giovedì 16 settembre 2010

l’Unità 16.9.10
La scuola e le due Italie
di Marco Rossi-Doria

La posta in gioco per l’istruzione in Italia è altissima. Per capire la partita in corso, bisogna partire dal fatto che accade sempre che due modi di considerare la scuola si confrontano. Da un lato c’è la scena educativa concreta, la vita vera a scuola. Dall’altro ci sono le cornici sistemiche: rapporto tra bisogni e organici, spesa, organizzazione generale. Sono due mondi, con due linguaggi che in ogni sistema d’istruzione vanno messi in una relazione virtuosa. E’ proprio questa relazione “il governo della scuola”. E poiché ogni contesto locale tende a auto-centrarsi, è bene che vi sia il contraltare di una visione generale. Per esempio i temi della verifica dei risultati delle scuole, l’esigenza di una semplificazione degli indirizzi, l’opportunità di decentrare le decisioni sono cose che chiamano a fare i conti con vincoli, doveri di verifica, assunzione di responsabilità diretta. Ma l’anomalia politica che ha luogo in Italia è che da anni la destra fa una propaganda vergognosa e ripete che le forze di centro-sinistra non hanno accolto questa prospettiva. E’ una menzogna. Questi temi sono, anzi, stati posti dal centro-sinistra: stabilimento del fabbisogno generale e proposta di allocazione delle risorse con risparmi veri ma anche sostenibili in termini di tenuta educativa delle scuole (libro bianco), piano di rientro dei precari al fine di riprendere i concorsi pubblici, piano per la sicurezza delle scuole, avvio del sistema di valutazione. La verità è un’altra. La destra non mette in relazione la vita vera delle scuole e il sistema, ha una visione dirigista del sistema e, soprattutto, lo fonda sul risparmio come unico criterio.
Perciò la destra va battuta con la ripresa della priorità educativa rispetto a quella fondata sul budget. E poi ci si misura sul come reperire i fondi. Questo approccio, nella storia italiana, ha una forte tradizione. Ne hanno fatto parte, in modi diversi, la destra storica, Giolitti, per certi versi lo stesso fascismo, i governi centristi del dopoguerra e, con un salto in avanti, il primo centro-sinistra che, con la scuola media unica, applicò la Costituzione e aprì la via al successivo difficile cammino, ancora in corso, dell’istruzione per tutti e ciascuno. Il governo Prodi, con l’elevamento dell’obbligo, stava in questo solco. In questa tradizione ci sono stati anche errori e limiti. Da correggere. Ma è questo il solco delle politiche pubbliche unitarie del Paese. L’attuale governo rappresenta una grave frattura in questo indirizzo di responsabilità verso le nuove generazioni di tutte le classi sociali. Infatti, la priorità assoluta data ai tagli rivela qualcos’altro. Rivela un’idea di scuola in cui chi è protetto perché ha a casa persone istruite può permettersi poco tempo-scuola e gli altri faranno quel che possono con quel tempo. Così, la scelta di indirizzo fondata solo su criteri di bilancio sancisce il principio di ineguaglianza: dare poche cose uguali a chi uguale non è. E smentisce l’articolo 3 della Costituzione che chiama la Repubblica a rimuovere le cause dell’ineguaglianza. Nessuna riparazione per chi sta indietro. Inoltre il criterio del risparmio fa sì che l’educare non è più una funzione della scuola.
Che è limitata all’istruire e dunque i grandi temi della comunità a scuola, della relazione scuola-famiglia, della gestione delle difficoltà dell’adolescenza sono “esternalizzati”, non finanziabili se non con risorse altre. Chi le trova bene, chi no è lasciato solo. Si tratta di una politica che consolida la divisione, nel Paese, tra popolazione protetta e poveri e tra Nord e Sud. E che sta portando alla chiusura delle scuole di montagna, all’accorpamento nelle mani di pochi dirigenti di molte scuole, con relativo annullamento delle funzioni di coordinamento pedagogico a favore di quelle meramente burocratiche, all’affollamento ingestibile delle classi, al decadimento pericoloso del patrimonio edilizio. E’ l’approccio contrario a mettere insieme scuole e sistema.
L’alternativa a questa politica sulla scuola pone, invece, l’intelaiatura di sistema al servizio di chi fa scuola, di chi deve mantenere le promesse della scuola perché risponde ogni mattina alle persone e ai compiti educativi: trovare risposte, caso per caso, classe per classe, alla crisi dei modelli educativi e alla caduta generale delle regole, affrontare la grande fragilità di un’ adolescenza sottoposta ai richiami di consumo e di comportamento dominanti e promuoverne, al contempo, le immense vitalità, integrare davvero i bambini e ragazzi stranieri, fare i conti con il fatto che i modi di apprendere nella rete e nei media vanno ricondotti a un senso, contrastare gli effetti, spesso devastanti, della povertà e dell’illegalità in intere aree del Paese dove la scuola è il solo presidio democratico. Dunque: l’agenda sulla scuola ce la fornisce la vita vera e complessa che già avviene a scuola. Altro che l’aritmetica delle ore cattedra per risparmiare! Ma la situazione si è così aggravata che, per rimettere in piedi una politica per la scuola, un governo alternativo dovrà affrontare, insieme, le questioni di cosa e come si impara e le due prime emergenze, che sono: fornire le condizioni necessarie per una scuola del ventunesimo secolo e dare di più a chi parte con meno. Dunque, mettere in sicurezza le scuole oggi non a norma e degradate e fornirle dei mezzi per garantire manutenzione ordinaria, mense e luoghi comunitari aperti tutto il giorno, palestre, laboratori scientifici, multimedialità costantemente aggiornata. C’è da fare – federalisticamente! – un grande patto stato-regioni su questo. E poi: dare subito di più a quel 20 percento di bambini poveri, ovunque e soprattutto nel Sud. Più asili nido nelle aree metropolitane del Mezzogiorno. Fornire le scuole d’infanzia di un monte ore ulteriore per la mediazione con le famiglie povere e soprattutto con le mamme delle zone a forte rischio che chiedono sostegno a una genitorialità difficile. Dare il tempo lungo e un organico funzionale a tutto la scuola del nuovo obbligo, fino ai sedici anni, ma a partire dalle aree più difficili, sul modello delle zone di educazione prioritaria francese, assicurando l’effettiva alfabetizzazione irrinunciabile – in primis solide basi precoci in italiano e matematica che non possiamo garantire, in quei contesti, con il tempo corto e l’organico ridotto. Fornire scuole di seconda occasione per chi è già “disperso” a dodici o tredici anni. Il governo dell’alternativa è queste cose qui, da verificare con rigore.

Repubblica 16.9.10
Scuola, la grande protesta
Verso un autunno di fuoco prof e presidi, migliaia in assemblea
Rossi agli studenti: "La crisi impedisce di volare"
di Gaia Rau

Migliaia di lavoratori della scuola hanno invaso il Saschall, ieri mattina, per l´assemblea provinciale indetta dai sindacati. Insegnanti, presidi, custodi, personale amministrativo: tutti in prima linea contro i tagli all´istruzione per un appuntamento che si annuncia come il primo di un autunno bollente. Con loro anche gli assessori Di Fede e Di Giorgi, mentre il presidente toscano Rossi ha inviato un messaggio agli studenti: «La scuola deve ritrovare le ali»
Le prime stime parlano di 3 mila persone. Ma per i sindacati sono stati molti di più - sette, ottomila, dicono dalla Cgil - i lavoratori della scuola che ieri mattina hanno invaso il Saschall per l´assemblea provinciale indetta da Cgil, Cisl, Gilda e Cobas. Quindicimila quelli che hanno partecipato a riunioni analoghe in tutta la Toscana. Insegnanti di ruolo e precari dalle materne alle superiori, presidi, bidelli e personale amministrativo in arrivo da ogni parte del territorio a bordo dei pullman organizzati dai sindacati per un appuntamento che si annuncia come il primo di un autunno bollente. Insieme a loro anche gli assessori all´istruzione della Provincia Giovanni Di Fede («siamo al fianco degli insegnanti, e pensiamo che da questo governo non ci possiamo attendere niente di buono», ha detto dal palco) e del Comune Rosa Maria Di Giorgi, la quale si è rivolta agli insegnanti: «La vostra lotta è assolutamente la nostra lotta».
«Un´esperienza fantastica, evidentemente abbiamo colto il bisogno delle persone che lavorano nella scuola di veder rappresentato il loro disagio - commenta a caldo Alessandro Rapezzi della Cgil - Adesso dobbiamo fare i conti con una responsabilità spaventosa, quella di dare seguito a tante aspettative». Mentre a chi ha criticato la scelta di un´assemblea proprio il primo giorno di scuola risponde Antonella Velani, della Cisl: «In pochi l´hanno giudicata inopportuna, a giudicare dai numeri che ci sono qui». In effetti l´affluenza è tale che, a metà mattina, nel teatro non c´è più un posto libero: c´è chi siede per terra, in tanti sono costretti ad ascoltare gli interventi dai giardini, attraverso gli altoparlanti.
Tanti i richiami alla carta costituzionale. A cominciare dallo striscione «Rispettare la Costituzione, garantire il diritto allo studio», appeso sotto al palco, insieme a un altro con una frase di Derek Bock: «Se pensate che l´istruzione sia costosa, provate l´ignoranza». Ma l´articolo 34 sul diritto all´istruzione è stato citato anche in tanti interventi che si sono alternati nell´arco della mattinata. «La nostra è un´assemblea per la legalità», dice dal palco un´insegnante di Signa, travolta dagli applausi. «Gelmini e Tremonti vogliono una scuola della miseria, ma noi abbiamo la forza per reagire», le fa eco Alidina Marchettini dei Cobas. Al centro delle critiche i provvedimenti del ministro all´istruzione: in tanti ne chiedono le dimissioni, altri invocano «l´abrogazione di tutte le controriforme che hanno fatto tagli alla scuola». Una delle richieste centrali è il ritorno a una protesta unitaria: «Docenti e non docenti, ma anche studenti, universitari e famiglie, come nel 2008». A tutti i presenti, infine, i sindacati hanno distribuito un «Vademecum della legalità» con le norme relative, ad esempio, alla sicurezza negli edifici, al limite di affollamento nelle aule, agli orari di lavoro. Fra le prossime iniziative un´assemblea dei precari, il 5 ottobre e un´altra, il 21, con le rsu delle scuole di tutta la provincia. Mentre i Cobas propongono uno sciopero per il 15.
Intanto il presidente della Regione Enrico Rossi ha inviato un messaggio agli studenti toscani: «La scuola, che dovrebbe volare e aiutare a volare, è costretta a fare i conti con una crisi che ne frena il volo - ha scritto - Ma le ali vanno ritrovate, o ricostruite, proprio nei giorni di depressione economica: e uno fra i modi migliori per ritrovarle è proprio puntare sulla scuola perché è anche grazie alla scuola che si dà concretezza ai principi della nostra Costituzione».

l’Unità 16.9.10
Dall’inizio 2010 le vittime sono 23, che si aggiungono alle 19 registrate l’anno scorso
Ancora suicidi in France Telecom Cinque nelle ultime due settimane
di Luca Sebastiani

Le vittime non si conoscevano e lavoravano in posti differenti, indistinguibili tra i centomila dipendenti complessivi del gruppo. La riforma che innalza l’età pensionabile è vista come un sopruso tra i lavoratori.

I cambi al vertice nel colosso delle tlc e i piani antistress non hanno interrotto la catena

Ancora suicidi, e ancora France Telecom. Cinque solo nelle ultime due settimane. Nonostante lo sdegno dei francesi, i cambi al vertice dell’azienda e l’interessamento del governo, un anno di piani per migliorare le condizioni di lavoro nel colosso della telefonia non sono stati in grado di arrestare il virus strisciante dello stress che dall’inizio dell’anno ha già fatto 23 vittime. Più delle 19 dell’anno prima, quello che ha acceso i riflettori su France Telecom. Terribile bilancio. Evidentemente hanno ragione i sindacati, che denunciano una situazione stagnante, con una direzione che non ha fatto abbastanza. «Nessuno è vicino ai lavoratori più fragili», dicono.
Delle ultime cinque vittime si sa poco. I familiari, l’azienda, ma anche i sindacati hanno voluto mantenere il riserbo su nomi e biografie. Di loro si sa solo che non si conoscevano e lavoravano in posti differenti: uno nella regione di Parigi, due nei pressi di Rennes, uno a Lille e un altro a Tolosa. Ai cinque angoli della Francia, lavoratori indistinguibili tra i centomila di France Telecom. Lavoratori più fragili degli altri però, che i piani antistress non sono riusciti a salvare. Anche loro deboli come Michel Deparis, il dipendente che lo scorso anno prima di levarsi la vita aveva scritto una lettera in cui accusava l’azienda dei nuovi capitani, che arrivati alle redini del colosso delle telecomunicazioni hanno piegato l’azienda ad un’esclusiva logica finanziaria.
Da ormai un decennio il mercato delle tlc è tra i più concorrenziali e gli azionisti (tra cui il principale è lo Stato col 27% del capitale) reclamano sempre più dividendi: a loro bisogna rispondere e dunque bisogna fare profitti riducendo la massa salariale. In pochi anni la realtà degli impiegati di FT è diventata un inferno. Obiettivi di produttività irraggiungibili, valutazioni continue e richiami, concorrenza sfrenata tra colleghi e individualizzazione.
PRESSIONE
I manager fanno pressione e gestiscono i servizi col solo fine di ridurne gli effettivi. Bersaglio privilegiato, il grosso del personale, proprio quei cinquantenni entrati ai tempi del monopolio pubblico. Nel 2005 l’ex amministratore delegato Didier Lombard fissa in 22mila la quota di posti da tagliare. Inizia una girandola di riorganizzazioni e razionalizzazioni senza fine: decine di siti vengono chiusi in Francia, 15mila lavoratori sono obbligati alla mobilità e spostati verso i settori prioritari (Adsl, cellulari, funzioni commerciali). Le missioni diventano sempre più brevi e l’ex impiegato abituato alla sicurezza del posto viene sballottato in una flessibilità estrema che sembra fatta apposta per spingerlo ad andarsene. Molti infatti decidono di farlo, e oggi i dirigenti di FT si possono vantare che per ridurre di 16.800 unità l’organigramma del colosso non hanno fatto ricorso a piani cruenti. Chi ha voluto è stato riaccompagnato alla porta con appositi piani di sostegno. Sul tappeto però sono rimasti i lavoratori intrappolati tra il rifiuto ad andarsene e la ferocia dei manager.
Lo scorso anno di questi tempi la stampa aveva acceso i riflettori sul problema e allo sdegno dei francesi era seguita la sostituzione dei vertici. Lombard, ad che ha sempre sostenuto che le cause dei suicidi vanno trovate fuori dell’azienda, aveva dovuto lasciare il posto a Stephane Richard. Quest’ultimo si era dato da fare e a luglio si era spinto fino a riconoscere il suicidio di Michel Deparis come incidente di lavoro. Ma il morale a FT è sempre basso, dicono i sindacati. Nonostante un dividendo di 11 miliardi le prospettive lavorative non sono rosee; Lombard è ancora presidente, e la riforma sarkozista che innalza da 60 a 62 l’età pensionabile è vista come un sopruso dai lavoratori diFT,il 50%deiquali hapiùdi 50 anni e aspettava con ansia il momento di andarsene.

