mercoledì 15 settembre 2010

l’Unità 15.9.10
Italia-razzismo
«Emergenze», creativi e intellettuali per un futuro di emancipazione
di Pino Di Maula

Molta attesa per l’iniziativa che un gruppo di creativi e intellettuali ha intitolato “Emergenza di identità, migranti, donne e artisti”. Si tratta di un vero e proprio esperimento culturale che si terrà, a Roma, grazie all’interesse dell’XI Municipio nell’Istituto Superiore Antincendi in via del Commercio. Non poteva esserci luogo più congeniale al calore che potrebbero produrre molte delle proposizioni teoriche previste per fondere le scienze economiche e politiche con la ricerca sulla realtà umana. È l’unica via, ragionevolmente irrazionale, per cogliere la sfida sull’emancipazione di migranti e donne. La partecipazione diventa così anch’essa un’arte per dare al futuro un volto finalmente umano. La chiamano “Emergenze” evocando il tema della sicurezza, sapendo che, in verità, ciò che emerge vale più di una rivoluzione, se sa tirar via la cultura dominante dalle sabbie mobili del ’68 e dai limiti teorici del marxismo per elaborare un pensiero nuovo su immagine e identità, massa e classe, libertà e identità, uomo e donna. E chissà cos’altro. In fondo si tratta, appunto, di un esperimento. Che vale la pena ripetere, almeno una volta l’anno. La prima edizione inizia venerdì 17 e termina sabato 25 settembre. L’approccio adottato punta all’interrelazione fra una pluralità di linguaggi e di discipline sia scientifiche che artistiche. In pratica “Emergenze di identità” si articola in una giornata di ricerca, un incontro fra registi, una mostra d’arte e una rassegna di spettacoli. Tra i tanti ospiti attesi: Federico Masini, Giuseppe Vitaletti, Ernesto Longobardi, Luigi Manconi, Guido Melis, Francesco Dall’Olio, Ernesto Maria Ruffini, Annelore Homberg, Shukri Said e Jean Leonard Touadì.

ADNKRONOS 12.9.10
MOSTRE: MIGRANTI E DONNE, 'EMERGENZE D'IDENTITA'' DAL 17 SETTEMBRE = A ROMA, ALL'ISA, VIA DEL COMMERCIO 13
Roma, 12 set. (Adnkronos) - Donne e migranti, uniti dalla necessita' di muoversi. Per emanciparsi e soddisfare una emergenza di identita'. Saranno al centro di un evento culturale ideato e realizzato dall'associazione ComunicAzioni, che unisce arte, letture e performance, in programma a Roma, all'Istituto Superiore Antincendi di via del commercio 13, dal 17 al 25 settembre.
L'approccio adottato punta all'interrelazione fra una pluralita' di linguaggi e di discipline sia scientifiche che artistiche. Secondo gli organizzatori, e' questa l'unica via, ragionevolmente irrazionale, per cogliere la sfida sull'emancipazione di migranti e donne. In pratica, ''Emergenze di identita''' si articola in una giornata di ricerca, un incontro fra registi, una mostra d'arte e una rassegna di spettacoli.
L'obiettivo e' particolarmente ambizioso: si parla di ''Emergenze'' evocando il tema della sicurezza, sapendo che, in verita', cio' che emerge vale piu' di una rivoluzione, se sa tirar via la cultura dominante dalle sabbie mobili del '68 e dai limiti teorici del marxismo per elaborare un pensiero nuovo su immagine e identita', massa e classe, liberta' e identita', uomo e donna. Tra i tanti ospiti attesi: Federico Masini, Giuseppe Vitaletti, Ernesto Longobardi, Luigi Manconi, Francesco Dall'Olio, Ernesto Ruffini, Annelore Homberg, Shukri Said, Guido Melis e Jean Touadi.
(Inf/Ct/Adnkronos) 12-SET-10 12:33

ASCA 13.9.10
SOCIETA': MOSTRA A ROMA SU MIGRANTI E DONNE EMERGENZE DI IDENTITA'


(ASCA) - ROMA, 13 SET - DONNE E MIGRANTI, UNITI DALLA NECESSITA' DI MUOVERSI. PER EMANCIPARSI E SODDISFARE UNA EMERGENZA DI IDENTITA': SARANNO AL CENTRO DI UN EVENTO CULTURALE IDEATO E REALIZZATO DALL'ASSOCIAZIONE COMUNICAZIONI, CHE UNISCE ARTE, LETTURE E PERFORMANCE, IN PROGRAMMA A ROMA, ALL'ISTITUTO SUPERIORE ANTINCENDI DI VIA DEL COMMERCIO 13, DAL 17 AL 25 SETTEMBRE. L'APPROCCIO ADOTTATO PUNTA ALL'INTERRELAZIONE FRA UNA PLURALITA' DI LINGUAGGI E DI DISCIPLINE SIA SCIENTIFICHE CHE ARTISTICHE. SECONDO GLI ORGANIZZATORI, E' QUESTA L'UNICA VIA, RAGIONEVOLMENTE IRRAZIONALE, PER COGLIERE LA SFIDA SULL'EMANCIPAZIONE DI MIGRANTI E DONNE. IN PRATICA, "EMERGENZE DI IDENTITA" SI ARTICOLA IN UNA GIORNATA DI RICERCA, UN INCONTRO FRA REGISTI, UNA MOSTRA D'ARTE E UNA RASSEGNA DI SPETTACOLI. L'OBIETTIVO E' PARTICOLARMENTE AMBIZIOSO: SI PARLA DI "EMERGENZE" EVOCANDO IL TEMA DELLA SICUREZZA, SAPENDO CHE, IN VERITA', CIO' CHE EMERGE VALE PIU' DI UNA RIVOLUZIONE, SE SA TIRAR VIA LA CULTURA DOMINANTE DALLE SABBIE MOBILI DEL '68 E DAI LIMITI TEORICI DEL MARXISMO PER ELABORARE UN PENSIERO NUOVO SU IMMAGINE E IDENTITA', MASSA E CLASSE, LIBERTA' E IDENTITA', UOMO E DONNA. TRA I TANTI OSPITI ATTESI: FEDERICO MASINI, GIUSEPPE VITALETTI, ERNESTO LONGOBARDI, LUIGI MANCONI, FRANCESCO DALL'OLIO, ERNESTO RUFFINI, ANNELORE HOMBERG, SHUKRI SAID, GUIDO MELIS E JEAN TOUADI. GAR/MIN/ROB 131228 SET 10

l’Unità 15.9.10
Il segretario chiede al Pd di concentrarsi sui problemi del Paese. «Primarie? Se serve mi candiderò»
Coordinamento fiume. I veltroniani preparano un «documento aperto». Franceschini:«Surreale»
Bersani: la linea è decisa non facciamo regali al premier
di S.C.

Più critiche che consensi all’iniziativa di Veltroni e Fioroni. Marini: «Non è un atto di responsabilità, le nostre divisioni sono un balsamo per Berlusconi». Il veltroniano Verini: «Il miglior regalo al premier è un Pd al 26%».

«Non facciamo regali a Berlusconi», dice Pier Luigi Bersani la mattina incontrando i senatori a Palazzo Madama. «Noi non siamo un partito del predellino, abbiamo una maggioranza e una minoranza, che si sta riorganizzando, ma la maggioranza congressuale ha impostato una linea e su questa si andrà avanti», dice la sera dagli studi del Tg1, rispondendo tra l’altro così alla domanda se si presenterà alle primarie del centrosinistra: «Se servirò, mi candiderò». Poi il leader del Pd si infila nella riunione notturna del coordinamento per discutere con Walter Veltroni, Beppe Fioroni e gli altri che stanno scrivendo un documento per chiedere un cambio di linea, invocando il rilancio dello spirito del Lingotto, l’idea di un partito a vocazione maggioritaria e primarie aperte. Ma a quel punto, quando attorno al tavolo si siedono Bersani, Letta, Bindi, D’Alema, Veltroni, Marini, e tutti gli altri big del Pd, la risposta ai malumori veltroniani è già stata data, da più parti.
«Loro sono in crisi, dimostrano ogni giorno di più di non farcela e noi non possiamo ora tirare la palla da questa parte», è l’esortazione di Bersani. «Concentriamoci sui contenuti, pensiamo ai problemi del paese, coniughiamo cambiamento e rassicurazione, questo è il modo migliore per dimostrare il nostro profilo riformista». Una risposta che lascia insoddisfatto Veltroni. Anche perché, come dice il suo braccio destro Walter Verini in risposta a Bersani, «il miglior regalo che possiamo fare a Berlusconi è un Pd al 26% impegnato più a discutere di molteplici e talvolta contraddittorie tattiche che delle grandi sfide di innovazione riformista di cui l’Italia ha bisogno». L’ex segretario non intende però presentare il documento alla Direzione del 23, né andare alla conta. Spiega Stefano Ceccanti: «È un documento aperto, lo potranno sottoscrivere cittadini, società civile». Non soltanto parlamentari o dirigenti del Pd, dunque. E al momento è poco chiaro quanti deputati e senatori potrebbero firmarlo. Fioroni assicura che saranno «tanti»: «Sarà condiviso da quasi tutta la ex-Margherita. Ci sono Gentiloni, Realacci e buona parte degli ex-popolari».
INCOGNITA FIRME
Materialmente, lo stanno scrivendo i senatori Giorgio Tonini e Mauro Ceruti. Mentre quelli che hanno fatto un primo possibile calcolo delle firme parlano di una settantina di sottoscrizioni. Ma lo stesso ex-popolare Luigi Meduri si mostra scettico sui pronostici di Fioroni: «Bindiani, lettiani, franceschiniani, nessuno di questi lo firmerà». La presidente del Pd Rosy Bindi lo dice chiaramente: «Il congresso è finito da un pezzo e c’è chi l’ha vinto su una chiara linea politica. Il profilo riformista del Pd non è a rischio». Così come Franco Marini, molto duro nei confronti di Veltroni: «Le nostre divisioni sono un balsamo per Berlusconi. Un documento che mi risulta inesistente non è un atto di responsabilità».
Quanto a Franceschini, parlando con i suoi ha definito uno «spettacolo surreale» la situazione: «Mentre la destra si frantuma e la democrazia corre seri pericoli, nel Pd anziché costruire l’unità ricominciano i litigi e i documenti per dividersi». E anche gli esponenti di Area democratica che fanno riferimento a Piero Fassino hanno fatto capire che non seguiranno Veltroni. Né gli farà da sponda la minoranza guidata da Ignazio Marino, che definisce «non utili i documenti»: «Lasciamoli stare, siamo un partito che deve parlare con una voce sola e ha l’ambizione di governo, non un centro culturale o un club amatoriale».

Repubblica 15.9.10
Pd, Bersani sfida la minoranza e Vendola "Pronto a correre per Palazzo Chigi"
Tensione per l´offensiva dei veltroniani. Assemblea nazionale l’8 a Varese
Il leader risponde all'ex segretario: "Non facciamo regali adesso a Berlusconi"
di Goffredo De Marchis

ROMA - Sono ufficialmente due i candidati alle primarie del centrosinistra. Sempre che siano vicine. Nichi Vendola ha impugnato da tempo la bandiera della consultazione nei gazebo. Ieri ha rotto gli indugi anche Pier Luigi Bersani. Nello studio del Tg1 delle 20 ha risposto così alla domanda sulla sua corsa: «Se servirò mi candiderò». Decisione annunciata, ma non ancora resa esplicita in questo modo. Bersani adesso è alle prese con alcune critiche interne e la scelta di rendere pubblica la sua intenzione di puntare a Palazzo Chigi serve anche per mettere un punto fermo. La candidatura significa che con ancora più forza il Pd dovrà seguire la linea del segretario. «Noi non siamo un partito del predellino come il Pdl. Siamo un partito europeo che ha una maggioranza e una minoranza. La maggioranza congressuale si è pronunciata, ha proposto una linea e su questa si andrà avanti».
Il messaggio è rivolto a Walter Veltroni, che da giorni ha messo nel mirino il leader colpevole, secondo lui, di aver smarrito lo spirito originario del partito, di tenerlo intorno alle preoccupanti percentuali dei sondaggi (il 26,5, ma secondo dati riservati ancora più in difficoltà), di perdersi nella politica delle alleanze. Veltroni sta lavorando a un documento insieme con Beppe Fioroni che riprende tutti questi temi. Ci lavorano Giorgio Tonini e il cattolico Mauro Ceruti Già oggi dovrebbe cominciare la raccolta delle firme a sostegno tra i parlamentari. L´obiettivo sono 70 adesioni. Questo passaggio segna la costituzione di una nuova minoranza interna che bypassi l´area di Dario Franceschini. Ma la reazione di molti è negativa. Bersani ne parla indirettamente: «Non possiamo dividerci adesso. Non possiamo fare regali a Berlusconi». Durissima la reazione di Franceschini: «È uno spettacolo surreale - ha detto ieri ai suoi collaboratori -. Mentre la destra si frantuma e la democrazia italiana corre seri pericoli nel Pd, anziché costruire l´unità, ricominciano i litigi e i documenti per dividersi». E la riunione notturna del caminetto democratico, con tutti i big schierati, vede schierata una batteria contro il documento. «Non siamo un centro culturale. In un grande partito si discute ma non si presentano testi. Si esce con una linea e una voce sola», dice Ignazio Marino. Il quasi omonimo Franco Marini bacchetta i promotori del "manifesto": «Sono degli irresponsabili. Annunciano un documento che neanche esiste e sbagliano anche nel metodo. Questo è il momento dell´unità e se si vuole discutere c´è la direzione tra pochi giorni». D´Alema si limita a poche parole: «In questo momento dovremmo pensare a vincere le elezioni».
Ma i promotori del documento non si fermano. Fioroni spiega che «il nostro contributo non serve a schierarsi contro qualcuno ma a ribadire le ragioni fondative del Pd». Non sarà limitato all´area dei veltroniani e degli ex ppi. «Lo firmeranno Gentiloni, Realacci e tanti altri», assicura Fioroni. I dirigenti della maggioranza però non ci stanno. «Il congresso è finito da un pezzo e nessuno può riaprirlo», avverte la presidente Rosy Bindi. È anche questa la posizione di Franceschini, sfidante di Bersani alle primarie. «C´è stato un vincitore e uno sconfitto. Anche la minoranza ha il dovere di dissentire ma non di mettersi di traverso». E ieri sera, al "caminetto", ha sostanzialmente condiviso la strategia del Nuovo Ulivo rilanciata dal segretario. Ma i veltroniani respingono le accuse. «Il miglior regalo a Berlusconi è un partito al 26 per cento», osserva Walter Verini. E Sergio Chiamparino invoca una discussione: «Senza rotture ma dobbiamo definire la linea e il rapporto con il terzo polo». Intanto, per incalzare la Lega, Bersani convoca a Varese (8-9 ottobre) l´assemblea nazionale.

l’Unità 15.9.10
La favola delle cellule etiche
Le staminali e l’arte di negare i fatti
di Sergio Bartolommei
Università di Pisa, membro della Consulta di Bioetica

Il premio Balzan di quest’anno va a Yamanaka, lo scienziato giapponese che ha inaugurato una nuova tecnica per la riprogrammazione delle cellule adulte che vengono ricondotte a uno stadio simile a quello delle staminali embrionali. Secondo alcuni osservatori cattolici questa e solo questa sarebbe “vera” scienza e le cellule così ottenute le uniche e autentiche “cellule etiche”. Il cerchio verrebbe chiuso: gli embrioni, nuove incarnazioni del Sacro, sarebbero salvi, e la ricerca pure.
Sembravano lontani i tempi in cui, in Unione Sovietica, si discriminava con Lysenko tra vera e falsa scienza mettendo al bando la genetica e le sue teorie e suddividendo in buoni e cattivi gli scienziati in base alla tecnica da questi utilizzata per raggiungere certi risultati. Nonostante i disastri allora prodotti dalle pretese del controllo ideologico della scienza, la lezione non sembra essere servita a certi cattolici nostrani. Essi plaudono alla necessità di dettare norme morali per la ricerca sulle cellule staminali riducendo il numero delle opzioni disponibili solo a quella (le staminali “adulte”) che all’etica cattolica non certo alla comunità scientifica internazionale, peraltro raffigurata come esposta alle sirene del nihilismo etico appare la sola “promettente”.
Si dice: la vita dei vegetali su cui pontificavano i “materialisti dialettici” non aveva certo l’importanza che ha la vita degli embrioni umani. Il seme di una pannocchia non è “uno di noi”, un embrione sì. In verità, che l’embrione sia persona, una realtà spirituale, è solo il prodotto di una convinzione morale o di una credenza ideologica. Nessuna analisi di laboratorio potrà mai certificare il carattere di “persona” neppure di “persona in miniatura” di una blastocisti di quattro giorni e poche cellule. Chi fa uso della parola “embrione” per evocare una realtà “più che” biologica sta usando questo termine, non nel significato scientifico di “prima tappa dello sviluppo umano”, ma nel significato retorico che suscita pietà e commozione in chi legge o ascolta. Non c’è poi da meravigliarsi, dato l’uso disinvolto del linguaggio, che nel definire “etiche” le cellule ottenute dalla riprogrammazione delle adulte si trascuri di dire che lo stesso Yamanaka ha dovuto modificare geneticamente le adulte (“contaminando” così la purezza dell’ “Umano”), mettere a confronto queste con quelle embrionali e utilizzare le conoscenze di base conseguite con queste ultime per portare avanti la ricerca sulle prime. Che di ciò si taccia è una prova ulteriore del fatto che in Italia ideologia e teologia fanno aggio sulla scienza, imponendo autoritariamente proprio come Lysenko cosa cercare e come.
L’autore è membro della Consulta di Bioetica

l’Unità 15.9.10
Ribellarsi è giusto: la battaglia degli «schiavi» di Rosarno
di Paolo Calcagno

Milano Film Fest «Sangue verde» di Andrea Segre protagonista dell’«Immigration Day»
Il regista «Non siamo capaci di gestire l’immigrazione, si risponde col silenzio o con le armi»

Dopo il premio a Venezia, Milano: «Sangue verde» di Andrea Segre è stato ieri al centro dell’« Immigration Day» del Milano Film Festival. Il documentario racconta la rivolta degli immigrati di Rosarno.

