettorale e sui paletti legati alla Costituzione, questo è il massimo. Ma tra Ferrero e l´ipotesi di governo esiste un muro invalicabile».
L´alternativa è un ballo a quattro: Pd, Idv, Sel e Udc. Quadro difficile da comporre, ma secondo Bersani non impossibile. Le primarie sono uno spartiacque, la condizione che Vendola ha messo in cima alla lista. E Bersani spalanca il portone: «Le primarie si faranno. Siamo in grado di organizzarle anche in pochi giorni, anche se si votasse tra tre mesi», garantisce. Prima però viene il programma. E le alleanze. Dopo, il voto nei gazebo. Dice il bersaniano Filippo Penati: «Il Pd non può essere solo il partito delle primarie. Bene ha fatto Pier Luigi a mettere al centro il lavoro e la legalità».
Il discorso di ieri fa parte del lungo cammino di Bersani verso la candidatura a premier. «E´ pronto a correre per Palazzo Chigi, mi sembra il succo», dice Andrea Orlando. Ma la partita è davvero agli inizi. I concorrenti continuano a essere una folla: Vendola, un esterno ai partiti come chiede Di Pietro, Veltroni e la sua voglia di riprovarci, Sergio Chiamparino che sul palco abbraccia il segretario, ma non rinuncia alle sue ambizioni. «Mi è piaciuto il discorso - dice il sindaco torinese - . La discussione continua». Bersani, spiega il primo cittadino, ha parlato ai suoi militanti e lo ha fatto bene. «Poi bisogna parlare a quelli che in piazza non c´erano». Sulle primarie la sua rinuncia è lontana. Un punto gli ha sollecitato l´abbraccio più di altri. «Il no all´Unione mi sembra chiaro, netto. Questo è molto importante».
Adesso il Pd è chiamato a lavorare su due fronti. La costruzione di un´alleanza complicata. E la speranza di una crisi di governo per andare all´esecutivo di transizione. «Su Bossi - annuncia il segretario - non mollo. Voglio far capire a lui e alla sua gente che non possono stare in quel pateracchio». Sia per l´uno che per l´altro obiettivo bisogna continuare a non entrare nei dettagli della legge elettorale. «Preferenze e nascita di un bipolarismo europeo e più civile», indica Bersani dal palco. Non cita modelli, non offre soluzioni chiuse. Anche perché il Pd adesso si prepara a un´altra stagione di opposizione dura.

Repubblica 13.9.10
Il Pdl scende sotto il 30% Finiani in forte crescita Sfida Tremonti-Vendola
Tra i leader Chiamparino stacca Fini
di Roberto Biorcio Fabio Bordignon

Rilevazione di Demos&Pi Futuro e Libertà mostra appeal soprattutto tra i 30-50enni e al Sud: attrae elettori di centrosinistra
Il Movimento 5 Stelle di Grillo tocca su scala nazionale il 3,6 e pesca a piene mani nel serbatoio dell´Italia dei Valori

Le turbolenze che attraversano la maggioranza e le parallele difficoltà dell´opposizione favoriscono, in questa fase, la domanda di cambiamento, che tocca sia i leader sia i partiti. In testa alla graduatoria delle figure politiche più apprezzate troviamo Tremonti (46%), secondo molti vero Presidente del Consiglio - d´altronde, Berlusconi si ferma otto punti più in basso. A pochissima distanza, il governatore pugliese Vendola (46%) e il sindaco di Torino Chiamparino (45%): figure che, in modo diverso, esprimono le istanze di rinnovamento emerse nell´area di centro-sinistra. A seguire, Fini che, nonostante il calo degli ultimi mesi, mantiene una posizione di rilievo (42%). E, nelle intenzioni di voto, le novità più interessanti sono fornite proprio dalle formazioni di Fini e Vendola, assieme al movimento di Grillo.
La neonata compagine di Futuro e Libertà per l´Italia, non ancora vero partito, supera già il 6%, con flussi in entrata provenienti soprattutto dal PdL (in calo dal 33.2 al 29.8%) e dalla zona grigia dell´incertezza e dell´astensione. Il suo elettorato somma componenti piuttosto eterogenee. Un nucleo di centro-destra (soprattutto di destra) che raccoglie i sentimenti di insofferenza verso il berlusconismo provenienti da quest´area. Ma anche una rilevante frazione di elettori di centro-sinistra, affascinati dal nuovo progetto e attenti al ruolo assunto da Fini. Tale trasversalità oggi premia l´ex leader di AN, ma in futuro potrebbe trasformarsi in un limite, nel momento in cui si delineerà con maggiore chiarezza la collocazione di FLI nell´offerta politica. Per ora, la formazione "futurista" è guardata con particolare interesse da persone con elevato livello d´istruzione e di età centrale (35-54 anni). La sua distribuzione territoriale appare piuttosto bilanciata, sebbene (coerentemente con il profilo dell´attuale gruppo parlamentare) la sua anima di destra sia radicata prevalentemente nel Mezzogiorno.
Nell´area di centro-sinistra, i fenomeni più interessanti sono costituiti dai risultati di SEL e del Movimento 5 Stelle. Il partito di Vendola, favorito dalla crescente visibilità (e popolarità) del governatore pugliese, guadagna oltre un punto rispetto a giugno, arrivando a sfiorare il 5%. Sottrae significativi consensi al PD (sostanzialmente stabile al 26.5%), ma anche all´IdV, catalizzando il voto di persone residenti nel Sud, con titolo di studio elevato e bassa pratica religiosa. Il movimento di Grillo, autentica sorpresa alle recenti regionali, sembra potersi ripetere a livello nazionale: i risultati del sondaggio lo collocano al 3.6%. Coerentemente con la sua natura di movimento nato sul web, presenta un elettorato giovane, istruito, residente nel Centro-Nord. Gestisce la protesta antipolitica, con modalità e contenuti che attirano ex-elettori del Pd e, in particolare, di Di Pietro. E´ proprio il partito dell´ex-magistrato (in pochi mesi dall´8.1 a 5.5%) a soffrire più di ogni altro l´emergere delle nuove opposizioni.

Corriere della Sera 13.9.10
La tentazione dei veltroniani: gruppi parlamentari autonomi
L’ex leader ha riunito i fedelissimi l’8 settembre e citato l’esempio di Fini
di Maria Teresa Meli

ROMA — Lui, Walter Veltroni, non c’era. E mancavano anche molti parlamentari che fanno riferimento all’ex leader del Pd. Non erano assenze casuali quelle alla festa di Torino, nel giorno del discorso di Pier Luigi Bersani.
I veltroniani si sentono sempre più lontani da questo Partito democratico in cui fanno fatica a riconoscersi. Se lo sono detti, una volta tanto senza infingimenti, né furbizie politiche, l’otto settembre, in una riunione dei parlamentari convocata dall’ex segretario nella sede della sua fondazione, Democratica. E per la prima volta in quella sede si è parlato dell’ipotesi di dare vita a dei gruppi parlamentari a ut o nomi. Un’operazione simile a quella fatta da Gianfranco Fini. E infatti Veltroni ha citato proprio l’esempio del presidente della Camera e di «Futuro e libertà».
Del resto, con il riavvicinamento del capogruppo a Montecitorio Dario Franceschini e di Piero Fassino alla maggioranza, la battaglia interna rischia di diventare un’aspirazione vana. Sono pochi quelli che hanno un seggio o un incarico da difendere che accettano di stare in minoranza e non si acconciano a dei compromessi con i bersaniani. Sia chiaro, ancora non c’è niente di definito. Si aspetta la Direzione convocata per la seconda metà di settembre e si cerca di capire se il Pd cambierà rotta o se, invece, proseguirà lungo il solco tracciato da Bersani e D’Alema. Ma che non si tratti solo di chiacchiere lo dimostra il fatto che sono stati già presi in esame i possibili nomi dei nuovi gruppi parlamentari. All’ex segretario non dispiace «Innovazione e Riformismo». Nel corso di quell’incontro, però, più d’uno ha sollevato qualche obiezione su questo nome. La parola «riformismo», è stato osservato, non ha molto appeal in Italia ed è un concetto non prontamente comprensibile in un Paese come il nostro. Meglio «Democratici per la libertà» che esprime un messaggio molto chiaro: siamo noi il vero Pd.
I numeri per fare un gruppo alla Camera e un’analoga pattuglia parlamentare al Senato ci sono. Quindi non è questo il problema. Lo è invece la durata della legislatura perché una precipitazione degli eventi renderebbe difficile l’intera operazione. Ma in quella riunione si è parlato anche d’altro. Delle primarie per la scelta del candidato premier del centrosinistra, per esempio. Il voto per Bersani è escluso, mentre è stato preso in considerazione un eventuale ticket Chiamparino-Vendola, come possibile tandem per affrontare il centrodestra nelle prossime elezioni.
Certo, è chiaro a tutti, e per primo allo stesso ex segretario, che la decisione di creare dei gruppi autonomi avrebbe dei contraccolpi inevitabili nel partito. Il nome di Veltroni è legato indissolubilmente al Pd. Lui ne è stato il primo segretario, lui ne parlava anni e anni fa, quando quel progetto veniva visto come un azzardo irrealizzabile dai suoi colleghi dei Ds. La mossa di Fini è niente in confronto, piuttosto sarebbe come se dal Pdl prendesse le distanze Silvio Berlusconi.
Dei contenuti di quella riunione è trapelato poco o niente. All’esterno del partito, almeno, perché dentro il Pd qualche eco di quell’incontro ha raggiunto anche gli esponenti della maggioranza dalemian-bersaniana. E ora diventano più comprensibili le parole che diceva l’altro giorno a un ignaro senatore il vice capogruppo a palazzo Madama, Nicola Latorre: «Vedrai che adesso Veltroni cercherà di fare come Fini, la sua strada è sempre più lontana dalla nostra».

