domenica 19 settembre 2010

il Fatto 18.9.10
Clinton, Fidel. L’umanità dov’è?
di Massimo Fini

La Fiat trasferirà la produzione della nuova Panda da una fabbrica polacca a Pomigliano, cosa che se risolve i problemi dei lavoratori di Pomigliano ne creerà altri a quelli polacchi. Nel contempo la Fiat dislocherà da Mirafiori, portandola in Serbia, una nuova produzione, il che se farà contenti gli operai serbi, anche quando non dovesse portare alla disoccupazione di quelli di Mirafiori sicuramente renderà molto più difficile l'ingresso nel mercato del lavoro di migliaia di giovani italiani. Il capitale, essendo mobile, non conosce frontiere né amor di Patria, segue solo il suo interesse. Già cinque secoli fa Giovanni Botero ammoniva sul “pericolo che sorge per lo Stato quando la base della proprietà della classe dominante è costituita da beni mobili che in tempi di pubbliche calamità si possono portare al sicuro, mentre gli interessi dei proprietari terrieri sono legati indissolubilmente alla Patria”. Il capitale se nel Paese in cui è stato accumulato trova delle difficoltà va altrove. Sul Corriere della Sera Raffaella Polato ipotizza che se a Marchionne non fossero date le condizioni che chiede risponderebbe: “Il mondo è grande”. Ma se il denaro può andarsi a cercare liberamente il luogo della Terra dove ritiene di esser meglio remunerato, lo stesso dovrebbero poter fare gli uomini. A meno che non si voglia sostenere l'aberrante tesi che il denaro ha più diritti degli uomini. Invece è proprio ciò che accade. Mentre il capitale evoluisce liberamente per l'universo mondo, agli spostamenti delle popolazioni, soprattutto dei Paesi cosiddetti "sottosviluppati", che spesso sono state rese miserabili proprio dall'irruzione di quel capitale che, con le sue dinamiche, le ha sottratte alle "economie di sussistenza" su cui avevano vissuto e a volte prosperato per secoli, vengono posti limiti sempre più ferrei in attesa di prendere i "migranti" a mitragliate. Sulla globalizzazione ci sono solo due posizioni coerenti. Quella dei radicali italiani che sono per una totale libertà di movimento dei capitali ma anche per una altrettanto totale libertà di movimento degli uomini. E quella che sta all'estremo opposto, e che per ora è puramente concettuale, di chi dice no all'immigrazione ma rinuncia anche ad andare a piazzare le sue puzzolenti e devastanti fabbriche in Niger, in Nigeria, in Bangladesh, in Marocco o altrove. Tutto ciò che sta nel mezzo, sì alla globalizzazione dei capitali, no a quella degli uomini, è di una violenza inaudita e ripugnante. Eppure sia la destra che la sinistra sono a favore della globalizzazione. Bill Clinton a un forum del Wto del 1998 ha dichiarato: “La mondializzazione è un fatto e non una scelta politica” e Fidel Castro di rincalzo, nello stesso Forum: “Gridare abbasso la globalizzazione equivale a gridare abbasso la legge della gravità”. Ed è vero se al centro del sistema noi mettiamo l'economia: tutto deve adeguarsi ad essa. Ma sarebbe altrettanto vero se al centro del sistema mettessimo uno spillo, tutto dovrebbe girare intorno allo spillo. L'economia non è stata sempre al centro del sistema. In epoca preindustriale era inglobata nelle altre e molteplici esigenze umane al punto che era indistinguibile da esse, e non è un caso che l'economia politica, come scienza, o presunta tale, sia coeva alla Rivoluzione Industriale. Aver puntato tutto sull'economia, emarginando ogni altro bisogno dell'essere umano, si è rivelato un fallimento epocale come ognuno oggi, con gran ritardo, può vedere. È un Moloch che pretende sacrifici umani, massacri, alle popolazioni del Terzo e ora anche del Primo mondo. Io credo che al centro del sistema vada rimesso l'uomo e l'economia riportata al ruolo marginale che ha sempre avuto finché abbiamo avuto una testa per pensare.

Agi 19.9.10
Sininistra: Ginsborg, Foa e Lombardi due grandi della storia politica
Roma, 19 set. - Due ricorrenze, il centenario della nascita di Vittorio Foa e il 26esimo della morte di Riccardo Lombardi, due veri 'amici compagni', di alto spessore di una nobile tradizione della politica italiana che senz'altro meritano grande attenzione. Lo dice lo storico inglese Paul Ginsborg, docente di Storia dell'Europa contemporanea nella Facolta' di Lettere di Firenze, estimatore di Foa e Lombardi, il 'Riccardo cuor di socialismo'. "Ci sono due ragioni - spiega Ginsborg - perche' i due meritano grande attenzione. La prima, per aver sempre messo al centro delle loro riflessioni, piu' Foa in quanto sindacalista di Lombardi, la classe operaia, i ceti popolari quali soggetti e non oggetti della storia. In entrambi pero' c'era una forte sensibilita' per i ceti popolari che oggi e' andata persa". E di cui c'e' bisogno. "La seconda ragione - prosegue Ginsborg - l'attenzione costante per la democraticita' delle 'riforme cumulative', e su questo versante si e' distinto di piu' Lombardi, che attivano ulteriori e piu' avanzati spazi di democrazia per la politica e la vita del Paese". Le ben note 'riforme di strutture'. "La visione delle 'riforme cumulative' si distanziava enormemente - conclude lo storico - dal modello della socialdemocrazia: non andavano calate dall'alto verso il basso, ma dovevano partire, andavano costruite dal basso". Un altro storico, estimatore dei due 'eretici' della sinistra italiana, Marco Revelli, parla di "figure centrali della vita politica del nostro Paese". E poi, riferendosi a Lombardi, ne mette in risalto "il carattere coraggioso, trasgressivo, la sua capacita' di guardar lontano: e se per alcuni anni non ha avuto giustizia, lasciato un po' da parte, ora, in realta', sta avvenendo una nuova riscoperta, segno che - evidenzia - alla distanza i cavalli di razza vincono sempre". L'economista di Firenze Anna Pettini, infine, riprende "il sogno (1967, anticipatore dell'autunno caldo) dell''acomunista' Lombardi di 'una societa' diversamente ricca'. Un tema forse troppo anticipatore per quei tempi ma che ci consente, oggi, con strumenti diversi di affrontarlo e di renderlo oggetto di ulteriori ricerche. Quella di Lombardi - conclude la Pettini - fu un'intuizione di un tema che oggi si ripropone quanto mai attuale". Pat

l’Unità 19.9.10
Il segretario Pd «Abbiamo i luoghi per discutere. Giovedì c’è la direzione, ne parleremo lì»
Bersani: stop alle polemiche «Io adesso parlo di Italia»
Il leader Pd in Emilia: «Basta guardarsi le scarpe, ci servono per camminare. Veltroni? Si discute in direzione, io parlo di Italia». Attacco alla Lega: «È ora di cantargliele, sul radicamento ci fanno un baffo...».
di Andrea Carugati

Tira dritto, Pierluigi Bersani. Sotto il fuoco dei 75 di Veltroni, il leader Pd si gode la standing ovation che lo accoglie alla festa dell’Unità di Modena, non appena il segretario locale Davide Baruffi parla di «solidarietà» verso il segretario. Della necessità di fare quadrato attorno al quartier generale sotto assedio. Bersani, dal canto suo, approfitta della giornata in cui Veltroni ha un po’ abbassato il livello dello scontro per rivolgere una serie di appelli all’unità e soprattutto per spostare il fuoco dell’attenzione verso altri temi, più concreti.
IL CORAGGIO E LA BUSSOLA
«Abbiamo i luoghi per discutere, giovedì c’è la direzione e ne parleremo lì. Io da adesso parlo di Italia, le altre cose ce le vedremo nei nostri organismi». E ancora: «Io non rifiuto il dialogo, ma non stiamo sempre a guardarci la punta delle scarpe, perché le scarpe ci servono per camminare». «Farò di tutto per evitare ulteriori divisioni», risponde al vicedirettore dell’Unità Pietro Spataro che lo intervista. «Dobbiamo fare squadra, parlare al Paese ed evitare discorsi politicisti». Ma il Pd non ha abbastanza coraggio? Ha perso la bussola? «La bussola c’è», risponde Bersani. «E il coraggio è stare dove ci sono i problemi, accanto ai precari, nella fabbriche, alle primarie voglio che si parli di questo, delle proposte per il Paese». Parisi e Veltroni propongono una mozione di sfiducia al governo? «È certamente una iniziativa possibile, ma va valutata con tutte le forze di opposizione», spiega Bersani. «Che Berlusconi debba andare a casa non c’è dubbio. Le azioni e le tattiche le devono vedere bene i gruppi parlamentari. Noi dobbiamo restringere i campi di azione di Berlusconi e mai allargarli». E le modifiche allo statuto chieste da Chiamparino per candidare alle primarie anche chi non è leader del Pd? «Quando lo dicevo io tutti mi davano torto, adesso vedo che finalmente sono d’accordo con me...», sorride. E il “papa straniero”, il “nuovo Prodi” invocato dai 75 per guidare il centrosinistra? «Proprio non capisco l’esempio», dice Bersani. «Prodi è stato il “meno straniero” di tutti noi...». Anche sulla compravendita di deputati, ulteriore tema su cui ieri Veltroni l’ha spronato a fare la voce grossa, il leader Pd non si tira indietro: «Una compravendita vergognosa, che comunque non risolve la crisi della maggioranza, qualunque cosa impapocchino sarà comunque debole, alla fine della legislatura non ci arrivano».
ATTACCO ALLA LEGA
Ma le critiche più feroci sono per la Lega: «Se poi arriveremo ad avere un governo Berlusconi-Bossi-Cuffaro alla Lega glielo dobbiamo ricordare tutti i giorni». «Alla Lega è arrivata l’ora di cantargliele», attacca. «Dobbiamo assumere un atteggiamento più netto, preciso e combattivo, noi nei confronti della Lega non abbiamo mai avuto la puzza sotto il naso, non siamo mai stati snob, ma parliamo chiaro, come parla chiaro la loro e la nostra gente». «Non prendiamo lezioni sul radicamento: 2.120 feste... la Lega ci fa un baffo». E ancora, «sul federalismo arrivano solo chiacchiere e schiaffoni agli enti locali. Ma cosa vuol dire ”il federalismo la và a poche ore?”. Qua l’unica cosa certa è che i Comuni non sono in grado di fare i bilanci». Altra stoccata: «Non vogliamo più sentire “Roma ladrona” da voi da voi che state con i 4 ladroni di Roma», dice rivolgendosi direttamente ai leghisti. «Dobbiamo ricordare alla Lega che ha votato tutte le leggi che hanno favorito la corruzione, non solo le leggi ad personam Noi quelle leggi le cancelleremo tutte». Infine una tiepida apertura di credito al Senatur: «Mi aspetto una Lega che mentre sembra la più attaccata a Berlusconi, le sue riflessioni poi le fa, Bossi vuole avere le mani un po’ più libere...».
Verso Fini parole più tenere. «Sono pronto domattina a discutere con lui in Parlamento come vogliamo fare la riforma elettorale», dice il leader Pd, che però torna a chiedere «coerenza» a Fli: «Nel discorso a Mirabello ha messo in evidenza una serie di anomalie, come la Rai, ora mi aspetto comportamenti coerenti». Ma Fini entra nel nuovo Ulivo? «Lui ha in mente una destra moderna, e chiariamolo una volta per tutte: non potrà certo far parte del nuovo Ulivo!».