In Italia, nel 2009, sono stati oltre 55mila i lavoratori stranieri (per la maggior parte africani), con permesso e senza, a essere sfruttati nella raccolta dei campi. A ricordarcelo è Sangue Verde, il documentario intenso di Andrea Segre, 34 anni, proiettato ieri al 15mo Milano Film Festival e in onda stasera su Raitre, intorno alle 23, per la serie «Doc 3»”.
Sangue Verde ricorda con immagini di repertorio i fatti di Rosarno, quando nel gennaio di quest’anno gli «schiavi» extracomunitari si sono ribellati alle angherie dei proprietari terrieri e alle imposizioni della ‘ndrangheta, stanchi di vivere in capannoni abbandonati, di dormire su giacigli improvvisati, di patire il freddo e perfino di vedersi negare, talvolta, i pochi soldi di compenso per il loro massacrante lavoro nella raccolta delle arance. Come si ricorderà, gli scontri di Rosarno condussero agli arresti di 30 «caporali» del posto e all’esodo forzato dei braccianti africani, minacciati di espulsione dal ministro degli Interni Maroni che li fece trasferire a Crotone e a Bari.
«Poi, a telecamere spente, quella gente fu abbandonata e molti ritornarono a lavorare nei campiracconta Segre -. Purtroppo, nel nostro Paese manca una politica capace di gestire questo fenomeno, giacché lo Stato, anziché fissare delle regole per l’utilizzo dei lavoratori stranieri dei campi e per la loro integrazione nel tessuto sociale, risponde con il silenzio o con la polizia. Noi ci accorgiamo della loro esistenza soltanto quando gli “schiavi” si ribellano alle continue vessazioni, non esclusa “la caccia all’uomo”, e decidono di scendere in strada a spaccare tutto».
Dopo aver vinto il premio «Cinema Doc» per il miglior documentario nella sezione Giornate degli Autori della recente Mostra di Venezia, Sangue Verde, ieri, è stato al centro dell’«Immigration Day» della rassegna cinematografica milanese che per il terzo anno esplora e analizza il mondo dell’immigrazione, con particolare riflessione al versante dell’integrazione socio-culturale.
Segre, che da anni si dedica alle storie migratorie, in Italia e all’estero (A Sud di Lampedusa, girato nel deserto del Teneré, tra Niger e Libia, è stato fra i suoi documentari più apprezzati; e in novembre girerà il primo ciak del suo film dedicato alla storia autentica de La Cinese, una giovane che si ritrova a lavorare in un’osteria della laguna veneta), ha approfondito i moti di Rosarno realizzando un mosaico di testimonianze, fra le quali quelle di 7 africani di 5 Paesi diversi.
«Sono braccianti che hanno lavorato nei campi del Sud: vengono dalla Costa d’Avorio, Ghana, Senegal, Burkina Faso, Congo spiega Andrea Segre -. Tutti hanno raccolto le arance in Calabria e tutti hanno subito intimidazioni da parte di piccoli gruppi, riconducibili alla mafia calabrese».
Fra i testimoni vi è anche un italiano, Giuseppe Lavorato, ex deputato ed ex sindaco pds di Rosarno dal ’96 al 2002.
«Lavorato, in qualche modo, costituisce la memoria storica dell’entità contadina di Rosarno e delle lotte per la terra dei braccianti calabresi, negli anni Cinquanta precisa Segre -. Si configura, così, una situazione parallela fra i braccianti africani di oggi e quelli italiani di ieri. Purtroppo, però, quei braccianti di ieri, oggi, sono diventati piccoli proprietari e anziché solidarizzare con chi viene sfruttato, come capitò a loro, spesso hanno persino preso parte alle spedizioni di “caccia all’uomo”, organizzate dalla ‘ndrangheta contro gli “schiavi” ribelli. Per fortuna, però, non tutti sono diventati razzisti e qualcuno è solidale con quei ragazzi neri che si sono rimboccate le maniche e sono scesi in piazza, come un tempo avevano fatto i braccianti italiani».

Corriere della Sera 15.9.10
Giorello, lezioni di ateismo liberale per chi rifiuta una fede intollerante
di Armando Torno

Lo scopo: «Liberare Dio da quelli che ne parlano troppo. E a vanvera»

Domani uscirà il saggio di Giulio Giorello, epistemologo ed erede di Ludovico Geymonat all’Università di Milano, Senza Dio. Del buon uso dell’ateismo. Noto per le sue tendenze laiche e, tra l’altro, per aver partecipato alla Cattedra dei non credenti istituita a suo tempo dal cardinale Carlo Maria Martini, non ha scritto un libro — se ne contano dozzine — che cerca di demolire con ogni mezzo l’idea di Dio, ma si ricorda come essa sia viva nell’uomo da quando è apparso sulla terra. Non fa dell’ateismo basso o volgare, di quel genere che crede di liberarsi dal problema con formule o battute, cerca piuttosto — di autore in autore — una via. Nelle sue pagine vi sono figure di atei convinti quali Sade o Feuerbach, non disdegna però di mettere in gioco le proprie convinzioni con Pascal o Kierkegaard. Il filosofo a cui guarda con più simpatia è Spinoza, che non si può certo definire ateo. Questo lo pensavano Bayle — che comunque credeva alla possibilità di una società di atei diversamente da un Voltaire che riteneva necessario il vincolo religioso — e pochi altri.
L’ateismo di Giorello si basa su una scelta di vita: egli rappresenta l’uomo che non sopporta alcuna autorità sopra di sé. Accetta Dio come amico, non come padrone. Il suo è ateismo pratico. Non nasce da deduzioni epistemologiche ma da quelle — il termine è inattuale, in tal caso però vale la pena spenderlo — esistenziali. Nel quarto capitolo lo chiama «ateismo metodologico», perché prova una forte indifferenza verso ogni assoluto (in tal caso riprende uno spunto di Jean Petitot). Si direbbe anzi che il fine a cui tende quest’opera non sia quello di liberarci da Dio, ma di liberare Dio da quelli che parlano troppo sovente a vanvera nel suo nome e, in tale veste, fanno la loro parte per dar forza agli argomenti dell’ateismo volgare. Inoltre vengono denunciate tutte le «chiacchiere» sulla religione civile, ultimo esercizio da salotto televisivo. È altresì vero che Giorello prova una discreta dose di nervosismo anche nel sentir nominare la religione della libertà (con il dovuto rispetto a Croce).
Insomma, il libro è rivolto a un mondo senza imposizioni. In esso l’ateo può essere compagno di strada del credente e diventa un fatto naturale chiedersi come si possa vivere, agire, lottare, morire quando si conta solo su se stessi. È la sfida per un nuovo Illuminismo, nel quale si avverte il bisogno d’amore a cui un tempo si dava il nome di Dio. Da «ateo protestante» (così si è dichiarato l’autore), Giorello non cerca di dimostrare l’assenza dell’Essere Assoluto, ma di definire l’orizzonte di un’esistenza senza di esso, rifiutando rassegnazioni e reverenze, ritrovando i piaceri della sperimentazione nella scienza e nell’arte, riscoprendo infine la libertà, soprattutto quando essa appare eccessiva alle burocrazie di qualsiasi «chiesa». Morale: Giorello spinge il lettore verso un ateismo non dogmatico, utilizzabile anche da un credente stanco dei vari fondamentalismi, gli stessi che alla Grazia del Signore hanno sostituito la repressione e l’intolleranza. Una sua battuta? «Non credo molto a slogan tipo Comunione e liberazione; se proprio devo sceglierne uno, preferisco Libertà e individualismo».

Corriere della Sera 15.9.10
Il giallo di Edoardo Agnelli
Un’inchiesta tv riapre il caso

Programma di Minoli a 10 anni dalla scomparsa

MILANO — Un «insofferente che soffriva», uno che «non vedeva possibilità a una vita felice» (Lapo Elkann, nipote). Un «adolescente perenne», un «Pollicino che si doveva confrontare con la grande storia di una grande famiglia» (Vittorino Andreoli, psichiatra). Uno che «si ribellava verso le cose costituite» (Lupo Rattazzi, cugino).
Edoardo Agnelli, figlio di Gianni e Marella Caracciolo, era di tutto questo un po’. Classe 1954. Un uomo stretto fra solitudine e filosofia, affascinato dalle religioni, deluso dalla vita. La mattina del 15 novembre 2000 si alzò di buon’ora nella sua villa, collina torinese. Infilò la giacca sul pigiama e «scappò» dalla scorta, si mise alla guida della sua Croma, imboccò la Torino-Savona e tirò dritto fino al chilometro 44,800. In quel punto — territorio di Fossano — c’è un viadotto alto 73 metri. Ed è fra i ciottoli e le erbacce ai piedi dei suoi pilastri che il corpo di Edoardo viene trovato, quella stessa mattina, dal pastore Luigi Asteggiano.
Sono passati dieci anni ma è come se il tempo si fosse fermato. Le domande restano le stesse. È stato un suicidio? E come mai nessuno lo ha visto quando ha accostato, è sceso, ha scavalcato il guardrail e si è buttato? Perché non è stata fatta l’autopsia? E se invece fosse stato un omicidio? Seguendo quest’ipotesi si finisce negli orari che non tornano: per esempio il pastore che dichiara di averlo trovato fra le otto e le otto e mezzo mentre il telepass dell’autostrada segna il passaggio della Croma alle 8.59. Poi c’è la scorta che non lo segue: come mai?
La lista delle domande senza risposta è ben più lunga. Le ha messe tutte in fila Giovanni Minoli con la sua La storia siamo noi. La puntata di giovedì 23 settembre si intitolerà L’ultimo volo ( Raidue, ore 23.30) e sarà dedicata al giallo di Edoardo Agnelli, alla sua vita bruciata e a quel che resta del suo ricordo. Sette, il magazine del Corriere della Sera in edicola domani, anticipa l’inchiesta tivù con un lungo servizio (Decennale di un suicidio presunto).

il Fatto 15.9.10
Oh, mio Dio!
Il Papa in Gran Bretagna ma in Europa i cattolici sono sempre più in crisi. L’immigrazione salverà la Chiesa?
di John Hooper, Riazat Butt, Rory Carroll e Xan Rice