Repubblica 13.9.10
Se il potere si apre alla società civile
La buona politica e la società civile
di Gustavo Zagrebelsky

Troppo scarsa l´attenzione alle forme di associazione spontanea e volontaria che si occupano della collettività. Cambiare la legge elettorale costituisce un´autentica emergenza
Nella lezione tenuta alla Festa del Pd i rischi che sono di fronte alle democrazie di oggi. I pericoli maggiori vengono dalle derive populistiche e dalle chiusure di casta

Pubblichiamo ampi stralci della "Lezione sulla democrazia" che Gustavo Zagrebelsky ha tenuto sabato alla Festa del Partito Democratico a Torino

"Politica" è una parola bastarda. Ha molti padri e madri. Non è sempre la stessa cosa. Dipende da chi la genera e per che cosa.
Per chiarire, mi avvalgo d´una citazione di George Orwell. Nel 1948, scriveva (in Writers and Leviathan): «Questa è un´epoca politica. La guerra, il fascismo, i campi di concentramento, i manganelli, le bombe atomiche sono quello a cui pensare». Se non si parlava di campi di sterminio e di genocidio, era per la diffusa ignoranza di ciò che era effettivamente accaduto nel cuore dell´Europa. Auschwitz sarebbe in seguito assurto a simbolo di una certa concezione della politica. Il che è certo molto imbarazzante per la politica stessa.
Questa visione della politica è terrificante. Ha come madre la potenza sopraffattrice, nelle relazioni tra i popoli e tra parte e parte, tra i dominatori e gli oppressi, all´interno dei popoli. L´uso di categorie primordiali come, ad esempio, quelle di amore e odio, per dividere il campo dell´agone politico, sono il riflesso di questa concezione della politica basata sulla malevolenza tra gli esseri umani.
La concezione opposta della politica è espressa in una frase di Aristotele. Se là la politica è violenza e prepotenza, qui «compito della politica pare essere soprattutto il creare amicizia» tra cittadini, cioè legame sociale (Etica Eudemia, 1234 b).
Con le parole di Hannah Arendt (Was ist Politik? - inediti del 1950, pubblicati nel 1993, trad. it. Che cosa è la politica? Torino, Comunità 2001, pp. 5 ss.), ciò che è proprio di questa concezione della politica è l´essere collocata infra, in mezzo, tra le persone. La virtù politica è propria di coloro che amano stare "con" le altre persone, non "sopra", nemmeno "accanto" o, peggio, "altrove"; di coloro che conducono la loro vita insieme a quella degli uomini e delle donne comuni, stando dentro le relazioni personali e di gruppo, quelle relazioni che, nel loro insieme, fanno, di una semplice somma d´individui, una società. Chi disdegna stare con le persone comuni, credendosi diverso, e il suo cuore batte piuttosto per i salotti, le accademie, le fondazioni culturali, le tavole rotonde, gli studi televisivi, potrà certo essere un´ottima persona. Ma non è adatto alla politica in questo senso. Ciò è così vero che, proprio gli uomini politici più distanti dalla vita della gente comune, che disprezzano, fanno a gara nel dar prova di atteggiamenti populistici e volgari, per far mostra d´essere uguali agli altri, "uno di loro"; in realtà offendendoli e insultandoli, nel momento in cui le trattano non come cittadini ma come plebe.
Forse non abbiamo mai pensato che tra tutti i regimi politici, la democrazia è l´unico che presuppone amicizia tra governanti e governati. I regimi autocratici o oligarchici, comportano separazione che, nel caso migliore, si traduce in indifferenza, in quello peggiore, in inimicizia e avversione. Solo la democrazia vive e si alimenta di un circuito di reciproca fiducia che può esistere solo a condizione che i governanti non si costituiscano in classe separata, solo a condizione che i cittadini comuni non li vedano come cosa diversa da sé.
Che significa classe separata? Innanzitutto che, una volta entrati in uno dei luoghi della politica, si sia acquisito il diritto di non uscirne mai più, fino a quando provveda la natura. I ceti o le caste delle società premoderne erano stratificazioni sociali alle quali si apparteneva dalla nascita alla morte. Oggi, al ceto politico di regola non si appartiene per diritto di nascita, anche se non manca, anzi si moltiplicano i casi di nepotismo, di familismo e di trasmissione ereditaria delle cariche politiche. In politica oggi, di norma, "si entra", o, come si dice autorevolmente, "si scende" (una volta si sarebbe detto "si sale" o si "ascende"), ma, una volta entrati non se ne vuole più uscire. Se proprio occorre lasciare un posto, ce n´è sempre un altro cui aspirare e che ci attende. Oggi quello che importa è entrare in un giro di potere. A che "giro" appartiene? ci chiediamo, vedendo qualcuno che "gira", per l´appunto, da un posto all´altro. Quando entri in un giro, non ne esci più, a meno che tu abbia tradito le aspettative di chi ti ci ha messo.
Questa è la separazione: tra chi, in un giro del potere, c´è e chi non c´è. E volete che chi non c´è non si senta mille miglia lontano da chi vi è dentro? Che non si consideri appartenere a un altro mondo? E, all´opposto, possiamo credere che chi è dentro non consideri chi è fuori un potenziale pericolo, un´insidia per la propria posizione acquisita, e non faccia di tutto per restarci aggrappato, impedendo accessi non graditi al proprio giro chiuso o, almeno, per gestirli secondo propri criteri, in modo che gli equilibri acquisiti non siano scossi? Ma questa è la sclerosi della politica. Quando si sente dire che occorre promuovere il rinnovamento della classe dirigente e, per questo, bisogna "allevare" nuove leve politiche, il linguaggio – l´allevamento - tradisce perfettamente l´orizzonte culturale in cui si pensa debba avvenire il cosiddetto "ricambio", quel ricambio che tutti a parole dicono necessario ma che, secondo l´idea dell´allevamento, è perpetuazione dello status quo che produce cloni.
Di quest´atteggiamento di separatezza e, in definitiva, di inimicizia, testimonianza eloquente è l´atteggiamento del mondo politico nei confronti della cosiddetta "società civile", un´espressione e un concetto che non ha mai goduto di buona fama, soprattutto a sinistra. Questa è una lunga storia che sarebbe da ricostruire interamente, a partire da quando, dopo la Liberazione, effettivamente la pretesa dei partiti di rappresentare tutto ciò che di "politico" vi era da rappresentare, era giustificata. Ma oggi? Oggi, una società civile è difficile negare che esista. Dobbiamo capirci. Assai spesso – per squalificarne il concetto stesso – la si intende come "i salotti" dove s´incontrano persone disparate che presumono d´essere élite del Paese e si auto-investono di chissà quale compito salvifico, o come lobby più o meno segrete o gruppi d´interesse settoriale che curano i propri affari, legalmente e talora anche illegalmente tramite corruzione o collusione. Da tutto ciò, che ha niente a che fare con la democrazia, la politica dovrebbe guardarsi. Da questa "società civile", piuttosto "incivile", chi si occupa di politica dovrebbe cercare di stare lontano, il più possibile.
Ora, chi vuole difendere il circolo chiuso della politica e i suoi sistemi di cooptazione demonizza la società civile identificandola con questi ambienti. Ma è un´operazione che sa di diversivo, cioè di tentativo di spostare l´attenzione su un falso obiettivo, effettivamente indifendibile.
La società civile esiste, ma è un´altra cosa: è l´insieme delle persone, delle associazioni, dei gruppi di coloro che dedicano o sarebbero disposti, se solo ne intravedessero l´utilità e la possibilità, se i canali di partecipazione politica non fossero secchi o inospitali, a dedicare spontaneamente e gratuitamente passione, competenze e risorse a ciò che chiamiamo il bene comune. Quante sono le persone, singole e insieme ad altre, che a partire dalle tante e diverse esperienze, in tutti gli ambiti della vita sociale, a iniziare dai più umili e a diretto contatto con i suoi drammi e le sue tragedie, sarebbero disposte a dare qualcosa di sé, non per un proprio utile immediato, ma per opere di più ampio impegno che riguardano la qualità, per l´appunto civile, della società in cui noi, i nostri figli e nipoti si trovano e troveranno a vivere? Da quel che mi par di vedere, tantissime. Quando si parla di politica e di sua crisi, perché l´attenzione non si rivolge a questo potenziale serbatoio di energie? Non per colonizzarle, ma per trarne, rispettandone la libertà, gli impulsi vitali. In fin dei conti, sono questi "servitori civili", quelli che più di altri conoscono i problemi e le difficoltà reali della vita nella nostra società. C´è più sapienza pratica lì che in tanti studi accademici, libri, dossier che spesso si pagano fior di quattrini per rimanere a giacere impilati. Perché c´è così poca attenzione e apertura, anzi spesso disprezzo, verso questo mondo?
