mercoledì 22 settembre 2010

l’Unità 21.9.10
Da Porta Pia ai nuovi banchieri di Dio
Le vie dello Ior sono infinite
di Nicola Tranfaglia

Lo Ior ritorna di attualità, e non a caso. Leggiamo la notizia battuta ieri dall’Ansa: «Ettore Gotti Tedeschi, presidente dell’Istituto Opere di Religione del Vaticano e un altro importante dirigente della stessa banca vaticana, sono indagati dalla Procura della Repubblica di Roma per violazione del decreto legislativo 231 del 2007 che è la normativa di attuazione della direttiva dell’Unione Europea sulla prevenzione del riciclaggio». È stato inoltre eseguito il sequestro preventivo di 23 milioni di euro (su 28 complessivi) dell’Istituto che si trovavano su un conto corrente aperto su un conto corrente aperto presso la sede romana del Credito Artigiano spa. Il sequestro, precisa la Procura di Roma, non è stato disposto perché esiste una prova di riciclaggio ma perché, secondo gli inquirenti, è stato già commesso il reato omissivo della norma antiriciclaggio.
Fin qui la cronaca. Ma se si va oltre si scopre subito che da due anni sono in corso accertamenti su una decina di istituti di credito che sono in rapporto con lo Ior e che scambiano operazioni tra loro e con l’Istituto di Religione Vaticano per centinaia di milioni di euro. E si apprende anche che controlli finanziari compiuti dalla Guardia di Finanza in questi ultimi anni si sono trovati di fronte alla difficoltà di identificare i beneficiari degli scambi o di verificare che quando la magistratura ha chiesto nomi e cognomi, ha verificato che quelli forniti non hanno retto alla verifica tanto da suscitare il sospetto che fossero fittizi e non corrispondenti alla realtà.
Ora, per chi ricorda i casi clamorosi che hanno portato alla luce della scena pubblica l’Istituto vaticano e hanno rivelato i rapporti che c’erano stati negli anni Ottanta con Michele Sindona, Roberto Calvi e con la P2 e che si erano conclusi con la messa fuori legge della loggia di Licio Gelli e l’inchiesta parlamentare voluta dal governo Spadolini terminata con relazioni di maggioranza e di minoranza, diverse tra loro ma tutte persuase dell’illiceità delle operazioni condotte dai “banchieri di Dio”, si guarda con un certo timore a quello che sta emergendo dalla nuova inchiesta giudiziaria.
Tutto questo avviene dopo la grottesca cerimonia di domenica per i 140 anni della breccia di Porta Pia che ha visto protagonista il cardinal Bertone, segretario di Stato vaticano e grande amico del presidente dello Ior Gotti Tedeschi. Una cerimonia grottesca perché, in nome di una ennesima riconciliazione tra lo Stato e la Chiesa, si è dimenticato il significato storico della conquista di Roma da parte dello Stato liberale per farne la capitale proprio in opposizione a quel potere temporale dei Papi che sembra proprio ora essere risorto nell’Italia governata da Silvio Berlusconi e dal suo populismo autoritario.

il Fatto 21.9.10
I Pm indagano sui conti Ior
È la prima volta
Maxi-sequestro di 23 milioni di euro per mancato rispetto
della normativa anti-riciclaggio
Il presidente della banca del Papa, Gotti Tedeschi: “Mi sento umiliato”
di Gianni Barbacetto e Rita Di Giovacchino

Riciclaggio. L'ombra del sospetto si allunga sullo Ior, la potente banca vaticana. Nel mirino dell'autorità giudiziaria sono finiti il presidente Ettore Gotti Tedeschi, indicato come l'uomo nuovo un anno fa, e il direttore generale Paolo Cipriani da ieri indagati per violazione delle norme anti-riciclaggio su richiesta del procuratore aggiunto Nello Rossi e del pm Stefano Rocco Fava. Ma la vera novità è il provvedimento di sequestro preventivo, firmato dal gip Maria Teresa Covatta – cosa mai avvenuta finora – che riguarda 23 milioni di euro, depositati su un conto corrente aperto presso la sede romana del Credito Artigiano, che stavano per essere trasferiti all'estero. Più precisamente alla JP Morgan Frankfurt (20 milioni) e alla Banca del Fucino (altri tre).
I magistrati e il tabù
NON ERA MAI accaduto, neppure quando il giudice di Milano nel 1987 firmò un ordine di cattura nei confronti di Paul Casimir Marcinkus, che la magistratura italiana, con la complicità di Bankitalia e della Finanza, ficcasse il naso negli affari dello Ior fino a bloccare una sua operazione. Ed è la prima iniziativa in assoluto da quando, nel 2003, la Cassazione ha attribuito alla giurisdizione italiana la competenza sullo Ior e i suoi vertici. E non sarà l'ultima, altre indagini sono in corso. L'Istituto Opere Religiose, con i suoi 40 mila correntisti, molti residenti dello Stato Vaticano, non è più dunque in grado di agire extra-legem, forte della sua inviolabilità territoriale. Un privilegio che per mezzo secolo gli ha consentito di funzionare da paradiso fiscale al centro di Roma, alimentando la leggenda che lì si annidasse un'immensa “lavanderia” di denaro sporco, crocevia di tangenti, evasioni fiscali, mafia e quant'altro.
Ettore Gotti Tedeschi, appresa la notizia, ha dichiarato di sentirsi “profondamente umiliato”. Poi, in una telefonata con il direttore Giuseppe Marra dell'AdnKronos ha aggiunto: “Da quando sono stato nominato, assieme al direttore generale Paolo Cipriani, mi sono sforzato di affrontare i problemi per i quali oggi vengo indagato”. Banchiere ed economista di fama, legato all’Opus Dei, Gotti Tedeschi ha accettato un anno fa di succedere ad Angelo Caloia, lo Ior attraversava uno dei suoi momenti difficili. Era appena uscito il libro del cronista di Libero Gianluigi Nuzzi “Vaticano spa”, che rivelava i segreti a lungo custoditi nell'archivio di monsignor Renato Dardozzi, con tutte le operazioni spericolate da Sindona a Calvi, e tutti i conti coperti da nomi in codice. Il più famoso quell'“Omissis” dietro cui si celava Giulio Andreotti e la Fondazione Spellman attraverso la quale transitarono 60 miliardi della maxi-tangente Enimont. Proprio a Gotti Tedeschi è stato assegnato il compito di restituire trasparenza e credibilità alla Banca Vaticana, grazie al suo prestigio e ad amicizie trasversali nel mondo politico, bancario e finanziario italiano. Dal ministro del Tesoro Giulio Tremonti all'ex numero uno di Unicredit Alessandro Profumo. I suoi sforzi di risanamento sono apparsi insufficienti, pochi mesi fa, quando lo scandalo che ha scosso la Protezione civile ha di nuovo condotto la magistratura sulle tracce dello Ior che custodiva, tra gli altri, il conto corrente di Angelo Balducci.
Letta e Bertone come sponsor
GOTTI TEDESCHI era sì l'uomo nuovo, ma di un sistema rivolto all'esterno più che al mondo ecclesiale. Del resto a volerlo presidente era stato il cardinal Bertone che qualcuno giura sia più berlusconiano di Gianni Letta. Ora Ettore Gotti Tedeschi e Paolo Cipriani sono indagati dalla procura di Roma per violazione del decreto legislativo 231 del 2007, normativa di attuazione della direttiva Ue anti-riciclaggio. La Procura di Roma – consapevole di tanto ardire – ha precisato che il “sequestro non è stato disposto perché c’è prova di riciclaggio ma perché da parte dei vertici Ior si è omesso di applicare la norma”.
I due alti dirigenti rischiano fino a tre anni di pena e 50 mila euro di ammenda. Non si è fatta attendere la replica della Santa Sede che ha ribadito piena fiducia nell'operato di Gotti Tedeschi, manifestando “perplessità e meraviglia per l'iniziativa della Procura di Roma”. Nella nota della Segreteria di Stato si legge: “C'è la chiara volontà, da noi più volte manifestata da parte di piena trasparenza per quanto riguarda lo Ior. Ciò richiede che siano messe in atto tutte le procedure finalizzate a prevenire terrorismo e riciclaggio di capitali. Per questo da tempo le autorità si stanno adoperando nei necessari contatti e incontri, sia con la Banca d’Italia sia con gli organismi internazionali competenti”. E precisa: “Quanto agli importi citati si fa presente che si tratta di operazioni di giroconto per tesoreria presso istituti di credito non italiani il cui destinatario è il medesimo Ior”.
Ma proprio questo è il punto, dietro numeri di codice utilizzati dalla banca vaticana troppo spesso si sono celati nomi imbarazzanti.

Liberazione 21.9.10
Intervista a Giulio Giorello, filosofo della scienza
«Stiamo svendendo tutto, anche l'orgoglio delle differenze»
di Paolo Persichetti

All'insegna di una «ritrovata concordia tra la comunità civile e quella ecclesiastica», si è svolta ieri a Roma la celebrazione del 140° anniversario della breccia di Porta Pia. Presente alla cerimonia insieme al presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, e al sindaco di Roma, Gianni Alemanno, il segretario di Stato vaticano Tarcisio Bertone, che nel suo intervento dai toni distensivi ha riconosciuto «l'indiscussa verità di Roma capitale d'Italia». Circostanza non del tutto nuova per un primo segretario della curia. Già nel centenario del 1970 presenziò l'allora cardinale vicario, Angelo Dell'Acqua, che definì «la caduta del potere temporale un segno benevolo della divina provvidenza per la Chiesa». Tutto si è svolto secondo programma, fatta eccezione per una piccola contestazione organizzata dal Partito radicale e subito sedata dalla Digos. L'obiettivo, secondo i voleri del Quirinale, era quello di arrivare ad una "celebrazione condivisa", senza scossoni e polemiche. Non è stato facile. Ci sono voluti dieci mesi di laboriose trattative con l'amministrazione capitolina perché si arrivasse al placet finale. Il Vaticano ha posto proprie condizioni, preteso eventi senza venature anticlericali e polemici riferimenti al passato e al presente. L'evento, tappa importante delle celebrazioni per i prossimi 150 anni dell'unità d'Italia, ha posto non pochi paradossi. Un sindaco d'origine fascista che celebra con enfasi (nel momento in cui passa la legge per "Roma Capitale") una festività introdotta nel lontano 1895 e soppressa da Mussolini nel 1929, in occasione dei Patti lateranensi. Ed ancora, in un cerimoniale che ha mandato in frantumi ogni residua forma simbolica di laicità dello Stato, proprio nel giorno in cui le pubbliche autorità ne celebrano il compimento, il Vaticano fa da argine al legittimismo papalino più retrivo ponendo un veto alla presenza di uno storico, indicato da Alemanno, considerato troppo di destra. «Siamo un Paese senza orgoglio delle nostre battaglie», ci spiega da Lisbona il professor Giulio Giorello.
Mettere la museruola alla storia e addormentarla col cloroformio, è questo che si intende per memoria condivisa?
Mi domando cosa faranno alla prossima commemorazione della Resistenza.
Già visto. L'ultimo 25 aprile a Roma hanno invitato a parlare la Polverini. Poi l'Anpi per coprirsi a sinistra ha attaccato la manifestazione di Casa Pound.
Questa memoria condivisa mi ricorda il monumento fatto fare dal dittatore Franco ai caduti della guerra civile spagnola. Messi tutti insieme, senza distinguere le parti. Negli Stati uniti quando si celebra la guerra civile non vengono messi sullo stesso piano gli abolizionisti e gli schiavisti del Sud.
C'è chi ha definito la cerimonia di ieri, una «breccia al contrario».
A me sembra un muro di cemento messo al posto della breccia. Siamo un Paese che sta svendendo tutto, anche l'orgoglio delle differenze. Provo per questo un senso di grande amarezza.
Quale può essere una narrazione aggiornata della vicenda risorgimentale?
Ad esempio, sarebbe il caso di ricordare che i protestanti hanno avuto un ruolo tutt'altro che marginale nella rinascita della coscienza nazionale italiana. C'è stato un ruolo determinante della componente protestante. Si pensi allo stesso Giuseppe Mazzini. Sarebbe fondamentale rileggere il lavoro di Giorgio Spini, uno dei nostri migliori storici. Non c'è solo il cristianesimo «cucinato in salsa romana», come diceva Giordano Bruno. Un franco e reale riconoscimento delle differenze e non annacquare tutto in una memoria condivisa, mantenere le differenze gioverebbe anche ai cattolici che hanno un serio impegno di fede. La fede e la grazia del signore sono una cosa, le gerarchie un'altra.
Nel suo ultimo libro, "Senza Dio. Del buon uso dell'ateismo" (Longanesi), si definisce Ateo protestante. Che senso ha oggi il Risorgimento?
In questi giorni ho visto la fotografia della regina Elisabetta e del Papa che si sono incontrati. Erano l'immagine di due resti. La monarchia dentro la chiesa e la monarchia dentro lo Stato. Il mio ateismo protestante è un invito ad essere repubblicano, un cristianesimo senza monarca, uno Stato senza monarca. Mi definisco Ateo repubblicano, protestante. Porfirio Diaz diceva, «Povero Messico così lontano da dio, così vicino agli Stati uniti». Allo stesso modo possiamo dire, povera Italia così lontana da Dio e con il Vaticano dentro casa.
Questa storia condivisa dimentica massacri e misfatti anche dell'esercito piemontese.
Ci vuole il coraggio che hanno gli storici degli Stati uniti. Raccontare questi momenti di guerra civile con un grande respiro come Herman Melville per il Nord e William Faulkner per il Sud. Noi abbiamo avuto alcuni grandi come Verga, a proposito della novella "La libertà". Scavare nella nostra coscienza collettiva, esaminare con franchezza fuori dall'agiografia non nascondere le cose ma il contrario.

l’Unità 21.9.10
Veltroni smorza le critiche ma Bersani vuole chiarezza
Il segretario del Pd domani aprirà i lavori della Direzione criticando «tempi e modi» dell’iniziativa veltroniana. Letta paragona il documento dei 75 a una «bomba atomica» che rischia di «sfasciare tutto»
di Simone Collini

È la giornata delle diplomazie al lavoro, ma che la Direzione del Pd domani si chiuda senza lacerazioni ci credono in pochi. Anche perché mentre i pontieri si mettono all’opera Marco Minniti e Paolo Gentiloni, del gruppo dei cosiddetti “75”, discutono a lungo e a più riprese con Dario Franceschini scatta una guerra tutta interna agli ex-popolari, con Beppe Fioroni che convince i suoi a disertare («partecipare a una riunione indetta da due ex segretari Ppi significa tornare a due partiti fa») l’appuntamento convocato per ieri sera da Pierluigi Castagnetti e Franco Marini. E quest’ultimo che chiede alla Direzione di «esprimere un giudizio», insomma di chiudere i lavori di domani con una votazione, perché «è necessario fare chiarezza» e anche perché «non si può far finta che non sia successo niente».
BERSANI RIBADIRÀ LE CRITICHE
Pier Luigi Bersani vuole evitare spaccature, ma nella relazione con cui aprirà i lavori del parlamentino Pd ribadirà le critiche al documento di Walter Veltroni per la scelta «dei tempi e dei modi» ma anche per i contenuti: una politica delle alleanze, dirà il segretario Pd, non può essere sacrificata in nome di una vocazione maggioritaria che rischia di essere interpretata come una spinta verso l’autosufficienza. Non solo.
A Bersani non sfugge che mentre Veltroni con una mano offre un ramoscello d’ulivo, con l’altra gli lancia qualche frecciata non proprio piacevole.
VELTRONI CITA IL NOVEMBRE 2009
«Ci sono tutte le condizioni perché dalla discussione esca un Pd più unito e più forte», dice l’ex segretario conversando con i giornalisti a Montecitorio. «Solo drammatizzazioni unilaterali possono rendere difficile ciò che è noto: in politica si discute e si decide insieme». Parole che arrivano dopo che in mattinata Enrico Letta aveva paragonato il documento firmato da 75 parlamentari a una «bomba atomica» che rischia di «sfasciare tutto» e che di fatto già ora ha fatto registrare un calo nei consensi. Risponde però a distanza Veltroni, citando una data che a nessuno è apparsa casuale: «Dal novembre 2009, e non da dopo il documento, i sondaggi segnalano una continua erosione di voti e dobbiamo risalire tutti insieme la china». Novembre dell’anno scorso, ovvero un mese dopo l’elezione di Bersani a segretario.
PERPLESSITÀ SUL VOTO IN DIREZIONE
Il leader del Pd non ha risposto, ma con i suoi ha ricordato che sondaggi anche peggiori circolavano anche con Veltroni segretario (con il voto del febbraio 2009 per le regionali in Sardegna che ha registrato un Pd al 24,5%). Così, se l’ex sindaco di Roma auspica un incontro col segretario prima di domani («è giusto vederci e da parte mia c’è tutta la disponibilità»), Bersani sembra intenzionato a svolgere ogni chiarimento non in privato ma nella sede opportuna, la Direzione. Bersani ribadirà che l’operazione a cui si è dato vita ha lasciato disorientati tanti elettori che «non ci capiscono, che non vogliono litigi ma risposte ai loro problemi». Ma se un segnale di chiarezza anche per il leader Pd va dato, non è detto che questo significhi necessariamente chiudere i lavori con una votazione (magari della relazione dello stesso segretario) come vorrebbe Marini. Bersani non vuole chiudere l’appuntamento con una spaccatura. E poi, tanto nella maggioranza bersaniana quanto nella franceschinana Area democratica, c’è chi inizia a pensare che un voto e la certificazione di una nuova minoranza sia proprio l’obiettivo dei veltroniani.