Dorcas Gichane percorre a passo svelto per le strade del centro di Nairobi intorno a mezzogiorno, ora di punta per il traffico. Come centinaia di altri fedeli kenioti, approfitta della sua pausa pranzo per raggiungere la basilica cattolica della Sacra Famiglia. Alcuni fedeli attendevano l’inizio della messa curiosando in libreria. Altri recitavano una breve preghiera nella “sala dell’adorazione” dove era appeso un poster che ritraeva Gesù e i suoi discepoli, tutti neri. Dopo aver inviato un breve sms ad un’amica, Gichane, broker di assicurazioni elegante e dall’aspetto molto curato, svanisce nella cattedrale di cemento elevata al rango di basilica nel 1982. Dalle colonne pendono alcuni televisori a schermo piatto. Appoggiati alle pareti diversi tamburi. Gichane è cattolica come il 25% della popolazione del Kenya. Ogni giorno va a messa e la domenica mattina può scegliere tra una delle cinque chiese dove la messa viene celebrata in inglese o in Kiswahili.
Il bisogno di fede resta forte nel mondo
“MOLTI KENIOTI hanno frequentato scuole cattoliche ed è lì che inizia il nostro percorso nella fede”, dice. “Inoltre molti ospedali sono finanziati dalla Chiesa”. L’arcivescovo di Nairobi, il cardinale John Njue, offre una spiegazione più spirituale: “John S. Mbiti, uno studioso nato in Kenya, ha detto che gli africani sono notoriamente religiosi. E questo è vero. Non è una cosa imposta dall’esterno. La fede è un dato naturale. I missionari non ci hanno portato Dio, ma un diverso rapporto con Dio”. In Africa l’idea di cattolicesimo prevalente in Europa occidentale – vale a dire l’idea di una religione reazionaria e in declino – appare incomprensibile. “La chiesa è aperta”, protesta Gichane. In Nigeria l’arcivescovo Matthew Ndagosa di Kaduna osserva un orizzonte che farebbe morire di invidia i prelati occidentali. “Le chiese sono piene. I giovani vanno in chiesa”. L’esperienza africana mette in luce alcuni aspetti che corrono il rischio di essere ignorati nella polemica sulla visita di Papa Benedetto XVI nella sempre più laica Gran Bretagna. Uno di questi aspetti è che, mentre i cittadini dell’Europa occidentale abbandonano la religione, questo non avviene nel resto del mondo. Non possiamo affermare che i musulmani si stiano allontanando da Allah. Gli Stati Uniti restano un Paese profondamente religioso. Nei Paesi ex comunisti dell’est europeo milioni di persone hanno riabbracciato la religione ortodossa. E in molte parti dell’Asia, il ceto medio emergente trova proprio nella religione il contrappeso spirituale del benessere materiale appena conquistato.
Meno sacerdoti nel Vecchio Continente
SECONDO il World Christian Database la percentuale della popolazione mondiale che professa una delle quattro principali fedi (cristianesimo, Islam, induismo e buddismo) ha subito un notevole incremento negli anni ’70 e da allora non ha mai smesso di aumentare. Nel 2005 la percentuale era del 73%. Forte nei Paesi in via di sviluppo dove elevato è il tasso di natalità, il cattolicesimo ha ottenuto risultati egregi. Secondo le stime il numero dei cattolici battezzati ha toccato 1 miliardo e 166 milioni alla fine del 2008 con un incremento dell’1,7% rispetto all’anno precedente. Certo è discutibile il metodo seguito dalla Chiesa cattolica secondo cui chi viene battezzato rimane cattolico per sempre, ai fini statistici. Ma adottando altri sistemi di rilevamento non si può negare che il cattolicesimo sia in espansione. Continua ad aumentare il numero dei sacerdoti cattolici che alla fine del 2008 erano quasi 410.000. Ma
mentre nel 2008 il numero degli aspiranti al sacerdozio è cresciuto in Africa, Asia e Oceania ed è rimasto stabile nel continente americano, è diminuito del 4% in Europa. Qui veniamo alla sfida principale del cattolicesimo: la secolarizzazione del vecchio continente. Era questo il problema che più assillava cinque anni fa i cardinali riuniti in conclave a Roma per eleggere il successore di Giovanni Paolo II. Decisero che il più indicato ad affrontare il problema fosse il collaudato collaboratore del Pontefice appena deceduto, Joseph Ratzinger. A cinque anni dalla elezione di Benedetto XVI, per il Vaticano la situazione della Chiesa cattolica in Europa perè è diventata un incubo. Una serie di scandali che hanno visto coinvolti sacerdoti accusati di molestie e, a volte, di violenza carnale nei confronti di bambini ha indotto migliaia di cattolici europei a mettere in dubbio o ad abbandonare la fede. Le conseguenze sono visibili più che altrove in Germania, Paese natale del Pontefice. Secondo i dati pubblicati ad aprile di quest’anno dal quotidiano Die Welt, nella maggior parte delle diocesi il numero di cattolici che nel mese precedente avevano abbandonato la Chiesa era il doppio rispetto allo stesso mese del 2009. Ma lo scandalo pedofilia, a lungo tenuto nascosto, ha semplicemente accelerato una tendenza già in corso. La Chiesa cattolica tedesca era in declino da anni: tra il 1990 e il 2008 il numero dei cattolici registrati era diminuito dell’11%. Sebbene il declino negli altri Paesi non possa essere quantificato con altrettanta precisione, alcuni segni sono inconfondibili: scarsa presenza alle cerimonie religiose, seminari semivuoti. L’unico fattore che ha rallentato questa deriva è stata l’immigrazione che in molte parti d’Europa è costituita da persone in larghissima misura cattoliche. In Gran Bretagna gli immigrati provenienti dall’Europa orientale, dal Sud America e dall’Africa occidentale hanno riempito i banchi delle chiese. Ma l’esperienza svizzera fa capire che l’effetto immigrazione è temporaneo. Da uno studio condotto tre anni fa dal Schwizerisches Pastoralsoziologisches Institut è emerso che mentre nel 1970 quattro quinti degli immigrati erano cattolici, nel 2000 la percentuale era scesa al 44%. Il dato va attribuito in parte al crescente numero di immigrati provenienti da Paesi non cattolici, ma riflette la tendenza, rilevata anche in altri Paesi, degli immigrati ad abbandonare la loro religione di origine quando si integrano nelle società europee sempre più secolarizzate. Assai dannosa, in termini di numero dei fedeli, è stata la silenziosa emorragia di milioni di cattolici la cui fede arrivata al punto di rottura per la contraddizione tra gli insegnamenti del Vaticano e la realtà di tutti i giorni.
Contraddizione tra precetti e realtà del movimento progressista laico Wind Sind Kirch, la vede però in modo diverso. “I vertici della Chiesa hanno perso il contatto con la comunità ecclesiale”, sostiene. “Non si tratta solo di secolarizzazione. La Chiesa che ha perso il contatto con queste persone”. Weisner indica i due principali motivi di conflitto. Il primo fu creato nel 1968 dall’enciclica di Paolo VI Humanae Vitae che proibiva il controllo delle nascite. “Ciò indusse molti cattolici, compresi diversi buoni cattolici, a prendere atto che la Chiesa non era dalla parte della gente”, dice Weisner. Il secondo motivo di conflitto va individuato nell’atteggiamento nei confronti delle donne. Il Vaticano vieta ai sacerdoti si sposarsi e vieta alle donne il sacerdozio. Lo stridente divario tra il pensiero dei vertici della Chiesa cattolica e quello dei suoi fedeli emerse nel 1996 da uno studio americano sui cattolici degli Stati Uniti, delle Filippine e di quattro Paesi europei. In America e in tutti i Paesi europei, con l’eccezione della Polonia, la maggioranza era favorevole al matrimonio dei sacerdoti e al sacerdozio femminile. E il dato riguardava anche Paesi ritenuti conservatori quali l’Irlanda e l’Italia. In Irlanda il dato a favore del matrimonio dei preti, l’82%, era il più elevato in assoluto. In Italia il 58% dei cattolici si dichiararono favorevoli al sacerdozio delle donne. Le speranze di molti cattolici europei di un ripensamento della Chiesa su questi tem sono naufragate quando a marzo, quando sull’onda degli scandali sessuali un cardinale ha detto che forse era venuto il momento di rivedere la questione del celibato. Benedetto XVI ha replicato con un discorso che tesseva le lodi del
celibato come “espressione del dono di sè a Dio e agli altri”.
Ratzingere e la teoria della “minoranza creativa”
QUESTE PRESE di posizioni sembrano denotare un atteggiamento di indifferenza alla sensibilità di molti cattolici il cui attaccamento alla Chiesa è ormai appeso ad un filo. Ma, come dice Andrea Tornielli, autore di Attacco a Ratzinger, un pamphlet appena pubblicato su Benedetto XVI, il Papa “non pensa alla ri-cristianizzazione dell’Europa in termini di riconquista di tipo militare. Non è una questione di numeri”. Tornielli è convinto che per capire cosa pensa il Pontefice sia necessario riflettere su una frase da lui usata: “Minoranza creativa”. In un discorso pronunciato lo scorso anno, Benedetto XVI ha sostenuto che “sono generalmente le minoranze creative che determinano il futuro e, sotto questo profilo, la Chiesa cattolica deve ac-
cettare di essere una minoranza creativa che ha un patrimonio di valori che non appartengono al passato, ma rappresentano una realtà viva”. Alcuni sono convinti che il Papa voglia una gruppo di credenti più piccolo, ma teologicamente più omogeneo in attesa di tempi migliori. Vedendo la realtà in questi termini, la Gran Bretagna non è dopo tutto un luogo così ostile per il Papa. Il suo cristianesimo tradizionale si è già rivelato irresistibile per molti anglicani conservatori. E quando parla di minoranze creative, può anche darsi che pensi a gruppi come quelli di “Gioventù 2000”, che organizzò a Walsingham un meeting di 5 giorni di cattolici di età compresa tra i 16 e i 30 anni. All’evento parteciparono circa 1.000 persone che ebbero modo di parlare di Vangelo. Obiettivo dichiarato del gruppo è di “ricondurre” i giovani a Dio. Padre Stephen Wang, sacerdote londinese e preside del seminario di Allen Hall, dice che molti giovani cattolici “vogliono essere radicati nella fede cattolica”. Per le generazioni precedenti cresciute nella fede la sfida consisteva nel costruirsi un’identità laica. Per i giovani cattolici di oggi è vero il contrario. A Città del Messico, all’interno della Basilica di Nostra Signora di Guadalupe si vede un approccio meno intellettuale alla fede. I genitori di bambini malati, gli studenti che debbono sostenere un esame e i contadini che temono un cattivo raccolto fanno la fila davanti a una piccola scatola di stagno giallo nella cui fessura mettono la letterina ripiegata che chiede a Dio il miracolo. La Basilica apparentemente dovrebbe essere un motivo di consolazione per Benedetto XVI. Ogni anno circa 20 milioni di persone vengono qui per ammirare un telo sul quale sarebbe impressa l’immagine della Vergine Maria.
Il sindaco di Città del Messico contro il cardinale
MA IN MESSICO ci sono i segni di ciò che il Vaticano teme di più: che l’erosione di cattolici in Europa altro non sia che l’inizio di un declino generalizzato. Il dominio della Chiesa vacilla. Dal Rio Grande fino alle Ande, le anime si allontanano dai precetti della Chiesa. Nel corso di un feroce polemica sulla legalizzazione del matrimonio gay e dell’aborto, il sindaco di Città del Messico, Marcelo Ebrard, ha denunciato il cardinale Juan Sandoval per diffamazione. Nel quartiere gay “Zona Rosa”, responsabile di una associazione civica che garantisce analisi gratuite per accertare l siepositività, Martin Luna, sembra riprendere le critiche care ai progressisti europei secondo cui “la Chiesa in tutti questi secoli non è cambiata”. Ma l’America Latina rimane anche fedele alla sua tradizione cattolica. Persino la retorica marxista di Hugo Chavez è cosparsa di riferimenti al cattolicesimo. L’aborto è illegale nella maggior parte dei Paesi. Ma la marea della secolarizzazione monta. Una popolazione sempre più urbana e istruita non si inginocchia più dinanzi al pulpito. Il presidente cileno Sebastian Pinera ha promesso maggiori diritti alle coppie omosessuali. Dilma Roussef, che ha buone probabilità di diventare ad ottobre il prossimo presidente del Brasile, è favorevole alla legalizzazione dell’aborto. Dice David Stoll, antropologo degli Stati Uniti: “Se fossi il Papa, l’America Latina sarebbe per me motivo di grande inquietudine”.
Copyright The Guardian; Traduzione di Carlo Antonio Biscotto

martedì 14 settembre 2010


il Fatto 14.9.10
Psichiatria Democratica
I giovani turchi, Ferrero e i gruppi veltroniani Fotografia di un partito perennemente in analisi
Il 25 settembre Veltroni a Orvieto Potrebbe diventare la “Mirabello” di centrosinistra
di Luca Telese

ANTEFATTO ICONOGRAFICO. Guardate per un attimo la foto di questa pagina. Pier Luigi Bersani chiude la festa di Torino. In piedi, solo. Per la prima volta un leader del Pd parla senza angeli custodi, senza alfieri, senza l’abbraccio dei due principali dirigenti del partito, immancabilmente vicini a lui. Quanta distanza dal rituale di tutti gli altri anni: il segretario sul palco, e tutti i leader, simbolicamente stretti intorno. Magari ipocritamente, stretti, ma tutti, almeno una volta l’anno, lì, come nella foto della classe all’inizio dell’anno. Ora abbandoniamo la foto, e passiamo al calvario della cronaca, dalle faide dei giovani turchi ai rumors di scissione, ai motivi per cui Orvieto potrebbe diventare una “Mirabello” di centrosinistra.
RETROSCENA REDAZIONALE. Per una volta vale la pena di raccontarvi come si può decidere un articolo nella riunione di questo giornale. Eravamo appena tornati dalla meravigliosa festa della Versilia, e già i nostri telefoni tril-
lavano su un unico tema: il Pd. Un veltroniano ti dice peste e corna di un dalemiano e viceversa (fin qui nulla di nuovo); poi arrivano aggiornamenti, ritrattazioni, agenzie, colpi di scena. Quindi la girandola della rassegna stampa. In due giorni, dal documento dei quarantenni anti-veltroniani, alle correnti storiche, un fermento criptato e indecifrabile per chi non possiede i codici delle faide antiche. A questo punto il direttore si mette a solfeggiare e a parafrasare: “Pi.... Di...., Pi... Dì... Psichiatria Democratica”. Ovvero: ci sono chiari segni di distorsioni dell’ego e di alterazione delle percezioni dell’io, in quel partito. Lettere para-psicanalitiche ai giornali, mezze verità, indiscrezioni pilotate, colpi bassi. Per dire. Secondo Il Corriere della sera, la settimana scorsa Bersani avrebbe stretto un patto con Paolo Ferrero per eleggere dieci parlamentari nelle liste del partito, con una “ospitata” tecnica stile radicali. Cerco il segretario di Rifondazione al telefono per capire se le sue smentite siano rituali o credibili. Lui è furibondo: “Se stiamo dialogando con Bersani? Certo! Lo dico da mesi. Se è vero che abbiamo stretto un accordo per eleggere i nostri dirigenti? Assolutamente no si indigna è una follia paranoica, messa in giro con malizia dai veltroniani, magari per far piacere a Vendola”. Chiedi: in che senso? E lui: “È una cosa che non sta nè il cielo nè in terra rincara la dose Ferrero ma che punta a farci apparire come dei dirigenti all’asta che vanno da Bersani per farsi garantire con il piattino in mano. Beh ruggisce il segretario non è così!”. In fondo basta questo sfogo per capire che la situazione è incandescente, e che la frattura interna influenza anche i rapporti con gli altri. Però restano dei fatti: le dichiarazioni entusiastiche di Ferrero e Oliviero Diliberto sul “Nuovo Ulivo” bersaniano, e gli editoriali dei giornali amici (ad esempio quello di Stefano Menichini su Europa) che la settimana scorsa davano già per certo l’accordo. Frammenti di schizofrenia?
ENDORSING FAGIOLINO.
La nostra riunione finisce così, e l’articolo, è commissionato. Ore 13.15 (non è uno scherzo), sulle agenzie arriva l’endorsement di Massimo Fagioli, psichiatra e ricercatore della mente, che ufficializza la fine del rapporto con l’ex leader presidente della Camera Fausto Bertinotti: “Attualmente la simpatia è per Bersani”. Le ironie sono fuori luogo. Sembra piuttosto un segno, la spia di un disagio, il turbinare di un cortocircuito fra politica e psiche. Come è noto Fagioli era stato un fan accanito di Bertinotti, fino a che non era apparsa sulla scena Nichi Vendola. Dopo di allora lo psichiatra non aveva fatto mistero di considerarlo “deviante” per la sua omosessualità. Ora Fagioli spiega la sua nuova predilezione per Bersani: “È il solo in grado di provare a rimettere insieme la sinistra, l'unico che ancora mantiene laicità e saggezza”. Ma davvero c’è una crisi di identità nel Pd? L’ultima crisi di identità, è la grottesca storia dei cosiddetti “Giovani Turchi”, un gruppo di quarantenni vicini a D’Alema, che scrivono un documento caustico contro il fondatore del Pd convocando una riunione ad Orvieto: “La politica interpretata come Hollywood, come un tour promozionale per propagandare se stessi”. La vera accusa a Veltroni è, ancora una volta, psicanalistica: quella di essere inconsapevolmente berlusconiano, affetto da protagonismo e bisogno di leadership. Però “i giovani turchi” non hanno la tempra di Ataturk. Basta il pronunciamento di due ex veltroniane bersaniane, Stella Bianchi e Annamaria Parente perchè sia annullata l’iniziativa, prevista per il 25. Una indubbia vittoria dei veltroniani. Ma Orvieto è la città dove è nato il Pd, e dove Veltroni in un celebre discorso parlò per la prima volta della vocazione mag-
gioritaria: “Non so quando saranno, so che alle prossime elezioni andremo da soli”. Lo disse il sabato, il lunedì Mastella abbandonò la maggioranza, il giovedì cadde Prodi. Il 25, a Orvieto, si tiene anche un convegno di Libertà eguale (la componente ex riformista del partito) con Veltroni e Sergio Chiamparino.
I GRUPPI AUTONOMI. Ma cosa c’è di vero nell’ipotesi avanzata ancora una volta dal Corriere, che i veltroniani vogliono fare un gruppo autonomo”. Una follia? O un inconfessabile desiderio inconscio? Walter Verini, braccio destro di Veltroni sorride: “Balle”. E in serata Veltroni interviene: “Niente gruppi: c’è bisogno che il Pd recuperi forza, si deve lavorare per fare del Pd”. Ma a Orvieto Veltroni potrebbe meditare un nuovo strappo. Magari un appoggio tecnico al sindaco di Torino, già con un piede fuori dal partito, all’insegna dello slogan: “Oltre il Pd per tornare a vincere”. Fini torna nella “sua” Mirabello per costruire un’altra destra. Veltroni nella “sua” Orvieto per un altro centrosinistra.


l’Unità 14.9.10
L’ex leader chiede «più coraggio». Ma Area democratica non lo segue
Veltroni: il Pd cambi Bersani: ma divisi non siamo credibili
Oggi Bersani riunisce al Nazareno tutti i big del partito: «Dobbiamo dimostrarci pronti a governare. Discutiamo pure, ma delle proposte per l’Italia». Veltroni chiede di recuperare lo «spirito originario» del Pd
di Simone Collini

«Di fronte alla crisi della maggioranza il Pd deve dimostrarsi pronto a governare il paese», dirà oggi Pier Luigi Bersani aprendo la riunione con tutti i big del partito. Ovvero è il ragionamento che farà il segretario del Pd agli altri membri del coordinamento convocati al Nazareno ben vengano discussioni sulle proposte concrete, ma perdersi ora in polemiche e divisioni può far perdere l’occasione di chiudere l’era del berlusconismo e tornare al governo. Un appello che arriva dopo che nei giorni immediatamente precedenti e successivi l’intervento di chiusura alla Festa del Pd alcuni giornali hanno parlato dell’irritazione dei veltroniani per un presunto accordo elettorale con Prc e Pdci (smentito da Bersani), poi per un’iniziativa a cui hanno dato vita alcuni quarantenni bersaniani (i cosiddetti “giovani turchi”), poi per la decisione di chiudere a Torino con la “vecchia formula” del comizio (a cui avevano rinunciato negli ultimi due anni Veltroni e Franceschini). Fino alla notizia che i veltroniani starebbero pensando di fare dei gruppi autonomi alla Camera e al Senato. Anche questa smentita, per bocca di Walter Verini: «È del tutto infondata». Restano però le critiche: «Il nostro partito dice il braccio destro di Veltroni riprendendo un sondaggio pubblicato da “Repubblica” e che dà il Pd al 26,5% raggiunge nei sondaggi il suo minimo storico, e questo in una condizione politica che dovrebbe essere assolutamente favorevole ad una forza di opposizione».
LINEE A CONFRONTO
Per Bersani non è però in questo modo che si rilancia il Pd: «Discutiamo pure, ma sulle proposte concrete da presentare all’Italia», è il messaggio che lancia agli altri dirigenti. «Adesso dobbiamo smetterla di guardarci la punta delle scarpe e dobbiamo rimboccarci le maniche, dobbiamo lanciare una forte mobilitazione già in questi giorni di riapertura delle scuole e poi attraverso l’Assemblea nazionale». Che si terrà ad ottobre a Milano, o comunque in una capitale del Nord (anche per rispondere alle sollecitazioni di Sergio Chiamparino nei confronti di questa parte del paese).
All’incontro di oggi Veltroni vuole andare senza provocare rotture ma comunque ribadendo la sua tesi per un cambio di linea. Il Pd deve cioè recuperare lo «spirito originario», dimostrare «più coraggio» nel mostrarsi come il partito «che combatte tutti i conservatorismi», presentarsi come la forza «che vuole il cambiamento». L’ex segretario non ci sta a passare per uno tentato dalla scissione: «Io ci credo più di altri nel Pd, l’ho fatto nascere si è sfogato con i suoi e voglio rafforzarlo». Anche il discorso delle alleanze, per Veltroni, va affrontato partendo da un «investimento» su questo partito, perché più forte è, più forte sarà la sua capacità attrattiva e meno potere di ricatto avranno le forze minori. Il discorso di Bersani alla Festa di Torino ha sì fissato dei paletti per quel che riguarda il confronto con l’Udc e l’esclusione di Prc e Pdci dal patto di governo, ma per Veltroni «la sfida è aprirci e raccogliere energie fresche e nuove», non cercare accordi politici in base a ragionamenti puramente aritmetici.
Veltroni andrà però al confronto anche sapendo che altri dirigenti di Area democratica come Dario Franceschini, Piero Fassino, Franco Marini, sono più vicini alle posizioni del segretario che alle sue, o a quelle dell’ex-ppi Beppe Fioroni o di Paolo Gentiloni. Entrambi, così come pure Veltroni e Chiamparino, saranno al convegno organizzato da LibertàEguale ad Orvieto la prossima settimana. Mentre tutti i veltroniani sembrano intenzionati a disertare le giornate di Area democratica che sta organizzando Franceschini ad Amalfi per la fine ottobre.

