giovedì 23 settembre 2010

fainotizia.it 22.9.10
Sul programma domenicale di Marco Pannella
di Denis

Considerazioni di un comune affezzionato ascoltatore di Radio Radicale relative al programma domenicale di conversazione di Marco Pannella.

Illustre Marco Pannella,
Illustre Radio Radicale.
Per la stima, l'affetto e l'interesse che mi lega da qualche anno a questa radio, vero servizio pubblico in un deserto mediatico con e senza canone, -salvo poche eccezzioni- prezioso strumento di informazione e formazione, università popolare per tanti radioascoltatori, trasversale a ceti e categorie sociali, dall'intellighenzia al sottoproletariato -che lo voglia- che da la possibilità di accedere ad una fonte di notizie ed informazione chiara, indipendente, plurale, laica, democratica, libera, anche, al netto del sacrosanto finanziamento, da canone e pubblicità
Ed è per questo che mi sono permesso di dar conto di ciò che talvolta può suscitare un piccolo disappunto o benevola critica spero, in ogni caso, costruttiva.
Da affezzionato ascoltatore del programma di conversazione domenicale di Marco Pannella con il pregevole ex Direttore Massimo Bordin o altri ospiti illustri, devo dire di aver provato un certo disappunto e disagio nell'ascolto della puntata di Domenica 19-09-10 con ospite Massimo Fagioli.
Sinceramente non mi è piaciuta proprio, per i primi tre quarti, un pò meglio l'ultima parte.
Personalmente condivido moltissimo e mi sento in piena assonanza con quanto Marco Pannella da sempre sostiene ed esprime, sul piano politico, sociale, umano, oserei dire,"filosofico", non di meno sento di dovergli una benevola critica per la conversazione di domenica 19/10/10 con Massimo Fagioli, di cui avrei desiderato ascoltare il pensiero, mentre ciò e stato limitato se non impedito a causa delle continue incursioni e sovrapposizioni dell'incontenibile Marco non consentendo all'ospite -a mio parere- di sviluppare compiutamente il suo pensiero, spesso "agganciato" in "enbrione" da Marco e declinato in modo forse improprio nelle conclusioni.
Forse mi sbaglio io in fondo è la mia percezione, tuttavia credo giusto dirlo tanto più se tale percezione non fosse meramente personale.
Suggerisco con sincera umiltà e benevolenza al grandissimo Marco a cui auguro tutto il bene possibile di provare a tenere talvolta a freno la sua esuberanza e incontenibile energia, controllando un pò l'equilibrio del dialogo con i suoi ospiti, credo sia di aiuto rispolverare sul serio un vecchio consumato concetto, inflazionato e consegnato alla retorica, di cui tutti avremmo, io per primo, per il bene comune, un immenso bisogno: l'ascolto.


Corriere della Sera 23.9.10
Quelle trame tra gli 007 inglesi e il partito di Togliatti
di Fabio Cavalera