l’Unità 21.9.10
Le due culture del Pd
di Bruno Gravagnuolo

Ma insomma che succede nel Pd? Tempesta in un bicchier d’acqua oppure frattura di fondo nel modo stesso di concepire il partito, e perciò incomponibile?Procediamo con ordine. Dall’affondo di Veltroni, con raccolta di 75 firme. Stavolta, ci pare, non si tratta di insofferenze, di critiche sparse, e nemmeno di un mero «contributo utile». Nulla a che fare neanche coi malumori e le sortite che tennero banco contro Veltroni, prima e dopo le sconfitte del 2008. No, stavolta si tratta di un documento politico vero e proprio, che spacca la minoranza Veltroni-Franceschini. E sottopone a critica radicale tutta l’impostazione del Bersani vittorioso al congresso e alle primarie (quelle vere del 2009). Legittimamente, certo. E però la linea di collisione è totale. Si adombra un altro candidato premier da Bersani. Malgrado lo statuto tanto invocato ieri. Si contestano le alleanze al centro e a sinistra. Inclusa, e qui la novità, quella con di Pietro. Si dichiara che il partito «ha smarrito la bussola» e che è ormai fuori dai binari sui quali venne piantato e fondato. Si denuncia il pericolo della rinascita di una sinistra targata 900, che difende le conquiste del passato. E quanto ai contenuti, i leit-motiv sono: mercato, competitività e lotta al debito. Nel segno di un «riformismo liberale e solidale». Altro che contributo utile! È un piano di battaglia, in nome di quella che è sempre stata la stella polare veltroniana: partito democratico trasversale «all’americana». Autosufficiente, ipermaggioritario, d’opinione, premierale e «primariale» (cioè leaderistico e personale, con il leader a garantire programmi e alleanze). Solo che dall’altra parte c’è ormai un’opposta stella polare: partito radicato e di rappresentanza sociale. Del lavoro, coalizionale al centro ed egemone sulla sinistra radicale. E soprattutto con Bersani c’è un partito tendenzialmente di sinistra e laico con dentro cattolici adulti e cultura sociale cattolica, ma laico e non ibridato. Morale: i Pd che abbiam visto sono due, coi cattolici divisi tra i due. Difficile conciliarli. Anzi impossibile.

il Fatto 21.9.10
Risposta a Scalfari
Caro Eugenio, ma chi è il papa del Pd?
di Paolo Flores d’Arcais

CARO EUGENIO,
domenica, nel tuo consueto editoriale su Repubblica, hai affrontato la questione politica cruciale: “La sinistra non trae finora alcun beneficio dal marasma della maggioranza. Perché?”. Per formulare una diagnosi, ma soprattutto per indicare una terapia, hai creduto di poter dividere “il popolo di sinistra” secondo “due diverse tipologie: chi vuole sognare e chi vorrebbe progetti concreti”, che puntualmente elenchi. Ma il dramma, concludi, è che “finora i cuochi [la nomenklatura Pd] si sono occupati d’altro. Non si sa bene di che cosa”. Conclusione impietosa ma ineccepibile (di cosa si siano occupati in realtà è noto: carriere e altri interessi personali, non sempre confessabili). Credo invece che fuorviante sia la polarità che istituisci tra sognatori e realisti. Del resto ammetti tu stesso che “spesso il desiderio di programmi concreti e di sogni alberga nella stessa persona”. E un classico della Realpolitik come Max Weber ammoniva che “è perfettamente esatto, e confermato da tutta l’esperienza storica, che il possibile non verrebbe raggiunto se nel mondo non si ritentasse sempre l’impossibile”.
Occhiuto realismo
ATTENIAMOCI comunque al più occhiuto realismo. Tu insisti, giustamente, che anche in politica, e forse più che mai in politica, almeno quella democratica, bisogna chiamare le cose col loro nome. Che un’arancia è un’arancia.
E un riformista? Un politico che realizza riforme, direi. Sui sedici anni che ci dividono dalla famosa “discesa in campo” di Berlusconi, circa la metà hanno visto il centrosinistra al governo. Riforme? Nessuna. E dire che non c’era poi molto da sforzarsi. Cominciando dal famoso “conflitto di interessi” per il quale la legge c’è già, risale al 1957, esclude dalla vita politica i privati che abbiano concessioni pubbliche (di valore superiore a una tabaccheria, fu spiegato allora). Sulla base di quella legge Berlusconi non era eleggibile. Bastava che la giunta parlamentare per le elezioni la rispettasse. Non lo fece, neppure col centrosinistra in maggioranza. Calpestando la “legge eguale per tutti” che è scritta nelle aule dei tribunali, avallando l’opposta “Costituzione materiale” secondo cui “Berlusconi è più eguale degli altri”. Che coincide – mi insegni – con quella della geniale Fattoria degli animali di Orwell (dove gli animali “più eguali” sono i maiali).
Né fu distrutto il duplice e mortificante monopolio televisivo: di Berlusconi sulla tv privata e della lottizzazione partitica su quella “pubblica”. Anzi, il centrosinistra varò un provvedimento (ad personam! Ad Berlusconem!) per vanificare la sentenza che aveva riconosciuto il diritto di Europa 7 di avere le frequenze abusivamente utilizzate da Rete 4. E nulla fece, va da sé, per eliminare il monopolio della pubblicità, che è lo scrigno di sicurezza contro ogni pluralismo televisivo. Quanto alla giustizia, riformismo significa far concludere (che è l’opposto di far morire) i processi in tempi ragionevoli, cioè brevi. Basterebbe calcolare la prescrizione sul rinvio a giudizio, e gli azzeccagarbugli degli imputati eccellenti non avrebbero più interesse a tirar le cose in lungo. E introdurre il reato di “ostruzione di giustizia”, sul modello e con la severità anglosassone, mentre invece si è depenalizzato di fatto quello di falsa testimonianza. E garantire le intercettazioni legali a costo zero, come dovere delle compagnie telefoniche che ottengono le lucrosissime concessioni pubbliche, punendo invece con durezza inaudita quelle illegali degli infiniti Pio Pompa, amorevolmente protette anche dal centrosinistra col segreto di Stato. Non parlo del raddoppio delle risorse materiali per l’amministrazione della giustizia e per l’azione delle forze dell’ordine (cancellieri che scrivono a mano, benzina per le volanti pagate di tasca propria...) perché sento già l’obiezione: mancano le risorse. Mancano? E i 275 miliardi annui (annui! Calcolo della Confindustria che corregge la precedente stima di “soli” 125 miliardi) rubati dall’evasione non sono risorse pubbliche? Perché nei sette anni dei due governi Prodi e del governo D’Alema ne sono stati recuperati solo alcuni insignificanti coriandoli? Non dovrebbe essere questa la prima azione del più moderato dei riformismi?
Sai bene, caro Eugenio, che potrei continuare a lungo. Del resto il giornale che tu hai fondato è costretto a ricordare costantemente la latitanza di riforme necessarie, e assolutamente possibili. Smettiamola almeno, perciò, di parlare di riformismo e di riformisti per i dirigenti del centrosinistra, TUTTI, visto che hanno governato a lungo quanto Berlusconi e non hanno riformato un prospero (su scuola e laicità hanno toccato l’efferatezza). Sono degli inguaribili NON-RIFORMISTI: un’arancia è un’arancia. Ma Prodi la seconda volta aveva la sincera intenzione di fare sul serio, sostengono i suoi nostalgici, solo che non aveva i numeri. È proprio vero che le nere disgrazie del presente colorano di rosa le grigie mediocrità del passato. Se Prodi ebbe al Senato solo un paio di voti di vantaggio, non dipese da un destino cinico e baro e meno che mai dagli elettori, ma da una decisione delle nomenklature del centrosinistra, che Prodi puntualmente ingoiò. Erano infatti pronte quasi dappertutto le “Liste civiche regionali”, accreditate di risultati variabili tra il 4% e il 12%: bastava presentarle in tre Regioni e al Senato Prodi avrebbe avuto la stessa maggioranza che alla Camera. Erano liste sul modello di quelle sperimentate in molte comunali, non liste “girotondine”. Tuttavia la nomenklatura dei D’Alema e Veltroni disse no. E alla richiesta di spiegazioni del rifiuto, visto che venivano accolte nell’alleanza le liste dei pensionati e dei consumatori (risultati previsti: da prefisso telefonico): perché loro sono un problema tecnico, voi potreste essere un problema politico. Tradotto: non vogliamo alleati che non siano totalmente proni alle nostre nomenklature. E così si sono consegnati mani e piedi allo statista di Ceppaloni. Ne converrai anche tu: lungimiranza e realismo non abitano presso i nostri non-riformisti. Un’arancia è un’arancia. Quanto al ritorno sulla scena di Veltroni l’Africano, sottoscrivi la sua proposta di ricorrere a un “Papa straniero”, cioè, fuor di metafora, a un leader della coalizione che venga dalla società civile anziché dai partiti. La proposta non è nuova, venne avanzata qualche mese fa proprio dal direttore del tuo giornale, Ezio Mauro. Figurati se non sono d’accordo anch’io, che ho cominciato a proporre un “partito azionista di massa” che nascesse dal crogiuolo di sinistra de-nomenklaturizzata e movimenti della società civile – già all’origine di MicroMega, ormai un quarto di secolo fa.
Il problema è CHI. Perché Veltroni ha già dimostrato cosa intenda per società civile con le nomine parlamentari dei Colaninno jr e dei Calearo. Questo’ultimo, benché in formato mignon, perfino più reazionario di Marchionne. Non è certo piegandosi ancora di più all’orizzonte dei (dis)valori berlusconiani che il centrosinistra sconfiggerà Berlusconi. Perciò è essenziale che il “Papa straniero” sia soprattutto un “Papa protestante”. Altrimenti tra il regime Berlusconi-Marchionne e una sua copia appena inzuccherata di veltronismi gli elettori del centrosinistra resteranno a casa a milioni. Che è quanto sta accadendo da anni e che costituisce il vero problema, come tu stesso sottolinei: un terzo di coloro che andranno a votare non ha ancora deciso. È dunque semplice dabbenaggine quella dei politici che calcolano il 50% più uno, necessario per vincere, come somma delle quote attuali dei partiti. Imbarcare Casini conta zero. Conta solo convincere quell’elettore su tre ancora indeciso. Contano perciò i (pochi) obiettivi programmatici, e la credibilità di chi governando promette di realizzarli. I nomi, per un “Papa protestante” non mancano: economisti, giuristi, giornalisti, scienziati, magistrati (niente imprenditori o finanzieri, per favore). Quanto al programma, ha ragione Michele Serra, la firma oggi più amata (dopo Altan) del giornale che hai fondato, quando sostiene che “la benzina politica e culturale per reagire al degrado... negli ultimi vent’anni è stata reperibile soprattutto nei movimenti della società civile” e che “il dramma del Pd è il suo moderatismo congenito”, mentre “con la fine del vecchio mondo bipolare serviva una nuova radicalità democratica”. Un’arancia è un’arancia.
Un programma già scritto
REALIZZARE la Costituzione, il programma già c’è. L’opposto di quanto il centrosinistra ha fatto nei suoi sette anni di governo. Se non era utopistico nel ’48, oggi dovrebbe essere addirittura ovvio. Non è perciò con alchimie partitocratiche, che finirebbero nel nulla dei veti reciproci e delle ambizioni incrociate, che si troverà il leader capace di unificare il “popolo della Costituzione”. Ma con un grande sommovimento di opinione pubblica (e di lotte e movimenti nella società civile), che metta capo a primarie vere, aperte, senza vantaggi per i candidati di apparato. Un sommovimento nel quale una testata come quella che hai fondato ormai giocherà un ruolo esplicito, dopo il tuo “endorsement” al Papa straniero.Repubblica è certamente un grande giornale. Pure, non solo Il Fatto rappresenta l’unico successo editoriale in una stagione di crisi, ma l’unica voce che sta coinvolgendo nuovi giovani lettori, ormai tutti in fuga verso il Web. Ecco perché conto che una tua risposta costituisca l’inizio di un più ampio e serrato confronto, che faccia da catalizzatore del sommovimento di opinione pubblica con cui – attraverso i giornali, i siti Internet, il mondo del volontariato, le lotte civili e sociali – potremo far uscire l’opposizione dal suo stato attuale di cronica minorità.

Repubblica 21.9.10
E il banchiere finisce già in politica "Può essere il papa straniero del Pd"
Il partito ne misurerà la popolarità con un sondaggio
di Goffredo De Marchis

Profumo ha votato per due volte alle primarie: nel 2005 (candidato Prodi) e poi nel 2007
Chiamparino: "Per come lo conosco, non è interessato ad un ruolo pubblico"

ROMA - Neanche il tempo di uscire dalla porta secondaria di Piazza Cordusio e Alessandro Profumo finisce nel totonomi dei futuri leader del Pd. La suggestione del Papa straniero, rilanciata da Walter Veltroni, lo precipita nella mischia, suo malgrado. Segno di un partito agitato, ancora instabile. Tutti dicono: «Impossibile». Ma ne parlano. Dice Sergio Chiamparino, uno dei dirigenti democratici più vicini al banchiere: «Una discussione del tutto assurda. Per quello che lo conosco Profumo non è interessato alla carriera politica». Ma è sicuramente un uomo d´area, un cittadino-elettore del Partito democratico.
Per due volte Profumo si è messo in fila e ha votato alle primarie del centrosinistra. La prima nel 2005 quando fu scelto Romano Prodi. La seconda nel 2007, quando la moglie Sabina Ratti si candidò con Rosy Bindi per entrare nell´assemblea nazionale del Pd. Una partecipazione attiva, pubblica, trasparente. Lasciò molti di stucco. Evidentemente Profumo crede (o credeva) sia nello strumento sia nei principali concorrenti di quella competizione. E nonostante le parole di Chiamparino, in passato gli è stata attribuita la tentazione della politica.
Profumo ha sicuramente un buon rapporto con Massimo D´Alema. Non solo perché Unicredit è la proprietaria della Roma, squadra del cuore dell´ex premier. Nel 2006 il banchiere partecipò a un Forum di Italianieuropei a Sesto San Giovanni insieme con Montezemolo e Enrico Letta che fu soprattutto una celebrazione del ruolo internazionale di D´Alema, allora ministro degli Esteri. Con Pier Luigi Bersani si scontrano due caratteri molto diversi, ma la stima del segretario Pd è indubbia. Piace un manager "vicino" che ha saputo tenere fuori la politica da Unicredit. La Bindi lo ha incontrato un paio di volte con la moglie durante la campagna per le primarie 2007. «Venne alla casa della Carità di don Virginio Colmegna». Luogo di volontariato. Che Profumo frequenta spesso, evitando come la peste i salotti. Scelse dunque la Bindi nel 2007, avversaria di Veltroni in quella corsa. Ma se c´è oggi un uomo libero in grado di scompaginare le carte del centrosinistra e avere il profilo del Papa straniero, quell´uomo può essere Profumo.
Il Pd farà monitorare attraverso i sondaggi il grado di popolarità di un personaggio che ha sempre preferito l´ombra. Succederà nei prossimi giorni. Per ora dirigenti di diversi orientamenti hanno reazioni del tipo "oddio, un´altra grana no". «Io non cerco un papa straniero. E mi sembra eccessivo candidare una persona che mezz´ora fa ha lasciato la sua banca», dice il prodiano Giulio Santagata. Urticante il commento di Beppe Fioroni: «Prendere come leader uno che è appena stato cacciato mi pare un´idea singolare della politica». Ma in privato non sottovaluta affatto le chanche di Profumo: «Un manager di straordinario rilievo». Alle prese con i guai interni i democratici scacciano nuovi fantasmi. Bindi spiega: «È una questione di rispetto. Non possiamo tirare la giacca di un banchiere che ha appena vissuto un momento difficile. E va rispettato un partito che non può subire tutti i giorni il totonomi». Il coordinatore della segreteria Maurizio Migliavacca condivide la linea: «Evitiamo mancanze di riguardo sia verso Profumo sia verso il Pd». Antonio Di Pietro, altro cacciatore di papi esterni alla politica, boccia a suo modo l´idea: «Ognuno faccia il suo mestiere. Di ragionieri che hanno gestito il potere delle lobby l´Italia può fare a meno». Eppure, senza dubbio, i leader Pd cercano o cercheranno Profumo. Sonderanno le sue intenzioni. Se qualcuno punterà su di lui si ricordi che il giro giusto è questo. L´ex ad di Unicredit ha firmato il "patto generazionale" promosso da Luca Josi. Una carta che impegna i contraenti a mollare tutte le poltrone a 60 anni. Profumo ne ha 53.

Repubblica 21.9.10
La crisi di un partito senza identità
di Giorgio Ruffolo

C´è chi dice che il Partito democratico non c´è più. C´è chi dice che non c´è mai stato. Sulla sua esistenza grava un peccato originale. Pur di non riconoscersi in una identità socialista questo nuovo partito ha scelto un non-luogo politico esponendosi al rischio, puntualmente verificatosi, di costituirsi come congerie di gruppi e progetti disparati. Parlai allora, esprimendo le mie riserve, di salade niçoise. Il fatto è che le identità politiche non si inventano con brillanti improvvisazioni. Sono storia e memoria, non slogan che degradano la politica in pubblicità.
Questa sua condizione di nomade politico si è subito rivelata nella difficoltà di trovare una collocazione politica precisa in Europa e nella pretesa che fossero i partiti socialisti europei a rinunciare alla loro identità in nome di non si sa che cosa.
Ma c´è di più. Il nobile e ambizioso proposito di realizzare la confluenza in una nuova forza politica di due grandi correnti sociali, una sinistra laica e una sinistra cattolica, avrebbe richiesto la elaborazione di un progetto di società come fondamento ideologico del nuovo partito. Il termine ideologia è stato screditato da Marx come «falsa coscienza». E invece, come Bobbio ricorda, deve essere inteso nel suo significato originario, di interpretazione della storia e di ispirazione ideale ed etica della politica. Ora, non si ha neppure la minima traccia, nella breve e tormentata vita del Partito democratico, di un investimento culturale e politico inteso a costruire una ideologia moderna, una proposta di società, un progetto di riforme economiche, istituzionali e sociali capace di concretarla. Niente di tutto questo. Al suo posto c´è una azione incapace di allargare il nostro spazio politico angusto proponendo temi; un´azione intenta soltanto a contrastare o a emendare le iniziative della parte avversa, restringendo la propria strategia politica alla scelta contingente delle alleanze. Non si discute su che cosa ci si deve impegnare, ma con chi bisogna stare. Ora mi chiedo: c´è da stupirsi se la gente non si appassiona alle vicende del Partito democratico? Se perde consensi e simpatie?
C´è chi dice (come Galli della Loggia) che una delle principali ragioni della crisi del partito democratico sta nella sua incapacità di obbedienza ai capi. E che l´antiberlusconismo farebbe parte di questa sindrome. No, non è così.
I grandi capi socialisti, come Brandt, come Palme, suscitavano deferenza e obbedienza vastissime in virtù delle idee e dei valori che rappresentavano, non di atteggiamenti duceschi e giullareschi, che dovrebbero suggerire non una benevola condiscendenza, come accade in ambienti "liberali"; ma una vera e incontrovertibile condanna.
Ciò che alla sinistra manca non è l´obbedienza, ma la «credenza»: la convinta fiducia nei propri valori, spesso sacrificati all´opportunismo delle convenienze immediate e alle ragioni del potere; e soprattutto la capacità di tradurre quei valori in un concreto progetto di società; e non certo di affidarli a demagoghi rumorosi o a seduttori populisti.

