lunedì 20 settembre 2010

il Fatto 18.9.10
Clinton, Fidel. L’umanità dov’è?
di Massimo Fini

La Fiat trasferirà la produzione della nuova Panda da una fabbrica polacca a Pomigliano, cosa che se risolve i problemi dei lavoratori di Pomigliano ne creerà altri a quelli polacchi. Nel contempo la Fiat dislocherà da Mirafiori, portandola in Serbia, una nuova produzione, il che se farà contenti gli operai serbi, anche quando non dovesse portare alla disoccupazione di quelli di Mirafiori sicuramente renderà molto più difficile l'ingresso nel mercato del lavoro di migliaia di giovani italiani. Il capitale, essendo mobile, non conosce frontiere né amor di Patria, segue solo il suo interesse. Già cinque secoli fa Giovanni Botero ammoniva sul “pericolo che sorge per lo Stato quando la base della proprietà della classe dominante è costituita da beni mobili che in tempi di pubbliche calamità si possono portare al sicuro, mentre gli interessi dei proprietari terrieri sono legati indissolubilmente alla Patria”. Il capitale se nel Paese in cui è stato accumulato trova delle difficoltà va altrove. Sul Corriere della Sera Raffaella Polato ipotizza che se a Marchionne non fossero date le condizioni che chiede risponderebbe: “Il mondo è grande”. Ma se il denaro può andarsi a cercare liberamente il luogo della Terra dove ritiene di esser meglio remunerato, lo stesso dovrebbero poter fare gli uomini. A meno che non si voglia sostenere l'aberrante tesi che il denaro ha più diritti degli uomini. Invece è proprio ciò che accade. Mentre il capitale evoluisce liberamente per l'universo mondo, agli spostamenti delle popolazioni, soprattutto dei Paesi cosiddetti "sottosviluppati", che spesso sono state rese miserabili proprio dall'irruzione di quel capitale che, con le sue dinamiche, le ha sottratte alle "economie di sussistenza" su cui avevano vissuto e a volte prosperato per secoli, vengono posti limiti sempre più ferrei in attesa di prendere i "migranti" a mitragliate. Sulla globalizzazione ci sono solo due posizioni coerenti. Quella dei radicali italiani che sono per una totale libertà di movimento dei capitali ma anche per una altrettanto totale libertà di movimento degli uomini. E quella che sta all'estremo opposto, e che per ora è puramente concettuale, di chi dice no all'immigrazione ma rinuncia anche ad andare a piazzare le sue puzzolenti e devastanti fabbriche in Niger, in Nigeria, in Bangladesh, in Marocco o altrove. Tutto ciò che sta nel mezzo, sì alla globalizzazione dei capitali, no a quella degli uomini, è di una violenza inaudita e ripugnante. Eppure sia la destra che la sinistra sono a favore della globalizzazione. Bill Clinton a un forum del Wto del 1998 ha dichiarato: “La mondializzazione è un fatto e non una scelta politica” e Fidel Castro di rincalzo, nello stesso Forum: “Gridare abbasso la globalizzazione equivale a gridare abbasso la legge della gravità”. Ed è vero se al centro del sistema noi mettiamo l'economia: tutto deve adeguarsi ad essa. Ma sarebbe altrettanto vero se al centro del sistema mettessimo uno spillo, tutto dovrebbe girare intorno allo spillo. L'economia non è stata sempre al centro del sistema. In epoca preindustriale era inglobata nelle altre e molteplici esigenze umane al punto che era indistinguibile da esse, e non è un caso che l'economia politica, come scienza, o presunta tale, sia coeva alla Rivoluzione Industriale. Aver puntato tutto sull'economia, emarginando ogni altro bisogno dell'essere umano, si è rivelato un fallimento epocale come ognuno oggi, con gran ritardo, può vedere. È un Moloch che pretende sacrifici umani, massacri, alle popolazioni del Terzo e ora anche del Primo mondo. Io credo che al centro del sistema vada rimesso l'uomo e l'economia riportata al ruolo marginale che ha sempre avuto finché abbiamo avuto una testa per pensare.


l’Unità 20.9.10
È dunque legittimo e forse doveroso che una motovedetta libica, per di più con a bordo alcuni finanzieri italiani, insegua e apra il fuoco ad altezza d’uomo, per uccidere, su una carretta del mare dei poveri immigrati. L’incredibile dichiarazione del ministro dell’Interno, secondo cui i libici hanno sbagliato bersaglio e hanno sparato sui pescatori di Mazara pensando fossero clandestini, ha suscitato la reazione indignata delle forze sane della società italiana e di esponenti della Chiesa. La segretaria confederale della CGIL Vera Lamonica ha definito “incredibili e agghiaccianti” le parole di Maroni. “Purtroppo – ha aggiunto – non sono solo parole al vento. Il ministro, infatti, sa che le regole d’ingaggio previste dall’accordo italolibico prevedono di sparare agli immigrati presunti clandestini, violando tutte le norme internazionali dei codici civili e militari”.

l’Unità 20.9.10
Vita: allarme per l’Unità «Editoria, che fa il governo?» «Dobbiamo fare un sforzo straordinario per salvare l'Unità ed evitare che la sua crisi possa diventare più grave. La sospensione delle redazioni in Toscana ed Emilia-Romagna, dove maggiore è la diffusione del giornale non è un buon sintomo di interesse da parte dell'editore. Anzi, è augurabile che proprio Soru voglia spiegare quali sono le sue intenzioni». Lo dice il senatore Pd Vincenzo Vita. «Tuttavia aggiunge vi è un altro punto da sottolineare: si tratta del taglio del fondo dell'editoria voluto dal governo: ecco i primi frutti. C'era un vago impegno volto a ripristinare almeno in parte le risorse per la stampa non-profit, cooperativa e politica. Esiste ancora?»

l’Unità 20.9.10
Rossi contro Scalfari: Bersani ci fa sognare

«Scalfari, in un colpo solo, fa fuori Bersani e Vendola e tutti gli esponenti del Pd, Renzi compreso. Se ha qualche nome da proporre per la guida del centrosinistra lo faccia, dal suo giornale. Ma poichè un giornale è un giornale e un partito è un partito, noi del Pd un candidato ce lo abbiamo già è scritto nello statuto ed è Bersani, che a Torino ha esposto un programma solido, ci ha fatto sognare e persino commuovere». Lo scrive su Facebook il presidente della Regione Toscana, Enrico Rossi, commentando l'’editoriale di Eugenio Scalfari su Repubblica di ieri. «Beninteso aggiunge Rossi -. Io sono convinto che si debbano fare le primarie, ma sostengo che il mio partito ha già il suo candidato. E coloro che militando nel Pd, soprattutto i dirigenti, non lo riconoscono, mancano di rispetto alle regole fissate, impediscono che si consolidi una leadership e frenano la capacità di sognare».

l’Unità 20.9.10
Errani: il Pd che litiga è un regalo alla destra

«Non possiamo regalare a questa destra un Pd che non svolge la sua funzione ovvero quella di costruire l'alternativa». È il messaggio lanciato al suo partito dal presidente della Regione Emilia Romagna, Vasco Errani, che ne ha parlato alla Festa dell'Unità a Bologna.

Repubblica 20.9.10
Ma una sfida vera servirebbe alla sinistra
di Giancarlo Bosetti

Non è vero che nella sinistra italiana ci siano troppi conflitti. È solo una impressione. Falsa. Ci sono invece molte «beghe», parola di origine gotica, che indica fastidiose liti, per le quali il Devoto-Oli esemplifica: tipiche quelle «tra suocera e nuora». È vero che si litiga, ma niente duelli, la lite si ferma sempre prima della minima contusione.
E così la antica compagnia di giro, che guidava la Federazione giovanile comunista quando Berlusconi esordiva nell´edilizia milanese, continua il suo giro. È vero che ogni tanto si affacciano le «primarie», parola truculenta che indica un duello all´ultimo sangue (se uno ha in mente quelle americane), dove c´è chi vince e c´è chi perde. Ma qui da sottolineare è la parola «perde», perché le nostre primarie si tengono generalmente quando si sia messo ben in chiaro, «prima» – un´etimologia alternativa? – chi le vincerà. E dove non c´è mai davvero chi le «perde». Onore al merito per le prestazioni passate di Letta e Bindi, o Marino e Franceschini e altri coraggiosi, ma non furono mai duelli per il primo posto. Non che fossero per questo del tutto inutili, avevano una funzione mobilitante, ma non servivano allo scopo per cui sono state inventate: la «selezione», parola crudele e darwiniana, che – duole constatare – indica la necessità di migliorare la specie, nel nostro caso la leadership, attraverso la lotta.
L´enigma di una sinistra e di un Pd che rimangono «in attesa» e privi di «appeal» (come ben rimarcato ieri da Scalfari) anche quando declinano palesemente i consensi della destra si può spiegare con molte ragioni, ma certo anche con la mancanza di una competizione aperta per la leadership. Questa non avviene e il primato è reso in sostanza non contendibile ad opera di gruppi dirigenti che si sottraggono al duello. Astuzie da vecchi democristiani, i quali però stettero al potere, non all´opposizione, per qualche decennio.
Alle primarie del 2007, che insediarono Veltroni segretario, il possibile candidato dalemiano, Bersani, si sottrasse, in obbedienza alla sua affiliazione, e se ne rammaricò in seguito pubblicamente (una «cavolata», disse centrando pienamente il bersaglio). Se avesse dato battaglia, e se altri l´avessero fatto con lui, avrebbe reso più forte se stesso (allora e oggi) e il Pd. Ha atteso un momento apparentemente più propizio. Ma lo è davvero? L´elettorato apprezza le battaglie aperte e tributa prestigio e consensi a chi appare più capace di lanciare la sfida sia all´interno della sinistra e del centro-sinistra, sia nei confronti dell´altra parte politica, come è apparso chiaro nella vicenda delle candidature di Vendola in Puglia e di Renzi a Firenze. E anche i duelli per interposta persona eludono una vera contesa. Dove porterà ora un nuovo «movimento» guidato da Veltroni che innalzi però l´effigie non dell´ex segretario, ma quella di un altro? Come non vederci un ennesimo tentativo di evitare possibili contusioni? Altro che combattimenti e divisioni del Pd. Beghe.
Una leadership forte e carismatica non arriva come premio di anzianità o di fedeltà gregaria a una corrente, va guadagnata con il coraggio di gettare il guanto in faccia all´avversario. La sistematica elusione del conflitto non fa che prorogare (davanti e dietro le quinte) i soliti in carica, tenacemente legati a una concezione della politica come «posto fisso», con quel che ne segue per il loro entourage e i costi che ne derivano. Il maggiore di tutti i costi è la perdita di credibilità dei leader del centrosinistra come «sfidanti» di Berlusconi: si richiedono capitani coraggiosi per una difficile guerra di movimento e si trovano soltanto gestori di una gloriosa ma insufficiente eredità; si richiede intraprendenza e si offre sopravvivenza, c´è da affrontare un duello e ci si ritrova con specialisti della mediazione. C´è da governare il mondo della flessibilità, del rischio di impresa, della precarietà e della perdita del lavoro. E c´è poca voglia in giro di affidarsi a cultori inamovibili del posto fisso.
Se si ritiene che Bersani non sia in grado di battere Berlusconi davanti all´elettorato, non c´è nulla di offensivo nel dirlo assumendosi in pubblico il peso di una sfida, che servirà anche a misurarne le forze. Una soluzione vincente, se c´è, potrà uscire solo da una competizione dichiarata, nelle prossime primarie per il candidato premier, e non potrà essere il risultato di una ingegneria delle correnti, interne o esterne al Pd. Ha ragione Sergio Chiamparino con il suo libro che si intitola appunto La sfida: è indispensabile una rottura con le vecchie abitudini di gruppi che si autoperpetuano al comando del Pd e che lo hanno consumato fino a renderlo forse inservibile. Il ricambio è ostruito e va liberato. I leader in carica, che stiano in scena in proprio o non, non sono necessariamente i peggiori, ma urgono misurazioni e confronti attraverso quella lotta che è impedita e temuta. Per dare credibilità alle sue tesi, e non abbandonarle in libreria, occorrerebbe che il sindaco di Torino (a proposito di paure, alla festa del Pd non l´hanno neppure chiamato a dare un saluto prima del rituale comizio di chiusura) inizi la sua di battaglia, candidandosi e non rimanendo indefinitamente allo stato di ipotesi. I movimenti in corso, probabilmente innescati anche solo dall´ipotesi e dai sondaggi, tendono a evitare rese dei conti, per sempre.
E invece le democrazie – lo riconoscono anche i più realisti alla Schumpeter – per quanto siano difettose hanno bisogno, per restare tali, di elite competitive e «inclusive», il che significa che si deve potervi entrare e che qualcuno deve accomodarsi fuori, per far posto ai nuovi. La politica italiana soffre già, sulla destra, di «posizioni dominanti» sulle quali non è il caso qui di tornare. Ma uno sguardo dell´«antitrust» farebbe bene anche alla sinistra.

Repubblica 20.9.10
Pd, ancora bufera su Veltroni Vendola: lite personale non politica
Sfiducia a Berlusconi, no dell´Udc: solo demagogia
Critiche alla creazione di una corrente. Ma Morando: parola d´ordine cambiare
di Giovanna Casadio

ROMA - Alcuni non capiscono, altri lo criticano aspramente, una minoranza lo appoggia: il "movimento" di Walter Veltroni scuote sempre il Pd e il centrosinistra. Gelido con l´ex segretario è Nichi Vendola, il leader di "Sinistra e libertà", che si candida alle primarie per Palazzo Chigi volendo sparigliare: «Non si capisce la natura politica della contesa, è preoccupante la disputa tra le persone. Penso che il centrosinistra debba concentrarsi sul paese e guardare alla profondità della crisi, che debba essere la coalizione capace di portare a sepoltura il berlusconismo». Nel Pd a sostenere l´utilità della discussione che il documento di Veltroni-Gentiloni-Fioroni, firmato da 75 parlamentari ha aperto, è Sergio Chiamparino. L´ha detto sabato a Orvieto all´assemblea dei liberal di Enrico Morando e di Giorgio Tonini e Stefano Ceccanti, lo ripete ieri: «Discutere non è spaccare. Io il documento che era riservato ai parlamentari non l´ho sottoscritto - spiega il sindaco di Torino - e la segreteria trovi i modi per una discussione che non sia basata su "va tutto bene madama la marchesa" solo perché c´è stato un congresso».
Non manca l´occasione per ricordare a Veltroni di avere fatto uno sbaglio, Rosy Bindi: «Questa volta penso l´abbia capito, perché il documento è stato percepito come un atto di divisione, e in questo momento il partito non vuole divisioni». Ai 75 "movimentisti", la presidente del partito consiglia di farsi un giro su internet per capire cosa pensa il popolo della sinistra. Non bene. E anche per Piero Fassino, ultimo segretario dei Ds, dell´area di minoranza democratica, critica Veltroni: «Discutere va bene, ma così è stata organizzata una corrente interna al Pd e questo è meno utile». Davanti alla bufera provocata dai "movimentisti", Pier Luigi Bersani passa alla controffensiva con un questionario tra iscritti e simpatizzanti sulla popolarità sua e del partito che guida da undici mesi.
Mentre il tam-tam su primarie e premiership è sempre più forte, il segretario democratico prepara l´intervento che terrà in direzione giovedì, dove cercherà di sminare il percorso di un Pd con poco appeal e una grande responsabilità davanti alla crisi del paese e della maggioranza. Intanto si concentra sui temi della battaglia politica per far cadere il governo. L´opposizione mette sul tavolo anche la mozione di sfiducia a Berlusconi chiesta da Parisi e da Veltroni e che aveva avuto l´appoggio condizionato di Bersani. Sì alla mozione - aveva detto il segretario - a patto che sia di tutta l´opposizione. Non lo sarebbe. Il leader Udc, Pier Ferdinando Casini boccia infatti l´idea: «Siamo assolutamente contrari. Veltroni e Parisi se vogliono che l´Udc la voti, minimo ne devono parlare prima, non sui giornali». Per il leader centrista la proposta è «demenziale», non ha niente a che vedere con la politica, è «propaganda». Replica a distanza di Chiamparino: «Non è demenziale, un po´ di chiarezza ci vorrebbe, definirla in quel modo non è da Casini».
C´è poi il capitolo-alleanze sempre aperto: è del resto il cuore della linea politica di Bersani. Ottimista il segretario a proposito di Di Pietro. Ne apprezza «il discorso orientato alla convergenza verso il Nuovo Ulivo. Vedremo le condizioni reciproche, però si deve trattare di un patto serio, esperienze come l´Unione non ne facciamo più». I "movimentisti" vogliono invece un Pd forte e ad «ambizione maggioritaria». Morando conclude il seminario di Orvieto affermando che «la parola d´ordine è cambiare» e che i Democratici devono scegliere tra conservazione e cambiamento. Ceccanti avverte del pericolo di «un ritorno alla vecchia sinistra». Tonini giudica «inaccettabili» le reazioni al documento dei 75.

Repubblica 20.9.10
Questionario di 33 domande inviato a 140 mila iscritti ed elettori. Ma è già polemica
Nuovo Ulivo e dirigenti da rottamare Bersani lancia il sondaggio tra la base
di Mauro Favale

ROMA - Premessa: «C´è chi afferma che, dopo Torino, Bersani ha dimostrato di essere un vero leader». Domanda e possibili risposte: «Lei è: del tutto d´accordo; d´accordo; in disaccordo; del tutto in disaccordo; preferisco non rispondere». In statistica si chiama "scala Likert" ed è una delle tecniche più utilizzate nei sondaggi. Di domande come queste ce ne sono 33 e sono state sottoposte da ieri a circa 140.000 simpatizzanti del Pd in tutta Italia, suddivisi tra iscritti e elettori delle primarie. Un questionario lanciato da Pierluigi Bersani, elaborato da Swg, che vuole essere il primo appuntamento della mobilitazione che culminerà a novembre, con il "porta a porta", lanciato dalla segreteria del Pd.
Si risponde su internet, si indica il proprio sesso, l´età, il titolo di studio, il luogo di residenza. Poi si parte. Trenta domande che prendono spunto dal discorso di Bersani alla festa del Pd di Torino. «Direbbe che quel discorso è stato: equilibrato; troppo incentrato sulla critica ai partiti di governo; poco propositivo; preferisco non rispondere». E ancora: «Che giudizio darebbe sulla proposta di dar vita a un nuovo Ulivo?». Segue la classica "scala di atteggiamento", da «del tutto positivo a del tutto negativo». Al centro del sondaggio c´è sempre Bersani, la sua proposta di un governo di transizione per cambiare la legge elettorale, il giudizio sulle proposte affrontate nel discorso di Torino, ma anche la domanda, cruciale, sulla classe dirigente del Pd: «Il sindaco di Firenze Matteo Renzi sostiene che bisogna cambiare il gruppo dirigente, le idee e il linguaggio. Quanto condivide la posizione di Renzi?». Manca la parola «rottamazione», utilizzata dal primo cittadino di Firenze. Ma l´interrogativo viene sottoposto agli iscritti. Insieme alla domanda successiva: «Secondo lei il Pd dovrebbe andare verso: un ampio e rapido rinnovamento della sua classe dirigente; un rinnovamento graduale della sua classe dirigente; va bene così com´è; preferisco non rispondere».
Mentre scorrono le domande, la polemica è già partita. La innesca Pippo Civati, 35 anni, consigliere in Lombardia, considerato tra le nuove leve Pd: «Se si vuole aprire un dibattito se ne discuta nelle sedi opportune. Non serve un questionario, e se proprio si vogliono coinvolgere gli iscritti si fanno i referendum tra i circoli previsti dallo Statuto. Questo modo di fare è inaccettabile. Se vogliono esasperarci ci stanno riuscendo». La risposta della segreteria Pd: «I questionari non escludono la discussione». Bersani, intanto, attenderà i risultati, non meno di tre settimane. Per capire anche le risposte a domande tipo: «A tre anni dalla creazione del Pd lei come si sente?». Oppure: «Sarebbe interessato a contribuire al finanziamento del Pd attraverso il versamento di somme di denaro?».

Repubblica 20.9.10
L’ex segretario: un dovere interrogarsi sulle difficoltà del Pd, ma Bersani non è in discussione
"Il papa straniero non sono io finiamola di dividerci sui nomi"
di Walter Veltroni

Nel pieno della campagna elettorale in Sardegna uscirono duri attacchi contro la mia leadership
Discutere non è dividersi, mai. Solo Berlusconi ha l´idea che un partito sia una caserma
L´accusa di aver fatto un regalo a Berlusconi ha una matrice che giunge da troppo lontano