Repubblica 19.9.10
La sinistra divisa tra realisti e sognatori
di Eugenio Scalfari

PRIMA (ma necessaria) premessa. A me non piace il politichese. Non mi piace come linguaggio e cerco infatti di tenermene lontano; ma non mi piace neppure come argomento anche perché – ne sono certo – non piace neppure ai nostri lettori. Voglio rubare a Franco Marcoaldi le parole con le quali chiude il suo spettacolo "Sconcerto" che ha avuto all´Auditorium di Roma tre serate di grande successo: «Le cose sono quello che sono. Un´arancia è un´arancia. Una casa è una casa. La pioggia che cade è la pioggia che cade». Ecco. Ai nostri lettori piace questo linguaggio ed anche a me.
Seconda premessa. La comparsata di Berlusconi alla cena che ha concluso il vertice di Bruxelles tra i capi di governo dell´Unione europea è stata semplicemente scandalosa. Si parlava dei "rom", alias zingari. Sarkozy li sta cacciando dalla Francia ancorché – come lui stesso ha detto – metà di loro siano cittadini francesi. La Commissione europea è contraria ad una politica che colpisce un´etnia anziché singoli responsabili di eventuali reati. Il nostro premier gli ha fatto eco per ingraziarsi la Lega. La Francia, due secoli e mezzo fa, esportò in Europa e nel mondo lo slogan "fraternità" insieme a quelli di libertà ed eguaglianza. Sarkozy si è messo sotto i piedi la fraternità e Berlusconi ha fatto altrettanto e in più si sta mettendo sotto i piedi anche gli altri due principi che hanno costituito il fondamento della modernità liberal-democratica. Questo modo di comportarsi di chi rappresenta il nostro Paese mi fa vergognare d´essere italiano.
Terza premessa. Il governo italiano, il ministro dell´Economia, le principali agenzie economiche internazionali hanno pochi giorni fa diffuso informazioni secondo le quali il peggio della crisi economica era ormai alle spalle. La Confindustria ha fatto eco. I vari indici economici, a cominciare dal Pil dei vari paesi, sono stati corretti al rialzo. Ma tre giorni fa la Banca d´Italia ci ha informato che il debito pubblico ha raggiunto nuove vette mentre le entrate tributarie registrano una netta diminuzione rispetto all´anno precedente. La Confindustria dal canto suo ha comunicato che la produzione industriale è ai minimi storici, l´evasione fiscale è salita ai massimi e nei prossimi mesi saranno distrutti altri trentamila posti di lavoro nell´industria manifatturiera. Per conseguenza i principali indici economici sono stati rivisti al ribasso. Questi Soloni dicono a distanza di pochi giorni o di poche ore una cosa e il suo contrario. Trovo vergognosi questi comportamenti. Lo ripeto: un´arancia è un´arancia e la pioggia che cade è la pioggia che cade.
Fatte queste premesse, oggi è d´obbligo che mi occupi di quanto sta accadendo nel Partito democratico e nel vasto arco della pubblica opinione orientata a sinistra e comunque all´opposizione nei confronti dell´anomalia berlusconiana. Nel centrodestra è in corso una crisi devastante e tutt´altro che conclusa. Sono in corso manovre da calcio mercato di deputati e senatori comprati e venduti, di mini-ribaltoni consumati sotto gli occhi di tutti. Ci potrebbero persino essere estremi di reato per voto di scambio. Ma la sinistra non trae finora alcun beneficio dal marasma della maggioranza. Perché?
Questo è il mio tema di oggi. Domenica prossima, se non accadranno sconquassi peggiori, vorrei esaminare il tema dell´amore e della sua storia. Spero proprio di poterlo fare.
* * *
I sondaggi, per quel che valgono, danno nelle intenzioni di voto il Pdl leggermente sotto al 30 per cento, la Lega tra l´11 e il 12, il Pd tra il 25 e il 26, Di Pietro al 5, Vendola al 5, Casini tra il 5 e il 6, Fini al 7.
La platea di chi non ha ancora deciso al 30 per cento, quelli che comunque non voteranno, al 20. Perciò le intenzioni di voto sopra indicate riguardano la metà del corpo elettorale. I valori reali di quei numeri vanno dunque ridotti della metà, il che significa che il partito di Berlusconi rappresenta oggi il 15 per cento del corpo elettorale e il Partito democratico il 13. Un´arancia è un´arancia.
Finora il Pd non ha tratto alcun beneficio quantitativo dalla crisi del centrodestra, ma neanche Di Pietro e – a guardar bene – neanche la Lega. Il deflusso dal Pdl è andato in buona parte a Fini e in altra parte all´area delle astensioni e o a quella di chi non ha ancora deciso se votare e per chi.
Il Pd non ha "appeal" (stavo per scrivere "sex appeal") Bersani da qualche tempo è più incisivo, ma ha ancora un´aria da buon padre di famiglia, di buonsenso, ma non certo da trascinatore. Bersani non fa sognare. Non è il suo genere e credo che non gli piaccia.
Shakespeare dice nella "Tempesta" che la nostra vita è fatta della stessa stoffa di cui son fatti i sogni. Beh, Pierluigi Bersani non è fatto di quella stoffa. Berlusconi – incredibile a dirsi – invece sì. Solo che, come capita a tutti i ciarlatani, spesso la stoffa dei suoi sogni si strappa come il cerone che si mette in faccia e dagli strappi si vedono le vergogne.
Questa comunque è la situazione.
* * *
Quello che con un po´ di enfasi possiamo chiamare il popolo di sinistra si divide in due diverse tipologie: chi vuole sognare e chi vorrebbe progetti concreti su temi concreti che interessano la vita di tutti.
I temi concreti, più o meno, coincidono con quelli sui quali Berlusconi il prossimo 28 settembre chiederà la fiducia alla Camera: la riforma fiscale, la giustizia, il federalismo, il Mezzogiorno, la sicurezza. I finiani li voteranno perché, allo stato dei fatti, sono soltanto titoli di cinque temi tutti da svolgere. Lo svolgimento e il consenso sullo svolgimento si vedranno dopo.
Quegli stessi temi interessano anche il popolo di sinistra e i partiti che in qualche modo vogliono rappresentarlo. Specialmente i riformisti del Pd. I quali dovrebbero nel frattempo produrre il loro proprio svolgimento di quei temi. Finora questo svolgimento non c´è stato oppure è stato parziale e generico.
Ma il popolo di sinistra e i partiti hanno anche altri temi non meno importanti: l´occupazione, le tasse sul lavoro e sulle imprese, la crescita dell´economia e dei consumi, la lotta all´evasione, la diminuzione delle diseguaglianze nella distribuzione del reddito e dei patrimoni. Ed anche il conflitto di interessi e la legge elettorale per sostituire il vergognoso "porcellum" escogitato tre anni fa da quel sinistro burlone di Calderoli.
Come si vede, di carne da mettere al fuoco ce ne sarebbe in abbondanza, ma finora i cuochi si sono occupati d´altro. Non si sa bene di che cosa.
E poi c´è quella parte di popolo che vuole sognare. Va detto per la precisione che spesso il desiderio di programmi concreti e di sogni alberga nella stessa persona. Per soddisfare quest´intreccio che anima l´intero corpo elettorale in tutti i paesi liberi e democratici ci vogliono leader carismatici.
Carismatici sì, ma anche capaci di governare. Non dico governare nel senso ristretto dei ministeri, ma governare organizzazioni complesse, grandi enti territoriali, processi di forze umane in movimento.
Non sempre le persone che hanno carisma hanno familiarità con strutture complesse da governare e, viceversa, non sempre anzi quasi mai persone capaci di governare possiedono carisma. Per di più il cosiddetto popolo della sinistra considera i volti dei leader di partito come nomenklature spremute e non più utilizzabili. Non tutti ragionano in questo modo, ma molti sì. Il corto circuito di questo modo di sentire è un´ipotesi e un pericolo che va segnalato e analizzato con grande attenzione.
* * *
Chi può provocare il corto circuito è Nichi Vendola. In misura molto minore Grillo. In misura minima, il sindaco di Firenze, Matteo Renzi. Sfasciacarrozze per carattere e/o per convenienza. C´è chi ama gli sfasciacarrozze, ma per fortuna sono pochi. Il popolo di un paese, anche un po´ sballato, è più serio e più intelligente di quanto si pensi. Se è furbo e un po´ malandrino come molti sono, ha sempre una goccia di saggezza nei momenti di svolta e questo è uno di quelli.
Ma Vendola è un´altra cosa e il discorso su di lui va affrontato diversamente. Ha carisma, non c´è dubbio. Il suo strumento è la parola, l´affabulazione, il suo racconto della situazione. Vendola racconta benissimo la situazione. Chi cerca il sogno, nelle sue parole lo trova. Sa governare? Non c´è prova, né pro né contro. Solo questo: la maggioranza dei pugliesi, anche molti che non amano la sinistra lo hanno votato. Come amministratore non lo approvano un granché e la situazione della sanità in Puglia non gioca certo a suo favore.
Ce lo vedo poco un Vendola a Palazzo Chigi alle prese con i capi di governo stranieri, con le banche, con gli imprenditori, con Marchionne. Comunque non è questo il punto.
Il punto è che Vendola vuole fare a pezzi il Pd e tutti i partiti e con i frammenti sparsi sul terreno costruire intorno a lui la sinistra italiana. La sinistra, non il riformismo. Il suo obiettivo non è di battere Berlusconi. Avere Vendola come avversario per Berlusconi sarebbe una carta vincente. Lui lo sa ma non è questo che lo interessa. Vuole costruire la sinistra. Vuole fare le primarie, ma dove e contro chi? Per fare le primarie di coalizione dovrebbe prima costruire un´alleanza con il Pd, ma non ci pensa neppure. Le primarie le farà con se stesso o comunque alle sue condizioni.
Esercita notevole attrazione sul popolo di sinistra, stufo delle nomenklature e qui sta il corto circuito. Vendola può costruire una nuova sinistra intorno a sé che starà però per vent´anni all´opposizione sfrangiandosi un anno dopo l´altro.
Oppure Vendola dovrebbe fare un programma e una squadra capace di governare. Ma non pare sia questa la sua strada, ragione per cui il corto circuito è possibile e sarebbe una iattura. Lo scrivo con molta simpatia per il governatore della Puglia che in Puglia ha vinto, ricordiamocelo, perché la Poli Bortone ottenne l´8 per cento dei voti e non li portò a Fitto ma se li tenne ben stretti.
* * *
Ora sulla scena del Partito democratico, già notevolmente affollata, è ritornato anche Veltroni con un suo documento-proposta che è stato firmato da 75 deputati, circa un quarto dei parlamentari del Pd.
Non è un documento di rottura anche se giornali e televisioni (con l´eccezione di Mentana e nostra) si sono precipitati a dipingerlo come tale. Per il complesso del circo mediatico infatti l´equilibrio è fatto non tanto di verità ma di equidistanza e quindi niente di meglio che affiancare allo sfaldamento del centrodestra l´analogo sfaldamento del centrosinistra. Questo sfaldamento minaccia di esserci e ne ho indicato prima alcune ragioni e alcune rilevanti personalità che puntano in quella direzione, ma non mi pare che il rientro di Veltroni ne sia la causa.
L´ex segretario e in qualche modo fondatore al Lingotto del Pd è partito dalla constatazione dello scarso "appeal" del suo partito e dalla necessità di riportare in linea i tanti che se ne sono allontanati. Le intenzioni sono buone se contenute in questi limiti. Purtroppo per il Pd, Veltroni non è un uomo nuovo e soffre quindi del logoramento di tutta la classe politica italiana. Sarà pure un errore discriminare i politici con questo semplicissimo criterio del nuovismo, un errore di incultura e di semplicismo, ma è un dato di fatto come attesta l´area dell´indifferenza e dell´assenteismo che i sondaggi hanno quantificato.
Proprio perché se ne rende conto Veltroni parla di un "papa straniero" come fu a suo tempo Romano Prodi, che guidi il riformismo di centrosinistra mettendo insieme il carisma del leader e le capacità di governo che la politica richiede.
Sarà difficile trovarlo un "federatore" che corrisponda all´identikit, ma questa è la scommessa per vincere questo durissimo scontro in difesa della democrazia, della libertà, dell´eguaglianza e della fraternità, offese e ferite.


Corriere della Sera 19.9.10
L’ex leader soddisfatto: ho evitato un ritorno al ’94
«Partito di nuovo al centro dell’iniziativa». Tensione tra gli ex ppi
di Maria Teresa Meli