La risposta alla domanda formulata sopra è semplice: la scarsa attenzione, se non l´ostilità, dipende dalla difesa di rendite di posizione politica che sarebbero insidiate dall´apertura. Non c´è da fare tanti giri di parole: è la sempiterna tendenza oligarchica del potere costituito. Viene in mente la frase dell´abate Siéyès con la quale inizia il celebre libello "Che cos´è il terzo stato", un testo che contribuì a creare autocoscienza in chi allora – la Francia pre-rivoluzionaria – chiedeva riforme: "Che cos´è il terzo stato? Tutto. Che cos´è stato finora nell´ordinamento politico? Niente. Che cosa domanda? Diventare qualcosa". Noi potremmo tradurre: "Che cos´è la società civile? Molto. Che cosa è nell´ordine politico? Quasi nulla. Che cosa occorre che diventi? Qualcosa".
Sotto questo punto di vista, c´è oggi in Italia una specifica situazione d´emergenza politica e democratica, rappresentata dalla legge elettorale vigente, con la quale rischiamo di essere chiamati alle urne, nel momento in cui – col favore dei sondaggi- piacerà a chi di dovere. Questa legge sembra, anzi è, fatta apposta per garantire l´impermeabilità del ceto politico, la sua auto-referenzialità, per munire la sua separatezza. È una legge, nella sua essenza, dello stesso tipo di quelle vigenti nelle dittature di partito. Il fatto che non vi sia "il" partito, ma vi siano "i" partiti, non cambia il giudizio. La sua ratio, come direbbero i giuristi, può esprimersi così: dall´alto discende il potere e dal basso sale, o si fa salire, il consenso. Ma questa non è democrazia. E´, se si vuole," democratura", secondo la felice e, al tempo stesso orrenda, espressione dell´esule bosniaco Predrag Matvejevic. Col sistema elettorale attuale, i vertici dei partiti – tutti quanti – dispongono dell´intero potere di definire chi formerà la rispettiva corte in Parlamento. Non è poca cosa per loro e questo spiega il fatto che, a suo tempo, quando fu approvato, non ci sia stata una reazione adeguata. Il potere si è capovolto e cominciamo ad accorgercene. E ci accorgiamo di quanto ciò finisca per alimentare sentimenti, risentimenti e atteggiamenti anti-politici, da cui tutti, meno i demagoghi, hanno molto da perdere.
La ragione per non andare più a votare con questa legge elettorale non si riduce alla pur rilevantissima stortura ch´essa comporta: il fatto cioè che deputati e senatori siano nominati dall´alto, senza alcuna possibilità d´influenza degli elettori, altro che nel distribuire il numero di "posti" che spettano all´uno e all´altro partito, assegnati poi a questo o quello per beneplacito altrui. La posta è assai più grande: per i partiti è il dilemma tra l´apertura alla società o la chiusura; per i cittadini tra la politica e l´antipolitica, tra la partecipazione e l´esclusione politica, tra la fiducia nella democrazia e il risentimento contro la democrazia.
Quando parliamo di democrazia, però, non pensiamo solo a partiti, elezioni, parlamenti, governi, e cose di questo genere. In una parola, non pensiamo solo a forme e istituzioni politiche, cioè a tecniche di governo. Pensiamo anche a una sostanza della società.
Ora, la domanda da porre è se ci può essere democrazia come forma in una società non democratica. La risposta è sì. Ci può essere. Ma che genere di democrazia? La democrazia come tecnica di governo, innestata su una realtà sociale non democratica, non fa che amplificarne e moltiplicarne i caratteri non democratici o antidemocratici, rappresentandoli, generalizzandoli e, per così dire, rendendoli obbligatori per tutti. Per esempio, noi non diremmo certo che una società a maggioranza razzista e xenofoba è democratica. Questa società può senz´altro governarsi in forme democratiche, cioè la maggioranza può imporre per legge la sua visione del mondo razzista e xenofoba. Questo ci dice che la democrazia, intesa solo come forma di reggimento politico, non è affatto più tranquillizzante di altre. Sotto certi aspetti, anzi, fa più paura, perché ha dalla sua la forza del numero. Questo spiega il fatto che la democrazia può essere, o diventare, odiosa al pari e forse più di altre forme politiche. Ciò accade quando alla forma (democratica) del potere corrisponde una sostanza non democratica della società.
Ma che cosa è una società non democratica? In breve: una società in cui esistono discriminazioni e disuguaglianze, tali che una parte, per così dire, viva bene sopra un´altra che vive male e questa differenza alimenta odio e violenza. Usciamo dal generico: è una società dove qualcuno possa dire: "questa è casa mia" e tu sei un intruso ch´io posso escludere e respingere a mio piacimento; dove, se non ti "integri", cioè non ti rendi irriconoscibile nella tua identità, non hai diritto di cittadinanza; dove la povertà e il disagio sociale sono abbandonati a se stessi, nella solitudine; dove il lavoro non è considerato un diritto, ma solo un fattore dell´impresa subordinato alla sua logica e dove i disoccupati e i precari sono solo un accidente fastidioso di un "sistema" e non un problema per tutti; dove l´istruzione e la cultura sono riservati ai figli di coloro che possono; dove la salute è il privilegio di chi può permettersi d´affrontare le spese che la sua cura comporta. Noi avvertiamo queste discriminazioni in modo sempre più acuto. La povertà, l´insicurezza e la solitudine aumentano, anche se spesso hanno vergogna di mostrarsi, come bene sanno coloro che operano nei servizi sociali, pubblici e privati. Il divario tra chi può curare la propria formazione culturale e chi non può aumenta, e spesso si manifesta in questa forma odiosa e umiliante per il nostro Paese: chi può manda i suoi figli fuori dell´Italia. La disuguaglianza giunge a segnare i corpi, divide quelli bene curati e quelli degradati: addirittura lo stato dei denti è diventato, anzi ri-diventato qual era un tempo, segno di condizione sociale.
E noi vorremmo che tutto ciò non ingeneri inimicizia sociale? Sarebbe ingenuo sperarlo. E vorremmo che chi sta dall´altra parte della società, quella che dal basso guarda a quella che sta in alto, non nutra diffidenza, per non dire di più, verso una democrazia che accetta questa loro condizione? Una condizione che non giustifica certo, ma spiega il carattere violento dei rapporti anche quotidiani tra le persone, di chi si sente più forte sul più debole e del debole come reazione al forte, nelle infinte situazioni in cui quel divario può essere fatto valere, nelle famiglie, nella strada, nelle scuole, nelle fabbriche, nei rapporti tra uomo e donna, tra "normale" e "diverso", eccetera. È all´opera l´incultura della sopraffazione che è l´esatto opposto dell´ethos necessario alla democrazia.
Qui, nella denuncia della mentalità dilagante, nella difesa e promozione di una cultura della convivenza e nell´azione per contrastare l´incultura della violenza, c´è un compito che ci riguarda tutti, in quanto questa società non ci piaccia affatto. Ci riguarda come cittadini cui la democrazia sta a cuore come un bene cui non vogliamo rinunciare. Ma riguarda anche i cittadini che militano in partiti politici che hanno la parola democrazia nelle proprie ragioni fondative o addirittura nel proprio simbolo. Ecco un´altra buona ragione per abbandonare l´idea che la politica si faccia principalmente nelle stanze dei palazzi del potere o negli uffici delle burocrazie di partito, che il buon politico sia quello esperto di "scenari", alchimie, tattiche e strategie. Tutto questo è importante, ma non basta. Siccome non basta, abbiamo il dovere di chiederci: dove siamo quando nel nostro Paese si avvelenano i rapporti tra le persone, nelle tragedie dell´immigrazione come in quelle delle famiglie di senza-lavoro e nei drammi del lavoro senza sicurezza; nelle proteste per una scuola che affonda come nella tragedia di chi è colpito dalla forza scatenata della natura: nei nostri uffici o tra chi ha bisogno di solidarietà? Ecco perché è necessario stringere i rapporti tra partiti e società, abbandonare l´idea e le pratiche che fanno pensare che gli uni possano fare a meno dell´altra, e viceversa.