Repubblica 14.9.10
Veltroni, sfida aperta a Bersani un documento sul "Pd tradito"
Asse con gli ex ppi. I fedelissimi: può ritentare da premier
Raccolta di firme tra i parlamentari. Il segretario: non ci sono esclusive sullo spirito originario
di Goffredo De Marchis

ROMA Walter Veltroni prepara la campagna di autunno. Non solo per lanciare il libro di prossima uscita "Rivoluzione democratica" dove, dopo tanti romanzi, rimette al centro la politica e lo spirito originario del Pd rimosso dai successori. L´obiettivo finale dell´ex segretario è riprovare la corsa per Palazzo Chigi. «Mi sembra improbabile, ma non impossibile», dice il suo fedelissimo Stefano Ceccanti. «Vendola non ce la fa. Parla solo a un piccolo pezzo del Paese. Bersani nemmeno, figuriamoci. Con lui il Pd ha perso tutta la sua autorevolezza... «, spiega l´altro veltroniano, Giorgio Tonini. Dunque, solo Walter ha le carte in regola. Il libro è un singolo tassello della strategia. Nell´immediato c´è la denuncia di un tradimento. Quello compiuto da Bersani colpevole di aver dimenticato i valori fondativi del progetto, di rispolverare l´Ulivo e andare a caccia di alleati. Denuncia che finirà nero su bianco, in un documento programmatico su cui Veltroni in persona sta cercando firme tra i parlamentari.
L´ex sindaco sta scrivendo il testo che mette in mora l´attuale gestione del Pd. L´uscita è prevista per la fine della settimana, una volta raccolto un numero sufficiente di adesioni. Beppe Fioroni ha promesso un mare di autografi nel confine degli ex popolari. Ai quali si aggiungeranno i deputati e i senatori di stretta osservanza veltroniana. Fioroni e Veltroni si sono incontrati ieri per fare il punto. I bersagli sono due: Bersani e il capogruppo Franceschini. Il "manifesto" contesterà punto per punto la linea del partito e dichiarerà esaurita l´esperienza di Area democratica, la minoranza interna. Bisogna dimostrare che ormai il capogruppo Dario Franceschini si può considerare a tutti gli effetti un bersaniano doc. Il documento segna una novità assoluta nel percorso politico di Veltroni: la nascita di una corrente e la sua guida. Smentita, per il momento, l´ipotesi di dare vita a gruppi autonomi sul modello di Futuro e libertà. «Io sto nel Pd», dice l´ex leader. Ma le mosse del suo ritorno prepotente nel campo del centrosinistra sono evidenti. E innervosiscono il gruppo dirigente del Pd.
Oggi torna a riunirsi il caminetto. Ci sarà Veltroni, ci sarà D´Alema, ci sarà Bersani. Il segretario è pronto ad affrontare di petto le critiche, tanto più dopo l´esito considerato positivo del comizio alla Festa di Torino. Con un argomento polemico rivolto proprio a Veltroni. «Nessuno si può intestare lo spirito originario del Pd». Avremo perciò l´antipasto di uno scontro che presto potrebbe spostarsi sul terreno delle primarie. Per le quali sono già in campo Nichi Vendola e Sergio Chiamparino, non a caso anche loro autori di libri autobiografici appena usciti o in uscita. E per le quali Bersani è il candidato naturale del Pd. Anzi, per statuto l´unico democratico che può correre in quanto segretario. «È lo statuto voluto da Veltroni, no?», osserva il coordinatore Maurizio Migliavacca.
Tira un´aria cattiva nel cielo democratico ora che le elezioni si allontanano. I "giovani turchi", quarantenni che si richiamano al rinnovatore Ataturk, dopo una frenata sono pronti a rilanciare il loro documento, dura critica verso tutto il gruppo dirigente con attacchi personali rivolti soprattutto all´ex segretario. I veltroniani però faranno pesare le firme sotto il documento Veltroni-Fioroni. I maligni dicono: non arrivano a 20. Se fossero di più il problema si pone. Ma sono i numeri dei sondaggi a muovere la "campagna di Walter". Quello sul Pd, dove il partito si ferma a un misero 26,5 per cento e non guadagna voti dalla crisi del centrodestra, torna utile per contrastare la leadership di Bersani. Quello preoccupante sul gradimento dei leader, dove Veltroni scivola parecchio dietro Vendola, Chiamparino e Bersani, impone invece il cambio di passo.


l’Unità 14.9.10
Nuovo Ulivo alleato con l’Udc Restano i dubbi di Idv e Vendola
Di Pietro: «A Bersani risponderò a Vasto, ma Casini resta un avversario. E il governatore: «L’alternativa non si fa nei palazzi». Giordano: «Le alleanze? Decide chi vince le primarie»
di Andrea Carugati

Nessuna bottiglia di champagne, in casa dei dipietristi e dei vendoliani, dopo il discorso con cui Bersani a Torino ha rilanciato la proposta di alleanza tra nuovo Ulivo e Udc. Ma le reazioni del giorno dopo fanno capire che qualcosa è cambiato da fine agosto, quando Bersani aveva lanciato per la prima volta l’idea di un’alleanza a «due cerchi» e le rispo-
ste di Tonino e dei vendoliani erano state tranchant: «Casini è un’avversario». Stavolta Idv e Sel hanno capito che si fa sul serio, che è ora di mettersi a un tavolo con Bersani per costruirla davvero, un’alternativa a Berlusconi. E allora i toni sfumano. Di Pietro prima detta alle agenzie una dichiarazione dura: «Vogliamo allearci con quella parte del Pd che non vuole fare inciuci con gli avversari, e Fini e l’Udc sono nostri avversari». Poi corregge il tiro: «A Bersani risponderemo nella nostra assemblea programmatica a Vasto questo fine settimana. Li tracceremo condizioni e limiti della coalizione che abbiamo in mente. Ho ascoltato il leader Pd, ci sono luci e ombre, ma dobbiamo trovare un punto d’incontro». Nel pomeriggio Di Pietro riunisce i suoi parlamentari, per fare il punto su cosa dire a Vasto. Sintetizza all’uscita il capogruppo Donadi: «Abbiamo parlato del perimetro del centrosinistra, e Casini non ne fa parte».
Vendola, pur memore delle ruggini pugliesi, è più possibilista. «Costruiamo un vocabolario che metta insieme le parole del futuro, questo è l’inizio del cambiamento, un’operazione che non si può concludere al chiuso dei palazzi e delle segreterie». E Casini? «I veti non bisogna né subirli né esercitarli, non bisogna mai mettere il carro davanti ai buoi. I volenterosi, se fossero disponibili a voltar pagina, dovrebbero essere i benvenuti nella coalizione del cambiamento». Spiega il suo braccio destro Nicola Fratoianni: «Noi vogliamo una coalizione, il dialogo col Pd è aperto e sui contenuti Bersani ha detto molte cose convincenti. Ma appunto non si può discutere di alleanze con l’Udc prima che di programmi, altrimenti finisce come in Puglia dove il Pd ha aspettato per mesi il Godot Casini... Prima bisogna mettersi d’accordo sui punti chiave del programma, poi scegliere il leader con le primarie e solo alla fine si valuta se è possibile allargare l’alleanza al centro». Ancora più netto Franco Giordano: «Noi non mettiamo veti sull’Udc, ma la proposta di Bersani così com’è sa di status quo, manca un’invenzione che coinvolga il nostro popolo. Prima bisogna fare le primarie, è lì che si decide quale coalizione e quale programma. Non le puoi convocare quando hai già deciso tutto...». E se poi l’Udc non ci sta? «Anche in Puglia si è detto per mesi che senza l’Udc non si vinceva, e invece...», sorride Fratoianni.

l’Unità 14.9.10
Forse per Gelmini la scuola pubblica è di sinistra?
di Fabio Luppino

P oteva fermarsi alla sottovalutazione bonaria dei simboli leghisti nella scuola di Adro, comunque fatto grave per un ministro. Gelmini ha voluto strafare, denotan-
do protervia culturale e voglia di rivincite antiche quando ha detto che il pericolo vero sono i simboli di sinistra nelle scuole. Sono progressista di formazione, di sinistra ma senza illusioni, scarsamente ideologico, socialdemocratico dentro il Pci. Ma mi avrebbe molto seccato, fortemente contrariato trovare nelle scuole dei miei figli «simboli di sinistra», così come le pennellate celtiche di Adro, anche di più. Passo in rivista più e più volte quello che vedo entrando in una scuola (perché non si può essere sempre contro per principio), ma ho grandi difficoltà ad accogliere la preoccupazione del ministro. Il crocefisso? No. La foto del Presidente della Repubblica? No, non poteva parlare di quella. I presidi con la porta aperta, a volte? Certo potrebbero generare sospetti, ma di sinistra è un po’ più forte, direi. Bidelli (personale Ata, sì) senza divisa? Certo, qualche decennio fa le avevano, a volte azzurre, a volte nere, ma adesso i soldi non ci sono nemmeno per quelle. No, passiamo oltre.
O forse che siano di sinistra i banchi rotti, i muri scrostati, i bagni non puliti, le palestre senza l’agibilità, la mancanza della carta igienica, le serrande rotte, le porte che non si chiudono e che nessuno aggiusta? Potrebbero, forse, come conseguenza di un modo rivoluzionario di stare a scuola dei ragazzi, al pari della gelatina sui capelli, dei pantaloni portati più bassi delle mutande, dell’orecchino, del piercing, della capacità a volte di fare domande intelligenti...
Ecco, forse ci sto arrivando. Se uno studente sa parlare, pensare, studiare, educato come cittadino consapevole, forse è questo il punto, il problema. Se la scuola Gelmini è di destra, perché la riforma delle superiori tagliando il sapere sta affievolendo i presupposti dell’Istruzione costituzionale, la scuola pubblica, laica, nata per formare, includere, consentire l’ascensore sociale, garantire l’attuazione del principio di eguaglianza è di sinistra. La scuola, è di sinistra!
Allora, il punto è questo. Avere libri non orientati, insegnanti capaci di destare lo spirito critico, scrivere, formarsi un’opinione libera, non aderire a schemi precostituiti, esercitare obiezione di coscienza grazie ad una approfondita conoscenza delle cose. Tutto questo è di sinistra, forse? Se è così, rivendichiamo che questa sia la scuola, pubblica, e anche non pubblica. Quello che Gelmini e il governo di cui fa parte stanno aspramente combattendo da due anni con geometrica potenza.

Repubblica 14.9.10
Il successo dell´ultimo saggio "Comune" che esce ora in Italia
Quel che l´America legge in Toni Negri
di Federico Rampini

È un segno della confusione dei tempi: Candy Crowley, la più autorevole anchorwoman politica di Cnn, nel suo Tg fa un elogio del nuovo capo-economista della Casa Bianca, Austan Goolsbee, «perché finalmente cita Marx e Trotsky nei suoi discorsi». Goolsbee ha solo 41 anni e ha già alle spalle una brillante carriera accademica alla University of Chicago. Ma sì, proprio quella di Milton Friedman, il padre del neoliberismo reaganiano. Suo amico di lunga data, Obama lo ha appena nominato alla guida del Council of Economic Advisers. Ma Goolsbee ha un vizietto che di questi tempi potrebbe giorcargli brutti scherzi: adora dissacrare, ironizza su se stesso e sul presidente, va ai talkshow satirici come quello di Jon Stewart a fare l´auto-caricatura dell´economista-guru. Le sue citazioni di Marx e Trotsky – «i testi sacri che abbiamo rispolverato per capire questa crisi» – sono frecciate contro l´accademia e il pensiero unico che ha dominato la politica economica americana negli ultimi trent´anni. Colpisce nel segno, anche perché la destra americana è pronta a vedere il socialismo in agguato dietro l´angolo. E questa è senza dubbio una chiave del sorprendente successo di Toni Negri in America. Ora che esce in Italia la traduzione della sua ultima opera firmata con Michael Hardt, Comune (Rizzoli), vale la pena ricordare com´è stata accolta un anno fa negli Stati Uniti. In un´America sotto choc per la sua recessione più grave dagli anni Trenta, il Wall Street Journal salutava il saggio di Negri con un «Benvenuti nel Manifesto del partito comunista, versione 2.0», come si usa designare l´ultimo e più avanzato modello di un software digitale. Il quotidiano di Rupert Murdoch, la Bibbia della classe dirigente capitalista, sentenziava in quell´occasione: «Karl Marx è tornato di moda». E aggiungeva: «Antonio Negri e Michael Hardt sono nella posizione ideale per sfruttare questo revival visto che il loro libro reinventa un marxismo per il XXI secolo». Per Brian Anderson, sulla pagina dei commenti del Wall Street Journal che è un barometro fedele dell´intellighenzia di destra, «è inquietante che Comune sia stato pubblicato sotto un´insegna prestigiosa come quella della Harvard University Press». Il saggio è pericoloso? Abbastanza da essere definito: «la miscela dello stregone del radicalismo contemporaneo». La fortuna di Negri, in un certo senso, coincide con la sfortuna di Obama. La trilogia composta dalle opere Impero, Moltitudine e Comune non si distingue molto da quella prolifica vena di saggistica anti-capitalista, anti-globalizzazione e anti-americana che ha conosciuto un boom almeno dai tempi della rivolta di Seattle contro l´Organizzazione del commercio mondiale, nel 1999. Risale a quelle giornate di guerriglia urbana la rinascita di un movimento di contestazione radicale, che si voleva erede del Maggio Sessantotto, delle lotte operaie e studentesche degli anni Settanta. In qualsiasi libreria italiana o francese, tedesca o spagnola, la trilogia di Negri-Hardt si perde in mezzo a una montagna di opere simili, e similmente ripetitive. In America però tocca un nervo scoperto. Coincide con i sospetti della destra, soprattutto l´ala populista e movimentista del Tea Party, sul presunto "socialismo" di Obama e del suo clan. Nell´arco di dodici mesi, la crisi che ha messo a nudo tutte le storture del capitalismo americano, è stata rovesciata contro l´attuale presidente e viene riletta come una crisi dovuta all´eccesso di interventismo pubblico, al ritorno dello Stato Leviatano. Comune diventa così un testo sospetto, perché gli oltranzisti di destra guidati da Sarah Palin e Glenn Beck hanno questo in comune con Negri: sono convinti anche loro che il comunismo sia attuale, praticamente dietro l´angolo. Quello della Casa Bianca.