LONDRA — Nome in codice «Rosso». Era un alto dirigente del partito comunista in esilio. Ma aveva anche rapporti confidenziali con i servizi segreti inglesi, il Sis o MI6 (come viene chiamato), l’ufficio di James Bond. Anzi, «Rosso» era un agente di Londra che teneva i piedi in due staffe: un po’ stava con Palmiro Togliatti, un po’ (in incognito) con Winston Churchill. Verso la conclusione del 1943, Rosso fu prelevato a Tunisi da Bruce Lockhart, responsabile del MI6 per l’area mediterranea, e accompagnato a Bari per occuparsi «dell’organizzazione del partito nel Sud dell’Italia». Chi era il compagno Rosso? Lo storico inglese Keith Jeffery è entrato negli archivi degli 007 e ha consultato i documenti sulle operazioni «coperte» compiute dall’ottobre 1909, la data di fondazione del MI6, fino al 1949. E nel libro che ne ha ricavato, con tanto di prefazione di sir John Sawers, l’attuale numero uno dello spionaggio britannico, oltre a raccontarci chi furono gli informatori alle dipendenze del Foreign Office (ad esempio lo scrittore Graham Greene) l’accademico ci rivela alcune vicende italiane.
L’attività del «leading party activist» Rosso è un capitoletto suggestivo del più ampio mandato affidato da Londra all’«Unità 1» di Bruce Lockhart che, all’indomani dello sbarco in Sicilia e dell’avanzata sul fronte meridionale, aveva stabilito a Bari la base dell’intelligence nel Mediterraneo. Gli 007 del MI6, dall’autunno-inverno 1943, dovevano assolvere due compiti: agganciare i servizi segreti italiani («che avevano buone fonti nella destra») e, contemporaneamente, collaborare con il partito comunista sia alla mappatura dell’esercito tedesco sia ai collegamenti fra la Resistenza nell’Italia occupata e le forze politiche nell’Italia già liberata. Veniva definito dai servizi inglesi «un matrimonio di convenienza». Palmiro Togliatti lo aveva approvato. Si era così creato, fra il Pci e l’intelligence britannica, un «network operativo» politico e militare.
Nel marzo del 1944 con la svolta di Salerno, annunciata da Togliatti (governo di coalizione fra tutte le forze antifasciste e assemblea costituente postbellica), i contatti fra MI6 e partito comunista si intensificarono. Bruce Lockhart riceveva informazioni da Rosso ma anche da un ufficiale britannico inserito nella sede della direzione provvisoria a Napoli. Togliatti non sapeva.
La «relazione» fu interrotta qualche mese più tardi, quando ancora Togliatti (ispirato da Mosca) «ordinò di allontanare» dalla federazione di Napoli quel militare inglese. La collaborazione militare, fra MI6 e Pci, si prolungò al 1945. Ma terminò il «matrimonio» politico.
Non è, questa, l’unica rivelazione che esce dai dossier degli 007 inglesi. A Bari l’intelligence di sua maestà rimasero attivi anche all’indomani della guerra. Gli archivi del MI6 hanno consegnato le prove dell’operazione «Trespass». Londra si opponeva, fra il 1947 e il 1948, all’emigrazione ebraica illegale verso la Palestina. Le «navi clandestine» salpavano o transitavano dai porti italiani. Allora, proprio da Bari (e da Roma), partirono i commando per affondare le imbarcazioni, «senza però colpire i civili». Gli obiettivi furono centrati.
Il MI6, attraverso le ricerche del professor Keith Jeffery, confessa oggi le sue scorribande nel mondo e le sue «unioni» di convenienza, dal 1909 al 1949, a destra e sinistra. Come nelle migliori spy-story resta però un dubbio: chi era l’agente o compagno Rosso?

l’Unità 23.9.10
Pd, faccia a faccia Bersani e Veltroni Oggi conta dei voti
di Maria Zagarelli

Resta teso il clima tra Bersani e Veltroni. Oggi la direzione Pd, il segretario ribadirà il suo giudizio negativo sul documento dei 75. Franceschini chiederà la gestione collegiale del partito. Ieri sera fuoco amico in Ad.