Caro Direttore,ho letto in un articolo del suo giornale che, secondo i soliti anonimi bene informati (sicuramente esistenti), in realtà il documento firmato da 75 parlamentari del Pd altro non sarebbe che un mio diabolico disegno per diventare il cosiddetto "Papa straniero" che il suo giornale ha indicato come possibilità per dare più forza al centrosinistra e del quale hanno parlato diversi dirigenti del Pd.
Io stesso vi ho fatto riferimento, a Repubblica tv, sostenendo, come Anna Finocchiaro, che non si debba escludere, in caso di elezioni anticipate, di scegliere, come fu nel ´96, una persona della società civile che possa aggiungere apertura e consenso al centrosinistra. Tutto qui. Aggiungo che penso dovremmo smetterla tutti di parlare solo di nomi e di persone, tutte con le loro legittime aspirazioni, visto che Berlusconi è ancora lì e che il rischio peggiore per il paese è che ci resti, coltivando, con l´arroganza della debolezza, i suoi progetti di sfarinamento di una autentica vita democratica. Il primo obiettivo è, per tutti, farlo dimettere al più presto. Ma il secondo è costruire una credibile alleanza riformista, che cambi radicalmente questo paese malato.
Questo è il senso del documento che nasce dalla preoccupazione - e dalla constatazione - che, all´auspicato tramonto del berlusconismo non corrisponda l´alba, come sarebbe naturale in tutti i paese europei, di un nuovo ciclo, questa volta davvero riformista. Un tempo inedito per l´Italia, in cui si possa spezzare la continuità gattopardesca della sua storia politica, e sfidare tutti i conservatorismi per introdurre innovazione ,cultura delle opportunità e spirito di solidarietà in questo sfibrato paese.
Ma no, queste sono balle. Avremmo fatto tutto questo perché io vorrei essere il "Papa straniero". Chi spiffera queste fesserie applica agli altri il proprio modo di ragionare.
Voglio essere chiaro. Sono oggi uno dei pochi dirigenti del Pd che non ha incarichi. Non li ho chiesti, non mi sono stati proposti. Ho solo domandato di andare, come semplice componente, nella commissione antimafia per fare un lavoro difficile, bello, esposto. E spero di aver dato insieme agli altri, in questi mesi, un certo contributo a far tornare il tema della legalità, legato anche alla indispensabile ricerca della verità sulle stragi e sui misteri italiani , in cima all´agenda del centrosinistra.
Ci sono già abbastanza candidati per primarie non fissate, in vista di elezioni non convocate. Io non sarò tra questi, anche per i motivi indicati con chiarezza da Eugenio Scalfari nel suo bell´editoriale di domenica. E credo che chi si riferisce al "papa straniero" come possibilità pensi ad una personalità proveniente dalla società civile. Io sono e resto un dirigente del Pd, partito che ho contribuito a fondare. Dunque smettiamola di parlare di nomi. In questo il centro destra è molto più resistente di noi. Perde elezioni, litiga, si divide. Ma chi sono i leaders di questo schieramento? Gli stessi del ´94: Berlusconi, Fini, Bossi, e ,nella sua nuova posizione, Casini. Noi, moderni Ugolino, ne abbiamo divorati a decine, a cominciare dalla sciagurata interruzione della più bella esperienza riformista Italiana, il primo governo Prodi. Per questo, io che non ho votato Bersani, lo riconosco come leader del mio partito e nel documento, solo ad avere la pazienza di leggerlo, non c´è una parola che metta in discussione la leadership o invochi congressi. C´era una frase che poteva apparire sgradevole, è stata tolta.
Dunque smettiamola di mettere in giro veleni inutili e abituiamoci all´idea che ci sia chi vuole solo discutere di una oggettiva difficoltà non dopo le elezioni, per sacrificare poi un altro agnello, ma prima. Perché se è vero che in questa fase il berlusconismo è in difficoltà, è anche vero che il Pd, in un momento che dovrebbe essere favorevole, è al 24%. Chiedersi perché è un dovere, per chi crede e ama il partito democratico.
Enrico Letta dice che c´è turbamento per il documento. Io ho visto anche molto turbamento per le reazioni al documento. E comunque ne avevo percepito molto, di smarrimento, nel vedere i dirigenti del Partito proporre per tutta l´estate ogni tipo di alleanza, in una escalation figlia di incertezza. Il governo Tremonti, l´alleanza con Fini, che ha correttamente ribadito le sue origini in Almirante, Il rapporto preferenziale con Casini, che mi pare coltivi legittimamente altri progetti, una santa alleanza da tutti gli interlocutori esclusa. Io mi sono attestato sulla linea che avevamo deciso nell´unica riunione tenuta: se cade Berlusconi un governo di emergenza per affrontare crisi sociale e legge elettorale. Anche questa girandola di posizioni e il concentrarsi solo sulla tattica fa smarrire i nostri militanti e i nostri elettori. Perché mostra una sfiducia in un Pd grande, aperto, che possa essere il perno di una alleanza riformista.
C´è un´altra osservazione che mi viene fatta. Quella secondo la quale i settantacinque parlamentari, molti di più dei venti previsti dai soliti spifferatori, avrebbero fatto un "regalo a Berlusconi" scrivendo il documento. Sono sincero. Questa equazione ha una matrice, non rassicurante, che giunge da troppo lontano.
Discutere non è dividersi, mai. Solo Berlusconi ha l´idea che un partito sia una caserma di sua proprietà. Noi no. Noi siamo e dobbiamo essere una grande macchina democratica. E dobbiamo trasformare i malumori in sereno confronto e poi in energia unitaria. Il regalo all´"avversario di classe" rischia di essere un Pd che non riesca a esprimere fino in fondo la carica di disagio e l´ansia di cambiamento. Non dieci cartelle cortesi e unitarie ma un problema che tutti dobbiamo affrontare insieme, collaborando con il segretario, che è segretario di tutti noi. E cercando di nuovo di aprirsi a quel "movimento" della società che fu "Il popolo delle primarie".
Proviamo a sperimentare, è la mia risposta positiva all´invito di Letta che immagino impegni anche il gruppo dirigente, il modello più discussione, più unità. Mi chiedo, se il gruppo dirigente avesse reagito al documento dicendo "E´ un contributo, discutiamone", se questo non sarebbe stato più utile a evitare una drammatizzazione e toni francamente inaccettabili. Mi si permetta solo di dire che nella mia esperienza di segretario del Pd ho fatto i conti, all´interno del partito, con cose più difficili di un corretto documento di parlamentari. Nacquero legittimamente associazioni politiche di deputati e senatori, con tanto di iscrizioni, televisioni, convegni pubblici su temi di attualità. E in piena campagna elettorale per la Sardegna, in uno scontro durissimo con Berlusconi, uscirono interviste e posizioni di dirigenti contro la linea e la leadership. Io non dissi che era un "regalo a Berlusconi" e anzi, dopo la sconfitta, mi dimisi caricandomi, può immaginare con quale dolore, tutte le responsabilità sulle mie spalle.
Discutiamo e stiamo uniti. E´ questo il mio impegno. E la proposta di una iniziativa di tutti i dirigenti del Pd contro la ferita democratica della compravendita dei voti di Berlusconi va in questa direzione. Nella mia vita politica ho sempre cercato di unire. E non cambio.

Corriere della Sera 20.9.10
La solitudine dei numeri due
di Ernesto Galli Della Loggia

C’ è un solo, vero vantaggio strategico che la destra italiana ha sulla sinistra. La destra ha un capo, la sinistra no. Specie quando si tratta di votare, di scegliere un futuro presidente del Consiglio questo si rivela un vantaggio decisivo. Il candidato della destra è il suo capo effettivo, conosciuto e riconosciuto come tale. Il candidato della sinistra, invece, è uno scelto a fare il candidato dai capi veri. La cui autorità quindi è un’autorità delegata, revocabile in ogni momento.
La scelta di Berlusconi come capo della destra, per varie ed ovvie ragioni (ma anche per una meno ovvia e di solito dimenticata: ed è che la destra italiana quale oggi la conosciamo l’ha inventata lui e solo lui) non ha bisogno di spiegazioni. Da che il Cavaliere ha deciso di scendere in campo il fatto che il capo sia lui è qualcosa d’indiscutibile, sul quale Berlusconi per primo non è disposto a transigere. Nessuno del resto ha mai pensato di prenderne il posto. Fini stesso, dopo anni di acquiescenza, si è limitato a chiedere di essere coinvolto in qualche modo nelle decisioni da prendere e di poter esercitare una sia pure insistente libertà di critica. È bastato questo per vedersi cacciato dal Pdl su due piedi.
Ciò che richiede di esser capito e spiegato, dunque, è perché la sinistra invece non riesca lei ad avere un capo . Mi sembrano tre i motivi principali.
Perché, innanzi tutto, non ci riesce quello che è il suo partito di gran lunga più forte, il Pd. Dopo la fine dell’Unione Sovietica non aver scelto l’identità socialdemocratica, preferendole quella furbastra dei «democratici», lungi dal dare al partito ex comunista un’identità più ampia ed onnicomprensiva (come molti evidentemente speravano), gli ha reso impossibile, all’ opposto, avere una qualunque identità. Lo ha condannato ad essere in permanenza un’accozzaglia di gruppi, di storie, di opinioni, ma non un partito. Dunque neppure ad avere una fisiologica e stabile vita interna con un capo riconosciuto. Il «comunismo» italiano, qualunque cosa esso fosse, traeva comunque dal leninismo il divieto ferreo del frazionismo e la conseguente inattaccabilità del segretario generale. Scomparso il «comunismo», non sostituito da niente, sembra svanita l’idea stessa di un capo. Sulla scena sono rimasti una dozzina di leader in lotta tra di loro ed autorizzati dal vuoto d’identità a recitare a turno tutte le parti in commedia.
Il secondo motivo riguarda con ogni evidenza la divisione ideologica della sinistra. Anche la destra è ideologicamente divisa, ma a destra sulle divisioni riesce sempre a prevalere in ultimo la volontà di vincere, e quindi il riconoscimento bene o male di un capo. Sulle passioni, cioè, riesce ad avere la meglio l’interesse politico complessivo. A sinistra, invece, sembra prevalere su tutto la passione del proprio particolare punto di vista (di Rifondazione, Italia dei valori, Grillini, Verdi, ecc. ecc.). Vincere è importante, sì, ma a patto che ogni particolare punto di vista abbia modo di sopravvivere e di poter dire la sua da pari a pari con gli altri. Dunque senza riconoscere alcun capo: al massimo un leader elettorale. A sinistra il principale interesse politico, insomma, non è la vittoria sulla destra ma il mantenimento in vita delle proprie subidentità. In questo senso l’interesse delle varie mini-leadership fa corpo con l’aggressiva suscettibilità, alla base, delle varie sfumature del radicalismo ideologico.
C’è infine un terzo motivo, riconducibile in generale alla cultura maggioritaria nel popolo di sinistra. È il forte elemento antigerarchico presente in tale cultura. Cioè l’ostilità all’idea che specie in politica ci sia, debba esserci, uno che comanda e gli altri che obbediscono. E che dunque non contano solo le cosiddette «forze sociali», non solo «le strutture», ma anche (e come!) la personalità individuale: sicché la cosiddetta personalizzazione lungi dall’essere una patologia della politica è viceversa iscritta da sempre nel suo destino. Come se non bastasse, questo atteggiamento costitutivo della mentalità di sinistra è stato infine enormemente rafforzato dall’enfasi spasmodica posta sull’antiberlusconismo. Berlusconi dipinto incessantemente come «duce», «ras», «boss» ha prodotto l’effetto di squalificare ulteriormente ogni idea di comando, di capo. A ciò si è aggiunto l’altrettanto spasmodico e conseguente pregiudizio antipresidenzialista. Consacrato da una Costituzione la quale, si dice, sancirebbe la suprema ridicolaggine politica che un Paese possa essere governato non da un capo ma da un «primus inter pares».
Una sinistra con molti capetti ma senza un capo è costretta così a inventarsene spasmodicamente uno ad ogni stormir di fronde elettorali. Aprendo ogni volta un gioco al buio nel quale rischia di avere maggiori possibilità di successo, paradossalmente, o chi, tipo Beppe Grillo, in realtà non ha mai avuto a che fare con la politica, o chi, come Vendola, affida il suo richiamo sul pubblico allo stesso vuoto populismo del Grande Avversario da battere.

Corriere della Sera 20.9.10
Veltroni prepara il «movimento» Bersani: il congresso è finito
Bindi: sa di aver sbagliato. Fassino: la sua è una vera corrente
di Monica Guerzoni

ORVIETO (Terni) — Ha ammorbidito i toni, ma non ha cambiato obbiettivi. Walter Veltroni porterà il documento che ha dato la «scossa» al Pd in tutte le province italiane, un tour per placare i militanti e convincerli che non c’è, nel testo, alcuna volontà di rottura. L’intento, assicurano i veltroniani riuniti a Orvieto per la chiusura del convegno di Libertà-Eguale, è contribuire all’innovazione del Pd. La seconda mossa della strategia veltroniana sarà infatti la stesura di un programma che entri nel merito delle proposte. «L’alternativa netta è tra chi ritiene che la parola d’ordine sia difendere e chi pensa che sia cambiare — spiega il senatore Enrico Morando — Modello contrattuale, spesa pubblica, sicurezza...».
Lontano da Orvieto, al vertice del partito, il ritorno di Veltroni non è stato accolto con calore. A partire da Pierluigi Bersani: alla festa democratica di Milano ha ricordato che «non si può fare un congresso al giorno». «Il litigio finirà presto, chi ha iniziato ha capito di aver sbagliato — prevede Rosy Bindi —. Fatevi un giro sui blog e vedrete che il popolo del Pd è contrario». Ma Veltroni pensa che il confronto faccia bene al partito e progetta un sito Internet che rilanci temi e sogni del Lingotto. E mentre Bersani guarda con preoccupazione alle mosse del predecessore, Enrico Letta cerca una tregua in vista della direzione di giovedì, mediatore Beppe Fioroni. I toni restano alti. Piero Fassino contesta all’ex leader di aver messo su una vera e propria «organizzazione correntizia». Giorgio Tonini respinge le «reazioni inaccettabili» e così Veltroni, che su L’Unità le definisce «sproporzionate» e rimprovera a Franco Marini di aver paragonato ai «farisei» i firmatari del documento.
In questo clima i veltroniani meditano di disertare mercoledì la riunione della minoranza convocata da Dario Franceschini. Come dice Salvatore Vassallo, «il documento dei 75 di fatto surroga la funzione di Area democratica». I cattolici sono in grande agitazione tanto che il veltroniano Stefano Ceccanti chiede di non «regalare ad altri i voti di centro».
Una mano a Bersani la tende Pier Ferdinando Casini, bocciando come «demenziale» la proposta di sfiducia al governo proposta da Parisi e accolta dall’ex leader del Pd. Ma Sergio Chiamparino difende l’iniziativa: «Un po’ di chiarezza ci vorrebbe». E ieri si è aperto un altro fronte. La segreteria pd ha spedito agli iscritti un questionario sui temi che lacerano il partito. La cosa non è piaciuta alla minoranza, anche per via di una domanda sulla provenienza: Ds o Margherita? E per Filippo Civati, esponente della direzione, è «inaccettabile» che il Pd chieda «un giudizio sulle affermazioni di Matteo Renzi a proposito della rottamazione dei leader».

Corriere della Sera 20.9.10
La nuova sindrome dello psico-dissenso
di Pierluigi Battista

La scomunica politica si aggiorna con i metodi clinici della psicologia
Fruttero & Lucentini scrissero La prevalenza del cretino. Gli interpreti del pensiero politico delle maggioranze (quella nel Pdl e quella del Pd) potrebbero replicare con La prevalenza dello psicologo. Hanno forse risposto con argomenti all’offensiva di Fini e di Veltroni nei rispettivi accampamenti? No, l’hanno buttata sullo psico-caratteriale: vanitosi, rancorosi, risentiti, livorosi, ambiziosi, astiosi, malmostosi, fatui. È perfino comparso un «civettuoli»: ma qui il plotone psichiatrico d’esecuzione ha mostrato una certa gentilezza d’animo.
Da una parte, a destra, l’insopportazione per il dissenso in un partito il cui programma coincide con la parola carismatica del Capo. Dall’altra, a sinistra, la mistica dell’unità, il Partito come valore supremo, l’irregolarità come pericolo. L’Unità, memore del suo glorioso passato, associa in copertina il nome Veltroni alla parola «vanità». Ma è impressionante come i partiti «leggeri» della Seconda Repubblica si mostrino quasi più intolleranti di quelli, pesantissimi e ideologicamente zavorrati, della Prima. Con una novità: che la personalizzazione della politica trasforma il dissenso in un disturbo della personalità. Che cosa ha detto in fondo Veltroni? Che il Pd rischia di perdere, o forse l’ha già perduta, l’ispirazione originaria alla «vocazione maggioritaria». Ma quando Veltroni era il capo, tutti condividevano la «vocazione maggioritaria»: tutti, senza eccezione. Quando Veltroni dice la stessa cosa, ma da una posizione di minoranza, ecco partire la caccia al risentito, il rimprovero collettivo al vanitoso, la bacchettata al livoroso, il rimbrotto all’ambizioso. Chissà allora come andrebbero definiti quelli che osannavano il Veltroni in sella di ieri mentre danno dello squilibrato rancoroso al Veltroni appiedato di oggi. Psichicamente instabili? Emotivamente volubili? Oppure caratterialmente opportunisti?
La vecchia scomunica si aggiorna con i metodi clinici della psicologia del reprobo. Deve esserci della follia se si sfida il sacro feticcio dell’unità indivisibile, indiscutibile, psichicamente monolitica. Deve esserci una nevrosi, se qualcuno si alza per dire che non tutto va nel migliore dei modi. Non più la vecchia accusa di sabotaggio e di intelligenza con il nemico (anzi no, questa è sopravvissuta), ma quella nuovissima e aggiornata di dissenso caratteriale, di alterazione psicologicamente scissionistica, di predisposizione psicotica al rifiuto dell’uniformità. Chi dissente è una figura bizzarra che nevroticamente parla per seminare zizzania. E chi parlava come Fini e Veltroni prima che fossero disarcionati? Menti finalmente risanate, custodi della normalità psichica e dell’ortodossia politica. I primi a fischiare il riottoso di turno. Sacerdoti del pensiero conforme (e un po’ conformista).

Repubblica 20.9.10
L´intervento del fondatore di "Repubblica" al festival di Pordenone
Scalfari: senza memoria storica viviamo schiacciati dal presente

PORDENONE. I segnali che «sta terminando un´epoca», ci sono tutti. A cominciare dal fatto che «ci stiamo abituando a vivere schiacciati sul presente, con pochissima memoria storica», che per giunta consegniamo alle "macchine" invece che al nostro intelletto. Ma se non riflettiamo attentamente, rischiamo di «non esserne consapevoli». L´analisi del fondatore di Repubblica Eugenio Scalfari, al festival Pordenonelegge, per parlare del suo libro Per l´alto mare aperto (Einaudi), sollecitato da Enzo Golino e Ernesto Franco, è un lungo viaggio che parte da Montaigne, passa per Diderot e Cervantes, tocca Marx e Nietzsche, e arriva a Calvino e Montale.
Oggi invece ci stiamo non solo "imbarbarendo" ma anche "ischeletrendo". Il primo segnale che un´epoca sta finendo, secondo Scalfari, è l´arrivo di una nuova generazione che parla un linguaggio "completamente diverso". Non solo un linguaggio usato «in un modo vergognosamente corrotto dai moderni che si sono imbarbariti», ma un linguaggio più povero, ridotto quasi all´elementarità. Basta pensare all´inglese, che oggi è la lingua globale. Il suo vocabolario contiene ancora mezzo milione di parole, ma nelle università inglesi, secondo una ricerca dell´ateneo di Oxford, se ne usano soltanto diecimila, e per parlare in Internet, o via sms, ancora meno: appena 1.500. «Il vocabolario si è molto ristretto – spiega – ormai manifesta solo bisogni primari, sentimenti basilari, titoli di notizie». Ma un linguaggio scheletrito è pericoloso, «perché suscita anche pensieri scheletrici, elementari».
Di qui il bisogno di «combattere gli inquinatori dei valori della modernità», e di riprendere il senso del viaggio e del mito di Ulisse, che significa «tenere alto il valore della conoscenza». E il pubblico che riempie il teatro Verdi, che ha fatto una lunga coda per entrare, e che applaude con calore, mostra di gradire che si voli più in alto, tanto che fa più domande sulle donne di Ulisse che su quelle di Berlusconi. Non disdegna peraltro qualche accenno all´attualità, come quando Scalfari spiega che «è falso quando Tremonti dice che non abbiamo le risorse», perché «se siamo tra i paesi più ricchi del mondo, le risorse ci sono». Il punto è che noi abbiamo un livello di diseguaglianze «molto maggiore di 30 anni fa», e che bisognerebbe pensare a ridurle all´interno dei paesi ricchi. Invece non succede. «Con la stretta di Tremonti – dice – gente come me non ha pagato un centesimo in più. Lo ritengo ingiusto».

Corriere della Sera 20.9.10
Così Euripide contesta la democrazia
di Luciano Canfora

La scena è ad Eleusi: lì si sono raccolte, all’altare di Demetra, le madri degli argivi caduti dinanzi a Tebe. È con loro il re di Argo, Adrasto: chiedono l’aiuto di Atene, e del re Teseo, per ottenere i corpi dei loro morti. Siamo all’inizio delle Supplici euripidee. Teseo esita dapprima, poi, convinto dalla madre Etra, accede alla richiesta di interferire direttamente nella controversia.
La vicenda si concluderà con una battaglia (puramente fantastica dal punto di vista storico) tra tebani e ateniesi, nella quale questi ultimi conseguono la vittoria e ottengono la restituzione delle spoglie. Ma, inopinatamente, lo sviluppo dell’azione contempla una sorta di «intermezzo»: uno scontro dialettico tra un araldo tebano, giunto ad Atene, e Teseo intorno alla migliore forma di governo. Teseo esalta i pregi della democrazia, l’araldo ne denuncia i difetti strutturali. L’arbitrarietà di questo intermezzo non può sfuggire, per giunta all’interno di un dramma che amplifica liberamente la saga tradizionale creando addirittura una guerra tebano-ateniese come presupposto del saldo riavvicinamento Argo-Atene.
La forza della politica dalla scena sta proprio nella sua duttilità e nella sua non solo apparente, ma effettiva, problematicità: è lì la sua efficacia; né potrebbe essere altrimenti in un teatro così direttamente connesso alla vita pubblica e così direttamente «sorvegliato» dai volenterosi magistrati preposti al funzionamento di quella istituzione. Ed è talmente duttile, eppure immanente nel fare teatro ad Atene, quella sua politicità che, a distanza di un tempo lunghissimo e quando ormai il contesto concreto storico-politico si è inevitabilmente appannato e sbiadito, gli interpreti si interrogano su diverse, talora opposte, letture di quei testi così intenzionalmente e fecondamente «aperti». Il dato macroscopico è che comunque tutti avvertiamo, pur così lontani nel tempo, che, attraverso la mediazione della trama quasi sempre cavata dal mito, quei drammaturghi non fanno che parlare di politica: nel senso alto, dei valori e dei loro effettivi fondamenti, non soltanto della immediata quotidianità, che pure talvolta traspare.
La saga su Teseo, e le Supplici in particolare, rendono, certo, possibile una fruizione immediatamente patriottica, ma anche una presa di coscienza dei problemi insoluti, e capitali, della politica. Il mito di Teseo è diventato, dalla fine del VI secolo a.C., in Atene, un mito politico: una figura necessaria alla retorica da epitaffio, in quanto primus inventor della democrazia, o, più cautamente, della patrios politeia, cioè del cosiddetto e controverso «ordinamento avito», caratteristico degli ateniesi.
Ma il Teseo delle Supplici parla molto, e si scopre molto più di quanto il suo ruolo iconico comporti. E lasciamo qui da parte un altro aspetto che, pure, aiuterebbe a comprendere la abilità di Euripide nel ricreare questo personaggio, che, per alcuni interpreti moderni influenzati dal clima del loro tempo, è volta a volta inteso come «Führer», come «re costituzionale», come leader popolare, quando non, addirittura, controfigura di Pericle, in una Atene dove Pericle comunque è scomparso da anni.
Egli sviluppa un primo intervento di teoria politica nella prima parte del dramma, quando ancora la sua posizione è sfavorevole alle richieste di aiuto di Adrasto: in quel momento Teseo si esprime con durezza contro i demagoghi e più in generale contro i politici egoisti («i giovanotti che godono a mietere gloria e perciò incrementano le guerre senza riguardo alla giustizia»). Quindi si impanca in una summa a carattere sistematico: nella città — spiega — ci sono tre classi sociali: i ricchi che «desiderano avere sempre di più»; i poveri che sono pericolosi perché indulgono all’invidia e non fanno altro che tentare di colpire la ricchezza dei possidenti, e sono preda dei demagoghi poneroi («capi malvagi»); i mediani («la fazione mediana»), unica fonte di possibile salvezza della città e del suo «ordine».
In questa tirata Teseo strapazza il demo avido e feroce persecutore della ricchezza e i capi politici che, al tempo stesso, lo assecondano e lo corrompono in un perver sorapport o di circolarità. Nella seconda parte del dramma invece, quando Teseo ha cambiato linea e ha deciso di intervenire per Argo e di contrastare Tebe (retta da Creonte, rigido negatore della sepoltura dei ribelli), la musica cambia. Si produce lo scontro, del tutto svincolato dallo sviluppo drammaturgico della pièce, e Teseo, provocato dalla domanda dell’araldo tebano («chi è qui il tiranno?» che vuol direinsostanza « chiècheco manda qui?»), reagisce impartendogli una lezione sulla perfetta democrazia ateniese che ricalca ad verbum i passaggi più noti (e più inverosimili) dell’epitaffio pericleo.
Qui il primo e principale scossone allo spettatore viene dal fatto che si metta in discussione la legittimità stessa del sistema democratico. Nulla del genere sarebbe concepibile di fronte all’assemblea popolare. È abile far sollevare il problema da un personaggio che agli spettatori deve apparire odioso, l’araldo tebano — per l’aggressività e perché tebano —, ma il fatto principale che si produce sulla scena è c he quegli a r gomenti pesanti e topici della critica radicale alla democrazia (l’incompetenza del demo e la pessima qualità del personale politico) «restano senza replica e senza confutazione».
Alla critica radicale e penetrante dell’araldo tebano, Teseo oppone l’immagine della democrazia come regno della legge scritta. Ciò che Teseo dice è un agglomerato dei topoi di Otanes nel dibattito riferito da Erodoto (nulla è peggio del tiranno e descrizione convenzionale dei crimini «tirannici») e dell’idealizzazione periclea della prassi democratica (all’assemblea può parlare chiunque abbia qualcosa da dire, nei tribunali il ricco e il povero sono uguali davanti alla legge). Non deve sfuggire che, in un dramma in cui l’oggetto del contendere è la sepoltura di morti in guerra, Teseo mette insieme motivi da epitaffio e l’araldo li manda in pezzi. E sollevando, proprio in un contesto del genere, la questione della scarsa competenza del demo e dell’egoistica ribalderia del personale politico in democrazia, Euripide riesce a far dire davanti al grande pubblico, grazie al gioco scenico, quello che intellettuali in dissenso rispetto al sistema vigente riescono a dire, al più, nelle loro cerchie o conventicole, o eterie.