Europa 16.9.10
Se il Nuovo Ulivo esclude i Radicali
di Pier Paolo Segneri

Il più grande pregio per un politico è saper ascoltare. Avere la forza, la pazienza, l’intelligenza di ascoltare gli altri e anche ciò che accade tutto intorno. Soprattutto nell’apparente caos della politica italiana, oggi, in mezzo a tanto rumore e inutili schiamazzi, chi sa ascoltare è un po’ un piccolo principe. Chi più riesce a sentire quel che accade oggi, più riesce a vedere ciò che accadrà domani o sta per succedere tra pochi minuti. Infatti, l’attenzione verso l’individuo e la collettività, verso la persona e il rispetto delle persone, nei confronti degli altri e verso l’insieme, è spesso un modo per partecipare attivamente al dialogo, al contraddittorio, all’azione. Agire senza agire. Mentre tutti si agitano, chi sa ascoltare è poi l’unico a muoversi davvero, a cogliere la memoria che vive nel presente e si muove verso il futuro. Perché ascoltare è un modo per vedere oltre.
Insomma, bisogna saper ascoltare il vento che tira, il suono e la voce della fase politica che stiamo vivendo. Bisogna saper ascoltare, se si vuole cogliere la trasformazione già avvenuta e quella in corso. Mentre sono in molti, ancora, anche nel Pd, a non aver compreso che la Terza Repubblica è già iniziata. Si parla di Nuovo Ulivo e giustamente si dimenticano i Radicali di Emma Bonino che hanno sempre avuto, negli ultimi quindici anni, un progetto politico differente. Anzi, hanno sempre proposto un progetto in dichiarata antitesi con quello dell’Ulivo.
Si sta lavorando, quindi, al Nuovo Ulivo che non prevede l’alleanza con i Radicali e con la lista del più antico partito italiano, quello di Marco Pannella. È questo il grande progetto per il futuro? Un progetto anti-liberale? Se questi sono i presupposti, c’è da essere molto preoccupati. L’Ulivo è un progetto del passato, appartiene alla Seconda Repubblica. Se l’Ulivo fosse un progetto politico “nuovo”, che bisogno vi sarebbe di aggettivarlo come “nuovo”? Un’idea è nuova quando non ha bisogno di definirsi come tale. Bisogna saper ascoltare, se si vuole prevedere il futuro. Bisogna saper ascoltare, se si vuole governare il cambiamento.
Bisogna saper ascoltare chi non ha voce, chi non ha parola, chi non ha potere, chi vive costretto nel silenzio, chi ha scelto di stare zitto, chi viene silenziato, chi non ha soldi, chi non ha spazio, chi ha paura, chi è emarginato, chi è rimasto ammutolito, chi trema, chi viene imbavagliato. Bisogna saper ascoltare, se si vogliono promuovere soluzioni, idee, proposte. Bisogna far circolare orecchie capaci di sentire l’oltre e l’alterità che i politici ignorano o disdegnano, invece che continuare a rompere i timpani con grida ormai spente. Forse chiamiamo caos ciò che non sappiamo comprendere del nostro tempo politico e che non riusciamo ad ascoltare, quindi a capire. La Terza Repubblica è già qui, ma i dirigenti del Pd non lo hanno ancora capito. E il Cavaliere nemmeno. Naviga a vista.


Repubblica 16.9.10
L’internazionale della paura
di Adriano Prosperi

Uno spettro si aggira per l´Europa: un altro. Non quello rosso del comunismo che nel 1848 allarmò la Santa Alleanza. Oggi lo spettro veste gli stracci colorati e si muove sui carrozzoni di un popolo di nomadi. È questo lo spettro che ha spinto Sarkozy a rispondere sgarbatamente alla commissaria europea Viviane Reding e che gli ha guadagnato l´immediato appoggio di Berlusconi.
Oggi nasce in Europa una nuova internazionale: quella della paura. Ne tengano conto gli storici del futuro. Abbiamo avuto finora diverse Europe, quella cristiana, quella degli umanisti, quella illuministica. È stato battuto il tentativo di dar vita a un´Europa nazifascista nel segno della romanità antica e della svastica che nel 1934 portò a Roma per annunciarne la creazione l´ideologo del razzismo nazista Alfred Rosenberg. Ci fu, invece di quella, l´Europa rinata dalle rovine grazie all´intelligenza e al coraggio di uomini come Federico Chabod che concluse le sue lucidissime lezioni sulla storia dell´idea d´Europa lasciando Milano per unirsi alla Resistenza in Val d´Aosta.
Ma quella che oggi ha preso forma nelle dichiarazioni di Sarkozy e per la quale il nostro presidente del Consiglio si è affrettato a dichiarare che esiste «una convergenza italo-francese» è un´Europa dominata dalla paura, dalla volontà di chiudere le porte agli immigrati e di cacciare via i rom.
Notiamo di passaggio la differenza di stile tra le due dichiarazioni, quella di Sarkozy e quella di Berlusconi. Quella di Sarkozy è una rispostaccia pubblica, da litigio di condominio: quella di Berlusconi è un avvertimento di metodo: di queste cose si deve parlare privatamente. Ma ambedue partono da un unico presupposto: quello che i rom siano spazzatura. Anzi, qualcosa di meno. Sul mercato internazionale della spazzatura il prezzo dei rimpatri francesi dei rom - 300 euro un adulto, 100 un bambino - è decisamente a buon prezzo se confrontato con quello dei residui speciali che attraversano l´Europa su carri blindati per andare a nascondersi in qualche miniera abbandonata o a farsi bruciare negli impianti tedeschi.
Accomuna le due dichiarazioni lo stesso disprezzo per gli esseri umani in gioco. Ci si chiede se siamo giunti davvero al punto di dover riconoscere che l´Europa ha dimenticato l´epoca in cui i trasferimenti forzati di popolazione e l´eliminazione fisica degli indesiderati presero avvio proprio dai rom. Sbaglieremmo a trascurare le ragioni di questa rapida convergenza dei due presidenti nella costruzione di un´Europa della paura.
Il ministro Maroni ci aveva già informato all´inizio dell´estate che stava preparando la sua campagna d´autunno col rilancio del tema degli immigrati. E non è certo da oggi che la politica della paura costituisce la risorsa alla quale si appella una dirigenza politica senza idee e senza risultati da presentare al paese. È una ricetta a suo modo infallibile. Ma la censura della commissaria europea Viviane Reding ha fatto suonare l´allarme in casa leghista e ha spinto Berlusconi a coprirsi dietro le spalle di Sarkozy per la semplice ragione che la Francia è sempre la Francia.
Sarà bene che l´opinione pubblica democratica si svegli: non si dimentichi che si sta discutendo della sorte di esseri umani mercificati e venduti a un tanto il chilo. Che cosa contino sul mercato di una coalizione che si presenta a mani vuote davanti al paese in cerca di rilanci elettorali lo abbiamo capito dal commento del governo all´episodio della sparatoria partita da navi vedetta italiane in mani libiche: pensavano forse che si trattasse di immigrati clandestini? Perché evidentemente in questo caso si sarebbe trattato di una causa giusta. Che i libici, con l´aiuto e l´avallo dell´Italia, sparino sui pescherecci dei disperati o li chiudano nei campi di concentramento viene considerato un successo politico del nostro paese.
Comunque il risultato è quello di una brusca svolta storica: nell´idea d´Europa, nella immagine della Francia paese della libertà e rifugio per chi non trova libertà in casa sua; anche nella realtà storica di un´Italia che, pur nella fragilità delle sue istituzioni statali, aveva trovato nel solidarismo cristiano e in quello socialista le risorse ideali e pratiche per assicurare assistenza e conforto ai diseredati.

Repubblica 16.9.10
L'ombra della pedofilia sul viaggio del Papa
di Marco Ansaldo

Oggi Benedetto XVI in Inghilterra e Scozia tra le polemiche. Il cardinale Kasper rinuncia alla visita, è giallo
Gaffe dell´alto prelato che aveva detto: arrivi a Heathrow ed è Terzo Mondo
L´appello sul Corano: il rispetto della libertà religiosa prevalga sulla violenza

CITTÀ DEL VATICANO - Comincia oggi il difficile viaggio di Benedetto XVI in Inghilterra e Scozia. Quattro giorni di discorsi, riunioni e momenti di riflessione nei quali il Pontefice affronterà argomenti delicati, fra l´incontro ecumenico con la Chiesa anglicana e il colloquio con la Regina. Ma nei media e tra alcuni intellettuali è il caso della pedofilia nella Chiesa a tenere banco.
Addirittura Foreign Policy in un articolo-provocazione si chiede: «Può la Gran Bretagna arrestare il Papa?». L´onda delle polemiche sullo scandalo, corroborata dalle ultime rivelazioni sugli abusi compiuti da alcuni preti belgi, si allunga impietosamente sul viaggio. In Irlanda - dove pure Benedetto XVI non andrà - è ancora viva l´impressione dei due rapporti governativi Ryan e Murphy che alzarono il velo sulle violenze compiute per decenni da religiosi, e portarono il Pontefice a scrivere una lettera ai fedeli irlandesi. Le tappe nelle diverse città del Regno Unito verranno costantemente affiancate da proteste e iniziative, fino a una marcia per le vie del centro di Londra sabato 18 settembre. Nel mirino non c´è solo la pedofilia. Chi accusa contesta anche la posizione di Joseph Ratzinger sui preservativi nella prevenzione dell´Aids, oltre ai milioni di sterline che il governo di Londra ha stanziato per la visita proprio mentre varava un programma di tagli e sacrifici durissimo. È molto probabile comunque che Benedetto, così come fece negli Stati Uniti, in Australia e a Malta, incontri durante questo soggiorno alcune vittime di quello che lui stesso ha definito «un odioso crimine ma anche un grave peccato che offende Dio». Il viaggio ha conosciuto alla vigilia anche un «giallo». Il cardinale tedesco Walter Kasper, che doveva far parte del seguito papale, si è infatti ritirato dalla visita. Motivazione ufficiale: ragioni di salute. I media britannici legano però la rinuncia del porporato, ex presidente del Pontificio Consiglio per l´Unità dei cristiani, a una sua intervista al settimanale tedesco Focus in cui parlava dell´«aggressivo nuovo ateismo» del Regno Unito, aggiungendo che «quando atterri a Heathrow sembra di arrivare in una nazione del Terzo Mondo. Se indossi una croce sulla British Airways vieni discriminato». Ragioni negate dalla Sala stampa vaticana il cui direttore, padre Federico Lombardi, ha spiegato che la rinuncia è «assolutamente per motivi di salute e non c´entra nulla con l´intervista». Il Papa ieri non è tornato a parlare del viaggio, come aveva accennato all´Angelus di domenica scorsa. Ma ha affrontato il tema degli assalti alle chiese e alle scuole cristiane avvenuti in vari Paesi asiatici dopo le profanazioni del Corano negli Stati Uniti. «Il rispetto della libertà religiosa - ha detto all´udienza generale - e la logica della riconciliazione e della pace prevalgano sull´odio e sulla violenza. Seguo con preoccupazione gli avvenimenti verificatisi in questi giorni in varie regioni dell´Asia meridionale, specialmente in India, in Pakistan e in Afghanistan. E prego per le vittime».

Repubblica 16.9.10
E ora Londra lo accusa di non aver rimosso gli "orchi" della Chiesa
La rabbia delle vittime: i preti condannati ancora al loro posto
di Enrico Franceschini

Molti biglietti per le messe che dirà durante il viaggio sono andati invenduti
Alcuni dei sacerdoti condannati ricevono ancora ospitalità e assistenza dal clero

LONDRA - Un nuovo scandalo accoglie il papa al suo arrivo in Gran Bretagna. Un documentario di Channel Four, uno dei canali privati televisivi nazionali, anticipato ieri dal quotidiano Guardian in prima pagina, accusa il Vaticano e la chiesa cattolica inglese di non avere mantenuto le promesse di fare pulizia tra i preti colpevoli di pedofilia in Inghilterra e in Galles. L´inchiesta della tivù esamina gli effetti del rapporto Nolan, un´indagine sugli abusi commessi da religiosi cattolici nel Regno Unito pubblicata nel 2001. In quel documento, i vertici cattolici inglesi si impegnavano a privare del sacerdozio i preti condannati per abusi sessuali, ma Channel Four ha scoperto che invece più di metà di essi continuano a fare parte del clero. Alcuni ricevono perfino ospitalità e assistenza finanziaria dalla chiesa. Messe di fronte all´evidenza, le autorità della chiesa cattolica d´Inghilterra affermano che in alcuni dei casi contestati il procedimento punitivo è stato avviato, ma spetta al Vaticano emettere la decisione di estrometterli dal sacerdozio: e tale decisione non è ancora arrivata. Come se non bastassero l´indifferenza della popolazione (solo il 14 per cento dei britannici guardano con favore alla sua visita), i biglietti invenduti per le messe che dirà durante il viaggio, le critiche dei media (un editoriale del Guardian riconosce che è dubbio se sia lecito stendere il tappeto rosso per il papa, ma poi osserva che "tutti i tipi di tiranni sono stati accolti a Londra" e dunque lo si può fare anche per "il più grande autocrate della terra"), la visita di Benedetto XVI incontra così un nuovo ostacolo già in partenza: ancora prima degli incontri "segreti" in programma tra il pontefice e un selezionato gruppo di vittime dei preti pedofili, ancora prima della possibile iniziativa di associazioni laiche di incriminarlo per complicità nella vicenda degli abusi sessuali e delle coperture per insabbiarli, come chiede un celebre avvocato e difensore dei diritti civili, Geoffrey Robertson, nel libro "The case against the pope" (Il caso contro il papa), che la Penguin, maggiore casa editrice britannica, ha pubblicato proprio in coincidenza del suo arrivo, anche questo è un apparente segno di ostilità al pontefice.
L´inchiesta di Channel Four rivela che 14 dei 22 preti inglesi condannati a un anno o più di prigione per pedofilia sono tuttora parte del clero cattolico d´Inghilterra e Galles; 10 di loro compaiono nell´elenco ufficiale dei sacerdoti cattolici del Regno Unito. Soltanto 8 dei 22 sono stati esclusi dal sacerdozio. Uno dei preti pedofili ancora in attività smascherato dal documentario è padre John Coughlan, arrestato e incarcerato nel 2005. Sebbene non conduca più la messa, padre Coughlan è ancora un prete e vive in una casa di proprietà della chiesa, presso la diocesi di Westminster amministrata dall´arcivescovo Vincent Nichols, la più alta autorità cattolica in Gran Bretagna. Richiesto di spiegare la sua permanenza nella chiesa a dispetto delle norme stabilite quasi dieci anni fa dalla commissione Nolan, padre Coughlan dichiara di essere "in un limbo" e afferma che altri preti sono nella sua stessa situazione. Nel difendersi dall´accusa di avere violato gli impegni presi, un portavoce della chiesa cattolica d´Inghilterra dà l´impressione di volersi "lavare le mani" da ogni responsabilità: «Un vescovo deve rivolgersi a Roma per ricevere l´autorizzazione a laicizzare un prete e né la durata, né il risultato di questa richiesta sono sotto il controllo del vescovo». La responsabilità, lascia capire, è dunque di Roma. E intanto le associazioni delle vittime della pedofilia affermano che gli incontri con il papa hanno solo l´obiettivo di "manipolare" le vittime e spingerle a esprimere sostegno al pontefice.