Si erano incrociati dietro l’Aula di Montecitorio e si erano dati appuntamento al Nazareno, intorno alle 2 del pomeriggio. Pier Luigi Bersani stava ancora pranzando, nella solita trattoria, quando Walter Veltroni è arrivato nella sede del partito: un incontro veloce, dieci «minuti cronometrici», riferisce uno dei presenti.
FUMATA NERA
Alla fine ognuno è rimasto sulle sue posizioni: Veltroni ha chiesto al segretario di non mettere al voto la relazione di oggi, senza ottenere al riguardo alcuna assicurazione; Bersani non solo sembra intenzionato a procedere con il voto ma ha anche ribadito il suo giudizio sul documento dei 75, «sbagliato nei tempi e nei modi». Anche il segretario della Cgil, Guglielmo Epifani interviene: «Credo che l’iniziativa di Veltroni sia sbagliata e che le persone non la capiscano. oggi non c’è bisogno di dividere. oggi ci vuole chi sappia usare ago e filo per tessere, se non si fa così, poi non facciamo finta di non capire perché si continua a stare all’opposizione».
E si saprà soltanto oggi se prevarrà la pratica della tessitura o quella dello strappo. Sull’esito della direzione di oggi, «chi vivrà vedrà», risponde il segretario che poi aggiunge, «ma domani avremo la rotta». Oggi riprenderà molti dei temi lanciati a Torino, dal Nuovo Ulivo alle alleanze per l’alternativa del governo, alle grandi riforme. «Con l’acuirsi dei problemi politici del centrodestra e i problemi sociali, dobbiamo parlare di Italia. Spero che i chiarimenti tra noi dice in serata Bersani si svolgano lasciando spazio al punto principale: serve parlare al paese con chiarezza. Il partito, il Paese devono percepire che abbiamo intrapreso una strada». È probabile anche che accolga la richiesta lanciata ieri da Dario Franceschini di andare verso una gestione unitaria e collegiale del partito. «Con i problemi che ci sono nel paese, con i rischi che corre quotidianamente la democrazia italiana io dico che è il momento di tenere il Pd il più possibile unito», concorda il capogruppo Pd alla Camera. Linea illustrata anche ieri sera durante l’assemblea di Ad. «La minoranza è davanti a un bivio»: o lavorare all’unità del partito pur mantenendo «il nostro punto di vista e le nostre differenze», o fare la guerra tutti i giorni al segretario. «Noi scegliamo la prima strada» , e stato il succo del discorso di Franceschini.
LE CONTE
Se oggi si dovesse andare alla conta sulla relazione del segretario, come è probabile che sia (e come vogliono da Marini a Bindi a Castagnetti), la posizione dei 75 andrebbe in netta minoranza in direzione, dove il rapporto, come dice Francesco Boccia, è di «90 a 10». Per Bersani sarà l’occasione «per fare chiarezza», mentre per Walter Verini, veltroniano, «può essere occasione di apertura del dibattito oppure un momento di chiusura. noi ovviamente vogliamo che si apra, ma vedremo». Per Fioroni il cerino è tutto in mano a Bersani: «Noi abbiamo portato un contributo poi è il segretario che ha la responsabilità del bene della ditta...»
Ma l’equilibrio fragilissimo su cui si reggevano anche le relazioni diplomatiche all’interno di Ad, è saltato dopo l’incontro tra Bersani e Veltroni. Il bersaglio è diventato Franceschini, accusato di essere passato con la maggioranza. «Se dalla correzione fraterna si passa alla divisione dei pani e dei pesci, allora non si è più minoranza, vuol dire che si è passati in maggioranza....», è stato il refrain di Beppe Fioroni per tutto il giorno in Transatlantico. Rivalità personali e visioni diverse del ruolo della minoranza nel partito stanno mandando in archivio definitivamente la pax interna già minata da un precedente da pochi ricordato ma niente affatto secondario: le candidature per la presidenza dell’Umbria. È lì che si incrinò il patto da Dario e Walter.
In serata i 75 si sono incontrati e alla fine hanno deciso la linea: «Andiamo all’assemblea di Ad e ribadiamo la nostra posizione: la minoranza non può rinunciare a condurre le proprie battaglie dice Fioroni -. Se qualcuno pensa di poterci rinunciare lo dica, ma allora non fa più parte della minoranza».

l’Unità 23.9.10
Popolari, un piede fuori
Sospetti su Fioroni «Pensa alla scissione»
«Siamo stufi di sentirci ospiti non desiderati dal segretario» Giacomelli: «Beppe ha un piano di riserva... ma valeva il 4% prima, adesso che rimane? Dopo la Api avremo la Shell»
di M.Z.