ROMA — Una faida si chiude (almeno per il momento) e se ne apre un’altra. Gli ex Ds, di comune accordo, abbassano i toni. Lo fa Walter Veltroni, che non vuole attirarsi addosso altre accuse di intelligenza con il nemico. Lo fa Pier Luigi Bersani, sebbene non riesca a nascondere un profondo fastidio per il fatto che un quarto del partito gli sia sfuggito di mano. Tra gli ex popolari, invece, la guerriglia continua.
Pier Luigi Castagnetti, ma soprattutto Franco Marini e Dario Franceschini, non hanno digerito il fatto che Beppe Fioroni abbia portato con sé un consistente drappello di ex ppi, peraltro di quelli che hanno i voti. Perciò continuano a tartassare i firmatari del documento dei 75 di telefonate. E insistono perché anche Fioroni e i suoi vadano alla riunione degli ex popolari di martedì, benché finora abbiano ricevuto un fermo diniego.
A rischio, a questo punto, anche l’incontro di mercoledì di Area Democratica. Potrà tenersi solo se si stempereranno gli animi. Segnali che vanno in questa direzione, finora, non si colgono. Franceschini ha ancora il dente avvelenato con Veltroni. L’altro ieri il suo portavoce Piero Martino, alla Camera dei Deputati, ha inveito contro Walter Verini, fedelissimo dell’ex segretario. E ieri, di fronte alla richiesta di Arturo Parisi, appoggiata da Veltroni, di una mozione di sfiducia contro il governo, il capogruppo ha fatto replicare al suo ufficio stampa che questa iniziativa è prevista solo per quel che riguarda Berlusconi come ministro per lo Sviluppo economico. Sfiducia individuale, quindi. Peccato che, invece, Bersani abbia aperto a quella proposta di Parisi. Può sembrare questione di lana caprina, e lo è, ma proprio per questo è indicativa dello stato di fibrillazione che agita il Partito democratico.
Nel frattempo Veltroni, l’uomo che ha acceso la miccia (ma lui non sopporterebbe di essere definito così), si è ripreso dal contraccolpo causato dal fuoco concentrico a cui è stato sottoposto: dichiarazioni, attacchi su Facebook, di tutto un po’. «Metodi antichi», secondo l’ex leader. E, ora, rilassato, e convinto di aver fatto bene — «sentivo che era giusto agire in questo modo» — tende una mano a Bersani, per fargli capire che non è stato mosso dal rancore personale. E ai suoi, dopo l’intervento di Orvieto, spiega che cosa lo ha convinto a compiere gli ultimi passi e a presentare un documento che, secondo la vulgata della maggioranza doveva raccogliere solo 20 firme e invece ne ha avute 75. «Diciamoci la verità — è il ragionamento di Veltroni —, Berlusconi non cade adesso, andrà avanti ancora altri mesi. E allora, se non si discute ora, quando lo facciamo? Dopo le elezioni per poi scaricare le colpe di un’eventuale sconfitta, o, in caso di vittoria, per mettere in piedi una coalizione eterogenea?».
Insomma, l’assillo di Veltroni era quello che il Pd gettasse la polvere sotto il tappeto di un’unità fittizia. E questo non gli andava proprio giù. Forse anche perché gli bruciava il ricordo — quello sì personale — di quando, dopo le elezioni, alcuni big del partito ne avevano criticato le scelte politiche, benché prima del voto non avessero mai sollevato un’obiezione. Ma sopra ogni altra cosa lo inquietava la deriva che sembrava prendere il suo partito: «Ho visto il rischio che si ripetesse la storia del ’94, che diventassimo un partito solo di sinistra e non di centrosinistra». Già, un’altra alleanza dei Progressisti, questa volta con Ferrero, Diliberto e chissà chi altro, un’altra gioiosa macchina da guerra.
Dunque, è soddisfatto, alla fine, Veltroni. Non delle beghe e delle polemiche, naturalmente, ma perché, come dice ai suoi, «si è riaperta una discussione che riporta il Partito democratico al centro dell’iniziativa politica». Qualcuno ha interpretato la sua decisione di abbassare i toni come una retromarcia. Così non è: per l’ex segretario è finito il tempo di tacere. Con i 75 avanzerà al partito «proposte innovative» nel campo dell’economia, del sociale e delle riforme istituzionali, nella speranza che il Pd tutto le faccia proprie. Altrimenti? Altrimenti i 75 andranno avanti ugualmente.

Corriere della Sera 19.9.10
Elettori pd, il 60 per cento vuole andare alle urne
Di Pietro l’alleato preferito, partito spaccato a metà su Ferrero e Diliberto nelle liste
di Renato Mannheimer

Il dibattito all’interno del Pd si è fatto rovente e rischia di minare ancor più l’unità del partito, peraltro mai raggiunta dalla fondazione ad oggi. L’aspetto in qualche modo paradossale della vicenda è che essa si dipana proprio nel momento in cui i partiti di governo appaiono maggiormente disuniti al loro interno e ci sarebbero grandi opportunità per un’opposizione forte e decisa.
In realtà, come ha osservato Massimo Franco, le crisi in atto nei due poli mostrano significative similitudini, specie nel manifestarsi del disagio della minoranza interna. In entrambi i casi, esso è in buona misura originato da una circostanza che accomuna il Pd e il Pdl: la debolezza attuale in termini di consenso elettorale. Il Pdl viene stimato oggi attorno al 30%, vale a dire ben 7 punti in meno dell’esito delle ultime Politiche e più di 5 punti in meno rispetto alle Europee che si sono svolte poco più di un anno fa. Sul fronte opposto, il Pd ottiene, secondo i sondaggi, una percentuale attorno al 25-26%, anch’essa inferiore di 7 punti al risultato delle Politiche e poco sotto a quello delle Europee.
Per l’uno e per l’altro è in atto un travaso di consensi verso le forze politiche minori. È un segno della disaffezione crescente dell’elettorato per i grandi partiti e della voglia, al tempo stesso, di una rappresentanza più specifica e diretta, cui corrisponde, come si è già sottolineato su queste colonne, una crescente simpatia per il «vecchio» sistema elettorale proporzionale.
Di fronte a questo stato di cose, la base elettorale attuale di entrambi i partiti maggiori — ma in particolare del Pd — appare frantumata e confusa. Le opinioni espresse dai votanti riflettono in buona misura la disparità di posizioni esistente ai vertici.
Ad esempio, alla richiesta sulle alleanze più opportune nella prospettiva di elezioni politiche anticipate, gli elettori del partito di Bersani indicano opzioni diverse e variegate. Solo poco più di un quarto (27%) esclude la possibilità di accordi con altre forze politiche e auspica il correre da soli. Tra gli altri, la maggioranza relativa (30%) suggerisce il proseguimento dell’alleanza con Di Pietro. E una quota di poco inferiore (28%) si aspetta un’apertura alle componenti più «radicali» dello scenario politico, quali Rifondazione, Comunisti italiani, Sinistra ecologia e libertà. Ma, al tempo stesso, vi è anche chi la pensa in modo opposto e guarda con simpatia a una collaborazione con l’Udc di Casini (23%) o con Alleanza per l’Italia di Rutelli (14%) o addirittura Futuro e Libertà di Fini (10%).
Altrettanto divisa appare l’opinione della base del Pd sull’opportunità (annunciata ufficiosamente, ma subito seccamente smentita dallo stesso Bersani) di inserire nelle liste del partito esponenti di Rifondazione e Comunisti italiani. Al riguardo, si registra una spaccatura che separa quasi esattamente a metà gli elettori Pd, con solo una lieve prevalenza (51%) dei contrari a questa ipotesi.
A fronte di questa disunità di opinioni, un elemento che caratterizza più trasversalmente i votanti per il Pd è l’insoddisfazione crescente per la situazione attuale. Tanto che, a differenza della gran parte del restante elettorato, la maggioranza (60%) della base Pd invoca al più presto le elezioni anticipate. Non tanto come scelta tattica quanto, soprattutto, come reazione alla stanchezza e al disagio per il permanere al potere del governo Berlusconi.
Davanti a questo stato di cose, Bersani non può che cercare, come in parte sta già facendo, di ricompattare l’unità — e, se possibile, l’entusiasmo — dei suoi elettori con proposte programmatiche, sui temi e sui problemi concreti posti dalla situazione attuale del Paese. Tentando di persuadere quella parte crescente (negli ultimi sondaggi più del 35%) di italiani che esprime disaffezione nei confronti della politica nel suo insieme e che manifesta sempre più forte indecisione sulla scelta elettorale, tanto da essere tentata di passare all’astensione. Un fenomeno, questo, assai significativo e troppo spesso sottovalutato dai leader politici.

Corriere della Sera 19.9.10
Di Pietro: democratici in decomposizione
di Alessandra Arachi

L’ex pm: «Veltroni radiologo del partito». Applausi al finiano Granata che però frena sulla sfiducia al premier: non passeremo per traditori

VASTO (Chieti) — È di una bellezza che stordisce lo squarcio che si vede dall’alto di Palazzo D’Avalos, a Vasto aperto al pubblico soltanto per le feste dei matrimoni. E per l’annuale festa dell’Italia dei Valori di Antonio Di Pietro. Ieri c’erano tutti e due. E, gioco della sorte, in mattinata gli applausi per gli sposi hanno accompagnato ritmicamente le dichiarazioni sferzanti del Tonino nazionale.
In platea Il leader Idv Antonio Di Pietro mentre, seduto venerdì in platea, scherza con Don Antonio Mazzi, fondatore della comunità «Exodus»
Raffiche di parole quelle di Di Pietro, lontano da un palco che ieri non prevedeva alcuna sua recita. Veltroni, cosa sta facendo? «Veltroni è il radiologo di un Pd in decomposizione. Nella linea Maginot siamo rimasti in pochi».
E davvero le alleanze con Fini e Casini sono impossibili? «Fini deve decidere che fare. Non può andare a fare un dibattito con Veltroni e Saviano sulla legalità e poi votare la fiducia a Berlusconi. Perché non prende coraggio? Il tempo di un battito di ali di farfalla. Poi torni a fare il leader della destra. Lo stesso vale per Casini: che opposizione fa se poi vota a favore del lodo Alfano?».
Il palco nel pomeriggio sarà affollatissimo per un dibattito sulla giustizia dove Luigi De Magistris e Sonia Alfano, Luigi Li Gotti, Bruno Tinti e Fabio Repici accoglieranno a braccia aperte l’intervento di Fabio Granata. E gli applausi si sprecano per il più agguerrito tra i finiani, che arriva persino a dubitare di potere dare il via libera allo scudo di protezione per il premier. Ma fuori dal palco, Granata non esita davanti alla domanda diretta sul voto di fiducia a Berlusconi? «L’appello di Di Pietro è comprensibile, ma non è lui che ci deve dare la linea. E noi non vogliamo dare a nessuno il vantaggio di chiamarci traditori».
Sul palco del pomeriggio c’è un momento di profonda commozione quando Sonia Alfano ricorda Angelo Vassallo, il sindaco di Pollica ucciso perché difensore della legalità: tutta la platea si alza in piedi, battendo forte le mani.
Fuori dal palco, invece, verso sera Di Pietro si sforza per fornire un’esegesi morbida sulla sua frase sul Pd in decomposizione. «Nessun attacco, anzi. Ho soltanto notato che il Pd sta facendo quello che è stato fatto nel Pdl. Ma il mio è un invito alla maggiore unità possibile». Anche Massimo Donadi, capogruppo dell’Idv alla Camera, non esita a rinforzare il concetto: «Il governo è al capolinea. Berlusconi è costretto a fare il mercante per recuperare qualche deputato. Questo non è il momento delle divisioni ma dell’unità da costruire subito, basata su un programma e non sui nomi».

l’Unità 19.9.10
La frase di Salvemini: «Datemi una soggettività sociale e vi solleverò il mondo»
Colloquio con Alfredo Reichlin
«Siamo fuori partita. È urgente elaborare un’idea di società»
Il Pd vittima del grande abbaglio del “secolo breve” non ha saputo individuare i nuovi soggetti del cambiamento. E così rischia l’irrilevanza
di Giovanni Maria Bellu