l’Unità 13.9.10
«Il totalitarismo può sempre tornare. Anche in Occidente»
La pensatrice che ha visto il nazismo e lo stalinismo da Mantova ricorda che il pericolo resta. Oggi teme anche l’islamismo estremo (non l’Islam)
Intervista ad Agnes Heller
di Maria Serena Palieri

È una testimone speciale del ‘900, quella che il Festivaletteratura di Mantova permette di incontrare, nelle sue giornate conclusive. Ebrea-ungherese, nata nel 1929, Agnes Heller è scampata alla Shoah e ha sperimentato sulla sua pelle lo stalinismo. Alla luce della sua esperienza concreta, signora Heller, ma anche della sua riflessione filosofica, quali sono analogie e differenze tra i due totalitarismi?
«Tutti i totalitarismi hanno una caratteristica specifica, una specie di bussola ideologica per distinguere ciò che è permesso e ciò che è fuorilegge. In comune nazismo e stalinismo avevano un partito totalitario e un leader che stabiliva cos'era lecito e cos'era vietato. La differenza era nel contenuto: per il nazismo erano gli ebrei il nemico da sterminare, per Stalin, che pure coltivava elementi antisemiti, il nemico pubblico numero 1 invece era quello di classe e, accanto, i trotzkisti. Il nazismo concedeva la proprietà privata ma impediva rapporti sessuali tra razze diverse, nell'Unione Sovietica al contrario potevi fare sesso con chiunque ma la proprietà privata era fuori legge. L'ideologia ti dice che esistono legalità e ciò che è fuori legge, poi a decidere cos’è il partito. Per stare all'oggi, in Iran l'opera lirica è vietata perché le donne che cantano sono considerate un pericolo, mentre con Stalin l'opera era permessa». Oggi è il fondamentalismo islamico la culla del nuovo totalitarismo? «Sì, però parlerei piuttosto di islamismo che ha ben poco a che vedere con l'Islam, così come Stalin con Marx e Hitler con Nietzsche. I dittatori si appoggiano ai testi per trarne ideologia».
Ma l'Occidente può considerarsi vaccinato da questa malattia mortale? «Per ora, sì. Ma il rischio potrebbe tornare in un futuro prossimo. È molto pericoloso pensare che abbia vinto la democrazia liberale e che siamo alla fine della storia. Perché il totalitarismo è moderno quanto la democrazia liberale».
Crede che nel berlusconismo ce ne sia un germe? «In realtà in Italia neppure con il fascismo di Mussolini avete fatto esperienza di un totalitarismo 'totale'. C'era un re, c'era la Chiesa. Non c'era un solo potere assoluto. Franco, in Spagna, era più totalitario, non concepiva contropoteri neppure piccoli, neppure deboli. Mussolini diventò così alla fine della sua parabola con la Repubblica Sociale. Ora, se un presidente è eletto, com'è da voi Berlusconi, non si può parlare di potere totalitario. A meno che una volta eletto non annulli le istituzioni stesse che l'hanno portato al potere....»
È ciò che il nostro presidente del Consiglio purtroppo ripete di desiderare... «Hitler fu eletto democraticamente, ma poi dichiarò fuori legge gli altri partiti e così si trasformò in un dittatore. In Russia c'era un'Assemblea costituente e quando Lenin la sciolse l'Urss si trasformò in stato totalitario».
A 21 anni dal crollo del Muro molti cittadini dell'ex-Est lamentano la perdita di una condizione coatta ma protetta: casa, scuola, salute, lavoro assicurati. Lei, cui l'Ungheria di Kadar aveva reso la vita e la ricerca intellettuale impossibile, se n'era andata una dozzina di anni prima, nel 1977, prima in Australia, poi a New York. Può dirci come visse l'espianto e il trapianto in Occidente a livello intimo, personale? «L'esperienza più profonda fu quella della libertà. Ero libera di andare alla posta e imbucare un manoscritto, libera di prendere un aereo. Mi sentivo più vicina a Vienna, la nostra porta sull'Occidente, dall'Australia che da Budapest. Perché a Budapest per andarci avrei dovuto aspettare un visto che non mi avrebbero mai concesso. L'Australia ha costituito la mia prima esperienza di democrazia liberale. Nel nostro dipartimento, all'università, potevamo discutere e organizzarci, darci le nostre regole e creare la nostra comunità. Ma il fatto è che in Australia c'era allora anche una società molto egualitaria, con una tassazione assai alta e sindacati forti. Il salario di un professore ordinario, pagate le tasse, non era perciò tanto più elevato di quello di un semplice associato. C'era molto egualitarismo, dunque non c'era spazio per il rampantismo. Che senso aveva sgomitare per guadagnare 120 dollari in più al mese? L'Australia di allora assomigliava molto alla Svezia di oggi. Ora so che le cose sono cambiate, ma non vivo più lì».
A due decenni dalla fine del socialismo reale, nel pieno della crisi creata dal “turbocapitalismo”, si riparla di Marx. È il caso di riprendere in mano la sua cassetta degli attrezzi?
«Il problema non mi sembra sia nel capitalismo in sé. Che non è il diavolo che si dipinge. Il problema è la redistribuzione. Se alla distribuzione del mercato non si affianca la redistribuzione dello Stato, il capitalismo diventa selvaggio. Se l'intervento pubblico è eccessivo, però, c'è il rischio di stagnazione. È un pendolo. Ma mi chiedo, so che il capitalismo non è un bene, ma vedo di meglio? Non mi sembra ci sia alternativa. Quanto a Marx, ne ha descritto bene le tendenze: l'accentramento, a capitalizzazione dell'agricoltura, la globalizzazione. La sua previsione di un crollo del capitalismo però era sbagliata. E oggi in più c'è la nostra coscienza ecologica a spalancare un baratro teorico tra noi e lui: noi sappiamo che non può darsi un valore di utilizzo gratuito della natura, come lo concepiva lui».
Signora Heller, lei ha regalato al “dizionario europeo” in via di compilazione qui a Mantova la parola ungherese “panaszkodàs”, che significa lamentazione. È una garbata presa in giro del suo Paese?
«La cultura nazionale ungherese è basata sul lamento. Basta andare dal parrucchiere per accorgersene: lì c'è una prima signora che lamenta 'mio marito è terribile' e quella accanto 'no, il più tremendo è il mio'. Tutti sono malati, senza soldi, sul punto di morire di fame. Se incontri qualcuno per strada e gli chiedi 'come va?' ti risponderà 'sopravvivo'... È un gioco pericoloso: l'Ungheria registra nell'Unione europea il numero più alto di suicidi. A forza di lamentarsi, si finisce per crederci».

Chi è
Agnes Heller, studiosa e filosofa della modernità
Agnes Heller è tra i più grandi studiosi della complessità storica e filosofica della modernità. Sopravvissuta all'Olocausto, ha 18 anni quando nel 1947 assiste alle lezioni dell'ormai sessantenne G. Lukács. Nel 1956 gli allievi diventano una «corrente» di sostenitori del «vero» marxismo. Nel 1959 viene espulsa da università e partito per aver sostenuto «idee false e revisioniste». Nel 1963 entra come ricercatrice nell'Istituto di Sociologia dell'Accademia delle Scienze e sempre nello stesso anno a seguito di un viaggio in Italia scrive «L'uomo del rinascimento». «Fu un libro d'amore: una dichiarazione d'amore per l'Italia» spiegherà in «Morale e rivoluzione». Nel 1968 protesta contro l'intervento sovietico in Cecoslovacchia. Viene licenziata dall'Accademia nel 1973. Nel 1977 lascia l'Ungheria insieme al marito, il filosofo Ferenc Fehér e gli amici Gyorgy e Maria Marcus, anch'essi esponenti della «scuola di Budapest». A Melbourne insegnerà sociologia presso La Trobe University, poi alla New School for Social Research di New York. Dopo l'89 è tornata a Budapest. Sancito il suo distacco dal marxismo, resta ancorata alla sua teoria dei «bisogni radicali». In Italia l'ultimo titolo pubblicato è «La bellezza della persona buona» (Diabasis).