La scissione. È questo lo spettro che aleggia sulla battaglia che si è aperta dentro Area Democratica. Il senatore Pd Lucio D’Ubaldo, uno degli estensori del documento del 75 non ci gira troppo intorno: «Il punto è che noi ex popolari abbiamo firmato il documento perché eravamo stufi di sentirci degli ospiti non del tutto desiderati nel Pd di Bersani». In realtà secondo molti franceschiniani il documento sarebbe un pretesto per creare le condizioni future di un’uscita «con giustificazione» dal Pd, partito secondo D’Ubaldo destinato a diventare «una sorta di vecchio Labour troppo schiacciato a sinistra», e a quel punto, conclude, «noi, come credo sia evidente non possiamo certo far parte di questa Cosa qui». Meglio lavorare ad una forza «neocentrista», progetto a cui guarderebbe con interesse Raffaele Bonanni, segretario Cisl e non solo lui, perché circolano anche i nomi di Arturo Parisi e Paolo Gentiloni.
«Ho come l’impressione se non ci fosse una reale intenzione di ricomporre la frattura», nota Ettore Rosato, franceschiniano, ambasciatore al lavoro in questi giorni nell’impresa arduadi rimettere insieme i cocci di Ad. Beppe Fioroni, dal canto suo continua a smentire, ma ormai il virus del sospetto si è insinuato. «Beppe ha un “piano b” in mente dice Antonello Giacomelli e D'Ubaldo lo esprime in modo ruvido ma schietto». Giacomelli fa due conti: «Tutti noi popolari eravamo al 4%, mi chiedo, loro da soli quanto valgono ora? Temo che dopo l'Api, arriverà la Shell». D’Ubaldi le definisce «maldestre insinuazioni», perché mai hanno pensato gli ex popolari ad andarsene, ma ieri proprio un ex popolare, di area Franceschini, rifletteva sulla partita che si è giocata intorno al documento dei 75. «Walter Veltroni molto presto si accorgerà che le sue motivazioni non sono le stesse di Fioroni, Beppe gli concederà la leadership della minoranza per una settimana e poi...». Grande amarezza anche nel quartier generale di Franco Marini, il padre nobile del Pd, sfidato da quello che un tempo non troppo lontano era il suo pupillo. Fioroni l’altra sera ha dettato la linea: non si va alla riunione indetta dagli ex segretari dell’ex Ppi, e così è stato. «Se Fioroni pensa che finirà qui si sbaglia», avvertono i mariniani. «La questione di fondo è che Fioroni, se il Pd dovesse fallire, si lascia una via di uscita; noi invece no. Al di là del Pd non abbiamo altre ipotesi politiche», ragiona ancora Giacomelli, perché, dice, «il disagio di cui parla Fioroni rispetto alla linea politica del partito è reale ma rispetto a questo ci si può atteggiare in due modi: o si fa la guerra giornaliera con il segretario, o si cerca un confronto più stretto, anche collaborando, cercando così di incidere. E spesso ci siamo pure riusciti».

il Fatto 23.9.10
Anche Bersani va alla guerra: oggi la conta delle truppe per sconfiggere Veltroni
di Wanda Marra

Un incontro casuale tanto gelido quanto rapido: ieri mattina a Montecitorio Pier Luigi Bersani e Walter Veltroni si sono “incrociati” per caso. E a tutti quelli che c’erano lo stato dei loro rapporti è apparso più che evidente: un saluto di circostanza poco più che accennato, e poi ognuno per la sua strada. Non molto diverso il faccia a faccia ufficiale del primo pomeriggio: 20 minuti e nessuna soluzione. Un confronto teso, durante il quale il segretario avrebbe confermato di ritenere sbagliato nei tempi e nei modi il documento, rinviando però ogni conclusione alla riunione di oggi in direzione. E Veltroni, a sua volta, sarebbe rimasto sulle proprie posizioni. L’esito più probabile di questa settimana di attacchi e difese, di battaglie a colpi di documenti e di lettere, sarà stamattina in direzione, dunque, il voto sulla relazione del segretario. Un voto che è in teoria ancora in forse, ma che alla fine ci sarà. Intanto, il Pd sembra sempre più assorbito in una guerra di nervi e di logoramenti. Vertici, riunioni, assemblee sono andate avanti per tutto il giorno. Nella migliore seppur breve tradizione del partito, in questo momento al centro dell’attenzione c’è la spaccatura di Area Democratica, la minoranza che fa capo a Veltroni e Franceschini. I due sono su posizioni molto diverse. Se l’ex Sindaco di Roma va più o meno esplicitamente allo scontro, appoggiandosi su Fioroni, il suo ex delfino insieme a Marini è per un riavvicinamento alla maggioranza del parto. E per una “gestione unitaria del partito”. “Siamo per stipulare un patto politico spiega Francesco Saverio Garofoli sempre se il segretario accetta in parte le ragioni della minoranza”. Per questo, Franceschini vuole un voto “per fare chiarezza” (mentre i veltroniani lo accusano di avere semplicemente paura di vedersi sottratta la leadershio della minoranza). Come lo vuole la Bindi, per smontare quella che a molti sembra la “fuffa” dei 75. A non volere un voto sono proprio i veltroniani, evidentemente non intenzionati ad andare alla conta: vorrebbero incassare qualche apertura sulle loro richieste e continuare. Di mirabile poca chiarezza le parole di Verini: la direzione “apra e non chiuda il dibattito. Può esserci anche un voto. Non è reato. Ma almeno dopo che si sia discusso”. In questi giorni, intanto, Bersani non ha nascosto la sua rabbia e il suo fastidio rispetto al documento. Ora si tratta di capire quanto sarà duro oggi. Se è certo che ribadirà la sua lettura negativa, è difficile però che andrà esplicitamente alla rottura. Tutto sta a vedere come reagiranno i 75 firmatari, allora. Un eventuale voto negativo potrebbe facilmente essere letto come un preludio alla scissione (“Si sono molto consumate le ragioni per restare”, ha detto in un intervento a Europa Antonello Soro, che pur non essendo tra i firmatari è molto critico rispetto al Pd).
E nella guerra degli epistolari, arriva anche Monica Cirinnà, consigliera comunale, ex delegata per la Giunta Veltroni ai diritti degli Animali. Che proprio a lui si rivolge con una durezza inedita: “Dopo sette anni da Sindaco, hai lasciato Roma e i romani alla destra, nel ridicolo tentativo di riconsegnarla a Rutelli. Per diventare candidato premier hai vinto le primarie, ma dopo aver perso le elezioni politiche sei rimasto saldamente al tuo posto, pur avendo detto che avresti chiuso con la politica per dedicarti alla scrittura e all’Africa. E poi, di fronte alla durezza della complessità delle grandi responsabilità politiche, ancora una volta hai deciso di sbattere la porta e andartene”. Poi, un appello: “Smettetela tu e i 75 di “mettere in giro veleni inutili”; hai reso a Bersani i calci negli stinchi che avevi ricevuto da segretario”.