Repubblica 16.9.10
Il ruolo dell’irrazionalità nelle ideologie e nell’azione pubblica
Quando la politica affronta il caso
In Machiavelli emerge lo sforzo per fronteggiare la Fortuna
di Carlo Galli

Al caso, all´accadere, è stata prevalentemente opposta la necessità; all´instabilità della contingenza la stabilità di un ordine, all´imprevedibilità la prevedibilità, alla molteplicità l´unità, al non senso il senso. È la ragione che ha avuto il ruolo principale nello sforzo di neutralizzare l´intrattabilità del caso.
Soprattutto nell´ambito politico la ricchezza dell´esperienza è stata percepita come minacciosa, come caos; e così nella potente prosa di Machiavelli è scolpito lo sforzo di fronteggiare con la Virtù – con l´operare efficace – la non umanità e la non razionalità del mondo, la Fortuna; lo sforzo di elevare argini contro quel fiume in piena che è il corso degli eventi, e la consapevolezza che prima o poi verranno travolti, nonostante l´intelligenza e il coraggio che si possano profondere (il che peraltro è raro) nell´attività politica. Ma il lucido e appassionato disincanto di Machiavelli – la sua lotta a viso aperto contro la Fortuna e contro la sua intrinseca necessità – non è il mainstream del pensiero moderno. Che si è invece adoperato – a partire da Hobbes – per eliminare, per uniformare e disciplinare, ogni evento abnorme, ogni contingenza. Se il caso è necessariamente costitutivo della natura e della natura umana, gli si deve opporre una necessità non naturale ma costruita dall´uomo: quell´artificio indispensabile che è l´ordine politico moderno, che vuol essere una sorta di compagnia assicurativa contro gli incerti della vita. Un ordine che non lascia nulla al caso, e che anzi tende a eliminarlo come anomalia, irrazionalità, mostruosità.
Nel corso della modernità l´effetto-necessità è progressivamente aumentato: il bisogno moderno di sicurezza non si concepisce come avventura della ragione, come esso stesso contingente, ma come necessario, inevitabile e garantito: ha così generato le ideologie, sistemi di pensiero – e di pratiche – che fanno della politica lo spazio di realizzazione di un ordine necessario, già scritto nella natura, nella storia, nella tradizione o, più spesso, nel progresso. E anche quando, giunta agli estremi della sua efficacia, la politica moderna riscopre la forza della contingenza, la crucialità del caso, lo pone pur sempre al servizio di un progetto d´ordine, lo iscrive dentro le logiche di una statualità lanciata oltre la propria forma razionale: Carl Schmitt, con la teoria della sovranità come decisione sul caso d´eccezione, costituisce il migliore esempio di una riscoperta del caso che al contempo ne sfigura la potenziale ricchezza.
Certo, l´età moderna ha anche conosciuto altre modalità di trattazione del caso: da quella di Spinoza – che elimina la nozione stessa di contingenza per affermare la necessità di tutte le modalità dell´essere – a quella di Nietzsche, con la sua gioiosa accettazione del destino, col suo dire Sì all´eterno ritorno, a quella di Heidegger, con la sua sottolineatura della dimensione della possibilità, della rischiosa fuoriuscita dallo spazio metafisico della "salvaguardia". Si deve inoltre aggiungere la vitalità letteraria dell´occasione, cuore della poetica di Montale, e anche l´avventura, che continua a permeare l´immaginario occidentale. Eppure, la dimensione dell´avventura fatica a farsi autonoma, e si riduce ad un´esistenza marginale, a fuga, a compensazione del meccanismo moderno della necessità.
Invece che esserne la contestazione, il caso scaturisce piuttosto dall´interno della stessa necessità, come intrinseca irrazionalità, come mostruosità, della moderna razionalità ordinativa. È la casualità dei meccanismi della politica totalitaria che travolge ogni vita come inutile e deviante; è l´incomprensibilità del mondo della tecnica e dell´economia, che da guscio protettivo della soggettività è diventato – e ne facciamo quotidianamente esperienza – un ambiente ostile e selvaggio, una giungla in cui può succedere di tutto, in cui i progetti di vita invece che essere liberamente e razionalmente perseguibili sono davvero affidati al caso (e a quel caso particolare che è la nascita in questo o quello strato sociale, in questa o quella parte del mondo). È questa vita nella casualità – a cui si aggiunge la morte nella casualità, a opera del terrorismo o di qualche bomba intelligente – l´altra faccia della moderna lotta razionale contro il caso; una casualità che si presenta come cieca necessità, come Fortuna bendata che fa vivere o fa morire individui che non hanno più alcun controllo razionale sulle proprie vite. Ma questo nuovo e paradossale connubio fra caso e necessità ha un nome ben decifrabile: ingiustizia. Il che lo mostra non necessario, e anzi contingente. E, chissà, forse anche rimovibile, in una nuova appassionata lotta contro il ripresentarsi, dopo la necessità del caso, della casualità della necessità. Una lotta in nome, questa volta, della libertà e della contingenza; un´Avventura alla ricerca non della Ragione ma delle molteplici ragioni dell´umanità.

Repubblica 16.9.10
La società dell’incertezza
di Zygmunt Bauman

Oggi, nell´epoca liquida, ci sono infinite ragioni, più che 50 anni fa, per sentirsi insicuri
La maggior parte di noi non possiede le risorse per innalzarsi al rango di individui di fatto

La modernità è arrivata come una promessa, ben determinata a sfidare e conquistare l´incertezza, a condurre contro quel mostro policefalo una guerra totale di logoramento. I filosofi dell´epoca spiegavano l´improvvisa abbondanza di crudeli e terrificanti sorprese - prodotte dalle forze sprigionate da lunghissime guerre di religione, fuori controllo e tali da sfuggire alla presa e al freno di pesi e contrappesi - con il fatto che Dio si era ritirato dalla supervisione diretta e dalla gestione quotidiana della Sua creazione, oppure con il cattivo funzionamento della creazione in quanto tale, ossia con i capricci e i ghiribizzi cui la Natura è soggetta finché, non venendo imbrigliata dall´ingegno umano, resta aliena e sorda rispetto ai bisogni e ai desideri degli uomini. Vi potevano essere differenze tra le spiegazioni preferite, tuttavia gradualmente emerse un ampio accordo relativo al fatto che l´attuale amministrazione degli affari mondani non reggeva alla prova e che il mondo aveva bisogno di essere urgentemente sottoposto a una nuova gestione (umana, questa volta) indirizzata a chiudere i conti una volta per tutte con i più terribili demoni dell´incertezza: la contingenza, la casualità, la mancanza di chiarezza, l´ambivalenza, l´indeterminazione e l´imprevedibilità. (...)
Quando tale compito sarebbe stato portato a compimento, gli esseri umani non sarebbero più stati dipendenti dai "colpi di fortuna". La felicità umana non sarebbe più stata un dono del fato, ben gradito, ma non richiesto, bensì il regolare prodotto di una programmazione fondata sulla conoscenza scientifica e sulle sue applicazioni tecnologiche.
In realtà la gestione umana non è stata in grado di corrispondere alle aspettative popolari, alimentate dalle assicurazioni generosamente concesse dai suoi dotti progettisti e dai suoi poeti di Corte. È vero che molti dispositivi ricevuti in eredità e accusati di saturare d´incertezza la ricerca umana erano stati smantellati e gettati via, ma il volume d´incertezza prodotto dai modelli che li avevano sostituiti non era inferiore al precedente. (...)
Per i primi cento o duecento anni della guerra contro l´incertezza si è minimizzato il fatto che non si fosse registrata una convincente vittoria. I sospetti che l´incertezza potesse essere una compagna permanente e inseparabile dell´esistenza umana tendevano a venire negati come essenzialmente sbagliati, o quanto come non sufficientemente dimostrati, dunque prematuri: nonostante le crescenti prove in contrario, era ancora possibile pronosticare che, dopo aver corretto questo o quell´errore e dopo aver superato o aggirato questo o quel rimanente ostacolo, si sarebbe potuta conseguire la certezza. (...)
Durante gli ultimi cinquant´anni, tuttavia, si è fatto largo un drastico cambiamento nella nostra visione del mondo, che ne condiziona adesso parti ancor più fondamentali rispetto alla concezione che avevano i nostri antenati riguardo al ruolo della contingenza negli itinerari congiunti della storia umana e della vita degli individui, e alle loro idee di come si poteva mitigarne l´impatto grazie al progresso della conoscenza e della tecnologia. Nelle nuove narrazioni delle origini e dello sviluppo dell´universo, della formazione del nostro pianeta, delle origini e dell´evoluzione della vita sulla Terra, così come nelle descrizioni della struttura e del movimento delle unità elementari di materia, gli eventi casuali – cioè eventi essenzialmente imprevedibili, indeterminati o del tutto contingenti – sono stati promossi e innalzati dal grado di marginali "fenomeni di disturbo" a quello di attributi primari della realtà e sua principale spiegazione.
La moderna idea di ingegneria sociale fondava la sua affidabilità sull´assunzione di ferree leggi che governavano la Natura e avrebbero reso l´esistenza umana ordinata e pienamente regolata, una volta spazzate via le contingenze responsabili delle turbolenze. Negli ultimi cinquant´anni, però, si è arrivati a mettere in questione e sempre più a dubitare dell´esistenza stessa di tali "ferree leggi" e della possibilità di concepire ininterrotte catene di causa-effetto. Oggi ci stiamo rendendo conto che contingenza, casualità, ambiguità e irregolarità sono caratteristiche inalienabili di tutto ciò che esiste, e pertanto sono irremovibili anche dalla vita sociale e individuale degli esseri umani. (…)
Detto questo, si noti che nella nostra epoca liquido-moderna ci sono infinite ragioni, più che cinquant´anni fa, per sentirsi incerti e insicuri. Dico "sentirsi", perché il volume delle incertezze non è aumentato: lo hanno fatto invece volume e intensità delle nostre preoccupazioni e ansie, e ciò è accaduto perché le lacune tra i nostri mezzi per agire efficacemente e la grandiosità dei compiti che ci troviamo di fronte e siamo obbligati a gestire sono divenute più evidenti, più ovvie e in verità più minacciose e spaventose rispetto a quelle di cui hanno fatto esperienza i nostri padri e i nostri nonni. A farci sentire un´incertezza più orrenda e devastante che in passato sono la novità nella percezione della nostra impotenza e i nuovi sospetti che essa sia incurabile. (…)
Man mano che il potere di agire in modo efficace gli è scivolato via dalle dita, gli Stati, indeboliti, sono stati costretti ad arrendersi alle pressioni dei poteri globali e ad "appaltare" alla cura e alla responsabilità degli individui un numero crescente di funzioni in precedenza da loro erogate. Come ha mostrato Ulrich Beck, oggi ci si aspetta che siano donne e uomini singolarmente a cercare e trovare risposte individuali a problemi creati socialmente, ad agire su di essi utilizzando le loro risorse individuali e ad assumersi la responsabilità delle loro scelte, nonché del successo o insuccesso delle loro azioni. In altri termini, oggi siamo tutti "individui per decreto", cui si ordina, presupponendo che ne siamo capaci, di progettare le nostre vite e di mobilitare tutto ciò che serve per perseguire e realizzare i nostri obiettivi di vita. Per la maggior parte di noi, tuttavia, questa apparente "acquisizione di capacità" è in tutto o quanto meno in parte una finzione. La maggior parte di noi non possiede le risorse necessarie per innalzarsi dalla condizione di "individui per decreto" al rango di "individui di fatto". Ci mancano la conoscenza necessaria e la potenza richiesta. La nostra ignoranza e la nostra impotenza nel trovare e attuare soluzioni individuali a problemi socialmente prodotti hanno come esito perdita di autostima, vergogna per essere inadeguati di fronte al compito e umiliazione. Tutto ciò concorre all´esperienza di un continuo e incurabile stato di incertezza, cioè l´incapacità di assumere il controllo della propria vita, venendo così condannati a una condizione non diversa da quella del plancton, battuto da onde di origine, ritmo, direzione e intensità sconosciuti.
Traduzione di Daniele Francesconi

Corriere della Sera 16.9.10
L’analisi del cervello entra nel diritto
A convegno sul rapporto fra biologia e comportamento
di Luigi Ferrarella

Finirà che i condannati a morte americani guarderanno a Milano-Pavia come alla loro Mecca? Forse. Il Tribunale di Milano e il «Centro europeo per il diritto, la scienza e le nuove tecnologie» dell’Università di Pavia assumono domani, con il convegno «Le neuroscienze nella pratica giuridica europea e nordamericana» (nel Palazzo di giustizia milanese dalle 9 alle 17.30), il coordinamento internazionale degli studi che scienziati e giuristi soprattutto di Stati Uniti, Gran Bretagna, Germania, Olanda e Belgio stanno conducendo sulle ricadute giuridiche delle nuove tecniche di analisi del cervello volte a definire le basi neurologiche delle attività e degli stati mentali.
Con la promessa di riuscire a correlare sostrato biologico e attività mentale, le neuroscienze applicate al diritto si candidano a stabilire un nesso anatomico (solo in termini di «predisposizione» a determinati comportamenti in presenza di specifiche condizioni ambientali) tra l’attivazione di una determinata area cerebrale e una certa elaborazione mentale giuridicamente rilevante.
Ancora fantascienza? Non proprio: a Udine due anni fa un condannato per omicidio si è visto ridurre in Appello la pena di un anno perché un’indagine genetica, proposta dai consulenti di parte, ha riscontrato alcuni polimorfismi genetici idonei a rendere l’imputato più incline a manifestare aggressività se provocato o socialmente isolato. E negli Usa, in Illinois, un processo per un omicidio del 1983 è stato deciso con una condanna a morte anche sulla base di una tecnica che ha misurato l’afflusso di sangue al cervello, misurazione peraltro contestata perché tarata qui e ora ma su un fatto di 27 anni fa.
Di questi due casi discuteranno già questa sera alle 21, in un divulgativo «Caffè scientifico dell’Ateneo» a Pavia nel Cortile dei Tassi, alcuni dei relatori del convegno milanese del giorno dopo, quali gli americani Nita Farahany (consulente di Obama) e Kent Kiehl, il giudice di Corte d’Appello milanese Amedeo Santosuosso, il professor Gilberto Corbellini, la studiosa pavese Barbara Bottalico.

mercoledì 15 settembre 2010

l’Unità 15.9.10
Italia-razzismo
«Emergenze», creativi e intellettuali per un futuro di emancipazione
di Pino Di Maula

Molta attesa per l’iniziativa che un gruppo di creativi e intellettuali ha intitolato “Emergenza di identità, migranti, donne e artisti”. Si tratta di un vero e proprio esperimento culturale che si terrà, a Roma, grazie all’interesse dell’XI Municipio nell’Istituto Superiore Antincendi in via del Commercio. Non poteva esserci luogo più congeniale al calore che potrebbero produrre molte delle proposizioni teoriche previste per fondere le scienze economiche e politiche con la ricerca sulla realtà umana. È l’unica via, ragionevolmente irrazionale, per cogliere la sfida sull’emancipazione di migranti e donne. La partecipazione diventa così anch’essa un’arte per dare al futuro un volto finalmente umano. La chiamano “Emergenze” evocando il tema della sicurezza, sapendo che, in verità, ciò che emerge vale più di una rivoluzione, se sa tirar via la cultura dominante dalle sabbie mobili del ’68 e dai limiti teorici del marxismo per elaborare un pensiero nuovo su immagine e identità, massa e classe, libertà e identità, uomo e donna. E chissà cos’altro. In fondo si tratta, appunto, di un esperimento. Che vale la pena ripetere, almeno una volta l’anno. La prima edizione inizia venerdì 17 e termina sabato 25 settembre. L’approccio adottato punta all’interrelazione fra una pluralità di linguaggi e di discipline sia scientifiche che artistiche. In pratica “Emergenze di identità” si articola in una giornata di ricerca, un incontro fra registi, una mostra d’arte e una rassegna di spettacoli. Tra i tanti ospiti attesi: Federico Masini, Giuseppe Vitaletti, Ernesto Longobardi, Luigi Manconi, Guido Melis, Francesco Dall’Olio, Ernesto Maria Ruffini, Annelore Homberg, Shukri Said e Jean Leonard Touadì.