Sorpreso.. preoccupato... allibito...», dice Alfredo Reichlin commentando le ultime vicende del Partito democratico. Il tono non è quello di chi sta cercando di individuare il participio più appropriato: è quello di chi è sorpreso (preoccupato, allibito) per essere stato interrotto in modo inopportuno nel mezzo di un ragionamento complesso. Il ragionamento che Reichlin sta sviluppando da tempo sui cinque lustri di questa interminabile «fase politica» e sulla difficoltà del Pd «a entrare in partita»: «Continuiamo a litigare sugli schieramenti e sulle alleanze e ancora non sappiamo nemmeno con quale legge elettorale si voterà, né quando. La verità è che non siamo stati in grado di elaborare e di proporre una nostra idea di società».
Questa frase così appropriata e attuale, così “sulla cronaca” è stata pronunciata all’inizio della settimana scorsa. E dunque il suo autore oggi avrebbe qualche motivo per accogliere la polemica attorno alle dichiarazioni di Veltroni con la soddisfazione di chi vede confermata una tesi. Solo che Alfredo Reichlin con i suoi 85 anni e la sua lunghissima storia di politico e di intellettuale evidentemente condivide, anche se per riguardo non lo esplicita, lo stato d’animo della base democratica. Quello che, ormai a ogni “bufera tra leader”, ne produce automaticamente un'altra fatta di «Uff». Insomma, non gli va di parlarne. «Su che cosa ci dividiamo? Sulle ambizioni personali? Queste esistono, ma non credo che spieghino tutto».
No, non gli va di parlarne. Quest’altra frase risale addirittura a più di un mese fa. L’abbiamo tratta dalle venti pagine di una riflessione sul Paese e sul partito che Reichlin ha scritto in agosto. Sono lo sviluppo di ragionamenti in parte svolti nei mesi scorsi su l’Unità e articolati in chiave autobiografica in un bel libro, Il midollo del leone, pubblicato da Laterza nel marzo scorso. Ciò che colpisce in queste note (che possono essere lette integralmente nel nostro sito) è il tono di urgenza che le attraversa: un «non possiamo più perdere tempo» che vibra in tutte le righe. Fin dall’incipit: «Siamo entrati in una fase politica nuova e molto delicata che può riaprire la strada a una svolta democratica, ma può spingere le forze più reazionarie all’avventura. È in gioco la speranza che l’Italia resti una repubblica unita e una democrazia parlamentare mentre, dal fondo limaccioso del Paese, tornano a emergere tentazioni di tipo peronista. Io non so come andrà a finire. So, però, che è troppo grande lo scarto tra i rischi di disgregazione della compagine italiana e la debolezza della politica... Pesa non poco la vanità e l’inconcludenza di tanta parte delle polemiche che lacerano la sinistra».
Alla base della riflessione (e dell’urgenza), c’è la constatazione di un colossale abbaglio: l’idea che la fine della Guerra fredda avesse segnato l’inizio di un irreversibile progresso e che, in definitiva, il mondo fosse ormai diventato il migliore dei mondi possibili. I progressisti, la sinistra, in questo mondo non avevano più alcuna ragione per sviluppare una diversa idea della società, ma era sufficiente che si limitassero a garantire le “pari opportunità” e a “difendere i più deboli”. Come se la fine dell’utopia comunista dovesse necessariamente segnare la fine dell’utopia nella sua funzione di idea-forza. Tutto questo mentre l’economia mondiale veniva sovvertita dal crescente predominio del capitale finanziario a scapito di quello prodotto dal lavoro. E mentre l’Italia, inebetita dalla lente deformante del berlusconismo, guardava senza capire. Comunque capendo meno degli altri paesi dell'Occidente Reichlin che ha vissuto per intero, dall’infanzia alla maturità, quello che è stato imprudentemente definito “il secolo breve” ha sempre pensato che “breve” non fosse affatto. Al contrario: mentre si coltivava quell’illusione paralizzante, avveniva un cambiamento epocale. «Qualcosa che è paragonabile alla rivoluzione industriale di fine Ottocento». E così come dalla «folla cenciosa di contadini inurbati, di fanciulli e di donne che massacravano la loro vita davanti alle prime macchine (si parlava anche allora, come oggi alla Fiat, di leggi ineluttabili del mercato)» si arrivò ai sindacati moderni, allo stesso modo il Partito democratico deve cercare le condizioni per «creare una nuova soggettività politica in grado di opporre un’idea di società a questo supercapitalismo mondializzato».
C’è una citazione di Gaetano Salvemini che è particolarmente cara a Reichlin. La troviamo, infatti, nel suo libro e la ritroviamo in queste note: «Datemi una leva, datemi una soggettività sociale, e solleverò il mondo». Salvemini allora aveva 23 anni, era il 1896, e individuò la “leva” nei contadini pugliesi. Qual è la “leva contemporanea”, chi sono i nuovi soggetti del cambiamento? Il Pd, pena un degrado inarrestabile, ha l’obbligo di individuarli. Traendone tutte le conseguenze: «Perché un’idea di società è anche un’idea di partito».
E qui Reichlin sospende la sua riflessione. Un po’ per il modo che ha di intendere il suo ruolo: stimolare, suggerire, ma non dividere. Un po’ perché una «idea della società» non può, per la sua stessa natura, essere ridotta a una ricetta. Al massimo è possibile fornire la lista degli ingredienti, cioè dei luoghi dell’intervento, dei territori rimasti nell’ombra. A percorrerli si resta sorpresi nel constatare che lo sguardo di un dirigente politico nato nel 1925 è più lungo e lucido di quello di tanti suoi pronipoti. «Penso a un diritto umano di base incentrato sul lavoro creativo», scrive, per esempio, a conclusione di una riflessione attorno al problema di «come dare una rappresentanza politica nuova al lavoro moderno».
Non c’è la ricetta. Eppure, a leggere queste note nel combinato-disposto col libro autobiografico, senti in lontananza il profumo della pietanza. E, all’improvviso, provi un sentimento sorprendente e imbarazzante che proprio non t’aspettavi: l’invidia. Le pagine più belle del libro («Sì conferma l’autore me lo dicono tutti che quelle sono le pagine più belle...») sono quelle dedicate alla fase più tragica del nostro Novecento: l’armistizio, l’occupazione nazista e la Liberazione. Col Paese ferito e dilaniato che riprende faticosamente vita. A pagina 54 c’è una frase che ti orienta nella ricerca delle cause dell’imbarazzante sentimento di cui si è appena detto. È la descrizione dello stato d’animo, dopo l’8 settembre, degli allora giovani degli anni Venti: «Tutto diventava possibile. Si erano riaperte, sia pure coperte di macerie, le strade dell’avvenire».
Ecco allora l’origine dell'invidia (ed ecco la ragione per cui quelle pagine sono unanimemente considerate «le più belle»). Siamo a questo punto: abbiamo una tale fame di strade, e abbiamo un tale timore di macerie, che chi conserva la memoria delle strade ed è stato capace di liberarle dalla macerie ci appare il rappresentante di una generazione fortunata. Più fortunata della nostra e, dunque, molto più fortunata di quella dei nostri figli. Una generazione che aveva una visione dell’Italia futura e un bisogno insopprimibile, un’urgenza, di raccontare e migliorare quella presente. Forse «avere un’idea di società» è semplicemente questo.

l’Unità 19.9.10
Il nostro rischio?
Perdere conoscenza
Conoscere è importante, soprattutto oggi in un un Paese come il nostro dove domina l’ignoranza
di Nicla Vassallo

State leggendo questo articolo. Un semplice atto che presuppone parecchie conoscenze: saper leggere, sapere che l’Unità è un giornale, sapere in quale spazio/tempo vi trovate (se vi credeste nella Grecia antica, cosa comprendereste della situazione socio-politica contemporanea?), sapere che siete voi, non qualcun altro. Di più, necessitate di una conoscenza di background, di cui fa tra l’altro parte il sapere che un giornale è qualcosa che si sfoglia, non che si mangia, che non avete scritto il presente articolo, qual è il vostro nome (vi chiamate forse Nicla Vassallo?), e via dicendo. Chiudete gli occhi, per immaginare di perdere ogni conoscenza, queste incluse. La vostra esistenza? Ridotta a un mero vegetare, in cui non sapete quasi nulla. Esperimento inquietante, che mostra però l’importanza del conoscere.
GRANDE FRATELLO & CO. Apriamo gli occhi sull’oggi. Da una parte, i luoghi deputati (famiglie, libri, media, scuole, università, eccetera) a trasmettere conoscenza, non errori, risultano controllati e penalizzati viepiù, mentre si scacciano conoscenze e competenze per lasciar posto a insigni, immeritevoli appariscenze, che brillano per pressapochismo e ignoranza. Dall’altra, ci vengono propinate, troppo spesso, realtà virtuali, dimensioni fittizie, informazioni manipolate, che, erronee, finiscono col non trovare riscontro «là fuori», nel mondo esterno. Se in ciò consta la nostra cultura, su quale patrimonio conoscitivo, condivisibile e condiviso, si erge? Oppure, è una non-cultura, se non un’anti-cultura, che galoppa alla volta di un mondo orwelliano, governato dal Grande Fratello: «In fin dei conti, come facciamo a sapere che due più due fa quattro? O che la forza di gravità esiste davvero? O che il passato è immutabile? Che cosa succede, se il passato e il mondo esterno esistono solo nella vostra mente e la vostra mente è sotto controllo?» (George Orwell, 1984, Mondadori, Milano, p. 85). D’accordo, errare humanum est, ma un illuminato Cicerone precisa che perseverare è azione da ignoranti, quindi non da diabolici a meno che, ovvio, ignoranti e diabolici non coincidano. Abitiamo, allora, in una cultura dell’ignoranza e dell’errore, sempre che di cultura si tratti. Se sommiamo l’ignoranza all’errore, erriamo nell’ignoranza e ignoriamo d’errare, tradendo le aspirazioni conoscitive, iscritte per Aristotee nella nostra natura. A venirci assicurata rimane una brutalità di dantesca memoria.
Illusioni e allucinazioni umane, errori percettivi, ci conducono a vedere il bastone spezzato nell’acqua quando in realtà non lo è, l’acqua nel deserto quando in realtà non vi è. Chiamandole illusioni e allucinazioni, implichiamo che qualcosa di non illusorio e non allucinatorio si dia in una realtà da conoscere, realtà che non creiamo, né fantastichiamo, realtà che esiste indipendentemente da noi. I realisti concordano. Ma chi ingiunge prontamente «Siamo realisti: fatti, non parole!», oltre a proferire parole, si nasconde dietro un logoro slogan, sconfessa la relazione tra parole e fatti, sorvola sul problema della verità.
«Dire di ciò che esiste che non esiste, o di ciò che non esiste che esiste, è falso, mentre dire di ciò che esiste che esiste, e di ciò che non esiste che non esiste, è vero»: Aristotele sposa così (La metafisica, IV, 7, 1011b) una precisa concezione della verità, stando a cui le nostre affermazioni sono vere se corrispondono ai fatti, se trovano in essi una base oggettiva. Quando affermiamo senza menzogne? Quando crediamo in ciò che diciamo. Sapere fare un’affermazione comporta, a ogni buon conto, saperla giustificare, essere cioè in grado di offrire buone ragioni per essa. Mettiamo che qualcuno affermi «Non esistono le condizioni per riaprire le trattative», e che, alla domanda «Per quale ragione lo credi?», replichi «Il Colosseo è eversivo»: non ci troviamo di fronte a una giustificazione, bensì a una farneticazione. Solo nel caso in cui disponiamo di una giustificazione, non di una farneticazione, la credenza che affermiamo ha buone probabilità di risultare vera, ovvero di aspirare allo status di conoscenza.
Giungere a conoscere per un caso fortuito? Non si appella alla fortuna la scommessa di Blaise Pascal sull’esistenza di Dio. Abbiamo ragioni di credere che Dio esiste perché la posta in gioco è la vita eterna. Si tratta di ragioni prudenziali (è prudente, conveniente credere che Dio esiste), non di ragioni epistemiche (ragioni per credere che sia vero che Dio esiste). Meglio la convenienza o la verità? Se aspiriamo a conoscere, occorre optare per verità. Non per nulla, a partire da Platone, identifichiamo la conoscenza con la credenza vera supportata dalla giustificazione epistemica. Tuttavia, rimaniamo esseri fallibili, dalle capacità cognitive limitate, per cui le nostre credenze, pur giustificate, possono risultare false. Certo, per mera casualità, si danno credenze vere ingiustificate. Ma chi, dotato di sale in zucca, darebbe credito a uno scommettitore incompetente, stando a cui x vincerà? Diremmo forse che lo scommettitore in questione (che tira a indovinare, e che si differenzia così da quello pascaliano) sapeva che x avrebbe vinto, nel caso in cui x vinca? Lo scommettitore non sapeva, ha avuto soltanto una spacciata fortuna.
Già, la Fortuna, meglio non affidarsi a questa giovane bendata, se siamo savi. Una donna irrazionale, contrapposta, per errore, all’uomo razionale, donna che trova però un qualche riscatto in epoca rinascimentale, quando viene rappresentata con una vela in mano. Chi sa veleggiare non naviga né con irrazionalità, né con casualità: sceglie, a ragione, rotte precise. Navigare è impresa difficile, occorre per l’appunto saperlo fare non tutti ne sono in grado -, gli errori si pagano cari: andar per mare rimane la migliore metafora della nostra effettiva esistenza. Ci saranno pure naufragi fortunati e capitani che, come i prìncipi di Nicolò Machiavelli, si trasfigurano in tali, con poca fatica, grazie alla fortuna, «ma devono poi penare per restare al potere», al timone. Già, difficile governare una barca senza conoscenza, senza sapienza.