Repubblica 23.9.10
Bersani-Veltroni alla battaglia sulla
Oggi la direzione del Pd. L´ex segretario: se si vota, tagliate fuori una parte di noi
di Giovanna Casadio

Areadem con il segretario. D´Antoni verso un incarico da "numero tre" del partito

ROMA Bersani non arretra sul Nuovo Ulivo e la strategia delle alleanze; Veltroni neppure, e giudica il Pd un partito in sofferenza e senza appeal. È servito a poco l´incontro tra il leader dei Democratici e l´ex segretario alla vigilia della direzione oggi del partito. Venti minuti in cui Bersani ha tenuto il punto: il documento Veltroni-Gentiloni-Fioroni, sottoscritto da 75 parlamentari, «è stato uno sbaglio». Veltroni ha insistito: «È un contributo utile, non ha mai voluto essere una conta e poi discussione e unità non si escludono». Alla fine del faccia a faccia, Bersani si limita a dire: «Parlerò in direzione». L´intenzione del segretario è quella di mettere ai voti la relazione, come d´altra parte hanno chiesto Dario Franceschini e Franco Marini, ex Ppi e leader della minoranza Areadem. «Non siamo un club di signore...», scherzano i franceschiniani. «Ci vuole chiarezza», insiste Marini. E Rosy Bindi, presidente del partito, osserva: «Se è normale discutere è normale votare. Io poi confido nelle capacità inclusive del segretario». Anche se, fino all´ultimo, Bersani ironizza: «Si vota? Chi vivrà vedrà. In direzione avremo la rotta, la bussola», quella che per il "movimento" dei 75 il Pd avrebbe perso.
La direzione si annuncia quindi come una resa dei conti che riscriverà gli equilibri interni dei Democratici. I "pontieri" in azione non sembrano portare a risultati. La giornata del Pd ieri è una sequenza di incontri. In mattinata, c´è quello tra Franceschini, Marini, Fassino e Zanda. Alle 14, nella sede del partito, confronto tra Bersani e Veltroni. Quindi colloqui (tra Franceschini e Bersani), la pre-riunione dei "75" in vista dell´assemblea di Areadem alle 20,30. Qui la minoranza è spaccata. Franceschini ribadisce che è il tempo dell´unità: «Con i problemi che ci sono nel paese e i rischi che corre quotidianamente la democrazia, questo è il momento di tenere il Pd il più possibile unito e non dividerlo. Proporrò ad Areadem che, a partire dalla direzione, si faccia un passo verso una maggiore unitarietà e collegialità». Critica il documento che «ha avuto effetti dirompenti e ha danneggiato il partito». Note stonate per "i 75": il requiem della minoranza. Beppe Fioroni tranciante: «Ormai Areadem è entrata in maggioranza. Franceschini e gli altri hanno fatto un´inversione a 360 gradi».
L´unità ritrovata escludendo il "movimento" di Veltroni sarebbe sancita anche dall´incarico di segretario organizzativo a Sergio D´Antoni, che diventerebbe il numero tre del Pd. E Franceschini a Bersani avrebbe garantito un sì alla relazione del segretario, ad alcune condizioni. Walter Verini, veltroniano, invita a più miti consigli: «Se si vota prima ancora di discutere è un passo di chiusura, è evidente che bisogna rafforzare l´impegno unitario ma il nostro documento resta». Pesante il giudizio su Areadem se «viene meno al suo compito».
Franceschini nella riunione serale difende la sua strategia. Veltroni replica senza forzare i toni: «In direzione si deciderà se questo è un partito che include o se esclude una parte. Si smetta con gli anatemi, accusandoci di avere fatto un regalo a Berlusconi, ma si consideri il documento un elemento utile ad aprire un dibattito nel Pd in un momento di difficoltà». Discussione accesa, con Marini, Damiano, Giacomelli e Sereni che aprono il fuoco di fila anti-movimentisti. Il segretario Bersani torna sulla questione delle alleanze parlando alla festa della Federazione della sinistra: «Non prendiamo reciprocamente l´impegno di dar vita a una alleanza di governo dice perché abbiamo prospettive diverse. Però nulla impedisce che possa esserci un dialogo su temi importanti come la riforma elettorale». Del resto è il ragionamento del leader Pd se arriviamo alle elezioni anticipate allora vuole dire che al voto ci porta Berlusconi e che rilancerà: «Metterà in campo più "ghe pensi mi", più potere, servirà un presidio forte. Dobbiamo trovare delle chiavi comuni per un larghissimo fronte».