ADNKRONOS 12.9.10
MOSTRE: MIGRANTI E DONNE, 'EMERGENZE D'IDENTITA'' DAL 17 SETTEMBRE = A ROMA, ALL'ISA, VIA DEL COMMERCIO 13
Roma, 12 set. (Adnkronos) - Donne e migranti, uniti dalla necessita' di muoversi. Per emanciparsi e soddisfare una emergenza di identita'. Saranno al centro di un evento culturale ideato e realizzato dall'associazione ComunicAzioni, che unisce arte, letture e performance, in programma a Roma, all'Istituto Superiore Antincendi di via del commercio 13, dal 17 al 25 settembre.
L'approccio adottato punta all'interrelazione fra una pluralita' di linguaggi e di discipline sia scientifiche che artistiche. Secondo gli organizzatori, e' questa l'unica via, ragionevolmente irrazionale, per cogliere la sfida sull'emancipazione di migranti e donne. In pratica, ''Emergenze di identita''' si articola in una giornata di ricerca, un incontro fra registi, una mostra d'arte e una rassegna di spettacoli.
L'obiettivo e' particolarmente ambizioso: si parla di ''Emergenze'' evocando il tema della sicurezza, sapendo che, in verita', cio' che emerge vale piu' di una rivoluzione, se sa tirar via la cultura dominante dalle sabbie mobili del '68 e dai limiti teorici del marxismo per elaborare un pensiero nuovo su immagine e identita', massa e classe, liberta' e identita', uomo e donna. Tra i tanti ospiti attesi: Federico Masini, Giuseppe Vitaletti, Ernesto Longobardi, Luigi Manconi, Francesco Dall'Olio, Ernesto Ruffini, Annelore Homberg, Shukri Said, Guido Melis e Jean Touadi.
(Inf/Ct/Adnkronos) 12-SET-10 12:33

ASCA 13.9.10
SOCIETA': MOSTRA A ROMA SU MIGRANTI E DONNE EMERGENZE DI IDENTITA'


(ASCA) - ROMA, 13 SET - DONNE E MIGRANTI, UNITI DALLA NECESSITA' DI MUOVERSI. PER EMANCIPARSI E SODDISFARE UNA EMERGENZA DI IDENTITA': SARANNO AL CENTRO DI UN EVENTO CULTURALE IDEATO E REALIZZATO DALL'ASSOCIAZIONE COMUNICAZIONI, CHE UNISCE ARTE, LETTURE E PERFORMANCE, IN PROGRAMMA A ROMA, ALL'ISTITUTO SUPERIORE ANTINCENDI DI VIA DEL COMMERCIO 13, DAL 17 AL 25 SETTEMBRE. L'APPROCCIO ADOTTATO PUNTA ALL'INTERRELAZIONE FRA UNA PLURALITA' DI LINGUAGGI E DI DISCIPLINE SIA SCIENTIFICHE CHE ARTISTICHE. SECONDO GLI ORGANIZZATORI, E' QUESTA L'UNICA VIA, RAGIONEVOLMENTE IRRAZIONALE, PER COGLIERE LA SFIDA SULL'EMANCIPAZIONE DI MIGRANTI E DONNE. IN PRATICA, "EMERGENZE DI IDENTITA" SI ARTICOLA IN UNA GIORNATA DI RICERCA, UN INCONTRO FRA REGISTI, UNA MOSTRA D'ARTE E UNA RASSEGNA DI SPETTACOLI. L'OBIETTIVO E' PARTICOLARMENTE AMBIZIOSO: SI PARLA DI "EMERGENZE" EVOCANDO IL TEMA DELLA SICUREZZA, SAPENDO CHE, IN VERITA', CIO' CHE EMERGE VALE PIU' DI UNA RIVOLUZIONE, SE SA TIRAR VIA LA CULTURA DOMINANTE DALLE SABBIE MOBILI DEL '68 E DAI LIMITI TEORICI DEL MARXISMO PER ELABORARE UN PENSIERO NUOVO SU IMMAGINE E IDENTITA', MASSA E CLASSE, LIBERTA' E IDENTITA', UOMO E DONNA. TRA I TANTI OSPITI ATTESI: FEDERICO MASINI, GIUSEPPE VITALETTI, ERNESTO LONGOBARDI, LUIGI MANCONI, FRANCESCO DALL'OLIO, ERNESTO RUFFINI, ANNELORE HOMBERG, SHUKRI SAID, GUIDO MELIS E JEAN TOUADI. GAR/MIN/ROB 131228 SET 10

l’Unità 15.9.10
Il segretario chiede al Pd di concentrarsi sui problemi del Paese. «Primarie? Se serve mi candiderò»
Coordinamento fiume. I veltroniani preparano un «documento aperto». Franceschini:«Surreale»
Bersani: la linea è decisa non facciamo regali al premier
di S.C.

Più critiche che consensi all’iniziativa di Veltroni e Fioroni. Marini: «Non è un atto di responsabilità, le nostre divisioni sono un balsamo per Berlusconi». Il veltroniano Verini: «Il miglior regalo al premier è un Pd al 26%».

«Non facciamo regali a Berlusconi», dice Pier Luigi Bersani la mattina incontrando i senatori a Palazzo Madama. «Noi non siamo un partito del predellino, abbiamo una maggioranza e una minoranza, che si sta riorganizzando, ma la maggioranza congressuale ha impostato una linea e su questa si andrà avanti», dice la sera dagli studi del Tg1, rispondendo tra l’altro così alla domanda se si presenterà alle primarie del centrosinistra: «Se servirò, mi candiderò». Poi il leader del Pd si infila nella riunione notturna del coordinamento per discutere con Walter Veltroni, Beppe Fioroni e gli altri che stanno scrivendo un documento per chiedere un cambio di linea, invocando il rilancio dello spirito del Lingotto, l’idea di un partito a vocazione maggioritaria e primarie aperte. Ma a quel punto, quando attorno al tavolo si siedono Bersani, Letta, Bindi, D’Alema, Veltroni, Marini, e tutti gli altri big del Pd, la risposta ai malumori veltroniani è già stata data, da più parti.
«Loro sono in crisi, dimostrano ogni giorno di più di non farcela e noi non possiamo ora tirare la palla da questa parte», è l’esortazione di Bersani. «Concentriamoci sui contenuti, pensiamo ai problemi del paese, coniughiamo cambiamento e rassicurazione, questo è il modo migliore per dimostrare il nostro profilo riformista». Una risposta che lascia insoddisfatto Veltroni. Anche perché, come dice il suo braccio destro Walter Verini in risposta a Bersani, «il miglior regalo che possiamo fare a Berlusconi è un Pd al 26% impegnato più a discutere di molteplici e talvolta contraddittorie tattiche che delle grandi sfide di innovazione riformista di cui l’Italia ha bisogno». L’ex segretario non intende però presentare il documento alla Direzione del 23, né andare alla conta. Spiega Stefano Ceccanti: «È un documento aperto, lo potranno sottoscrivere cittadini, società civile». Non soltanto parlamentari o dirigenti del Pd, dunque. E al momento è poco chiaro quanti deputati e senatori potrebbero firmarlo. Fioroni assicura che saranno «tanti»: «Sarà condiviso da quasi tutta la ex-Margherita. Ci sono Gentiloni, Realacci e buona parte degli ex-popolari».
INCOGNITA FIRME
Materialmente, lo stanno scrivendo i senatori Giorgio Tonini e Mauro Ceruti. Mentre quelli che hanno fatto un primo possibile calcolo delle firme parlano di una settantina di sottoscrizioni. Ma lo stesso ex-popolare Luigi Meduri si mostra scettico sui pronostici di Fioroni: «Bindiani, lettiani, franceschiniani, nessuno di questi lo firmerà». La presidente del Pd Rosy Bindi lo dice chiaramente: «Il congresso è finito da un pezzo e c’è chi l’ha vinto su una chiara linea politica. Il profilo riformista del Pd non è a rischio». Così come Franco Marini, molto duro nei confronti di Veltroni: «Le nostre divisioni sono un balsamo per Berlusconi. Un documento che mi risulta inesistente non è un atto di responsabilità».
Quanto a Franceschini, parlando con i suoi ha definito uno «spettacolo surreale» la situazione: «Mentre la destra si frantuma e la democrazia corre seri pericoli, nel Pd anziché costruire l’unità ricominciano i litigi e i documenti per dividersi». E anche gli esponenti di Area democratica che fanno riferimento a Piero Fassino hanno fatto capire che non seguiranno Veltroni. Né gli farà da sponda la minoranza guidata da Ignazio Marino, che definisce «non utili i documenti»: «Lasciamoli stare, siamo un partito che deve parlare con una voce sola e ha l’ambizione di governo, non un centro culturale o un club amatoriale».

Repubblica 15.9.10
Pd, Bersani sfida la minoranza e Vendola "Pronto a correre per Palazzo Chigi"
Tensione per l´offensiva dei veltroniani. Assemblea nazionale l’8 a Varese
Il leader risponde all'ex segretario: "Non facciamo regali adesso a Berlusconi"
di Goffredo De Marchis

ROMA - Sono ufficialmente due i candidati alle primarie del centrosinistra. Sempre che siano vicine. Nichi Vendola ha impugnato da tempo la bandiera della consultazione nei gazebo. Ieri ha rotto gli indugi anche Pier Luigi Bersani. Nello studio del Tg1 delle 20 ha risposto così alla domanda sulla sua corsa: «Se servirò mi candiderò». Decisione annunciata, ma non ancora resa esplicita in questo modo. Bersani adesso è alle prese con alcune critiche interne e la scelta di rendere pubblica la sua intenzione di puntare a Palazzo Chigi serve anche per mettere un punto fermo. La candidatura significa che con ancora più forza il Pd dovrà seguire la linea del segretario. «Noi non siamo un partito del predellino come il Pdl. Siamo un partito europeo che ha una maggioranza e una minoranza. La maggioranza congressuale si è pronunciata, ha proposto una linea e su questa si andrà avanti».
Il messaggio è rivolto a Walter Veltroni, che da giorni ha messo nel mirino il leader colpevole, secondo lui, di aver smarrito lo spirito originario del partito, di tenerlo intorno alle preoccupanti percentuali dei sondaggi (il 26,5, ma secondo dati riservati ancora più in difficoltà), di perdersi nella politica delle alleanze. Veltroni sta lavorando a un documento insieme con Beppe Fioroni che riprende tutti questi temi. Ci lavorano Giorgio Tonini e il cattolico Mauro Ceruti Già oggi dovrebbe cominciare la raccolta delle firme a sostegno tra i parlamentari. L´obiettivo sono 70 adesioni. Questo passaggio segna la costituzione di una nuova minoranza interna che bypassi l´area di Dario Franceschini. Ma la reazione di molti è negativa. Bersani ne parla indirettamente: «Non possiamo dividerci adesso. Non possiamo fare regali a Berlusconi». Durissima la reazione di Franceschini: «È uno spettacolo surreale - ha detto ieri ai suoi collaboratori -. Mentre la destra si frantuma e la democrazia italiana corre seri pericoli nel Pd, anziché costruire l´unità, ricominciano i litigi e i documenti per dividersi». E la riunione notturna del caminetto democratico, con tutti i big schierati, vede schierata una batteria contro il documento. «Non siamo un centro culturale. In un grande partito si discute ma non si presentano testi. Si esce con una linea e una voce sola», dice Ignazio Marino. Il quasi omonimo Franco Marini bacchetta i promotori del "manifesto": «Sono degli irresponsabili. Annunciano un documento che neanche esiste e sbagliano anche nel metodo. Questo è il momento dell´unità e se si vuole discutere c´è la direzione tra pochi giorni». D´Alema si limita a poche parole: «In questo momento dovremmo pensare a vincere le elezioni».
Ma i promotori del documento non si fermano. Fioroni spiega che «il nostro contributo non serve a schierarsi contro qualcuno ma a ribadire le ragioni fondative del Pd». Non sarà limitato all´area dei veltroniani e degli ex ppi. «Lo firmeranno Gentiloni, Realacci e tanti altri», assicura Fioroni. I dirigenti della maggioranza però non ci stanno. «Il congresso è finito da un pezzo e nessuno può riaprirlo», avverte la presidente Rosy Bindi. È anche questa la posizione di Franceschini, sfidante di Bersani alle primarie. «C´è stato un vincitore e uno sconfitto. Anche la minoranza ha il dovere di dissentire ma non di mettersi di traverso». E ieri sera, al "caminetto", ha sostanzialmente condiviso la strategia del Nuovo Ulivo rilanciata dal segretario. Ma i veltroniani respingono le accuse. «Il miglior regalo a Berlusconi è un partito al 26 per cento», osserva Walter Verini. E Sergio Chiamparino invoca una discussione: «Senza rotture ma dobbiamo definire la linea e il rapporto con il terzo polo». Intanto, per incalzare la Lega, Bersani convoca a Varese (8-9 ottobre) l´assemblea nazionale.

l’Unità 15.9.10
La favola delle cellule etiche
Le staminali e l’arte di negare i fatti
di Sergio Bartolommei
Università di Pisa, membro della Consulta di Bioetica

Il premio Balzan di quest’anno va a Yamanaka, lo scienziato giapponese che ha inaugurato una nuova tecnica per la riprogrammazione delle cellule adulte che vengono ricondotte a uno stadio simile a quello delle staminali embrionali. Secondo alcuni osservatori cattolici questa e solo questa sarebbe “vera” scienza e le cellule così ottenute le uniche e autentiche “cellule etiche”. Il cerchio verrebbe chiuso: gli embrioni, nuove incarnazioni del Sacro, sarebbero salvi, e la ricerca pure.
Sembravano lontani i tempi in cui, in Unione Sovietica, si discriminava con Lysenko tra vera e falsa scienza mettendo al bando la genetica e le sue teorie e suddividendo in buoni e cattivi gli scienziati in base alla tecnica da questi utilizzata per raggiungere certi risultati. Nonostante i disastri allora prodotti dalle pretese del controllo ideologico della scienza, la lezione non sembra essere servita a certi cattolici nostrani. Essi plaudono alla necessità di dettare norme morali per la ricerca sulle cellule staminali riducendo il numero delle opzioni disponibili solo a quella (le staminali “adulte”) che all’etica cattolica non certo alla comunità scientifica internazionale, peraltro raffigurata come esposta alle sirene del nihilismo etico appare la sola “promettente”.
Si dice: la vita dei vegetali su cui pontificavano i “materialisti dialettici” non aveva certo l’importanza che ha la vita degli embrioni umani. Il seme di una pannocchia non è “uno di noi”, un embrione sì. In verità, che l’embrione sia persona, una realtà spirituale, è solo il prodotto di una convinzione morale o di una credenza ideologica. Nessuna analisi di laboratorio potrà mai certificare il carattere di “persona” neppure di “persona in miniatura” di una blastocisti di quattro giorni e poche cellule. Chi fa uso della parola “embrione” per evocare una realtà “più che” biologica sta usando questo termine, non nel significato scientifico di “prima tappa dello sviluppo umano”, ma nel significato retorico che suscita pietà e commozione in chi legge o ascolta. Non c’è poi da meravigliarsi, dato l’uso disinvolto del linguaggio, che nel definire “etiche” le cellule ottenute dalla riprogrammazione delle adulte si trascuri di dire che lo stesso Yamanaka ha dovuto modificare geneticamente le adulte (“contaminando” così la purezza dell’ “Umano”), mettere a confronto queste con quelle embrionali e utilizzare le conoscenze di base conseguite con queste ultime per portare avanti la ricerca sulle prime. Che di ciò si taccia è una prova ulteriore del fatto che in Italia ideologia e teologia fanno aggio sulla scienza, imponendo autoritariamente proprio come Lysenko cosa cercare e come.
L’autore è membro della Consulta di Bioetica

l’Unità 15.9.10
Ribellarsi è giusto: la battaglia degli «schiavi» di Rosarno
di Paolo Calcagno

Milano Film Fest «Sangue verde» di Andrea Segre protagonista dell’«Immigration Day»
Il regista «Non siamo capaci di gestire l’immigrazione, si risponde col silenzio o con le armi»

Dopo il premio a Venezia, Milano: «Sangue verde» di Andrea Segre è stato ieri al centro dell’« Immigration Day» del Milano Film Festival. Il documentario racconta la rivolta degli immigrati di Rosarno.