il Fatto 19.9.10
Niente sofismi, sui Rom è razzismo
di Furio Colombo

Che storia è? Che cosa è accaduto? Guerra della Repubblica francese contro gli zingari? Tutto è possibile, sappiamo che conta la paura, pesa il pregiudizio e che la politica è fatta anche di quel brutto ingrediente che è il populismo, ovvero la voglia di piacere alle maggioranze facendo qualcosa di cattivo e di ingiusto ai danni delle minoranze. Ma due cose non tornano in questa vicenda. La prima è che la presenza nomade degli zingari, gitani, rom dura da secoli in Europa, come testimoniano storiografia, letteratura, poesia, musica, folklore, proverbi e costumi. Ci sono sempre momenti in cui qualcuno crede di scoprire ciò che c’è sempre stato e pensa di denunciarlo come intollerabile. La seconda è che i rom gitani o zingari dispersi per l'Europa sono pochissimi. Poche decine di migliaia di persone in comunità (campi) che spesso non arrivano a cento persone. Come è possibile che un fatto così antico e così piccolo colpisca prima l’attenzione, poi l’ira, infine produca l’editto di cacciata dal Paese del presidente di una grande Repubblica? La cosa è ancora più difficile da capire perché il Paese è la Francia e il presidente è Sarkozy. Era sempre sembrato in grado di tenere in equilibrio il suo temperamento nervoso di uomo iperattivo con le esigenze di personaggio al sommo delle istituzioni francesi. Certo, alcuni aspetti del suo passato politico non sono un buon preannuncio, come le violenze di tipo leghista scatenate anni fa dalla sua polizia nelle banlieu parigine, contro giovani figli di immigrati, cittadini francesi. Ma, da presidente del Paese che si identifica con il valore della libertà e dei diritti civili, Sarkozy aveva dimostrato di saper tenere a distanza le squilibrate spinte a certi tipi di azione e persecuzione della destra di Le Pen e dei suoi eredi.
Zingari, sfogo ideale
QUALCOSA è scattato, vuoi nella vita pubblica (sondaggi, popolarità in declino) vuoi nella vita privata di Sarkozy (di questo non sappiamo nulla e non ospiteremo cattiverie suggerite da francesi malevoli) per rompere in modo così clamoroso l’equilibrio della più alta istituzione francese, dunque del suo governo, dunque dei suoi ministri e della sua polizia. Un percorso utile per capire ciò che sta accadendo è la vicenda giudiziaria che da qualche tempo insegue Sarkozy (fondi illegali versati alla sua campagna elettorale). I giudici francesi non mollano. Molte cose sono possibili quando si confrontano il senso di impotenza di qualcuno molto potente con una comunità di persone (i rom) senza potere e senza rappresentanza e del tutto privi di difesa. Per lo sfogo d’ira di Sarkozy, per lo stato di non equilibrio in cui, per qualche ragione, il presidente francese è caduto, gli zingari sono l’ideale. Primo, distruggere i campi, che non sono certo di cemento armato. Secondo, forzarli a “tornare a casa”, come se dei nomadi avessero una casa. Terzo, trasportarli verso Paesi dell’Est, certe volte individuati a caso,badandobeneafingerechesi tratti di “rimpatrio” (raramente i rom fanno conferenze stampa per smentire); badando a far notare la elargizione di una buonuscita di 300 euro per famiglia, alla presenza delle telecamere, in modo che i detrattori del presidente siano serviti. Si tratta di partenze “assistite” e “spontanee”. In tal modo siamo costretti a vedere di che cosa è capace il presidente Sarkozy quando gli va la mosca al naso. Ecco uno che non scherza. Un vero uomo, direbbe se potesse dire tutto, Sarkozy, di se stesso.
Amici in Italia, estranei in Europa
MA SIAMO solo a metà della storia. Segue prima l’imbarazzo, poi la condanna europea. E quando la Commissione Europea, con il presidente Barroso gli resiste, i presenti al summit di Bruxelles parlano di uno scontro con scambio di urla. Una vera scenata del sempre meno equilibrato Sarkozy contro quel punto debole – però simbolico – che è la Commissione Europea. Forse la situazione di squilibrio e quel volare di insulti hanno attratto l’attenzione di Berlusconi, che si unisce subito, nel senso che anche lui (unico in Europa) proclama non solo che l’iniziativa di Sarkozy è sacrosanta, ma che lo farà anche in Italia: persecuzione degli zingari, che non hanno alcun governo per proteggerli e alcuna forza politica. Del resto quella persecuzione è già in atto a pieno regime a Roma e a Milano, oltre che in tutti “territori” della Lega. Dunque Berlusconi si pronuncia ma gli accade il solito incidente che lo tormenta fuori dall'Italia. Non solo la stampa francese (o quella europea) non fanno cenno della Santa Alleanza: tutta la Francia e tutta l’Italia contro i rom. Ma si dà un caso curioso. Sarkozy, che nella disciplinata stampa italiana ringrazia ripetutamente Berlusconi (testualmente: “E’ così che si vedono i veri amici”) nella irata conferenza stampa a Bruxelles non lo nomina mai. Questa battaglia è sua e se la gestisce lui. Qui però finiscono la parte mondana e quella giornalistica della insolita e stupefacente vicenda. E comincia la verifica, non secondo principi umani e morali, che non sarebbe male includere in questa storia. Ma comincia la riflessione del buon senso.
Cittadini da secoli
BASTA riprendere la storia dall’inizio. Abbiamo detto che la Francia (e poi la Francia e l’Italia, 150 milioni di persone in due dei paesi più ricchi del mondo) si schierano contro i rom. Deve trattarsi di un rischioso progetto: liberare i rispettivi paesi dalla invasione degli zingari. Ci sarebbe un primo ostacolo: gli zingari sono cittadini europei. Qui dovrebbe soffermarsi il diritto. Il buon senso si ferma molto prima. Il buon senso avverte che i rom – sommando i due paesi – non sono neppure 400 mila, dispersi in campi di poche centinaia, a volte decine di persone. Metà sono donne, metà sono bambini. C’è un altro dettaglio che attrae l’attenzione del buon senso e avverte che qualcosa non va nell’equilibrio di questi due stati: una buona metà dei perseguitati sono cittadini francesi o cittadini italiani da secoli. Qui, nella guerra ai rom, mancano le ragioni (vere e false) con cui gli untori scatenano la guerra contro l'immigrazione. Ti dicono che sono tanti, che sono troppi che prenderanno il sopravvento e imporrano il giogo islamico. I rom sono pochi, sono cristiani, sono in giro da secoli, sono cittadini europei e, spesso, sono cittadini dei paesi in cui ormai vivono con cui condividono scuola e lingua. Purtroppo tutto ciò ci porta verso un’unica, triste, squallida spiegazione: questo è razzismo nella sua forma più rozza e più pura. È tutto qui. Ma è come diagnosticare, nel cuore dell’Europa, il peggiore dei mali.

Agi 18.9.10
Vendola, il documento Cei ha rotto il silenzio



Bari, 18 set. "Il documento della conferenza episcopale sul sud e' stato un atto straordinariamente importante perche' ha rotto il silenzio sul mezzogiorno d'Italia". Il presidente della Regione Puglia, Nichi Vendola, lo ha deto partecipando a un dibattito organizzato dall'Arcidiocesi di Bari-Bitonto e dalle Acli, nel corso della 74ma Fiera del Levante. "E' un documento ha sottolineato che e' stato capace di individuare patologie drammatiche; lo stato d'affanno, appunto, della pubblica amministrazione che ha bisogno di essere incentivata, formata, selezionata, secondo i criteri meritocratici e che, invece, nel corso di decenni e' stata costruita come una stampella dei sistemi di poteri".
 Secondo Vendola, "la pubblica amministrazione, la burocrazia deve essere il luogo di congiunzione tra la domanda di diritti dei cittadini e l'offerta di servizi da parte dei pubblici poteri. Se la pubblica amministrazione viene umiliata come e' accaduto in tutti questi anni, e' chiaro che li' si determina un corto circuito, un affanno, ma il documento dei vescovi ha detto ancora e' anche importante perche' illumina le zone di eccellenza del sud, parla delle giovani generazioni come di un capitale sociale fondamentale, dice che l'Italia non ha speranza e vincera' la logica delle separazione delle piccole patrie!". Anzi, il presidente della Cei ha detto che la Chiesa lavorera' alacremente perche' il popolo italiano possa reinnamorarsi dell'Italia, reinnnamorarsi dell'Italia significa ha concluso Vendola il senso del vivere assieme, cioe' vivere assieme con diritti sociali, con diritti di liberta' e con il culto dei diritti umani". (AGI) cli/zeb
http://www.agi.it/politica/notizie/201009181405-pol-rt10094-sud_vendola_documento_cei_ha_rotto_il_silenzio

Corriere della Sera 19.9.10
«Ma per noi figli dei Lumi la religione resta un fatto privato»
Lo scrittore Martin Amis
di Maria Serena Natale

Cita Blaise Pascal e indica ai fedeli il calice di un Cristo «in agonia fino alla fine del mondo», invita ad aprire lo spazio pubblico al discorso religioso, incontra il premier David Cameron elevitti media busi. Oggi ilPa pateologo beatificherà quel cardinale John Henry Newman che oppose al relativismo valoriale una fede concepita come dialogo tra umano e divino, incarnato nella concretezza della persona, nel tormento della coscienza.
La sacralità dell’umano baluardo contro la decadenza. Un sentire naturalmente vicino al Ratzinger amante di San Tommaso e portatore Oltremanica di un pensiero forte che rifiuta ogni compromesso sui valori. In questi anni in Gran Bretagna il dibattito sulla non negoziabilità dei principi costitutivi dell’identità occidentale ha toccato vette polemiche, intrecciandosi alla riflessione sull’incontro-scontro tra culture dopo l’11 settembre. Tra gli intellettuali intervenuti con più forza, con prese di posizione contro la strumentalizzazione politica della religione che gli sono valse l’accusa di islamofobia, Martin Amis.
Il grande scrittore di romanzi come London Fields o La casa degli incontri, dove amore e fede sono moneta di scambio in un mondo in decomposizione, commenta con il Corriere la visita di Benedetto XVI. E misura la distanza tra il messaggio papale e un pensiero che rintraccia nella tradizione empirista e illuminista le radici di un orientamento contrario a ogni sovrapposizione tra discorso pubblico e sfera religiosa.
«Non ho mai nutrito sentimenti antireligiosi — dice Amis — ma credo che a una convivenza democratica occorra una dose di anticlericalismo, che l’ascolto della parola di Dio attenga alla dimensione privata, slegata dalla mediazione dell’istituzione ecclesiastica. Il processo di secolarizzazione occidentale in Gran Bretagna s’innesta sulla tradizione di John Locke e David Hume, la rivoluzione illuminista che ha modellato una coscienza civile emancipata dai dettami della religione e che oggi è difficile conciliare con l’impostazione del Papa tedesco». La storia, sostiene, ha imboccato una traiettoria diversa, in rotta di collisione con un pensiero che pone la necessità di ancorare la ricerca del fondamento etico della politica alla riflessione sulla fede. «Mi sembra un approccio animato da spirito reazionario, una prospettiva che non tiene conto di processi di lungo corso e conquiste consolidate ma torna al passato, a prima dello Scisma, al tempo in cui la Gran Bretagna era cattolica e la Chiesa di Roma poteva esercitare la propria influenza in virtù del ruolo che le veniva universalmente riconosciuto». Il viaggio di Ratzinger gli appare come l’espressione di «un atteggiamento storicamente nostalgico, di un tremendo anacronismo, per i non cattolici una noiosa distrazione». Destinata quindi a non fare presa nel profondo della società. «Credo che per la maggior parte dei britannici non cattolici una visita di questo tipo, certe pretese di indottrinamento, siano motivo di disagio». E affonda. «La Chiesa cattolica non è in condizione di dare lezioni. Sugli scandali di pedofilia c’è stato un tentativo di emendarsi ma non un’azione radicale di rinnovamento, non tutti i responsabili sono stati perseguiti. Inoltre siamo di fronte a un sistema chiuso e ancora barricato su posizioni che per la componente laica della società sono indifendibili. Penso al divieto di contraccezione, al no all’ordinazione delle donne».
Visita delicata, anche per la dimensione istituzionale, venerdì ad ascoltare il Papa nella Westminster Hall dove fu condannato a morte l’autore di Utopia Tommaso Moro c’erano ex capi di governo, ieri l’incontro con il primo ministro conservatore. «Delicata soprattutto per la sovrapposizione di due piani che devono restare separati. Le impalcature costituzionali di tutti gli Stati occidentali si reggono sul principio della non interferenza della religione nel dominio pubblico». Sovrapposizione che rischia di compromettere il dialogo e creare «distorsioni pericolose», come le dispute sui simboli. «A ciascuno deve essere garantita la libertà di esprimere la propria fede, senza imposizioni, talvolta nel dibattito pubblico si resta impantanati in dispute marginali e si perdono di vista i principi».

Corriere della Sera 19.9.10
Carlo Flamigni
È diventato celebre come «il ginecologo dei bambini in provetta». Ora racconta i suoi rimpianti di scienziato e la passione di scrittore
«Ho creato la vita, ho avuto paura»
Nell’87 un embrione attecchì in un «utero esterno». Sembrava la storia di Frankenstein.
Troppo presto. Di fronte alle obiezioni etiche «mi è mancato il coraggio: ne sono pentito»
di Franca Porciani

Nell’87 un embrione attecchì in un «utero esterno». Sembrava la «storia di Frankenstein» Troppo presto. Di fronte alle obiezioni etiche «mi è mancato il coraggio: ne sono pentito», stavamo facendo davvero ricerca d’avanguardia; quando si mette le mani sopra questa merce rara, non si deve abbandonare. Avremmo potuto (forse) evitare molti errori e insuccessi nella cura della sterilità e dell’infertilità».