l’Unità 20.9.10
Chiude il partito dei Verdi Bonelli: «Sarà un movimento»

Verdi, addio. Addio al partito. Benvenuto al movimento, «a una grande aggregazione ecologista che supera il partito. E anche la destra e la sinistra». Angelo Bonelli, presidente della Federazione dei Verdi, sceglie la festa dell’Idv per annunciare il requiem del partito e la nascita di un nuovo soggetto, più snello, meno
pesante, in linea con quello già succede in Francia. L'annuncio ufficiale sarà dato in settimana, «non sarà indolore» si lascia scappare Bonelli alludendo a possibili e immaginabili resistenze. Ma è giunto il tempo di lasciare spazio a una costituente ecologista che «abbia la capacità di riunire tutto il mondo della frammentazione in cui si trovano oggi verdi e ambientalisti». Bonelli ha in mente il modello francese di Cohn-Bendit, un manifesto a cui aderiscono intellettuali e soggetti di varia estrazione. «Quando un cittadino si ammala ai polmoni dice Bonelli quei polmoni non sono nè di destra nè di sinistra. È un problema di inquinamento, emergenza oggi sottaciuta». In Italia questa «forza ecologista che parla a tutti è comunque parte di un’alleanza di centrosinistra». La Federazione dei Verdi è nata nel 1986 e ha sempre avuto vita tormentata. C.FUS.

l’Unità 20.9.10
Vendola: un premier gay? C’è già stato, era Dc

«Un gay è già stato presidente del Consiglio. Era un democristiano». Lo ha detto il presidente della Regione Puglia, Nichi Vendola (Sel), intervistato da Enrico Lucci nell' appuntamento speciale con «Le Iene Show» in onda oggi alle 21,10 su Italia 1. Vendola parla a tutto campo delle
primarie, del suo programma, del Pd, di Berlusconi e anche della propria vita privata. Perchè vuoi le primarie nel centrosinistra?, chiede Lucci. «Perchè il centrosinistra spiega Vendola è in uno stato comatoso. possono essere un principio di rivitalizzazione». E ancora: quando si andrà a votare?
«Prossima primavera», E poi: un gay può diventare Presidente del Consiglio? «Lo è già stato». Chi? «Non lo dirò neanche sotto tortura». Di che partito era? «Democristiano». Qualche parola anche su Massimo d'Alema: Tu per lui cosa provi? «Affetto», risponde Vendola.

l’Unità 20.9.10
Ratzinger: essere minoranza non deve spaventarci

Repubblica 20.9.10
La breccia di Porta Pia oppure la beffa di Pio IX?
di Mario Pirani

Dalla «breccia» alla «beffa». Parlo del 140º anniversario della presa di Roma che verrà oggi celebrato a Porta Pia dove i bersaglieri il 20 settembre 1870 innalzarono il tricolore che costò loro la scomunica, evidentemente ormai venuta meno, vista la presenza del cardinal Bertone, accanto al presidente della Repubblica. Se parlo di beffa non è, però, per la lodevole compresenza di Stato e Chiesa quanto per la ostentata cancellazione del significato laico della data che coincise con la fine del potere temporale del papato. E cosa altro vuol essere se non un atto di cancellazione la contemporanea orazione in Campidoglio di monsignor Ravasi glorificante Pio IX, «massimo esponente del sovrano potere temporale», nonché papa del Sillabo e responsabile delle ultime condanne alla ghigliottina dei patrioti arrestati dalla polizia pontificia, qualche anno prima del 1870? Così, una volta ancora, un atto positivo stinge nell´equivoco embrassons nous revisionistico: tutti eguali, divisi al più da qualche equivoco di appartenenza, partigiani e repubblichini di Salò, tutti eguali i piumati fanti di Cadorna e gli zuavi pontifici comandati da un generale tedesco. La Storia si tramuta così in una marmellata dolciastra ove tutto si confonde e amalgama, ed alcun valore ispira. Chi, ad esempio, può oggi, in questo clima, capire le parole del re sabaudo, subito dopo il plebiscito che univa l´Emilia (marzo 1860) al nascente Regno d´Italia, quale replica della scomunica maggiore lanciata da Pio IX contro gli «usurpatori delle province ecclesiastiche»? Parole che suonavano testualmente: «Se l´autorità ecclesiastica adoperasse armi spirituali per interessi temporali, io nella sicura coscienza e nelle tradizioni degli avi stessi, troverò la forza per mantenere intiera la libertà civile e la mia autorità della quale debbo ragione a Dio ed ai miei popoli». Ebbene, credo che neanche il più ben disposto fra i cosiddetti liberali di scuola berlusconiana potrebbe oggi raffigurarsi un Cavaliere capace di ispirarsi a Vittorio Emanuele II. Piuttosto non è irriverente immaginarsi che avendo il potere temporale, nella sostanza se non nella forma, frattanto recuperato molti perduti privilegi non costi poi molto al successore di Pio IX plaudire ai bersaglieri.
Ma dietro queste riflessioni estemporanee vi è un fenomeno negativo assai più ampio di cui cominciamo a cogliere il profilo devastante: la cancellazione dalla memoria pubblica e, ancor peggio, individuale, del Risorgimento e dei suoi valori. È appena uscito in proposito un prezioso libretto (poco più di 200 pagine), «Il miracolo del Risorgimento – La formazione dell´Italia unita» di Domenico Fisichella (Carocci ed.). Vi ho ritrovato il «racconto», ripercorso con la vivacità e l´intelligenza critica che contraddistinguono l´autore, della storia della Penisola divisa in tanti staterelli, soggetti, comprati e venduti dalle grandi potenze, l´influenza della Rivoluzione francese, i moti risorgimentali, le guerre d´indipendenza, il ruolo di Cavour, Garibaldi, Mazzini e dei re sabaudi. Infine il «miracolo» dell´unità di una nazione così a lungo dominata e spartita. «La tradizione risorgimentale è, dunque, la tradizione della modernità, mentre la tradizione dell´eccesso regionalistico e localistico è la tradizione della vecchiezza». E qui inizia il discorso che non ho neppure lo spazio per riassumere del perché una coltre di oblio stia facilitando una regressione in fondo alla quale si profila di nuovo la frantumazione dell´Italia unita.
Certo è che la mia generazione si sente tra le ultime che hanno studiato il Risorgimento come storia viva e sentita di una patria appena ritrovata. Dopo di allora sembra quasi che la sinistra assieme a Stalin abbia gettato alle ortiche anche Garibaldi, la destra abbia subito un lavacro dei peggiori ricordi del fascismo ma anche dei valori nazionali che l´accompagnavano, gli elettori di Berlusconi siano sempre al «Franza o Spagna purché se magna»: l´Italia è tutt´altro che desta.

Corriere della Sera 20.9.10
Intervista
Il filosofo Giovanni Reale: «I valori sono una piramide agganciata a Dio»
«Ecco perché combatte il relativismo»
di Armando Torno

Newman ha compreso come la ragione non possa delimitarsi alle scienze, sostenendo la grande tesi della ragionevolezza della fede

Se Giovanni Paolo II è stato il papa che ha saputo combattere il comunismo, Benedetto XVI passerà alla storia probabilmente come il pontefice che ha mosso guerra al relativismo. Ovvero a quella prospettiva che — secondo una lettura cattolica — è figlia dell’illuminismo, nella quale la ragione viene separata dalla fede e i valori che ne derivano sono, appunto, quelli chiamati laici. Per questo la sua visita in Inghilterra, patria di filosofi come John Locke e David Hume, se da un lato ha posto al centro dell’attenzione una figura come il beato John Henry Newman (il più fascinoso e profondo tra gli avversari del relativismo), dall’altro ha dato via a nuove incomprensioni tra il papa teologo e quegli intellettuali — come ha dichiarato ieri su queste colonne Martin Amis — per i quali la religione resta un fatto privato. Di questo abbiamo parlato con Giovanni Reale, che ben ha conosciuto Giovanni Paolo II e Benedetto XVI.
Professor Reale, perché la religione non potrebbe essere considerata semplicemente un fatto privato?
«È tale soltanto per chi non crede. Per chi ha fede, Dio è verità. E il compito del successore di Cristo non potrebbe essere diverso da quello di Benedetto XVI».
E perché il relativismo è così avversato dall’attuale papa?
«Perché è giunto il momento di dire al mondo che alla base del relativismo c’è il nichilismo mascherato. Una pagina di Camus ricorda che tutti i valori sono come una piramide agganciata nel vertice a Dio. L’illuminismo ha cercato di sganciare questa costruzione avvenuta nei secoli. E cosa è successo? La piramide si è frantumata. Ancora Camus ricorda inoltre che la vita di Napoleone o di uno scaricatore sono eguali. Perché? Lo spiega sottolineando come, senza quei valori che ora hanno perso consistenza, ognuna di esse equivalga a zero. E zero è uguale a zero».
Qualcuno ha creduto che il papa volesse andare in Inghilterra a tenere una lezione e ha reagito...
«Si, ho letto e sentito. Non si è ancora ben spiegato che la nuova forma di razionalismo, che presiede l’illuminismo a oltranza, è un integralismo. E questi laici negano qualunque cosa esca fuori dalla ragione come la intendono loro. Il cardinale Newman, ora beatificato, ha compreso perfettamente come la ragione non possa delimitarsi alle scienze sperimentali e matematiche, sostenendo la grande tesi della ragionevolezza della fede».
Lei pensa che in futuro la ragione degli eredi dell’Illuminismo e quella degli uomini di fede potranno dialogare?
«La speranza, come recita un proverbio, è l’ultima a morire. Ma per instaurare qualunque tipo di dialogo con gli eredi dell’illuminismo a oltranza occorrerebbe in primo luogo far capire loro che la ragione ha due forme molto differenti. La prima è quella che potremmo chiamare scientifica, la seconda filosofica o metafisica. La prima è delimitata dall’ambito dell’oggetto che indaga e dalle leggi determinate che lo riguardano. Questo tipo di ragione non desidera colloquiare. La seconda, quella filosofica, invece, non è chiusa a determinati ambiti del reale ma affronta problemi — dicevano i greci — dell’intero, della totalità del reale. Quest’ultima colloquia con la fede, perché tocca gli stessi problemi».
Restano, secondo lei, delle mosse che la fede può tentare per avvicinarsi alla ragione? E il papa con esse potrebbe...
«La prima risposta a questa e a simili domande la diede Agostino con le seguenti parole, che ebbero molta fortuna nella storia della filosofia: "credo per capire e capisco per credere". È la formulazione del "circolo ermeneutico" in cui fede e ragione hanno un rapporto dinamico strutturale incontrovertibile. Certo, oggi si potrebbe dire che la ragione sia più sorda della fede per dar vita a un dialogo».
Ma per chi non ha fede, e oggi sono in molti, a cosa serve la formula di Agostino?
«Mi ha molto colpito l’epistemologia di Kuhn, il quale ricorda che gli scienziati passano da un paradigma vecchio a uno nuovo in forza di una fede; anzi, si tratta addirittura di una sorta di "conversione". Lo sappiano o no gli eredi dell’illuminismo a oltranza, la fede ha sempre una forza determinante di straordinaria portata»
Ci sono dei «valori che non è possibile discutere» sui quali potrà avvenire quel dialogo che molti attendono?
«Per ora la cosa mi sembra problematica e difficile. Quella piramide, come ricordavo, se si sgancia da Dio produce frammentazione e distruzione dei valori, ossia il nichilismo. Per il quale non esiste la verità e nemmeno un fine: dunque nessuna cosa ha validità. Ma il papa crede nella verità e nei valori. Non potrebbe agire diversamente».

Corriere della Sera 20.9.10
L’anniversario di Porta Pia: protesta radicale
di Ernesto Menicucci

ROMA — È il giorno delle celebrazioni, della cittadinanza onoraria al presidente Giorgio Napolitano, dei 140 anni di Roma Capitale listati a lutto per la morte di Alessandro Romani. Ma sarà anche una giornata storica: stamattina, a Porta Pia per ricordare la breccia del 20 settembre 1870, ci sarà anche il segretario di Stato Vaticano Tarcisio Bertone, che leggerà una preghiera/intervento che — secondo gli addetti ai lavori — «dovrebbe chiudere le polemiche su quella data». Una visita, quella di Bertone, che crea anche qualche apprensione. I Radicali già ieri hanno manifestato con un autobus (ribattezzato il «pullman della laicità») con sui lati le scritte «No Vatican» e «No Taliban», e che è passato per San Pietro suonando la fanfara dei bersaglieri. Questa mattina, per l’arrivo di Bertone, il partito di Marco Pannella è pronto al bis. Operazione top secret, stavolta: «Ma qualcosa — dice Sergio Rovasio, uno degli organizzatori — faremo, proprio mentre parlerà Bertone. Che ci sia il Vaticano a Porta Pia fa cadere i capelli...». Mario Staderini, segretario italiano, aggiunge: «Il sindaco Alemanno, moderno zuavo, ha ridotto a simbolo nazionalista un evento che segnò l’inizio di una nuova libertà di coscienza e di religione». Anche il Grande Oriente d’Italia si prepara: «Saremo a Porta Pia — dice il Gran Maestro Gustavo Raffi — con la nostra storia e i nostri progetti». Raffi, nei giorni scorsi, è andato giù pesante: «La partecipazione di gerarchie ecclesiastiche è uno scempio che va fermato: è come se al 25 aprile andassero anche i repubblichini. E a noi Alemanno ci ha invitato solo dopo un nostro comunicato».

l’Unità 20.9.10
Sistema penitenziario/La mobilitazione Fp CGIL
Carceri: manifestazione a Roma

Una giornata di mobilitazione sulla situazione carceraria. L’hanno indetta oltre 50 organizzazioni del terzo settore per venerdì 24 settembre, con un sit in che si terrà nella mattinata a Roma, davanti a Montecitorio (e un’assemblea nazionale nel pomeriggio). Un’iniziativa cui la CGIL ha aderito formalmente, e con grande convinzione, poiché “mirata a chiedere – spiega Rossana Dettori, segretaria generale della Fp CGIL – interventi urgenti, soprattutto seri, utili e condivisi, con coloro che in carcere lavorano o intervengono a titolo di volontariato, perché il sistema penitenziario italiano ritorni nel suo alveo istituzionale di riferimento: l’articolo 27 della Costituzione”.
La dirigente sindacale si sofferma soprattutto sulla riduzione dei fondi: “Al sovraffollamento e alle gravi carenze strutturali, determinanti già di per sé una miscela esplosiva, si sommano quelle criticità causate dai pesanti tagli alle risorse che hanno ridotto il personale, le attività formative e trattamentali, il lavoro intramurario, le ore d’aria giornaliera dei detenuti: si è annientata, insomma, l’idea di pena come percorso di rieducazione”. I reclusi nelle carceri italiane sono ormai 70 mila, quasi il doppio di quelli che ci dovrebbero stare. Una situazione esplosiva, sia per i detenuti sia per gli agenti penitenziari, che sembra però non suscitare l’attenzione del governo. “Berlusconi prima ha dichiarato lo stato di emergenza illustrando il piano carceri, fatto l’annuncio si è poi disimpegnato” commenta Francesco Quinti, responsabile nazionale Fp CGIL comparto Sicurezza: “Il programma di edilizia penitenziaria richiede investimenti che non ci sono, le 2 mila assunzioni promesse mesi fa non sono arrivate, a fronte di una carenza di 6 mila poliziotti, cui si aggiungeranno almeno 2.500 pensionamenti nei prossimi tre anni”. L’ultima stoccata è per il disegno di legge Alfano, che avrebbe dovuto deflazionare le presenze negli istituti di pena: “Il provvedimento, che dovrebbe concludere il suo iter in ottobre, produrrà effetti molto modesti sul contenimento delle presenze, in un mese la situazione tornerà come prima”.

Corriere della Sera 20.9.10
L’estrema destra in parlamento
Svezia, un segnale all’Europa
di Luigi Ofeddu

La Svezia ha votato. E ora sta sospesa nel vuoto. Come metà del resto d’Europa. Con diversi acrobati a scrutarsi, da una rete all’altra; e con molti trapezi che pendono a destra rendendo più difficile l’insieme delle esibizioni. Fuor di metafora: molte nuove formazioni di destra o estrema destra sono comparse nel circo politico europeo, favorite probabilmente dai malesseri sociali della crisi, hanno conquistato posizioni di spicco nelle elezioni e sono divenute decisive per la formazione dei governi.
Forse è presto per parlare di una marea montante. Ma certo, l’onda c’è e si vede. In Svezia, ieri, con lo stallo fra centrodestra e centrosinistra incapaci di governare da soli, a far da ago della bilancia sono rimasti i Democratici svedesi, gruppo di estrema destra che chiede solidarietà per l’Eurabia violentata dall’Islam, e propugna la cacciata di tutti gli immigrati extracomunitari a meno che non accettino «l’assimilazione culturale». Per la prima volta, guidati dal loro giovane capo Jimmie Akesson, hanno superato lo sbarramento del 4% dei voti che chiude l’accesso al Parlamento.
Nella vicina Finlandia, salgono nei sondaggi i «True Finns» («Veri finlandesi») che propugnano il «rispetto delle tradizioni silvane». Sembrano raccontar fole, ma in tre anni hanno raddoppiato i voti. In Danimarca, il Partito del popolo si è reso famoso per aver diffuso le vignette satiriche su Maometto e da allora ha allargato le campagne a molti altri temi. In Olanda, il Partito della libertà di Geert Wilders ha 24 seggi in Parlamento, e collegamenti sempre più stretti con i colleghi del vicino Belgio: i fiamminghi ultranazionalisti del Vlaams Belang, anch’essi in crescita. E così via: dall’Ungheria, con i nazionalisti di Jobbik in fortissima crescita, alla Romania con quelli di Grande Romania. Tutti costoro si riuniranno a fine ottobre ad Amsterdam, insieme con i club ultras del calcio di tutta l’Europa, per acclamare Geert Wilders.

Repubblica 20.9.10
Rivelazione del "Washington Post": in cinque sotto processo
Ecco lo squadrone della morte Usa ammazzavano civili per divertimento
La denuncia è giunta da un soldato costretto a partecipare alle esecuzioni
di Angelo Aquaro

NEW YORK - Uccidevano gli afgani "per sport". Uccidevano e massacravano per il solo piacere di farlo. Fatti di alcol e di droga. Killing an Arab così per noia: come nella canzone che i Cure rubarono a Camus. Pronti a trattenere e nascondere come uno scalpo quei poveri corpi massacrati. Qui un teschio. Qui le foto dell´ultimo eccidio. E poi le minacce e le ritorsioni verso chi non aveva il fegato di starci. Lo chiamavano il kill team: la squadra per uccidere. Il plotoncino della morte. Una storia dell´orrore che arriva dall´ultimo posto in cui ti saresti aspettato di sentirtela raccontare: la base militare in Afghanistan della Quinta brigata combattente Stryker, seconda divisione di fanteria. Il cuore dell´attacco delle forze Isaf ai Taliban. Il nucleo scelto dei ragazzi born in the Usa finiti laggiù per estirpare i Taliban che proteggevano gli assassini di Al Qaeda. Invece la squadra del sergente Calvin R. Gibbs, 25 anni, da Billings, Montana, aveva trasformato la guerra in un fatto privato. In un gioco assurdo.
La notizia è stata tenuta segreta il più possibile. Nel mondo islamico già in tumulto per le minacce in America di bruciare il Corano ci mancava questa storia incredibile degli assassini per gioco. Il processo che quest´autunno si aprirà alla base di Lewis- McChord, Washington, rischia di replicare per gli americani l´effetto Abu Ghraib. Soprattutto perché la storia portata alla luce dal Washington Post rivela anche un retroscena se possibile ancora più scandaloso: l´esercito non ha fatto nulla per fermare quella strage di cui pure era a conoscenza. Un soldato, Adam C. Winfield, confidato cosa sta succedendo nella sua pattuglia a suo padre Christopher, un ex marine. Una confessione accennata su Facebook, una chat diventata un interrogatorio, l´allarme di un padre per quel figlio che dice di essere in pericolo: quel sergente Gibb gli aveva praticamente ordinato di partecipare ai raid. L´ex marine si attacca al telefono. Ma all centralino dell´Esercito solo una segreteria telefonica. Segreteria telefonica anche all´ufficio di un senatore.
Segreteria telefonica al reparto di investigazione criminale dell´esercito. Finché all´ultimo tentativo un sergente di piantone spiega che non può fare nulla se il figlio non fa denuncia ai suoi superiori.
I poveri afgani morti "per sport" sono almeno tre. Ma tanti altri sono stati assaliti. L´azione è messa a punto all´inizio di quest´anno. Il sergente Gibb è un veterano dell´Iraq e dell´hashish.
Il piano è semplice. Si finge un attacco e si colpisce. La prima vittima si chiama Gul Mudin. E´ il 15 gennaio nel villaggio di La Mohammed Kalay, Kandahar. Gul avanza verso i soldati. Uno di loro, Jeremy N. Morlock, 22 anni, di Wasilla, Alaska, il paese diventato famoso per Sarah Palin, lancia la granata e gli altri reagiscono all´"attacco". Un mese dopo tocca a un altro civile, Marach Agha.
Stessa tecnica, la granata fatta esplodere e l´esecuzione. Ma questa volta nello squadroncino della morte c´è anche il giovane Adam che aveva lanciato l´allarme. Al processo in autunno finirà anche lui che con i familiari si difende: «Sono stato costretto a partecipare e ho sparato in aria». Quello che è certo è che tre mesi dopo il kill team torna a uccidere: e questa volta la vittima è un religioso afgano, Mullah Adahdad.
Lo squadrone della morte non si ferma ma qualcuno lancia un nuovo allarme. Una denuncia anonima. Stavolta scattano gli arresti.
Ufficialmente non c´è una spiegazione degli attacchi. Ma alla vigilia del processo i documenti raccontano la stessa storia: quei soldati erano drogati di hashish e di noia. Uccidevano gli afgani "per sport".