In Italia, nel 2009, sono stati oltre 55mila i lavoratori stranieri (per la maggior parte africani), con permesso e senza, a essere sfruttati nella raccolta dei campi. A ricordarcelo è Sangue Verde, il documentario intenso di Andrea Segre, 34 anni, proiettato ieri al 15mo Milano Film Festival e in onda stasera su Raitre, intorno alle 23, per la serie «Doc 3»”.
Sangue Verde ricorda con immagini di repertorio i fatti di Rosarno, quando nel gennaio di quest’anno gli «schiavi» extracomunitari si sono ribellati alle angherie dei proprietari terrieri e alle imposizioni della ‘ndrangheta, stanchi di vivere in capannoni abbandonati, di dormire su giacigli improvvisati, di patire il freddo e perfino di vedersi negare, talvolta, i pochi soldi di compenso per il loro massacrante lavoro nella raccolta delle arance. Come si ricorderà, gli scontri di Rosarno condussero agli arresti di 30 «caporali» del posto e all’esodo forzato dei braccianti africani, minacciati di espulsione dal ministro degli Interni Maroni che li fece trasferire a Crotone e a Bari.
«Poi, a telecamere spente, quella gente fu abbandonata e molti ritornarono a lavorare nei campiracconta Segre -. Purtroppo, nel nostro Paese manca una politica capace di gestire questo fenomeno, giacché lo Stato, anziché fissare delle regole per l’utilizzo dei lavoratori stranieri dei campi e per la loro integrazione nel tessuto sociale, risponde con il silenzio o con la polizia. Noi ci accorgiamo della loro esistenza soltanto quando gli “schiavi” si ribellano alle continue vessazioni, non esclusa “la caccia all’uomo”, e decidono di scendere in strada a spaccare tutto».
Dopo aver vinto il premio «Cinema Doc» per il miglior documentario nella sezione Giornate degli Autori della recente Mostra di Venezia, Sangue Verde, ieri, è stato al centro dell’«Immigration Day» della rassegna cinematografica milanese che per il terzo anno esplora e analizza il mondo dell’immigrazione, con particolare riflessione al versante dell’integrazione socio-culturale.
Segre, che da anni si dedica alle storie migratorie, in Italia e all’estero (A Sud di Lampedusa, girato nel deserto del Teneré, tra Niger e Libia, è stato fra i suoi documentari più apprezzati; e in novembre girerà il primo ciak del suo film dedicato alla storia autentica de La Cinese, una giovane che si ritrova a lavorare in un’osteria della laguna veneta), ha approfondito i moti di Rosarno realizzando un mosaico di testimonianze, fra le quali quelle di 7 africani di 5 Paesi diversi.
«Sono braccianti che hanno lavorato nei campi del Sud: vengono dalla Costa d’Avorio, Ghana, Senegal, Burkina Faso, Congo spiega Andrea Segre -. Tutti hanno raccolto le arance in Calabria e tutti hanno subito intimidazioni da parte di piccoli gruppi, riconducibili alla mafia calabrese».
Fra i testimoni vi è anche un italiano, Giuseppe Lavorato, ex deputato ed ex sindaco pds di Rosarno dal ’96 al 2002.
«Lavorato, in qualche modo, costituisce la memoria storica dell’entità contadina di Rosarno e delle lotte per la terra dei braccianti calabresi, negli anni Cinquanta precisa Segre -. Si configura, così, una situazione parallela fra i braccianti africani di oggi e quelli italiani di ieri. Purtroppo, però, quei braccianti di ieri, oggi, sono diventati piccoli proprietari e anziché solidarizzare con chi viene sfruttato, come capitò a loro, spesso hanno persino preso parte alle spedizioni di “caccia all’uomo”, organizzate dalla ‘ndrangheta contro gli “schiavi” ribelli. Per fortuna, però, non tutti sono diventati razzisti e qualcuno è solidale con quei ragazzi neri che si sono rimboccate le maniche e sono scesi in piazza, come un tempo avevano fatto i braccianti italiani».

Corriere della Sera 15.9.10
Giorello, lezioni di ateismo liberale per chi rifiuta una fede intollerante
di Armando Torno

Lo scopo: «Liberare Dio da quelli che ne parlano troppo. E a vanvera»

Domani uscirà il saggio di Giulio Giorello, epistemologo ed erede di Ludovico Geymonat all’Università di Milano, Senza Dio. Del buon uso dell’ateismo. Noto per le sue tendenze laiche e, tra l’altro, per aver partecipato alla Cattedra dei non credenti istituita a suo tempo dal cardinale Carlo Maria Martini, non ha scritto un libro — se ne contano dozzine — che cerca di demolire con ogni mezzo l’idea di Dio, ma si ricorda come essa sia viva nell’uomo da quando è apparso sulla terra. Non fa dell’ateismo basso o volgare, di quel genere che crede di liberarsi dal problema con formule o battute, cerca piuttosto — di autore in autore — una via. Nelle sue pagine vi sono figure di atei convinti quali Sade o Feuerbach, non disdegna però di mettere in gioco le proprie convinzioni con Pascal o Kierkegaard. Il filosofo a cui guarda con più simpatia è Spinoza, che non si può certo definire ateo. Questo lo pensavano Bayle — che comunque credeva alla possibilità di una società di atei diversamente da un Voltaire che riteneva necessario il vincolo religioso — e pochi altri.
L’ateismo di Giorello si basa su una scelta di vita: egli rappresenta l’uomo che non sopporta alcuna autorità sopra di sé. Accetta Dio come amico, non come padrone. Il suo è ateismo pratico. Non nasce da deduzioni epistemologiche ma da quelle — il termine è inattuale, in tal caso però vale la pena spenderlo — esistenziali. Nel quarto capitolo lo chiama «ateismo metodologico», perché prova una forte indifferenza verso ogni assoluto (in tal caso riprende uno spunto di Jean Petitot). Si direbbe anzi che il fine a cui tende quest’opera non sia quello di liberarci da Dio, ma di liberare Dio da quelli che parlano troppo sovente a vanvera nel suo nome e, in tale veste, fanno la loro parte per dar forza agli argomenti dell’ateismo volgare. Inoltre vengono denunciate tutte le «chiacchiere» sulla religione civile, ultimo esercizio da salotto televisivo. È altresì vero che Giorello prova una discreta dose di nervosismo anche nel sentir nominare la religione della libertà (con il dovuto rispetto a Croce).
Insomma, il libro è rivolto a un mondo senza imposizioni. In esso l’ateo può essere compagno di strada del credente e diventa un fatto naturale chiedersi come si possa vivere, agire, lottare, morire quando si conta solo su se stessi. È la sfida per un nuovo Illuminismo, nel quale si avverte il bisogno d’amore a cui un tempo si dava il nome di Dio. Da «ateo protestante» (così si è dichiarato l’autore), Giorello non cerca di dimostrare l’assenza dell’Essere Assoluto, ma di definire l’orizzonte di un’esistenza senza di esso, rifiutando rassegnazioni e reverenze, ritrovando i piaceri della sperimentazione nella scienza e nell’arte, riscoprendo infine la libertà, soprattutto quando essa appare eccessiva alle burocrazie di qualsiasi «chiesa». Morale: Giorello spinge il lettore verso un ateismo non dogmatico, utilizzabile anche da un credente stanco dei vari fondamentalismi, gli stessi che alla Grazia del Signore hanno sostituito la repressione e l’intolleranza. Una sua battuta? «Non credo molto a slogan tipo Comunione e liberazione; se proprio devo sceglierne uno, preferisco Libertà e individualismo».

Corriere della Sera 15.9.10
Il giallo di Edoardo Agnelli
Un’inchiesta tv riapre il caso

Programma di Minoli a 10 anni dalla scomparsa

MILANO — Un «insofferente che soffriva», uno che «non vedeva possibilità a una vita felice» (Lapo Elkann, nipote). Un «adolescente perenne», un «Pollicino che si doveva confrontare con la grande storia di una grande famiglia» (Vittorino Andreoli, psichiatra). Uno che «si ribellava verso le cose costituite» (Lupo Rattazzi, cugino).
Edoardo Agnelli, figlio di Gianni e Marella Caracciolo, era di tutto questo un po’. Classe 1954. Un uomo stretto fra solitudine e filosofia, affascinato dalle religioni, deluso dalla vita. La mattina del 15 novembre 2000 si alzò di buon’ora nella sua villa, collina torinese. Infilò la giacca sul pigiama e «scappò» dalla scorta, si mise alla guida della sua Croma, imboccò la Torino-Savona e tirò dritto fino al chilometro 44,800. In quel punto — territorio di Fossano — c’è un viadotto alto 73 metri. Ed è fra i ciottoli e le erbacce ai piedi dei suoi pilastri che il corpo di Edoardo viene trovato, quella stessa mattina, dal pastore Luigi Asteggiano.
Sono passati dieci anni ma è come se il tempo si fosse fermato. Le domande restano le stesse. È stato un suicidio? E come mai nessuno lo ha visto quando ha accostato, è sceso, ha scavalcato il guardrail e si è buttato? Perché non è stata fatta l’autopsia? E se invece fosse stato un omicidio? Seguendo quest’ipotesi si finisce negli orari che non tornano: per esempio il pastore che dichiara di averlo trovato fra le otto e le otto e mezzo mentre il telepass dell’autostrada segna il passaggio della Croma alle 8.59. Poi c’è la scorta che non lo segue: come mai?
La lista delle domande senza risposta è ben più lunga. Le ha messe tutte in fila Giovanni Minoli con la sua La storia siamo noi. La puntata di giovedì 23 settembre si intitolerà L’ultimo volo ( Raidue, ore 23.30) e sarà dedicata al giallo di Edoardo Agnelli, alla sua vita bruciata e a quel che resta del suo ricordo. Sette, il magazine del Corriere della Sera in edicola domani, anticipa l’inchiesta tivù con un lungo servizio (Decennale di un suicidio presunto).

il Fatto 15.9.10
Oh, mio Dio!
Il Papa in Gran Bretagna ma in Europa i cattolici sono sempre più in crisi. L’immigrazione salverà la Chiesa?
di John Hooper, Riazat Butt, Rory Carroll e Xan Rice