Repubblica 21.9.10
Perché l´eguaglianza è ancora rivoluzionaria
Così si garantisce il legame sociale
di Stefano Rodotà

Di questo tema si discute da domani al terzo Festival del diritto di Piacenza
Per difendere uno dei principi fondamentali bisogna capire come si è evoluto
Le diversità culturali religiose e di genere sono un banco di prova
Resta un concetto centrale rispetto ad ogni tentativo di distorcere la democrazia

Quando, alla fine del Settecento, sulle due sponde del Lago Atlantico le dichiarazioni dei diritti pronunciano le parole «tutti gli uomini nascono liberi e eguali», si manifesta pubblicamente la fondazione di un´altra società e d´un altro diritto, e "la rivoluzione dell´eguaglianza" diviene un tratto caratteristico della modernità. Per l´eguaglianza comincia una nuova storia, nella quale si riconoscono riflessioni millenarie e diffidenze mai sopite, con una ritornante contrapposizione della libertà all´eguaglianza. È una vicenda che attraversa due secoli, non è conclusa, nel Novecento ha conosciuto tragedie, ma ha pure generato una promessa che ancora ci sfida e attende d´essere adempiuta.
Con questi dilemmi si misurano, nel momento fondativo della Repubblica, i costituenti italiani. Riconciliare libertà e eguaglianza è tra i loro obiettivi. E nasce un capolavoro istituzionale, l´art. 3 della Costituzione, frutto di un incontro tra consapevolezza politica e maturità culturale oggi impensabile. Muovendo da qui, si possono indicare sinteticamente alcuni itinerari da seguire perché davvero si possa essere liberi e eguali.
1) Un esercizio di memoria, anzitutto. La triade rivoluzionaria «libertà, eguaglianza, fraternità» vede precocemente dissolto il legame tra libertà e eguaglianza dal ruolo attribuito alla proprietà (Napoleone, nel proclama del 18 Brumaio, parlerà di «libertà, eguaglianza, proprietà»). La proprietà si presenta come presidio della libertà: solo il proprietario è davvero libero, e così torna il germe della diseguaglianza che sarà all´origine delle tensioni dei decenni successivi.
2) Proprio il tema delle diseguaglianze economiche, e più in generale "di fatto", caratterizza l´art. 3 della Costituzione, dove si prevede che compito della Repubblica sia quello di rimuoverle. In questo riconoscimento dell´eguaglianza sostanziale, che segue quello dell´eguaglianza formale, si sono visti «due modelli contrapposti di struttura socio-economica e socio-istituzionale», «l´uno per rifiutarlo, l´altro per instaurarlo». Ma non possiamo più dire che si tratta di una norma a due facce, l´una volta verso la conservazione dell´eredità, l´eguaglianza formale; l´altra rivolta alla costruzione del futuro, l´eguaglianza sostanziale. Già l´inizio dell´art. 3, che parla di dignità sociale, dà evidenza a un sistema di relazioni, al contesto in cui si trovano i soggetti dell´eguaglianza, poi esplicitamente considerato dalla seconda parte della norma. Questa lettura unitaria dell´articolo non ne depotenzia la forza "eversiva", ma dice che la stessa ricostruzione dell´eguaglianza formale non può essere condotta nell´indifferenza per la materialità della vita delle persone. E la concretezza dell´eguaglianza ha trovato riconoscimento nella versione finale della Carta dei diritti fondamentali dell´Unione europea, dove il riferimento astratto "tutti" è stato sostituito da "ogni persona".
3) Il riferimento alla dignità dà ulteriori indicazioni. Descrivendo il tragitto che ha portato all´emersione dell´eguaglianza come principio costituzionale, si è parlato di un passaggio dall´homo hierarchicus a quello aequalis. Ora quel tragitto si è allungato, ci ha portato all´homo dignus e la rilevanza assunta dalla dignità induce a proporne una lettura che la vede come sintesi di libertà e eguaglianza, rafforzate nel loro essere fondamento della democrazia. L´antica contrapposizione tra libertà e eguaglianza è respinta sullo sfondo dalla loro esplicita associazione nell´art. 3. A questo si deve aggiungere l´«esistenza libera e dignitosa» di cui parla l´art. 36. Dobbiamo concludere che l´ineliminabile associazione con la libertà è la via che immunizza dagli eccessi dell´eguaglianza e dalle ambiguità della dignità, che tanto avevano inquietato nel secolo passato e che proiettano ancora un´ombra sulle discussioni di oggi?
4) L´eguaglianza oggi è alla prova delle diversità, e più radicalmente della differenza di genere. La Carta dei diritti fondamentali «rispetta la diversità culturale, religiosa e linguistica» e stila l´elenco fino a oggi più completo dei divieti di discriminazione. Il rispetto delle diversità diventa così fondamento dell´eguaglianza, in palese connessione con il libero sviluppo della personalità, dunque con una rinnovata affermazione del nesso tra eguaglianza e libertà. E l´eguaglianza si dirama in due direzioni. Da una parte, si presenta come rimozione delle cause che producono diseguaglianza; dall´altra, come accettazione/legittimazione delle differenze, rendendo esplicita la sua vocazione dinamica, "inclusiva".
5) Si distingue tra eguaglianza delle opportunità o dei punti di partenza e eguaglianza dei punti di arrivo. Negli ultimi tempi, ponendo l´accento sulla difficoltà delle politiche redistributive, si è quasi cancellato il momento dei risultati con un riduzionismo improponibile. Un solo esempio: per la tutela della salute si può prescindere dall´effettiva disponibilità dei farmaci? Altrimenti si rischia di consegnare al cittadino "eguale" una chiave che apre solo una stanza vuota.
6) L´eguaglianza riguarda l´accesso ai beni della vita. Alla conoscenza, superando ogni "divario", e non solo quello digitale. Alla salute e al cibo, che non possono essere affidati alle disponibilità finanziarie. Al lavoro, che non può subire le esigenze della globalizzazione fino a cancellare la dignità della persona. Altrimenti, il peso delle diseguaglianze, associato alla pura logica di mercato, fa rinascere la cittadinanza censitaria. E la disponibilità crescente di opportunità tecnologiche, l´avvento del post-umano, impongono una attenzione forte per eguaglianza e dignità, insieme a una libertà declinata come autodeterminazione.
7) L´associazione di eguaglianza, libertà e dignità può metterci al riparo dal rischio dell´eguaglianza assoluta o estrema, che dissolve la società e attenta ai diritti delle persone. Ma le difficoltà antiche e nuove delle politiche egualitarie, la pressione delle identità possono indurre ad un pericoloso realismo che accantoni l´eguaglianza come inservibile. Errore politico e culturale clamoroso. La costruzione infinita della persona eguale rimane tema ineludibile. L´eguaglianza non significa solo divieto di leggi ad personam, ma garanzia del legame sociale. Proprio quando è negata, è lì ad ammonirci, a inquietare le coscienze. Rimane un potente strumento di azione culturale e lotta politica, "eversivo" rispetto a ogni tentativo di restaurare gerarchie sociali e di distorcere la democrazia.

Corriere della Sera 21.9.10
Il governatore Rossi attacca il premier sulle donne
L’esponente pd alla radio: «Siamo guidati da un noto puttaniere»
Non sono mancati strali neppure su Vendola

FIRENZE — «In un paese di puttanieri noi siamo governati da un noto puttaniere: Silvio Berlusconi». Potrebbe sembrare una delle tante discussioni da bar, lo sfogo di un avversario politico in un impeto di rabbia. E invece la frase è stata pronunciata ieri mattina dal governatore della Regione Toscana, Enrico Rossi (Pd), durante un’intervista a Controradio Popolare-Network.
La discussione, una mezz'ora dalle 8.45 alle 9.15, ad un tratto si incanala sulla vicenda, assai contorta, di una lettera anonima spedita alla Regione e alla procura nella quale si lanciano accuse pesantissime e a luci rosse e si prospetta un giro di sesso e promozioni nella quale sarebbero coinvolti funzionari regionali. Una vicenda che ha amareggiato il governatore. E Rossi, durante l'intervista, non nasconde il disappunto e stigmatizza il comportamento di alcuni media.
«Le lettere anonime si leggono e si buttano — dice Rossi sollecitato da una domanda del conduttore —. Sono frutto di veleni interni a fronte di un'organizzazione che cambia. Grave, però, che questi veleni siano amplificati dalla stampa». Poi, la frase sul presidente del consiglio. «In un paese di puttanieri, noi siamo governati da un noto puttaniere che si chiama Berlusconi e si vuol far credere che tutto il mondo sia così. Non è vero, ci sono persone che sanno distinguere e ragionare con la propria testa», dice Rossi.
In serata il governatore commenta a freddo le dichiarazioni rilasciate alla radio e non fa un passo indietro. «Confermo tutto, certo. La frase però non va estrapolata dal suo contesto — spiega — che era appunto quello di una serie di domande su una vergognosa lettera anonima sulla quale sono stati montati servizi giornalistici. E la frase su Berlusconi va intesa in questo ambito. Come dire, si tenta di montare uno scandalo inesistente, che eventualmente sarà la magistratura ad accertare, dando credito a una lettera anonima e mi si fanno domande su episodi che mi sono lontani anni luce quando abbiamo un presidente del consiglio che è notoriamente un puttaniere».
Proprio puttaniere, presidente? «Mi sembra difficile dire che non è così — risponde Rossi — come lui stesso del resto mi pare proprio si definisca».
Rosy Bindi a Firenze per un incontro con i circoli Pd commenta divertita: «Rossi? Si è lanciato… Io non dico parolacce per lo meno in pubblico, ma non c'è bisogno di parolacce per definire Berlusconi: ci sono termini scientifici».
Durante la trasmissione di Controradio non si è parlato solo di sesso e politica. Rossi è tornato ad attaccare Renzi e Vendola. «Se si è iscritti ad un partito, nell'eventualità ci siano consultazioni primarie — ha detto —, Bersani è il nostro solo candidato. Basta parlare di leadership, ma di programmi» riferendosi alle picconate del sindaco di Firenze.
Non sono mancati strali neppure su Vendola: «Su di lui stanno discutendo al Senato per il buco della sanità della Puglia: al suo posto mi preoccuperei di risolvere questi problemi». Anche perché, dice il governatore Rossi, «se riuscisse a governare bene e riformare una regione meridionale, avrebbe una carta enorme da spendere per la sua credibilità. Politicamente lo stimo ma ho qualche dubbio in più delle sue qualità di governo. Uno dei principi da ristabilire in politica è quello di sentire addosso tutta la responsabilità dell'incarico».
La risposta del governatore della Puglia, ieri in Toscana, non si fa attendere. «Portare a termine il lavoro di governatore? La stessa riflessione vale per tanti altri in campo ora come me e Chiamparino. Ma lasciamo perdere».

il Fatto 21.9.10
E le donne palestinesi videro le onde del mare
Israeliane e cisgiordane rischiano il carcere per passare assieme una giornata sulla spiaggia
di Rachel Shabi

Inizia presto la giornata in una stazione di servizio a Gerusalemme. Il traffico è già intenso. Le 15 donne israeliane sono un po’ tese e non c’è da meravigliarsi: stanno per violare la legge e anche uno dei tabù del Paese. Hanno intenzione di raggiungere in auto i territori occupati della Cisgiordania, prendere a bordo alcune donne e alcuni bambini palestinesi e portarli per un giorno a Tel Aviv.
“Legittimo violare delle regole illegali”
QUELLO DI OGGI è il secondo viaggio del genere (un altro gruppo di donne ha realizzato un’analoga iniziativa pubblica il mese scorso). Lo scopo di questa azione dimostrativa è far capire alla gente quanto assurde siano le leggi che disciplinano gli spostamenti dei palestinesi e dimostrare che sono infondati i timori degli israeliani di recarsi in Cisgiordania. Riki è una sessantatreenne di Tel Aviv che, al pari delle altre donne, non ha voluto fornire il suo cognome. Dice che ci ha messo del tempo per decidersi a far parte del gruppo. “Resistevo all’idea di violare la legge. Ma poi ho capito che le azioni civili pacifiche sono il solo modo per fare qualche passo avanti e che, quindi, violare una legge illegale è perfettamente legittimo”. Il convoglio delle autovetture si mette in marcia oltrepassando i posti di blocco nei paraggi di Hebron. Dozzine di donne palestinesi prendono posto sulle diverse vetture. Due giovani palestinesi salgono in auto, si tolgono lo hijab, i fazzoletti e i lunghi cappotti e rimangono in jeans aderenti e capelli sciolti al vento, un look che consente loro di passare il posto di blocco dei coloni israeliani senza subire alcun controllo. “Ho paura dei soldati”, dice nervosamente la ventunenne Sara. Ma sia lei che la diciannovenne Sahar tirano un sospiro di sollievo quando l’auto passa indisturbata dinanzi al posto di blocco. Dalla borsa tirano fuori numerosi cd e si mettono ad ascoltare musica dabke araba a tutto volume mentre l’auto percorre la strada che porta a Tel Aviv. “Ai soldati dei posti di blocco non verrebbe mai in mente che delle donne israeliane possano fare una cosa del genere”, dice Irit.
Giornalista indagata per una gita
A TEL AVIV le donne palestinesi guardano in silenzio gli alti edifici e i caffè all’aperto e sembrano particolarmente colpite dalla moltitudine di motociclette e motorini che sciamano per le vie della città. “Mi piacerebbe andare in motocicletta”, dice Sara indicando una donna in pantaloncini corti seduta sul sellino posteriore di una moto. Molte non sono mai state al mare. Finalmente arrivano a Jaffa e lì le palestinesi rimangono a bocca aperta nel vedere le onde che si infrangono sulle rocce bianche. “È molto più bello di quanto pensassi”, dice Nawal mentre osserva la figlia di sette anni che si ritrae per non essere colpita dagli spruzzi delle onde. “È più bello di quando lo vedo in televisione: il colore è sbalorditivo”. Fatima, 24 anni, guarda l’orizzonte. “Non credevo che il rumore del mare potesse essere così rilassante”, dice. Sara chiede un foglio di carta, con destrezza costruisce una barchetta, ci scrive sopra il suo nome e la lascia andare in mare. “Per essere ricordata”, commenta. Tutti i palestinesi per entrare nello Stato di Israele hanno bisogno di un permesso e per chi viola la legge è previsto anche il carcere. Inoltre la legge vieta agli israeliani di aiutare i palestinesi a varcare illegalmente la Linea Verde. Anche chi viola questa legge rischia il carcere. Pochi mesi fa Ilana Hammerman, una giornalista israeliana, ha raccontato sul giornale Haaretz la sua gita a Tel Aviv in compagnia di alcune donne palestinesi della Cisgiordania. È stata immediatamente indagata, ma il suo articolo è stato di ispirazione per un gruppo di donne che ora fanno la stessa cosa con l’intenzione di farlo poi sapere pubblicando un annuncio a pagamento sul giornale. “Vogliamo che un crescente numero di israeliani capisca che non c’è nulla da temere. Vogliamo che la gente cominci a rifiutare l’ideologia che ci tiene separati e che cominci a rifiutare l’idea che siamo nemici”, dice Esti.
Solo l’1% può entrare in Israele
PRIMA DEL 1991 i palestinesi della Striscia di Gaza e della Cisgiordania potevano circolare liberamente e il divieto di entrare nel territorio di Israele era una eccezione. Poi Israele ha introdotto l’obbligatorietà di un permesso per cui i palestinesi non possono recarsi in Israele senza una autorizzazione rilasciata dall’amministrazione civile israeliana insediata in Cisgiordania con decreto militare. Tra i palestinesi della Cisgiordania in possesso del permesso ci sono i lavoratori che debbono avere più di 35 anni e devono essere sposati, le persone bisognose di cure ospedaliere, gli studenti sia pure con delle limitazioni e gli anziani che si mettono in viaggio per motivi religiosi. Il permesso viene anche concesso ad alcuni commercianti e vip. Gisha, il “Centro legale per la libera di circolazione delle persone”, stima che l’1% circa dei palestinesi sia in possesso del permesso di entrare in Israele. Circa 24.000 lavoratori palestinesi possono entrare in Israele dalla Cisgiordania. Dalla Striscia di Gaza l’ingresso nel territorio israeliano è un fatto assolutamente eccezionale e il permesso viene concesso per lo più per ragioni mediche o umanitarie.
Copyright The Guardian; traduzione di Carlo Antonio Biscotto

l’Unità 21.9.10
Vivere con la paura
di Igiaba Scego

Il primo film che ho visto dei fratelli Taviani l’ho visto in Somalia all’Istituto di cultura italiano. Ero piccola, erano ancora gli anni ’80 e la guerra non si era mangiata il Paese. Quel giorno l’Istituto apriva le sue porte e il film era San Michele aveva un gallo, la storia di un anarchico condannato all’ergastolo. Giulio Manieri, così si chiamava, cercava di vincere lo sgomento della segregazione riempiendo la sua cella di fantasie e di impegno politico. Giulio attraverso l’immaginazione si conservava vivo. Io ero piccola, ma ricordo che mi colpì la forza di quel personaggio. Quando l’altro giorno ho sentito parlare Vittorio Taviani (al Salina Doc Festival) mi sono ricordata di Giulio Manieri. Ho intravisto in quel signore, che tanto ha dato al nostro cinema, una forza che i nostri politici non hanno più. Vittorio Taviani rivendicava il suo essere toscano, romano e anche un po’ siciliano, anzi salinese. L’identità è un flusso in movimento, non una entità rigida diceva il signor Vittorio. Siamo da sempre un popolo in continuo meticciato. Peccato non aver avuto un registratore con me. Avrei registrato quelle parole per l’assessore di Roma Marsilio (che vi ricordo ha detto che i figli di migranti nati in Italia non sono italiani, poi ha smentito per le pressioni politiche). Essere italiani è sempre stato complesso, ma la sfida che abbiamo davanti è creare un italiano felice e a suo agio nella sua complessità. Dire che i figli di migranti non sono italiani è un passo falso. Un precedente molto pericoloso. Un popolo complesso è felice solo se ogni sua parte è accettata e amata. Invece l’assessore di Roma ha puntato il dito e ha voluto alimentare le paure degli italiani. Ma come dice un proverbio spagnolo “Vivir con miedo es como vivir a medias”: vivere con la paura è come vivere a metà. Speriamo che Dio ci salvi da questo vivere a metà.