Corriere della Sera 14.9.10
In sintesi, l’ubiquità di questo tipo di leggi mostra che, nel pur complesso mondo della natura e della mente, c’è più ordine e regolarità di quanto si pensasse
Corpo e pensiero. L’attività è scandita da regole matematiche
Scoperte le «leggi di scala» legate anche ai processi cognitivi
Nel linguaggio prevalgono le parole corte

di Massimo Piattelli Palmarini


Carta, matita e quattro minuti di tempo. Pronti? Fate una lista di ciò che vi ricordate di aver fatto ieri (appuntamenti, impegni di lavoro, attività in famiglia e così via). Fatto? Ora, di nuovo la stessa situazione, ma adesso scrivete ciò che vi ricordate per il mese scorso. Poi, fatto questo, ciò che vi ricordate per l’anno passato. Ebbene, in ciascuno di questi compiti avrete scritto cinque vostri ricordi al minuto, indipendentemente dal lasso di tempo mentalmente immaginato (giorno, mese, anno). Appena un po’ più di cinque se vi avessi, invece, chiesto di fare una lista di ciò che intendete fare domani, o nel prossimo mese o nell’anno che viene. La lezione da trarre da questo esperimentino è che esistono delle costanti di scala, delle regole, anche per i nostri processi mentali.
Tali leggi si estendono dalla memoria al linguaggio, dalla percezione al controllo della motricità. In altre parole, il nostro cervello, come anche quello di altre specie, lavora secondo notevoli regolarità. Intuitivamente, questo significa che, passando da piccole a grandi dimensioni, i rapporti tra varie altre grandezze restano costanti.
Molti fenomeni di questo tipo sono stati scoperti in biologia. Per esempio, il fisiologo svizzero Max Kleiber, fino dai primi anni Trenta del Novecento, scoprì che l’attività metabolica di tutti gli animali (pensiamo per semplicità alla spontanea produzione di calore corporeo) segue la legge della potenz a t r e q u a r t i . Ci o è , p e r esempio, un animale che è cento volte più grande di un altro produce un calore che è solo 31 volte maggiore.
Dal topo-ragno, il più piccolo mammifero esistente, alla balena azzurra, il più grande, questa legge di scala è rigorosamente rispettata. Un altro esempio: nel corso di un’intera vita, in media, il numero complessivo di battiti cardiaci per ogni mammifero, noi compresi, è lo stesso. Vita più breve, e quindi dimensioni corporali minori, ma frequenza cardiaca più alta, secondo la legge di scala.
Ciò che adesso ci dicono, sulla rivista scientifica «Trends in Cognitive Sciences», sette ricercatori distribuiti tra California ed Europa, è che le leggi di scala esistono anche nel mondo della cognizione. Mettendo insieme, comparativamente, un gran numero di esperimenti pubblicati lungo il corso degli anni e ricalcolando in modo originale i dati salienti, hanno distillato svariate leggi di scala. Uno degli autori, Ramon Ferrer-i-Cancho, fisico, linguista teorico e esperto di scienze della computazione all’Università Politecnica della Catalogna a Barcellona, così mi descrive l’importanza di questa scoperta: «Il fatto che svariati processi cognitivi seguano le stesse leggi statistiche, sposino le stesse equazioni matematiche, dai più elementari processi neuronali su su fino ai più complessi comportamenti umani, rappresenta un ponte tra fisica, biologia e psicologia. L’adattamento e la flessibilità dei processi mentali ne emergono forti e chiari. Inoltre, cominciamo a poter trattare con metodi ben noti in fisica fenomeni cerebrali complessi, prossimi ai punti critici, cioè a situazioni nelle quali minimi cambiamenti in certe variabili producono cambiamenti subitanei e qualitativi».
Oltre a connettere tra di loro diverse discipline scientifiche, queste leggi di scala accomunano la nostra specie ad altre specie. Più sorprendente, ma vero, è che tali formule, valgono anche per la ricerca mentale in soggetti umani. Il caso più esemplare, nel mondo del linguaggio, la cosiddetta legge di Zipf, resa popolare dal linguista americano George Kingsley Zipf. In qualunque testo scritto, o in qualunque conversazione spontanea, la frequenza media di parole corte è maggiore di quella delle parole lunghe. Misurando queste grandezze rigorosamente, si trova una legge di scala che ha come esponente la potenza meno uno, cioè sono l’inverso una dell’altra. Misurando, invece, nelle frasi, la distanza tra le parole e i rapporti sintattici tra di esse, si ha di nuovo una legge di scala, ma diversa, cioè un decadimento molto più rapido.

Corriere della Sera 14.9.10
Le pillole di 2000 anni fa

Hanno più di duemila anni le pillole preparate dagli antichi greci, che archeologi americani sono riusciti ad analizzare con l’esame del Dna. Le pillole sono state trovate in una nave affondata al largo della Toscana nel 130 a.C. che trasportava medicine. Gli esperti sono stati in grado di analizzare queste compresse millenarie, scoprendo che erano realizzate mescolando più di dieci estratti di diverse piante, tra cui l’ibisco (importato probabilmente dal medio Oriente o dall’India e dall’Etiopia), il sedano, le carote e le cipolle selvatiche. «Per la prima volta possiamo confermare quanto scrissero Dioscoride e Galeno e quanto prescritto dai medici greci dell’antichità» ha affermato Alain Touwaide, dello Smithsonian National Museum of Natural History di Washington (Usa).

Avvenire 14.9.10
Intervista. Per il paleontologo francese Yves Coppens «l’essere umano appare sensibile al sacro a partire dalla sua prima comparsa sulla Terra»
L’Homo? Religiosus fin dalle caverne
«Non c’è distanza fra l’apparizione dell’uomo e l’apparizione del suo pensiero religioso. L’uno e l’altro sono parti di una stessa condizione, come appare evidente dai riti funebri più antichi»
di Daniele Zappalà



«P er me, l’origine dell’uomo resta la più bella storia in assoluto e quando la scienza cerca di comprenderla è sempre costretta a constatare al contempo il carattere per così dire stravagante di questa storia, accanto alla sua dimensione d’umiltà». Dopo una vita di studi e campagne scientifiche sul campo talora esaltanti, Yves Coppens esibisce sempre verso il mondo preistorico una curiosità e un’ammirazione quasi spiazzanti.

Il grande antropologo e paleontologo francese, fra gli scopritori della nostra antenata più famosa, Lucy, è anche un brillante divulgatore. Come mostra la raccolta di testi brevi Il presente del passato , in uscita oggi per Jaca Book (pagine 168, euro 18,00). 

Professore, perché la preistoria ci affascina tanto? 

«Gli interrogativi sul nostro statuto sulla Terra, sulla nostra origine e sulla nostra direzione, per così dire, fanno parte di un bisogno connaturato in noi. Al contempo, molti avvertono una grande precarietà nella situazione attuale.

E in proposito, pur non condividendo personalmente questo punto di vista, ho l’impressione che nelle risposte sulla nostra origine si cerca pure una sorta di ancoraggio o di aiuto.

Dei visitatori di mostre che ho curato, del resto, hanno spesso confessato che questa mano tesa verso il passato più profondo li rassicurava». 

Lei ha scritto che il percorso dell’uomo offre un grande messaggio d’umiltà. Cosa intende? 

«Si tratta della storia di un essere vivente apparso come qualsiasi altro essere vivente in una fase di adattamento climatico. Dopo il successo ottenuto in quest’adattamento, si è in seguito sviluppato grazie alle risorse di cui disponeva, compresa la cultura, nata dall’apparizione della coscienza. In generale, l’uomo è un mammifero di dimensioni medie in un pianeta in mezzo ad altri attorno a una stella, a sua volta, in mezzo a miliardi di altre in una galassia, a sua volta, in mezzo a miliardi di altre. Non si può che restare umili». 

Per lei l’uomo si è comportato 'come un podista di fondo'.

Perché? 

«I paleontologi e gli anatomisti hanno seguito l’evoluzione della locomozione preumana e umana lungo dieci milioni di anni.

All’inizio, vi fu l’associazione di una vita arboricola e di una bipedia alquanto goffa. Una bipedia più stabile, efficace e fluida si è sviluppata molto progressivamente. L’accesso alla stazione eretta e alla locomozione come la concepiamo oggi fu davvero lento e meritato. La facoltà di correre è giunta relativamente tardi». 

In quest’evoluzione, c’è una fase che ancor oggi la affascina più di altre? 

«L’apparizione stessa del genere umano, con lo sviluppo del suo encefalo e con la scelta di un’alimentazione a largo spettro che si è rivelata un successo decisivo per le fasi successive». 

A proposito del mistero della coscienza, antropologi culturali come René Girard sostengono la centralità della dimensione sacra. Sul campo, a che punto sono giunte le ricerche sulla religiosità primitiva? 

«Sappiamo o abbiamo ormai il presentimento, dato che non sono sempre disponibili le prove definitive, che l’homo religiosus 

coincide con l’uomo in generale.

L’essere umano, fin dallo sbocciare della sua umanità, è sensibile al sacro e possiede una dimensione spirituale. Personalmente, sono convinto che non ci sia distanza fra l’apparizione dell’uomo e l’apparizione del suo pensiero religioso. L’uno e l’altro sono parti di una stessa condizione». 

Quali ricerche concrete paiono 

provarlo? 

«Non è semplice sugli esseri più antichi scoprire delle dimostrazioni di questa dimensione religiosa. Ma abbiamo ad esempio degli elementi che provano il trattamento dei morti fin da un milione di anni fa, o ancor prima. All’inizio, questi trattamenti furono forse un po’ rudimentali, ma restano comunque dei trattamenti.

Mostrano che l’uomo tratta i suoi morti con un altro occhio, altri sentimenti, rispetto agli animali». 

Le recenti celebrazioni di Darwin hanno riacceso lo scontro fra darwinisti puri e duri, per così dire, e neodarwinisti.

Scientificamente, resta un dibattito costruttivo? 

«Le concezioni di Darwin hanno centocinquant’anni. Da allora, la scienza ha fatto progressi considerevoli. È evidente che la selezione naturale predicata da Darwin resta verificata, ma oggi si riconosce che la parte dovuta al caso è molto inferiore rispetto a quanto Darwin immaginasse.

Darwin non conosceva le leggi dell’eredità e tanto meno ciò che oggi chiamiamo epigenetica. In altri termini, l’evoluzione è molto più complessa e diversificata di quanto egli pensasse. L’opera di Darwin resta esemplare e continua ad ispirarci. Ma l’evoluzione come oggi la intendiamo non può più essere definita col nome di darwinismo. Darwinismo ed evoluzione sono ormai due parole ben separate, anche se il darwinismo rappresentò una delle origini della riflessione sull’evoluzione». 

Quale le pare oggi la più grande sfida per la conoscenza della preistoria? 

«Credo sia proprio una migliore comprensione delle modalità dell’evoluzione. Sappiamo che l’evoluzione è una realtà. Ma non conosciamo tutti i meccanismi che essa utilizza per realizzarsi. La biologia, la genetica e la paleontologia hanno ancora molte ricerche da compiere per approdare a una comprensione collaudata e condivisa». 

Nel suo libro in uscita in Italia, lei si sofferma anche sul pensatore e scienziato gesuita Pierre Teilhard de Chardin. In che senso, la sua lezione resta attuale? 

«Sono molti gli aspetti attuali della sua riflessione. Teilhard fu grande innanzitutto perché seppe ben percepire la continuità della storia dell’universo, della Terra, della vita e dell’uomo. Ma anche perché intuì e anticipò l’evoluzione dell’umanità con le sue odierne reti. Del resto, potremmo benissimo chiamare internet 'noosfera'. Merita di essere riletto e meglio compreso». 




DOVE PUOI TROVARE “LEFT 2007” DI MASSIMO FAGIOLI

LE LIBRERIE DI ROMA:

LIBRERIA AMORE E PSICHE VIA S. CATERINA DA SIENA
FELTRINELLI ARGENTINA L.GO TORRE ARGENTINA 10,11
FELTRINELLI COLONNA GALLERIA COLONNA 31,35
FELTRINELLI APPIA VIA APPIA NUOVA / VIA CAMILLA 8/C
FELTRINELLI ORLANDO V.EMANUELE ORLANDO 78,81
FELTRINELLI LIBIA VIA SANTA MARIA GORETTI 4
FELTRINELLI MARCONI VIALE MARCONI 176
FELTRINELI CESARE VIALE GIULIO CESARE 88
FELTRINELLI BABUINO VIA DEL BABUINO 39
LIBRERIE ARION
TOMBOLINI & C. VIA IV NOVEMBRE 146
IL MERCATONE DEL LIBRO DI SCOZ VIA G. MINGAZZINI 1/B-3-3/A
LIBRERIA AUDITORIUM VIA DE COUBERTIN 30
CLAUDIANA PIAZZA CAVOUR 32
DISCOTECA LAZIALE VIA MAMIANI 62
FAHRENEIT PIAZZA CAMPO DE FIORI
MINIMUM FAX VIA DELLA LUNGARETTA 80
TIRELLI C & A SNC P.LE MEDAGLIE D'ORO 36
ARETHUSA V.LE DELLA PRIMAVERA 91
LIBRERIA CROCE C.SO V.EMANUELE II 156,158
NUOVA EUROPA CENTRO COMMERCIALE I GRANAI
LIBRERIA SCUOLA E CULTURA VIA UGO OJETTI 173
LIBRERIA SCUOLA E CULTURA 2 VIA DELLA BUFALOTTA 548
MEL VIA NAZIONALE 254
LA MIA LIBRERIA VIA DEGLI UBERTINI 38
PIPARO VIALE XXI APRILE 87
PAGINA 272 VIA SALARIA 272
RINASCITA VIALE AGOSTA 36
VESCOVIO VIA STIMIGLIANO 24
TRASPONTINA VIA DELLA TRASPONTINA 11
ODRADEK VIA DEI BANCHI VECCHI 57
A TUTTO LIBRO ACQUEDOTTO PESCHIERA, 118

DE MIRANDA MARIA PIA V.LE GIULIO CESARE 51 E/F


ASSOCIAZIONE BIBLIONTEKHE VIA C.CATTANEO 33 NETTUNO
ITALIANA VIA ALDOBRANDINI 3/A ANZIO
PAGINA P.ZZA PIA, 12 ANZIO
PASQUALE CANDILENO VIA QUARTACCIO 4 LATINA
ARCADIA VIA SENOFANE 143 CASALPALOCCO
BOOKCART VIA ROMA 68 TERRACINA
CARTOLERIA SARRA VIALE REGINA ELENA 6 SORA
SCRITTI E MANOSCRITTI VIA ANCONA 180 LADISPOLI
FERNANDEZ VIA MAZZINI 87 VITERBO
DETTAGLI VIA P. A. GUGLIELMOTTI CIVITAVECCHIA
CATALDI COMMISSIONARIA VIA CESARE BATTISTI 11 ALATRI FR

ALTEROCCA CORSO TACITO 29 TERNI
LAURENTIANA VIA GAROFOLI 6 TERNI

LE LIBRERIE DI FIRENZE
EDISON
MARTELLI
DEL PORCELLINO
ALFANI

A EMPOLI RINASCITA
A SESTO FIORENTINO RINASCITA
A SIENA SENESE
A AREZZO EDISON

A LIVORNO GAIA SCIENZA E EDISON
A LUCCA EDISON
A PISTOIA EDISON

lunedì 13 settembre 2010

l’Unità 13.9.10
La scuola precaria
di Mila Spicola

Metto subito le mani avanti: non sarò obiettiva. Ci sono gli ultimi miei tre anni nella manifestazione di ieri. 12 settembre 2010, appuntamento alla stazione centrale di Palermo, alla volta di Messina, per “occupare lo Stretto” a difesa della scuola, a difesa della Sicilia, a difesa del lavoro. («Emma, ma come cavolo lo occupi lo Stretto? Che faremo? Ci buttiamo a mare?») A difesa di tutto quello di bello e giusto ci venga in testa quando intorno di bello e giusto ne vediamo sempre meno a Palermo, in Sicilia. In Italia. Un ponte, un simbolo: il ponte che non s’ha da fare, quello di cemento e quello che s’ha da ricostruire: la solidarietà. Ci ritroviamo lì alle 7.30 una domenica mattina, alla spicciolata, e la retorica sparisce all’istante. Ecco Luigi Del Prete, laurea in filosofia, precario napoletano, “emigrato” per amore a Palermo, Dario Librizzi, calato giù dalle montagne madonite, storico dell’arte, precario anche lui, ecco Barbara Evola, la “donna megafono”, e poi a Messina ci aspettano “gli altri”, ci conosciamo quasi tutti: Emma Giannì, di Sciacca, una delle organizzatrici di questa giornata, Claudia Urzì, la pasionaria di Catania, Antonella Vaccaro, che è arrivata con gli altri da Napoli.. E poi..Sul pullman monta la solita discussione: «Voi del Pd» e «Voi del Cps» e «Voi altri di Sel»... per poi finire a litigare ferocemente di valutazione dei ragazzi, di meritocrazia, di formazione permanente dei docenti. La valutazione dei docenti: questo vuole l’opinione pubblica, no? Ma come valutare il merito di un ragazzo e di conseguenza del suo professore? Non sarebbe meglio un rigore estremo nella formazione degli insegnanti, un aggiornamento continuo ma adeguato? Mi replica Luigi. Non gli aggiornamenti astrusi e astratti, ma sulla gestione dei conflitti, sui nuovi linguaggi, sul mondo globale. Siamo gente di scuola noi, precari o non precari, noi sì che possiamo accapigliarci su queste cose, altri, no, vi prego no. Intorno la scuola si sfalda, mentre studiano il pelo della valutazione.
Gli ultimi due anni di proteste solitarie ci scorrono come un sottotesto: «Quanti saremo secondo te?». A differenza delle tante altre volte, ci confortano i pullman prenotati. Cinque da Palermo, tre da Trapani, ogni provincia è coperta. Mi piace l’idea di veder gente nuova, mi piace meno l’idea della “protesta dei precari”. È la scuola che è precaria, lo dico e lo ripeto, ce lo ripetiamo da mattina a sera. Dobbiamo convincere la casalinga di Mestre, mica noi stessi.
Antonella mi racconta che a Sciacca si è formata una classe di prima liceo scientifico di 38 ragazzi con disabile annesso. Ho gli occhiali da sole e non mi vergogno a dire che mi spuntano le lacrime. Anch’io nel 1980 iniziai il ginnasio in una classe di 33, ci siamo maturati in 16 dopo cinque anni. È questo quello che vogliamo? Una bidella, ops, “personale ata”, mi racconta di una scuola con le porte divelte. Nulla di nuovo sul fronte occidentale: ho trascorso un anno intero in una delle mie classi senza porta. Ma a chi frega? La colpa sarà comunque di un insegnante fannullone. Siamo a Messina. Sul molo, di fronte agli imbarcadero. Tanti, tantissimi. A grappoli come in un film di Gianni Amelio. La scuola s’è desta? Resta da svegliare gli italiani.

l’Unità 13.9.10
«Prepariamo il risveglio italiano». E sfida il governo su scuola, lavoro, ricerca, fisco, immigrazione
Bersani mobilita il partito: «Il governicchio non durerà»
di Simone Collini

Comizio affollato e applaudito
per concludere la Festa del Pd a Torino. Bersani attacca il «governicchio», lo sfida sulle elezioni e sui temi concreti: precariato, scuola, lavoro, fisco. «Il voto? Sono loro ad aver paura».