Dorcas Gichane percorre a passo svelto per le strade del centro di Nairobi intorno a mezzogiorno, ora di punta per il traffico. Come centinaia di altri fedeli kenioti, approfitta della sua pausa pranzo per raggiungere la basilica cattolica della Sacra Famiglia. Alcuni fedeli attendevano l’inizio della messa curiosando in libreria. Altri recitavano una breve preghiera nella “sala dell’adorazione” dove era appeso un poster che ritraeva Gesù e i suoi discepoli, tutti neri. Dopo aver inviato un breve sms ad un’amica, Gichane, broker di assicurazioni elegante e dall’aspetto molto curato, svanisce nella cattedrale di cemento elevata al rango di basilica nel 1982. Dalle colonne pendono alcuni televisori a schermo piatto. Appoggiati alle pareti diversi tamburi. Gichane è cattolica come il 25% della popolazione del Kenya. Ogni giorno va a messa e la domenica mattina può scegliere tra una delle cinque chiese dove la messa viene celebrata in inglese o in Kiswahili.
Il bisogno di fede resta forte nel mondo
“MOLTI KENIOTI hanno frequentato scuole cattoliche ed è lì che inizia il nostro percorso nella fede”, dice. “Inoltre molti ospedali sono finanziati dalla Chiesa”. L’arcivescovo di Nairobi, il cardinale John Njue, offre una spiegazione più spirituale: “John S. Mbiti, uno studioso nato in Kenya, ha detto che gli africani sono notoriamente religiosi. E questo è vero. Non è una cosa imposta dall’esterno. La fede è un dato naturale. I missionari non ci hanno portato Dio, ma un diverso rapporto con Dio”. In Africa l’idea di cattolicesimo prevalente in Europa occidentale – vale a dire l’idea di una religione reazionaria e in declino – appare incomprensibile. “La chiesa è aperta”, protesta Gichane. In Nigeria l’arcivescovo Matthew Ndagosa di Kaduna osserva un orizzonte che farebbe morire di invidia i prelati occidentali. “Le chiese sono piene. I giovani vanno in chiesa”. L’esperienza africana mette in luce alcuni aspetti che corrono il rischio di essere ignorati nella polemica sulla visita di Papa Benedetto XVI nella sempre più laica Gran Bretagna. Uno di questi aspetti è che, mentre i cittadini dell’Europa occidentale abbandonano la religione, questo non avviene nel resto del mondo. Non possiamo affermare che i musulmani si stiano allontanando da Allah. Gli Stati Uniti restano un Paese profondamente religioso. Nei Paesi ex comunisti dell’est europeo milioni di persone hanno riabbracciato la religione ortodossa. E in molte parti dell’Asia, il ceto medio emergente trova proprio nella religione il contrappeso spirituale del benessere materiale appena conquistato.
Meno sacerdoti nel Vecchio Continente
SECONDO il World Christian Database la percentuale della popolazione mondiale che professa una delle quattro principali fedi (cristianesimo, Islam, induismo e buddismo) ha subito un notevole incremento negli anni ’70 e da allora non ha mai smesso di aumentare. Nel 2005 la percentuale era del 73%. Forte nei Paesi in via di sviluppo dove elevato è il tasso di natalità, il cattolicesimo ha ottenuto risultati egregi. Secondo le stime il numero dei cattolici battezzati ha toccato 1 miliardo e 166 milioni alla fine del 2008 con un incremento dell’1,7% rispetto all’anno precedente. Certo è discutibile il metodo seguito dalla Chiesa cattolica secondo cui chi viene battezzato rimane cattolico per sempre, ai fini statistici. Ma adottando altri sistemi di rilevamento non si può negare che il cattolicesimo sia in espansione. Continua ad aumentare il numero dei sacerdoti cattolici che alla fine del 2008 erano quasi 410.000. Ma
mentre nel 2008 il numero degli aspiranti al sacerdozio è cresciuto in Africa, Asia e Oceania ed è rimasto stabile nel continente americano, è diminuito del 4% in Europa. Qui veniamo alla sfida principale del cattolicesimo: la secolarizzazione del vecchio continente. Era questo il problema che più assillava cinque anni fa i cardinali riuniti in conclave a Roma per eleggere il successore di Giovanni Paolo II. Decisero che il più indicato ad affrontare il problema fosse il collaudato collaboratore del Pontefice appena deceduto, Joseph Ratzinger. A cinque anni dalla elezione di Benedetto XVI, per il Vaticano la situazione della Chiesa cattolica in Europa perè è diventata un incubo. Una serie di scandali che hanno visto coinvolti sacerdoti accusati di molestie e, a volte, di violenza carnale nei confronti di bambini ha indotto migliaia di cattolici europei a mettere in dubbio o ad abbandonare la fede. Le conseguenze sono visibili più che altrove in Germania, Paese natale del Pontefice. Secondo i dati pubblicati ad aprile di quest’anno dal quotidiano Die Welt, nella maggior parte delle diocesi il numero di cattolici che nel mese precedente avevano abbandonato la Chiesa era il doppio rispetto allo stesso mese del 2009. Ma lo scandalo pedofilia, a lungo tenuto nascosto, ha semplicemente accelerato una tendenza già in corso. La Chiesa cattolica tedesca era in declino da anni: tra il 1990 e il 2008 il numero dei cattolici registrati era diminuito dell’11%. Sebbene il declino negli altri Paesi non possa essere quantificato con altrettanta precisione, alcuni segni sono inconfondibili: scarsa presenza alle cerimonie religiose, seminari semivuoti. L’unico fattore che ha rallentato questa deriva è stata l’immigrazione che in molte parti d’Europa è costituita da persone in larghissima misura cattoliche. In Gran Bretagna gli immigrati provenienti dall’Europa orientale, dal Sud America e dall’Africa occidentale hanno riempito i banchi delle chiese. Ma l’esperienza svizzera fa capire che l’effetto immigrazione è temporaneo. Da uno studio condotto tre anni fa dal Schwizerisches Pastoralsoziologisches Institut è emerso che mentre nel 1970 quattro quinti degli immigrati erano cattolici, nel 2000 la percentuale era scesa al 44%. Il dato va attribuito in parte al crescente numero di immigrati provenienti da Paesi non cattolici, ma riflette la tendenza, rilevata anche in altri Paesi, degli immigrati ad abbandonare la loro religione di origine quando si integrano nelle società europee sempre più secolarizzate. Assai dannosa, in termini di numero dei fedeli, è stata la silenziosa emorragia di milioni di cattolici la cui fede arrivata al punto di rottura per la contraddizione tra gli insegnamenti del Vaticano e la realtà di tutti i giorni.
Contraddizione tra precetti e realtà del movimento progressista laico Wind Sind Kirch, la vede però in modo diverso. “I vertici della Chiesa hanno perso il contatto con la comunità ecclesiale”, sostiene. “Non si tratta solo di secolarizzazione. La Chiesa che ha perso il contatto con queste persone”. Weisner indica i due principali motivi di conflitto. Il primo fu creato nel 1968 dall’enciclica di Paolo VI Humanae Vitae che proibiva il controllo delle nascite. “Ciò indusse molti cattolici, compresi diversi buoni cattolici, a prendere atto che la Chiesa non era dalla parte della gente”, dice Weisner. Il secondo motivo di conflitto va individuato nell’atteggiamento nei confronti delle donne. Il Vaticano vieta ai sacerdoti si sposarsi e vieta alle donne il sacerdozio. Lo stridente divario tra il pensiero dei vertici della Chiesa cattolica e quello dei suoi fedeli emerse nel 1996 da uno studio americano sui cattolici degli Stati Uniti, delle Filippine e di quattro Paesi europei. In America e in tutti i Paesi europei, con l’eccezione della Polonia, la maggioranza era favorevole al matrimonio dei sacerdoti e al sacerdozio femminile. E il dato riguardava anche Paesi ritenuti conservatori quali l’Irlanda e l’Italia. In Irlanda il dato a favore del matrimonio dei preti, l’82%, era il più elevato in assoluto. In Italia il 58% dei cattolici si dichiararono favorevoli al sacerdozio delle donne. Le speranze di molti cattolici europei di un ripensamento della Chiesa su questi tem sono naufragate quando a marzo, quando sull’onda degli scandali sessuali un cardinale ha detto che forse era venuto il momento di rivedere la questione del celibato. Benedetto XVI ha replicato con un discorso che tesseva le lodi del
celibato come “espressione del dono di sè a Dio e agli altri”.
Ratzingere e la teoria della “minoranza creativa”
QUESTE PRESE di posizioni sembrano denotare un atteggiamento di indifferenza alla sensibilità di molti cattolici il cui attaccamento alla Chiesa è ormai appeso ad un filo. Ma, come dice Andrea Tornielli, autore di Attacco a Ratzinger, un pamphlet appena pubblicato su Benedetto XVI, il Papa “non pensa alla ri-cristianizzazione dell’Europa in termini di riconquista di tipo militare. Non è una questione di numeri”. Tornielli è convinto che per capire cosa pensa il Pontefice sia necessario riflettere su una frase da lui usata: “Minoranza creativa”. In un discorso pronunciato lo scorso anno, Benedetto XVI ha sostenuto che “sono generalmente le minoranze creative che determinano il futuro e, sotto questo profilo, la Chiesa cattolica deve ac-
cettare di essere una minoranza creativa che ha un patrimonio di valori che non appartengono al passato, ma rappresentano una realtà viva”. Alcuni sono convinti che il Papa voglia una gruppo di credenti più piccolo, ma teologicamente più omogeneo in attesa di tempi migliori. Vedendo la realtà in questi termini, la Gran Bretagna non è dopo tutto un luogo così ostile per il Papa. Il suo cristianesimo tradizionale si è già rivelato irresistibile per molti anglicani conservatori. E quando parla di minoranze creative, può anche darsi che pensi a gruppi come quelli di “Gioventù 2000”, che organizzò a Walsingham un meeting di 5 giorni di cattolici di età compresa tra i 16 e i 30 anni. All’evento parteciparono circa 1.000 persone che ebbero modo di parlare di Vangelo. Obiettivo dichiarato del gruppo è di “ricondurre” i giovani a Dio. Padre Stephen Wang, sacerdote londinese e preside del seminario di Allen Hall, dice che molti giovani cattolici “vogliono essere radicati nella fede cattolica”. Per le generazioni precedenti cresciute nella fede la sfida consisteva nel costruirsi un’identità laica. Per i giovani cattolici di oggi è vero il contrario. A Città del Messico, all’interno della Basilica di Nostra Signora di Guadalupe si vede un approccio meno intellettuale alla fede. I genitori di bambini malati, gli studenti che debbono sostenere un esame e i contadini che temono un cattivo raccolto fanno la fila davanti a una piccola scatola di stagno giallo nella cui fessura mettono la letterina ripiegata che chiede a Dio il miracolo. La Basilica apparentemente dovrebbe essere un motivo di consolazione per Benedetto XVI. Ogni anno circa 20 milioni di persone vengono qui per ammirare un telo sul quale sarebbe impressa l’immagine della Vergine Maria.
Il sindaco di Città del Messico contro il cardinale
MA IN MESSICO ci sono i segni di ciò che il Vaticano teme di più: che l’erosione di cattolici in Europa altro non sia che l’inizio di un declino generalizzato. Il dominio della Chiesa vacilla. Dal Rio Grande fino alle Ande, le anime si allontanano dai precetti della Chiesa. Nel corso di un feroce polemica sulla legalizzazione del matrimonio gay e dell’aborto, il sindaco di Città del Messico, Marcelo Ebrard, ha denunciato il cardinale Juan Sandoval per diffamazione. Nel quartiere gay “Zona Rosa”, responsabile di una associazione civica che garantisce analisi gratuite per accertare l siepositività, Martin Luna, sembra riprendere le critiche care ai progressisti europei secondo cui “la Chiesa in tutti questi secoli non è cambiata”. Ma l’America Latina rimane anche fedele alla sua tradizione cattolica. Persino la retorica marxista di Hugo Chavez è cosparsa di riferimenti al cattolicesimo. L’aborto è illegale nella maggior parte dei Paesi. Ma la marea della secolarizzazione monta. Una popolazione sempre più urbana e istruita non si inginocchia più dinanzi al pulpito. Il presidente cileno Sebastian Pinera ha promesso maggiori diritti alle coppie omosessuali. Dilma Roussef, che ha buone probabilità di diventare ad ottobre il prossimo presidente del Brasile, è favorevole alla legalizzazione dell’aborto. Dice David Stoll, antropologo degli Stati Uniti: “Se fossi il Papa, l’America Latina sarebbe per me motivo di grande inquietudine”.
Copyright The Guardian; Traduzione di Carlo Antonio Biscotto

martedì 14 settembre 2010


il Fatto 14.9.10
Psichiatria Democratica
I giovani turchi, Ferrero e i gruppi veltroniani Fotografia di un partito perennemente in analisi
Il 25 settembre Veltroni a Orvieto Potrebbe diventare la “Mirabello” di centrosinistra
di Luca Telese

ANTEFATTO ICONOGRAFICO. Guardate per un attimo la foto di questa pagina. Pier Luigi Bersani chiude la festa di Torino. In piedi, solo. Per la prima volta un leader del Pd parla senza angeli custodi, senza alfieri, senza l’abbraccio dei due principali dirigenti del partito, immancabilmente vicini a lui. Quanta distanza dal rituale di tutti gli altri anni: il segretario sul palco, e tutti i leader, simbolicamente stretti intorno. Magari ipocritamente, stretti, ma tutti, almeno una volta l’anno, lì, come nella foto della classe all’inizio dell’anno. Ora abbandoniamo la foto, e passiamo al calvario della cronaca, dalle faide dei giovani turchi ai rumors di scissione, ai motivi per cui Orvieto potrebbe diventare una “Mirabello” di centrosinistra.
RETROSCENA REDAZIONALE. Per una volta vale la pena di raccontarvi come si può decidere un articolo nella riunione di questo giornale. Eravamo appena tornati dalla meravigliosa festa della Versilia, e già i nostri telefoni tril-
lavano su un unico tema: il Pd. Un veltroniano ti dice peste e corna di un dalemiano e viceversa (fin qui nulla di nuovo); poi arrivano aggiornamenti, ritrattazioni, agenzie, colpi di scena. Quindi la girandola della rassegna stampa. In due giorni, dal documento dei quarantenni anti-veltroniani, alle correnti storiche, un fermento criptato e indecifrabile per chi non possiede i codici delle faide antiche. A questo punto il direttore si mette a solfeggiare e a parafrasare: “Pi.... Di...., Pi... Dì... Psichiatria Democratica”. Ovvero: ci sono chiari segni di distorsioni dell’ego e di alterazione delle percezioni dell’io, in quel partito. Lettere para-psicanalitiche ai giornali, mezze verità, indiscrezioni pilotate, colpi bassi. Per dire. Secondo Il Corriere della sera, la settimana scorsa Bersani avrebbe stretto un patto con Paolo Ferrero per eleggere dieci parlamentari nelle liste del partito, con una “ospitata” tecnica stile radicali. Cerco il segretario di Rifondazione al telefono per capire se le sue smentite siano rituali o credibili. Lui è furibondo: “Se stiamo dialogando con Bersani? Certo! Lo dico da mesi. Se è vero che abbiamo stretto un accordo per eleggere i nostri dirigenti? Assolutamente no si indigna è una follia paranoica, messa in giro con malizia dai veltroniani, magari per far piacere a Vendola”. Chiedi: in che senso? E lui: “È una cosa che non sta nè il cielo nè in terra rincara la dose Ferrero ma che punta a farci apparire come dei dirigenti all’asta che vanno da Bersani per farsi garantire con il piattino in mano. Beh ruggisce il segretario non è così!”. In fondo basta questo sfogo per capire che la situazione è incandescente, e che la frattura interna influenza anche i rapporti con gli altri. Però restano dei fatti: le dichiarazioni entusiastiche di Ferrero e Oliviero Diliberto sul “Nuovo Ulivo” bersaniano, e gli editoriali dei giornali amici (ad esempio quello di Stefano Menichini su Europa) che la settimana scorsa davano già per certo l’accordo. Frammenti di schizofrenia?
ENDORSING FAGIOLINO.
La nostra riunione finisce così, e l’articolo, è commissionato. Ore 13.15 (non è uno scherzo), sulle agenzie arriva l’endorsement di Massimo Fagioli, psichiatra e ricercatore della mente, che ufficializza la fine del rapporto con l’ex leader presidente della Camera Fausto Bertinotti: “Attualmente la simpatia è per Bersani”. Le ironie sono fuori luogo. Sembra piuttosto un segno, la spia di un disagio, il turbinare di un cortocircuito fra politica e psiche. Come è noto Fagioli era stato un fan accanito di Bertinotti, fino a che non era apparsa sulla scena Nichi Vendola. Dopo di allora lo psichiatra non aveva fatto mistero di considerarlo “deviante” per la sua omosessualità. Ora Fagioli spiega la sua nuova predilezione per Bersani: “È il solo in grado di provare a rimettere insieme la sinistra, l'unico che ancora mantiene laicità e saggezza”. Ma davvero c’è una crisi di identità nel Pd? L’ultima crisi di identità, è la grottesca storia dei cosiddetti “Giovani Turchi”, un gruppo di quarantenni vicini a D’Alema, che scrivono un documento caustico contro il fondatore del Pd convocando una riunione ad Orvieto: “La politica interpretata come Hollywood, come un tour promozionale per propagandare se stessi”. La vera accusa a Veltroni è, ancora una volta, psicanalistica: quella di essere inconsapevolmente berlusconiano, affetto da protagonismo e bisogno di leadership. Però “i giovani turchi” non hanno la tempra di Ataturk. Basta il pronunciamento di due ex veltroniane bersaniane, Stella Bianchi e Annamaria Parente perchè sia annullata l’iniziativa, prevista per il 25. Una indubbia vittoria dei veltroniani. Ma Orvieto è la città dove è nato il Pd, e dove Veltroni in un celebre discorso parlò per la prima volta della vocazione mag-
gioritaria: “Non so quando saranno, so che alle prossime elezioni andremo da soli”. Lo disse il sabato, il lunedì Mastella abbandonò la maggioranza, il giovedì cadde Prodi. Il 25, a Orvieto, si tiene anche un convegno di Libertà eguale (la componente ex riformista del partito) con Veltroni e Sergio Chiamparino.
I GRUPPI AUTONOMI. Ma cosa c’è di vero nell’ipotesi avanzata ancora una volta dal Corriere, che i veltroniani vogliono fare un gruppo autonomo”. Una follia? O un inconfessabile desiderio inconscio? Walter Verini, braccio destro di Veltroni sorride: “Balle”. E in serata Veltroni interviene: “Niente gruppi: c’è bisogno che il Pd recuperi forza, si deve lavorare per fare del Pd”. Ma a Orvieto Veltroni potrebbe meditare un nuovo strappo. Magari un appoggio tecnico al sindaco di Torino, già con un piede fuori dal partito, all’insegna dello slogan: “Oltre il Pd per tornare a vincere”. Fini torna nella “sua” Mirabello per costruire un’altra destra. Veltroni nella “sua” Orvieto per un altro centrosinistra.