Repubblica 21.9.10
Virginia, domani una donna al patibolo l'Iran attacca: "È la vostra Sakineh"
Ahmadinejad: l'Occidente fa due pesi e due misure
La detenuta ha problemi mentali ma sarà giustiziata con un'iniezione letale

Teresa Lewis condannata a morte per aver ideato l´omicidio di marito e figliastro.

NEW YORK Sono due donne quarantenni. Tutt´e due accusate di avere congiurato con il proprio amante per uccidere il marito. Tutt´e due condannate a morte dalla giustizia del loro paese. Per una di loro l´esecuzione è stata sospesa, su pressione dell´opinione pubblica internazionale. L´altra riceverà domani l´iniezione letale, nell´indifferenza generale. «Due pesi e due misure, le campagne dell´Occidente per i diritti umani sono pura propaganda politica», ha denunciato ieri alle Nazioni Unite il presidente iraniano Mahmoud Ahmadinejad.
Teresa Lewis, 41 anni, americana, è la donna che quasi certamente morirà domani. L´ha condannata un tribunale della Virginia per un delitto commesso nel 2002: suo marito e il figliastro furono uccisi dal suo amante. Secondo la giuria la Lewis non solo aiutò l´assassino ma fu «la mente del duplice omicidio». Il giudice Charles Strauss la definì «la testa di serpente» nell´emettere la condanna capitale. Unico problema: quella testa ha un quoziente d´intelligenza misurato a 72 punti, «ai limiti dell´incapacità mentale» secondo la perizia psichiatrica. Un test che mal si concilia con l´immagine della diabolica manipolatrice. Il suo amante e un altro complice furono condannati solo all´ergastolo, lei invece sarà la prima donna a morire della pena capitale in Virginia da un secolo.
Il governatore dello Stato, Robert McDonnell, ha respinto la domanda di conversione della pena dichiarando che «Teresa Lewis non rientra nella definizione legale di una ritardata mentale». Per due soli punti: è a quota 70 che la legge della Virginia fissa il confine tra l´handicap mentale e la normalità. Un´ultima speranza potrebbe essere l´intervento della Corte suprema federale. Che dal 2002 ha stabilito in una sentenza il divieto di eseguire condanne a morte su invalidi mentali. Ma la seduta della Corte per occuparsi del caso Teresa Lewis è stata fissata il 27 settembre. L´iniezione letale deve avvenire il 23. «Dov´è l´indignazione mondiale?" si è chiesto ieri Ahmadinejad a New York. «Perché nessuno sta protestando nelle piazze occidentali, per la condanna a morte di questa donna americana? I mass media occidentali sono agenti della propaganda, parlano di democrazia e diritti umani ma i loro slogan sono bugiardi».
Da Teheran gli ha fatto eco l´agenzia stampa Fars, vicina ai Guardiani della Rivoluzione: «Da sette anni Teresa Lewis è in carcere in attesa dell´esecuzione, ma la stampa americana l´ha ignorata. Il giorno della sua esecuzione la signora Lewis rimpiangerà di non essere nata in un altro paese, un paese che ascolti i propri cittadini invece di interferire negli affari degli altri e di fare prediche al resto del mondo». Il confronto naturalmente è stato fatto con il caso di Sakineh Mohammadi Ashtani, la 43enne iraniana condannata a morte per lapidazione. Anche lei accusata di adulterio e di avere congiurato per l´assassinio del marito. «Milioni di pagine di Internet sono state dedicate al suo caso», ha denunciato ieri Ahmadinejad. E la lapidazione a Teheran è stata sospesa, almeno temporaneamente. La giustizia iraniana ha deciso di riesaminare il suo caso: una concessione alle pressioni internazionali. Che verso la giustizia della Virginia sono state certo molto inferiori. Non del tutto assenti, però. In realtà il caso di Teresa Lewis è stato più volte sollevato da Amnesty International, che ha dato ampia pubblicità alla perizia psichiatrica. Il Washington Post, molto prima che intervenisse Ahmadinejad, aveva intervistato la condannata a morte in carcere. «Non ho premuto io il grilletto quel giorno dichiarò la Lewis all´intervistatrice, Maria Glod però feci del male, lasciai che due persone fossero uccise. Questo lo so. Ho tradito delle persone che amavo. Ma ho paura di morire, vorrei continuare a vivere». Gli Stati Uniti sono in compagnia della Cina, dell´Iran e dell´Arabia saudita, tra i paesi dove la pena di morte viene eseguita con maggiore frequenza.
(f.ramp.)

Repubblica 21.9.10
Nell’acceleratore di particelle più potente del mondo, l´Lhc del Cern, un fenomeno mai osservato prima Ricreato un "brodo primordiale" come quello presente 20 microsecondi dopo la nascita dell’Universo
Viaggio all'origine del Cosmo "vista" la materia del Big Bang
di Elena Dusi

Un effetto mai visto, e ancora tutto da spiegare. Ma che catapulta gli scienziati alle origini del nostro universo e a una possibile spiegazione dei momenti immediatamente successivi al Big Bang. Al Cern di Ginevra l´acceleratore di particelle più potente del mondo, Lhc, ha prodotto "tracce e fenomeni potenzialmente nuovi e interessanti", come annunciava ieri un comunicato dell´Organizzazione europea per la ricerca nucleare.
Le collisioni fra i protoni che avvengono all´interno di Lhc a velocità prossime a quelle della luce hanno fatto sprizzare frammenti di particelle in zone e in quantità inattese e anomale per i fisici. Una delle possibili interpretazioni (ancora tutta da confermare) è che nel tunnel sotterraneo dell´acceleratore sia stato riprodotto uno stato della materia caldo e ricchissimo di energia, esistito 20-30 microsecondi dopo il Big Bang: il plasma di quark e gluoni.
«È solo una delle possibili interpretazioni fra le almeno cinque o sei che stiamo studiando» mette in guardia Guido Tonelli dell´Istituto nazionale di fisica nucleare (Infn), che coordina al Cern l´esperimento Cms dove a metà luglio è stato osservato il nuovo effetto. Ma l´organizzazione di Ginevra punta in alto nelle sue interpretazioni, ricordando che «un fenomeno simile era stato osservato in precedenza dall´acceleratore americano Rhic di Brookhaven, negli Stati Uniti, ed associato alla creazione di materia densa e calda». I risultati del Rhic, ottenuti nel 2005 facendo scontrare nuclei di oro e non protoni, furono interpretati in maniera relativamente concorde dai fisici: per un istante brevissimo sulla terra era stato ricreato il plasma di quark e gluoni, una sorta di "brodo primordiale" della materia densissimo e caldo circa 10mila miliardi di gradi.
Mentre intorno a noi protoni e neutroni sono composti da particelle più elementari come quark e gluoni, negli istanti immediatamente successivi al Big Bang questi due mattoni della materia erano sfusi e slegati fra loro per effetto dell´altissima energia. Si è trattato solo di pochi microsecondi, perché subito dopo l´espansione e il raffreddamento dell´universo hanno "riportato nei ranghi" quark e gluoni, impacchettandoli in modo disciplinato all´interno dei protoni e dei neutroni.
Facendo scontrare particelle a velocità molto prossime a quelle della luce ed energie estreme (Lhc lavora a un valore record di 7 teraelettronvolt), gli acceleratori puntano ad avvicinare i protoni o i nuclei talmente tanto da provocare una sorta di fusione, riproducendo il "brodo primordiale" della materia. Provare a ricreare queste condizioni di energia sulla terra è stata una delle ambizioni di Lhc fin dalla sua progettazione. A novembre anche all´interno dell´acceleratore europeo, che corre per 27 chilometri a 100 metri di profondità al confine tra Svizzera e Francia, verranno fatti scontrare non più protoni ma nuclei di elementi pesanti. Anziché oro come al Rhic, verrà usato questa volta il piombo. Si tratta di un altro degli svariati sentieri che i fisici cercano di percorrere per ottenere comunque un unico risultato: la comprensione della natura della materia in condizioni di energia, temperatura e densità estreme. «Per avere spiegazioni certe abbiamo bisogno ancora di molti dati» conclude Tonelli. «Ma possiamo dire di essere entrati in una nuova fisica e in un nuovo mondo, che Lhc ci permetterà di indagare».

Repubblica 21.9.10
Al museo di Napoli venerdì tagliano i fili
Il "Madre" in crisi resta senza luce. E arriva Sgarbi
di Dario Pappalardo

Si spengono le luci su Warhol, Hirst, Kapoor, Clemente. Sabato prossimo il Madre di Napoli rischia la chiusura per non aver pagato le bollette dell´Enel. La Regione Campania, debitrice di 8 milioni di euro, sostiene di avere stanziato fondi per quanto possibile. E Vittorio Sgarbi, intanto, sta per sbarcare sotto il Vesuvio per organizzare, in accordo col governatore Stefano Caldoro, mostre low cost nel museo da salvare. Insomma, a Napoli il sistema dell´arte contemporanea è in subbuglio.
«Da due mesi stiamo spiegando alla Regione che non riusciamo ad andare avanti, ma non mi prendono sul serio. Abbiamo anche scritto al ministro Bondi. Ora a chi devo rivolgermi? Alla camorra?», lamenta Eduardo Cicelyn, direttore del Madre dall´apertura, cinque anni fa. «Venerdì verranno a staccare i fili della luce. I ragazzi che lavorano con me hanno l´ordine di non fare entrare nessuno nella cabina elettrica, ma non so quanto potremo resistere». Il museo conta 60 dipendenti e opere del valore assicurativo pari a 65.358.083 euro. «Verrà meno ogni tipo di sorveglianza. Non potremo garantire la sicurezza e l´adeguata climatizzazione delle opere», continua Cicelyn. L´Enel chiede al museo 142.172,41 euro. Dalla Regione Campania puntualizzano: «A luglio ci siamo accordati per un milione di euro in modo da coprire le spese fino al 31 dicembre. Il museo ha a disposizione 300 mila euro cash in banca». Cicelyn ribatte: «È falso. La Regione vuole far dimettere il cda, cambiare la politica del museo. Ma io resto direttore generale: ho un contratto a tempo indeterminato. Se mi licenziano, gli faccio causa».
Di certo al Madre si avvicina Vittorio Sgarbi, che domani incontrerà il presidente della Regione Campania: «Non voglio sostituirmi a Cicelyn», precisa il critico. «L´assessore regionale Caterina Miraglia mi ha chiesto di immaginare alcune attività a budget ridotto da realizzare al Madre l´anno prossimo. Ma soprattutto il museo è adatto per ospitare nel giugno 2011 una delle mostre che organizzerò in ogni regione in occasione della Biennale, di cui sono responsabile per il Padiglione Italia. In Piemonte ho scelto Venaria; a Roma il Maxxi. Cicelyn, con cui spero di collaborare, può stare tranquillo: la Regione non vuole chiudere il Madre, solo ridurre i fondi. Bisogna smettere di stanziare denaro pubblico per mostre di arte contemporanea, che devono essere finanziate dai mercanti. Napoli ha un Donatello nella chiesa di Sant´Angelo al Nilo. Restituirlo a tutta la città con una mostra, quella sì sarebbe una provocazione contemporanea a costo zero».

Repubblica 21.9.10
Per viaggiare nel subconscio c'è un trucco: lasciarsi andare
di Natalia Aspesi

Già record in Usa, arriva anche in Italia "Inception"
Assenza di gravità, Parigi che si piega su se stessa: si esce affascinati senza aver capito nulla
Rimbombano insieme Freud, Di Caprio, action movie, e lunghe smitragliate

Più stordisce la visione di Parigi che si ripiega su se stessa, con le macchine che corrono a tetto in giù, più si naviga in un vecchio minaccioso corridoio rovesciato, assieme a corpi in assenza di gravità, più si sgretolano i rocciosi grattacieli abbandonati che fanno da gigantesca barriera sul mare, più i tromboni della colonna sonora assordano e paralizzano, più, affascinati e frastornati, non si capisce nulla. Non solo gli spettatori, anche, nel film, in cui la studentessina di architettura Ariadne dall´aria sapiente Ellen Page (noiosina rispetto a Juno) chiede incerta: in che inconscio siamo? (Chi non è già tramortito, ride).
Inception, autore Christopher Nolan, costato 170 milioni di dollari, incasso record in Usa, 570 milioni in un mese, fa rimbombare insieme fantascienza, Freud, Leonardo DiCaprio, action movie, scontri epici di automobili, sensi di colpa, incubi, Parigi, Londra, Los Angeles, Mombasa, sonniferi, vertigini, scontri tra guardie e ladri con smitragliate interminabili e Marion Cotillard (Oscar per La vie en rose, la canzone nella colonna sonora di Inception) trasformata da gobbina Edith Piaf in meravigliosa funebre fatalona alla Ava Gardner sempre in sottoveste nera. Per 2 ore e 25 minuti, il che giustifica lo smarrimento del pubblico che alla fine esce inciampando e con la testa gonfia: insomma, ne valeva la pena! Trama, forse: Cobb non è un ladro qualunque: a parte che è un Leonardo DiCaprio con baffetti biondi e una lacrima sul viso, il suo lavoro è addormentarsi, entrare nei sogni della sua preda e approfittare della sua distrazione onirica per rubargli quel che gli serve, idee, pensieri, segreti, progetti. Il magnate Saito, il più affascinante dei giapponesi, Ken Watanabe, gli chiede di ribaltare il suo lavoro, anziché sottrarre, inserire un´idea nella testa del figlio del magnate rivale moribondo, affinché divida l´immenso patrimonio evitando il pericolo che tutto il potere energetico si concentri in una sola mano.
In un altro film lo scontro tra i due lestofanti gentiluomini sarebbe avvenuto con meno casino freudiano, sia pure con intervento di gangster, ma qui ci si mettono in sei per costruire sogni che diventeranno quelli della loro vittima e in cui anche loro entreranno. Persino gli sforzi di chi è arrivato a offrire un "manuale per l´uso" di Inception non bastano a rendere il film comprensibile: siamo nella realtà oppure nel sogno, o nel sogno in cui si sogna di sognare, al primo, al secondo, o nel profondo livello del subconscio? Il continuo chiacchiericcio allucinatorio non risolve il problema, che è comunque del tutto ininfluente: basta lasciarsi andare alle immagini e non sarà certo il primo film (anche di Nolan, tipo Il cavaliere oscuro) che seduce proprio perché senza capo né coda. Comunque c´è un ascensore sferragliante in cui capita per sbaglio anche l´architettina Ariadne, che va su e giù nel subconscio di Cobb, fermandosi su spiagge, camere d´albergo, luoghi sinistri, in cui entra sempre questa bella signora in nero armata di coltello o revolver, cattivissima. Gatta ci cova, nella malinconia del bel boss, chi sarà quella tipa amatissima che non vuole farlo uscire dal sogno, chi saranno quei piccini sfuggenti e irreali che lo ossessionano?
Compare a un certo momento, si direbbe nel mondo reale, Michael Caine, che come attore resiste al tempo stoicamente e che nel film prima respinge poi accoglie e perdona Cobb per qualche tremendezza fatta in passato: padre, suocero, mah! Tripudio finale che si consiglia di affrontare con tappi alle orecchie: in pieno ron ron (dei personaggi, gli spettatori son desti per eccesso di baccano), s´intrecciano in totale frenesia tre livelli di subconscio molto pasticcioni, in cui gli stessi personaggi, sempre pestando o sparando a misteriosi nemici, si trovano contemporaneamente su un picco innevato, addormentati nella stanza di un albergo, dentro un pulmino che sta precipitando lentissimamente in un fiume. Si salveranno tutti, ci salveremo in pochi? Inspiegabile: va bene che sono gangster, ma è possibile che nei loro sogni non ci siano che bombardamenti, inseguimenti, incendi, crolli, conflitti a fuoco, e l´unica signora che compare, bella e dolente, vuol solo far fuori il suo innamorato prima che si svegli?

Il Messaggero 22.9.10
Riaffiora un teatro di epoca romana
sepolto sotto Palazzo Vecchio

FIRENZE Un teatro romano enorme, capace di contenere fino a 15 mila spettatori e “caduto in disgrazia”. Un teatro dimenticato e rimasto sepolto sotto la stratificazione degli ampliamenti di Palazzo Vecchio. Un teatro che torna alla grazie a sei anni di scavi adesso ultimati, che costituirà la parte più antica del nuovo Museo della Città, e verrà trasferito dalla Biblioteca delle Oblate alla sede del Comune.I lavori, è stato spiegato dall’assessore alla Cultura Giuliano da Empoli e da Carlotta Cianferoni della Sovrintendenza dei Beni archeologici della Toscana, hanno consentito di riportare alla luce alcuni tratti dei corridoi del teatro, la costruzione dei quali risale alla fine del I o all’inizio del II secolo d.C. Sui resti di età imperiale si sono sovrapposti, per successive stratificazioni, strutture di epoca medievale come pozzi, fondamenta di abitazioni e altri edifici. Il eatro doveva avere una capienza di quasi 7 mila spettatori ma, nel periodo di massimo splendore addirittura 15 mila. Rimasto attivo fino al V secolo, dopo questo periodo il teatro cadde in disuso e venne via via dimenticato. I suoi resti iniziarono gradualmente a riaffiorare nell’Ottocento quando, in occasione del trasferimento a Firenze della capitale del Regno d’Italia, nel 1865.