«Quella scelta mi lasciò un senso di frustrazione che mi ha accompagnato tutta la vita, lo confesso. Fu un errore interrompere l’esperimento». Nel buen retiro di San Varano, la vecchia casa di famiglia immer sanella campagna romagnola tra Forlì e Castrocaro dove ha deciso di vivere da qualche anno, Carlo Flamigni si toglie, finalmente, un peso dallo stomaco. Ricordando un evento importante della sua vita di ricercatore, che lo ha segnato in senso negativo, nonostante ripeta: «In quel momento non poteva andare diversamente: avrei avuto tutti addosso; nel giro di pochissimo tempo mi arrivò un numero straordinario di insulti».
Classe 1933, ginecologo di chiara fama (è, insieme ad Ettore Cittadini, il «padre» dei figli in provetta in Italia), professore universitario a Bologna fino al 2008, autore di moltissime pubblicazioni scientifiche sull’infertilità, Flamigni è anche un infaticabile divulgatore della sua materia (fra i tanti titoli, i Laboratori della felicità, pubblicato da Bompiani nel 1994 e Casanova e l’invidia del grembo, Baldini Castoldi Dalai editore, 2008) e romanziere di successo, soprattutto di storie poliziesche e racconti (uno dei suoi ultimi libri, Circostanze casuali, uscito quest’anno per l’editore Sellerio, è stato per diverse settimane ai primi posti delle vendite per la narrativa italiana). Flamigni ci accoglie nel giardino che circonda la casa, una grande distesa di verde tra i frutteti, dove le querce e il melograno («li ho sempre visti» dice) testimoniano una lunga storia di famiglia.
Professore, ce la racconta quella scelta? «Per capirla bisogna tornare al clima degli anni Ottanta, che sono stati tanto pionieristici quanto entusiasmanti per la fecondazione assistita — racconta Flamigni —. All’epoca dirigevo il servizio di Fisiopatologia della riproduzione dell’ospedale Sant’Orsola di Bologna e avevo un’équipe di giovani ricercatori di ottimo livello. Uno di questi era Carlo Bulletti, cervello aperto e curioso, oggi all’ospedale di Rimini. Lo mandai a New York, al Mount Sinai Hospital dove un gruppo di ricercatori, tra i quali c’era un carissimo collega, purtroppo scomparso, Erlio Gurpide, aveva iniziato esperimenti su uteri asportati per i più vari motivi, principalmente per fibromi, tumori benigni (l’utero, all’epoca, era ritenuto un organo inutile dopo l’età fertile e si toglieva con disinvoltura, ndr). Lì avevano trovato il modo di asportare l’organo con buona parte dei suoi vasi, che venivano incannulati e collegati a una specie di macchina cuore-polmoni che garantiva una circolazione extracorporea, con un buon livello di ossigenazione e di "pulizia" delle scorie metaboliche. Strabiliante: funzionava, l’utero non degenerava».
Bulletti tornò entusiasta da New York e Flamigni decise di andare avanti, di riprodurre il metodo a Bologna. «Incredibile: questo utero fuori dal corpo della donna sopravviveva bene per cinque, sei giorni, un tempo lunghissimo sotto il profilo sperimentale perché ci permetteva di verificare l’effetto degli ormoni e di vari farmaci sulla parete uterina. E, in effetti, se somministravamo estrogeni e progestinici attraverso la circolazione artificiale, nell’organo mantenuto in vita avvenivano gli stessi cambiamenti che si verificano nel corpo della donna. Avevamo trovato un "modello" sperimentale quasi perfetto», ricorda Flamigni.
Le cose si complicarono quando, inevitabilmente, scattò l’ambizione di tentare di più, ovvero di verificare se un embrione riusciva ad annidarsi in quell’utero senza identità e senza un corpo di appartenenza.
«Era il 1987: scegliemmo embrioni alteratissimi che non avrebbero mai potuto diventare vita vera e tentammo l’attecchimento — racconta ancora il ginecologo —. Sembra una storia alla Frankenstein, eppure il miracolo avvenne: partì questa gravidanza artificiosa, ma non artificiale, visto che sia l’utero, sia l’embrione, erano "veri". Ma ci cadde addosso un grande sbigottimento: si trattava di un evento "epocale" per il quale nessuno era pronto, né in Italia, né altrove».
Non era pronta nemmeno la comunità scientifica: l’esperimento venne pubblicato l’anno seguente su una rivista americana importante, « Fertility and Sterility », accompagnato da una nota del direttore del giornale che ne prendeva le distanze sotto il profilo etico. Fu il segnale che qualcosa aveva anticipato troppo i tempi.
«Capii che ci eravamo spinti oltre il limite; ebbi come un senso di mostruosità, di paradosso; dovevo interrompere e non pensarci più», ricorda Flamigni.
Era il 1988 e gli anni successivi portarono al ginecologo molte soddisfazioni professionali, accompagnate da una partecipazione appassionata ai temi etici che inevitabilmente la fecondazione assistita solleva. Membro del Comitato nazionale di bioetica da molti anni (lo è tuttora), ha sempre cercato di coniugare il progresso scientifico con il rispetto della persona.
«Ma lì mi è mancato il coraggio e oggi me ne pento — prosegue il ginecologo —. Anche perché avevamo ottenuto qualcosa di straordinario. Pensi che soltanto nel 2002, quindici anni dopo il nostro esperimento, alla Cornell University di New York riuscirono a far attecchire un embrione umano su un utero artificiale ottenuto tappezzando un contenitore biodegradabile con cellule estratte dalla parete dell’utero ed espanse in laboratorio. A Bologna, a quell’epoca stavamo facendo davvero ricerca d’avanguardia; quando si mette le mani sopra questa merce rara, non si deve abbandonare. Avremmo potuto (forse) evitare molti errori e insuccessi nella cura della sterilità e dell’infertilità».
Ma l’abbandono della ricerca di frontiera, intesa come sfida, come rincorsa coraggiosa del nuovo, dà una svolta determinante alla vita di Flamigni: il medico si scopre via via una vena di scrittore, che dai primi anni Novanta si tradurrà in opere di divulgazione di grande successo (fra queste La procreazione assistita, pubblicato dal Mulino nel 2002, del quale è in uscita a gennaio la nuova edizione e Avere un bambino, edito da Mondadori nel 2001). Contemporaneamente prende corpo il romanziere: inizia il filone noir, da Giallo Uovo (Mondadori, 2002) a Un tranquillo posto di Romagna (Sellerio, 2008) fino a Circostanze casuali.
«A un certo punto mi ha assalito la passione di raccontare i ricordi di una Romagna che non c’è più, dove si parlava un dialetto che per me è stato la prima lingua — confessa il ginecologo —. Ricordi affastellati nella testa, che ho cercato, e tuttora cerco, di romanzare in storie poliziesche che si snodano tra personaggi "veri" camuffati, alcuni scomparsi, altri viventi. Quando parlo a chi mi sta vicino della mia infanzia e della mia terra, mi accorgo che annoio: la strada dei libri si è rivelata un buon compromesso».
Lei è uno dei ginecologi più famosi d’Italia: svolge ancora la professione? «Seguo pazienti a Bologna e a Roma — risponde Flamigni —. Del lavoro fatto restano i "frutti": mi compaiono davanti ragazzoni altissimi portati dai genitori ancora grati del "miracolo" della loro nascita. Ma rimane soprattutto il ricordo dell’evento parto, della sua intensità emozionale (non certo degli aspetti tecnici), della complicità delle donne con cui ho diviso questo momento straordinario. Spero, da spettatore, e non troppo arrogante».

Corriere della Sera Salute 19.9.10
Iperattivi o vivaci? Il modo giusto per capirlo
Nella settimana europea dell’ ADHD uno studio riaccende le polemiche sui rischi di valutazioni frettolose
Italia all’avanguardia nelle misure per evitare l’eccessivo ricorso ai farmaci
di Elena Meli

Entrate in una classe dell’ulti-mo anno di scuola materna: ci sarà chi ha più di sei anni e chi invece ne ha compiuti cinque solo da qualche mese. Le iscrizioni al primo anno di "scuola dell’infanzia", infatti, possono essere anticipate, in molti Paesi, Italia compresa, a due anni e mezzo rispetto agli abituali tre. Ebbene, tra tutti questi bambini, almeno in America, i più "giovani" hanno il 60% in più di probabilità di ricevere una diagnosi di ADHD, la sindrome da deficit di attenzione e iperattività. Lo ha dimostrato una ricerca, pubblicata sul Journal o f Healt h Ec o no mic, su 12mila bimbi americani, che ha riacceso la discussione su una malattia di cui si parlerà in particolare nei prossimi giorni, in occasione della Settimana europea dell'ADHD, da oggi al 26.«Un bimbo più piccolo spesso riceve una diagnosi di ADHD solo perché è messo a confronto con compagni più avanti nello sviluppo» commenta l'autore, Todd Elder dell'Università del Michigan, ipotizzando che negli Usa ben il 20% dei 5 milioni di bimbi diagnosticati come iperattivi non lo sia affatto. Un dato su cui riflettere anche in Italia, perché almeno il sospetto di ADHD può effettivamente essere indotto da un paragone scorretto. Bisogna, però, tener presente che, mentre negli Usa la diagnosi di ADHD viene fatta a 8 bambini e adolescenti su 100, in Italia si reputa che soffra di ADHD l’1% dei minori (secondo altre stime, il 3%). Per di più negli Usa il ricorso a sostanze psicoattive, simili alle anfetamine, è molto più frequente.
Il dibattito comunque ferve anche nel nostro Paese, che però nel 2007 ha istituito un "Registro" dei bambini in cura per l'ADHD con i due farmaci in commercio da noi, metilfenidato o atomoxetina. I medicinali possono essere prescritti solo dai Centri iscritti al Registro, che devono operare secondo criteri per il percorso diagnostico e terapeutico prestabiliti. «Vogliamo evitare eccessi di diagnosi e di prescrizione — spiega Pietro Panei, responsabile del Registro presso l'Istituto Superiore di Sanità —. Un bimbo con sospetto ADHD, segnalato dal pediatra, è valutato nei centri di neuropsichiatria infantile del territorio, dove, in caso di diagnosi accertata, inizia la psicoterapia. Se i problemi non si risolvono, arriva a uno dei Centri di riferimento e ripete i test; in caso di conferma di ADHD, si decide la strada terapeutica dando la precedenza al trattamento senza farmaci». E, infatti, un terzo dei 120 Centri, pur avendo fatto diagnosi di ADHD, non ha mai inserito un paziente nel Registro per la cura con i farmaci. Farmaci non privi di effetti collaterali: con il metilfenidato, ad esempio, si rischiano danni cardiovascolari; l'atomoxetina aumenta il pericolo di suicidio. E di fatto si sa ancora poco sulle conseguenze di un uso a lungo termine, iniziato da piccoli. Per capire meglio gli effetti sulla crescita è in corso uno studio europeo cui partecipa anche il Registro italiano.
«Sono farmaci da usare solo quando servono davvero — interviene Maurizio Bonati, responsabile del Laboratorio per la Salute Materno Infantile del Mario Negri di Milano —. Ma in Italia siamo lontani dagli eccessi dell’America dove c'è una forte medicalizzazione indotta anche dalla spinta a risparmiare: le pillole costano molto meno di una psicoterapia che si affronta dopo un iter che richiede più di uno specialista e 12 ore di test e valutazioni cliniche». La diagnosi è peraltro il nodo critico di tutta la faccenda. Chi mette in discussione l’esistenza dell’ADHD in quanto malattia, sottolinea l'inadeguatezza dei test, ai quali risulterebbe "positivo" qualunque bambino un po' vivace. Nel questionario, che può essere usato anche da genitori e insegnanti per indirizzare i primi sospetti ci sono nove situazioni da valutare, tra cui, ad esempio, la riluttanza nel fare i compiti, la tendenza a non ascoltare, ma i comportamenti, per essere significativi devono, per esempio, persistere da almeno sei mesi, creare disagio in più contesti.
«Le valutazioni di genitori e insegnanti sono importanti — sottolinea Giuseppe Chiarenza, vicepresidente della Società italiana di neuropsichiatria dell'infanzia e dell'adolescenza —. Durante una visita, più difficilmente si manifestano problemi di distrazione e iperattività: è in gruppo che essere attenti richiede più fatica». Resta un fatto: come per molte patologie neuropsichiatriche la diagnosi è clinica. Una freccia nell'arco di chi nega l'esistenza dell'ADHD, ma qualcosa sta forse cambiando. «Esistono prove che l'elettroencefalogramma dei bimbi con ADHD è diverso dalla norma — dice Chiarenza —. E la valutazione dell'attività elettrica del cervello può anche indicare chi sta rispondendo ai farmaci, mentre i test approfonditi sull’attenzione individuano chi può trarre più beneficio dalle medicine. Una diagnosi accurata è fondamentale per impostare il trattamento, tenendo presente che spesso basta insegnare ai genitori un nuovo modello di comportamento col figlio, che lo gratifichi e lo incoraggi anziché farlo sentire "difficile"».