domenica 12 settembre 2010

Agi 11.9.10
In libreria Giovedì 16 "Left 2007" per L'Asino d'oro

Roma, 11 set. - In un anno, il fatturato e' passato dai 160 mila euro del 2009 con tre pubblicazioni, ai previsti 500 mila del 2010 con 14 pubblicazioni: e giovedi' prossimo sbarca nelle librerie 'Left 2007', la raccolta dei 49 articoli scritti dallo psichiatra dell'Analisi Collettiva, Massimo Fagioli, per la rubrica 'Trasformazione' del settimanale 'Left'. Lo si legge in una nota della giovane e dinamica casa editrice 'L'Asino d'oro'. "La fantasia invisibile della mente, fonte universale di uguaglianza e di liberta', mai esplorata e conosciuta nella storia dell'uomo - si legge nella nota - deformata dal '68 e sempre sottovalutata dalla sinistra, sin dall'Illuminismo, nemico giurato dell'irrazionale, potrebbe invece rappresentare la novita' teorica di un moderno socialismo delle idee". Ed il socialismo e' uno dei temi dominanti del libro: infatti, "non perde mai di vista la concretezza del dibattito politico e l'attualita' in cui versa la realta' umana e sociale del nostro Paese". Una 'ricerca', l'Analisi Collettiva, riuscita in pieno e dopo piu' di trent'anni in continua evoluzione, segno di una teoria forte e valida. "La ragione rende depressi e stupidi", dice Fagioli, fotografando le cause della crisi della politica e delle idee. L'alternativa? "Le idealita' del socialismo delle origini potrebbero dare a uguaglianza e liberta' un senso piu' profondo, se si legano le due parole a una nuova concezione della nascita umana, quando tutti siamo uguali a tutti, e del rapporto tra l'uomo e la donna". Il volume segue, passo dopo passo, l'evoluzione del rapporto che dal 2004 al 2007, ha visto vicini nella ricerca di nuove strade per la sinistra Fagioli e Fausto Bertinotti allora segretario di Rifondazione Comunista, fino all'epilogo, alla separazione definitiva tra i due. E in 'Left 2007' Fagioli non lesina le critiche a quella parte politica, alla quale riconosce l'esclusiva storica dell'utopia del cambiamento, ma a cui contesta, allo stesso tempo, di non essere riuscita ad andare oltre l'idea di "trasformazione del mondo". Marx, il comunismo; ma e' soprattutto ad Heidegger e a Spinoza, prima di lui, che lo psichiatra dedica molte righe di scrittura, "individuandone una grave responsabilita' culturale, quasi da "cattivi maestri", nel diffondere idee religiose che negano l'identita', la liberta' e la sessualita' degli esseri umani". Pat

l’Unità 12.9.10
L’allergia alle regole è alla base di queste tragedie. Specie nelle ditte di dimensioni ridotte...
Tremonti disse: «La sicurezza sul lavoro è un lusso»
di Bianca Di Giovanni

Il ministro rilancia la sua tesi della deregulation, tanto cara al centrodestra e alla Confindustria. Intanto in manovra ha ridotto i fondi per le ispezioni ed ha svincolato l’attività d’impresa da regole e procedure.

Le regole gli hanno sempre dato un po’ fastidio, che si trattasse di fisco, di ambiente, di impresa, di Europa. Per lui tutto va «semplificato»: è questo il segno della modernità, la chiave dello sviluppo. È un credo a cui Giulio Tremonti si è sempre dichiarato fedele, a dispetto dei mille cambiamenti di fronte, degli innumerevoli guizzi logici a cui ci ha abituati. Un credo condiviso, certo, con le schiere di finti liberisti senza mercato che affollano le platee confindustriali. Ma l’ultima esternazione non dev’essergli riuscita bene. Quel «la sicurezza sul lavoro è un lusso che non possiamo permetterci», dichiarato al Berghem Fest, quell’incitazione a «rinunciare ad una quantità di regole inutili: siamo in un mondo dove tutto è vietato tranne quello che è concesso dallo Stato» ha innescato tali e tante polemiche, da costringere il ministro a una scomposta (e non riuscita) retromarcia. Prima è intervenuta la sua portavoce («Tremonti si riferiva alla giurisdizione europea, la sicurezza del lavoro resta essenziale»), poi lo stesso ministro con un intervento sul Corriere della Sera.
PICCOLI
E qui la «pezza» è stata peggiore del buco. Secondo il ministro, infatti, occorre una distinzione tra grandi imprese (dove le regole europee servono) e le piccole, dove si creano invece «costi artificiali e sanzioni erratiche». Ancora una volta l’invocazione per il piccolo, l’artigiano, l’impresa familiare, che tanto suda, tanto si sacrifica, e poco ottiene dallo Stato «occhiuto» e ingiusto. Una visione diventata ormai un santino nei salotti del centrodestra.
Peccato che non sia esattamente così. Peccato che (come ieri ha ricordato il senatore Pd ex Cgil Paolo Nerozzi) proprio tra i «piccoli» si segnala il maggior numero di incidenti. Nelle imprese edili subappaltattrici, nelle piccole aziende agricole in cui gli stranieri perdono la vita (guarda caso) sempre nel primo giorno di lavoro. Cioè vengono regolarizzati solo quando muoiono. È questo il «magico» mondo che Tremonti vorrebbe lasciare senza vincoli e senza controlli. La vecchia deregulation che finora non ha portato né ricchezza, né sviluppo.
MANOVRA
Quanto a quel recupero in corsa, quell’assicurazione sulla sicurezza del lavoro che «resta essenziale», quelle parole oggi appaiono assolutamente poco credibili. Con l’ultima manovra varata prima dell’estate si è ridotta del 50% la spesa per gli ispettori. Vero, si escludono esplicitamente gli ispettori del lavoro. Ma il comma successivo applica il taglio alle automobili di servizio di tutti. ispettori senza auto, senza possibilità di visitare cantieri e zone agricole. Tutto in nome dell’austerità dei conti. Altro che bene irrinunciabile. Si è rinunciato anche per una manciata di milioni. Così come, sempre nella manovra, si è aperta la strada all’anarchia d’impresa, eliminando quei pochi «paletti» che ancora regolamentano lo sviluppo delle attività.
Da destra poi, proprio sulla 626, sono partiti subito i siluri, sull’onda delle richieste confindustriali. La legge varata dal governo Prodi grazie a cui le pesanti cifre delle vittime stavano lentamente ridimensionandosi è stata subito «rivisitata». Si sarebbe voluto fare di più, depenalizzare, svincolare, destrutturare, ma si dovette fare i conti allora con il richiamo del Presidente Giorgio Napolitano. Dal Quirinale arrivò un pesante monito scritto, in cui si faceva rilevare che con quelle correzioni «il nostro ordinamento giuridico risulta seriamente incrinato da norme oscuramente formulate, contraddittorie, di dubbia interpretazione o non rispondenti ai criteri di stabilità e certezza della legislazione». Altro che semplificazione: si è fatto di tutto per rendere le norme incomprensibili. E quindi inattuabili.

il Fatto 12.9.10
Il lavoro spogliato dei diritti
Liberare le imprese dagli impegni presi e dai contratti nazionali firmati con i sindacati non significa innovare Non si può uscire da una crisi globale rompendo il patto con i lavoratori
di Furio Colombo