l’Unità 14.9.10
L’ex leader chiede «più coraggio». Ma Area democratica non lo segue
Veltroni: il Pd cambi Bersani: ma divisi non siamo credibili
Oggi Bersani riunisce al Nazareno tutti i big del partito: «Dobbiamo dimostrarci pronti a governare. Discutiamo pure, ma delle proposte per l’Italia». Veltroni chiede di recuperare lo «spirito originario» del Pd
di Simone Collini

«Di fronte alla crisi della maggioranza il Pd deve dimostrarsi pronto a governare il paese», dirà oggi Pier Luigi Bersani aprendo la riunione con tutti i big del partito. Ovvero è il ragionamento che farà il segretario del Pd agli altri membri del coordinamento convocati al Nazareno ben vengano discussioni sulle proposte concrete, ma perdersi ora in polemiche e divisioni può far perdere l’occasione di chiudere l’era del berlusconismo e tornare al governo. Un appello che arriva dopo che nei giorni immediatamente precedenti e successivi l’intervento di chiusura alla Festa del Pd alcuni giornali hanno parlato dell’irritazione dei veltroniani per un presunto accordo elettorale con Prc e Pdci (smentito da Bersani), poi per un’iniziativa a cui hanno dato vita alcuni quarantenni bersaniani (i cosiddetti “giovani turchi”), poi per la decisione di chiudere a Torino con la “vecchia formula” del comizio (a cui avevano rinunciato negli ultimi due anni Veltroni e Franceschini). Fino alla notizia che i veltroniani starebbero pensando di fare dei gruppi autonomi alla Camera e al Senato. Anche questa smentita, per bocca di Walter Verini: «È del tutto infondata». Restano però le critiche: «Il nostro partito dice il braccio destro di Veltroni riprendendo un sondaggio pubblicato da “Repubblica” e che dà il Pd al 26,5% raggiunge nei sondaggi il suo minimo storico, e questo in una condizione politica che dovrebbe essere assolutamente favorevole ad una forza di opposizione».
LINEE A CONFRONTO
Per Bersani non è però in questo modo che si rilancia il Pd: «Discutiamo pure, ma sulle proposte concrete da presentare all’Italia», è il messaggio che lancia agli altri dirigenti. «Adesso dobbiamo smetterla di guardarci la punta delle scarpe e dobbiamo rimboccarci le maniche, dobbiamo lanciare una forte mobilitazione già in questi giorni di riapertura delle scuole e poi attraverso l’Assemblea nazionale». Che si terrà ad ottobre a Milano, o comunque in una capitale del Nord (anche per rispondere alle sollecitazioni di Sergio Chiamparino nei confronti di questa parte del paese).
All’incontro di oggi Veltroni vuole andare senza provocare rotture ma comunque ribadendo la sua tesi per un cambio di linea. Il Pd deve cioè recuperare lo «spirito originario», dimostrare «più coraggio» nel mostrarsi come il partito «che combatte tutti i conservatorismi», presentarsi come la forza «che vuole il cambiamento». L’ex segretario non ci sta a passare per uno tentato dalla scissione: «Io ci credo più di altri nel Pd, l’ho fatto nascere si è sfogato con i suoi e voglio rafforzarlo». Anche il discorso delle alleanze, per Veltroni, va affrontato partendo da un «investimento» su questo partito, perché più forte è, più forte sarà la sua capacità attrattiva e meno potere di ricatto avranno le forze minori. Il discorso di Bersani alla Festa di Torino ha sì fissato dei paletti per quel che riguarda il confronto con l’Udc e l’esclusione di Prc e Pdci dal patto di governo, ma per Veltroni «la sfida è aprirci e raccogliere energie fresche e nuove», non cercare accordi politici in base a ragionamenti puramente aritmetici.
Veltroni andrà però al confronto anche sapendo che altri dirigenti di Area democratica come Dario Franceschini, Piero Fassino, Franco Marini, sono più vicini alle posizioni del segretario che alle sue, o a quelle dell’ex-ppi Beppe Fioroni o di Paolo Gentiloni. Entrambi, così come pure Veltroni e Chiamparino, saranno al convegno organizzato da LibertàEguale ad Orvieto la prossima settimana. Mentre tutti i veltroniani sembrano intenzionati a disertare le giornate di Area democratica che sta organizzando Franceschini ad Amalfi per la fine ottobre.

Repubblica 14.9.10
Veltroni, sfida aperta a Bersani un documento sul "Pd tradito"
Asse con gli ex ppi. I fedelissimi: può ritentare da premier
Raccolta di firme tra i parlamentari. Il segretario: non ci sono esclusive sullo spirito originario
di Goffredo De Marchis

ROMA Walter Veltroni prepara la campagna di autunno. Non solo per lanciare il libro di prossima uscita "Rivoluzione democratica" dove, dopo tanti romanzi, rimette al centro la politica e lo spirito originario del Pd rimosso dai successori. L´obiettivo finale dell´ex segretario è riprovare la corsa per Palazzo Chigi. «Mi sembra improbabile, ma non impossibile», dice il suo fedelissimo Stefano Ceccanti. «Vendola non ce la fa. Parla solo a un piccolo pezzo del Paese. Bersani nemmeno, figuriamoci. Con lui il Pd ha perso tutta la sua autorevolezza... «, spiega l´altro veltroniano, Giorgio Tonini. Dunque, solo Walter ha le carte in regola. Il libro è un singolo tassello della strategia. Nell´immediato c´è la denuncia di un tradimento. Quello compiuto da Bersani colpevole di aver dimenticato i valori fondativi del progetto, di rispolverare l´Ulivo e andare a caccia di alleati. Denuncia che finirà nero su bianco, in un documento programmatico su cui Veltroni in persona sta cercando firme tra i parlamentari.
L´ex sindaco sta scrivendo il testo che mette in mora l´attuale gestione del Pd. L´uscita è prevista per la fine della settimana, una volta raccolto un numero sufficiente di adesioni. Beppe Fioroni ha promesso un mare di autografi nel confine degli ex popolari. Ai quali si aggiungeranno i deputati e i senatori di stretta osservanza veltroniana. Fioroni e Veltroni si sono incontrati ieri per fare il punto. I bersagli sono due: Bersani e il capogruppo Franceschini. Il "manifesto" contesterà punto per punto la linea del partito e dichiarerà esaurita l´esperienza di Area democratica, la minoranza interna. Bisogna dimostrare che ormai il capogruppo Dario Franceschini si può considerare a tutti gli effetti un bersaniano doc. Il documento segna una novità assoluta nel percorso politico di Veltroni: la nascita di una corrente e la sua guida. Smentita, per il momento, l´ipotesi di dare vita a gruppi autonomi sul modello di Futuro e libertà. «Io sto nel Pd», dice l´ex leader. Ma le mosse del suo ritorno prepotente nel campo del centrosinistra sono evidenti. E innervosiscono il gruppo dirigente del Pd.
Oggi torna a riunirsi il caminetto. Ci sarà Veltroni, ci sarà D´Alema, ci sarà Bersani. Il segretario è pronto ad affrontare di petto le critiche, tanto più dopo l´esito considerato positivo del comizio alla Festa di Torino. Con un argomento polemico rivolto proprio a Veltroni. «Nessuno si può intestare lo spirito originario del Pd». Avremo perciò l´antipasto di uno scontro che presto potrebbe spostarsi sul terreno delle primarie. Per le quali sono già in campo Nichi Vendola e Sergio Chiamparino, non a caso anche loro autori di libri autobiografici appena usciti o in uscita. E per le quali Bersani è il candidato naturale del Pd. Anzi, per statuto l´unico democratico che può correre in quanto segretario. «È lo statuto voluto da Veltroni, no?», osserva il coordinatore Maurizio Migliavacca.
Tira un´aria cattiva nel cielo democratico ora che le elezioni si allontanano. I "giovani turchi", quarantenni che si richiamano al rinnovatore Ataturk, dopo una frenata sono pronti a rilanciare il loro documento, dura critica verso tutto il gruppo dirigente con attacchi personali rivolti soprattutto all´ex segretario. I veltroniani però faranno pesare le firme sotto il documento Veltroni-Fioroni. I maligni dicono: non arrivano a 20. Se fossero di più il problema si pone. Ma sono i numeri dei sondaggi a muovere la "campagna di Walter". Quello sul Pd, dove il partito si ferma a un misero 26,5 per cento e non guadagna voti dalla crisi del centrodestra, torna utile per contrastare la leadership di Bersani. Quello preoccupante sul gradimento dei leader, dove Veltroni scivola parecchio dietro Vendola, Chiamparino e Bersani, impone invece il cambio di passo.


l’Unità 14.9.10
Nuovo Ulivo alleato con l’Udc Restano i dubbi di Idv e Vendola
Di Pietro: «A Bersani risponderò a Vasto, ma Casini resta un avversario. E il governatore: «L’alternativa non si fa nei palazzi». Giordano: «Le alleanze? Decide chi vince le primarie»
di Andrea Carugati

Nessuna bottiglia di champagne, in casa dei dipietristi e dei vendoliani, dopo il discorso con cui Bersani a Torino ha rilanciato la proposta di alleanza tra nuovo Ulivo e Udc. Ma le reazioni del giorno dopo fanno capire che qualcosa è cambiato da fine agosto, quando Bersani aveva lanciato per la prima volta l’idea di un’alleanza a «due cerchi» e le rispo-
ste di Tonino e dei vendoliani erano state tranchant: «Casini è un’avversario». Stavolta Idv e Sel hanno capito che si fa sul serio, che è ora di mettersi a un tavolo con Bersani per costruirla davvero, un’alternativa a Berlusconi. E allora i toni sfumano. Di Pietro prima detta alle agenzie una dichiarazione dura: «Vogliamo allearci con quella parte del Pd che non vuole fare inciuci con gli avversari, e Fini e l’Udc sono nostri avversari». Poi corregge il tiro: «A Bersani risponderemo nella nostra assemblea programmatica a Vasto questo fine settimana. Li tracceremo condizioni e limiti della coalizione che abbiamo in mente. Ho ascoltato il leader Pd, ci sono luci e ombre, ma dobbiamo trovare un punto d’incontro». Nel pomeriggio Di Pietro riunisce i suoi parlamentari, per fare il punto su cosa dire a Vasto. Sintetizza all’uscita il capogruppo Donadi: «Abbiamo parlato del perimetro del centrosinistra, e Casini non ne fa parte».
Vendola, pur memore delle ruggini pugliesi, è più possibilista. «Costruiamo un vocabolario che metta insieme le parole del futuro, questo è l’inizio del cambiamento, un’operazione che non si può concludere al chiuso dei palazzi e delle segreterie». E Casini? «I veti non bisogna né subirli né esercitarli, non bisogna mai mettere il carro davanti ai buoi. I volenterosi, se fossero disponibili a voltar pagina, dovrebbero essere i benvenuti nella coalizione del cambiamento». Spiega il suo braccio destro Nicola Fratoianni: «Noi vogliamo una coalizione, il dialogo col Pd è aperto e sui contenuti Bersani ha detto molte cose convincenti. Ma appunto non si può discutere di alleanze con l’Udc prima che di programmi, altrimenti finisce come in Puglia dove il Pd ha aspettato per mesi il Godot Casini... Prima bisogna mettersi d’accordo sui punti chiave del programma, poi scegliere il leader con le primarie e solo alla fine si valuta se è possibile allargare l’alleanza al centro». Ancora più netto Franco Giordano: «Noi non mettiamo veti sull’Udc, ma la proposta di Bersani così com’è sa di status quo, manca un’invenzione che coinvolga il nostro popolo. Prima bisogna fare le primarie, è lì che si decide quale coalizione e quale programma. Non le puoi convocare quando hai già deciso tutto...». E se poi l’Udc non ci sta? «Anche in Puglia si è detto per mesi che senza l’Udc non si vinceva, e invece...», sorride Fratoianni.

l’Unità 14.9.10
Forse per Gelmini la scuola pubblica è di sinistra?
di Fabio Luppino

P oteva fermarsi alla sottovalutazione bonaria dei simboli leghisti nella scuola di Adro, comunque fatto grave per un ministro. Gelmini ha voluto strafare, denotan-
do protervia culturale e voglia di rivincite antiche quando ha detto che il pericolo vero sono i simboli di sinistra nelle scuole. Sono progressista di formazione, di sinistra ma senza illusioni, scarsamente ideologico, socialdemocratico dentro il Pci. Ma mi avrebbe molto seccato, fortemente contrariato trovare nelle scuole dei miei figli «simboli di sinistra», così come le pennellate celtiche di Adro, anche di più. Passo in rivista più e più volte quello che vedo entrando in una scuola (perché non si può essere sempre contro per principio), ma ho grandi difficoltà ad accogliere la preoccupazione del ministro. Il crocefisso? No. La foto del Presidente della Repubblica? No, non poteva parlare di quella. I presidi con la porta aperta, a volte? Certo potrebbero generare sospetti, ma di sinistra è un po’ più forte, direi. Bidelli (personale Ata, sì) senza divisa? Certo, qualche decennio fa le avevano, a volte azzurre, a volte nere, ma adesso i soldi non ci sono nemmeno per quelle. No, passiamo oltre.
O forse che siano di sinistra i banchi rotti, i muri scrostati, i bagni non puliti, le palestre senza l’agibilità, la mancanza della carta igienica, le serrande rotte, le porte che non si chiudono e che nessuno aggiusta? Potrebbero, forse, come conseguenza di un modo rivoluzionario di stare a scuola dei ragazzi, al pari della gelatina sui capelli, dei pantaloni portati più bassi delle mutande, dell’orecchino, del piercing, della capacità a volte di fare domande intelligenti...
Ecco, forse ci sto arrivando. Se uno studente sa parlare, pensare, studiare, educato come cittadino consapevole, forse è questo il punto, il problema. Se la scuola Gelmini è di destra, perché la riforma delle superiori tagliando il sapere sta affievolendo i presupposti dell’Istruzione costituzionale, la scuola pubblica, laica, nata per formare, includere, consentire l’ascensore sociale, garantire l’attuazione del principio di eguaglianza è di sinistra. La scuola, è di sinistra!
Allora, il punto è questo. Avere libri non orientati, insegnanti capaci di destare lo spirito critico, scrivere, formarsi un’opinione libera, non aderire a schemi precostituiti, esercitare obiezione di coscienza grazie ad una approfondita conoscenza delle cose. Tutto questo è di sinistra, forse? Se è così, rivendichiamo che questa sia la scuola, pubblica, e anche non pubblica. Quello che Gelmini e il governo di cui fa parte stanno aspramente combattendo da due anni con geometrica potenza.