Repubblica Firenze 22.9.10
La Biblioteca Nazionale affonda
Se entro la fine di novembre non arriveranno nuovi finanziamenti dovrà chiudere al pomeriggio
Risorse ridotte, aperture a rischio. Gli intellettuali: "Va salvata"
di Laura Montanari

La Biblioteca Nazionale affonda per la mancanza di risorse. Se entro la fine di novembre non arriveranno nuovi finanziamenti la biblioteca dovrà ridurre l´orario di apertura al pubblico. Appello di ricercatori e intellettuali: «E´ un patrimonio. Va salvata».

Non bastano i soldi per il prestito libri e per i facchini che fanno la spola dal Belvedere
"Anche se ci daranno i 50mila euro promessi arriviamo a gennaio"

Il conto alla rovescia è cominciato. Se non arrivano nuove risorse, alla fine di novembre la Biblioteca Nazionale di Firenze dovrà pensare di ridurre l´orario di apertura al pubblico. Non più tutti i giorni dal lunedì al venerdì, dalle 8,15 alle 19 (e mezza giornata il sabato), ma magari come è già successo a luglio aprire solo la mattina o soltanto in certi giorni. Lo dice la direttrice, Ida Fontana che ieri ha incontrato una delle associazioni dei lettori spiegando che «da 200mila euro l´anno i fondi per il personale di una cooperativa esterna che svolge mansioni che vanno dal prestito dei volumi al facchinaggio, al ritiro e alla consegna degli ordini all´emeroteca di Forte Belvedere sono ridotti a un quarto: 50mila euro».
«Al ministero hanno detto che faranno il possibile per darcene altri 50mila, ma se anche fosse arriveremmo al massimo a gennaio» prosegue Fontana che dal 28 novembre lascerà la direzione di questa che è la più grande biblioteca italiana: 120 chilometri lineari di scaffali per 6 milioni di volumi, 25mila manoscritti e oltre 350mila fascicoli di periodici l´anno. In piazza Cavalleggeri dovrebbe approdare tutto quello che viene pubblicato in Italia e lì dovrebbe essere catalogato e archiviato. Dovrebbe. «In realtà col blocco delle assunzioni e la diminuzione dei dipendenti oggi, dei 70mila volumi che ci arrivano ogni anno, ne cataloghiamo 40mila». Il resto si accumula. Stessa cosa per i giornali: 7mila catalogati su 15mila testate. Il resto rimane nei magazzini, non accessibile al pubblico, in attesa di tempi migliori. «Siamo preoccupati - spiega Lorenzo Peri, 25 anni, a un passo dalla laurea in Lettere e animatore un´associazione di lettori della Nazionale - Non possiamo più stare fermi a guardare, vogliamo organizzare una giornata di mobilitazione generale che coinvolga intellettuali, ricercatori, politici per accendere i riflettori sul valore di questa istituzione. Ci piacerebbe poter realizzare un concerto dentro la biblioteca coinvolgendo il Maggio Musicale. Non possiamo accettare una riduzione dell´orario di apertura perché chi fa ricerca ha bisogno di consultare i libri tutti i giorni. Chiudere le sale è uccidere la missione e il ruolo stesso della Nazionale». Nei giorni scorsi si è mossa la commissione cultura di Palazzo Vecchio che sta preparando una mozione in difesa di «quest´eccellenza che non è soltanto fiorentina ma di tutto il Paese». «Il paradosso è che proprio in concomitanza dei suoi 150 anni - ha detto il presidente Leonardo Bieber (Pd) - la Biblioteca rischia di veder compromessa o ridimensionata la propria attività». Del caso si è occupato il presidente della Provincia Barducci e quello del Quartiere 1 Marmugi.
La Nazionale di Firenze ha oggi 196 dipendenti di cui 45 sono lavoratori part time, quella di Parigi ne ha 2.500, Londra 1260. «Dal ministero ci hanno offerto dei tavoli informatici con video touch screen - riprende Ida Fontana - Io ho spiegato che mi servono soldi per tenere aperte le sale, fondi per sopravvivere più che arredi. Sto contrattando con Quadrifoglio di cedere una piccola area esterna in affitto per permettere loro di interrare i cassonetti e a noi di ridurre il debito che abbiamo di 93mila euro nel pagamento della tassa sulla nettezza urbana. A questo siamo ridotti». Da quattro anni non si spolverano più i libri, da tempo è sospesa la conversione del catalogo da cartaceo a digitale, nei magazzini giacciono 200mila volumi ancora da sistemare negli scaffali. E poi l´intonaco dei muri con le ombre delle luci al neon levate dieci anni fa, il nastro isolante lungo il corrimano delle scale, il bar chiuso da tempo, il lucernario che lascia filtrare la pioggia e le sedie scassate nella sala consultazione. Questa è la fotografia di oggi della prima biblioteca italiana.

martedì 21 settembre 2010

l’Unità 21.9.10
Anniversari A cent’anni dalla nascita, il suo pensiero rimane profetico, inquieto e modernissimo
Sfide Provocatoriamente ottimista, negli ultimi anni mise l’individuo al centro del suo pensiero
Foa, storia di un antifascista che non si sentiva vittima
di Bruno Gravagnuolo

La freschezza del suo pensiero, le sue posizioni sempre un «passo oltre il novecento», la capacità di sfidare le troppe certezze della sinistra italiana. Era nato cent’anni fa, Vittorio Foa: eppure ci pare ancora tanto giovane.

Vittorio Foa lo abbiamo conosciuto a Roma negli anni 90 e andavamo ad incontrarlo a Via degli Avignonesi, stradina parallela della celebre Via Rasella, in una casetta dove abitava con la seconda moglie Sesa Tatò. «Vai a sentire cosa dice Foa», ci
dicevano al giornale, allora diretto dal figlio di Vittorio, Renzo. Invito tante volte reiterato anche dopo che Renzo Foa non fu più direttore, e accolto sempre di buon grado anche perché, era a due passi da Via Due Macelli traversata via del Tritone eri già lì ma soprattutto perché incontrare quel vecchio signore circonfuso di leggenda era un privilegio. Arrivavi e lui già ti squadrava benevolo, con gli occhi chiari dietro quelle spesse lenti, in camicia a scacchi e bretelle.
Quel che ci colpiva di più? La bonomia, l’antiretorica, e l’apertura curiosa verso l’interlocutore, venata di ironia quasi a levigare giudizi a volte anche netti e trancianti, spesso inattesi da un uomo che ai nostri occhi era il simbolo di un radicalismo intransigente e utopico, refrattario al realismo, specie quello togliattiano e comunista. Ad esempio una volta ci stupì quando, nonostante i suoi antichi trascorsi interventisti e gobettiani, rivalutò la saggezza di Giovanni Giolitti. E quando, autocriticò la sua scelta frontista di socialista filo Pci nel 1948. Oppure ancora quando ci dichiarò candidamente che la tradizione del movimento operaio era integralmente finita e che il «lavoro» non era poi così più centrale nella società moderna, lui che del lavoro e della classe operaia «in movimento» aveva fatto l’alfa e l’omega del suo azionismo socialista e sindacal-rivoluzionario (preferiva parlare di «lavoro creativo» in generale). E potremmo continuare all’infinito, sulle tante sorprese, non sempre condivise, che quei dialoghi ci riservavano, dai primi incontri anni novanta all’ultima intervista, l’ultima su questo giornale, domenica 6 luglio 2008, poco prima della morte avvenuta nel suo buen retiro di Formia il 20 ottobre di quell’anno (era nato il 21 settembre 1910 a Torino).
Ad esempio proprio in quell’ultimo rendiconto al telefono ci disse lapidario che l’anomalia italiana («destra profonda» e Berlusconi) nasceva anche dal «ruolo pervasivo della Chiesa e della famosa questione vaticana». Coerente Foa in questo con la sua ebraicità laica di lungo corso, ma in controtendenza rispetto a un Partito democratico che, malgrado la « contaminazione» coi cattolici, egli aveva fortemente voluto e appoggiato (e di questo discutevamo molto...).
E però chi era in realtà quel cocciuto signore piemontese dalle eloquio intriso di «nevvero?», segnato, lo si sapeva, dalle tante sconfitte e disillusioni, eppure da ultimo così provocatoriamente ottimista e antipassatista,o «nuovista»? Era un giovane figlio della buona borghesia ebraica torinese, allievo al D’Azeglio con Bobbio, Giua, Pajetta, Galante Garrone, che avrebbe potuto condurre una tranquilla esistenza da avvocato o da studioso e che invece scelse e fu scelto dall’antifascismo («sono un persecutore -diceva non una vittima del fascismo»). Come scelse? Sul filo del rifiuto etico dell’indifferenza, in quell’Italia ingiusta e antiproletaria. Decisivi quindi gli incontri con Salvemini, Gobetti (solo intellettuale), Rosselli. Lussu, Carlo Levi, Leone Ginzburg, che gli fece da tramite, dopo la galera, verso il Partito d’Azione.
Già, la galera, per una spiata di Dino Segre, alias Pitigrilli: condanna a 15 anni per cospirazione (divenne l’anima dei Quaderni di Giustizia e libertà e dell’ononimo movimento a Torino). E poi in galera Regina Coeli, Civitavecchia, Castelfranco Emilia la sua università: Ernesto Rossi, Massimo Mila, Riccardo Bauer come compagni, e i libri di Croce come compagnia (ma anche Celine, Trotsky, Svevo, Steinbeck). Di quell’esperienza Foa ci regalò il bellissimo «diario» nel 1998. le Lettere della giovinezza (Einaudi). Denso di profezie e idee. Tra le prime, l’intuizione dell’antisemitismo, preconizzata attraverso lo sterminio degli Armeni raccontato da un romanzo di Franz Werfel. E poi la critica al bolscevismo: mistura di volontarismo dispotico e fatalismo storico, diagnosticata attraverso le pagine dell’ammirato Trotzsky. Ed è il carcere la retrovia culturale del suo futuro liberal-socialismo, già assorbito da Rosselli e poi trapiantato con i Nuovi Quaderni di Gl nella «sua» Resistenza, da protagonista del Clnai (con Valiani e Parri).
OLTRE IL NOVECENTO
Quale socialismo il suo? Eccolo: economia mista. Con un forte stato programmatore e welfarista ma non collettivista. E con dentro i consigli di gestione e l’azionariato degli operai nelle aziende private. E ancora: intreccio di democrazia diretta e delegata. Ovvero consigli locali e operai con parlamento e partiti. Su tali basi Foa avrebbe voluto veder conclusa la Resistenza, nel solco della discontinuità antifascista e di una Costituzione libertario-socialista (più che liberal-socialista). E fu questa la cifra etico-politica che marcò tutto il suo impegno da parlamentare, sindacalista Fiom e Cgil, militante e fondatore del Psiup, del Pdup e Dp, fino al ruolo di senatore indipendente per il Pci nel 1987. Insomma «classe operaia e antifascismo». Poi negli ultimi due decenni la sua prospettiva mutò. E al centro, con le autocritiche, balzarono i diritti, l’individuo, la società civile e l’idea di un partito progressista che fosse «oltre» il 900: il Pd. Era per Foa una trasformazione «realista» del suo vecchio Partito d’Azione. Chissà cosa ne direbbe oggi. Ma a modo suo forse gli sarebbe di aiuto, e senza troppi sconti sulle sue divisioni.

Il convegno
Da Bertinotti a Epifani Oggi alla Camera
La Fondazione della Camera per il centenario della nascita, promuove, oggi, una giornata di studio su Vittorio Foa sindacalista, politico, scrittore. L’iniziativa è per oggi alle 11 alla Sala della Lupa di Montecitorio. All’introduzione del Presidente della Fondazione, Fausto Bertinotti, seguiranno le relazioni di Guglielmo Epifani, Pietro Marcenaro ed Ernesto Ferrero. I lavori proseguiranno alle ore 16 alla Sala del Mappamondo con gli interventi di Iginio Ariemma, Luigi Ferrajoli, Federica Montevecchi e Andrea Ricciardi, e con le testimonianze di Giancarlo Bosetti, Anna Foa, Carlo Ghezzi, Elio Giovannini, Guglielmo Ragozzino e Andrea Ranieri. Introdurrà il dibattito Giovanni De Luna. Il convegno sarà trasmesso in diretta sulla webtv di Montecitorio (http://webtv.camera.it). È di questi giorni l’uscita di Vittorio Foa, «Scritti politici», a cura di Chiara Colombini e Andrea Ricciardi (Bollati Boringhieri, pp 284, Euro 18).

l’Unità 21.9.10
Il leader Pd a Taranto: «Da Walter uno sforzo per chiarire, ma basta congressi ogni giorno»
Lavoro al centro «Un salario minimo per chi è senza contratto. Serve un nuovo patto sociale»
Bersani: «Anche tra noi una vena di berlusconismo»
di Simone Collini

Il lavoro al primo posto. Lo dice Bersani alla festa Pd a Taranto, invitando il partito a parlare delle cose che preoccupano la gente. E rilancia le proposte contro il precariato e per il «salario minimo garantito».

La difficoltà del Pd? Per Pier Luigi Bersani è una sola, «riuscire a sfondare il muro del suono»: «Dobbiamo arrivare alle orecchie delle persone parlando delle questioni che stanno loro a cuore, dei problemi che più preoccupano». E il lavoro, dice il leader del Pd, in questa lista occupa il primo posto. Per questo mentre veltroniani e franceschiniani non si risparmiano fendenti, Bersani sbarca a Taranto per l’intervento conclusivo della Festa democratica dedicata proprio al lavoro. I giornalisti che incontra sul cancello della Villa Peripateto, nel cuore della città, gli chiedono dell’iniziativa a cui ha dato vita Walter Veltroni: «All’assemblea del partito a Veltroni dirò che dobbiamo lavorare per l’unità del Pd e ribadirò che dobbiamo concentrarci sull’Italia, sui problemi della gente. Il Pd ha la forza per rispondere alle esigenze dei cittadini e proporsi alla guida del paese».
E così nel giorno delle proteste degli operai Fincantieri e degli arresti di sei ispettori Asl a Capua con l’accusa di aver addomesticato le verifiche sulla sicurezza sul lavoro, Bersani insiste: «I posti giusti per discutere le nostre cose sono la Direzione e l’Assemblea nazionale. Fuori da qui dobbiamo parlare solo dell’Italia. Non accetterò che ci si guardi la punta delle scarpe mentre il paese ha problemi enormi». E il problema numero uno è fatto di crisi economica, restringimento della base produttiva, una globalizzazione che impone sfide sempre nuove e un mercato del lavoro che slitta progressivamente verso i più diversi modelli di precariato.
«Per non farci battere dai cinesi non possiamo diventare noi cinesi», dice con una battuta. «Ci vogliono leggi rigorose».
LA SICUREZZA NON È UN LUSSO
Un discorso che vale per la sicurezza sul lavoro, perché sbaglia profondamente Tremonti a dire che «non possiamo permetterci la 626», ma che deve valere anche sulla più generale regolamentazione del mercato del lavoro: «Un’ora di lavoro precario non può costare meno di un’ora di lavoro a tempo indeterminato», dice Bersani iniziando a elencare le proposte del Pd su questa materia. Eliminare i vantaggi di costo dei contratti a tempo determinato è la prima (si parla di «diritto unico al lavoro», mentre Veltroni è sostenitore del contratto unico ipotizzato da Pietro Ichino), ma poi c’è la necessità di garantire un sistema di ammortizzatori sociali anche ai non assunti stabilmente e anche un «salario minimo garantito per legge a tutti coloro che non hanno un contratto nazionale di lavoro»: «In Europa c'è dice Bersani da noi ci sono invece salari che non consentono di arrivare alla sopravvivenza».
Bersani infila una serie di accuse al governo. Non solo perché di fronte alla crisi economica ha fatto finta di niente per mesi, non solo per lo «scandalo» di un ministro per lo Sviluppo economico che doveva essere sostituito nel giro di un paio di settimane e che manca all'appello da 140 giorni («ma neanche Berlusconi crede più a quello che dice, come che durerà tre anni»), ma anche perché da quando ha assunto l’incarico «il governo ha lavorato per dividere il mondo del lavoro». Per Bersani è anche giusto invocare «un nuovo patto sociale», ma sarà impossibile finché il governo punterà a dividere i sindacati.

il Fatto 21.9.10
Guerra epistolare
Caro nemico ti scrivo: lettere da un partito mai nato
di Paola Zanca