“Se non c'è la fabbrica non ci sono i diritti” è la frase più ripetuta del momento. Vuol dire: “Lasciate fare all'impresa, che sa cosa è bene e che cosa è male”. Ecco dunque la frase che molti, anche nel Pd (un partito che dovrebbe essere “del lavoro” più di tutti gli altri rappresentanti in Parlamento) considerano “innovazione”. È “innovazione” perché libera l'impresa dalla “rigidità” (altra parola in voga per dire il nemico dell'innovazione) e dal dovere di mantenere impegni presi, con contratti debitamente firmati da tutti, verso i lavoratori. A proposito, avete mai notato che l'opinione pubblica e politica non viene mai coinvolta in un dibattito sulle imprese (come vanno, dove vanno), ma sempre, solo sul lavoro e gli operai come unica ragione di conflitto, crisi, delocalizza-
zione, chiusura?
Le regole buttate al macero
LA STORIA del mondo industriale democratico non ci dà nessuna notizia di aziende affondate a causa del costo del lavoro. Ma la proposta adesso è “innovazione” perché non solo vuole tagliare liberamente i costi. Intende cancellare ogni patto precedentemente stipulato tra impresa e lavoro. Ora, dopo una violentissima crisi economica che ha scosso, con la furia di un ciclone, un'Europa senza economisti e senza idee e un'Italia senza governo, la proposta è di uscire da una crisi grande come il ‘29 (parola di esperti) facendo esattamente l'opposto dell'America del New Deal. Che cosa vuol dire New Deal? Vuol dire nuovo patto. Vuol dire futuro, fiducia (non fiducia astratta, ma fiducia gli uni negli altri) e comunità (siamo insieme, o tutti o nessuno, il Paese sono le sue fabbriche e ogni fabbrica è il Paese, Costituzione, leggi, regole concordate). Che cosa accade adesso in Italia? Non solo non ci sarà un New Deal, ma non ci sarà niente. Anzi, facciamo una cosa. Per evitare equivoci, cancelliamo ogni patto che c’era prima. Via i contratti nazionali. Via le regole discusse e negoziate da una parte e dall'altra, a volte per anni e con confronti anche duri, ma – ovviamente – con l'intento umano e civile di proteggere la parte più debole, che non può ogni volta presentarsi in fabbrica con una batteria di avvocati.
Così inizia il monologo delle aziende
IL NUOVO SLOGAN è “basta con la lotta di classe”. Nel caso della fabbrica, “fine della lotta di classe” (che per fortuna non c'era; c'erano, come dicono i codici, parti e controparti, con molti interessi diversi e uno grande in comune: il lavoro) vuol dire che una parte tace e l'altra è libera di iniziare il grande monologo. Vanno bene 10 minuti per la pausa mensa? Va bene andare in bagno due volte invece di tre? Va bene fare straordinari la notte e il sabato senza retribuzione? Va bene fare o non fare, o interrompere le ferie, sempre a titolo di donazione del prestatore d'opera alla fabbrica? Non devi rispondere. Se lo fai, disturbi la produzione e potresti essere accusato di sabotaggio. La pena è il licenziamento. E se il giudice – restato indietro con le leggi ancora non abrogate della Repubblica – ti reintegra nel posto di lavoro, questo fastidioso dettaglio alla controparte che conduce il monologo non interessa. La controparte è avanti, è nel futuro, è con l'innovazione, confortata dal fatto che anche la ex sinistra chiama innovazione la cancellazione dei diritti. Dunque, giudice o non giudice, vi possiamo buttare la busta paga sulla porta, ma dovete restare fuori.
La nuova versione di “O la borsa o la vita”
PER BUONA MISURA interviene, nell'umiliante caso di Melfi (tutta la Fiat contro tre operai) il settimanale Panorama (9 settembre 2010) con la più spregevole copertina mai apparsa nel giornalismo italiano. La forza di un periodico da milioni di copie viene gettata contro tre operai da 1.000 euro al mese (quando non sono – e lo sono spessissimo – in cassa integrazione), messi alla gogna in copertina con la loro fotografia e il titolo Gli eroi bugiardi; l'accusa (sempre in copertina) di sabotaggio, dunque di un reato, che dà dello stupido (e anche del comunista) al giudice che li ha reintegrati nel loro posto di lavoro. È una nobile iniziativa che assicura a quegli operai che non saranno mai più accettati in alcun posto di lavoro in Italia. Ma tutto trova la sua giustificazione nel nuovo motto da issare sui cancelli: “Se non c'è la fabbrica, non ci sono i diritti”. La prima reazione, che avrebbe dovuto dare una scossa a tanti silenzi ed evitare qualche lode fuori posto, è che la frase corrisponde in modo quasi letterale al celebre grido dei vecchi racconti polizieschi: “O la borsa o la vita”. Il messaggio è chiaro: o cedi o finisci sulla copertina di Panorama. Ma c'è l'altro aspetto inquietante. La frase resta intatta se formulata a ovescio: “La fabbrica c'è se non ci sono i diritti”. D’ora in poi la fabbrica è extraterritoriale. Si fa secondo le regole che vigono nel territorio in cui vuoi essere accettato perché un po' ti pagano. Se non ti va bene, ti accompagnano subito alla frontiera. Ora ditemi se tutto un mondo di persone, che un tempo chiamavamo lavoratori, deve rassegnarsi a vivere senza un sindacato (l'immagine della Fiom è peggiore di quella di Vallanzasca), senza un partito (vedi la cauta distanza del Pd dalla questione), con la sola opzione di obbedire. E il rischio di un linciaggio pubblico nello sciagurato caso di una protesta.

Repubblica 12.9.10
Applausi ad Atreju per il governatore pugliese
Perplessità anche dagli ex ppi. Annullato il convegno dei quarantenni che demoliva il "partito hollywoodiano" di Veltroni. E Vendola incassa applausi dai giovani Pdl
Pd, tensioni tra veltroniani e Bersani "Rito del passato il comizio alla festa"
"No alle alleanze di Palazzo" Vendola scalda i giovani Pdl
di Giovanna Casadio

"L´assenza del premier alla Fiera del Levante è il coraggio della paura di chi ha abbandonato il Mezzogiorno"
Il governatore della Puglia: "Non sono pratico di alleanze, mi preme un´idea nuova per l´Italia"
Oggi a Torino chiusura con il discorso che i precedenti leader avevano cancellato

ROMA A buon intenditor poche parole. Nichi Vendola ripete ancora a Bersani e al Pd che è inutile lacerarsi sulle alleanze. «Io non so partire dal gioco dei quattro cantoni, dall´alleazionismo fatto nel Palazzo. Mi viene l´ansia, faccio fatica a confrontarmi con questo problema dice è come creare la pozione magica, come se l´alleanza fosse un gioco astratto, un gioco di società». Prima si fa un disegno nuovo per l´Italia, «chi lo condivide ha fatto la coalizione». Vendola va alla festa di Atreju, degli ex "cuori neri", i giovani di destra che hanno in Giorgia Meloni il loro leader. Arriva trafelato il governatore della Puglia, candidato della sinistra che ha già sparigliato le primarie del centrosinistra prima ancora che siano fissate. Fa aspettare la ministra Stefania Prestigiacomo, con la quale duella in un dibattito sull´ambiente. Ha la meglio lui.
Un applauso di benvenuto quando ammette: «Sono entrato in questo spazio con un po´ di batticuore come sempre quando si superano barriere...». Applausi quando parla dell´acqua, bene pubblico che «integra il diritto alla vita». Ancora applausi sull´energia: «La Regione Puglia produce molta energia e consuma il 13% dell´energia che produce, noi regaliamo a Bossi l´87% dell´energia che produciamo. Se potessimo monetizzare saremmo ricchi». E sul nucleare altri consensi: «A causa della militarizzazione del territorio, le centrali nucleari sono spontaneamente contro la democrazia». Anche se Prestigiacomo interviene: «Mai centrali senza il consenso del territorio».
Parla poi di Sud, Vendola. Di Berlusconi che ha dato forfait per la seconda volta all´inaugurazione della Fiera del Levante: «È quello che Totò chiamava il coraggio della paura». Il Sud è abbandonato. Chiede soldi? «Sì quelli scippati dal governo...», ribadisce. Un governo e un centrodestra spiega ai cronisti nel dopo-dibattito «in crisi, oggi vediamo solo moine, ma io penso sia irreversibile» perché si è divaricato quel mix di populismo e di liberismo di cui era impastato. Il mago Otelma gli pronostica la sconfitta, se si va alle urne nel 2010. Ma dal 2011 l´astropolitica cambia musica e per lui prevede vittoria (nella leadership del centrosinistra) e vittoria (nella premiership). Basta attendere. Nichi ci sta. Dalla Torre (è il gioco tolkeniano di Atreju), se proprio deve, butterebbe Rutelli. E salverebbe D´Alema. Ma perché? gli chiedono, dopo i bastoni tra le ruote che gli ha messo per la presidenza della Regione. Risposta: «In fondo mi ha sempre portato bene». Tra marjuana e Negroamaro salverebbe il vino; tra nucleare e petrolio, elimina il nucleare.

Repubblica 12.9.10
Critiche al comizio anche dagli ex-ppi
Bersani chiude la festa Pd i veltroniani: liturgia vecchia
di Goffredo De Marchis