Repubblica 20.9.10
La fine della scuola elementare
Un saggio racconta le colpe di un declino culturale che sancisce la fuga nelle private
Nel 1985 erano stati varati nuovi programmi che insistevano sulla didattica
Era il punto di forza dell´educazione pubblica italiana: ma ora anche l´istruzione primaria è al collasso
di Benedetta Tobagi

Da quei banchi passano tutti i futuri cittadini. Difficile evitare la retorica del "pilastro della democrazia": lo è per davvero. In più la scuola elementare conserva nell´immaginario qualcosa di romantico, dal libro Cuore in poi. Nell´Ottocento il maestro aveva un ruolo sociale definito, accanto al gendarme e al prete. A questa missione civilizzatrice e conservatrice si sovrappone, con l´avvento della Repubblica, l´icona del maestro di frontiera, possibilità di riscatto per i figli dei diseredati, schiacciato tra la Costituzione e le sperequazioni profonde di un paese arretrato, mentre le elementari restano quelle uscite dalla riforma Gentile, verticali e nozionistiche.
E oggi? Nessuno osa discutere la centralità della scuola e la sua missione educativa, tanto più in una società in piena crisi (economica, politica, di valori). Ma in cosa consista questa missione, e su come realizzarla, c´è molta confusione. Chi non ha bambini, difficilmente sa cosa succedesse dietro il portone di una scuola primaria dopo la riforma del ´90. Poi nel 2008 il governo comincia a predicare il "ritorno al passato" come panacea contro tutti i mali. Chi ha più di vent´anni è cresciuto a pane e maestro unico e può rimanere facilmente sedotto dall´effetto-nostalgia: che male c´era nel vecchio sistema? Insegnanti, genitori e dirigenti invece protestano, sono amareggiati, indignati, preoccupati (provate a scorrere le centinaia di testimonianze su Repubblica. it). Sono davvero tutti dei conservatori miopi e politicizzati? Che cosa sta succedendo, davvero, dentro la scuola pubblica dei bambini italiani?
Ci aiuta diradare le nebbie il nuovo saggio di Girolamo De Michele, La scuola è di tutti (minimum fax, pagg. 338, euro 15) «E´ necessario combattere una battaglia per le "precise parole", per l´esattezza», dichiara. Allora decodifica i "frames" concettuali dietro gli slogan con cui il centrodestra ha mascherato la realtà brutale dei tagli di bilancio alla scuola pubblica e analizza con scrupolo i numeri - solo apparentemente obiettivi - del Ministero e dei rapporti internazionali. Ma soprattutto, inserisce i problemi italiani nel quadro più ampio di una crisi (cioè un momento di potenziale evoluzione, non un´"emergenza") dell´educazione in atto da decenni a livello globale.
La scuola è chiamata all´arduo compito di preparare bambini e ragazzi a muoversi in una società più complessa, fornendo, oltre alle nozioni, metodi per "imparare a imparare", anche fuori dai banchi. Non è più affiancata nell´opera educativa da soggetti forti come parrocchia o famiglia, ma assediata da una "società diseducante" i cui modelli contraddicono valori e comportamenti che l´insegnante cerca di trasmettere. De Michele intreccia questi problemi coi dati allarmanti sull´"analfabetismo funzionale" che affligge 2/3 degli italiani, e li rende prede facilmente manipolabili nella società dell´informazione, o sulla mobilità sociale quasi inesistente per i giovani italiani. Una visione ampia, articolata, che mostra la funzione essenziale della scuola pubblica in una democrazia che voglia essere veramente tale.
In questo discorso, il caso della scuola primaria è illuminante. L´Italia, eterna pecora nera, affrontò costruttivamente la "crisi educativa", con esiti addirittura eccellenti. Dopo decenni di confronti tra politici e specialisti di pedagogia e didattica, nell´85 la scuola elementare si dota di nuovi programmi che mettono al centro il "saper fare" accanto al conoscere, per una "progressiva costruzione delle capacità di pensiero riflessivo e critico e di una indispensabile indipendenza di giudizio", le competenze relazionali, la capacità di ascoltarsi e stare insieme, oltre alla disciplina. Su queste basi, nel ´90 si avvia una riforma, che ha passato il vaglio della Corte dei Conti, la stagione di lacrime e sangue pre-ingresso nell´euro e un rodaggio faticoso, per regalarci una posizione di eccellenza nelle classifiche internazionali (TIMMS 2007 per la matematica e PIRLS 2006 per la lingua). Con buona pace di chi sostiene che servì solo al sindacato per moltiplicare i posti.
Cosa offriva la primaria pubblica del nuovo millennio? "Modulo" o tempo pieno, ossia due o tre maestri, specializzati in aree disciplinari diverse: ben venga un´attenzione specifica per l´area logico-matematica, in cui l´Italia è sempre indietro. Programmazione collegiale, cioè più teste che concordano la didattica e rispondono alle esigenze dei bambini: più sguardi pronti a cogliere i loro disagi come i talenti. Ore di compresenza: indispensabili per gestire la presenza di bimbi stranieri che non padroneggiano l´italiano, per il recupero di chi resta indietro, specie nelle aree più disagiate, ma anche per gite e laboratori.
Tempo scuola più lungo (da 27 a 40 ore) e più ricco: al pomeriggio non c´era più il vecchio doposcuola, merenda e compiti, ma lezioni e laboratori, cioè apprendimento attivo. Una ricchezza per i bambini, una necessità per i genitori che lavorano. A parità di maestri incompetenti e lavativi, che non mancano mai (la Gelmini parla di premi al merito, ma nessuna misura è stata varata), il sistema offre più risorse e garanzie. La primaria pre-Gelmini rispondeva alle esigenze di una società profondamente mutata con spirito democratico: molto per tutti i bambini e speciale cura per i più deboli.
Bello, no? Bene, lo stanno demolendo. Il Ministero raccomanda maestro unico, 4 ore mattutine e taglia i posti. Ma i genitori chiedono le ore e la qualità del tempo scuola lungo e i dirigenti sono chiamati all´impossibile quadratura del cerchio. Regna il caos. Classi affollate, patchwork di maestre per coprire i buchi (alla faccia del bisogno di continuità rassicurante). I maestri, sottopagati e sotto pressione, ancorché occupati, di sicuro non lavorano sereni (si parla di merito e mai di motivazione).
Lo scenario tracciato da De Michele è inquietante: c´è un disegno politico per smantellare la scuola pubblica, per foraggiare il business delle scuole private, perché l´ignoranza rende le persone più controllabili. Anche chi non condividesse questa tesi, sarà costretto a domandarsi il perché di una politica così dannosa. Non è "la solita storia". Disperdono un patrimonio, picconano la base sana della piramide educativa. Danneggiano i bambini e le loro famiglie e la società in cui dovranno vivere, non gli "insegnanti fannulloni". Almeno, la smettano di mentire.

Corriere della Sera 20.9.10
Il declino della lingua (scritta) Vocaboli e congiuntivi: i dieci errori
L’italiano in declino sempre più sconosciuto agli studenti. «Non leggono Dante, lo traducono»
Vocaboli, congiuntivi, apostrofi. Allarme dai test

Vocaboli sbagliati, congiuntivi e apostrofi spariti. E’ il declino dell’italiano sempre più sconosciuto agli studenti. Tanti presidi di scuole superiori stanno organizzando corsi supplementari per ripassare i fondamentali della lingua. Un lavoro considerato indispensabile anche per studiare latino, greco, lingue straniere. Luca Serianni, linguista e filologo, docente a «La Sapienza» di Roma: i ragazzi approdano all’università con un bagaglio linguistico povero. Affrontano Dante esattamente come se si trattasse di una lingua straniera. ROMA — «Tradurre» Dante. Non in inglese: ma in italiano. Luca Serianni, linguista e filologo, ordinario di Storia della lingua italiana a «La Sapienza» di Roma, lo racconta con ironia ma anche con preoccupazione: «I ragazzi approdano all’università con un bagaglio linguistico estremamente povero. Affrontano Dante, diventato per loro inaccessibile, esattamente come se si trattasse di una lingua straniera. Pensano a una "traduzione" in italiano, non a un adattamento alla lingua attuale, quindi ciò che per noi è una parafrasi». Insomma, Dante ormai come un classico inglese o francese.
Gli strumenti grammaticali, sintattici, lessicali e ideativi a disposizione degli studenti italiani di diverso ordine (medie inferiori e superiori, università) sono sempre più scarsi, come dimostrano gli ultimi disastrosi risultati dei test Invalsi. Tanti presidi di scuole superiori stanno approntando corsi supplementari di italiano per ripassare i fondamentali della lingua e solo dopo procedere. Altrimenti studiare latino, greco, lingue straniere diventa impossibile.
Esempi concreti? Valeria Della Valle, docente di Linguistica italiana a «La Sapienza» e autrice con Giuseppe Patota del fortunato «Viva il congiuntivo», saggio di rivalutazione di un modo in disuso ed edito da Sperling e Kupfer (ammette sospirando che «ormai quasi tutti dicono «se lo sapevo non venivo, ma non c’è da drammatizzare», ma si registra una crisi anche del passato remoto a favore del passato prossimo). Dice dunque Della Valle: «Assisto a un costante impoverimento di competenza lessicale in chi arriva dalle medie superiori. Parole come "obsoleto" o "laido" per molti sono incomprensibili. Oppure si attribuisce loro un significato diversissimo. Molte difficoltà sugli apostrofi, si scrive un altro o un’altro? Mi arrivano "piu" senza accento e "un pò" con la o accentata e non con l’apostrofo". Poi la punteggiatura. Resistono i diversi tipi di punti, la virgola ancora non cede ma il punto e virgola e i due punti sono pressoché scomparsi dall’universo giovanile. Magari i ragazzi conoscono tutti i termini legati alla telematica, l’informazione, alla comunicazione. Però sono incapaci di organizzare un ragionamento scritto con una introduzione, uno svolgimento e una conclusione». Valeria Della Valle punta l’indice non contro i ragazzi ma verso le scelte politiche: «Inutile gridare al lupo al lupo quando sono scomparse le scuole di specializzazione in linguistica per insegnanti. Non è detto che chi si laurea in letteratura abbia piena padronanza della lingua e delle sue regole. E ancora: inutile lamentarsi di ciò che sta accadendo quando la recente riforma ha abbassato il numero di ore di insegnamento dell’italiano. Bisognerebbe invece accrescerle, ma dico un’ovvietà».
Concorda Francesco Sabatini, presidente emerito dell’Accademia della Crusca: «Siamo uno Stato giovane, scontiamo storicamente un ritardo nell’apprendimento collettivo della stessa lingua, la scuola non è stata aiutata, si è perso troppo tempo dietro a problemi secondari. Per di più i governi, soprattutto quelli recenti, non si sono spesi su un fronte: la formazione degli insegnanti. Non bastano i sacrifici personali di quella categoria per risolvere il problema».
Altri esempi, sempre dovuti all’osservatorio di Luca Serianni: «È verissimo, c’è un problema lessicale. Termini come "dirimere", "esimere", "fatuo", "congruo" non sono più comprensibili se non immessi in un contesto». Serianni segnala poi (come Della Valle) il problema sempre più emergente che mina alle fondamenta l’uso dell’italiano: «C’è sempre più difficoltà a organizzare un testo scritto. Si allontana la prospettiva dell’argomentazione: della spiegazione di ciò che si ha in mente. Fatto grave che evidentemente travalica il semplice problema linguistico che stiamo affrontando. Incide anche sulla forma: i ragazzi non rispettano più i margini dei fogli, anche questo è significativo». Rimedi? Serianni è stato consulente di una parte della riforma Gelmini: «Secondo me bisognerebbe rinunciare a una certa vocazione enciclopedica che spinge allo studio anche dei minori, ormai diventato impossibile. Meglio concentrarsi su alcuni classici, approfondendoli. Così vedremo che Dante non sarà più considerato uno straniero».
Conclude Piero Cipollone, economista, presidente dell’Invalsi, che a luglio ha riesaminato i temi di maturità 2008-2009 ritenendoli insufficienti (63,2% per lessico, 58,9% per competenza ideativa, 54,1% per competenza grammaticale e 58% per competenza testuale): «Il disastro peggiore è quello ideativo, l’incapacità di costruire e "reggere" un ragionamento. Insomma, quando si spiegano non sanno dove vogliono andare a parare... E questo è grave, molto grave».

Corriere della Sera 20.9.10
La morte a Firenze di Francesco Adorno
L’archeologo della filosofia
di Armando Torno

È morto ieri a Firenze Francesco Adorno, uno dei più autorevoli storici della filosofia antica. Era nato a Siracusa nel 1921, ma ha sempre vissuto nel capoluogo toscano, dove, tra l’altro, insegnò per molti anni e fu presidente de «La Colombara», la nota accademia di scienze e lettere. Il suo nome circolò, oltre che nell’ambito universitario, anche tra gli studenti liceali per un fortunato manuale di Storia della filosofia pubblicato da Laterza, che scrisse con Tullio Gregory e Valerio Verra (nel quale era previsto, tra l’altro, un invito alla lettura diretta dei testi). Aveva un passato partigiano e, per quanto è concesso in un Paese come il nostro dove la televisione è dedicata soprattutto a giochi e a intrattenimenti penosi, partecipò a qualche trasmissione della tarda notte per parlare di pitagorici o di Platone. Circola qualche intervista realizzata da Radio Radicale; ma soprattutto il suo lascito è nelle ricerche che ha pubblicato, nei testi curati.
Brillante conversatore pur nella sua semplicità, sapeva mettere chiunque a proprio agio trattando di argomenti alti. Con quale opera dobbiamo ricordarlo? Difficile scegliere. Di certo il lavoro per l’edizione di un Corpus dei papiri filosofici greci e latini (pubblicata in una decina di volumi da Olschki) rimarrà, così come quei testi critici umanistici fiorentini che ha curato nelle sue escursioni lontane dal mondo classico. Ma indubbiamente l’opera che segnò una svolta furono i due tomi de La filosofia antica, che videro la luce da Feltrinelli nel 1961 e nel 1965 (poi ristampati in quattro volumetti), parte fondante di una nuova storia del pensiero mai completata. Nelle intenzioni dell’editore, però, avrebbe dovuto essere laica e lontana dagli schemi cattolici e idealisti (questi ultimi ben testimoniati dall’impresa di Guido De Ruggiero).
Adorno, formatosi nel clima fiorentino degli anni Trenta e di guerra, ebbe quale parte determinante — ma non divenne un’ipoteca — della sua formazione lo storicismo crociano, che lo indusse a concepire la filosofia come riflessione storico-critica mai separata dalla vita. E se il primo tomo dell’opera feltrinelliana non rappresentò una rivoluzione, il secondo conteneva una nuova visione della materia prima della vaste ricerche di Giovanni Reale e dei contributi più recenti. Detto in soldoni, egli ampliò notevolmente lo spazio concesso ad autori e correnti della tarda antichità, soffermando la sua attenzione su molti Padri della Chiesa, sugli uomini di scienza, spingendosi con ricerche dettagliate sino al VI secolo. Tra le caratteristiche, è il caso di ricordare lo spazio che concesse alla reazione dei filosofi pagani durante i primi secoli della nuova fede. Per fare un esempio, egli osò scrivere che Giuliano Imperatore, noto come l’Apostata, estese in materia di religione l’editto di Costantino e che molti autori di trattati anticristiani furono coerenti con una tradizione che faceva perno in Plotino. Il tomo giungeva alla chiusura della Scuola di Atene da parte di Giustiniano (529 d.C.) offrendo storie di correnti poco note o profili di autori come Damascio di Damasco, del quale in Italia circolano tradotte soltanto due o tre pagine (in un’antologia edita da Cortina).
Ma il lavoro di Adorno non si fermò qui. Impegnato nella traduzione di Platone per Laterza (dove collaborò con Gabriele Giannantoni) e per i «Classici» Utet (cominciò con le Opere politiche del sommo ateniese, su incarico di Luigi Firpo), di lui ci restano, tra l’altro, ricerche sulla Sofistica, su Socrate, nonché due saggi dedicati rispettivamente alla cultura ionica e alla filosofia ellenistica. Questi ultimi uscirono in Storia e civiltà dei Greci (Bompiani), diretta da Ranuccio Bianchi Bandinelli. E tutto ciò senza contare le due fortunate Introduzioni a Socrate e a Platone pubblicate nella collana omonima di Laterza e continuamente riproposte. Il suo stile, taluni sospiri che sapeva spendere dinanzi alle questioni amate, vanno cercati negl i Studi sul pensiero greco (pubblicati dalla compianta Sansoni nel 1966).
Spese non poco tempo della vita per ricostruzioni filologicamente rigorose, per inseguire a volte un dettaglio, un termine. Ma non fu un pedante accademico, né tormentò il mondo con questioni di lana caprina. Intuì che il pensiero greco e romano aveva ancora infinite sorprese in sé e che nel mondo antico si celava uno specchio nel quale si riflettono molte nostre idee, marxismo compreso. Seppe forse per tali motivi coniugare una buona divulgazione con un rigore che gli veniva dai «suoi» greci. Ovvero da quei filosofi che quando li conosci — ci confidò in un incontro al quale venne con Giovanni Pettinato — «ti fanno perdere la testa e pensi sempre a loro».

domenica 19 settembre 2010

il Fatto 18.9.10
Clinton, Fidel. L’umanità dov’è?
di Massimo Fini

La Fiat trasferirà la produzione della nuova Panda da una fabbrica polacca a Pomigliano, cosa che se risolve i problemi dei lavoratori di Pomigliano ne creerà altri a quelli polacchi. Nel contempo la Fiat dislocherà da Mirafiori, portandola in Serbia, una nuova produzione, il che se farà contenti gli operai serbi, anche quando non dovesse portare alla disoccupazione di quelli di Mirafiori sicuramente renderà molto più difficile l'ingresso nel mercato del lavoro di migliaia di giovani italiani. Il capitale, essendo mobile, non conosce frontiere né amor di Patria, segue solo il suo interesse. Già cinque secoli fa Giovanni Botero ammoniva sul “pericolo che sorge per lo Stato quando la base della proprietà della classe dominante è costituita da beni mobili che in tempi di pubbliche calamità si possono portare al sicuro, mentre gli interessi dei proprietari terrieri sono legati indissolubilmente alla Patria”. Il capitale se nel Paese in cui è stato accumulato trova delle difficoltà va altrove. Sul Corriere della Sera Raffaella Polato ipotizza che se a Marchionne non fossero date le condizioni che chiede risponderebbe: “Il mondo è grande”. Ma se il denaro può andarsi a cercare liberamente il luogo della Terra dove ritiene di esser meglio remunerato, lo stesso dovrebbero poter fare gli uomini. A meno che non si voglia sostenere l'aberrante tesi che il denaro ha più diritti degli uomini. Invece è proprio ciò che accade. Mentre il capitale evoluisce liberamente per l'universo mondo, agli spostamenti delle popolazioni, soprattutto dei Paesi cosiddetti "sottosviluppati", che spesso sono state rese miserabili proprio dall'irruzione di quel capitale che, con le sue dinamiche, le ha sottratte alle "economie di sussistenza" su cui avevano vissuto e a volte prosperato per secoli, vengono posti limiti sempre più ferrei in attesa di prendere i "migranti" a mitragliate. Sulla globalizzazione ci sono solo due posizioni coerenti. Quella dei radicali italiani che sono per una totale libertà di movimento dei capitali ma anche per una altrettanto totale libertà di movimento degli uomini. E quella che sta all'estremo opposto, e che per ora è puramente concettuale, di chi dice no all'immigrazione ma rinuncia anche ad andare a piazzare le sue puzzolenti e devastanti fabbriche in Niger, in Nigeria, in Bangladesh, in Marocco o altrove. Tutto ciò che sta nel mezzo, sì alla globalizzazione dei capitali, no a quella degli uomini, è di una violenza inaudita e ripugnante. Eppure sia la destra che la sinistra sono a favore della globalizzazione. Bill Clinton a un forum del Wto del 1998 ha dichiarato: “La mondializzazione è un fatto e non una scelta politica” e Fidel Castro di rincalzo, nello stesso Forum: “Gridare abbasso la globalizzazione equivale a gridare abbasso la legge della gravità”. Ed è vero se al centro del sistema noi mettiamo l'economia: tutto deve adeguarsi ad essa. Ma sarebbe altrettanto vero se al centro del sistema mettessimo uno spillo, tutto dovrebbe girare intorno allo spillo. L'economia non è stata sempre al centro del sistema. In epoca preindustriale era inglobata nelle altre e molteplici esigenze umane al punto che era indistinguibile da esse, e non è un caso che l'economia politica, come scienza, o presunta tale, sia coeva alla Rivoluzione Industriale. Aver puntato tutto sull'economia, emarginando ogni altro bisogno dell'essere umano, si è rivelato un fallimento epocale come ognuno oggi, con gran ritardo, può vedere. È un Moloch che pretende sacrifici umani, massacri, alle popolazioni del Terzo e ora anche del Primo mondo. Io credo che al centro del sistema vada rimesso l'uomo e l'economia riportata al ruolo marginale che ha sempre avuto finché abbiamo avuto una testa per pensare.

Agi 19.9.10
Sininistra: Ginsborg, Foa e Lombardi due grandi della storia politica
Roma, 19 set. - Due ricorrenze, il centenario della nascita di Vittorio Foa e il 26esimo della morte di Riccardo Lombardi, due veri 'amici compagni', di alto spessore di una nobile tradizione della politica italiana che senz'altro meritano grande attenzione. Lo dice lo storico inglese Paul Ginsborg, docente di Storia dell'Europa contemporanea nella Facolta' di Lettere di Firenze, estimatore di Foa e Lombardi, il 'Riccardo cuor di socialismo'. "Ci sono due ragioni - spiega Ginsborg - perche' i due meritano grande attenzione. La prima, per aver sempre messo al centro delle loro riflessioni, piu' Foa in quanto sindacalista di Lombardi, la classe operaia, i ceti popolari quali soggetti e non oggetti della storia. In entrambi pero' c'era una forte sensibilita' per i ceti popolari che oggi e' andata persa". E di cui c'e' bisogno. "La seconda ragione - prosegue Ginsborg - l'attenzione costante per la democraticita' delle 'riforme cumulative', e su questo versante si e' distinto di piu' Lombardi, che attivano ulteriori e piu' avanzati spazi di democrazia per la politica e la vita del Paese". Le ben note 'riforme di strutture'. "La visione delle 'riforme cumulative' si distanziava enormemente - conclude lo storico - dal modello della socialdemocrazia: non andavano calate dall'alto verso il basso, ma dovevano partire, andavano costruite dal basso". Un altro storico, estimatore dei due 'eretici' della sinistra italiana, Marco Revelli, parla di "figure centrali della vita politica del nostro Paese". E poi, riferendosi a Lombardi, ne mette in risalto "il carattere coraggioso, trasgressivo, la sua capacita' di guardar lontano: e se per alcuni anni non ha avuto giustizia, lasciato un po' da parte, ora, in realta', sta avvenendo una nuova riscoperta, segno che - evidenzia - alla distanza i cavalli di razza vincono sempre". L'economista di Firenze Anna Pettini, infine, riprende "il sogno (1967, anticipatore dell'autunno caldo) dell''acomunista' Lombardi di 'una societa' diversamente ricca'. Un tema forse troppo anticipatore per quei tempi ma che ci consente, oggi, con strumenti diversi di affrontarlo e di renderlo oggetto di ulteriori ricerche. Quella di Lombardi - conclude la Pettini - fu un'intuizione di un tema che oggi si ripropone quanto mai attuale". Pat

l’Unità 19.9.10
Il segretario Pd «Abbiamo i luoghi per discutere. Giovedì c’è la direzione, ne parleremo lì»
Bersani: stop alle polemiche «Io adesso parlo di Italia»
Il leader Pd in Emilia: «Basta guardarsi le scarpe, ci servono per camminare. Veltroni? Si discute in direzione, io parlo di Italia». Attacco alla Lega: «È ora di cantargliele, sul radicamento ci fanno un baffo...».
di Andrea Carugati