Repubblica 14.9.10
Il successo dell´ultimo saggio "Comune" che esce ora in Italia
Quel che l´America legge in Toni Negri
di Federico Rampini

È un segno della confusione dei tempi: Candy Crowley, la più autorevole anchorwoman politica di Cnn, nel suo Tg fa un elogio del nuovo capo-economista della Casa Bianca, Austan Goolsbee, «perché finalmente cita Marx e Trotsky nei suoi discorsi». Goolsbee ha solo 41 anni e ha già alle spalle una brillante carriera accademica alla University of Chicago. Ma sì, proprio quella di Milton Friedman, il padre del neoliberismo reaganiano. Suo amico di lunga data, Obama lo ha appena nominato alla guida del Council of Economic Advisers. Ma Goolsbee ha un vizietto che di questi tempi potrebbe giorcargli brutti scherzi: adora dissacrare, ironizza su se stesso e sul presidente, va ai talkshow satirici come quello di Jon Stewart a fare l´auto-caricatura dell´economista-guru. Le sue citazioni di Marx e Trotsky – «i testi sacri che abbiamo rispolverato per capire questa crisi» – sono frecciate contro l´accademia e il pensiero unico che ha dominato la politica economica americana negli ultimi trent´anni. Colpisce nel segno, anche perché la destra americana è pronta a vedere il socialismo in agguato dietro l´angolo. E questa è senza dubbio una chiave del sorprendente successo di Toni Negri in America. Ora che esce in Italia la traduzione della sua ultima opera firmata con Michael Hardt, Comune (Rizzoli), vale la pena ricordare com´è stata accolta un anno fa negli Stati Uniti. In un´America sotto choc per la sua recessione più grave dagli anni Trenta, il Wall Street Journal salutava il saggio di Negri con un «Benvenuti nel Manifesto del partito comunista, versione 2.0», come si usa designare l´ultimo e più avanzato modello di un software digitale. Il quotidiano di Rupert Murdoch, la Bibbia della classe dirigente capitalista, sentenziava in quell´occasione: «Karl Marx è tornato di moda». E aggiungeva: «Antonio Negri e Michael Hardt sono nella posizione ideale per sfruttare questo revival visto che il loro libro reinventa un marxismo per il XXI secolo». Per Brian Anderson, sulla pagina dei commenti del Wall Street Journal che è un barometro fedele dell´intellighenzia di destra, «è inquietante che Comune sia stato pubblicato sotto un´insegna prestigiosa come quella della Harvard University Press». Il saggio è pericoloso? Abbastanza da essere definito: «la miscela dello stregone del radicalismo contemporaneo». La fortuna di Negri, in un certo senso, coincide con la sfortuna di Obama. La trilogia composta dalle opere Impero, Moltitudine e Comune non si distingue molto da quella prolifica vena di saggistica anti-capitalista, anti-globalizzazione e anti-americana che ha conosciuto un boom almeno dai tempi della rivolta di Seattle contro l´Organizzazione del commercio mondiale, nel 1999. Risale a quelle giornate di guerriglia urbana la rinascita di un movimento di contestazione radicale, che si voleva erede del Maggio Sessantotto, delle lotte operaie e studentesche degli anni Settanta. In qualsiasi libreria italiana o francese, tedesca o spagnola, la trilogia di Negri-Hardt si perde in mezzo a una montagna di opere simili, e similmente ripetitive. In America però tocca un nervo scoperto. Coincide con i sospetti della destra, soprattutto l´ala populista e movimentista del Tea Party, sul presunto "socialismo" di Obama e del suo clan. Nell´arco di dodici mesi, la crisi che ha messo a nudo tutte le storture del capitalismo americano, è stata rovesciata contro l´attuale presidente e viene riletta come una crisi dovuta all´eccesso di interventismo pubblico, al ritorno dello Stato Leviatano. Comune diventa così un testo sospetto, perché gli oltranzisti di destra guidati da Sarah Palin e Glenn Beck hanno questo in comune con Negri: sono convinti anche loro che il comunismo sia attuale, praticamente dietro l´angolo. Quello della Casa Bianca.

Corriere della Sera 14.9.10
In sintesi, l’ubiquità di questo tipo di leggi mostra che, nel pur complesso mondo della natura e della mente, c’è più ordine e regolarità di quanto si pensasse
Corpo e pensiero. L’attività è scandita da regole matematiche
Scoperte le «leggi di scala» legate anche ai processi cognitivi
Nel linguaggio prevalgono le parole corte

di Massimo Piattelli Palmarini


Carta, matita e quattro minuti di tempo. Pronti? Fate una lista di ciò che vi ricordate di aver fatto ieri (appuntamenti, impegni di lavoro, attività in famiglia e così via). Fatto? Ora, di nuovo la stessa situazione, ma adesso scrivete ciò che vi ricordate per il mese scorso. Poi, fatto questo, ciò che vi ricordate per l’anno passato. Ebbene, in ciascuno di questi compiti avrete scritto cinque vostri ricordi al minuto, indipendentemente dal lasso di tempo mentalmente immaginato (giorno, mese, anno). Appena un po’ più di cinque se vi avessi, invece, chiesto di fare una lista di ciò che intendete fare domani, o nel prossimo mese o nell’anno che viene. La lezione da trarre da questo esperimentino è che esistono delle costanti di scala, delle regole, anche per i nostri processi mentali.
Tali leggi si estendono dalla memoria al linguaggio, dalla percezione al controllo della motricità. In altre parole, il nostro cervello, come anche quello di altre specie, lavora secondo notevoli regolarità. Intuitivamente, questo significa che, passando da piccole a grandi dimensioni, i rapporti tra varie altre grandezze restano costanti.
Molti fenomeni di questo tipo sono stati scoperti in biologia. Per esempio, il fisiologo svizzero Max Kleiber, fino dai primi anni Trenta del Novecento, scoprì che l’attività metabolica di tutti gli animali (pensiamo per semplicità alla spontanea produzione di calore corporeo) segue la legge della potenz a t r e q u a r t i . Ci o è , p e r esempio, un animale che è cento volte più grande di un altro produce un calore che è solo 31 volte maggiore.
Dal topo-ragno, il più piccolo mammifero esistente, alla balena azzurra, il più grande, questa legge di scala è rigorosamente rispettata. Un altro esempio: nel corso di un’intera vita, in media, il numero complessivo di battiti cardiaci per ogni mammifero, noi compresi, è lo stesso. Vita più breve, e quindi dimensioni corporali minori, ma frequenza cardiaca più alta, secondo la legge di scala.
Ciò che adesso ci dicono, sulla rivista scientifica «Trends in Cognitive Sciences», sette ricercatori distribuiti tra California ed Europa, è che le leggi di scala esistono anche nel mondo della cognizione. Mettendo insieme, comparativamente, un gran numero di esperimenti pubblicati lungo il corso degli anni e ricalcolando in modo originale i dati salienti, hanno distillato svariate leggi di scala. Uno degli autori, Ramon Ferrer-i-Cancho, fisico, linguista teorico e esperto di scienze della computazione all’Università Politecnica della Catalogna a Barcellona, così mi descrive l’importanza di questa scoperta: «Il fatto che svariati processi cognitivi seguano le stesse leggi statistiche, sposino le stesse equazioni matematiche, dai più elementari processi neuronali su su fino ai più complessi comportamenti umani, rappresenta un ponte tra fisica, biologia e psicologia. L’adattamento e la flessibilità dei processi mentali ne emergono forti e chiari. Inoltre, cominciamo a poter trattare con metodi ben noti in fisica fenomeni cerebrali complessi, prossimi ai punti critici, cioè a situazioni nelle quali minimi cambiamenti in certe variabili producono cambiamenti subitanei e qualitativi».
Oltre a connettere tra di loro diverse discipline scientifiche, queste leggi di scala accomunano la nostra specie ad altre specie. Più sorprendente, ma vero, è che tali formule, valgono anche per la ricerca mentale in soggetti umani. Il caso più esemplare, nel mondo del linguaggio, la cosiddetta legge di Zipf, resa popolare dal linguista americano George Kingsley Zipf. In qualunque testo scritto, o in qualunque conversazione spontanea, la frequenza media di parole corte è maggiore di quella delle parole lunghe. Misurando queste grandezze rigorosamente, si trova una legge di scala che ha come esponente la potenza meno uno, cioè sono l’inverso una dell’altra. Misurando, invece, nelle frasi, la distanza tra le parole e i rapporti sintattici tra di esse, si ha di nuovo una legge di scala, ma diversa, cioè un decadimento molto più rapido.

Corriere della Sera 14.9.10
Le pillole di 2000 anni fa

Hanno più di duemila anni le pillole preparate dagli antichi greci, che archeologi americani sono riusciti ad analizzare con l’esame del Dna. Le pillole sono state trovate in una nave affondata al largo della Toscana nel 130 a.C. che trasportava medicine. Gli esperti sono stati in grado di analizzare queste compresse millenarie, scoprendo che erano realizzate mescolando più di dieci estratti di diverse piante, tra cui l’ibisco (importato probabilmente dal medio Oriente o dall’India e dall’Etiopia), il sedano, le carote e le cipolle selvatiche. «Per la prima volta possiamo confermare quanto scrissero Dioscoride e Galeno e quanto prescritto dai medici greci dell’antichità» ha affermato Alain Touwaide, dello Smithsonian National Museum of Natural History di Washington (Usa).

Avvenire 14.9.10
Intervista. Per il paleontologo francese Yves Coppens «l’essere umano appare sensibile al sacro a partire dalla sua prima comparsa sulla Terra»
L’Homo? Religiosus fin dalle caverne
«Non c’è distanza fra l’apparizione dell’uomo e l’apparizione del suo pensiero religioso. L’uno e l’altro sono parti di una stessa condizione, come appare evidente dai riti funebri più antichi»
di Daniele Zappalà



«P er me, l’origine dell’uomo resta la più bella storia in assoluto e quando la scienza cerca di comprenderla è sempre costretta a constatare al contempo il carattere per così dire stravagante di questa storia, accanto alla sua dimensione d’umiltà». Dopo una vita di studi e campagne scientifiche sul campo talora esaltanti, Yves Coppens esibisce sempre verso il mondo preistorico una curiosità e un’ammirazione quasi spiazzanti.

Il grande antropologo e paleontologo francese, fra gli scopritori della nostra antenata più famosa, Lucy, è anche un brillante divulgatore. Come mostra la raccolta di testi brevi Il presente del passato , in uscita oggi per Jaca Book (pagine 168, euro 18,00). 

Professore, perché la preistoria ci affascina tanto? 

«Gli interrogativi sul nostro statuto sulla Terra, sulla nostra origine e sulla nostra direzione, per così dire, fanno parte di un bisogno connaturato in noi. Al contempo, molti avvertono una grande precarietà nella situazione attuale.

E in proposito, pur non condividendo personalmente questo punto di vista, ho l’impressione che nelle risposte sulla nostra origine si cerca pure una sorta di ancoraggio o di aiuto.

Dei visitatori di mostre che ho curato, del resto, hanno spesso confessato che questa mano tesa verso il passato più profondo li rassicurava». 

Lei ha scritto che il percorso dell’uomo offre un grande messaggio d’umiltà. Cosa intende? 

«Si tratta della storia di un essere vivente apparso come qualsiasi altro essere vivente in una fase di adattamento climatico. Dopo il successo ottenuto in quest’adattamento, si è in seguito sviluppato grazie alle risorse di cui disponeva, compresa la cultura, nata dall’apparizione della coscienza. In generale, l’uomo è un mammifero di dimensioni medie in un pianeta in mezzo ad altri attorno a una stella, a sua volta, in mezzo a miliardi di altre in una galassia, a sua volta, in mezzo a miliardi di altre. Non si può che restare umili». 

Per lei l’uomo si è comportato 'come un podista di fondo'.

Perché? 

«I paleontologi e gli anatomisti hanno seguito l’evoluzione della locomozione preumana e umana lungo dieci milioni di anni.

All’inizio, vi fu l’associazione di una vita arboricola e di una bipedia alquanto goffa. Una bipedia più stabile, efficace e fluida si è sviluppata molto progressivamente. L’accesso alla stazione eretta e alla locomozione come la concepiamo oggi fu davvero lento e meritato. La facoltà di correre è giunta relativamente tardi». 

In quest’evoluzione, c’è una fase che ancor oggi la affascina più di altre? 

«L’apparizione stessa del genere umano, con lo sviluppo del suo encefalo e con la scelta di un’alimentazione a largo spettro che si è rivelata un successo decisivo per le fasi successive». 

A proposito del mistero della coscienza, antropologi culturali come René Girard sostengono la centralità della dimensione sacra. Sul campo, a che punto sono giunte le ricerche sulla religiosità primitiva? 

«Sappiamo o abbiamo ormai il presentimento, dato che non sono sempre disponibili le prove definitive, che l’homo religiosus 

coincide con l’uomo in generale.

L’essere umano, fin dallo sbocciare della sua umanità, è sensibile al sacro e possiede una dimensione spirituale. Personalmente, sono convinto che non ci sia distanza fra l’apparizione dell’uomo e l’apparizione del suo pensiero religioso. L’uno e l’altro sono parti di una stessa condizione». 

Quali ricerche concrete paiono 

provarlo? 

«Non è semplice sugli esseri più antichi scoprire delle dimostrazioni di questa dimensione religiosa. Ma abbiamo ad esempio degli elementi che provano il trattamento dei morti fin da un milione di anni fa, o ancor prima. All’inizio, questi trattamenti furono forse un po’ rudimentali, ma restano comunque dei trattamenti.

Mostrano che l’uomo tratta i suoi morti con un altro occhio, altri sentimenti, rispetto agli animali». 

Le recenti celebrazioni di Darwin hanno riacceso lo scontro fra darwinisti puri e duri, per così dire, e neodarwinisti.

Scientificamente, resta un dibattito costruttivo? 

«Le concezioni di Darwin hanno centocinquant’anni. Da allora, la scienza ha fatto progressi considerevoli. È evidente che la selezione naturale predicata da Darwin resta verificata, ma oggi si riconosce che la parte dovuta al caso è molto inferiore rispetto a quanto Darwin immaginasse.

Darwin non conosceva le leggi dell’eredità e tanto meno ciò che oggi chiamiamo epigenetica. In altri termini, l’evoluzione è molto più complessa e diversificata di quanto egli pensasse. L’opera di Darwin resta esemplare e continua ad ispirarci. Ma l’evoluzione come oggi la intendiamo non può più essere definita col nome di darwinismo. Darwinismo ed evoluzione sono ormai due parole ben separate, anche se il darwinismo rappresentò una delle origini della riflessione sull’evoluzione». 

Quale le pare oggi la più grande sfida per la conoscenza della preistoria? 

«Credo sia proprio una migliore comprensione delle modalità dell’evoluzione. Sappiamo che l’evoluzione è una realtà. Ma non conosciamo tutti i meccanismi che essa utilizza per realizzarsi. La biologia, la genetica e la paleontologia hanno ancora molte ricerche da compiere per approdare a una comprensione collaudata e condivisa». 

Nel suo libro in uscita in Italia, lei si sofferma anche sul pensatore e scienziato gesuita Pierre Teilhard de Chardin. In che senso, la sua lezione resta attuale? 

«Sono molti gli aspetti attuali della sua riflessione. Teilhard fu grande innanzitutto perché seppe ben percepire la continuità della storia dell’universo, della Terra, della vita e dell’uomo. Ma anche perché intuì e anticipò l’evoluzione dell’umanità con le sue odierne reti. Del resto, potremmo benissimo chiamare internet 'noosfera'. Merita di essere riletto e meglio compreso».