ROMA «Un ritorno alle liturgie del passato». Il nuovo clima di tensione nel Partito democratico coinvolge anche la Festa di Torino. Che oggi si chiude con il tradizionale comizio finale del segretario Pier Luigi Bersani. Troppo tradizionale, appunto. Roba da vecchio Pci. Sia Veltroni sia Franceschini, i leader precedenti avevano scelto altre strade proprio per marcare la discontinuità. Il primo, nel 2008 a Firenze, aveva fatto un´intervista come gli altri nei giorni centrali della kermesse. Il secondo, a Genova, aveva indossato nella giornata di chiusura il grembiule del volontario servendo ai tavoli. «Ci preoccupa questo salto all´indietro nel simbolismo del secolo scorso dicono alcuni veltroniani -. Il Pd doveva rompere con gli schemi antichi. Anche in maniera plastica». Dice l´ex ppi Beppe Fioroni: «Il segretario di un partito ha il diritto di parlare al suo popolo. Ma il comizio di chiusura è un simbolo superato, un modo per adagiarsi sul tempo che fu. Spero che non sia un altro segno di rinuncia all´innovazione».
La tregua dei mesi scorsi è ormai rotta e su alleanze, feste, struttura stessa del partito, l´offensiva di Walter Veltroni e dei suoi viene vista come un pericolo da Bersani e dalla sua maggioranza. Come anticipato da Repubblica, alcuni membri della segreteria vicini al leader hanno predisposto un documento molto critico con la Seconda repubblica e in particolare con il Pd gestito da Veltroni. Parole forti contro il bipolarismo e contro la deriva «hollywoodiana» del centrosinistra. I fedelissimi dell´ex sindaco di Roma hanno reagito con forza. «È un testo reazionario spiega Giorgio Tonini -. Con molta nostalgia per la Prima repubblica e gli equilibri Dc-Pci». S´infuriano le componenti della segreteria Stella Bianchi e Annamaria Parente, vicine a Veltroni: «Avevamo fatto un buon lavoro insieme ma questo documento indebolisce tutto. Mina le fondamenta del Pd, per noi è inaccettabile». I "giovani turchi" (Fassina, Stumpo, Gualtieri, Orlando, Orfini), come si sono autodefiniti i firmatari richiamandosi al movimento di Ataturk, confermano la loro linea, ma per evitare una nuova grana al segretario annullano il convegno in cui si dovevano discutere le loro tesi. Non si vedranno più a Orvieto il 25 settembre. Lo annuncia Davide Zoggia: «Non siamo contro qualcuno, volevamo solo dare un contributo. Ma rinviamo e raccoglieremo altri contributi».

il Fatto 12
Amos Oz: La vita più forte del fanatismo
“Israele assurdo come un film di Fellini, ma alla fine sarà pace”
di Francesco Comina

Amos Oz ne è convinto: “Prima o poi ci sarà la pace fra israeliani e palestinesi. I pazienti, ossia i due popoli, sono pronti a sottoporsi a una dolorosa operazione ma i chirurghi che devono in-
programma tv della Cbs “Face the Nation”, ha buttato lì: “Decideremo dove celebrare il processo... Quando ci sono di mezzo problemi di sicurezza, una questione come questa si politicizza”. Lui avrebbe preferito che fosse la corte di Manhattan ad emettere il verdetto contro il kuwaitiano Ksm e altri 4 fedelissimi di Bin Laden: lo yemenita Ramzi Binalshib, amico dell’egiziano Atta, conosciuto nella moschea di Amburgo, dirottatore mancato perché gli era stato rifiutato il visto Usa; Walid Bin Attash, altro yemenita, anch’egli mancato dirottatore, sempre per un visto non concesso; Mustafa Ahmed Al-Hasawi, saudita, finanziatore dell’11 settembre; Ali Abd al-aziz Ali, pachistano, nipote di Ksm.
ORMAI È CERTO Come sede del “processo del secolo” New York non potrà mai essere scelta per tante ragioni: costi, sicurezza, possibilità di attentati. Il presidente Obama insisterebbe poi perché i cinque islamici vengano giudicati da tribunali criminali civili, e non militari. Ma i repubblicani puntano su Guantanamo, corte militare. Altrimenti stringono i cordoni della borsa: niente soldi per spostare, come vorrebbe Holder, da Guantanamo in altra prigione, forse Chicago, gli ultimi 180 là detenuti, anche loro in attesa di giudizio: dopo almeno otto-nove anni.
tervenire col bisturi, ossia i governi, si tirano indietro perché sono codardi”. Non c'è nessun sentimentalismo nel pacifismo di Oz. La sua è una pace tragica, che ascolta il lamento di una terra lacerata. Una pace obbligata, necessaria, inevitabile. La creazione di due stati è l'unica salvezza possibile, l'unica luce in fondo al tunnel.
Dopo la retrospettiva al festival della letteratura di Mantova il più incisivo degli scrittori israeliani ha parlato a Trento nell'ambito della rassegna ‘‘Dialoghi internazionali: se vuoi la pace prepara la pace’ presentando il suo ultimo libro “Scene dalla vita di un villaggio”. Cosa pensa dei nuovi colloqui di pace fra Israele Palestina?
Israele è un Paese molto particolare. Per rappresentarlo nel modo migliore ci vorrebbe l'immaginario di Fellini. Siamo 8 milioni di abitanti, o per meglio dire, 8 milioni di primi ministri, 8 milioni di profeti e 8 milioni di messia. Tutti hanno una visione particolare di redenzione. Nessuno ascolta l'altro. Io sono fra i pochi che lo fanno perché l'ascolto è la fonte primaria della mia professione. Ascoltando gli altri posso raccontare umori e aspirazioni della gente. Non so se i colloqui avviati in questi giorni porteranno al giusto compromesso. Se non sarà questa volta, sarà la prossima. So che non ci sono alternative. La maggioranza degli israeliani e dei palestinesi è pronta al dolore della pace. Come immagina questa pace necessaria?
Ci saranno due Stati. Sarà come dividere la casa in due appartamenti. Si tornerà ai confini che c'erano prima del '67. Israele si ritirerà dalla Cisgiordania. Bisognerà pensare a come garantire la sicurezza smilitarizzando i territori. Gerusalemme capitale divisa avrà due ambasciate, una di fronte all'altra. Ci saranno questioni spinose come quella dei rifugiati. Israele ha accolto più di un milione di persone dai Paesi arabi. Il futuro stato palestinese ne dovrà accogliere 600mila. Ripeto: sarà una pace dura, piena di spine ma inevitabile. Quando l'avremo raggiunta Israele dovrà liberarsi dell'atomica perché non avrà più significato strategico. Come ha reagito davanti alle minacce del pastore evangelico americano Terry Jones di voler bruciare copie del Corano nei giorni del ricordo dell'11 settembre?
Il fanatismo è il vero problema della nostra storia. Non sono mai stato d'accordo con le tesi del politologo americano Samuel Huntington che vede il mondo schiacciato da uno “scontro di civiltà”. Il punto drammatico del conflitto odierno sta nello scontro fra il fanatismo e il resto del mondo. I fanatici sono ovunque e sono un pericolo. Tutti dovrebbero esser più consapevoli della crescita del fanatismo. Il fanatico è talmente altruista che nega gli altri. Qui si nasconde il cuore macabro della violenza.
Il rapporto fra Israele e Turchia s’è incrinato dopo l'attacco alla nave “Freedom Flottilla” in rotta verso Gaza. Lei fu uno dei pochi scrittori israeliani a condannare l'assalto israeliano che ha provocato morti e feriti.
Sì, è vero. La maggioranza degli israeliani approvò l'intervento dell'esercito. Ho parlato di atto stupido, fra l'altro avvenuto in acque internazionali. Israele aveva tutto il diritto di controllare se ci fossero state a bordo armi. Ma non in quel modo. La Flottilla però ha raggiunto un risultato importante: è stato sospeso l'embargo a Gaza. Come giudica la corsa al nucleare dell'Iran?
L’Iran minaccia di distruggere e annichilire uno stato membro dell’Onu. È uno scandalo e un oltraggio. Non è mai accaduto una cosa del genere. È molto pericoloso che un regime del genere possegga il nucleare. Non è un problema israeliano, è un problema mondiale.
Non ha mai pensato di lasciare Israele e venire in Europa? Nei giorni scorsi si è parlato di una “tentazione” di Grossman.
David Grossman è stato frainteso. Non ha nessuna intenzione di lasciare Israele. La stessa cosa vale per me. Amo troppo questa terra per lasciarla. Anche quando mi arrabbio lo faccio con un sentimento di amore. Sulla mia scrivania tengo due penne, una blu e una nera. Con quella blu scrivo i miei romanzi, con quella nera mando a quel paese il mio governo. Ma in entrambi i casi scrivo con la passione di chi ha a cuore la vita. Per me la vita viene prima di tutto.