Tira dritto, Pierluigi Bersani. Sotto il fuoco dei 75 di Veltroni, il leader Pd si gode la standing ovation che lo accoglie alla festa dell’Unità di Modena, non appena il segretario locale Davide Baruffi parla di «solidarietà» verso il segretario. Della necessità di fare quadrato attorno al quartier generale sotto assedio. Bersani, dal canto suo, approfitta della giornata in cui Veltroni ha un po’ abbassato il livello dello scontro per rivolgere una serie di appelli all’unità e soprattutto per spostare il fuoco dell’attenzione verso altri temi, più concreti.
IL CORAGGIO E LA BUSSOLA
«Abbiamo i luoghi per discutere, giovedì c’è la direzione e ne parleremo lì. Io da adesso parlo di Italia, le altre cose ce le vedremo nei nostri organismi». E ancora: «Io non rifiuto il dialogo, ma non stiamo sempre a guardarci la punta delle scarpe, perché le scarpe ci servono per camminare». «Farò di tutto per evitare ulteriori divisioni», risponde al vicedirettore dell’Unità Pietro Spataro che lo intervista. «Dobbiamo fare squadra, parlare al Paese ed evitare discorsi politicisti». Ma il Pd non ha abbastanza coraggio? Ha perso la bussola? «La bussola c’è», risponde Bersani. «E il coraggio è stare dove ci sono i problemi, accanto ai precari, nella fabbriche, alle primarie voglio che si parli di questo, delle proposte per il Paese». Parisi e Veltroni propongono una mozione di sfiducia al governo? «È certamente una iniziativa possibile, ma va valutata con tutte le forze di opposizione», spiega Bersani. «Che Berlusconi debba andare a casa non c’è dubbio. Le azioni e le tattiche le devono vedere bene i gruppi parlamentari. Noi dobbiamo restringere i campi di azione di Berlusconi e mai allargarli». E le modifiche allo statuto chieste da Chiamparino per candidare alle primarie anche chi non è leader del Pd? «Quando lo dicevo io tutti mi davano torto, adesso vedo che finalmente sono d’accordo con me...», sorride. E il “papa straniero”, il “nuovo Prodi” invocato dai 75 per guidare il centrosinistra? «Proprio non capisco l’esempio», dice Bersani. «Prodi è stato il “meno straniero” di tutti noi...». Anche sulla compravendita di deputati, ulteriore tema su cui ieri Veltroni l’ha spronato a fare la voce grossa, il leader Pd non si tira indietro: «Una compravendita vergognosa, che comunque non risolve la crisi della maggioranza, qualunque cosa impapocchino sarà comunque debole, alla fine della legislatura non ci arrivano».
ATTACCO ALLA LEGA
Ma le critiche più feroci sono per la Lega: «Se poi arriveremo ad avere un governo Berlusconi-Bossi-Cuffaro alla Lega glielo dobbiamo ricordare tutti i giorni». «Alla Lega è arrivata l’ora di cantargliele», attacca. «Dobbiamo assumere un atteggiamento più netto, preciso e combattivo, noi nei confronti della Lega non abbiamo mai avuto la puzza sotto il naso, non siamo mai stati snob, ma parliamo chiaro, come parla chiaro la loro e la nostra gente». «Non prendiamo lezioni sul radicamento: 2.120 feste... la Lega ci fa un baffo». E ancora, «sul federalismo arrivano solo chiacchiere e schiaffoni agli enti locali. Ma cosa vuol dire ”il federalismo la và a poche ore?”. Qua l’unica cosa certa è che i Comuni non sono in grado di fare i bilanci». Altra stoccata: «Non vogliamo più sentire “Roma ladrona” da voi da voi che state con i 4 ladroni di Roma», dice rivolgendosi direttamente ai leghisti. «Dobbiamo ricordare alla Lega che ha votato tutte le leggi che hanno favorito la corruzione, non solo le leggi ad personam Noi quelle leggi le cancelleremo tutte». Infine una tiepida apertura di credito al Senatur: «Mi aspetto una Lega che mentre sembra la più attaccata a Berlusconi, le sue riflessioni poi le fa, Bossi vuole avere le mani un po’ più libere...».
Verso Fini parole più tenere. «Sono pronto domattina a discutere con lui in Parlamento come vogliamo fare la riforma elettorale», dice il leader Pd, che però torna a chiedere «coerenza» a Fli: «Nel discorso a Mirabello ha messo in evidenza una serie di anomalie, come la Rai, ora mi aspetto comportamenti coerenti». Ma Fini entra nel nuovo Ulivo? «Lui ha in mente una destra moderna, e chiariamolo una volta per tutte: non potrà certo far parte del nuovo Ulivo!».

Repubblica 19.9.10
La sinistra divisa tra realisti e sognatori
di Eugenio Scalfari

PRIMA (ma necessaria) premessa. A me non piace il politichese. Non mi piace come linguaggio e cerco infatti di tenermene lontano; ma non mi piace neppure come argomento anche perché – ne sono certo – non piace neppure ai nostri lettori. Voglio rubare a Franco Marcoaldi le parole con le quali chiude il suo spettacolo "Sconcerto" che ha avuto all´Auditorium di Roma tre serate di grande successo: «Le cose sono quello che sono. Un´arancia è un´arancia. Una casa è una casa. La pioggia che cade è la pioggia che cade». Ecco. Ai nostri lettori piace questo linguaggio ed anche a me.
Seconda premessa. La comparsata di Berlusconi alla cena che ha concluso il vertice di Bruxelles tra i capi di governo dell´Unione europea è stata semplicemente scandalosa. Si parlava dei "rom", alias zingari. Sarkozy li sta cacciando dalla Francia ancorché – come lui stesso ha detto – metà di loro siano cittadini francesi. La Commissione europea è contraria ad una politica che colpisce un´etnia anziché singoli responsabili di eventuali reati. Il nostro premier gli ha fatto eco per ingraziarsi la Lega. La Francia, due secoli e mezzo fa, esportò in Europa e nel mondo lo slogan "fraternità" insieme a quelli di libertà ed eguaglianza. Sarkozy si è messo sotto i piedi la fraternità e Berlusconi ha fatto altrettanto e in più si sta mettendo sotto i piedi anche gli altri due principi che hanno costituito il fondamento della modernità liberal-democratica. Questo modo di comportarsi di chi rappresenta il nostro Paese mi fa vergognare d´essere italiano.
Terza premessa. Il governo italiano, il ministro dell´Economia, le principali agenzie economiche internazionali hanno pochi giorni fa diffuso informazioni secondo le quali il peggio della crisi economica era ormai alle spalle. La Confindustria ha fatto eco. I vari indici economici, a cominciare dal Pil dei vari paesi, sono stati corretti al rialzo. Ma tre giorni fa la Banca d´Italia ci ha informato che il debito pubblico ha raggiunto nuove vette mentre le entrate tributarie registrano una netta diminuzione rispetto all´anno precedente. La Confindustria dal canto suo ha comunicato che la produzione industriale è ai minimi storici, l´evasione fiscale è salita ai massimi e nei prossimi mesi saranno distrutti altri trentamila posti di lavoro nell´industria manifatturiera. Per conseguenza i principali indici economici sono stati rivisti al ribasso. Questi Soloni dicono a distanza di pochi giorni o di poche ore una cosa e il suo contrario. Trovo vergognosi questi comportamenti. Lo ripeto: un´arancia è un´arancia e la pioggia che cade è la pioggia che cade.
Fatte queste premesse, oggi è d´obbligo che mi occupi di quanto sta accadendo nel Partito democratico e nel vasto arco della pubblica opinione orientata a sinistra e comunque all´opposizione nei confronti dell´anomalia berlusconiana. Nel centrodestra è in corso una crisi devastante e tutt´altro che conclusa. Sono in corso manovre da calcio mercato di deputati e senatori comprati e venduti, di mini-ribaltoni consumati sotto gli occhi di tutti. Ci potrebbero persino essere estremi di reato per voto di scambio. Ma la sinistra non trae finora alcun beneficio dal marasma della maggioranza. Perché?
Questo è il mio tema di oggi. Domenica prossima, se non accadranno sconquassi peggiori, vorrei esaminare il tema dell´amore e della sua storia. Spero proprio di poterlo fare.
* * *
I sondaggi, per quel che valgono, danno nelle intenzioni di voto il Pdl leggermente sotto al 30 per cento, la Lega tra l´11 e il 12, il Pd tra il 25 e il 26, Di Pietro al 5, Vendola al 5, Casini tra il 5 e il 6, Fini al 7.
La platea di chi non ha ancora deciso al 30 per cento, quelli che comunque non voteranno, al 20. Perciò le intenzioni di voto sopra indicate riguardano la metà del corpo elettorale. I valori reali di quei numeri vanno dunque ridotti della metà, il che significa che il partito di Berlusconi rappresenta oggi il 15 per cento del corpo elettorale e il Partito democratico il 13. Un´arancia è un´arancia.
Finora il Pd non ha tratto alcun beneficio quantitativo dalla crisi del centrodestra, ma neanche Di Pietro e – a guardar bene – neanche la Lega. Il deflusso dal Pdl è andato in buona parte a Fini e in altra parte all´area delle astensioni e o a quella di chi non ha ancora deciso se votare e per chi.
Il Pd non ha "appeal" (stavo per scrivere "sex appeal") Bersani da qualche tempo è più incisivo, ma ha ancora un´aria da buon padre di famiglia, di buonsenso, ma non certo da trascinatore. Bersani non fa sognare. Non è il suo genere e credo che non gli piaccia.
Shakespeare dice nella "Tempesta" che la nostra vita è fatta della stessa stoffa di cui son fatti i sogni. Beh, Pierluigi Bersani non è fatto di quella stoffa. Berlusconi – incredibile a dirsi – invece sì. Solo che, come capita a tutti i ciarlatani, spesso la stoffa dei suoi sogni si strappa come il cerone che si mette in faccia e dagli strappi si vedono le vergogne.
Questa comunque è la situazione.
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Quello che con un po´ di enfasi possiamo chiamare il popolo di sinistra si divide in due diverse tipologie: chi vuole sognare e chi vorrebbe progetti concreti su temi concreti che interessano la vita di tutti.
I temi concreti, più o meno, coincidono con quelli sui quali Berlusconi il prossimo 28 settembre chiederà la fiducia alla Camera: la riforma fiscale, la giustizia, il federalismo, il Mezzogiorno, la sicurezza. I finiani li voteranno perché, allo stato dei fatti, sono soltanto titoli di cinque temi tutti da svolgere. Lo svolgimento e il consenso sullo svolgimento si vedranno dopo.
Quegli stessi temi interessano anche il popolo di sinistra e i partiti che in qualche modo vogliono rappresentarlo. Specialmente i riformisti del Pd. I quali dovrebbero nel frattempo produrre il loro proprio svolgimento di quei temi. Finora questo svolgimento non c´è stato oppure è stato parziale e generico.
Ma il popolo di sinistra e i partiti hanno anche altri temi non meno importanti: l´occupazione, le tasse sul lavoro e sulle imprese, la crescita dell´economia e dei consumi, la lotta all´evasione, la diminuzione delle diseguaglianze nella distribuzione del reddito e dei patrimoni. Ed anche il conflitto di interessi e la legge elettorale per sostituire il vergognoso "porcellum" escogitato tre anni fa da quel sinistro burlone di Calderoli.
Come si vede, di carne da mettere al fuoco ce ne sarebbe in abbondanza, ma finora i cuochi si sono occupati d´altro. Non si sa bene di che cosa.
E poi c´è quella parte di popolo che vuole sognare. Va detto per la precisione che spesso il desiderio di programmi concreti e di sogni alberga nella stessa persona. Per soddisfare quest´intreccio che anima l´intero corpo elettorale in tutti i paesi liberi e democratici ci vogliono leader carismatici.
Carismatici sì, ma anche capaci di governare. Non dico governare nel senso ristretto dei ministeri, ma governare organizzazioni complesse, grandi enti territoriali, processi di forze umane in movimento.
Non sempre le persone che hanno carisma hanno familiarità con strutture complesse da governare e, viceversa, non sempre anzi quasi mai persone capaci di governare possiedono carisma. Per di più il cosiddetto popolo della sinistra considera i volti dei leader di partito come nomenklature spremute e non più utilizzabili. Non tutti ragionano in questo modo, ma molti sì. Il corto circuito di questo modo di sentire è un´ipotesi e un pericolo che va segnalato e analizzato con grande attenzione.
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Chi può provocare il corto circuito è Nichi Vendola. In misura molto minore Grillo. In misura minima, il sindaco di Firenze, Matteo Renzi. Sfasciacarrozze per carattere e/o per convenienza. C´è chi ama gli sfasciacarrozze, ma per fortuna sono pochi. Il popolo di un paese, anche un po´ sballato, è più serio e più intelligente di quanto si pensi. Se è furbo e un po´ malandrino come molti sono, ha sempre una goccia di saggezza nei momenti di svolta e questo è uno di quelli.
Ma Vendola è un´altra cosa e il discorso su di lui va affrontato diversamente. Ha carisma, non c´è dubbio. Il suo strumento è la parola, l´affabulazione, il suo racconto della situazione. Vendola racconta benissimo la situazione. Chi cerca il sogno, nelle sue parole lo trova. Sa governare? Non c´è prova, né pro né contro. Solo questo: la maggioranza dei pugliesi, anche molti che non amano la sinistra lo hanno votato. Come amministratore non lo approvano un granché e la situazione della sanità in Puglia non gioca certo a suo favore.
Ce lo vedo poco un Vendola a Palazzo Chigi alle prese con i capi di governo stranieri, con le banche, con gli imprenditori, con Marchionne. Comunque non è questo il punto.
Il punto è che Vendola vuole fare a pezzi il Pd e tutti i partiti e con i frammenti sparsi sul terreno costruire intorno a lui la sinistra italiana. La sinistra, non il riformismo. Il suo obiettivo non è di battere Berlusconi. Avere Vendola come avversario per Berlusconi sarebbe una carta vincente. Lui lo sa ma non è questo che lo interessa. Vuole costruire la sinistra. Vuole fare le primarie, ma dove e contro chi? Per fare le primarie di coalizione dovrebbe prima costruire un´alleanza con il Pd, ma non ci pensa neppure. Le primarie le farà con se stesso o comunque alle sue condizioni.
Esercita notevole attrazione sul popolo di sinistra, stufo delle nomenklature e qui sta il corto circuito. Vendola può costruire una nuova sinistra intorno a sé che starà però per vent´anni all´opposizione sfrangiandosi un anno dopo l´altro.
Oppure Vendola dovrebbe fare un programma e una squadra capace di governare. Ma non pare sia questa la sua strada, ragione per cui il corto circuito è possibile e sarebbe una iattura. Lo scrivo con molta simpatia per il governatore della Puglia che in Puglia ha vinto, ricordiamocelo, perché la Poli Bortone ottenne l´8 per cento dei voti e non li portò a Fitto ma se li tenne ben stretti.
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Ora sulla scena del Partito democratico, già notevolmente affollata, è ritornato anche Veltroni con un suo documento-proposta che è stato firmato da 75 deputati, circa un quarto dei parlamentari del Pd.
Non è un documento di rottura anche se giornali e televisioni (con l´eccezione di Mentana e nostra) si sono precipitati a dipingerlo come tale. Per il complesso del circo mediatico infatti l´equilibrio è fatto non tanto di verità ma di equidistanza e quindi niente di meglio che affiancare allo sfaldamento del centrodestra l´analogo sfaldamento del centrosinistra. Questo sfaldamento minaccia di esserci e ne ho indicato prima alcune ragioni e alcune rilevanti personalità che puntano in quella direzione, ma non mi pare che il rientro di Veltroni ne sia la causa.
L´ex segretario e in qualche modo fondatore al Lingotto del Pd è partito dalla constatazione dello scarso "appeal" del suo partito e dalla necessità di riportare in linea i tanti che se ne sono allontanati. Le intenzioni sono buone se contenute in questi limiti. Purtroppo per il Pd, Veltroni non è un uomo nuovo e soffre quindi del logoramento di tutta la classe politica italiana. Sarà pure un errore discriminare i politici con questo semplicissimo criterio del nuovismo, un errore di incultura e di semplicismo, ma è un dato di fatto come attesta l´area dell´indifferenza e dell´assenteismo che i sondaggi hanno quantificato.
Proprio perché se ne rende conto Veltroni parla di un "papa straniero" come fu a suo tempo Romano Prodi, che guidi il riformismo di centrosinistra mettendo insieme il carisma del leader e le capacità di governo che la politica richiede.
Sarà difficile trovarlo un "federatore" che corrisponda all´identikit, ma questa è la scommessa per vincere questo durissimo scontro in difesa della democrazia, della libertà, dell´eguaglianza e della fraternità, offese e ferite.


Corriere della Sera 19.9.10
L’ex leader soddisfatto: ho evitato un ritorno al ’94
«Partito di nuovo al centro dell’iniziativa». Tensione tra gli ex ppi
di Maria Teresa Meli

ROMA — Una faida si chiude (almeno per il momento) e se ne apre un’altra. Gli ex Ds, di comune accordo, abbassano i toni. Lo fa Walter Veltroni, che non vuole attirarsi addosso altre accuse di intelligenza con il nemico. Lo fa Pier Luigi Bersani, sebbene non riesca a nascondere un profondo fastidio per il fatto che un quarto del partito gli sia sfuggito di mano. Tra gli ex popolari, invece, la guerriglia continua.
Pier Luigi Castagnetti, ma soprattutto Franco Marini e Dario Franceschini, non hanno digerito il fatto che Beppe Fioroni abbia portato con sé un consistente drappello di ex ppi, peraltro di quelli che hanno i voti. Perciò continuano a tartassare i firmatari del documento dei 75 di telefonate. E insistono perché anche Fioroni e i suoi vadano alla riunione degli ex popolari di martedì, benché finora abbiano ricevuto un fermo diniego.
A rischio, a questo punto, anche l’incontro di mercoledì di Area Democratica. Potrà tenersi solo se si stempereranno gli animi. Segnali che vanno in questa direzione, finora, non si colgono. Franceschini ha ancora il dente avvelenato con Veltroni. L’altro ieri il suo portavoce Piero Martino, alla Camera dei Deputati, ha inveito contro Walter Verini, fedelissimo dell’ex segretario. E ieri, di fronte alla richiesta di Arturo Parisi, appoggiata da Veltroni, di una mozione di sfiducia contro il governo, il capogruppo ha fatto replicare al suo ufficio stampa che questa iniziativa è prevista solo per quel che riguarda Berlusconi come ministro per lo Sviluppo economico. Sfiducia individuale, quindi. Peccato che, invece, Bersani abbia aperto a quella proposta di Parisi. Può sembrare questione di lana caprina, e lo è, ma proprio per questo è indicativa dello stato di fibrillazione che agita il Partito democratico.
Nel frattempo Veltroni, l’uomo che ha acceso la miccia (ma lui non sopporterebbe di essere definito così), si è ripreso dal contraccolpo causato dal fuoco concentrico a cui è stato sottoposto: dichiarazioni, attacchi su Facebook, di tutto un po’. «Metodi antichi», secondo l’ex leader. E, ora, rilassato, e convinto di aver fatto bene — «sentivo che era giusto agire in questo modo» — tende una mano a Bersani, per fargli capire che non è stato mosso dal rancore personale. E ai suoi, dopo l’intervento di Orvieto, spiega che cosa lo ha convinto a compiere gli ultimi passi e a presentare un documento che, secondo la vulgata della maggioranza doveva raccogliere solo 20 firme e invece ne ha avute 75. «Diciamoci la verità — è il ragionamento di Veltroni —, Berlusconi non cade adesso, andrà avanti ancora altri mesi. E allora, se non si discute ora, quando lo facciamo? Dopo le elezioni per poi scaricare le colpe di un’eventuale sconfitta, o, in caso di vittoria, per mettere in piedi una coalizione eterogenea?».
Insomma, l’assillo di Veltroni era quello che il Pd gettasse la polvere sotto il tappeto di un’unità fittizia. E questo non gli andava proprio giù. Forse anche perché gli bruciava il ricordo — quello sì personale — di quando, dopo le elezioni, alcuni big del partito ne avevano criticato le scelte politiche, benché prima del voto non avessero mai sollevato un’obiezione. Ma sopra ogni altra cosa lo inquietava la deriva che sembrava prendere il suo partito: «Ho visto il rischio che si ripetesse la storia del ’94, che diventassimo un partito solo di sinistra e non di centrosinistra». Già, un’altra alleanza dei Progressisti, questa volta con Ferrero, Diliberto e chissà chi altro, un’altra gioiosa macchina da guerra.
Dunque, è soddisfatto, alla fine, Veltroni. Non delle beghe e delle polemiche, naturalmente, ma perché, come dice ai suoi, «si è riaperta una discussione che riporta il Partito democratico al centro dell’iniziativa politica». Qualcuno ha interpretato la sua decisione di abbassare i toni come una retromarcia. Così non è: per l’ex segretario è finito il tempo di tacere. Con i 75 avanzerà al partito «proposte innovative» nel campo dell’economia, del sociale e delle riforme istituzionali, nella speranza che il Pd tutto le faccia proprie. Altrimenti? Altrimenti i 75 andranno avanti ugualmente.

Corriere della Sera 19.9.10
Elettori pd, il 60 per cento vuole andare alle urne
Di Pietro l’alleato preferito, partito spaccato a metà su Ferrero e Diliberto nelle liste
di Renato Mannheimer

Il dibattito all’interno del Pd si è fatto rovente e rischia di minare ancor più l’unità del partito, peraltro mai raggiunta dalla fondazione ad oggi. L’aspetto in qualche modo paradossale della vicenda è che essa si dipana proprio nel momento in cui i partiti di governo appaiono maggiormente disuniti al loro interno e ci sarebbero grandi opportunità per un’opposizione forte e decisa.
In realtà, come ha osservato Massimo Franco, le crisi in atto nei due poli mostrano significative similitudini, specie nel manifestarsi del disagio della minoranza interna. In entrambi i casi, esso è in buona misura originato da una circostanza che accomuna il Pd e il Pdl: la debolezza attuale in termini di consenso elettorale. Il Pdl viene stimato oggi attorno al 30%, vale a dire ben 7 punti in meno dell’esito delle ultime Politiche e più di 5 punti in meno rispetto alle Europee che si sono svolte poco più di un anno fa. Sul fronte opposto, il Pd ottiene, secondo i sondaggi, una percentuale attorno al 25-26%, anch’essa inferiore di 7 punti al risultato delle Politiche e poco sotto a quello delle Europee.
Per l’uno e per l’altro è in atto un travaso di consensi verso le forze politiche minori. È un segno della disaffezione crescente dell’elettorato per i grandi partiti e della voglia, al tempo stesso, di una rappresentanza più specifica e diretta, cui corrisponde, come si è già sottolineato su queste colonne, una crescente simpatia per il «vecchio» sistema elettorale proporzionale.
Di fronte a questo stato di cose, la base elettorale attuale di entrambi i partiti maggiori — ma in particolare del Pd — appare frantumata e confusa. Le opinioni espresse dai votanti riflettono in buona misura la disparità di posizioni esistente ai vertici.
Ad esempio, alla richiesta sulle alleanze più opportune nella prospettiva di elezioni politiche anticipate, gli elettori del partito di Bersani indicano opzioni diverse e variegate. Solo poco più di un quarto (27%) esclude la possibilità di accordi con altre forze politiche e auspica il correre da soli. Tra gli altri, la maggioranza relativa (30%) suggerisce il proseguimento dell’alleanza con Di Pietro. E una quota di poco inferiore (28%) si aspetta un’apertura alle componenti più «radicali» dello scenario politico, quali Rifondazione, Comunisti italiani, Sinistra ecologia e libertà. Ma, al tempo stesso, vi è anche chi la pensa in modo opposto e guarda con simpatia a una collaborazione con l’Udc di Casini (23%) o con Alleanza per l’Italia di Rutelli (14%) o addirittura Futuro e Libertà di Fini (10%).
Altrettanto divisa appare l’opinione della base del Pd sull’opportunità (annunciata ufficiosamente, ma subito seccamente smentita dallo stesso Bersani) di inserire nelle liste del partito esponenti di Rifondazione e Comunisti italiani. Al riguardo, si registra una spaccatura che separa quasi esattamente a metà gli elettori Pd, con solo una lieve prevalenza (51%) dei contrari a questa ipotesi.
A fronte di questa disunità di opinioni, un elemento che caratterizza più trasversalmente i votanti per il Pd è l’insoddisfazione crescente per la situazione attuale. Tanto che, a differenza della gran parte del restante elettorato, la maggioranza (60%) della base Pd invoca al più presto le elezioni anticipate. Non tanto come scelta tattica quanto, soprattutto, come reazione alla stanchezza e al disagio per il permanere al potere del governo Berlusconi.
Davanti a questo stato di cose, Bersani non può che cercare, come in parte sta già facendo, di ricompattare l’unità — e, se possibile, l’entusiasmo — dei suoi elettori con proposte programmatiche, sui temi e sui problemi concreti posti dalla situazione attuale del Paese. Tentando di persuadere quella parte crescente (negli ultimi sondaggi più del 35%) di italiani che esprime disaffezione nei confronti della politica nel suo insieme e che manifesta sempre più forte indecisione sulla scelta elettorale, tanto da essere tentata di passare all’astensione. Un fenomeno, questo, assai significativo e troppo spesso sottovalutato dai leader politici.