Attacca il premier, sfotte la Lega, invita gli alleati a smetterla di prendersela col Pd per far vedere quanto sono antiberlusconiani e ricorda agli stessi compagni di partito che in un “collettivo” ognuno deve caricarsi delle proprie responsabilità: “Non accetterò che ci si tiri la palla in casa, se la palla è di là nel loro campo”. Ma soprattutto, Pier Luigi Bersani chiude la Festa democratica di Torino parlando delle proposte del Pd per determinare quel “risveglio italiano” di cui c’è bisogno dopo questi anni di cura berlusconiana: “Perché sia chiaro, siamo un partito di governo momentaneamente all’opposizione”.
Piazza Castello è gremita di gente, “rimbocchiamoci le maniche” è lo slogan che campeggia sul palco. Bersani si arrotola le sue prima di avvicinarsi al microfono, poi comincia a parlare e scatta forte l’applauso quando promette una “opposizione durissima contro questo governicchio”, si levano risate quando dice che la Lega, “quella della spada che non conosce fodero, ormai fa da sottovaso al Cavaliere”, partono fischi all’indirizzo di Berlusconi quando, dopo aver dedicato la conclusione della Festa ad Angelo Vassallo, Bersani critica duramente il comportamento del premier di fronte all’uccisione del sindaco di Pollica per mano di “bestie criminali”: “Il Parlamento europeo gli ha dedicato un minuto di silenzio, il nostro presidente del Consiglio non ha trovato una parola per lui”. E poi è un boato quando il segretario del Pd sfida Berlusconi e Bossi: “Ma se abbiamo cosi paura noi, perché ve le siete rimesse in tasca voi le elezioni? Quando ci sarà il voto anticipato, perché tutti lo vedono che tre anni sono troppo lunghi, noi comunque saremo pronti”.
L’immagine, dopo oltre un’ora di intervento e applausi, è che c’è un leader di partito e c’è un popolo che vuole darsi da fare. Bersani si appella al senso di responsabilità del gruppo dirigente, quella quarantina di personalità sedute sul palco dietro di lui e tutti gli altri che a Torino non sono venuti. Perché presto o tardi che si vada alle urne, il Pd ci dovrà arrivare senza bastoni tra le ruote e avendo saputo trasformare questa voglia di partecipazione in forza organizzata. “Non possiamo più guardarci la punta delle scarpe, abbiamo scelto di non essere un partito personale perché non crediamo in una democrazia personale”, dice annunciando per l’autunno “una grande mobilitazione” e invitando chi ha responsabilità di partito a “muoversi assieme, combattere assieme, rimboccarsi le maniche tutti assieme”. Di fronte alla “crisi conclamata del centrodestra” e in un momento come questo in cui “l’immagine dell’Italia all’estero è devastata”, ora che “Berlusconi e la Lega hanno lasciato il Paese senza un’idea di futuro, gli hanno rubato l’orizzonte”, con “il berlusconismo che ha accompagnato lo scivolamento dell’Italia, ha favorito la disarticolazione del Paese e ne impedisce la riscossa”, è il messaggio che vuole lanciare, sta all’opposizione dimostrarsi un’alternativa credibile. Ribadisce che la soluzione migliore sarebbe un breve governo di transizione che porti a una nuova legge elettorale per poi andare alle urne. Ma anche che il Pd è pronto, lavorando per dar vita a un “nuovo Ulivo”: “Meccanismi di alleanza non affidabili come l’Unione non li vogliamo più”.
Per questo presenta una sorta di manifesto del Pd, fatto di proposte sul fisco (meno tasse su lavoro e impresa e maggior carico su rendite e patrimoni), immigrazione (cittadinanza italiana per i figli di immigrati), innovazione, ricerca, lavoro. Un tema a cui tiene molto. A Tremonti, nel giorno dopo la drammatica morte dei tre operai di Capua, dice che le normative sulla sicurezza non sono affatto “un lusso”. E al governo, che lavora per dividere i sindacati, dice: “C’è molta tensione in giro. Se un governo accende i fuochi, chi li spegnerà?”.

Repubblica 13.9.10
Il pdl sotto il 30% a sinistra giochi aperti
di Ilvo Diamanti

Le difficoltà del Cavaliere riflettono la crescente sfiducia nel governo: undici punti in meno in tre mesi
L´Udc tiene ma non cresce e non pare in grado d´imporre l´alternativa di Centro Pd, Bersani regge

L´orientamento degli italiani, in questa fase, appare piuttosto disorientato. Riflesso del disordine che attraversa il sistema politico. Il sondaggio dell´Atlante politico di Demos condotto nei giorni scorsi fornisce, al proposito, molte tracce interessanti.
E una chiave di lettura: l´origine del disordine è, soprattutto, Silvio Berlusconi. Da 16 anni punto di riferimento – attrazione e divisione - del sistema partitico e degli atteggiamenti sociali. Oggi appare in difficoltà, insieme al PdL. Non solo in Parlamento, dove i numeri non garantiscono più la maggioranza (certa) alla maggioranza. Anche fra gli elettori. Il PdL, infatti, aveva conquistato il 37% alle elezioni del 2008. Ora, nelle stime di voto, è sceso appena sotto al 30%. Così il Pd, attestato un poco oltre il 26%, in questa corsa all´indietro fra i partiti maggiori, ha ridotto il distacco. Lega e IdV, gli alleati-concorrenti, non si sono rafforzati. La Lega si mantiene intorno all´11%. Ma, rispetto alla precedente rilevazione di giugno, appare in lieve calo. Mentre i consensi all´IdV, negli ultimi mesi, si sono ridotti in modo vistoso (circa 3 punti rispetto a giugno). Il fatto è che sul mercato elettorale si sono affacciati altri leader e partiti, che, secondo l´Atlante, ottengono consensi crescenti. Fini, Vendola e Grillo. FLI, SEL, il Movimento 5 stelle. Così il gioco politico è divenuto più competitivo. E, come abbiamo detto, più instabile. Prima causa, il declino elettorale del PdL e il parallelo appannarsi dell´immagine di Berlusconi. La cui condotta, in questa fase, è giudicata almeno "sufficiente" (con un voto pari o superiore a 6) dal 37,6% degli italiani. Si tratta della valutazione peggiore nella storia di questo governo: 5 punti meno di tre mesi fa, 10 rispetto alla rilevazione dello scorso febbraio.
I dati dell´Atlante di Demos suggeriscono, al proposito, alcune spiegazioni.
1. Le difficoltà del PdL e di Berlusconi, in questo momento, riflettono, anzitutto, la crescente sfiducia nel governo. Oggi ha l´approvazione del 30% degli elettori: 11 punti meno di tre mesi fa. Il minimo da quando è cominciata la sua esperienza. Certo, neppure l´opposizione gode di buona salute. Ma questa non è una novità. Semmai un´aggravante, per la maggioranza. Peraltro, anche il giudizio nei confronti delle politiche del governo è negativo. Soprattutto riguardo alle tasse, al federalismo ma in particolare alla disoccupazione. Vero fattore di depressione sociale. Migliore appare il giudizio sull´azione di contrasto alla corruzione (forse per "merito" delle dimissioni di alcuni ministri) e alla crisi economica. Ciò giustifica il consenso verso Tremonti. Il quale ha perduto oltre 6 punti di gradimento negli ultimi mesi, ma resta, comunque, il più apprezzato, tra i leader politici. Molto più del premier.
2. Il sostegno a Berlusconi e al PdL è complicato anche dal conflitto con Fini e con FLI. Certo, Fini ha perduto molta della fiducia di cui disponeva in passato. Ma è, comunque, ancora molto popolare (41,7% di giudizi positivi). E la sua formazione politica, il FLI, nelle stime elettorali, ha superato il 6%. Attingendo voti da centro-sinistra, ma anche da destra. Dove intercetta il consenso di molti "vecchi" elettori di AN che non hanno mai accettato l´ingresso nel PdL. Il partito del premier, dunque, paga la delusione dei settori più tiepidi della propria base e il disamore dei nostalgici di AN. Non a caso, il PdL pare tornato al livello di consensi elettorali ottenuti nel 2001 da Forza Italia. Da sola.
3. Sulla sfiducia verso il premier e il principale partito di governo pesa anche la sensazione di instabilità politica, in un momento particolarmente grave per l´economia. Infatti, la maggioranza (per quanto ridotta) degli elettori pensa – realisticamente –che la legislatura finirà prima della scadenza. Per colpa di Berlusconi.
4. Parallelamente, si percepisce un certo fastidio per il divario abissale tra i problemi della società (soprattutto il lavoro) e i temi del dibattito politico - imposti dal governo e dal premier. La polemica con Fini, il conflitto infinito con la magistratura. Verso cui, non a caso, cresce sensibilmente la fiducia dei cittadini. Mentre il consenso nei confronti del Presidente Napolitano (80%) testimonia quanto sia ampia, nella società, la domanda di stabilità e di moderazione. In questa fase precaria ed esagerata.
5. La Lega, per la prima volta dopo tanto tempo, perde qualcosa nelle stime elettorali. La tecnica di presentarsi come partito di opposizione e di governo, praticata dalla Lega con grande abilità, forse, comincia a logorarsi. E a logorare. D´altronde, è difficile partecipare a un governo impopolare senza venirne, in qualche misura, contagiati. Chiamarsi dentro e fuori, a seconda del momento. Reclamare il voto un giorno sì e l´altro anche. Senza far seguire alle minacce comportamenti coerenti. Rischia di far perdere credibilità. Anche il federalismo, evocato e invocato, dalla Lega. Non si sa quando e se arriverà. Ed è visto come un pericolo da metà del paese. Il Sud. Dove la Lega non prende voti. Ma il PdL sì.
6. Questo clima di instabilità coinvolge anche il resto dello schieramento politico. L´Udc tiene. Ma non cresce. Non pare in grado di imporre l´alternativa di Centro. Perché il Centro, da solo, non è ancora alternativo. Costruire il Partito della Nazione, insieme a FLI, API e altri soggetti, come ha annunciato Casini, potrebbe allargare la concorrenza, invece dei consensi.
Anche a Centrosinistra il gioco è aperto. Soprattutto a Sinistra. Dove il Movimento 5 stelle di Beppe Grillo e il Sel di Nichi Vendola fanno concorrenza soprattutto a Di Pietro. Il quale, per la prima volta, dopo molti anni, perde consensi, nelle stime elettorali.
7. Nel centrosinistra, la competizione si è aperta anche per quel che riguarda la leadership. Bersani, tutto sommato, tiene. Ma in testa alle preferenze degli elettori di Centrosinistra oggi troviamo Vendola e Chiamparino. Praticamente alla pari. A ridosso di Tremonti (anch´egli candidato alla leadership. Del Centrodestra). Un buon segnale in vista delle primarie annunciate, in caso di elezioni. Se saranno primarie vere…
In generale, come diceva qualcuno prima di noi, c´è grande disordine sotto il nostro cielo. Annuncia grandi cambiamenti. Non è detto che le cose, in seguito, andranno meglio. Ma peggio di così ci pare francamente difficile.

Repubblica 13.9.10
Lo schema di alleanze di Bersani: no a Rifondazione. Pd, Idv, Sel e Udc per l´alternativa a Berlusconi
E il segretario traccia il Nuovo Ulivo "Vendola e Di Pietro, poi Casini"
di Goffredo De Marchis

"Nichi e Tonino devono rinunciare ai veti, alle esclusioni. Questa è la nostra offerta"
"Le primarie? In grado di farle anche in pochi giorni, anche se si votasse tra 3 mesi"

TORINO - La camicia bianca da strizzare dopo due ore sotto il sole, Bersani spiega lo schema di alleanze che ha in mente. «Nel Nuovo Ulivo per me ci sono Vendola e Di Pietro». E la bacchettata assestata all´ex pm? Il segretario, davanti alla sua gente, ha ammonito l´Idv: «Finiamola coi giochetti del tipo che per far vedere quanto si è contro Berlusconi uno se la prende col Pd». Un monito, dice Bersani nel salottino dietro al palco riservato ai dirigenti. Ma Di Pietro, nel Nuovo Ulivo, c´è. Ossia, in un patto di governo vero e proprio che vada oltre le alleanze democratiche tutti dentro e l´idea di un governo di transizione rilanciata alla Festa di Torino ma oggi non più dietro l´angolo.
A Tonino e al governatore della Puglia Bersani propone però un patto più stringente. «Vanno unite le opposizioni, come si fa in tutti i Paesi del mondo. Non si vede perché in Italia dovrebbe essere diverso. Per questo sia Nichi sia Di Pietro si devono convincere a venire con noi per proporre un´alleanza programmatica a Casini. A loro bisogna dire di rinunciare ai veti, alle esclusioni. Questa è la nostra offerta». La variabile Casini, il suo interesse alla costruzione del terzo polo, Bersani non la sottovaluta affatto. «Ma anche lui prima o poi dovrà dare una risposta a un progetto serio e compiuto».
In questo schema il ritorno all´Unione è visto come il fumo negli occhi. «Una formula inaffidabile», taglia corto Bersani. «Rifondazione, con il Nuovo Ulivo, non c´entra. Non interessa né a noi né a loro. Si può fare un discorso sulla legge elettorale e sui paletti legati alla Costituzione, questo è il massimo. Ma tra Ferrero e l´ipotesi di governo esiste un muro invalicabile».
L´alternativa è un ballo a quattro: Pd, Idv, Sel e Udc. Quadro difficile da comporre, ma secondo Bersani non impossibile. Le primarie sono uno spartiacque, la condizione che Vendola ha messo in cima alla lista. E Bersani spalanca il portone: «Le primarie si faranno. Siamo in grado di organizzarle anche in pochi giorni, anche se si votasse tra tre mesi», garantisce. Prima però viene il programma. E le alleanze. Dopo, il voto nei gazebo. Dice il bersaniano Filippo Penati: «Il Pd non può essere solo il partito delle primarie. Bene ha fatto Pier Luigi a mettere al centro il lavoro e la legalità».
Il discorso di ieri fa parte del lungo cammino di Bersani verso la candidatura a premier. «E´ pronto a correre per Palazzo Chigi, mi sembra il succo», dice Andrea Orlando. Ma la partita è davvero agli inizi. I concorrenti continuano a essere una folla: Vendola, un esterno ai partiti come chiede Di Pietro, Veltroni e la sua voglia di riprovarci, Sergio Chiamparino che sul palco abbraccia il segretario, ma non rinuncia alle sue ambizioni. «Mi è piaciuto il discorso - dice il sindaco torinese - . La discussione continua». Bersani, spiega il primo cittadino, ha parlato ai suoi militanti e lo ha fatto bene. «Poi bisogna parlare a quelli che in piazza non c´erano». Sulle primarie la sua rinuncia è lontana. Un punto gli ha sollecitato l´abbraccio più di altri. «Il no all´Unione mi sembra chiaro, netto. Questo è molto importante».
Adesso il Pd è chiamato a lavorare su due fronti. La costruzione di un´alleanza complicata. E la speranza di una crisi di governo per andare all´esecutivo di transizione. «Su Bossi - annuncia il segretario - non mollo. Voglio far capire a lui e alla sua gente che non possono stare in quel pateracchio». Sia per l´uno che per l´altro obiettivo bisogna continuare a non entrare nei dettagli della legge elettorale. «Preferenze e nascita di un bipolarismo europeo e più civile», indica Bersani dal palco. Non cita modelli, non offre soluzioni chiuse. Anche perché il Pd adesso si prepara a un´altra stagione di opposizione dura.