Corriere della Sera Salute 19.9.10
Genitori: scontro d’opinioni

In Italia esistono due Associazioni, anzi due schieramenti, di genitori che sul tema dell’ADHD la pensano in modo diametralmente opposto. Secondo "Giù le mani dai bambini" (comitato cui hanno aderito oltre 200 enti e associazioni), l'ADHD non esiste e i farmaci non andrebbero mai dati . «Siamo di fronte a una "moda", a diagnosi inconsistenti e vaghe — afferma Emilia Costa, psichiatra dell'Università La Sapienza di Roma e membro del comitato scientifico di "Giù le mani dai bambini" —. Gli psicofarmaci sono spesso usati con leggerezza, credendo che le cure non farmacologiche non funzionino: la psicoterapia invece modifica la struttura cerebrale e influisce concretamente sul comportamento, con effetti tangibili e misurabili». L'idea di "Giù le mani dai bambini" è, in sostanza, che il farmaco sia visto dai medici, e a volte dai genitori, come una sorta di "scorciatoia" per arrivare ai risultati in fretta. A che prezzo, però? Perfino un maggior rischio di morte improvvisa o di suicidio, sottolinea il comitato. «Non esiste genitore di un bambino con ADHD che non abbia paura dei farmaci e chiunque prova sollievo quando non servono o li possiamo interrompere — ribatte Patrizia Stacconi, presidente dell'Associazione Italiana Famiglie ADHD —. Quando però, dopo anni di sofferenze, vediamo che un medicinale cambia la vita dei nostri figli, dobbiamo assumerci la responsabilità di andare oltre la paura. I farmaci sono l'ultima scelta, ma incontriamo tantissime difficoltà nel garantire ai bambini le altre terapie: spesso non si riesce a fare psicoterapia nelle Asl vicino a casa, trovare psicologi di sostegno ai genitori è difficile, le terapie complementari come l'ippoterapia sono quasi sempre a pagamento. Risultato, ogni famiglia spende ogni anno dai 10 ai 14 mila euro».

Corriere della Sera Salute 19.9.10
«Per nostro figlio solo psicoterapia»

Andrea (nome di fantasia) è sempre stato un bambino vivace, non stava mai fermo. I medici non gli avevano diagnosticato l'ADHD, ma avevano comunque consigliato un aiuto per superare le difficoltà in classe: alle elementari Andrea aveva un sostegno e, dalla terza in poi, ha anche fatto psicoterapia. In prima media l'inizio dell'incubo: nella nuova scuola Andrea non segue, fa confusione, non si interessa a niente. Le insegnanti non lo aiutano, anzi arrivano a isolarlo in una stanza senza farlo partecipare alle lezioni; segnalano ai genitori le difficoltà, inizia la trafila alla Asl e all'ospedale. Arriva la diagnosi di ADHD e, subito, la prescrizione del farmaco (al momento dei fatti il Registro non era ancora attivo). E i genitori si rifiutano. «Abbiamo chiesto se fosse l'unica soluzione, ci è stato detto di sì. Ci si sono drizzati i capelli in testa, perché avevamo letto che cosa era accaduto in America a bambini in cura coi farmaci: effetti collaterali pesanti, morti sospette — racconta il papà di Andrea —. Ci siamo opposti, nonostante in consiglio di classe ci venisse detto che, rifiutando il farmaco, non stavamo seguendo nostro figlio nel modo giusto. Noi sentivamo che Andrea non aveva bisogno delle medicine, vedevamo che aveva interessi diversi e per questo forse non stava attento in classe. È stato difficilissimo opporsi al parere di tutti». Andrea poi è stato visitato da altri neuropsichiatri che hanno sostenuto la posizione dei genitori: ha cambiato scuola, ha continuato con la psicoterapia, ma non ha mai preso una pillola. «Nella nuova scuola è stato accolto come un bambino uguale agli altri, non ha mai avuto problemi e dopo un po' ha potuto anche smettere di incontrare lo psicologo» dice il padre. Oggi Andrea sta per compiere 17 anni, va volentieri a scuola e si trova bene con compagni e insegnanti. Ha trovato la sua strada, adora i computer. Vorrebbe diventare come Bill Gates.

Corriere della Sera Salute 19.9.10
«Il mio ragazzo dice grazie alle medicine»

A nove ore dalla nascita Lorenzo (nome di fantasia) ha preso la sua prima camomilla. Già allora nessuno riusciva a gestirlo: piangeva in continuazione, non voleva stare nella culla. «A due anni eravamo stremati: Lorenzo non dormiva mai — racconta il papà —. Dai due ai cinque anni l'abbiamo fatto visitare da una sfilza di psicologi: tutti davano la colpa a me e mia moglie, dicevano che eravamo inadeguati. C'è voluto impegno per tenere in piedi la famiglia». A cinque anni la prima diagnosi, ipercinesia, ma nessuna proposta di cura. «Ci sentivamo persi. Poi, un anno dopo, leggendo l'intervista al genitore di un bimbo con ADHD, mi è sembrato di sentir descrivere Lorenzo. L'abbiamo portato da una neuropsichiatra, è arrivata la diagnosi e, poi, la psicoterapia, il corso di "parent training" per noi genitori. Le cose miglioravano, ma l'ingresso alle elementari fu disastroso: l'insegnante non voleva assecondare le esigenze del bambino».
Per anni Lorenzo subisce bullismo e violenze psicologiche, senza raccontare niente a casa. Finché in quinta elementare esplode con crisi di pianto alla sola idea di entrare in classe. Cambia scuola a tre mesi dall'esame, in prima media trova finalmente insegnanti che collaborano, lo inseriscono nel gruppo. L'anno è comunque difficile, i genitori decidono di provare col metilfenidato: «Non l'abbiamo fatto a cuor leggero, ma perché il farmaco poteva aiutare Lorenzo a star meglio con se stesso e con gli altri. Avevamo paura, certo. Quando abbiamo visto che era più sonnolento del solito abbiamo interrotto la terapia. Ma era bastata a dargli una spinta, e in seconda e terza media ha recuperato il tempo perduto». Oggi Lorenzo ha quindici anni e fa ancora psicoterapia: la sua iperattività è sotto controllo, anche se sono rimasti gli strascichi di una vita di disagi. «Non riesce a farsi degli amici, ha il vuoto intorno — dice il papà —. Mi chiede perché è diverso, che cos'ha di sbagliato. Perché questi bambini non sono solo vivaci, stanno male. Loro per primi».

Repubblica 19.9.10
Contro tutte le esecuzioni
Ebadi: "Altre venti come Sakineh dobbiamo riuscire a salvarle tutte"
di Daniel Salvatore Schiffer

Oltre alla donna condannata per adulterio, sono in molte ad attendere la morte per lapidazione. E anche quattro uomini Battiamoci per porre fine a questa pratica barbara, e alla pena capitale in generale

BRUXELLES - Sakineh Mohammadi Ashtiani, l´iraniana condannata alla lapidazione per adulterio e complicità in omicidio, è diventata un´icona planetaria. Ma non è solo per lei che l´avvocatessa iraniana Shirin Ebadi, premio Nobel per la pace, lotta senza posa. «In Iran - ricorda -almeno altre 24 persone attendono la stessa sorte».
Signora Ebadi, cosa pensa della mobilitazione internazionale per Sakineh?
«Non posso che rallegrarmene. Tanto più che Sakineh è totalmente innocente. L´adulterio, il primo capo di imputazione a suo carico, non è né un crimine né un delitto. Quanto all´accusa di presunta complicità nell´omicidio del marito, si basa su confessioni che le sono state estorte sotto tortura psicologica e fisica. Ma oltre a Sakineh, almeno altre 20 donne e 4 uomini attendono la stessa crudele sorte: la morte per lapidazione. Nelle carceri iraniane ci sono anche oltre 800 prigionieri politici, diverse decine dei quali condannati a morte. Non si tratta, dunque, della sola Sakineh».
Chi altro? Ha nomi da segnalare?
«Gli esempi sono numerosi. C´è Shiva Nazarahari, giovane giornalista accusata di "cospirazione contro Dio" (morahebeh in farsi) per il solo fatto di avere scritto degli articoli contro il regime. Le è stata concessa la libertà su cauzione, ma nulla garantisce che, a fine processo, non venga condannata a morte. C´è l´avvocatessa per i diritti umani Nasrin Sotoudeh, arrestata per "propaganda contro lo Stato". Le esecuzioni si svolgono quasi quotidianamente: una al giorno dopo l´ascesa al potere di Ahmadinejad»
Anche gli omosessuali rischiano la pena di morte in Iran...
«È il caso di Ebrahim Hamidi di soli 18 anni, che rischia di essere impiccato da un momento all´altro. La sua situazione è ancora più precaria di quella di Sakineh, perché se ne parla molto meno».
Lei lotta anche per mettere fine alle leggi che in Iran colpiscono molto duramente adolescenti e bambini.
«L´età della responsabilità criminale in Iran è fissata a nove anni per le bambine e a 15 per i bambini. Questo significa che se una bambina di 10 anni commette un crimine sarà condannata con la stessa durezza che un uomo di quarant´anni. È per questo motivo che l´Iran detiene il triste primato del più alto numero al mondo di esecuzioni di minori».
Cosa può fare l´Occidente?
«Continuare senza posa questa lotta per i diritti umani. Sradicare questa violenza degli organi politici, religiosi e giudiziari dell´Iran. Per questo faccio appello non solo agli intellettuali, ma anche ai leader mondiali perché si battano per mettere fine a questa pena barbara e crudele che è la lapidazione. Ma anche all´impiccagione o a qualsiasi altra forma di pena capitale».
È favorevole a sanzioni economiche nei confronti dell´Iran?
«Non potrebbero che avere conseguenze positive. A condizione, ovviamente, che non colpiscano la popolazione. Bisogna indebolire i dignitari del regime. Bisognerebbe procedere, per esempio, al congelamento di tutti i loro averi nei Paesi democratici, impedirgli di viaggiare negando loro il visto e boicottare i loro incontri o discorsi in seno agli organismi politici internazionali».
Pensa che Sakineh sarà risparmiata dalla giustizia iraniana?
«Non ho nessuna fiducia nell´attuale governo iraniano. Solo il capo del potere giudiziario ha il diritto di presentare una domanda di grazia. E questa va presentata alla Guida suprema: l´ayatollah Khamenei. È a lui che conviene indirizzare i nostri appelli alla clemenza».
(Traduzione di Luis E. Moriones. L´autore è il promotore dell´appello per Sakineh che ha raccolto oltre 140mila firme
sul sito di Repubblica)

Repubblica 19.9.10
L’incontro
Flippo Timi
di Irene Maria Scalise

Ha una rara malattia agli occhi, ma è diventato uno scrittore famoso Ha la balbuzie, ma è diventato uno degli attori più richiesti. Mamma infermiera, papà operaio, "da bambino sognavo di firmare gli autografi alle ragazze, come Elvis, invece ero uno sfigato" Non ha paura di passare continuamente dal palco al set, ma della morte sì: "Quando ci penso allungherei un braccio per aggrapparmi a Dio"
Capire le donne è uno sforzo inutile Carmelo Bene diceva sempre che farle piangere è una cosa irreparabile e io sono pienamente d´accordo con lui