Corriere della Sera 23.9.10
Il dilemma del leader su una sfida che rischia di spaccare il partito
di Maria Teresa Meli

ROMA — Nell’incontro con Bersani Veltroni è andato subito al sodo: «Far votare la tua relazione sarebbe un errore. Diventeresti segretario di una parte e non più di tutto il Pd, ti chiuderesti in un recinto, e il partito si dividerebbe, pensaci». E il segretario ha promesso: «Ci penserò». Si sono lasciati così, senza una parola o una decisione definitiva. Ora il pallino è nelle mani del leader. Come ha detto anche D’Alema: «Io sono contrario alle drammatizzazioni e penso che occorra agire con prudenza, ma il segretario è Pier Luigi, faccia lui». Fosse facile.
Bersani è alle prese con un dilemma. Sentimenti e risentimenti lo spingono ad arrivare fino al voto. I suoi consiglieri gli suggeriscono questa strada. I cosiddetti «giovani turchi», il gruppo di quarantenni che si è schierato al suo fianco, spingono per questa soluzione. Rosy Bindi, che non sa decidere se sia Veltroni o Fioroni l’avversario interno da abbattere, vuole andare alla conta. Franco Marini è scatenato. E con lui Franceschini. Sono pronti a votare per Bersani, certificando la morte di Area Democratica e il passaggio in maggioranza. Il loro bersaglio è Fioroni, ancora più di Veltroni. Vogliono riprendersi quegli ex ppi che il responsabile del Welfare ha loro sottratto, soprattutto nei territori. E contano di farlo grazie all’appoggio del leader. Se il segretario nominerà Sergio D’Antoni responsabile Enti Locali, e se favorirà i transfughi della minoranza a metà ottobre, quando si tratterà di eleggere i segretari provinciali, allora Marini e Franceschini potranno cercare di espugnare le «roccaforti» di Fioroni in giro per l’Italia.
Fin qui, però, si parla solo di quel che potrebbero guadagnare gli ex ppi che hanno abbandonato Veltroni. Ma Bersani? Qual è il guadagno del segretario? Ed è questo il dilemma del leader del Pd. Spingendo il confronto fino alle estreme conseguenze, otterrà un allargamento della sua maggioranza e l’isolamento di Veltroni. Rinunciando al voto, invece, lo sconfitto e l’isolato sarà Franceschini. Ma il gioco vale la candela? Perché assieme ai pro ci sono i contro. Innanzitutto il leader non sa quante siano le truppe che Franceschini e Marini sono in grado di portargli in dote. Non sono molti i parlamentari che fanno capo a loro e che hanno voti. Ce li ha D’Antoni, ma non ce li hanno, per esempio, i tanti collaboratori di Franceschini che sono stati eletti in Parlamento. E ancora: conviene veramente isolare Veltroni, che, comunque, al di fuori del partito, in un certo mondo del centrosinistra, ha ancora un certo appeal? Tanto più che neanche la minoranza che fa capo a Ignazio Marino è disposta a votare a favore di Bersani. Ultima domanda: è opportuno dividere il Pd, e, magari, provocare una scissione, quando potrebbero esserci le elezioni già a marzo? «Oggi si decide se il Pd è un partito che include o che esclude», è il monito di Veltroni. E il segretario ci sta pensando.