Comunicazione importante. Domenica 10 ottobre al Teatro Dal Verme di Milano si terrà la premiazione del Festival delle Lettere, quest’anno dedicato al tema “Lettera a un giornalista”. Per fortuna il termine per l’invio degli elaborati è scaduto il 15 maggio scorso. Altrimenti, i leader del Pd sarebbero riusciti a litigare pure su quel palco. Meglio la prima lettera agli italiani di Veltroni sul “Corriere” o la suonata di campane affidata a “Repubblica” da Bersani? Più comprensibile la seconda lettera agli italiani di Veltroni (stavolta su “Repubblica”) o la lettera-intervista di D'Alema a “La Stampa”? In assenza del verdetto della giuria, non resta che affidarsi al giudizio popolare, in questo caso quello dei commentatori web. Con tutti i rischi del caso. “Signor Veltroni non sono riuscito a leggere oltre la frase: ‘Noi, moderni Ugolino...’” scrive ‘pigmaglione’ sul sito di “Repubblica”. Brutta notizia per il leader del movimento dei 75: quella frase non è nemmeno a metà delle 120 righe messe a disposizione dal quotidiano di Ezio Mauro per il carteggio democratico. Ma tutto sommato, il lettore che ha girato pagina prima di arrivare alla fine, è uno dei più teneri. Contro la lettera dal titolo “Il Papa straniero non sono io” ieri si è scatenato un putiferio. Si va dal sintetico “Consiglio al centrosinistra: ignorate Veltroni” all’interrogativo: “Mi chiedo perché è sempre così inopportuno”. Dal compassionevole: “È in buona fede ma un po’ bamboccione” fino alla bocciatura: “Se foste miei alunni vi direi che non potete neanche aspirare alla licenza media, in quanto sprovvisti di quel minimo di maturità che fa mettere da parte i propri piccoli egoismi per imparare a collaborare”. Un massacro nemmeno troppo imprevedibile, dopo che la stessa “Repubblica” aveva ufficialmente bollato l’uscita di Veltroni come “soccorso rosso” al governo e considerando che la lettera stessa era un replica all’articolo del giorno prima, dove si raccontava la “rabbia” di chi crede che il “contributo” di Veltroni non sia altro che una pista di lancio per sé. Lui giura che non è così, ma insiste con la teoria per cui il candidato premier va cercato fuori dal Pd. Gli risponde Dario Franceschini in un’altra “lettera”, questa volta video, a RepubblicaTv: “L’articolo dello Statuto in base al quale il segretario del Pd è anche il candidato premier lo ha voluto lui. Se vale, vale indipendentemente da chi fa il segretario del Pd”. D’altronde, l’amaro in bocca per quell’esperienza finita troppo presto, Veltroni l’aveva già tirato fuori il 24 agosto, data d’inizio dell’epistolario democratico. Sul “Corriere”, l’ex segretario spiegava: “Mi permetto di scrivere agli italiani solo perché sento di avere un minimo di titolo per farlo. In fondo due anni fa, quasi quattordici milioni di italiani fecero una croce sul simbolo che conteneva il mio nome come candidato alla presidenza del Consiglio”. È così che la lettera al giornale diventa lo strumento per riconquistarsi quella visibilità che ti hanno portato via. Non a caso, due giorni dopo, prende carta e penna anche il segretario vero, Pier Luigi Bersani. Non una risposta ufficiale a Veltroni, ma con il lancio del Nuovo Ulivo Bersani ricordava, a chi se ne fosse dimenticato, che la linea, adesso, è lui che la detta. Peccato che non tutti l’abbiano capita. “Caro Pierluigi, ho dovuto leggere 2 volte la lettera (è un po’ lunga). Quello che voglio dirti è sicuramente banale, ma perchè non la ‘traduci’ in un linguaggio ancor più semplice, anche per i ‘tuoi’ militanti, i tuoi simpatizzanti, ecc?”. Aggiunge un altro lettore: “Lettera bella, interessante, condivisibile, etc etc ma se non si recupera un po’ la piazza visto che la televisione ce l’hanno gli altri mi spiegate come si fa a dare al paese la sensazione che ci sia ancora un’opposizione? Queste cose servono, ma vanno seguite da azioni concrete. Altrimenti restano caratteri su un giornale. Mica tutti leggono “Repubblica”, Bersani, dai. Alza un po’ la testa. E il tiro. Fatti sentire”. Poi cominceranno i giorni delle interviste. Renzi il rottamatore, D’Alema in difesa del segretario. Ancora Veltroni su “Gioia” (memorabile il ““Ma la vita è Ma Anche!”). E di nuovo su RepubblicaTv, prima Chiamparino, poi un’altra volta Veltroni. Pare che Bersani abbia deciso di chiudere con le missive. Dopo l’ultima di Veltroni, ha detto: “Alle lettere preferisco le discussioni nelle sedi”, come “la direzione di giovedì”. Non sappiamo questa mattina chi avrà scritto a chi. Ma resta aperta la gara sui documenti. Oggi due “ambasciatori” del documento dei 75 andranno da Dario Franceschini, finora capo della minoranza Pd, a spiegargli che il testo che hanno firmato – e che gli ha provocato “grande amarezza personale e politica” è molto “meno duro” di quello che lui aveva pronunciato a Cortona, durante l’assemblea di area. Franceschini ha chiesto ai 75 di ritirarlo, invitandoli a discuterne nella riunione convocata per mercoledì sera. Ma tra i 75 c’è chi medita di non presentarsi proprio, a quell’appuntamento, visti i toni con cui Franceschini ha reagito al movimento con la m minuscola. Si ammorbidisce, invece, il vicesegretario Enrico Letta: “Mi pare che, dopo giorni caotici, la lettera di Veltroni rappresenti un segnale utile”. Domenica i movimentisti tornano a Orvieto. Oggi, invece, alla presidenza del gruppo Pd della Camera si decide se presentare una mozione di sfiducia a Berlusconi come capo del governo o semplicemente come ministro ad interim dello Sviluppo economico. Il postino è avvisato.

Repubblica 21.9.10
Quel coraggio che manca al pd
di Nadia Urbinati

Dice bene Giancarlo Bosetti: c´è una differenza abissale tra conflitto e litigio. Tradizionalmente, la politica italiana ha temuto il primo e praticato il secondo. I sociologi degli anni cinquanta hanno inventato il termine "familismo" per spiegare questo fenomeno. I litigi sono conflitti in famiglia – fra suocera e nuora, come ci spiega Bosetti con l´autorità del dizionario della lingua italiana – perché mettono in campo emozioni e danno risalto agli individui, fattori che precludono risoluzioni costruttive per il bene di tutti. Perché ogni accordo sarà come mettere cenere sul fuoco col rischio permanente che il litigio si riaccenda. Qui non sono i contenuti che contano – sui quali, per altro, se i litiganti si fermassero a ragionare scoprirebbero che non sono così dissimili tra loro. Come dire che, proprio perché il litigio è fatto per mettere in campo la "presenza" più che le "idee", i litiganti continuano strategicamente a tenere in sordina le "cose" sulle quali sarebbe opportuno discutere.
Affinché ci sia un dibattito dal quale poter costruire un´alternativa vincente al governo Berlusconi occorrerebbe praticare al meglio l´arte del conflitto – per cercare e trovare un candidato che sappia convincere la maggioranza degli elettori, a nord e a sud, che tutto il paese guadagnerà dalla fine dell´egemonia di centro-destra. Il conflitto politico è cruciale nelle primarie e non è la stessa cosa della guerra civile o del litigio, poiché lascia a terra perdenti ma per fare di essi dei cooperatori forti nella battaglia vera, quella contro l´avversario. Si tratta di un´arte difficile da imparare, soprattutto quando il personalismo litigioso è stata la pratica appresa in anni di praticantato, dalle periferie al centro del partito. A leggere i documenti del Pd delle ultime settimane, a partire dalle lettere di Walter Veltroni, il documento dei 75, e le interviste e i commenti dei vari leader del partito, non pare che si riesca ancora a uscire dalla logica del litigio.
Forse la chiarezza nel distinguere tra litigio e conflitto dovrebbe cominciare dall´individuazione del luogo giusto, istituzionalmente giusto, dove intraprendere la discussione e la contesa: questo luogo è il partito, non il Parlamento. In Parlamento siedono rappresentanti eletti, i quali benché godano del sacrosanto libero mandato, sono comunque lì perché appartengono a quella parte con la quale sono andati davanti agli elettori. Se si vuole aprire la discussione sulle "cose", allora un partito dovrebbe farlo nella sua sede. Non solo per non dare all´avversario l´impressione di una divisione nel gruppo parlamentare, ma anche perché se il partito è la sede, allora tutte le sedi periferiche rifletterebbero sul dibattito e, per davvero, la discussione potrebbe diventare utile e positiva, e infine mettere in campo personalità nuove, esterne. Ma se nasce in Parlamento a chi è utile? Se la diatriba si consuma nei luoghi istituzionali, nessuno può ragionevolmente pensare che quella del Pd sia una elite aperta, come si augura giustamente Bosetti. Quella sulla sede opportuna non è una quindi distinzione di lana caprina: se ciò che dovrebbe avvenire nel partito è fatto accadere in Parlamento è segno che solo gli eletti sono i protagonisti del dibattito; è segno che si tratta davvero di un litigio tra persone.
Un altro elemento di questa litigiosità sta nell´oggetto stesso. Nel documento dei 75 si paragona il Pd della fondazione a quello attuale in ragione del coraggio. La misura della differenza è che quel Pd riuscì a ottenere quasi il 34%, mentre oggi riesce a fatica a stare sopra il 25%. Ma in un sistema bipolare, il 34% è una sconfitta. Il Pd è nato e cresciuto con poco coraggio. È nato con l´idea di voler essere il partito unico di tutta la costellazione di idee e associazioni che andavo dal centro alla sinistra radicale, e ha fatto la scelta di combattere da solo contro un avversario che era invece una coalizione. Infine, ha combattuto contro un avversario senza pronunciarne il nome, come se la lotta elettorale non fosse, appunto, un conflitto a viso aperto. E quei limiti pesano nel Pd di oggi: che continua ad avere poco coraggio; restio a usare parole forti e chiare che diano il senso di quello che pesa sul nostro paese: il patrimonialismo, l´uso delle cariche dello Stato e dei sistemi pubblici di informazione per perseguire interessi personali, di famiglia e di affari; per decurtare, lo abbiamo visto, la stessa libertà di stampa e di espressione. Conflitto di interessi: questa parola non compare nei documenti e nei dibattiti, o per lo meno non riceve sufficiente visibilità. E ancora: la campagna sul razzismo (verso gli "altri" ma anche gli italiani del Sud, poiché al razzismo serve sempre un "altro") che va fermata e denunciata ed é gravissima poiché mina alla radici ogni possibile convivenza democratica; la vergognosa strumentalizzazione delle donne che é diventata un segno distintivo del nostro paese; la rinascita dei nazionalismi tribali che sta erodendo la stessa unità europea; la decurtazione dei diritti di contrattazione, ovvero l´espulsione della democrazia dai luoghi di lavoro e dalle relazioni economiche; la demolizione della scuola pubblica con effetti che saranno disastrosi sull´eguale opportunità e sulla formazione e la competizione delle nuove generazioni (di qui occorrerebbe ripartire quando si parla di deficit di produttività); infine, ma non ultimo, l´egoismo anti-sociale di chi evade il fisco, poiché impoverisce tutti e toglie a tutti (anche a chi evade) la possibilità di vivere in una società decente nella quali i servizi ci sono e funzionano. Sono queste le "cose" sulle quali sarebbe importante sapere sentire parlare i democratici, sulle quali la dialettica delle idee e la competizione per la miglior possibile leadership sarebbero davvero auspicabili e utilissime.

l’Unità 21.9.10
Sull’Europa l’onda nera dell’ultra destra xenofoba
Per la prima volta in Svezia entra in Parlamento un partito razzista. E crescono i gruppi «gemelli» che assediano il vecchio continente
di Marco Mongiello

Hanno messo da parte svastiche e saluti nazisti, hanno smesso di rasarsi le teste, hanno cambiato i vecchi giubbotti con degli eleganti vestiti in doppio petto e si presentano con leader giovani e preparati. I partiti xenofobi e di estrema destra d'Europa hanno cambiato pelle e ora siedono numerosi nei Parlamenti del Continente, negoziano coalizioni di Governo o dettano il programma alla destra moderata che tenta di inseguirli. Dimenticate i vecchi tromboni che farneticano di camere a gas alla Jean-Marie Le Pen, lo storico leader del Fronte Nazionale francese. Oggi il volto pulito dell'estrema destra europea è quella del trentunenne svedese Jimmie Åkesson, il giovane capo di «Democratici di Svezia».
Nelle elezioni di domenica del civilissimo Paese scandinavo i «Democratici» hanno sorpreso tutti ottenendo il 6,2% dei voti e portando per la prima volta ben 20 deputati di un partito dichiaratamente xenofobo nel Parlamento di Stoccolma. Quando Åkesson è entrato nel movimento il partito era un gruppuscolo di esaltati guidati da un noto nazista. Poi con lui alla guida il tono è cambiato, gli impresentabili sono stati gentilmente accompagnati alla porta e gli elettori hanno premiato. Quello svedese però non è che l'ultimo esempio di un fenomeno già visto. In uno studio recente sull'estrema destra europea pubblicato dalla fondazione tedesca Bertelsmann si spiega che il classico razzismo «biologico» è sempre più rimpiazzato da una nuova «destra populista che abbraccia un'ideologia che comprende il nazionalismo etnocentrico con un elemento di esclusione su basi religiose». Per conquistare seggi, spiegano gli autori dello studio, i nuovi estremisti hanno abbandonato le vecchie tesi sulla superiorità della razza bianca e giustificano la retorica xenofoba con la necessità di difendere l'integrità della comunità nazionale e le conquiste sociali della modernità, dalle libertà fondamentali ai sistemi di protezione sociale come il welfare svedese. Lo scorso primo luglio a lanciare l'allarme è stata l'organizzazione non governativa internazionale «Minority Rights Group», che ha pubblicato l'edizione 2010 del suo rapporto «Stato delle minoranze e dei popoli indigeni del mondo». «L'intolleranza religiosa è il nuovo razzismo», ha dichiarato il direttore di Mrg, Mark Lattimer, «molte comunità che per decadi sono state discriminate per motivi di razza ora sono nel mirino a causa della loro religione». Nel capitolo dedicato all'Europa si spiega che «la crisi economica ha aumentato la popolarità delle organizzazioni nazionaliste populiste che alimentano il risentimento contro le minoranze».
Sono state le elezioni europee del giugno 2009, secondo il rapporto, il primo test di successo che ha consacrato il cambio di stile della retorica xenofoba. In quell'occasione i partiti xenofobi sono riusciti a portare a casa un risultato a due cifre in Italia (con la Lega Nord), Olanda, Belgio, Danimarca, Ungheria, Austria e Bulgaria, mentre hanno preso tra il 5 e il 10% in altri sei Paesi: Finlandia, Romania, Grecia, Francia, Gran Bretagna e Slovacchia. Non era che l'inizio. Negli ultimi mesi il virus dell'intolleranza si è allargato a macchia d'olio sulla cartina europea e ha premiato gli estremisti di tutti i Paesi in cui si sono tenute le elezioni. Nelle regionali di marzo in Francia il Fronte Nazionale di Le Pen è risalito al 17,8%, convincendo Sarkozy a lanciare la campagna contro i Rom. Ad aprile il partito ungherese anti-rom Jobbik ha ottenuto a sorpresa il 16,7% dei voti. A giugno il partito anti-islamico olandese di Geert Wilders è diventato la terza forza politica del Paese e da allora tiene in ostaggio il Parlamento che non riesce a formare un Governo. Sempre a giugno in Belgio il vecchio partito estremista fiammingo Vlaams Belang ha registrato un calo, ma a fronte dello strepitoso successo del più ripulito partito separatista di Bart de Wever. In Austria il vecchio partito di Jorg Haider, l'Fpo, si è già distinto nella campagna per le elezioni regionali in Stiria di domenica prossima mettendo online un videogioco in cui la regione è invasa dalle moschee. All'appello ormai manca solo la Germania, il Paese più vaccinato contro il risveglio dei vecchi incubi. Ma è solo questione di tempo. Entro la fine dell'anno nascerà un nuovo partito anti-islamico sul modello olandese di Geert Wilders che si chiamerà “Die Freiheit”, (La Libertà), per correre alle elezioni regionali di Berlino nel 2011.

il Fatto 21.9.10
L’imbroglio Rom
di Maurizio Chierici

Anche la Svezia dopo l’Olanda, mentre nella Slovacchia i massacri dei Rom svaniscono nei valzer dei caffè dove nessuna signora vuole essere disturbata dai pogrom del 2000. L’Europa dei diritti umani sceglie la modernità del razzismo. Stoccolma manda in soffitta lo Stato-badante e immagina un futuro da conquistare sul ring. Proibito difendersi a chi non parla come noi. Vittoria degli xenofobi svedesi rafforzata dai deliri di Parigi, eppure proprio a Parigi ricomincia la ragione con l’addio a Sarkozy: due francesi su tre non lo sopportano più. La sua politica ha incendiato le periferie; burqa, sinonimo di terrorismo, e pulizia etnica annacquano la fede di chi lo votava immaginando il ritorno alla grandeur. Due anni fa l’Economist lo presentava sul cavallo di Napoleone. Due anni dopo il Sarkozy dell’Economist è un nano appollaiato fra le piume di Carla Bruni. Per resistere si aggrappa a un tipo di imbroglio che funziona nei popoli dalle tasche quasi vuote: gonfiare la paura per gli stranieri responsabili della nostra infelicità. Facce gialle, facce nere, Rom: immondizie pericolose. Il nemico è un ricostituente storico del nazionalismo (metafora di egoismo) dei leader meschini, ma questa volta nessuno si è lasciato prendere per il naso. In giugno il gradimento era sceso sotto il 50 per cento; dopo burqa e Rom precipita a 30. Un dubbio avvilisce: come mai i francesi respingono il trucco che scarica la crisi su protagonisti marginali della società, mentre gli italiani continuano a bere come le oche delle favole d’infanzia? Bossi, Maroni, Calderoli, Borghezio, perfino il Salvini, smorfia del marò che cantava “ le donne non ci vogliono più bene perché portiamo la camicia nera’; perfino Salvini, camicia verde, riceve lettere d’amore. Ma il peggio sta arrivando: lo squinternamento del Cavaliere fa scappare i confusi verso il “buonsenso” della Lega. Le sue radici nel territorio sembrano profonde. I brontolii di Bossi, voce del paradiso. “Ti adoro, ti amo per tutto quello che dici e che fai. Ho 26 anni e sono fiera di te. Bravo Umberto, sogno un marito che abbia le stesse idee. Cristina, Bolzano”. “El gh’a razon, se ne poeu puu de tucc’ sti barbon senza dio, in gir a far nient tucc ‘al di Umberto Marini, Bollate”. Archivio della devozione Padana. E i versetti del Calderoli calzoni corti come Herman Göring, fanciullone nel “Dittatore” di Chaplin, allargano il cuore ai nemici di ogni straniero. Nemici, perché ? Spiegazioni gridate per fare impressione: portano via case, lavoro; rubano, violentano, sporchi e cattivi. Il sangue stanco delle vecchie facce esulta quando l’orgoglio dei politici ne pianifica l’esclusione. E la non cultura impedisce un dialogo appena sensato. Dal dio Po alla battaglia di Lepanto che Bossi giura vinta dai marinai padani mentre i genovesi scappavano davanti ai turchi, nasce la storia inventata dell’Italia dei danè da difendere spargendo disprezzo e paura perché la paura dell’altro è il dogma che rincuora le furbizie dei fantaceltici dal familismo che impallidisce le famiglie del Sud. “Col leghismo trionfa la logica tribale basata sulla gestione del mercato della paura e sull’ossessione della sicurezza armata. Capitalizza le proteste esibendosi come religione civile, settaria e guerriera. A supportarla, il cemento di una rete finanziaria: Lega mescolata a Opus Dei e Compagnia delle Opere. Ed è ciò che spinge alcuni parroci e cattolici padani a tollerare una religione con idee forti: l’identità “della nostra gente” contraria ai vizi della modernità e la funzione di coesione della Chiesa che può sentire omogenee “le comunità organiche” di Bossi e i suoi fratelli. Il leghismo vuole conquistare l’anima popolare, in realtà è la fede cristiana a rischiare di perdere l’anima”. Parole sconsolate di Sandro Paronetto, vicepresidente nazionale Pax Christi. E la gente normale? Guarda, tacendo. Moravia racconta negli Indifferenti la borghesia che non si scompone mentre il fascismo dilaga. Ottant’anni dopo siamo ancora lì.
mchierici2@libero.it

il Fatto 21.9.10
Marino: decessi e cesarei, in Italia ci sono troppi punti-nascita
di Silvia D’Onghia