Corriere della Sera 19.9.10
Di Pietro: democratici in decomposizione
di Alessandra Arachi

L’ex pm: «Veltroni radiologo del partito». Applausi al finiano Granata che però frena sulla sfiducia al premier: non passeremo per traditori

VASTO (Chieti) — È di una bellezza che stordisce lo squarcio che si vede dall’alto di Palazzo D’Avalos, a Vasto aperto al pubblico soltanto per le feste dei matrimoni. E per l’annuale festa dell’Italia dei Valori di Antonio Di Pietro. Ieri c’erano tutti e due. E, gioco della sorte, in mattinata gli applausi per gli sposi hanno accompagnato ritmicamente le dichiarazioni sferzanti del Tonino nazionale.
In platea Il leader Idv Antonio Di Pietro mentre, seduto venerdì in platea, scherza con Don Antonio Mazzi, fondatore della comunità «Exodus»
Raffiche di parole quelle di Di Pietro, lontano da un palco che ieri non prevedeva alcuna sua recita. Veltroni, cosa sta facendo? «Veltroni è il radiologo di un Pd in decomposizione. Nella linea Maginot siamo rimasti in pochi».
E davvero le alleanze con Fini e Casini sono impossibili? «Fini deve decidere che fare. Non può andare a fare un dibattito con Veltroni e Saviano sulla legalità e poi votare la fiducia a Berlusconi. Perché non prende coraggio? Il tempo di un battito di ali di farfalla. Poi torni a fare il leader della destra. Lo stesso vale per Casini: che opposizione fa se poi vota a favore del lodo Alfano?».
Il palco nel pomeriggio sarà affollatissimo per un dibattito sulla giustizia dove Luigi De Magistris e Sonia Alfano, Luigi Li Gotti, Bruno Tinti e Fabio Repici accoglieranno a braccia aperte l’intervento di Fabio Granata. E gli applausi si sprecano per il più agguerrito tra i finiani, che arriva persino a dubitare di potere dare il via libera allo scudo di protezione per il premier. Ma fuori dal palco, Granata non esita davanti alla domanda diretta sul voto di fiducia a Berlusconi? «L’appello di Di Pietro è comprensibile, ma non è lui che ci deve dare la linea. E noi non vogliamo dare a nessuno il vantaggio di chiamarci traditori».
Sul palco del pomeriggio c’è un momento di profonda commozione quando Sonia Alfano ricorda Angelo Vassallo, il sindaco di Pollica ucciso perché difensore della legalità: tutta la platea si alza in piedi, battendo forte le mani.
Fuori dal palco, invece, verso sera Di Pietro si sforza per fornire un’esegesi morbida sulla sua frase sul Pd in decomposizione. «Nessun attacco, anzi. Ho soltanto notato che il Pd sta facendo quello che è stato fatto nel Pdl. Ma il mio è un invito alla maggiore unità possibile». Anche Massimo Donadi, capogruppo dell’Idv alla Camera, non esita a rinforzare il concetto: «Il governo è al capolinea. Berlusconi è costretto a fare il mercante per recuperare qualche deputato. Questo non è il momento delle divisioni ma dell’unità da costruire subito, basata su un programma e non sui nomi».

l’Unità 19.9.10
La frase di Salvemini: «Datemi una soggettività sociale e vi solleverò il mondo»
Colloquio con Alfredo Reichlin
«Siamo fuori partita. È urgente elaborare un’idea di società»
Il Pd vittima del grande abbaglio del “secolo breve” non ha saputo individuare i nuovi soggetti del cambiamento. E così rischia l’irrilevanza
di Giovanni Maria Bellu

Sorpreso.. preoccupato... allibito...», dice Alfredo Reichlin commentando le ultime vicende del Partito democratico. Il tono non è quello di chi sta cercando di individuare il participio più appropriato: è quello di chi è sorpreso (preoccupato, allibito) per essere stato interrotto in modo inopportuno nel mezzo di un ragionamento complesso. Il ragionamento che Reichlin sta sviluppando da tempo sui cinque lustri di questa interminabile «fase politica» e sulla difficoltà del Pd «a entrare in partita»: «Continuiamo a litigare sugli schieramenti e sulle alleanze e ancora non sappiamo nemmeno con quale legge elettorale si voterà, né quando. La verità è che non siamo stati in grado di elaborare e di proporre una nostra idea di società».
Questa frase così appropriata e attuale, così “sulla cronaca” è stata pronunciata all’inizio della settimana scorsa. E dunque il suo autore oggi avrebbe qualche motivo per accogliere la polemica attorno alle dichiarazioni di Veltroni con la soddisfazione di chi vede confermata una tesi. Solo che Alfredo Reichlin con i suoi 85 anni e la sua lunghissima storia di politico e di intellettuale evidentemente condivide, anche se per riguardo non lo esplicita, lo stato d’animo della base democratica. Quello che, ormai a ogni “bufera tra leader”, ne produce automaticamente un'altra fatta di «Uff». Insomma, non gli va di parlarne. «Su che cosa ci dividiamo? Sulle ambizioni personali? Queste esistono, ma non credo che spieghino tutto».
No, non gli va di parlarne. Quest’altra frase risale addirittura a più di un mese fa. L’abbiamo tratta dalle venti pagine di una riflessione sul Paese e sul partito che Reichlin ha scritto in agosto. Sono lo sviluppo di ragionamenti in parte svolti nei mesi scorsi su l’Unità e articolati in chiave autobiografica in un bel libro, Il midollo del leone, pubblicato da Laterza nel marzo scorso. Ciò che colpisce in queste note (che possono essere lette integralmente nel nostro sito) è il tono di urgenza che le attraversa: un «non possiamo più perdere tempo» che vibra in tutte le righe. Fin dall’incipit: «Siamo entrati in una fase politica nuova e molto delicata che può riaprire la strada a una svolta democratica, ma può spingere le forze più reazionarie all’avventura. È in gioco la speranza che l’Italia resti una repubblica unita e una democrazia parlamentare mentre, dal fondo limaccioso del Paese, tornano a emergere tentazioni di tipo peronista. Io non so come andrà a finire. So, però, che è troppo grande lo scarto tra i rischi di disgregazione della compagine italiana e la debolezza della politica... Pesa non poco la vanità e l’inconcludenza di tanta parte delle polemiche che lacerano la sinistra».
Alla base della riflessione (e dell’urgenza), c’è la constatazione di un colossale abbaglio: l’idea che la fine della Guerra fredda avesse segnato l’inizio di un irreversibile progresso e che, in definitiva, il mondo fosse ormai diventato il migliore dei mondi possibili. I progressisti, la sinistra, in questo mondo non avevano più alcuna ragione per sviluppare una diversa idea della società, ma era sufficiente che si limitassero a garantire le “pari opportunità” e a “difendere i più deboli”. Come se la fine dell’utopia comunista dovesse necessariamente segnare la fine dell’utopia nella sua funzione di idea-forza. Tutto questo mentre l’economia mondiale veniva sovvertita dal crescente predominio del capitale finanziario a scapito di quello prodotto dal lavoro. E mentre l’Italia, inebetita dalla lente deformante del berlusconismo, guardava senza capire. Comunque capendo meno degli altri paesi dell'Occidente Reichlin che ha vissuto per intero, dall’infanzia alla maturità, quello che è stato imprudentemente definito “il secolo breve” ha sempre pensato che “breve” non fosse affatto. Al contrario: mentre si coltivava quell’illusione paralizzante, avveniva un cambiamento epocale. «Qualcosa che è paragonabile alla rivoluzione industriale di fine Ottocento». E così come dalla «folla cenciosa di contadini inurbati, di fanciulli e di donne che massacravano la loro vita davanti alle prime macchine (si parlava anche allora, come oggi alla Fiat, di leggi ineluttabili del mercato)» si arrivò ai sindacati moderni, allo stesso modo il Partito democratico deve cercare le condizioni per «creare una nuova soggettività politica in grado di opporre un’idea di società a questo supercapitalismo mondializzato».
C’è una citazione di Gaetano Salvemini che è particolarmente cara a Reichlin. La troviamo, infatti, nel suo libro e la ritroviamo in queste note: «Datemi una leva, datemi una soggettività sociale, e solleverò il mondo». Salvemini allora aveva 23 anni, era il 1896, e individuò la “leva” nei contadini pugliesi. Qual è la “leva contemporanea”, chi sono i nuovi soggetti del cambiamento? Il Pd, pena un degrado inarrestabile, ha l’obbligo di individuarli. Traendone tutte le conseguenze: «Perché un’idea di società è anche un’idea di partito».
E qui Reichlin sospende la sua riflessione. Un po’ per il modo che ha di intendere il suo ruolo: stimolare, suggerire, ma non dividere. Un po’ perché una «idea della società» non può, per la sua stessa natura, essere ridotta a una ricetta. Al massimo è possibile fornire la lista degli ingredienti, cioè dei luoghi dell’intervento, dei territori rimasti nell’ombra. A percorrerli si resta sorpresi nel constatare che lo sguardo di un dirigente politico nato nel 1925 è più lungo e lucido di quello di tanti suoi pronipoti. «Penso a un diritto umano di base incentrato sul lavoro creativo», scrive, per esempio, a conclusione di una riflessione attorno al problema di «come dare una rappresentanza politica nuova al lavoro moderno».
Non c’è la ricetta. Eppure, a leggere queste note nel combinato-disposto col libro autobiografico, senti in lontananza il profumo della pietanza. E, all’improvviso, provi un sentimento sorprendente e imbarazzante che proprio non t’aspettavi: l’invidia. Le pagine più belle del libro («Sì conferma l’autore me lo dicono tutti che quelle sono le pagine più belle...») sono quelle dedicate alla fase più tragica del nostro Novecento: l’armistizio, l’occupazione nazista e la Liberazione. Col Paese ferito e dilaniato che riprende faticosamente vita. A pagina 54 c’è una frase che ti orienta nella ricerca delle cause dell’imbarazzante sentimento di cui si è appena detto. È la descrizione dello stato d’animo, dopo l’8 settembre, degli allora giovani degli anni Venti: «Tutto diventava possibile. Si erano riaperte, sia pure coperte di macerie, le strade dell’avvenire».
Ecco allora l’origine dell'invidia (ed ecco la ragione per cui quelle pagine sono unanimemente considerate «le più belle»). Siamo a questo punto: abbiamo una tale fame di strade, e abbiamo un tale timore di macerie, che chi conserva la memoria delle strade ed è stato capace di liberarle dalla macerie ci appare il rappresentante di una generazione fortunata. Più fortunata della nostra e, dunque, molto più fortunata di quella dei nostri figli. Una generazione che aveva una visione dell’Italia futura e un bisogno insopprimibile, un’urgenza, di raccontare e migliorare quella presente. Forse «avere un’idea di società» è semplicemente questo.

l’Unità 19.9.10
Il nostro rischio?
Perdere conoscenza
Conoscere è importante, soprattutto oggi in un un Paese come il nostro dove domina l’ignoranza
di Nicla Vassallo

State leggendo questo articolo. Un semplice atto che presuppone parecchie conoscenze: saper leggere, sapere che l’Unità è un giornale, sapere in quale spazio/tempo vi trovate (se vi credeste nella Grecia antica, cosa comprendereste della situazione socio-politica contemporanea?), sapere che siete voi, non qualcun altro. Di più, necessitate di una conoscenza di background, di cui fa tra l’altro parte il sapere che un giornale è qualcosa che si sfoglia, non che si mangia, che non avete scritto il presente articolo, qual è il vostro nome (vi chiamate forse Nicla Vassallo?), e via dicendo. Chiudete gli occhi, per immaginare di perdere ogni conoscenza, queste incluse. La vostra esistenza? Ridotta a un mero vegetare, in cui non sapete quasi nulla. Esperimento inquietante, che mostra però l’importanza del conoscere.
GRANDE FRATELLO & CO. Apriamo gli occhi sull’oggi. Da una parte, i luoghi deputati (famiglie, libri, media, scuole, università, eccetera) a trasmettere conoscenza, non errori, risultano controllati e penalizzati viepiù, mentre si scacciano conoscenze e competenze per lasciar posto a insigni, immeritevoli appariscenze, che brillano per pressapochismo e ignoranza. Dall’altra, ci vengono propinate, troppo spesso, realtà virtuali, dimensioni fittizie, informazioni manipolate, che, erronee, finiscono col non trovare riscontro «là fuori», nel mondo esterno. Se in ciò consta la nostra cultura, su quale patrimonio conoscitivo, condivisibile e condiviso, si erge? Oppure, è una non-cultura, se non un’anti-cultura, che galoppa alla volta di un mondo orwelliano, governato dal Grande Fratello: «In fin dei conti, come facciamo a sapere che due più due fa quattro? O che la forza di gravità esiste davvero? O che il passato è immutabile? Che cosa succede, se il passato e il mondo esterno esistono solo nella vostra mente e la vostra mente è sotto controllo?» (George Orwell, 1984, Mondadori, Milano, p. 85). D’accordo, errare humanum est, ma un illuminato Cicerone precisa che perseverare è azione da ignoranti, quindi non da diabolici a meno che, ovvio, ignoranti e diabolici non coincidano. Abitiamo, allora, in una cultura dell’ignoranza e dell’errore, sempre che di cultura si tratti. Se sommiamo l’ignoranza all’errore, erriamo nell’ignoranza e ignoriamo d’errare, tradendo le aspirazioni conoscitive, iscritte per Aristotee nella nostra natura. A venirci assicurata rimane una brutalità di dantesca memoria.
Illusioni e allucinazioni umane, errori percettivi, ci conducono a vedere il bastone spezzato nell’acqua quando in realtà non lo è, l’acqua nel deserto quando in realtà non vi è. Chiamandole illusioni e allucinazioni, implichiamo che qualcosa di non illusorio e non allucinatorio si dia in una realtà da conoscere, realtà che non creiamo, né fantastichiamo, realtà che esiste indipendentemente da noi. I realisti concordano. Ma chi ingiunge prontamente «Siamo realisti: fatti, non parole!», oltre a proferire parole, si nasconde dietro un logoro slogan, sconfessa la relazione tra parole e fatti, sorvola sul problema della verità.
«Dire di ciò che esiste che non esiste, o di ciò che non esiste che esiste, è falso, mentre dire di ciò che esiste che esiste, e di ciò che non esiste che non esiste, è vero»: Aristotele sposa così (La metafisica, IV, 7, 1011b) una precisa concezione della verità, stando a cui le nostre affermazioni sono vere se corrispondono ai fatti, se trovano in essi una base oggettiva. Quando affermiamo senza menzogne? Quando crediamo in ciò che diciamo. Sapere fare un’affermazione comporta, a ogni buon conto, saperla giustificare, essere cioè in grado di offrire buone ragioni per essa. Mettiamo che qualcuno affermi «Non esistono le condizioni per riaprire le trattative», e che, alla domanda «Per quale ragione lo credi?», replichi «Il Colosseo è eversivo»: non ci troviamo di fronte a una giustificazione, bensì a una farneticazione. Solo nel caso in cui disponiamo di una giustificazione, non di una farneticazione, la credenza che affermiamo ha buone probabilità di risultare vera, ovvero di aspirare allo status di conoscenza.
Giungere a conoscere per un caso fortuito? Non si appella alla fortuna la scommessa di Blaise Pascal sull’esistenza di Dio. Abbiamo ragioni di credere che Dio esiste perché la posta in gioco è la vita eterna. Si tratta di ragioni prudenziali (è prudente, conveniente credere che Dio esiste), non di ragioni epistemiche (ragioni per credere che sia vero che Dio esiste). Meglio la convenienza o la verità? Se aspiriamo a conoscere, occorre optare per verità. Non per nulla, a partire da Platone, identifichiamo la conoscenza con la credenza vera supportata dalla giustificazione epistemica. Tuttavia, rimaniamo esseri fallibili, dalle capacità cognitive limitate, per cui le nostre credenze, pur giustificate, possono risultare false. Certo, per mera casualità, si danno credenze vere ingiustificate. Ma chi, dotato di sale in zucca, darebbe credito a uno scommettitore incompetente, stando a cui x vincerà? Diremmo forse che lo scommettitore in questione (che tira a indovinare, e che si differenzia così da quello pascaliano) sapeva che x avrebbe vinto, nel caso in cui x vinca? Lo scommettitore non sapeva, ha avuto soltanto una spacciata fortuna.
Già, la Fortuna, meglio non affidarsi a questa giovane bendata, se siamo savi. Una donna irrazionale, contrapposta, per errore, all’uomo razionale, donna che trova però un qualche riscatto in epoca rinascimentale, quando viene rappresentata con una vela in mano. Chi sa veleggiare non naviga né con irrazionalità, né con casualità: sceglie, a ragione, rotte precise. Navigare è impresa difficile, occorre per l’appunto saperlo fare non tutti ne sono in grado -, gli errori si pagano cari: andar per mare rimane la migliore metafora della nostra effettiva esistenza. Ci saranno pure naufragi fortunati e capitani che, come i prìncipi di Nicolò Machiavelli, si trasfigurano in tali, con poca fatica, grazie alla fortuna, «ma devono poi penare per restare al potere», al timone. Già, difficile governare una barca senza conoscenza, senza sapienza.

il Fatto 19.9.10
Niente sofismi, sui Rom è razzismo
di Furio Colombo

Che storia è? Che cosa è accaduto? Guerra della Repubblica francese contro gli zingari? Tutto è possibile, sappiamo che conta la paura, pesa il pregiudizio e che la politica è fatta anche di quel brutto ingrediente che è il populismo, ovvero la voglia di piacere alle maggioranze facendo qualcosa di cattivo e di ingiusto ai danni delle minoranze. Ma due cose non tornano in questa vicenda. La prima è che la presenza nomade degli zingari, gitani, rom dura da secoli in Europa, come testimoniano storiografia, letteratura, poesia, musica, folklore, proverbi e costumi. Ci sono sempre momenti in cui qualcuno crede di scoprire ciò che c’è sempre stato e pensa di denunciarlo come intollerabile. La seconda è che i rom gitani o zingari dispersi per l'Europa sono pochissimi. Poche decine di migliaia di persone in comunità (campi) che spesso non arrivano a cento persone. Come è possibile che un fatto così antico e così piccolo colpisca prima l’attenzione, poi l’ira, infine produca l’editto di cacciata dal Paese del presidente di una grande Repubblica? La cosa è ancora più difficile da capire perché il Paese è la Francia e il presidente è Sarkozy. Era sempre sembrato in grado di tenere in equilibrio il suo temperamento nervoso di uomo iperattivo con le esigenze di personaggio al sommo delle istituzioni francesi. Certo, alcuni aspetti del suo passato politico non sono un buon preannuncio, come le violenze di tipo leghista scatenate anni fa dalla sua polizia nelle banlieu parigine, contro giovani figli di immigrati, cittadini francesi. Ma, da presidente del Paese che si identifica con il valore della libertà e dei diritti civili, Sarkozy aveva dimostrato di saper tenere a distanza le squilibrate spinte a certi tipi di azione e persecuzione della destra di Le Pen e dei suoi eredi.
Zingari, sfogo ideale
QUALCOSA è scattato, vuoi nella vita pubblica (sondaggi, popolarità in declino) vuoi nella vita privata di Sarkozy (di questo non sappiamo nulla e non ospiteremo cattiverie suggerite da francesi malevoli) per rompere in modo così clamoroso l’equilibrio della più alta istituzione francese, dunque del suo governo, dunque dei suoi ministri e della sua polizia. Un percorso utile per capire ciò che sta accadendo è la vicenda giudiziaria che da qualche tempo insegue Sarkozy (fondi illegali versati alla sua campagna elettorale). I giudici francesi non mollano. Molte cose sono possibili quando si confrontano il senso di impotenza di qualcuno molto potente con una comunità di persone (i rom) senza potere e senza rappresentanza e del tutto privi di difesa. Per lo sfogo d’ira di Sarkozy, per lo stato di non equilibrio in cui, per qualche ragione, il presidente francese è caduto, gli zingari sono l’ideale. Primo, distruggere i campi, che non sono certo di cemento armato. Secondo, forzarli a “tornare a casa”, come se dei nomadi avessero una casa. Terzo, trasportarli verso Paesi dell’Est, certe volte individuati a caso,badandobeneafingerechesi tratti di “rimpatrio” (raramente i rom fanno conferenze stampa per smentire); badando a far notare la elargizione di una buonuscita di 300 euro per famiglia, alla presenza delle telecamere, in modo che i detrattori del presidente siano serviti. Si tratta di partenze “assistite” e “spontanee”. In tal modo siamo costretti a vedere di che cosa è capace il presidente Sarkozy quando gli va la mosca al naso. Ecco uno che non scherza. Un vero uomo, direbbe se potesse dire tutto, Sarkozy, di se stesso.
Amici in Italia, estranei in Europa
MA SIAMO solo a metà della storia. Segue prima l’imbarazzo, poi la condanna europea. E quando la Commissione Europea, con il presidente Barroso gli resiste, i presenti al summit di Bruxelles parlano di uno scontro con scambio di urla. Una vera scenata del sempre meno equilibrato Sarkozy contro quel punto debole – però simbolico – che è la Commissione Europea. Forse la situazione di squilibrio e quel volare di insulti hanno attratto l’attenzione di Berlusconi, che si unisce subito, nel senso che anche lui (unico in Europa) proclama non solo che l’iniziativa di Sarkozy è sacrosanta, ma che lo farà anche in Italia: persecuzione degli zingari, che non hanno alcun governo per proteggerli e alcuna forza politica. Del resto quella persecuzione è già in atto a pieno regime a Roma e a Milano, oltre che in tutti “territori” della Lega. Dunque Berlusconi si pronuncia ma gli accade il solito incidente che lo tormenta fuori dall'Italia. Non solo la stampa francese (o quella europea) non fanno cenno della Santa Alleanza: tutta la Francia e tutta l’Italia contro i rom. Ma si dà un caso curioso. Sarkozy, che nella disciplinata stampa italiana ringrazia ripetutamente Berlusconi (testualmente: “E’ così che si vedono i veri amici”) nella irata conferenza stampa a Bruxelles non lo nomina mai. Questa battaglia è sua e se la gestisce lui. Qui però finiscono la parte mondana e quella giornalistica della insolita e stupefacente vicenda. E comincia la verifica, non secondo principi umani e morali, che non sarebbe male includere in questa storia. Ma comincia la riflessione del buon senso.
Cittadini da secoli
BASTA riprendere la storia dall’inizio. Abbiamo detto che la Francia (e poi la Francia e l’Italia, 150 milioni di persone in due dei paesi più ricchi del mondo) si schierano contro i rom. Deve trattarsi di un rischioso progetto: liberare i rispettivi paesi dalla invasione degli zingari. Ci sarebbe un primo ostacolo: gli zingari sono cittadini europei. Qui dovrebbe soffermarsi il diritto. Il buon senso si ferma molto prima. Il buon senso avverte che i rom – sommando i due paesi – non sono neppure 400 mila, dispersi in campi di poche centinaia, a volte decine di persone. Metà sono donne, metà sono bambini. C’è un altro dettaglio che attrae l’attenzione del buon senso e avverte che qualcosa non va nell’equilibrio di questi due stati: una buona metà dei perseguitati sono cittadini francesi o cittadini italiani da secoli. Qui, nella guerra ai rom, mancano le ragioni (vere e false) con cui gli untori scatenano la guerra contro l'immigrazione. Ti dicono che sono tanti, che sono troppi che prenderanno il sopravvento e imporrano il giogo islamico. I rom sono pochi, sono cristiani, sono in giro da secoli, sono cittadini europei e, spesso, sono cittadini dei paesi in cui ormai vivono con cui condividono scuola e lingua. Purtroppo tutto ciò ci porta verso un’unica, triste, squallida spiegazione: questo è razzismo nella sua forma più rozza e più pura. È tutto qui. Ma è come diagnosticare, nel cuore dell’Europa, il peggiore dei mali.