il Fatto 23.9.10
“La mia armonia tra arte e politica: scelgo Vendola”
Il canto della Mannoia “per un paese migliore”
di Sandra Amurri

“Il Tempo e l’Armonia” è il nuovo cd di Fiorella Mannoia. “La musica è tempo e armonia”. La incontriamo a Taranto al termine del tour acustico iniziato quest’inverno, in cui ha abbandonato i suoni preregistrati, le tastiere, le macchine, per accogliere strumenti acustici veri (il pianoforte, un quartetto d’archi la chitarra acustica) e avere la libertà di seguire l’ispirazione del momento. “Volevo, con i musicisti, ritrovare il piacere di suonare insieme. Oggi puoi inviare un brano via Internet e avere la partecipazione di un artista che si trova dall'altra parte del mondo senza mai averlo incontrato. Tutto questo da una parte è meraviglioso, ma la velocità rischia di togliere l’anima alla musica, quindi penso che non bisognerebbe abusarne”. Jeans, canotta e scarpe da tennis, il viso che il tempo non ha sciupato, protetto dalla sua folta cascata di capelli rossi, Fiorella parla di sé, dell’amore, della ricerca dell’armonia e di politica. Perché “tutto è politica, senza non si vive”. Una stretta di mano e senti che quell’artista di cui conosci le canzoni a memoria ti rappresenta anche come persona. Il successo di quella voce che canta e recita la forza delle donne, gli amori, i sogni, le speranze e l’indignazione è figlia della normalità di cui questo Paese ha tanto bisogno. Poi la ascolti dal palco e vieni inondato dal profumo delle emozioni. Il suo rapporto con il pubblico è corporeo. Osservi il suo pubblico e ti accorgi che chi la segue la rispetta come persona ancor prima che come artista, percepisce l’onestà di una donna che non si è mai venduta, di una donna libera, di un’artista non legata a vincoli promozionali e non schiava del successo che dice la sua mettendoci faccia e cuore. Seduto con la mamma in prima fila Nichi Vendola. Lo sguardo di Fiorella si posa sul suo e si perde in un mare di applausi quando dal palco dice: “Non si capisce più chi sta con chi e chi contro chi ,quelli di sinistra parlano come fossero di destra quelli di destra come fossero di sinistra, spero che qualcuno ci aiuti a venire fuori da questa crisi economica, etica, morale, culturale”. Uno dei possibili candidati alle primarie come futuro premier ad ascoltarti. Te l’aspettavi? Siete amici?
L’ho incontrato una sola volta in aereo. Quando lessi in un’intervista che si autodefiniva “una delle persone più belle che conosco”. Ho pensato: “O è pazzo o è sincero”. Nel tempo, ho capito che diceva la verità. Mi piace la delicatezza con cui parla di sé. Sa risvegliare la passione politica, la voglia di lottare, di sperare e sa togliere la polvere dai nostri cuori. Sono stanca di votare contro, vorrei votare per chi sa opporre parole, a cui seguono decisioni, per chi abbia un programma semplice e chiaro. Spero che Vendola si candidi alle primarie per poter scegliere. Ti sei accorta che mentre cantavi “Ho imparato a sognare” e la “Storia siamo noi”, Vendola si commuoveva? Sì, ho colto la sua timidezza il suo pudore che non conoscevo.
Non temi esprimendo opinioni politiche di perdere una parte di pubblico?
Quando prendi posizioni chiare rischi che qualcuno non le condivida, lo metti in conto, ma non ho mai pensato che l'arte sia staccata dalla politica.
Mentre cantavi “Se veramente Dio esisti”, una struggente preghiera, mi sono chiesta se eri credente.
Sono agnostica, ma sento di avere una grande spiritualità. In un’epoca in cui assistiamo ad una rincorsa al Dio migliore come fosse una squadra di calcio da tifare. Penso che se smettessimo di dare un nome alla nostra fede l'umanità vivrebbe meglio e da "lassù", se esiste, qualcuno sarebbe più contento di noi. Non prego quasi mai, piuttosto ringrazio molto per la salute che ho, per questa fortuna che ho costruito sì con le mie forze ma che è pur sempre un privilegio. E cerco di non dimenticarlo, mai. Tutte le canzoni che scegli di cantare trasudano di amore e umanità... Amore è compassione, è gioire della felicità del tuo uomo, della tua amica, dell'altro, anche se di quella felicità non sei parte. Sono alla costante ricerca di umanità. Non è un caso che io sia stata catturata da Salvador de Bahia, una città che mi assomiglia. Baia è femmina, è la madre terra, è un misto di follia, di contrasti forti che ti uccidono e ti risuscitano nello stesso istante, è allegria disperata, è passione e molto altro ancora. È il luogo dove un giorno mi piacerebbe vivere.
Stai pensando di fuggire dall’Italia? AmoilmioPaeseemifa male vederlo ridotto così. I giovani senza futuro, la ricerca morta, la scuola distrutta. Un sindaco che tappezza la scuola pubblica con i simboli della Lega. Come si fa a restare indifferenti di fronte a un governo che accoglie a braccia aperte il dittatore Gheddafi, che arriva con il suo circo equestre che vuole convertire le donne con il Corano in mano? La volgarità e la disonestà sono sempre esistite, ma ora assistiamo alla loro legittimazione allo sdoganamento dell’illegalità, all’informazione padronale. È anche per questo che sono abbonata a Il Fatto. Lunga vita a chi difende la libertà quotidianamente.