È troppo presto per parlare di altri due casi di malasanità a Messina. Dovranno essere le inchieste interne e quelle della magistratura a fare luce sui due parti. Certo è che non è la prima volta che dal capoluogo siciliano arrivano notizie di complicazioni in sala parto. E questo pone dei seri interrogativi sulla gestione della sanità, ed in particolare dei punti-nascita in Sicilia. La commissione parlamentare d’inchiesta sul Servizio sanitario nazionale sta lavorando proprio in questa direzione. Ieri a Messina ha inviato i Nas e ha chiesto, sia alla direzione generale dell’ospedale Papardo che alla Procura, di poter acquisire tutti gli atti (comprese le cartelle cliniche) relative all’episodio del bimbo finito in coma farmacologico.
Presidente Marino, esiste un “caso Sicilia”? Non ho ancora notizie specifiche su quanto accaduto in questi giorni, e quindi non posso pronunciarmi. Ma posso fare qualche valutazione generale su quanto sta accadendo. L’Istituto superiore di Sanità ha svolto un’indagine in sei regioni italiane: Piemonte, Emilia Romagna, Toscana, Lazio, Campania e Sicilia. Un’inchiesta che coinvolge il 48 per cento delle donne in età fertile. Si va da una mortalità materna pari a 8 su centomila in Piemonte ed Emilia a una pari a 22 su centomila in Sicilia.
E questo secondo lei da cosa dipende? Va fatta una riflessione generale sui punti-nascita. La situazione è radicalmente cambiata negli ultimi 30 anni. Nel 1980 in pieno baby boom il numero di donne con più di 35 anni che partorivano era pari al 9 per cento; oggi è pari al 30. Allora ci fu una diffusione capillare sul territorio dei punti-nascita. Con un decreto ministeriale del 2000 si decise che il numero minimo di parti annui doveva essere 500 per ogni struttura, questo per poter garantire uno standard di qualità. Oggi ci troviamo con molti punti-nascita che hanno un numero di parti inferiore a 500 ogni anno. Quella rete è dunque più numerosa e capillare di quanto occorrerebbe. In compenso il numero dei parti cesarei è di gran lunga aumentato.
Nel 1980 erano l’11 per cento, oggi sono il 39. Questa tecnica, che è efficace in determinati casi, viene utilizzata in maniera eccessiva e non necessaria. L’indicazione dell’Organizzazione mondiale della Sanità è di limitare il cesareo al 15 per cento dei parti. Ci sono invece regioni come la Campania in cui questa percentuale raggiunge il 62. È evidente che qualcosa non va. Molto dipende dai medici e dalle direzioni. Faccio un esempio: a Castellammare di Stabia, nel 2003 i cesarei erano il 52 per cento; l’avvento di un nuovo primario ha fatto sì che nel 2009 fossero solo il 16 per cento. A volte, e mi riferisco soprattutto alle strutture private convenzionate, si va incontro alle preoccupazioni delle donne e si arriva a programmare la data del parto. Incide molto, però, anche il rimborso concesso dalle Asl.
È l’aspetto sul quale ci stiamo concentrando. Sicuramente questo può incidere. Tenga conto, però, che la maggior parte delle donne italiane non ha ancora accesso al parto indolore. Questa possibilità è offerta solo nel 15 per cento degli ospedali italiani, mentre Francia o Stati Uniti raggiungono il 70. E con la manovra finanziaria sarà sempre peggio: per cinque anestesisti che andranno in pensione nel 2011, ne verrà assunto uno solo. Quindi potranno partorire senza dolore soltanto quelle donne che potranno pagarsi un professionista.
Arriverete alla decisione di sospendere qualcuno, nel caso in cui le notizie da Messina trovassero una conferma giudiziaria?
Mi auguro non serva il nostro intervento, preferirei un percorso di collaborazione istituzionale.

il Fatto 21.9.10
Porta Pia, festa grottesca
La commistione tra autorità civili e religiose assomiglia
al tentativo di far commemorare gli antifascisti da quelli che erano stati, negli anni ’30 e ’40, alleati con i loro nemici
di Nicola Tranfaglia

Erano le cinque e un quarto del mattino quando il 20 settembre l’artiglieria italiana sparò i primi due colpi di cannone contro le mura di Roma all’altezza di Porta Maggiore e Porta Pia. La resa avvenne verso le undici del mattino dopo che Pio IX ha ordinato ai pontifici di presentare la bandiera bianca. I morti tra i bersaglieri sono 49, tra i pontifici 19. Pio IX, riuniti i diplomatici presso lo Stato Pontificio, definisce l’assalto “un attentato sacrilego” e dovranno passare altri cinquantanove anni prima che Mussolini e Pio XI firmino il Trattato del Laterano e i Patti annessi.
La pace tra Stato e Chiesa
DA QUEL MOMENTO regna, per così dire, la pace tra Stato e Chiesa ma la dittatura fascista lo ha fatto per avere la Chiesa dalla sua parte e non certo per realizzare la formula di Camillo Benso, conte di Cavour, che in anni lontani aveva detto: “Libera Chiesa in libero Stato.” E il Vaticano, a sua volta, ha ottenuto dallo Stato quel che non aveva mai avuto dalla classe dirigente liberale sul piano economico come su quello politico. Ed oggi, nel Ventunesimo secolo dopo che nel 1988 è stato rinnovato con qualche modifica il Concordato del 1929 e la Chiesa cattolica ha messo sull’attenti gran parte della classe politica, di governo e di opposizione, si può dire che la celebrazione del 1870 avviene nelle migliori condizioni possibili per la Santa Sede. Roma diventa Capitale con la legge appena approvata e il sindaco Alemanno che, da fascista che era è diventato un berlusconiano fervente, può celebrare oggi i centoquarant’anni della Breccia di Porta Pia non soltanto con il capo dello Stato ma anche con il cardinale segretario di Stato Tarcisio Bertone, come se la Chiesa fosse stata anch’essa dalla parte dell’Italia appena unificata piuttosto che contro a rispondere con le cannonate ai bersaglieri che premevano dal di fuori.
Ed è questo il centro della giornata di ieri e il significato che le autorità locali e centrali intendono fornire agli italiani, dimenticando quello che davvero l’arrivo dei bersaglieri aveva significato in quel mattino del 20 settembre 1870.
Non è un caso che oltre cinquanta tra associazioni, movimenti e forze politiche hanno deciso di festeggiare domenica la ricorrenza per non mischiarsi alle celebrazioni ufficiali. Ma se si guarda all’imponente serie di manifestazioni e di occasioni di visite e di mostre previste in questi giorni non si capisce davvero come Stato e Chiesa possano festeggiare insieme un avvenimento così limpido e chiaro. L’Italia liberale del Risorgimento, dopo meno di dieci anni dall’unificazione nazionale, aveva deciso di scegliere Roma come sua Capitale e approfittando di un atteggiamento non negativo di due grandi potenze del tempo come la Francia e l’Inghilterra aveva mandato una spedizione ufficiale di soldati e di bersaglieri per entrare a Roma e far finire il Potere temporale dei Pontefici. E questo significato di fondo non si può rovesciare, celebrando la ricorrenza con la Santa Sede e con quel cardinale Bertone, segretario di Stato, che quando divenne vescovo di Genova si preoccupò immediatamente di chiudere gli archivi della diocesi per impedire che gli storici facessero luce sul ruolo del Vaticano nella fuga in Sudamerica dei criminali nazisti che si trovavano in Italia o che erano appena arrivati dalla Germania. Un amico mi ha detto, in questi giorni, che la commistione tra le autorità civili e religiose assomiglia al tentativo di far commemorare gli antifascisti da quelli che erano stati, negli anni Trenta e Quaranta, alleati con i loro nemici. E si potrebbe dire ancora molto di peggio di fronte a questo spettacolo. A differenza dei francesi, noi non abbiamo nella nostra Costituzione all’inizio un articolo dedicato alla laicità dello Stato ma in vari punti del dettato costituzionale emerge con chiarezza il profilo laico della nostra democrazia parlamentare che riguarda i credenti come i non credenti e che dovrebbe spingere tutte le forze politiche, a cominciare da quelle di centrosinistra, a difendere il significato della Breccia di Porta Pia e la difesa della formula cavouriana. Nella cosiddetta “Prima Repubblica”, e soprattutto da parte di chi aveva partecipato ai lavori dell’Assemblea Costituente, anche tra cattolici come Aldo Moro era centrale la rivendicazione della laicità dello Stato come elemento fondamentale dell’attività politica e istituzionale. Oggi, soprattutto dopo l’89 e la caduta delle grandi ideologie che avevano diviso il mondo negli anni della Guerra fredda, le classi dirigenti italiane e in particolare quelle più vicine e legate alla classe politica, sembrano aver perduto il senso delle distinzioni tra una sfera laica e una sfera religiosa. La destra berlusconiana, così priva di valori etici e politici, ha bisogno dell’appoggio del Vaticano e il papa attuale non ha avuto difficoltà fino a ieri ad appoggiarne l’azione di governo.
La sinistra e il Vaticano
QUANTO alla sinistra, la fine del comunismo ha favorito l’avvicinamento degli ex comunisti al Vaticano e ormai da anni essi si confondono con gli altri esponenti politici devoti alla Chiesa. Pochi di fatto – e noi dell’Italia dei Valori siamo tra questi – ritengono che, al di là della fede cattolica di ciascuno, che sia necessario sostenere con chiarezza una posizione che si riallacci a quella liberale e democratica dell’Ottocento ma anche del Novecento e del nuovo secolo: la parità di tutte le fedi religiose, la difesa della sfera politica dalle intromissioni della Chiesa e delle Chiese. E proprio questa incertezza della politica e il suo degrado evidente conducono alla situazione di oggi che è nello stesso tempo grottesca e paradossale: si vuol ricordare la Breccia di Porta Pia e lo si fa con il sindaco fascista berlusconiano e con il segretario di Stato del Vaticano.

Repubblica 21.9.10
Musicoterapia
Da Mozart ai Pink Floyd le note contro il dolore
di Irma D’Aria

Cinquanta minuti di ascolto ogni giorno per otto settimane associati a psicoterapia e risultano diminuiti i sintomi in pazienti depressi
Riabilitazione post-ictus, rimedio all´ansia e alle paure da sala operatoria Nuove ricerche dal Nordeuropa all´Italia sembrano confermare che ascoltare classica, jazz o sacra possa influenzare corpo e mente Dall´età prenatale fino alla maturità e alla vecchiaia

Guarire le ferite dell´anima anche con l´aiuto della musica si può e a confermarlo arriva ora un nuovo studio apparso sulla rivista Arts in Psycotherapy. I pazienti affetti da sindrome depressiva sono stati divisi in due gruppi: il primo è stato sottoposto a classiche sedute di psicoterapia, mentre per il secondo gruppo alla terapia si è affiancato l´ascolto di musica classica o barocca per 50 minuti al giorno per otto settimane. Al termine della sperimentazione, i pazienti in musicoterapia mostravano meno sintomi depressivi rispetto a quelli trattati solo con la psicoterapia. Nuove evidenze scientifiche arrivano anche sul fronte della riabilitazione post-ictus grazie a uno studio di metanalisi realizzato presso la Temple University di Philadelphia e recentemente pubblicato sulla Cochrane Review. I 184 pazienti sono stati sottoposti a tecniche di stimolazione uditiva ritmica con l´obiettivo di sollecitare le funzioni cerebrali compromesse dall´ictus. L´ascolto di musica ha avuto effetti positivi sulla circolazione sanguigna, sul movimento, sull´umore e anche sul linguaggio e il dolore. E in tema di dolore, un altro recente studio condotto presso il Tabriz Oncology Center in Iran, ha confermato l´efficacia della musicoterapia in cento pazienti sottoposti ad aspirazione del midollo osseo. I pazienti che avevano ascoltato musica durante la procedura operatoria, mostravano minori livelli di ansia e dolore.
Gli ambiti d´intervento abbracciano tutte le varie fasce d´età, dalla vita prenatale alla vita da anziani. Ma in cosa consiste la musicoterapia? «È l´uso del linguaggio musicale in tutte le forme e collegamenti con il corpo e la mente», dice Simona Nirensztein Katz, musicoterapeuta e musicista. «Il suo obiettivo è quello di accompagnare i pazienti in un percorso verso la salute». In Italia, però, i pareri sono diversi. «Ritengo che si possa definire musicoterapia precisa la psichiatra Graziella Magherini, presidente dell´International Association for Art and Psychology soltanto la psicoterapia psicodinamica attuata con la mediazione della musica. Il musicoterapeuta deve avere un´adeguata padronanza del linguaggio musicale e anche una formazione psicologica». Nella maggior parte dei casi, il musicoterapeuta agisce sotto la supervisione di un neuropsichiatra, di un geriatra, un pediatra o di un altro specialista.
Sempre più spesso, inoltre, la musica entra anche nelle corsie d´ospedale. Per esempio, al Bambino Gesù di Roma dove ai piccoli pazienti in terapia intensiva viene fatto ascoltare Mozart. Note terapeutiche anche al pediatrico Meyer di Firenze dove già da anni, anche in reparti particolarmente difficili come quello di oncoematologia e soprattutto in chirurgia serve per aiutare i bambini a sentirsi meno soli di fronte alla paura.
Ma quali sono le musiche più "terapeutiche"? «Non si può dire che un certo brano o tipo di strumento sia più adatto di un altro», chiarisce Giulia Cremaschi Trovesi, presidente della Federazione italiana musicoterapeuti. «Le sedute di musicoterapia si basano soprattutto sull´improvvisazione di note che nasce da un dialogo profondo tra il paziente e il terapeuta». Proprio di recente, però, la Caledonian University di Glasgow ha lanciato un progetto triennale di musicoterapia che per la prima volta analizzerà brani di musica contemporanea e non classica. I risultati potrebbero consentire di sviluppare programmi computerizzati in grado di identificare la musica che ha il miglior effetto sui disturbi dell´umore e la depressione. Dalla pratica clinica, intanto, qualche indicazione arriva. La musica classica domina la classifica delle "note che fanno bene", ma vengono considerate efficaci anche il jazz, la musica New Age, quella indiana e persino Gloria Gaynor e i Pink Floyd.

Repubblica 21.9.10
La voce e il battito del cuore e il primo concerto comincia nel grembo materno

Tutto comincia con la cosiddetta "prima orchestra": quella del grembo materno in cui risuona la voce della mamma, il battito del suo cuore e tutto ciò che ci aspetta fuori. Ecco perché la musica è un elemento fondamentale per la crescita e lo sviluppo somatico, psicologico e sociale. È proprio questo il tema centrale del libro Crescere con la musica. Dal corpo al pensiero musicale, curato da Roberto Caterina, Graziella Magherini e Simona Nirensztein Katz. «La musica», spiega Graziella Magherini, «accompagna lo sviluppo
del bambino dagli aspetti sonori del rapporto con la madre fino alla fase di identificazione del sé e poi via, via nelle varie tappe della crescita». È anche un ponte di comunicazione nella fase adolescenziale quando la chiusura è spesso molto forte. «La musica», sottolinea Simona Nirensztein, «permette al ragazzo in cerca della propria identità di adulto una forma di regressione inconfessabile a parole ma accettabile nel ritorno a musiche che lo portano in contatto con bisogni profondi come la ripetitività ritmica, simile al movimento del cullare, o musiche più intimistiche attraverso cui dà sfogo a emozioni a cui non sa ancora dare un nome».(i. d´a.)