Agi 18.9.10
Vendola, il documento Cei ha rotto il silenzio



Bari, 18 set. "Il documento della conferenza episcopale sul sud e' stato un atto straordinariamente importante perche' ha rotto il silenzio sul mezzogiorno d'Italia". Il presidente della Regione Puglia, Nichi Vendola, lo ha deto partecipando a un dibattito organizzato dall'Arcidiocesi di Bari-Bitonto e dalle Acli, nel corso della 74ma Fiera del Levante. "E' un documento ha sottolineato che e' stato capace di individuare patologie drammatiche; lo stato d'affanno, appunto, della pubblica amministrazione che ha bisogno di essere incentivata, formata, selezionata, secondo i criteri meritocratici e che, invece, nel corso di decenni e' stata costruita come una stampella dei sistemi di poteri".
 Secondo Vendola, "la pubblica amministrazione, la burocrazia deve essere il luogo di congiunzione tra la domanda di diritti dei cittadini e l'offerta di servizi da parte dei pubblici poteri. Se la pubblica amministrazione viene umiliata come e' accaduto in tutti questi anni, e' chiaro che li' si determina un corto circuito, un affanno, ma il documento dei vescovi ha detto ancora e' anche importante perche' illumina le zone di eccellenza del sud, parla delle giovani generazioni come di un capitale sociale fondamentale, dice che l'Italia non ha speranza e vincera' la logica delle separazione delle piccole patrie!". Anzi, il presidente della Cei ha detto che la Chiesa lavorera' alacremente perche' il popolo italiano possa reinnamorarsi dell'Italia, reinnnamorarsi dell'Italia significa ha concluso Vendola il senso del vivere assieme, cioe' vivere assieme con diritti sociali, con diritti di liberta' e con il culto dei diritti umani". (AGI) cli/zeb
http://www.agi.it/politica/notizie/201009181405-pol-rt10094-sud_vendola_documento_cei_ha_rotto_il_silenzio

Corriere della Sera 19.9.10
«Ma per noi figli dei Lumi la religione resta un fatto privato»
Lo scrittore Martin Amis
di Maria Serena Natale

Cita Blaise Pascal e indica ai fedeli il calice di un Cristo «in agonia fino alla fine del mondo», invita ad aprire lo spazio pubblico al discorso religioso, incontra il premier David Cameron elevitti media busi. Oggi ilPa pateologo beatificherà quel cardinale John Henry Newman che oppose al relativismo valoriale una fede concepita come dialogo tra umano e divino, incarnato nella concretezza della persona, nel tormento della coscienza.
La sacralità dell’umano baluardo contro la decadenza. Un sentire naturalmente vicino al Ratzinger amante di San Tommaso e portatore Oltremanica di un pensiero forte che rifiuta ogni compromesso sui valori. In questi anni in Gran Bretagna il dibattito sulla non negoziabilità dei principi costitutivi dell’identità occidentale ha toccato vette polemiche, intrecciandosi alla riflessione sull’incontro-scontro tra culture dopo l’11 settembre. Tra gli intellettuali intervenuti con più forza, con prese di posizione contro la strumentalizzazione politica della religione che gli sono valse l’accusa di islamofobia, Martin Amis.
Il grande scrittore di romanzi come London Fields o La casa degli incontri, dove amore e fede sono moneta di scambio in un mondo in decomposizione, commenta con il Corriere la visita di Benedetto XVI. E misura la distanza tra il messaggio papale e un pensiero che rintraccia nella tradizione empirista e illuminista le radici di un orientamento contrario a ogni sovrapposizione tra discorso pubblico e sfera religiosa.
«Non ho mai nutrito sentimenti antireligiosi — dice Amis — ma credo che a una convivenza democratica occorra una dose di anticlericalismo, che l’ascolto della parola di Dio attenga alla dimensione privata, slegata dalla mediazione dell’istituzione ecclesiastica. Il processo di secolarizzazione occidentale in Gran Bretagna s’innesta sulla tradizione di John Locke e David Hume, la rivoluzione illuminista che ha modellato una coscienza civile emancipata dai dettami della religione e che oggi è difficile conciliare con l’impostazione del Papa tedesco». La storia, sostiene, ha imboccato una traiettoria diversa, in rotta di collisione con un pensiero che pone la necessità di ancorare la ricerca del fondamento etico della politica alla riflessione sulla fede. «Mi sembra un approccio animato da spirito reazionario, una prospettiva che non tiene conto di processi di lungo corso e conquiste consolidate ma torna al passato, a prima dello Scisma, al tempo in cui la Gran Bretagna era cattolica e la Chiesa di Roma poteva esercitare la propria influenza in virtù del ruolo che le veniva universalmente riconosciuto». Il viaggio di Ratzinger gli appare come l’espressione di «un atteggiamento storicamente nostalgico, di un tremendo anacronismo, per i non cattolici una noiosa distrazione». Destinata quindi a non fare presa nel profondo della società. «Credo che per la maggior parte dei britannici non cattolici una visita di questo tipo, certe pretese di indottrinamento, siano motivo di disagio». E affonda. «La Chiesa cattolica non è in condizione di dare lezioni. Sugli scandali di pedofilia c’è stato un tentativo di emendarsi ma non un’azione radicale di rinnovamento, non tutti i responsabili sono stati perseguiti. Inoltre siamo di fronte a un sistema chiuso e ancora barricato su posizioni che per la componente laica della società sono indifendibili. Penso al divieto di contraccezione, al no all’ordinazione delle donne».
Visita delicata, anche per la dimensione istituzionale, venerdì ad ascoltare il Papa nella Westminster Hall dove fu condannato a morte l’autore di Utopia Tommaso Moro c’erano ex capi di governo, ieri l’incontro con il primo ministro conservatore. «Delicata soprattutto per la sovrapposizione di due piani che devono restare separati. Le impalcature costituzionali di tutti gli Stati occidentali si reggono sul principio della non interferenza della religione nel dominio pubblico». Sovrapposizione che rischia di compromettere il dialogo e creare «distorsioni pericolose», come le dispute sui simboli. «A ciascuno deve essere garantita la libertà di esprimere la propria fede, senza imposizioni, talvolta nel dibattito pubblico si resta impantanati in dispute marginali e si perdono di vista i principi».

Corriere della Sera 19.9.10
Carlo Flamigni
È diventato celebre come «il ginecologo dei bambini in provetta». Ora racconta i suoi rimpianti di scienziato e la passione di scrittore
«Ho creato la vita, ho avuto paura»
Nell’87 un embrione attecchì in un «utero esterno». Sembrava la storia di Frankenstein.
Troppo presto. Di fronte alle obiezioni etiche «mi è mancato il coraggio: ne sono pentito»
di Franca Porciani

Nell’87 un embrione attecchì in un «utero esterno». Sembrava la «storia di Frankenstein» Troppo presto. Di fronte alle obiezioni etiche «mi è mancato il coraggio: ne sono pentito», stavamo facendo davvero ricerca d’avanguardia; quando si mette le mani sopra questa merce rara, non si deve abbandonare. Avremmo potuto (forse) evitare molti errori e insuccessi nella cura della sterilità e dell’infertilità».

«Quella scelta mi lasciò un senso di frustrazione che mi ha accompagnato tutta la vita, lo confesso. Fu un errore interrompere l’esperimento». Nel buen retiro di San Varano, la vecchia casa di famiglia immer sanella campagna romagnola tra Forlì e Castrocaro dove ha deciso di vivere da qualche anno, Carlo Flamigni si toglie, finalmente, un peso dallo stomaco. Ricordando un evento importante della sua vita di ricercatore, che lo ha segnato in senso negativo, nonostante ripeta: «In quel momento non poteva andare diversamente: avrei avuto tutti addosso; nel giro di pochissimo tempo mi arrivò un numero straordinario di insulti».
Classe 1933, ginecologo di chiara fama (è, insieme ad Ettore Cittadini, il «padre» dei figli in provetta in Italia), professore universitario a Bologna fino al 2008, autore di moltissime pubblicazioni scientifiche sull’infertilità, Flamigni è anche un infaticabile divulgatore della sua materia (fra i tanti titoli, i Laboratori della felicità, pubblicato da Bompiani nel 1994 e Casanova e l’invidia del grembo, Baldini Castoldi Dalai editore, 2008) e romanziere di successo, soprattutto di storie poliziesche e racconti (uno dei suoi ultimi libri, Circostanze casuali, uscito quest’anno per l’editore Sellerio, è stato per diverse settimane ai primi posti delle vendite per la narrativa italiana). Flamigni ci accoglie nel giardino che circonda la casa, una grande distesa di verde tra i frutteti, dove le querce e il melograno («li ho sempre visti» dice) testimoniano una lunga storia di famiglia.
Professore, ce la racconta quella scelta? «Per capirla bisogna tornare al clima degli anni Ottanta, che sono stati tanto pionieristici quanto entusiasmanti per la fecondazione assistita — racconta Flamigni —. All’epoca dirigevo il servizio di Fisiopatologia della riproduzione dell’ospedale Sant’Orsola di Bologna e avevo un’équipe di giovani ricercatori di ottimo livello. Uno di questi era Carlo Bulletti, cervello aperto e curioso, oggi all’ospedale di Rimini. Lo mandai a New York, al Mount Sinai Hospital dove un gruppo di ricercatori, tra i quali c’era un carissimo collega, purtroppo scomparso, Erlio Gurpide, aveva iniziato esperimenti su uteri asportati per i più vari motivi, principalmente per fibromi, tumori benigni (l’utero, all’epoca, era ritenuto un organo inutile dopo l’età fertile e si toglieva con disinvoltura, ndr). Lì avevano trovato il modo di asportare l’organo con buona parte dei suoi vasi, che venivano incannulati e collegati a una specie di macchina cuore-polmoni che garantiva una circolazione extracorporea, con un buon livello di ossigenazione e di "pulizia" delle scorie metaboliche. Strabiliante: funzionava, l’utero non degenerava».
Bulletti tornò entusiasta da New York e Flamigni decise di andare avanti, di riprodurre il metodo a Bologna. «Incredibile: questo utero fuori dal corpo della donna sopravviveva bene per cinque, sei giorni, un tempo lunghissimo sotto il profilo sperimentale perché ci permetteva di verificare l’effetto degli ormoni e di vari farmaci sulla parete uterina. E, in effetti, se somministravamo estrogeni e progestinici attraverso la circolazione artificiale, nell’organo mantenuto in vita avvenivano gli stessi cambiamenti che si verificano nel corpo della donna. Avevamo trovato un "modello" sperimentale quasi perfetto», ricorda Flamigni.
Le cose si complicarono quando, inevitabilmente, scattò l’ambizione di tentare di più, ovvero di verificare se un embrione riusciva ad annidarsi in quell’utero senza identità e senza un corpo di appartenenza.
«Era il 1987: scegliemmo embrioni alteratissimi che non avrebbero mai potuto diventare vita vera e tentammo l’attecchimento — racconta ancora il ginecologo —. Sembra una storia alla Frankenstein, eppure il miracolo avvenne: partì questa gravidanza artificiosa, ma non artificiale, visto che sia l’utero, sia l’embrione, erano "veri". Ma ci cadde addosso un grande sbigottimento: si trattava di un evento "epocale" per il quale nessuno era pronto, né in Italia, né altrove».
Non era pronta nemmeno la comunità scientifica: l’esperimento venne pubblicato l’anno seguente su una rivista americana importante, « Fertility and Sterility », accompagnato da una nota del direttore del giornale che ne prendeva le distanze sotto il profilo etico. Fu il segnale che qualcosa aveva anticipato troppo i tempi.
«Capii che ci eravamo spinti oltre il limite; ebbi come un senso di mostruosità, di paradosso; dovevo interrompere e non pensarci più», ricorda Flamigni.
Era il 1988 e gli anni successivi portarono al ginecologo molte soddisfazioni professionali, accompagnate da una partecipazione appassionata ai temi etici che inevitabilmente la fecondazione assistita solleva. Membro del Comitato nazionale di bioetica da molti anni (lo è tuttora), ha sempre cercato di coniugare il progresso scientifico con il rispetto della persona.
«Ma lì mi è mancato il coraggio e oggi me ne pento — prosegue il ginecologo —. Anche perché avevamo ottenuto qualcosa di straordinario. Pensi che soltanto nel 2002, quindici anni dopo il nostro esperimento, alla Cornell University di New York riuscirono a far attecchire un embrione umano su un utero artificiale ottenuto tappezzando un contenitore biodegradabile con cellule estratte dalla parete dell’utero ed espanse in laboratorio. A Bologna, a quell’epoca stavamo facendo davvero ricerca d’avanguardia; quando si mette le mani sopra questa merce rara, non si deve abbandonare. Avremmo potuto (forse) evitare molti errori e insuccessi nella cura della sterilità e dell’infertilità».
Ma l’abbandono della ricerca di frontiera, intesa come sfida, come rincorsa coraggiosa del nuovo, dà una svolta determinante alla vita di Flamigni: il medico si scopre via via una vena di scrittore, che dai primi anni Novanta si tradurrà in opere di divulgazione di grande successo (fra queste La procreazione assistita, pubblicato dal Mulino nel 2002, del quale è in uscita a gennaio la nuova edizione e Avere un bambino, edito da Mondadori nel 2001). Contemporaneamente prende corpo il romanziere: inizia il filone noir, da Giallo Uovo (Mondadori, 2002) a Un tranquillo posto di Romagna (Sellerio, 2008) fino a Circostanze casuali.
«A un certo punto mi ha assalito la passione di raccontare i ricordi di una Romagna che non c’è più, dove si parlava un dialetto che per me è stato la prima lingua — confessa il ginecologo —. Ricordi affastellati nella testa, che ho cercato, e tuttora cerco, di romanzare in storie poliziesche che si snodano tra personaggi "veri" camuffati, alcuni scomparsi, altri viventi. Quando parlo a chi mi sta vicino della mia infanzia e della mia terra, mi accorgo che annoio: la strada dei libri si è rivelata un buon compromesso».
Lei è uno dei ginecologi più famosi d’Italia: svolge ancora la professione? «Seguo pazienti a Bologna e a Roma — risponde Flamigni —. Del lavoro fatto restano i "frutti": mi compaiono davanti ragazzoni altissimi portati dai genitori ancora grati del "miracolo" della loro nascita. Ma rimane soprattutto il ricordo dell’evento parto, della sua intensità emozionale (non certo degli aspetti tecnici), della complicità delle donne con cui ho diviso questo momento straordinario. Spero, da spettatore, e non troppo arrogante».

Corriere della Sera Salute 19.9.10
Iperattivi o vivaci? Il modo giusto per capirlo
Nella settimana europea dell’ ADHD uno studio riaccende le polemiche sui rischi di valutazioni frettolose
Italia all’avanguardia nelle misure per evitare l’eccessivo ricorso ai farmaci
di Elena Meli

Entrate in una classe dell’ulti-mo anno di scuola materna: ci sarà chi ha più di sei anni e chi invece ne ha compiuti cinque solo da qualche mese. Le iscrizioni al primo anno di "scuola dell’infanzia", infatti, possono essere anticipate, in molti Paesi, Italia compresa, a due anni e mezzo rispetto agli abituali tre. Ebbene, tra tutti questi bambini, almeno in America, i più "giovani" hanno il 60% in più di probabilità di ricevere una diagnosi di ADHD, la sindrome da deficit di attenzione e iperattività. Lo ha dimostrato una ricerca, pubblicata sul Journal o f Healt h Ec o no mic, su 12mila bimbi americani, che ha riacceso la discussione su una malattia di cui si parlerà in particolare nei prossimi giorni, in occasione della Settimana europea dell'ADHD, da oggi al 26.«Un bimbo più piccolo spesso riceve una diagnosi di ADHD solo perché è messo a confronto con compagni più avanti nello sviluppo» commenta l'autore, Todd Elder dell'Università del Michigan, ipotizzando che negli Usa ben il 20% dei 5 milioni di bimbi diagnosticati come iperattivi non lo sia affatto. Un dato su cui riflettere anche in Italia, perché almeno il sospetto di ADHD può effettivamente essere indotto da un paragone scorretto. Bisogna, però, tener presente che, mentre negli Usa la diagnosi di ADHD viene fatta a 8 bambini e adolescenti su 100, in Italia si reputa che soffra di ADHD l’1% dei minori (secondo altre stime, il 3%). Per di più negli Usa il ricorso a sostanze psicoattive, simili alle anfetamine, è molto più frequente.
Il dibattito comunque ferve anche nel nostro Paese, che però nel 2007 ha istituito un "Registro" dei bambini in cura per l'ADHD con i due farmaci in commercio da noi, metilfenidato o atomoxetina. I medicinali possono essere prescritti solo dai Centri iscritti al Registro, che devono operare secondo criteri per il percorso diagnostico e terapeutico prestabiliti. «Vogliamo evitare eccessi di diagnosi e di prescrizione — spiega Pietro Panei, responsabile del Registro presso l'Istituto Superiore di Sanità —. Un bimbo con sospetto ADHD, segnalato dal pediatra, è valutato nei centri di neuropsichiatria infantile del territorio, dove, in caso di diagnosi accertata, inizia la psicoterapia. Se i problemi non si risolvono, arriva a uno dei Centri di riferimento e ripete i test; in caso di conferma di ADHD, si decide la strada terapeutica dando la precedenza al trattamento senza farmaci». E, infatti, un terzo dei 120 Centri, pur avendo fatto diagnosi di ADHD, non ha mai inserito un paziente nel Registro per la cura con i farmaci. Farmaci non privi di effetti collaterali: con il metilfenidato, ad esempio, si rischiano danni cardiovascolari; l'atomoxetina aumenta il pericolo di suicidio. E di fatto si sa ancora poco sulle conseguenze di un uso a lungo termine, iniziato da piccoli. Per capire meglio gli effetti sulla crescita è in corso uno studio europeo cui partecipa anche il Registro italiano.
«Sono farmaci da usare solo quando servono davvero — interviene Maurizio Bonati, responsabile del Laboratorio per la Salute Materno Infantile del Mario Negri di Milano —. Ma in Italia siamo lontani dagli eccessi dell’America dove c'è una forte medicalizzazione indotta anche dalla spinta a risparmiare: le pillole costano molto meno di una psicoterapia che si affronta dopo un iter che richiede più di uno specialista e 12 ore di test e valutazioni cliniche». La diagnosi è peraltro il nodo critico di tutta la faccenda. Chi mette in discussione l’esistenza dell’ADHD in quanto malattia, sottolinea l'inadeguatezza dei test, ai quali risulterebbe "positivo" qualunque bambino un po' vivace. Nel questionario, che può essere usato anche da genitori e insegnanti per indirizzare i primi sospetti ci sono nove situazioni da valutare, tra cui, ad esempio, la riluttanza nel fare i compiti, la tendenza a non ascoltare, ma i comportamenti, per essere significativi devono, per esempio, persistere da almeno sei mesi, creare disagio in più contesti.
«Le valutazioni di genitori e insegnanti sono importanti — sottolinea Giuseppe Chiarenza, vicepresidente della Società italiana di neuropsichiatria dell'infanzia e dell'adolescenza —. Durante una visita, più difficilmente si manifestano problemi di distrazione e iperattività: è in gruppo che essere attenti richiede più fatica». Resta un fatto: come per molte patologie neuropsichiatriche la diagnosi è clinica. Una freccia nell'arco di chi nega l'esistenza dell'ADHD, ma qualcosa sta forse cambiando. «Esistono prove che l'elettroencefalogramma dei bimbi con ADHD è diverso dalla norma — dice Chiarenza —. E la valutazione dell'attività elettrica del cervello può anche indicare chi sta rispondendo ai farmaci, mentre i test approfonditi sull’attenzione individuano chi può trarre più beneficio dalle medicine. Una diagnosi accurata è fondamentale per impostare il trattamento, tenendo presente che spesso basta insegnare ai genitori un nuovo modello di comportamento col figlio, che lo gratifichi e lo incoraggi anziché farlo sentire "difficile"».

Corriere della Sera Salute 19.9.10
Genitori: scontro d’opinioni

In Italia esistono due Associazioni, anzi due schieramenti, di genitori che sul tema dell’ADHD la pensano in modo diametralmente opposto. Secondo "Giù le mani dai bambini" (comitato cui hanno aderito oltre 200 enti e associazioni), l'ADHD non esiste e i farmaci non andrebbero mai dati . «Siamo di fronte a una "moda", a diagnosi inconsistenti e vaghe — afferma Emilia Costa, psichiatra dell'Università La Sapienza di Roma e membro del comitato scientifico di "Giù le mani dai bambini" —. Gli psicofarmaci sono spesso usati con leggerezza, credendo che le cure non farmacologiche non funzionino: la psicoterapia invece modifica la struttura cerebrale e influisce concretamente sul comportamento, con effetti tangibili e misurabili». L'idea di "Giù le mani dai bambini" è, in sostanza, che il farmaco sia visto dai medici, e a volte dai genitori, come una sorta di "scorciatoia" per arrivare ai risultati in fretta. A che prezzo, però? Perfino un maggior rischio di morte improvvisa o di suicidio, sottolinea il comitato. «Non esiste genitore di un bambino con ADHD che non abbia paura dei farmaci e chiunque prova sollievo quando non servono o li possiamo interrompere — ribatte Patrizia Stacconi, presidente dell'Associazione Italiana Famiglie ADHD —. Quando però, dopo anni di sofferenze, vediamo che un medicinale cambia la vita dei nostri figli, dobbiamo assumerci la responsabilità di andare oltre la paura. I farmaci sono l'ultima scelta, ma incontriamo tantissime difficoltà nel garantire ai bambini le altre terapie: spesso non si riesce a fare psicoterapia nelle Asl vicino a casa, trovare psicologi di sostegno ai genitori è difficile, le terapie complementari come l'ippoterapia sono quasi sempre a pagamento. Risultato, ogni famiglia spende ogni anno dai 10 ai 14 mila euro».