Repubblica 13.9.10
Il Pdl scende sotto il 30% Finiani in forte crescita Sfida Tremonti-Vendola
Tra i leader Chiamparino stacca Fini
di Roberto Biorcio Fabio Bordignon

Rilevazione di Demos&Pi Futuro e Libertà mostra appeal soprattutto tra i 30-50enni e al Sud: attrae elettori di centrosinistra
Il Movimento 5 Stelle di Grillo tocca su scala nazionale il 3,6 e pesca a piene mani nel serbatoio dell´Italia dei Valori

Le turbolenze che attraversano la maggioranza e le parallele difficoltà dell´opposizione favoriscono, in questa fase, la domanda di cambiamento, che tocca sia i leader sia i partiti. In testa alla graduatoria delle figure politiche più apprezzate troviamo Tremonti (46%), secondo molti vero Presidente del Consiglio - d´altronde, Berlusconi si ferma otto punti più in basso. A pochissima distanza, il governatore pugliese Vendola (46%) e il sindaco di Torino Chiamparino (45%): figure che, in modo diverso, esprimono le istanze di rinnovamento emerse nell´area di centro-sinistra. A seguire, Fini che, nonostante il calo degli ultimi mesi, mantiene una posizione di rilievo (42%). E, nelle intenzioni di voto, le novità più interessanti sono fornite proprio dalle formazioni di Fini e Vendola, assieme al movimento di Grillo.
La neonata compagine di Futuro e Libertà per l´Italia, non ancora vero partito, supera già il 6%, con flussi in entrata provenienti soprattutto dal PdL (in calo dal 33.2 al 29.8%) e dalla zona grigia dell´incertezza e dell´astensione. Il suo elettorato somma componenti piuttosto eterogenee. Un nucleo di centro-destra (soprattutto di destra) che raccoglie i sentimenti di insofferenza verso il berlusconismo provenienti da quest´area. Ma anche una rilevante frazione di elettori di centro-sinistra, affascinati dal nuovo progetto e attenti al ruolo assunto da Fini. Tale trasversalità oggi premia l´ex leader di AN, ma in futuro potrebbe trasformarsi in un limite, nel momento in cui si delineerà con maggiore chiarezza la collocazione di FLI nell´offerta politica. Per ora, la formazione "futurista" è guardata con particolare interesse da persone con elevato livello d´istruzione e di età centrale (35-54 anni). La sua distribuzione territoriale appare piuttosto bilanciata, sebbene (coerentemente con il profilo dell´attuale gruppo parlamentare) la sua anima di destra sia radicata prevalentemente nel Mezzogiorno.
Nell´area di centro-sinistra, i fenomeni più interessanti sono costituiti dai risultati di SEL e del Movimento 5 Stelle. Il partito di Vendola, favorito dalla crescente visibilità (e popolarità) del governatore pugliese, guadagna oltre un punto rispetto a giugno, arrivando a sfiorare il 5%. Sottrae significativi consensi al PD (sostanzialmente stabile al 26.5%), ma anche all´IdV, catalizzando il voto di persone residenti nel Sud, con titolo di studio elevato e bassa pratica religiosa. Il movimento di Grillo, autentica sorpresa alle recenti regionali, sembra potersi ripetere a livello nazionale: i risultati del sondaggio lo collocano al 3.6%. Coerentemente con la sua natura di movimento nato sul web, presenta un elettorato giovane, istruito, residente nel Centro-Nord. Gestisce la protesta antipolitica, con modalità e contenuti che attirano ex-elettori del Pd e, in particolare, di Di Pietro. E´ proprio il partito dell´ex-magistrato (in pochi mesi dall´8.1 a 5.5%) a soffrire più di ogni altro l´emergere delle nuove opposizioni.

Corriere della Sera 13.9.10
La tentazione dei veltroniani: gruppi parlamentari autonomi
L’ex leader ha riunito i fedelissimi l’8 settembre e citato l’esempio di Fini
di Maria Teresa Meli

ROMA — Lui, Walter Veltroni, non c’era. E mancavano anche molti parlamentari che fanno riferimento all’ex leader del Pd. Non erano assenze casuali quelle alla festa di Torino, nel giorno del discorso di Pier Luigi Bersani.
I veltroniani si sentono sempre più lontani da questo Partito democratico in cui fanno fatica a riconoscersi. Se lo sono detti, una volta tanto senza infingimenti, né furbizie politiche, l’otto settembre, in una riunione dei parlamentari convocata dall’ex segretario nella sede della sua fondazione, Democratica. E per la prima volta in quella sede si è parlato dell’ipotesi di dare vita a dei gruppi parlamentari a ut o nomi. Un’operazione simile a quella fatta da Gianfranco Fini. E infatti Veltroni ha citato proprio l’esempio del presidente della Camera e di «Futuro e libertà».
Del resto, con il riavvicinamento del capogruppo a Montecitorio Dario Franceschini e di Piero Fassino alla maggioranza, la battaglia interna rischia di diventare un’aspirazione vana. Sono pochi quelli che hanno un seggio o un incarico da difendere che accettano di stare in minoranza e non si acconciano a dei compromessi con i bersaniani. Sia chiaro, ancora non c’è niente di definito. Si aspetta la Direzione convocata per la seconda metà di settembre e si cerca di capire se il Pd cambierà rotta o se, invece, proseguirà lungo il solco tracciato da Bersani e D’Alema. Ma che non si tratti solo di chiacchiere lo dimostra il fatto che sono stati già presi in esame i possibili nomi dei nuovi gruppi parlamentari. All’ex segretario non dispiace «Innovazione e Riformismo». Nel corso di quell’incontro, però, più d’uno ha sollevato qualche obiezione su questo nome. La parola «riformismo», è stato osservato, non ha molto appeal in Italia ed è un concetto non prontamente comprensibile in un Paese come il nostro. Meglio «Democratici per la libertà» che esprime un messaggio molto chiaro: siamo noi il vero Pd.
I numeri per fare un gruppo alla Camera e un’analoga pattuglia parlamentare al Senato ci sono. Quindi non è questo il problema. Lo è invece la durata della legislatura perché una precipitazione degli eventi renderebbe difficile l’intera operazione. Ma in quella riunione si è parlato anche d’altro. Delle primarie per la scelta del candidato premier del centrosinistra, per esempio. Il voto per Bersani è escluso, mentre è stato preso in considerazione un eventuale ticket Chiamparino-Vendola, come possibile tandem per affrontare il centrodestra nelle prossime elezioni.
Certo, è chiaro a tutti, e per primo allo stesso ex segretario, che la decisione di creare dei gruppi autonomi avrebbe dei contraccolpi inevitabili nel partito. Il nome di Veltroni è legato indissolubilmente al Pd. Lui ne è stato il primo segretario, lui ne parlava anni e anni fa, quando quel progetto veniva visto come un azzardo irrealizzabile dai suoi colleghi dei Ds. La mossa di Fini è niente in confronto, piuttosto sarebbe come se dal Pdl prendesse le distanze Silvio Berlusconi.
Dei contenuti di quella riunione è trapelato poco o niente. All’esterno del partito, almeno, perché dentro il Pd qualche eco di quell’incontro ha raggiunto anche gli esponenti della maggioranza dalemian-bersaniana. E ora diventano più comprensibili le parole che diceva l’altro giorno a un ignaro senatore il vice capogruppo a palazzo Madama, Nicola Latorre: «Vedrai che adesso Veltroni cercherà di fare come Fini, la sua strada è sempre più lontana dalla nostra».

Repubblica 13.9.10
Se il potere si apre alla società civile
La buona politica e la società civile
di Gustavo Zagrebelsky

Troppo scarsa l´attenzione alle forme di associazione spontanea e volontaria che si occupano della collettività. Cambiare la legge elettorale costituisce un´autentica emergenza
Nella lezione tenuta alla Festa del Pd i rischi che sono di fronte alle democrazie di oggi. I pericoli maggiori vengono dalle derive populistiche e dalle chiusure di casta

Pubblichiamo ampi stralci della "Lezione sulla democrazia" che Gustavo Zagrebelsky ha tenuto sabato alla Festa del Partito Democratico a Torino