Avvenire 12.9.10
Il grande teologo tedesco al Festival ella Filosofia
«La ricerca scientifica pare approdare alla visione di un mondo chiuso nella sua causalità, ma il determinismo genetico e neurologico non è in grado di abolire la nostra libertà»
Moltmann: i geni non spiegano il genio
di Jürgen Moltmann

Determinismo o libero arbitrio? Questo antico dibattito torna oggi d’attualità nella ricerca genetica e in quella sui neuroni. Veniamo generati nei nostri geni? I geni esistono nella loro peculiarità prima che sorga la nostra coscienza? Pilotano il nostro io nei suoi comportamenti? Determinano quindi il corso delle nostre vite e spiegano perché diventiamo come siamo? Il noto giornalista americano David Brooks ha scritto nel 2007 ( Herald Tribune ): «Dal contenuto dei nostri geni, dalla natura dei nostri neuroni e dalla lezione della biologia evoluzionista è diventato chiaro che la natura è costituita da competizione e conflitti di interessi. L’umanità non è venuta prima delle lotte per la propria affermazione, le lotte per l’affermazione sono profondamente radicate nelle relazioni umane». Ne traeva come conseguenza la naturale disposizione alla competitività del capitalismo e una 'visione del mondo tragica': «Siccome la natura umana è predisposta così aggressivamente alla lotta per il potere abbiamo bisogno di uno Stato forte, di un’educazione dura e di una visione del mondo tragica». Si tratta del risultato di una ricerca o dell’interesse di un’ideologia? Io credo si tratti di pura ideologia naturalistica, perché si fonda sulla riduzione dell’imprevedibile sistema 'uomo' ai suoi geni e neuroni prevedibili.
Così sorge la fatale impressione di vivere in un mondo chiuso nella sua causalità, come se la nostra libertà, che pure percepiamo nel «tormento della scelta», fosse un’illusione. Se così fosse qualsiasi criminale davanti a un tribunale dovrebbe appellarsi all’incapacità di intendere e di volere, per poi essere assolto in quanto non imputabile.
Craig Venter è stato il primo a decifrare il genoma umano. Ha decodificato anche il proprio genoma, che è stato pubblicato su tutti i maggiori quotidiani.
Se lo potessimo leggere sapremmo poi chi è Craig Venter? Se egli stesso può leggerlo viene poi a conoscere se stesso?
Quando l’ho incontrato di persona a Taiwan due anni fa mi ha raccontato quanto la guerra in Vietnam, combattuta da giovane, lo avesse cambiato. Il suo genoma non esprime nulla di tutto ciò, naturalmente, ma allora perché la tesi deterministica secondo la quale saremmo pilotati dai nostri geni e non avremmo alcuna libertà di reagire alle esperienze di guerra in questo o quell’altro modo?
Facciamo ancora un esempio: nella rivista scientifica Nature Genetics è uscito di recente un articolo nel quale veniva dimostrato da ricerche svolte in tutto il mondo che sono i geni a determinare se i giovani diventino o meno fumatori. Lo studio documentava per la prima volta i fattori genetici a causa dei quali nei recettori cerebrali della nicotina si determina in quale modo si sviluppi la dipendenza e il comportamento rispetto al fumo. Io ho fumato molto dal 1956 al 1976, poi ho smesso da un giorno all’altro. Come ho potuto farlo? La ricerca genetica, per quanto ho potuto seguirla, ha da tempo oltrepassato, nei suoi seri esponenti, questo riduzionismo ideologico.
L’immagine della competitività del gene egoista, delineata da Richard Dawkins nel 1978, è influenzata dal darwinismo sociale. I geni sono di fatto più flessibili dei corpi solidi, si «attivano e disattivano» e reagiscono essi stessi agli influssi ambientali. Le nostre esperienze e le nostre relazioni con altre persone, in cui facciamo esperienza di accoglienza o di rifiuto, influenzano anche il funzionamento dei nostri geni. Il medico tedesco Joachim Bauer, che si occupa di psicosomatica, afferma quindi: «I geni non pilotano soltanto, sono anche pilotati» ( Principio Umanità, 2006). Anche nelle ricerche sull’intelligenza vengono considerate oggi più le condizioni di vita che le predisposizioni genetiche.
Giungo al risultato secondo cui il determinismo genetico e neurologico non è in grado di abolire la nostra libertà, la nostra responsabilità né la nostra imputabilità. Lo si può approvare o rincrescersi, ma le ideologie non spiegano solo i risultati di alcune ricerche, rappresentano anche sempre gli interessi di una parte. Chi ha oggi interesse ad abolire la nostra libertà e a rendere manipolabili gli uomini?
(traduzione dal tedesco di Daria Dibitonto)

Repubblica Firenze 12.9.10
Alla Nazionale partita la corsa ai depositi digitali. Con pochi fondi
Se la Biblioteca entra nel web
L´istituzione fiorentina è impegnata in una complessa trattativa con gli editori per tutelare i diritti sui testi da consultare on line

E che si è ritrovata giocoforza a presidiare la nuova frontiera della «memoria digitale». Con tanta voglia di buttarsi a capofitto nella nuova avventura, «ma come sempre senza averne i mezzi» protesta la direttrice Antonia Ida Fontana, che da qui a novembre, quando andrà in pensione, giocherà, promette, «il tutto e per tutto». La sfida, appunto, è alta: come attrezzarsi pur dovendo continuare, finché ci sono, a raccogliere i testi cartacei per acquisire, catalogare e conservare anche quelli digitali, in presenza, nota la direttrice della Biblioteca, «di tecnologie ‘volatili´, in evoluzione continua, che rendono obsoleti hardware e software nel giro di pochi mesi». E in mancanza, come al solito, di fondi sufficienti, sia ad acquisire le nuove tecnologie che a formare il personale, «superando la fase dell´autodidattica».
I 580 mila euro triennali «finora gli unici» sottolinea Fontana «messi a disposizione dal ministero» consentiranno intanto, entro il 2012, di mettere a regime tre nuovi «depositi digitali», con dentro tutto quello che è già disponibile on line, due dei quali aperti alla consultazione (quelli di Firenze e Roma), e uno (alla Marciana di Venezia) tenuto come dark archive chiuso, con dentro gli stessi file e tutti dotati dei massimi requisiti di sicurezza fisica e informatica. Tre diversi provider, a cui sono già stati affidati con una gara, gestiranno altrettanti, enormi server, in modo da avere sempre un «deposito» o due di dati di riserva qualunque cosa accada.
Il che, in ogni caso, non significherà affatto, per adesso e di sicuro per un bel po´, abbattere i costi rispetto alla conservazione di testi cartacei in magazzini «fisici». Agli investimenti necessari alla gestione avanzata e sicura dei nuovi «depositi digitali» vanno infatti aggiunti quelli sul cosiddetto harvesting, cioè la raccolta sulla rete di tutto ciò che già è, e sempre più sarà, on line, tramite accordi con gli editori per ottenere le «chiavi» di accesso ai testi. Nonché quelli sul trattamento dei file, ai fini sia della loro conservazione nei tre «depositi digitali», che della loro utilizzabilità (tramite ‘meta-dati´, cioè informazioni di base sulle caratteristiche di ognuno di essi) da parte delle tecnologie del domani. Per il futuro, insomma, bisognerà evitare quel che è successo con i floppy disk, diventati praticamente inutilizzabili una volta spariti i vecchi pc.
Da anni agganciata a progetti europei sulla digitalizzazione della memoria, da due la Nazionale è impegnata in una concreta sperimentazione, che ha già consentito di caricare via via sui server della Biblioteca, e trasferire poi su file, le tesi di dottorato, mentre nel giro di tre anni dovrebbe essere in grado di offrire un catalogo digitale di tutto ciò che si pubblica in Italia, libri e periodici. Ma a questo stadio della rivoluzione digitale, uno degli ostacoli principali è ancora l´accordo con gli editori. Mettendo a disposizione di tutti i nuovi meta-testi, infatti, la Biblioteca non dovrà danneggiare chi continua pur sempre ad accollarsi gli investimenti necessari alla produzione di ciò che si legge, su carta o on line: «Vorrei tranquillizzarli» avverte Fontana, «nessuno ha intenzione di entrare in concorrenza con loro». Allo studio, infatti, «oltre a possibili modelli di convenzioni e licenze d´uso dei testi, ci sono precise forme di restrizione dell´accesso ai file (che in nessun caso, comunque, saranno scaricabili o stampabili»): come la consultazione obbligata da una postazione interna alla biblioteca, da parte di un solo utente alla volta, registrato con una password e ben riconoscibile. O anche, ovviamente in accordo con gli editori, l´offerta di meta-testi scaricabili solo a pagamento.
La rivoluzione tecnologica incalza, insomma. Ma intanto, e almeno finché non si smetterà di stampare anche su carta, i magazzini digitali non risolveranno il cronico problema della mancanza di spazio. Mentre bisogna ancora litigare perché una delle massime istituzioni culturali italiane possa ottenere il minimo indispensabile per vivere. Dalla direttrice della Nazionale parte infatti, ancora una volta, un drammatico appello: se non verrà al più presto ristrutturata la vicina ex caserma Curtatone e Montanara, già assegnata dal Demanio e dove deve trovar posto l´intera emeroteca oggi ospitata nella sede centrale e al Forte Belvedere, «entro 4-5 anni esploderemo». Senza contare che, come al solito, manca il personale anche per i servizi essenziali, cioè il prelievo e la consultazione dei testi: 7 persone in out-sourcing, per pagare le quali (10 mila euro al mese) ci sono fondi solo fino al 30 novembre. Dopo di ché, dice Fontana, «si dovrà chiudere per mezza giornata». E non basta: causa i tagli della finanziaria per il 2011, «dall´inizio del nuovo anno, se il ministero non interviene, potremo non avere i soldi neanche per pagare le bollette della luce e del riscaldamento, che è come dire dover chiudere del tutto».