Repubblica 21.9.10
Al centro della contesa la capacità delle donne di fare tante cose insieme Ma un recente libro smonta le ipotesi sessiste. "È un organo misterioso"
Maschi e femmine divisi dal cervello la sfida si gioca sul "multitasking"
"Le differenze sono culturali: ci comportiamo secondo gli schemi"
di Angelo Aquaro

Le ragazze si arrendano: i maschietti hanno un cervello del 9 per cento più grande del loro. Beh, potrebbero giustamente replicare le signorine, dipende dall´uso che ne fanno.. Macché: gli uomini hanno comunque una quantità di "materia grigia" 6 volte e mezzo più grande di quella delle donne. Due a zero? Fosse così semplice: la sfida sul cervello tra uomini e donne è la partita più pericolosa che gli scienziati di tutto il mondo stanno giocando da anni. L´ultima bordata è partita in questi giorni: "Le delusioni del genere" si chiama il libro con cui Cordelia Fine spara a zero contro le teorie che enfatizzano una differenza sostanziale tra i due cervelli. Un atto d´accusa che mette nel mirino le conclusioni di quella corrente rappresentata soprattutto da Louann Brizendine, la dottoressa che pure si dichiara spassionatamente femminista e che ha scritto due libri, "Il cervello maschile" e "Il cervello femminile", schizzati in testa alle classifiche con tanto di polemiche sul politicamente corretto.
Esperta contro esperta: una battaglia tra donne? È proprio contro la generalizzazione dei sessi che si batte "Le delusioni del genere". Prendete la fatica che il New York Post ha fatto per evidenziare almeno cinque/sei punti di differenza tra uomini e donne. I risultati? Le differenze si giocano soprattutto sul ruolo dell´amigdala. È il centro del cervello in cui vengono prese le decisioni di agire. E siccome negli uomini è più grande il sesso cosiddetto forte reagirebbe con più impulsività e violenza di fronte agli eventi insoliti. E ancora. Se è vero che gli uomini, per esempio, hanno più "materia grigia" il che spiegherebbe perché eccellono per esempio nella matematica è pur vero che le donne hanno più "materia bianca", che sarebbe quella che permette di connettere le diverse parti del cervello, esercitando così la funzione oggi comunemente detta multitasking, che poi sarebbe quel miracolo che da sempre ammiriamo in tante mamme: la capacità di badare a più cose nello stesso tempo, dai pianti del bebè allo sbuffo del caffè. Non basta. Le donne sorpasserebbero gli uomini anche nell´ultimo campo di osservazione della neurologia, quei "neuroni specchio" che ci permettono di "sentire" gli altri, rivivere le emozioni, agire insomma empaticamente: risolvendo così anche la sempiterna questione della "sensibilità" femminile problemino mica da poco per tanti maschietti.
Sarà vero? Le differenze, dice ora l´eretica Cordelia, magari esistono: ma sono culturali. E più si creano aspettative su certi comportamenti "maschili" (la capacità di reazione fisica) e "femminili" (la capacità di prendere posizioni più ponderate) e più noi tutti uomini e donne ci sentiamo portati a comportarci secondo lo schema. «Malgrado tantissime scoperte recenti, quest´organo rimane per la maggior parte sconosciuto» dice un´autorità come Anne Fausto-Sterling (un´altra donna!) della Brown University del Rhode Island. E proprio per il mistero che lo circonda, il cervello «rappresenta il mezzo ideale su cui proiettare tutte le nostre ipotesi riguardo al ruolo delle differenze di genere». Sessismo? Cordelia, Anne e le altre non hanno dubbi: «Neurosessismo». In fondo, questo sì, un vecchissimo riflesso del cervello.

Corriere della Sera 21.9.10
L’italiano che cambia: semplificazione o sciatteria?
Il nuovo modo di usare la lingua fra errori e parole in disuso
di Lorenzo Salvia

ROMA — Se me lo dicevi prima ci pensavo io. «Allora, dove sarebbe l’errore?», sbotta Francesco Sabatini, presidente onorario dell’Accademia della crusca. E tanti saluti al congiuntivo («se me lo avessi detto...»), proprio come fanno i calciatori alla tv. «Guardi che scrivevano così anche Manzoni e Bembo, il codificatore supremo della lingua italiana» riprende il professore prima di poggiare la cornetta ed avvicinarsi alla libreria. «Ecco qua, "Promessi sposi", capitolo 34. "Se mi si accostava un passo di più, l’infilavo addirittura il birbone". Niente congiuntivo. Magari di Manzoni possono dire che era uno scapestrato e allora aspetti, prendo le lettere di Pietro Bembo: "Non ti bastavano le ingiurie se tu ancora quella ferita non mi davi". Niente congiuntivo».
L’Accademia della crusca è l’istituto nazionale per la salvaguardia e lo studio della lingua italiana. Salvaguardia, mica robetta. Ma non vuol dire segnare sempre con la matita rossa i nuovi usi della lingua, quella parlata tutti i giorni nelle case, negli uffici e nei bar, magari distante anni luce da quella immobile nei libri di grammatica. «Soprattutto perché — spiega il professor Sabatini — i cambiamenti più vistosi riguardano l’accettazione di fenomeni di antica data che prima venivano censurati e che invece si sono affermati perché funzionano meglio. Se durano, un motivo ci sarà, no?». L’esempio classico è la frase «Il latte lo compro io». Per anni questa struttura è stata considerata un’inutile ripetizione, una brutta variazione del più limpido «Io compro il latte». E invece no: se già si stava parlando di latte, è proprio quella la forma che funziona meglio. Anche stavolta nella libreria del professore c’è un precedente. È una sentenza del decimo secolo, una lite su alcuni poderi nella zona di Montecassino: «Quelle terre — dicono alcuni testimoni in volgare — le ha posse dute l’abbazia». Nulla di nuovo.
Ma non c’è solo il recupero del passato nei cambiamenti della nostra lingua. Tull i o de Mauro — linguista di fama mondiale e per alcuni mesi anche ministro dell’Istruzione — parla di «legittima autodifesa» dalle regole sulle quali la «scuola ha picchiato più duro». Il passato prossimo al posto del passatore moto? «Tutti noi, se dobbiamo dire che abbiamo cotto qualcosa anni fa, preferiamo cambiare strada e dire "ho cucinato"». Io cossi, tu cocesti, egli cosse... il terribile ricordo dei verbi irregolari ci spinge verso sentieri meno impervi: «ho» più un bel participio facile facile. Ma non può essere solo questo. Il verbo «scoprire» non è perfido né irregolare. Eppure la maggior parte di noi dice «Cristoforo Colombo ha scoperto l’America nel 1492» non «Cristoforo Colombo scoprì l’America nel 1492». Un errore? Il professor Sabatini — che a questo punto sarà diventato simpaticissimo a tutti gli studenti italiani — dice di no: «Bisogna tener conto della dimensione psicologica del tempo, non solo di quella fattuale. E se dico che Cristoforo Colombo ha scoperto l’America vuol dire che nel mio discorso considero ancora attuali gli effetti di quella scoperta». Eccola, forse, la causa della scomparsa del passato remoto: nell’uso vivo della parola siamo abituati a parlare di cose che riguardano il presente, anche quando partono da eventi passati e pure remoti.
Più che gli scrittori ed i linguisti, però, a maneggiare la lingua di tutti i giorni sono gli autori delle fiction tv. Ivan Cotroneo ha scritto la sceneggiatura di «Tutti pazzi per amore» e dice subito che per costruire un personaggio credibile è fondamentale farlo parlare come noi umani. «Digli cosa vuoi, ad esempio. Nei dialoghi usiamo sempre "gli". "Le" per le donne o "loro" per il plurale non esistono più». Lui ne soffre, in realtà. Da scrittore e traduttore è maniaco di queste cose. «Ma una precisione del genere se la può concedere al massimo nonna Clelia, che nella fiction è un avvocato con un gusto della battuta piuttosto ricercato. In bocca agli altri suonerebbe scorretto».
Sempre per costruire storie credibili alcuni suoi personaggi fanno a meno delle sfumature del futuro: «Cristina dice "quando arriverò farò questa cosa". Ma per salvare la grammatica abbiamo Emanuele che la corregge "quando sarai arrivata", futuro anteriore. Attenzione, però: Emanuele non è l’adolescente tipo, è un secchione un po’ rompiscatole». Un trucco usato in ogni puntata per mettere insieme realismo e grammatica. «Finora Emanuele ha ripreso Cristina sul congiuntivo e sulla consecutio temporum. Nella prossima serie la sua battaglia potrebbe essere sul punto e virgola».

Corriere della Sera 21.9.10
Punto e virgola Perché perda chi urla di più
di Silvia Avallone

Dostoevskij racconta così l’attimo seguente a quello in cui Raskolnikov cala l’accetta sulla nuca della vecchia strozzina: «Egli si scostò, la lasciò cadere e subito si chinò verso il suo viso; era già morta». Ora, come riusciremmo a verificare la morte in tutta la sua raggelante pausa, come potremmo trattenere il respiro calandoci anche noi sul volto impietrito dell'assassinata, senza quel geniale, assordante punto e virgola? In via di estinzione, o addirittura già estinto, il punto e virgola possiede una funzione ambigua: denota una pausa più lunga di quella indicata dalla virgola, e più breve di quella indicata dal punto. Una pausa tattica, insomma, di quelle che servono all’avvocato in gamba durante la sua arringa per gettare un’occhiata terrificante al suo uditorio, o al ciclista che risale i tornanti dell’ultima tappa e si volta per controllare se è riuscito a seminare gli avversari. È il segno d’interpunzione dell’apnea mentre ci si cala in profondità all’interno del discorso. In questo senso, è il tipico segno della sfumatura e della complessità, e non a caso si incontra spesso nei dialoghi filosofici. Abbonda dove abbondano i ragionamenti ampi, ovvero in tutte le occasioni in cui è necessaria una pausa di una certa consistenza per seguire il filo della logica o assorbire il patos del racconto. Ma se assistiamo a un dibattito televisivo o navighiamo attraverso gli innumerevoli spazi del web, registriamo esattamente il contrario: mancanza di sfumatura e complessità nei discorsi, mozziconi di frasi o sequenze di esclamazioni, assenza di pause destinate alla comprensione. Pare che non sia più indispensabile ascoltare il nostro interlocutore prima di rispondergli. Superfluo anche dare spiegazioni. Nelle tribune politiche e nei varietà si moltiplicano veloci botta e risposta, serie anarchiche e isteriche di interiezioni, che sfido chiunque a tradurre per iscritto senza sovrapposizioni di frasi e mediante un’interpunzione intelligibile. Ovunque il discorso regredisce al litigio, alla polemica aspra e senza soluzione di continuità. La retorica retrocede allo slogan, alla catena puntiforme degli insulti, alla balbuzie. Con il risultato che l'oggetto della discussione viene oscurato dal linguaggio, anziché chiarificato, frammentato anziché compiuto. E il tempo di voltarci per guardarci intorno? Il tempo delle boccate d’aria per affrontare l'apnea? Non c’è più. Allora perché stupirci se un segno sofisticato come il punto e virgola è scomparso? Dovremmo stupirci piuttosto di come siano venute meno le occasioni di usarlo. Dovremmo preoccuparci. Perché se è vero che la punteggiatura serve a suggerire i silenzi, allora la sua scomparsa significa che vince chi grida più forte, chi la spara più grossa, e si perde il significato delle cose. Il punto è che le cose, nella realtà, sono sfumate e complesse. Non è possibile dire una cosa intelligente ogni due minuti, non è possibile neppure capirla in due minuti. Ci vuole una pausa. Ci vuole il punto e virgola.

Repubblica 20.9.10
Skàrmeta: il mio Postino da Troisi a Domingo
di Antonio Skàrmeta

Il romanzo dello scrittore cileno, che nella versione cinematografica di Michael Radford aveva come protagonista l´attore italiano, debutta il 23 a Los Angeles con Placido Domingo

"Protetto dal mio angelo Troisi riuscirò a vincere anche a teatro"

Quando il 23 settembre, a Los Angeles, si alzerà il sipario per dare inizio alla prima mondiale dell´opera "Il Postino", difficilmente potrò evitare che, in un sol colpo, si uniscano nella mia memoria tutti i momenti che hanno portato la mia opera scritta a questo culmine. "Il Postino" nasce al tempo della dittatura di Pinochet, forse nel 1983.
Nasce come un emozionato ricordo dal mio esilio a Berlino Ovest del Cile democratico che avevo vissuto e goduto finché non venne il golpe del 1973, che fece subire al mio popolo la violazione dei suoi diritti umani, inaugurando un periodo di barbarie e costringendo all´esilio centinaia di intellettuali.
Mentre scrivevo il mio romanzo, "Il postino di Neruda", credo che nel mio cuore pulsasse il bisogno di recuperare nella finzione letteraria il modesto e imperfetto paradiso che avevo perduto: quel Cile in cui il poeta era vicino alla gente e la gente sentiva che il poeta parlava per loro. Un Cile in cui si poteva discutere di democrazia con gioia e immaginazione senza sospettare che all´improvviso molti avrebbero dovuto pagare con la vita questa affettuosa attività.
Fin dal primo momento, l´opera migrò rapidamente ad altri generi. Non avevo ancora finito di scriverla che un produttore tedesco, dopo aver letto qualche capitolo, mi propose di scrivere la storia di Pablo Neruda e del Postino come sceneggiatura cinematografica. Lo feci, tenendo in sospeso il finale del romanzo e quando gli consegnai il copione, con mia grande sorpresa, mi propose di esserne io stesso il regista. Avevo una certa esperienza nel dirigere attori di teatro fin dai miei anni giovanili all´università, e avevo dato prova di essere uno sceneggiatore efficiente. Ma tutto ciò che sapevo su quest´arte, era da spettatore.
Il produttore mi incoraggiò a rischiare: si trattava di un film "low budget" (su questo non mi ingannava) e se io non mi fossi rivelato molto bravo, nessuno se ne sarebbe indignato: lo avrebbero visto come il film di uno scrittore che prova a fare del cinema e fallisce. Il caso volle che il film avesse un successo insospettabile. La Frankfurter Allgemeine Zeitung scrisse, dopo il suo debutto alla televisione tedesca, che si trattava di un film "meraviglioso" e al primo festival in cui venne presentato vinse quasi tutti i premi.
La freschezza dell´ingenuità! Il film si chiamava "Ardiente Paciencia" e ancora oggi appare ogni tanto su qualche televisione europea o in qualche festival cinematografico, sotto l´egida di un curatore o di un produttore che lo ricorda con simpatia. Ho evitato attentamente che questo film si vedesse in Italia, dato che il mio modesto filmetto ha per protagonista un attore cileno, un mio carissimo amico, e ho sempre pensato che sarebbe inopportuno presentare al pubblico italiano un personaggio diverso da quello creato da Troisi. Oggi - lontani ormai dalle emozioni iniziali - sappiamo che Massimo diede la vita per questo film, e si merita il titolo di "Postino per eccellenza". Se un giorno dovessi autorizzare la divulgazione di "Ardiente paciencia" in Italia, voglio che il DVD circoli chiaramente con un grande titolo: "Omaggio a Massimo Troisi".
Da quando il libro fu pubblicato in spagnolo, nel 1983, la storia è stata adattata in numerosi paesi per la radio, per il teatro (più di duecento allestimenti nel mondo) e per il cinema da Michael Radford. Un´équipe di drammaturghi inglesi, composta da Eden Phillips, Michael Jeffrey e Trevor Bentham ha già scritto un musical che andrà in scena a Londra con il titolo "The Postman and the Poet" e l´autore della colonna sonora de "Il postino", Luis Bacalov, è stato contattato da un grande teatro italiano per comporre per loro un balletto ispirato al mio romanzo. Per qualche anno, in molti paesi i giovani hanno indossato una t-shirt con una delle citazioni più famose della mia opera: "La poesia non è di chi la scrive, ma di chi la usa".
Mi ero abituato a pensare che, con questa semplice storia sul contrasto tra un grande poeta e un uomo umile, qualsiasi cosa potesse accadere: ma non che sarebbe giunto il giorno in cui sarebbe diventata un´opera e che il ruolo di Neruda lo avrebbe cantato il maestro dei maestri, quel grande artista e splendida persona che è Plácido Domingo. Il compositore è Daniel Catán, un artista messicano che da dieci anni vive a Los Angeles e che ha scritto l´opera su incarico di Plácido Domingo. Catán aveva già adattato per il palcoscenico un testo di García Márquez e da me è stato autorizzato a prendersi tutte le libertà che voleva purché si sentisse in grado di trasportare la mia storia in questo genere dei generi che è l´opera. Catán affronta una sfida che lo esalta: fare opera in spagnolo, una lingua potente che non conta in questo genere molti esempi illustri. Quasi quasi, mantenendo le distanze, appare sotto questo aspetto come Mozart, che si impegna a fare opera in tedesco, quando tutti davano per scontato che l´opera fosse una faccenda assolutamente italiana. La lingua di Cervantes, e quella di Neruda, è per Catán il modo in cui guardiamo la vita, ciò che ne facciamo: «In questo sguardo ci mettiamo davanti a ciò che è veramente importante: l´amore, la felicità e la passione». E´ convinto che una lingua sia un modo di "vedere". L´immensa comunità ispanoamericana di Los Angeles si prepara a un evento che la riempie di orgoglio: per la prima volta si canterà un´opera in spagnolo con sottotitoli in inglese.
Circa quindici anni fa, il film italiano "Il postino" si presentò sul tappeto rosso di Hollywood con cinque nominations ai premi Oscar. Forse era ancora troppo presto per un film italiano (più tardi avrebbe vinto "La vita è bella"), ma la verità è che la nomination postuma per Massimo Troisi come migliore attore non ebbe fortuna. In quell´occasione, i membri dell´Accademia preferirono Mel Gibson e il suo "Braveheart": una pillola amara che non mi è ancora andata giù. Massimo creò un personaggio con un´anima semplice e grande che è incapace di dire tutto quello che sente ma che alla luce generosa di Neruda (Philippe Noiret) comincia a trasformare in scintillanti metafore verbali il suo delizioso e impreciso gesticolio napoletano. Secondo il compositore Catán, nell´opera, il Postino comincerà cantando "male", ma crescendo via via come uomo e come artista arriverà a cantare bene come il suo mentore Neruda (Plácido Domigo). Da parte sua, il regista dello spettacolo, Ron Daniels, ha affermato che quest´opera recupererà molte cose della storia politica cilena e latinoamericana.
In ogni caso, il film italiano è un ricordo vivo negli Stati Uniti e i grandi artisti che saliranno sul palcoscenico del teatro dell´Opera di Los Angeles hanno davanti a sé delle grandi sfide: il ricordo della musica di Bacalov, premiata con un Oscar, la gloriosa performance di Troisi, il solido fascino maturo di Phillipe Noiret, l´attraente turbolenza di Maria Grazia Cucinotta. Nel suo genere, l´Opera di Los Angeles offre un cast eccezionale: Plácido Domingo nel ruolo di Neruda, Charles Castronovo nella parte del Postino, Amanda Squitieri come Beatrice e la grande soprano cilena Cristina Gallardo-Domas come Matilde, la moglie del poeta. L´opera è co-prodotta da Le Chatelet (debutto nel giugno del 2011) e in Austria dall´Opera di Vienna debutto l´8 dicembre di quest´anno).
Pur con un cast di star come queste, una prima mondiale di queste dimensioni ha bisogno di fortuna. E quando si aprirà il sipario raccomanderò con fervore l´opera di Catán a Massimo Troisi - mio angelo custode da tanti anni. Anche in una città che si chiama Los Angeles avrò bisogno del suo aiuto.
(traduzione di Luis E. Moriones)