"Politica" è una parola bastarda. Ha molti padri e madri. Non è sempre la stessa cosa. Dipende da chi la genera e per che cosa.
Per chiarire, mi avvalgo d´una citazione di George Orwell. Nel 1948, scriveva (in Writers and Leviathan): «Questa è un´epoca politica. La guerra, il fascismo, i campi di concentramento, i manganelli, le bombe atomiche sono quello a cui pensare». Se non si parlava di campi di sterminio e di genocidio, era per la diffusa ignoranza di ciò che era effettivamente accaduto nel cuore dell´Europa. Auschwitz sarebbe in seguito assurto a simbolo di una certa concezione della politica. Il che è certo molto imbarazzante per la politica stessa.
Questa visione della politica è terrificante. Ha come madre la potenza sopraffattrice, nelle relazioni tra i popoli e tra parte e parte, tra i dominatori e gli oppressi, all´interno dei popoli. L´uso di categorie primordiali come, ad esempio, quelle di amore e odio, per dividere il campo dell´agone politico, sono il riflesso di questa concezione della politica basata sulla malevolenza tra gli esseri umani.
La concezione opposta della politica è espressa in una frase di Aristotele. Se là la politica è violenza e prepotenza, qui «compito della politica pare essere soprattutto il creare amicizia» tra cittadini, cioè legame sociale (Etica Eudemia, 1234 b).
Con le parole di Hannah Arendt (Was ist Politik? - inediti del 1950, pubblicati nel 1993, trad. it. Che cosa è la politica? Torino, Comunità 2001, pp. 5 ss.), ciò che è proprio di questa concezione della politica è l´essere collocata infra, in mezzo, tra le persone. La virtù politica è propria di coloro che amano stare "con" le altre persone, non "sopra", nemmeno "accanto" o, peggio, "altrove"; di coloro che conducono la loro vita insieme a quella degli uomini e delle donne comuni, stando dentro le relazioni personali e di gruppo, quelle relazioni che, nel loro insieme, fanno, di una semplice somma d´individui, una società. Chi disdegna stare con le persone comuni, credendosi diverso, e il suo cuore batte piuttosto per i salotti, le accademie, le fondazioni culturali, le tavole rotonde, gli studi televisivi, potrà certo essere un´ottima persona. Ma non è adatto alla politica in questo senso. Ciò è così vero che, proprio gli uomini politici più distanti dalla vita della gente comune, che disprezzano, fanno a gara nel dar prova di atteggiamenti populistici e volgari, per far mostra d´essere uguali agli altri, "uno di loro"; in realtà offendendoli e insultandoli, nel momento in cui le trattano non come cittadini ma come plebe.
Forse non abbiamo mai pensato che tra tutti i regimi politici, la democrazia è l´unico che presuppone amicizia tra governanti e governati. I regimi autocratici o oligarchici, comportano separazione che, nel caso migliore, si traduce in indifferenza, in quello peggiore, in inimicizia e avversione. Solo la democrazia vive e si alimenta di un circuito di reciproca fiducia che può esistere solo a condizione che i governanti non si costituiscano in classe separata, solo a condizione che i cittadini comuni non li vedano come cosa diversa da sé.
Che significa classe separata? Innanzitutto che, una volta entrati in uno dei luoghi della politica, si sia acquisito il diritto di non uscirne mai più, fino a quando provveda la natura. I ceti o le caste delle società premoderne erano stratificazioni sociali alle quali si apparteneva dalla nascita alla morte. Oggi, al ceto politico di regola non si appartiene per diritto di nascita, anche se non manca, anzi si moltiplicano i casi di nepotismo, di familismo e di trasmissione ereditaria delle cariche politiche. In politica oggi, di norma, "si entra", o, come si dice autorevolmente, "si scende" (una volta si sarebbe detto "si sale" o si "ascende"), ma, una volta entrati non se ne vuole più uscire. Se proprio occorre lasciare un posto, ce n´è sempre un altro cui aspirare e che ci attende. Oggi quello che importa è entrare in un giro di potere. A che "giro" appartiene? ci chiediamo, vedendo qualcuno che "gira", per l´appunto, da un posto all´altro. Quando entri in un giro, non ne esci più, a meno che tu abbia tradito le aspettative di chi ti ci ha messo.
Questa è la separazione: tra chi, in un giro del potere, c´è e chi non c´è. E volete che chi non c´è non si senta mille miglia lontano da chi vi è dentro? Che non si consideri appartenere a un altro mondo? E, all´opposto, possiamo credere che chi è dentro non consideri chi è fuori un potenziale pericolo, un´insidia per la propria posizione acquisita, e non faccia di tutto per restarci aggrappato, impedendo accessi non graditi al proprio giro chiuso o, almeno, per gestirli secondo propri criteri, in modo che gli equilibri acquisiti non siano scossi? Ma questa è la sclerosi della politica. Quando si sente dire che occorre promuovere il rinnovamento della classe dirigente e, per questo, bisogna "allevare" nuove leve politiche, il linguaggio – l´allevamento - tradisce perfettamente l´orizzonte culturale in cui si pensa debba avvenire il cosiddetto "ricambio", quel ricambio che tutti a parole dicono necessario ma che, secondo l´idea dell´allevamento, è perpetuazione dello status quo che produce cloni.
Di quest´atteggiamento di separatezza e, in definitiva, di inimicizia, testimonianza eloquente è l´atteggiamento del mondo politico nei confronti della cosiddetta "società civile", un´espressione e un concetto che non ha mai goduto di buona fama, soprattutto a sinistra. Questa è una lunga storia che sarebbe da ricostruire interamente, a partire da quando, dopo la Liberazione, effettivamente la pretesa dei partiti di rappresentare tutto ciò che di "politico" vi era da rappresentare, era giustificata. Ma oggi? Oggi, una società civile è difficile negare che esista. Dobbiamo capirci. Assai spesso – per squalificarne il concetto stesso – la si intende come "i salotti" dove s´incontrano persone disparate che presumono d´essere élite del Paese e si auto-investono di chissà quale compito salvifico, o come lobby più o meno segrete o gruppi d´interesse settoriale che curano i propri affari, legalmente e talora anche illegalmente tramite corruzione o collusione. Da tutto ciò, che ha niente a che fare con la democrazia, la politica dovrebbe guardarsi. Da questa "società civile", piuttosto "incivile", chi si occupa di politica dovrebbe cercare di stare lontano, il più possibile.
Ora, chi vuole difendere il circolo chiuso della politica e i suoi sistemi di cooptazione demonizza la società civile identificandola con questi ambienti. Ma è un´operazione che sa di diversivo, cioè di tentativo di spostare l´attenzione su un falso obiettivo, effettivamente indifendibile.
La società civile esiste, ma è un´altra cosa: è l´insieme delle persone, delle associazioni, dei gruppi di coloro che dedicano o sarebbero disposti, se solo ne intravedessero l´utilità e la possibilità, se i canali di partecipazione politica non fossero secchi o inospitali, a dedicare spontaneamente e gratuitamente passione, competenze e risorse a ciò che chiamiamo il bene comune. Quante sono le persone, singole e insieme ad altre, che a partire dalle tante e diverse esperienze, in tutti gli ambiti della vita sociale, a iniziare dai più umili e a diretto contatto con i suoi drammi e le sue tragedie, sarebbero disposte a dare qualcosa di sé, non per un proprio utile immediato, ma per opere di più ampio impegno che riguardano la qualità, per l´appunto civile, della società in cui noi, i nostri figli e nipoti si trovano e troveranno a vivere? Da quel che mi par di vedere, tantissime. Quando si parla di politica e di sua crisi, perché l´attenzione non si rivolge a questo potenziale serbatoio di energie? Non per colonizzarle, ma per trarne, rispettandone la libertà, gli impulsi vitali. In fin dei conti, sono questi "servitori civili", quelli che più di altri conoscono i problemi e le difficoltà reali della vita nella nostra società. C´è più sapienza pratica lì che in tanti studi accademici, libri, dossier che spesso si pagano fior di quattrini per rimanere a giacere impilati. Perché c´è così poca attenzione e apertura, anzi spesso disprezzo, verso questo mondo?
La risposta alla domanda formulata sopra è semplice: la scarsa attenzione, se non l´ostilità, dipende dalla difesa di rendite di posizione politica che sarebbero insidiate dall´apertura. Non c´è da fare tanti giri di parole: è la sempiterna tendenza oligarchica del potere costituito. Viene in mente la frase dell´abate Siéyès con la quale inizia il celebre libello "Che cos´è il terzo stato", un testo che contribuì a creare autocoscienza in chi allora – la Francia pre-rivoluzionaria – chiedeva riforme: "Che cos´è il terzo stato? Tutto. Che cos´è stato finora nell´ordinamento politico? Niente. Che cosa domanda? Diventare qualcosa". Noi potremmo tradurre: "Che cos´è la società civile? Molto. Che cosa è nell´ordine politico? Quasi nulla. Che cosa occorre che diventi? Qualcosa".
Sotto questo punto di vista, c´è oggi in Italia una specifica situazione d´emergenza politica e democratica, rappresentata dalla legge elettorale vigente, con la quale rischiamo di essere chiamati alle urne, nel momento in cui – col favore dei sondaggi- piacerà a chi di dovere. Questa legge sembra, anzi è, fatta apposta per garantire l´impermeabilità del ceto politico, la sua auto-referenzialità, per munire la sua separatezza. È una legge, nella sua essenza, dello stesso tipo di quelle vigenti nelle dittature di partito. Il fatto che non vi sia "il" partito, ma vi siano "i" partiti, non cambia il giudizio. La sua ratio, come direbbero i giuristi, può esprimersi così: dall´alto discende il potere e dal basso sale, o si fa salire, il consenso. Ma questa non è democrazia. E´, se si vuole," democratura", secondo la felice e, al tempo stesso orrenda, espressione dell´esule bosniaco Predrag Matvejevic. Col sistema elettorale attuale, i vertici dei partiti – tutti quanti – dispongono dell´intero potere di definire chi formerà la rispettiva corte in Parlamento. Non è poca cosa per loro e questo spiega il fatto che, a suo tempo, quando fu approvato, non ci sia stata una reazione adeguata. Il potere si è capovolto e cominciamo ad accorgercene. E ci accorgiamo di quanto ciò finisca per alimentare sentimenti, risentimenti e atteggiamenti anti-politici, da cui tutti, meno i demagoghi, hanno molto da perdere.
La ragione per non andare più a votare con questa legge elettorale non si riduce alla pur rilevantissima stortura ch´essa comporta: il fatto cioè che deputati e senatori siano nominati dall´alto, senza alcuna possibilità d´influenza degli elettori, altro che nel distribuire il numero di "posti" che spettano all´uno e all´altro partito, assegnati poi a questo o quello per beneplacito altrui. La posta è assai più grande: per i partiti è il dilemma tra l´apertura alla società o la chiusura; per i cittadini tra la politica e l´antipolitica, tra la partecipazione e l´esclusione politica, tra la fiducia nella democrazia e il risentimento contro la democrazia.
Quando parliamo di democrazia, però, non pensiamo solo a partiti, elezioni, parlamenti, governi, e cose di questo genere. In una parola, non pensiamo solo a forme e istituzioni politiche, cioè a tecniche di governo. Pensiamo anche a una sostanza della società.
Ora, la domanda da porre è se ci può essere democrazia come forma in una società non democratica. La risposta è sì. Ci può essere. Ma che genere di democrazia? La democrazia come tecnica di governo, innestata su una realtà sociale non democratica, non fa che amplificarne e moltiplicarne i caratteri non democratici o antidemocratici, rappresentandoli, generalizzandoli e, per così dire, rendendoli obbligatori per tutti. Per esempio, noi non diremmo certo che una società a maggioranza razzista e xenofoba è democratica. Questa società può senz´altro governarsi in forme democratiche, cioè la maggioranza può imporre per legge la sua visione del mondo razzista e xenofoba. Questo ci dice che la democrazia, intesa solo come forma di reggimento politico, non è affatto più tranquillizzante di altre. Sotto certi aspetti, anzi, fa più paura, perché ha dalla sua la forza del numero. Questo spiega il fatto che la democrazia può essere, o diventare, odiosa al pari e forse più di altre forme politiche. Ciò accade quando alla forma (democratica) del potere corrisponde una sostanza non democratica della società.
Ma che cosa è una società non democratica? In breve: una società in cui esistono discriminazioni e disuguaglianze, tali che una parte, per così dire, viva bene sopra un´altra che vive male e questa differenza alimenta odio e violenza. Usciamo dal generico: è una società dove qualcuno possa dire: "questa è casa mia" e tu sei un intruso ch´io posso escludere e respingere a mio piacimento; dove, se non ti "integri", cioè non ti rendi irriconoscibile nella tua identità, non hai diritto di cittadinanza; dove la povertà e il disagio sociale sono abbandonati a se stessi, nella solitudine; dove il lavoro non è considerato un diritto, ma solo un fattore dell´impresa subordinato alla sua logica e dove i disoccupati e i precari sono solo un accidente fastidioso di un "sistema" e non un problema per tutti; dove l´istruzione e la cultura sono riservati ai figli di coloro che possono; dove la salute è il privilegio di chi può permettersi d´affrontare le spese che la sua cura comporta. Noi avvertiamo queste discriminazioni in modo sempre più acuto. La povertà, l´insicurezza e la solitudine aumentano, anche se spesso hanno vergogna di mostrarsi, come bene sanno coloro che operano nei servizi sociali, pubblici e privati. Il divario tra chi può curare la propria formazione culturale e chi non può aumenta, e spesso si manifesta in questa forma odiosa e umiliante per il nostro Paese: chi può manda i suoi figli fuori dell´Italia. La disuguaglianza giunge a segnare i corpi, divide quelli bene curati e quelli degradati: addirittura lo stato dei denti è diventato, anzi ri-diventato qual era un tempo, segno di condizione sociale.
E noi vorremmo che tutto ciò non ingeneri inimicizia sociale? Sarebbe ingenuo sperarlo. E vorremmo che chi sta dall´altra parte della società, quella che dal basso guarda a quella che sta in alto, non nutra diffidenza, per non dire di più, verso una democrazia che accetta questa loro condizione? Una condizione che non giustifica certo, ma spiega il carattere violento dei rapporti anche quotidiani tra le persone, di chi si sente più forte sul più debole e del debole come reazione al forte, nelle infinte situazioni in cui quel divario può essere fatto valere, nelle famiglie, nella strada, nelle scuole, nelle fabbriche, nei rapporti tra uomo e donna, tra "normale" e "diverso", eccetera. È all´opera l´incultura della sopraffazione che è l´esatto opposto dell´ethos necessario alla democrazia.
Qui, nella denuncia della mentalità dilagante, nella difesa e promozione di una cultura della convivenza e nell´azione per contrastare l´incultura della violenza, c´è un compito che ci riguarda tutti, in quanto questa società non ci piaccia affatto. Ci riguarda come cittadini cui la democrazia sta a cuore come un bene cui non vogliamo rinunciare. Ma riguarda anche i cittadini che militano in partiti politici che hanno la parola democrazia nelle proprie ragioni fondative o addirittura nel proprio simbolo. Ecco un´altra buona ragione per abbandonare l´idea che la politica si faccia principalmente nelle stanze dei palazzi del potere o negli uffici delle burocrazie di partito, che il buon politico sia quello esperto di "scenari", alchimie, tattiche e strategie. Tutto questo è importante, ma non basta. Siccome non basta, abbiamo il dovere di chiederci: dove siamo quando nel nostro Paese si avvelenano i rapporti tra le persone, nelle tragedie dell´immigrazione come in quelle delle famiglie di senza-lavoro e nei drammi del lavoro senza sicurezza; nelle proteste per una scuola che affonda come nella tragedia di chi è colpito dalla forza scatenata della natura: nei nostri uffici o tra chi ha bisogno di solidarietà? Ecco perché è necessario stringere i rapporti tra partiti e società, abbandonare l´idea e le pratiche che fanno pensare che gli uni possano fare a meno dell´altra, e viceversa.

l’Unità 13.9.10
«Il totalitarismo può sempre tornare. Anche in Occidente»
La pensatrice che ha visto il nazismo e lo stalinismo da Mantova ricorda che il pericolo resta. Oggi teme anche l’islamismo estremo (non l’Islam)
Intervista ad Agnes Heller
di Maria Serena Palieri

È una testimone speciale del ‘900, quella che il Festivaletteratura di Mantova permette di incontrare, nelle sue giornate conclusive. Ebrea-ungherese, nata nel 1929, Agnes Heller è scampata alla Shoah e ha sperimentato sulla sua pelle lo stalinismo. Alla luce della sua esperienza concreta, signora Heller, ma anche della sua riflessione filosofica, quali sono analogie e differenze tra i due totalitarismi?
«Tutti i totalitarismi hanno una caratteristica specifica, una specie di bussola ideologica per distinguere ciò che è permesso e ciò che è fuorilegge. In comune nazismo e stalinismo avevano un partito totalitario e un leader che stabiliva cos'era lecito e cos'era vietato. La differenza era nel contenuto: per il nazismo erano gli ebrei il nemico da sterminare, per Stalin, che pure coltivava elementi antisemiti, il nemico pubblico numero 1 invece era quello di classe e, accanto, i trotzkisti. Il nazismo concedeva la proprietà privata ma impediva rapporti sessuali tra razze diverse, nell'Unione Sovietica al contrario potevi fare sesso con chiunque ma la proprietà privata era fuori legge. L'ideologia ti dice che esistono legalità e ciò che è fuori legge, poi a decidere cos’è il partito. Per stare all'oggi, in Iran l'opera lirica è vietata perché le donne che cantano sono considerate un pericolo, mentre con Stalin l'opera era permessa». Oggi è il fondamentalismo islamico la culla del nuovo totalitarismo? «Sì, però parlerei piuttosto di islamismo che ha ben poco a che vedere con l'Islam, così come Stalin con Marx e Hitler con Nietzsche. I dittatori si appoggiano ai testi per trarne ideologia».
Ma l'Occidente può considerarsi vaccinato da questa malattia mortale? «Per ora, sì. Ma il rischio potrebbe tornare in un futuro prossimo. È molto pericoloso pensare che abbia vinto la democrazia liberale e che siamo alla fine della storia. Perché il totalitarismo è moderno quanto la democrazia liberale».
Crede che nel berlusconismo ce ne sia un germe? «In realtà in Italia neppure con il fascismo di Mussolini avete fatto esperienza di un totalitarismo 'totale'. C'era un re, c'era la Chiesa. Non c'era un solo potere assoluto. Franco, in Spagna, era più totalitario, non concepiva contropoteri neppure piccoli, neppure deboli. Mussolini diventò così alla fine della sua parabola con la Repubblica Sociale. Ora, se un presidente è eletto, com'è da voi Berlusconi, non si può parlare di potere totalitario. A meno che una volta eletto non annulli le istituzioni stesse che l'hanno portato al potere....»
È ciò che il nostro presidente del Consiglio purtroppo ripete di desiderare... «Hitler fu eletto democraticamente, ma poi dichiarò fuori legge gli altri partiti e così si trasformò in un dittatore. In Russia c'era un'Assemblea costituente e quando Lenin la sciolse l'Urss si trasformò in stato totalitario».
A 21 anni dal crollo del Muro molti cittadini dell'ex-Est lamentano la perdita di una condizione coatta ma protetta: casa, scuola, salute, lavoro assicurati. Lei, cui l'Ungheria di Kadar aveva reso la vita e la ricerca intellettuale impossibile, se n'era andata una dozzina di anni prima, nel 1977, prima in Australia, poi a New York. Può dirci come visse l'espianto e il trapianto in Occidente a livello intimo, personale? «L'esperienza più profonda fu quella della libertà. Ero libera di andare alla posta e imbucare un manoscritto, libera di prendere un aereo. Mi sentivo più vicina a Vienna, la nostra porta sull'Occidente, dall'Australia che da Budapest. Perché a Budapest per andarci avrei dovuto aspettare un visto che non mi avrebbero mai concesso. L'Australia ha costituito la mia prima esperienza di democrazia liberale. Nel nostro dipartimento, all'università, potevamo discutere e organizzarci, darci le nostre regole e creare la nostra comunità. Ma il fatto è che in Australia c'era allora anche una società molto egualitaria, con una tassazione assai alta e sindacati forti. Il salario di un professore ordinario, pagate le tasse, non era perciò tanto più elevato di quello di un semplice associato. C'era molto egualitarismo, dunque non c'era spazio per il rampantismo. Che senso aveva sgomitare per guadagnare 120 dollari in più al mese? L'Australia di allora assomigliava molto alla Svezia di oggi. Ora so che le cose sono cambiate, ma non vivo più lì».
A due decenni dalla fine del socialismo reale, nel pieno della crisi creata dal “turbocapitalismo”, si riparla di Marx. È il caso di riprendere in mano la sua cassetta degli attrezzi?
«Il problema non mi sembra sia nel capitalismo in sé. Che non è il diavolo che si dipinge. Il problema è la redistribuzione. Se alla distribuzione del mercato non si affianca la redistribuzione dello Stato, il capitalismo diventa selvaggio. Se l'intervento pubblico è eccessivo, però, c'è il rischio di stagnazione. È un pendolo. Ma mi chiedo, so che il capitalismo non è un bene, ma vedo di meglio? Non mi sembra ci sia alternativa. Quanto a Marx, ne ha descritto bene le tendenze: l'accentramento, a capitalizzazione dell'agricoltura, la globalizzazione. La sua previsione di un crollo del capitalismo però era sbagliata. E oggi in più c'è la nostra coscienza ecologica a spalancare un baratro teorico tra noi e lui: noi sappiamo che non può darsi un valore di utilizzo gratuito della natura, come lo concepiva lui».
Signora Heller, lei ha regalato al “dizionario europeo” in via di compilazione qui a Mantova la parola ungherese “panaszkodàs”, che significa lamentazione. È una garbata presa in giro del suo Paese?
«La cultura nazionale ungherese è basata sul lamento. Basta andare dal parrucchiere per accorgersene: lì c'è una prima signora che lamenta 'mio marito è terribile' e quella accanto 'no, il più tremendo è il mio'. Tutti sono malati, senza soldi, sul punto di morire di fame. Se incontri qualcuno per strada e gli chiedi 'come va?' ti risponderà 'sopravvivo'... È un gioco pericoloso: l'Ungheria registra nell'Unione europea il numero più alto di suicidi. A forza di lamentarsi, si finisce per crederci».

Chi è
Agnes Heller, studiosa e filosofa della modernità
Agnes Heller è tra i più grandi studiosi della complessità storica e filosofica della modernità. Sopravvissuta all'Olocausto, ha 18 anni quando nel 1947 assiste alle lezioni dell'ormai sessantenne G. Lukács. Nel 1956 gli allievi diventano una «corrente» di sostenitori del «vero» marxismo. Nel 1959 viene espulsa da università e partito per aver sostenuto «idee false e revisioniste». Nel 1963 entra come ricercatrice nell'Istituto di Sociologia dell'Accademia delle Scienze e sempre nello stesso anno a seguito di un viaggio in Italia scrive «L'uomo del rinascimento». «Fu un libro d'amore: una dichiarazione d'amore per l'Italia» spiegherà in «Morale e rivoluzione». Nel 1968 protesta contro l'intervento sovietico in Cecoslovacchia. Viene licenziata dall'Accademia nel 1973. Nel 1977 lascia l'Ungheria insieme al marito, il filosofo Ferenc Fehér e gli amici Gyorgy e Maria Marcus, anch'essi esponenti della «scuola di Budapest». A Melbourne insegnerà sociologia presso La Trobe University, poi alla New School for Social Research di New York. Dopo l'89 è tornata a Budapest. Sancito il suo distacco dal marxismo, resta ancorata alla sua teoria dei «bisogni radicali». In Italia l'ultimo titolo pubblicato è «La bellezza della persona buona» (Diabasis).