Corriere della Sera Salute 19.9.10
«Per nostro figlio solo psicoterapia»

Andrea (nome di fantasia) è sempre stato un bambino vivace, non stava mai fermo. I medici non gli avevano diagnosticato l'ADHD, ma avevano comunque consigliato un aiuto per superare le difficoltà in classe: alle elementari Andrea aveva un sostegno e, dalla terza in poi, ha anche fatto psicoterapia. In prima media l'inizio dell'incubo: nella nuova scuola Andrea non segue, fa confusione, non si interessa a niente. Le insegnanti non lo aiutano, anzi arrivano a isolarlo in una stanza senza farlo partecipare alle lezioni; segnalano ai genitori le difficoltà, inizia la trafila alla Asl e all'ospedale. Arriva la diagnosi di ADHD e, subito, la prescrizione del farmaco (al momento dei fatti il Registro non era ancora attivo). E i genitori si rifiutano. «Abbiamo chiesto se fosse l'unica soluzione, ci è stato detto di sì. Ci si sono drizzati i capelli in testa, perché avevamo letto che cosa era accaduto in America a bambini in cura coi farmaci: effetti collaterali pesanti, morti sospette — racconta il papà di Andrea —. Ci siamo opposti, nonostante in consiglio di classe ci venisse detto che, rifiutando il farmaco, non stavamo seguendo nostro figlio nel modo giusto. Noi sentivamo che Andrea non aveva bisogno delle medicine, vedevamo che aveva interessi diversi e per questo forse non stava attento in classe. È stato difficilissimo opporsi al parere di tutti». Andrea poi è stato visitato da altri neuropsichiatri che hanno sostenuto la posizione dei genitori: ha cambiato scuola, ha continuato con la psicoterapia, ma non ha mai preso una pillola. «Nella nuova scuola è stato accolto come un bambino uguale agli altri, non ha mai avuto problemi e dopo un po' ha potuto anche smettere di incontrare lo psicologo» dice il padre. Oggi Andrea sta per compiere 17 anni, va volentieri a scuola e si trova bene con compagni e insegnanti. Ha trovato la sua strada, adora i computer. Vorrebbe diventare come Bill Gates.

Corriere della Sera Salute 19.9.10
«Il mio ragazzo dice grazie alle medicine»

A nove ore dalla nascita Lorenzo (nome di fantasia) ha preso la sua prima camomilla. Già allora nessuno riusciva a gestirlo: piangeva in continuazione, non voleva stare nella culla. «A due anni eravamo stremati: Lorenzo non dormiva mai — racconta il papà —. Dai due ai cinque anni l'abbiamo fatto visitare da una sfilza di psicologi: tutti davano la colpa a me e mia moglie, dicevano che eravamo inadeguati. C'è voluto impegno per tenere in piedi la famiglia». A cinque anni la prima diagnosi, ipercinesia, ma nessuna proposta di cura. «Ci sentivamo persi. Poi, un anno dopo, leggendo l'intervista al genitore di un bimbo con ADHD, mi è sembrato di sentir descrivere Lorenzo. L'abbiamo portato da una neuropsichiatra, è arrivata la diagnosi e, poi, la psicoterapia, il corso di "parent training" per noi genitori. Le cose miglioravano, ma l'ingresso alle elementari fu disastroso: l'insegnante non voleva assecondare le esigenze del bambino».
Per anni Lorenzo subisce bullismo e violenze psicologiche, senza raccontare niente a casa. Finché in quinta elementare esplode con crisi di pianto alla sola idea di entrare in classe. Cambia scuola a tre mesi dall'esame, in prima media trova finalmente insegnanti che collaborano, lo inseriscono nel gruppo. L'anno è comunque difficile, i genitori decidono di provare col metilfenidato: «Non l'abbiamo fatto a cuor leggero, ma perché il farmaco poteva aiutare Lorenzo a star meglio con se stesso e con gli altri. Avevamo paura, certo. Quando abbiamo visto che era più sonnolento del solito abbiamo interrotto la terapia. Ma era bastata a dargli una spinta, e in seconda e terza media ha recuperato il tempo perduto». Oggi Lorenzo ha quindici anni e fa ancora psicoterapia: la sua iperattività è sotto controllo, anche se sono rimasti gli strascichi di una vita di disagi. «Non riesce a farsi degli amici, ha il vuoto intorno — dice il papà —. Mi chiede perché è diverso, che cos'ha di sbagliato. Perché questi bambini non sono solo vivaci, stanno male. Loro per primi».

Repubblica 19.9.10
Contro tutte le esecuzioni
Ebadi: "Altre venti come Sakineh dobbiamo riuscire a salvarle tutte"
di Daniel Salvatore Schiffer

Oltre alla donna condannata per adulterio, sono in molte ad attendere la morte per lapidazione. E anche quattro uomini Battiamoci per porre fine a questa pratica barbara, e alla pena capitale in generale

BRUXELLES - Sakineh Mohammadi Ashtiani, l´iraniana condannata alla lapidazione per adulterio e complicità in omicidio, è diventata un´icona planetaria. Ma non è solo per lei che l´avvocatessa iraniana Shirin Ebadi, premio Nobel per la pace, lotta senza posa. «In Iran - ricorda -almeno altre 24 persone attendono la stessa sorte».
Signora Ebadi, cosa pensa della mobilitazione internazionale per Sakineh?
«Non posso che rallegrarmene. Tanto più che Sakineh è totalmente innocente. L´adulterio, il primo capo di imputazione a suo carico, non è né un crimine né un delitto. Quanto all´accusa di presunta complicità nell´omicidio del marito, si basa su confessioni che le sono state estorte sotto tortura psicologica e fisica. Ma oltre a Sakineh, almeno altre 20 donne e 4 uomini attendono la stessa crudele sorte: la morte per lapidazione. Nelle carceri iraniane ci sono anche oltre 800 prigionieri politici, diverse decine dei quali condannati a morte. Non si tratta, dunque, della sola Sakineh».
Chi altro? Ha nomi da segnalare?
«Gli esempi sono numerosi. C´è Shiva Nazarahari, giovane giornalista accusata di "cospirazione contro Dio" (morahebeh in farsi) per il solo fatto di avere scritto degli articoli contro il regime. Le è stata concessa la libertà su cauzione, ma nulla garantisce che, a fine processo, non venga condannata a morte. C´è l´avvocatessa per i diritti umani Nasrin Sotoudeh, arrestata per "propaganda contro lo Stato". Le esecuzioni si svolgono quasi quotidianamente: una al giorno dopo l´ascesa al potere di Ahmadinejad»
Anche gli omosessuali rischiano la pena di morte in Iran...
«È il caso di Ebrahim Hamidi di soli 18 anni, che rischia di essere impiccato da un momento all´altro. La sua situazione è ancora più precaria di quella di Sakineh, perché se ne parla molto meno».
Lei lotta anche per mettere fine alle leggi che in Iran colpiscono molto duramente adolescenti e bambini.
«L´età della responsabilità criminale in Iran è fissata a nove anni per le bambine e a 15 per i bambini. Questo significa che se una bambina di 10 anni commette un crimine sarà condannata con la stessa durezza che un uomo di quarant´anni. È per questo motivo che l´Iran detiene il triste primato del più alto numero al mondo di esecuzioni di minori».
Cosa può fare l´Occidente?
«Continuare senza posa questa lotta per i diritti umani. Sradicare questa violenza degli organi politici, religiosi e giudiziari dell´Iran. Per questo faccio appello non solo agli intellettuali, ma anche ai leader mondiali perché si battano per mettere fine a questa pena barbara e crudele che è la lapidazione. Ma anche all´impiccagione o a qualsiasi altra forma di pena capitale».
È favorevole a sanzioni economiche nei confronti dell´Iran?
«Non potrebbero che avere conseguenze positive. A condizione, ovviamente, che non colpiscano la popolazione. Bisogna indebolire i dignitari del regime. Bisognerebbe procedere, per esempio, al congelamento di tutti i loro averi nei Paesi democratici, impedirgli di viaggiare negando loro il visto e boicottare i loro incontri o discorsi in seno agli organismi politici internazionali».
Pensa che Sakineh sarà risparmiata dalla giustizia iraniana?
«Non ho nessuna fiducia nell´attuale governo iraniano. Solo il capo del potere giudiziario ha il diritto di presentare una domanda di grazia. E questa va presentata alla Guida suprema: l´ayatollah Khamenei. È a lui che conviene indirizzare i nostri appelli alla clemenza».
(Traduzione di Luis E. Moriones. L´autore è il promotore dell´appello per Sakineh che ha raccolto oltre 140mila firme
sul sito di Repubblica)

Repubblica 19.9.10
L’incontro
Flippo Timi
di Irene Maria Scalise

Ha una rara malattia agli occhi, ma è diventato uno scrittore famoso Ha la balbuzie, ma è diventato uno degli attori più richiesti. Mamma infermiera, papà operaio, "da bambino sognavo di firmare gli autografi alle ragazze, come Elvis, invece ero uno sfigato" Non ha paura di passare continuamente dal palco al set, ma della morte sì: "Quando ci penso allungherei un braccio per aggrapparmi a Dio"
Capire le donne è uno sforzo inutile Carmelo Bene diceva sempre che farle piangere è una cosa irreparabile e io sono pienamente d´accordo con lui

Cita i grandi filosofi ma avrebbe voluto essere Elvis Presley. Recita con voce profonda ma quando non è sul set s´inceppa sulle parole. Ha uno sguardo intenso ma soffre di una rara malattia agli occhi che gli impedisce di vedere il centro delle cose. Scrive libri ed è diventato famoso come mattatore. Ha paura di volare eppure è sempre in viaggio. È Filippo Timi, trentasei anni, nuovo mito trasversale. Specialmente per le donne. Lui, onesto, ammette: «Seduco a trecentonovanta gradi».
Alto, spalle larghe, barba e capelli arruffati, quarantasei di piede, Timi è un uomo ingombrante. Si racconta sempre divertito e, anche quando esita sulle sillabe, sdrammatizza. Negli ultimi tre anni ha scelto di vivere a Milano, città che ama perché la trova comodissima. Lungo i Navigli si muove disinvolto, sorriso aperto e passi lunghi. È umbro. Ponte San Giovanni, appena fuori Perugia. Ama la sua terra e quando torna a casa è sempre un´emozione. «Soprattutto per mia madre che si agita come una bambina appena legge un articolo che mi riguarda sul Corriere dell´Umbria. Sospetto però che l´orgoglio aumenti quando sulla stessa pagina magari compare anche una foto della Bellucci», compatriota di Città di Castello. Un´infanzia semplice quella di Timi: «Da bambino facevo parte del gruppetto degli sfigati, soffrivo anche di ernia e i medici avevano ordinato ai miei di non farmi piangere: mia sorella mi odiava perché mi vedeva come un privilegiato. Ero il classico "ciccio" che non ha mai avuto il motorino. Quel tipo di bambino che fa tenerezza agli adulti e che i coetanei sfottono».
Mamma infermiera e papà operaio, Filippo sognava in grande: «In un tema di quinta elementare scrissi che da grande mi sarebbe piaciuto essere una "specie" di Elvis Presley per avere tante ragazze che mi chiedessero l´autografo. Finita la scuola, invece, mi sono messo a studiare filosofia e al secondo esame un professore mi ha cacciato perché avevo deciso di applicare con lui il metodo di Socrate, rispondendo alle domande con un altro quesito». Una pessima partenza che lo fa velocemente traslocare all´istituto d´arte. «Ero tra i più bravi, facevo duecentocinquanta disegni alla settimana con gli insegnanti che mi passavano i fogli di nascosto perché consumavo carta in modo compulsivo. Lì mi si è aperto un mondo. Ho scoperto quanto era meraviglioso studiare, e ho cominciato a immaginare una vita d´artista - anche se mia madre era sempre lì a ricordarmi che i soldi per mantenermi non c´erano».
Poi, come a volte succede, tutto si risolve per caso: «Sono andato ad accompagnare un mio amico a un provino e hanno scelto me». Un successo inaspettato, nonostante l´evidente balbuzie. «Non capisco cosa accade quando recito ma ogni esitazione sparisce, forse perché entro nelle cose con il cuore e con gli occhi. Anzi, è proprio quell´incognita nella parola che mi dà un punto in più nel rapporto con il pubblico». Giorgio Barberio Corsetti, il regista, si appassiona a questo strano personaggio. Lo prende nella sua compagnia teatrale e gli cambia la vita. «Era un modo per fuggire dal niente. E dopo un mese di prova ho potuto interpretare Edipo il giovane con lo stesso Corsetti, che ancora recitava, e un anziano Franco Citti che interpretava il vecchio e mi parlava in romanesco. Mi sembrava di sognare. Lavoravo senza aver fatto nessuna scuola. Solo energia pura».
In quegli anni viene fuori però il problema agli occhi. Una malattia degenerativa, la sindrome di Stargardt, che gli complica i sogni. «Ogni tanto penso a quanto mi piacerebbe guidare», racconta con un sorriso. «Con il computer mi sono abituato a usare i caratteri quaranta e grazie all´iPhone riesco a inviare anche i messaggi». Anzi, è proprio grazie ai suoi caratteri al cubo se è diventato anche scrittore. «Scrivo in continuazione, un´urgenza sotto la pelle che forse è un modo per sfogarsi». Sceneggiature, pensieri, testi teatrali ma soprattutto tre libri tra cui Tuttalpiù muoio, concepito a quattro mani con Edoardo Albinati. Un libro da cui ha tratto e interpretato l´adattamento teatrale La vita bestia. «C´era un po´ d´incoscienza nel fare un passo così impegnativo, poi quando l´ho visto in libreria mi è preso un attacco di panico. Anche la rappresentazione non è stata semplice, un monologo di due ore con temi molto personali».
Il silenzio della mattina milanese è rotto da una telefonata. Filippo Timi si alza dal tavolo e per non disturbare l´atmosfera sonnacchiosa del vecchio caffè milanese, esce dal locale. La città risplende di quella luce speciale che ogni tanto la illumina. Una breve pausa e ricomincia a raccontarsi. «A ventiquattro anni, nel ´99, ho debuttato nel cinema con un film di Anna Negri. Un´esperienza indimenticabile». Da quel momento molti registi lo scoprono e sembrano innamorarsi di questo ragazzone. Improvvisamente è ovunque. In memoria di me di Saverio Costanzo, in Saturno contro di Ferzan Ozpetek, ne I demoni di San Pietroburgo di Giuliano Montaldo, in Signorina Effe di Wilma Labate, in Come Dio comanda di Gabriele Salvatores. E naturalmente in Vincere di Marco Bellocchio. «Al cinema ho portato molto del teatro, soprattutto la forza espressiva del mio corpo, forse perché non mi fido della parola. Attraverso la parola spesso tradisci quello che vuole dire il personaggio, e proprio per costruire un ruolo "credibile" non mi baso mai su quello che il personaggio dice».
La continua oscillazione tra set e palcoscenico non lo spaventa. Anzi: «Il teatro è corpo a corpo, un modo di fare l´amore con il pubblico. Al cinema invece basta pensare una cosa e la macchina ti riprende, non devi avere coscienza ma solo farti rubare. C´è un tempo cinematografico che è diverso da quello del teatro ma, soprattutto, da quello della vita. Per pochi fortunati è un dono naturale e, tra questi, sicuramente c´è Elio Germano». Che appena vinto la Palma d´oro a Cannes al telefono gli ha detto: «Ahò, Filì, sto vicino a Javier Bardem: ma lo sai che siete identici!».
Con la televisione ha un rapporto sincopato. Generalmente se ne dimentica, poi ogni tanto s´appassiona a qualche serie e allora diventa un´ossessione. Non fa altro per giorni. «È che non conosco il piacere della sosta. Se faccio tre cose mi concentro meglio che se ne affrontassi una sola, adoro lavorare per sottrazione». È ansioso, ma in un modo tutto suo. «Non ho timori per me ma mi pongo domande impressionanti del tipo: dove andremo a finire?». Nella vita è quasi sempre innamorato: «L´amore lo concepisco in modo francescano, non ho il senso dell´appartenenza ma voglio essere amato a tutti i costi. Anche perché non puoi recitare in teatro senza che ti batta il cuore». Sino ad ora non ha approfittato del suo successo con le donne. Casomai il contrario. «Ho troppo rispetto per me stesso per abbandonarmi alle avventure. Senza contare che la mia generazione è stata inibita dalla paura dell´Aids e questo mi ha parecchio frenato». Il mondo femminile lo affascina, anche se sa bene che ogni sforzo per comprenderlo «è inutile». «Carmelo Bene diceva che far piangere una donna è una cosa irreparabile e io sono pienamente d´accordo con lui. Ma per esempio non capisco cosa passa nella testa di Nina, una delle protagoniste del mio primo libro, che non ama più e continua fare l´amore con il marito. Perché le donne spesso accettano una storia fatta di un rapporto sessuale che equivale a uno stupro?».
Del successo non ha ancora la sicurezza paludata. «È bello e gratificante sapere che fai un lavoro che smuove qualcosa negli altri e che degli estranei spendono energie per venire a vederti e per farti i complimenti. Spero solo di mantenere questa leggerezza che mi fa aspettare ancora con curiosità che accadano le cose». Della malattia e della morte cerca razionalmente di farsene una ragione, ma l´istinto bestiale è di terrore puro: «Se penso alla morte vorrei allungare un braccio e aggrapparmi a Dio. Da un po´ ho anche timore di volare. Nei viaggi lunghi mi ripeto frasi scontate - tipo "nulla può accadere sino a quando non arriva il tuo momento" - . Poi però mi assale il dubbio atroce che "il momento" sia arrivato per il mio vicino. E allora entro nel panico».
Di figli ne vorrebbe, ma non subito. «Quando torno in Umbria e vedo le figlie gemelle di mia sorella le trovo meravigliose, ma molto impegnative. E poi ancora non ho un rapporto stabile. So solo che un giorno sarò padre». L´estate scorsa ha portato ancora in tournée Il popolo non ha il pane? Diamogli le brioche, di cui è autore, regista (assieme a Stefania De Santis) e interprete. Una rilettura di Amleto. Gioco e ira. Struggimento e provocazione. «Da quando un attore comincia a fare teatro sogna d´interpretare Amleto, e io su quel palcoscenico ogni sera soffro perché muoio, uccido, amo. E la sera successiva soffro nuovamente. Uso la risata come specchio della vita e pur essendomi basato sulle tragedie di Shakespeare e sui testi filosofici di Agamben, rileggo tutto a modo mio». Dopo i mesi caldi dedicati a premi e festival, dopo aver partecipato al film che Michele Placido ha presentato fuori concorso a Venezia Vallanzasca. Gli angeli del male e aver recitato un cammeo in La solitudine dei numeri primi, ora ci sono le prime riprese del film di Cristina Comencini, Quando la notte. Un altro inizio per Filippo Timi.

Corriere della Sera 19.9.10
Pirani, artigiano della penna
Il Pci, l’Eni e il giornalismo: sempre sul filo dell’autoironia
di Paolo Franchi

A leggere il rendiconto di Mario Pirani ( Poteva andare peggio. Mezzo secolo di ragionevoli illusioni) appena uscito da Mondadori, un giornalista di una ventina d’anni più giovane può anche provare un vago senso di invidia: nella vita e nel mestiere probabilmente non gli è capitato, e non poteva capitargli, niente di paragonabile.
Basta provare, per credere, a mettere sommariamente in fila stagioni e desper i enze. Il mondo (quasi) dorato di un’infanzia borghese negli anni Venti e nei primi anni Trenta. La persecuzione razziale che minaccia di travolgere la famiglia Pirani Coen. Un lungo dopoguerra (dal 1944 al 1961, passando per l’«indimenticabile ’56») nel movimento giovanile del Pci e poi nel partito e all’«Unità», sempre nelle vicinanze del sancta sanctorum. Gli anni Sessanta all’Eni, dopo lac hi amatadi Enrico Mattei, nel ruolo di dirigente, certo, ma prima ancora di «agente quasi segreto» in Tunisia, alla vigilia della vittoria della rivoluzione algerina. La scelta, stavol t a defi nitiva, del giornalismo: «Il Giorno» di Italo Pietra, l’avventura del «Globo», di nuovo «Il Giorno». L’incontro al Little Bar, sui nizia tiva di Giorgio Ruffolo, con Eugenio Scalfari (il gestore del locale gli aveva ceduto come sempre la tastiera del pianoforte, «ed Eugenio stava avviando le note di un vecchio blues: in piedi, accanto al piano, c’era Sandro Viola, sembravano usciti da un disegno di Onorato») e la partecipazione, da socio fondatore, alla nascita di «Repubblica». Un’altra avventura sfortunata, stavolta alla guida dell’«Europeo». Una breve stagione alla «Stampa» diretta da Giorgio Fattori. Infine il «ritorno a casa», al quotidiano fondato da Eugenio Scalfari, di cui Mario è autorevolissimo editorialista. E, lungo tutto questo, molti amori, tantissimi incontri (fantastico, anche per la piega imprevedibile che avrebbe potuto prendere, quello casuale in aereo, nei cieli dell’Africa, con Ernesto Che Guevara) con uomini che hanno fatto la storia del Novecento, ma anche con un’infinità di personaggi d’ogni tipo, spesso tanto improbabili quanto fascinosi. Nonché una quantità di viaggi ufficiali e di missioni riservate, in capitali europee e città africane che paiono uscire da un romanzo o da un film.
Poteva andare peggio, sostiene con un filo di autoironia Pirani. Per quel che riguarda la sua vita e il suo lavoro, ha ragione, ovviamente. Quanto alle «ragionevoli illusioni» che lo hanno ispirato, il discorso è un po’ più complicato. Anche perché le più (ragionevolmente) brucianti tra queste con il giornalismo c’entrano, sì, ma fino a un certo punto. Provo a spiegarmi. I caporedattori di un tempo, spesso più colti di quanto volessero apparire, frenavano i nostri giovanili ardori ricordandoci impietosi che «dopo mezzogiorno, il giornale è buono solo per incartare il pesce». Pirani è dello stesso parere: «Le nostre parole, una volta stampate, sonocondann ateaunarapida deperibilità, non vale eternarle fittiziamente in un libro o riservirle a tavola, in guisa di cibi manipolati, sotto altra forma». Dunque? Dunque «un bravo giornalista può paragonarsi a un bravo artigiano, e deve sapere, come lo sanno gli artigiani, che le sue opere non sono destinate ai musei». E, visto che «nessuno di noi possiede la verità… dovremmo essere tenuti a raccontare le cose almeno rispettando quella che a noi sembra la verità, sperando di cogliere nel segno o di andarci vicino», sempre pronti «a cambiare opinione se la realtà muta». Tutto qui.
Mario, probabilmente, nel metterla giù così drasticamente gigioneggia un po’. Ma nella sostanza, queste cose le pensa davvero. E anche così si spiega, almeno in parte, come mai, tra i tanti ricordi che Pirani minuziosamente ricostruisce, quelli più direttamente legati ai giornali e ai giornalisti non siano poi molti, e abbiano un peso tutto sommato secondario: sarà anche un vezzo, ma sicuramente non è un caso se, antiche inchieste operaie sull’«Unità» a parte, l’unico suo articolo su cui si sofferma compiaciuto per qualche pagina, anche per gli artifizi che consentirono di farlo venire alla luce, è un’intervista per «Il Giorno» a Paola del Belgio, all’epoca principessa inseguita dai rotocalchi, oggi regina felicemente regnante. E le «ragionevoli illusioni»? Sono, in ultima analisi, illusioni di natura politica e intellettuale: arte, non artigianato. Anche un giornalista che si comporta da «bravo artigiano» può nutrirne, ci mancherebbe. Ma, in generale, appartengono al passato, più o meno remoto. Se vivono ancora (chi conosce Pirani, o semplicemente chi lo legge, sa che per lui una qualche forma di vita la hanno, eccome), è perché danno comunque un minimo di ordine, chissà quanto davvero fondato, e qualcosa di simile a un minimo di spessore storico, al nostro discorso. Non sarà moltissimo, ma, di questi tempi, non è nemmeno poco. Per chi voglia leggerlo anche in questa chiave, Poteva andare peggio non è solo memorialistica.