Cita i grandi filosofi ma avrebbe voluto essere Elvis Presley. Recita con voce profonda ma quando non è sul set s´inceppa sulle parole. Ha uno sguardo intenso ma soffre di una rara malattia agli occhi che gli impedisce di vedere il centro delle cose. Scrive libri ed è diventato famoso come mattatore. Ha paura di volare eppure è sempre in viaggio. È Filippo Timi, trentasei anni, nuovo mito trasversale. Specialmente per le donne. Lui, onesto, ammette: «Seduco a trecentonovanta gradi».
Alto, spalle larghe, barba e capelli arruffati, quarantasei di piede, Timi è un uomo ingombrante. Si racconta sempre divertito e, anche quando esita sulle sillabe, sdrammatizza. Negli ultimi tre anni ha scelto di vivere a Milano, città che ama perché la trova comodissima. Lungo i Navigli si muove disinvolto, sorriso aperto e passi lunghi. È umbro. Ponte San Giovanni, appena fuori Perugia. Ama la sua terra e quando torna a casa è sempre un´emozione. «Soprattutto per mia madre che si agita come una bambina appena legge un articolo che mi riguarda sul Corriere dell´Umbria. Sospetto però che l´orgoglio aumenti quando sulla stessa pagina magari compare anche una foto della Bellucci», compatriota di Città di Castello. Un´infanzia semplice quella di Timi: «Da bambino facevo parte del gruppetto degli sfigati, soffrivo anche di ernia e i medici avevano ordinato ai miei di non farmi piangere: mia sorella mi odiava perché mi vedeva come un privilegiato. Ero il classico "ciccio" che non ha mai avuto il motorino. Quel tipo di bambino che fa tenerezza agli adulti e che i coetanei sfottono».
Mamma infermiera e papà operaio, Filippo sognava in grande: «In un tema di quinta elementare scrissi che da grande mi sarebbe piaciuto essere una "specie" di Elvis Presley per avere tante ragazze che mi chiedessero l´autografo. Finita la scuola, invece, mi sono messo a studiare filosofia e al secondo esame un professore mi ha cacciato perché avevo deciso di applicare con lui il metodo di Socrate, rispondendo alle domande con un altro quesito». Una pessima partenza che lo fa velocemente traslocare all´istituto d´arte. «Ero tra i più bravi, facevo duecentocinquanta disegni alla settimana con gli insegnanti che mi passavano i fogli di nascosto perché consumavo carta in modo compulsivo. Lì mi si è aperto un mondo. Ho scoperto quanto era meraviglioso studiare, e ho cominciato a immaginare una vita d´artista - anche se mia madre era sempre lì a ricordarmi che i soldi per mantenermi non c´erano».
Poi, come a volte succede, tutto si risolve per caso: «Sono andato ad accompagnare un mio amico a un provino e hanno scelto me». Un successo inaspettato, nonostante l´evidente balbuzie. «Non capisco cosa accade quando recito ma ogni esitazione sparisce, forse perché entro nelle cose con il cuore e con gli occhi. Anzi, è proprio quell´incognita nella parola che mi dà un punto in più nel rapporto con il pubblico». Giorgio Barberio Corsetti, il regista, si appassiona a questo strano personaggio. Lo prende nella sua compagnia teatrale e gli cambia la vita. «Era un modo per fuggire dal niente. E dopo un mese di prova ho potuto interpretare Edipo il giovane con lo stesso Corsetti, che ancora recitava, e un anziano Franco Citti che interpretava il vecchio e mi parlava in romanesco. Mi sembrava di sognare. Lavoravo senza aver fatto nessuna scuola. Solo energia pura».
In quegli anni viene fuori però il problema agli occhi. Una malattia degenerativa, la sindrome di Stargardt, che gli complica i sogni. «Ogni tanto penso a quanto mi piacerebbe guidare», racconta con un sorriso. «Con il computer mi sono abituato a usare i caratteri quaranta e grazie all´iPhone riesco a inviare anche i messaggi». Anzi, è proprio grazie ai suoi caratteri al cubo se è diventato anche scrittore. «Scrivo in continuazione, un´urgenza sotto la pelle che forse è un modo per sfogarsi». Sceneggiature, pensieri, testi teatrali ma soprattutto tre libri tra cui Tuttalpiù muoio, concepito a quattro mani con Edoardo Albinati. Un libro da cui ha tratto e interpretato l´adattamento teatrale La vita bestia. «C´era un po´ d´incoscienza nel fare un passo così impegnativo, poi quando l´ho visto in libreria mi è preso un attacco di panico. Anche la rappresentazione non è stata semplice, un monologo di due ore con temi molto personali».
Il silenzio della mattina milanese è rotto da una telefonata. Filippo Timi si alza dal tavolo e per non disturbare l´atmosfera sonnacchiosa del vecchio caffè milanese, esce dal locale. La città risplende di quella luce speciale che ogni tanto la illumina. Una breve pausa e ricomincia a raccontarsi. «A ventiquattro anni, nel ´99, ho debuttato nel cinema con un film di Anna Negri. Un´esperienza indimenticabile». Da quel momento molti registi lo scoprono e sembrano innamorarsi di questo ragazzone. Improvvisamente è ovunque. In memoria di me di Saverio Costanzo, in Saturno contro di Ferzan Ozpetek, ne I demoni di San Pietroburgo di Giuliano Montaldo, in Signorina Effe di Wilma Labate, in Come Dio comanda di Gabriele Salvatores. E naturalmente in Vincere di Marco Bellocchio. «Al cinema ho portato molto del teatro, soprattutto la forza espressiva del mio corpo, forse perché non mi fido della parola. Attraverso la parola spesso tradisci quello che vuole dire il personaggio, e proprio per costruire un ruolo "credibile" non mi baso mai su quello che il personaggio dice».
La continua oscillazione tra set e palcoscenico non lo spaventa. Anzi: «Il teatro è corpo a corpo, un modo di fare l´amore con il pubblico. Al cinema invece basta pensare una cosa e la macchina ti riprende, non devi avere coscienza ma solo farti rubare. C´è un tempo cinematografico che è diverso da quello del teatro ma, soprattutto, da quello della vita. Per pochi fortunati è un dono naturale e, tra questi, sicuramente c´è Elio Germano». Che appena vinto la Palma d´oro a Cannes al telefono gli ha detto: «Ahò, Filì, sto vicino a Javier Bardem: ma lo sai che siete identici!».
Con la televisione ha un rapporto sincopato. Generalmente se ne dimentica, poi ogni tanto s´appassiona a qualche serie e allora diventa un´ossessione. Non fa altro per giorni. «È che non conosco il piacere della sosta. Se faccio tre cose mi concentro meglio che se ne affrontassi una sola, adoro lavorare per sottrazione». È ansioso, ma in un modo tutto suo. «Non ho timori per me ma mi pongo domande impressionanti del tipo: dove andremo a finire?». Nella vita è quasi sempre innamorato: «L´amore lo concepisco in modo francescano, non ho il senso dell´appartenenza ma voglio essere amato a tutti i costi. Anche perché non puoi recitare in teatro senza che ti batta il cuore». Sino ad ora non ha approfittato del suo successo con le donne. Casomai il contrario. «Ho troppo rispetto per me stesso per abbandonarmi alle avventure. Senza contare che la mia generazione è stata inibita dalla paura dell´Aids e questo mi ha parecchio frenato». Il mondo femminile lo affascina, anche se sa bene che ogni sforzo per comprenderlo «è inutile». «Carmelo Bene diceva che far piangere una donna è una cosa irreparabile e io sono pienamente d´accordo con lui. Ma per esempio non capisco cosa passa nella testa di Nina, una delle protagoniste del mio primo libro, che non ama più e continua fare l´amore con il marito. Perché le donne spesso accettano una storia fatta di un rapporto sessuale che equivale a uno stupro?».
Del successo non ha ancora la sicurezza paludata. «È bello e gratificante sapere che fai un lavoro che smuove qualcosa negli altri e che degli estranei spendono energie per venire a vederti e per farti i complimenti. Spero solo di mantenere questa leggerezza che mi fa aspettare ancora con curiosità che accadano le cose». Della malattia e della morte cerca razionalmente di farsene una ragione, ma l´istinto bestiale è di terrore puro: «Se penso alla morte vorrei allungare un braccio e aggrapparmi a Dio. Da un po´ ho anche timore di volare. Nei viaggi lunghi mi ripeto frasi scontate - tipo "nulla può accadere sino a quando non arriva il tuo momento" - . Poi però mi assale il dubbio atroce che "il momento" sia arrivato per il mio vicino. E allora entro nel panico».
Di figli ne vorrebbe, ma non subito. «Quando torno in Umbria e vedo le figlie gemelle di mia sorella le trovo meravigliose, ma molto impegnative. E poi ancora non ho un rapporto stabile. So solo che un giorno sarò padre». L´estate scorsa ha portato ancora in tournée Il popolo non ha il pane? Diamogli le brioche, di cui è autore, regista (assieme a Stefania De Santis) e interprete. Una rilettura di Amleto. Gioco e ira. Struggimento e provocazione. «Da quando un attore comincia a fare teatro sogna d´interpretare Amleto, e io su quel palcoscenico ogni sera soffro perché muoio, uccido, amo. E la sera successiva soffro nuovamente. Uso la risata come specchio della vita e pur essendomi basato sulle tragedie di Shakespeare e sui testi filosofici di Agamben, rileggo tutto a modo mio». Dopo i mesi caldi dedicati a premi e festival, dopo aver partecipato al film che Michele Placido ha presentato fuori concorso a Venezia Vallanzasca. Gli angeli del male e aver recitato un cammeo in La solitudine dei numeri primi, ora ci sono le prime riprese del film di Cristina Comencini, Quando la notte. Un altro inizio per Filippo Timi.

Corriere della Sera 19.9.10
Pirani, artigiano della penna
Il Pci, l’Eni e il giornalismo: sempre sul filo dell’autoironia
di Paolo Franchi

A leggere il rendiconto di Mario Pirani ( Poteva andare peggio. Mezzo secolo di ragionevoli illusioni) appena uscito da Mondadori, un giornalista di una ventina d’anni più giovane può anche provare un vago senso di invidia: nella vita e nel mestiere probabilmente non gli è capitato, e non poteva capitargli, niente di paragonabile.
Basta provare, per credere, a mettere sommariamente in fila stagioni e desper i enze. Il mondo (quasi) dorato di un’infanzia borghese negli anni Venti e nei primi anni Trenta. La persecuzione razziale che minaccia di travolgere la famiglia Pirani Coen. Un lungo dopoguerra (dal 1944 al 1961, passando per l’«indimenticabile ’56») nel movimento giovanile del Pci e poi nel partito e all’«Unità», sempre nelle vicinanze del sancta sanctorum. Gli anni Sessanta all’Eni, dopo lac hi amatadi Enrico Mattei, nel ruolo di dirigente, certo, ma prima ancora di «agente quasi segreto» in Tunisia, alla vigilia della vittoria della rivoluzione algerina. La scelta, stavol t a defi nitiva, del giornalismo: «Il Giorno» di Italo Pietra, l’avventura del «Globo», di nuovo «Il Giorno». L’incontro al Little Bar, sui nizia tiva di Giorgio Ruffolo, con Eugenio Scalfari (il gestore del locale gli aveva ceduto come sempre la tastiera del pianoforte, «ed Eugenio stava avviando le note di un vecchio blues: in piedi, accanto al piano, c’era Sandro Viola, sembravano usciti da un disegno di Onorato») e la partecipazione, da socio fondatore, alla nascita di «Repubblica». Un’altra avventura sfortunata, stavolta alla guida dell’«Europeo». Una breve stagione alla «Stampa» diretta da Giorgio Fattori. Infine il «ritorno a casa», al quotidiano fondato da Eugenio Scalfari, di cui Mario è autorevolissimo editorialista. E, lungo tutto questo, molti amori, tantissimi incontri (fantastico, anche per la piega imprevedibile che avrebbe potuto prendere, quello casuale in aereo, nei cieli dell’Africa, con Ernesto Che Guevara) con uomini che hanno fatto la storia del Novecento, ma anche con un’infinità di personaggi d’ogni tipo, spesso tanto improbabili quanto fascinosi. Nonché una quantità di viaggi ufficiali e di missioni riservate, in capitali europee e città africane che paiono uscire da un romanzo o da un film.
Poteva andare peggio, sostiene con un filo di autoironia Pirani. Per quel che riguarda la sua vita e il suo lavoro, ha ragione, ovviamente. Quanto alle «ragionevoli illusioni» che lo hanno ispirato, il discorso è un po’ più complicato. Anche perché le più (ragionevolmente) brucianti tra queste con il giornalismo c’entrano, sì, ma fino a un certo punto. Provo a spiegarmi. I caporedattori di un tempo, spesso più colti di quanto volessero apparire, frenavano i nostri giovanili ardori ricordandoci impietosi che «dopo mezzogiorno, il giornale è buono solo per incartare il pesce». Pirani è dello stesso parere: «Le nostre parole, una volta stampate, sonocondann ateaunarapida deperibilità, non vale eternarle fittiziamente in un libro o riservirle a tavola, in guisa di cibi manipolati, sotto altra forma». Dunque? Dunque «un bravo giornalista può paragonarsi a un bravo artigiano, e deve sapere, come lo sanno gli artigiani, che le sue opere non sono destinate ai musei». E, visto che «nessuno di noi possiede la verità… dovremmo essere tenuti a raccontare le cose almeno rispettando quella che a noi sembra la verità, sperando di cogliere nel segno o di andarci vicino», sempre pronti «a cambiare opinione se la realtà muta». Tutto qui.
Mario, probabilmente, nel metterla giù così drasticamente gigioneggia un po’. Ma nella sostanza, queste cose le pensa davvero. E anche così si spiega, almeno in parte, come mai, tra i tanti ricordi che Pirani minuziosamente ricostruisce, quelli più direttamente legati ai giornali e ai giornalisti non siano poi molti, e abbiano un peso tutto sommato secondario: sarà anche un vezzo, ma sicuramente non è un caso se, antiche inchieste operaie sull’«Unità» a parte, l’unico suo articolo su cui si sofferma compiaciuto per qualche pagina, anche per gli artifizi che consentirono di farlo venire alla luce, è un’intervista per «Il Giorno» a Paola del Belgio, all’epoca principessa inseguita dai rotocalchi, oggi regina felicemente regnante. E le «ragionevoli illusioni»? Sono, in ultima analisi, illusioni di natura politica e intellettuale: arte, non artigianato. Anche un giornalista che si comporta da «bravo artigiano» può nutrirne, ci mancherebbe. Ma, in generale, appartengono al passato, più o meno remoto. Se vivono ancora (chi conosce Pirani, o semplicemente chi lo legge, sa che per lui una qualche forma di vita la hanno, eccome), è perché danno comunque un minimo di ordine, chissà quanto davvero fondato, e qualcosa di simile a un minimo di spessore storico, al nostro discorso. Non sarà moltissimo, ma, di questi tempi, non è nemmeno poco. Per chi voglia leggerlo anche in questa chiave, Poteva andare peggio non è solo memorialistica.