l’Unità 23.9.10
Gli indecenti
Un Paese senza legge
di Loretta Napoleoni

Oltralpe sono in molti a pensare che in Italia la legge non sia più uguale per tutti. Ieri ne abbiamo avuto l’ennesima conferma. Il Parlamento ha respinto la richiesta di autorizzazione all’uso di intercettazioni nei confronti di Nicola Cosentino, l’ex sottosegretario indagato per presunti rapporti con il clan dei Casalesi. L’applauso che ha accolto i risultati della votazione sembrava celebrare l’ennesima vittoria dei politici sui poteri giudiziari, ormai identificati da una buona fetta dei parlamentari come il «nemico».
L’ostilità tra esecutivo e magistratura fornisce anche una possibile chiave di interpretazione del giallo della votazione. Al conteggio finale dei sì mancavano una quindicina di voti, presumibilmente finiti tra i no. Qualcuno che non doveva si è schierato con il Popolo della libertà. Diserzioni importanti poiché questo governo è appeso ad una corda sfilacciata, che può cedere in qualsiasi momento. Ma è chiaro che ciò non avverrà mai su una questione come le intercettazioni dei parlamentari. C’era infatti d’aspettarsi che su questo voto la fedeltà al proprio partito e leader contava ben poco poiché votando no si proteggevano i propri interessi.
Legislazioni, votazioni e prassi ad personam sono ormai la manifestazione di quello che europei ed americani definiscono contaminazione Italia: come il Bel Paese si sta trasformando nel regno dell’illegalità. E mentre l’illecito prende piede nella quotidianità, confinando fette sempre più sostanziose della nostra economia nel sommerso, le critiche degli stranieri sono concentrate sulla gestione delle istituzioni dello Stato e sul dilagare dell’attività del crimine organizzato.
La presunta attività di riciclaggio all’interno dello IOR, che ha portato al sequestro di 23 milioni di euro, ha riempito le prime pagine dei maggiori quotidiani stranieri. Una singolare triangolazione bancaria trasferiva denaro dai conti dello IOR accesi presso il Credito Artigiano a beneficiari sconosciuti presso la JP Morgan di Francoforte e presso la Banca del Fucino. Nelle sale cambi del villaggio globale e nelle banche centrali occidentali l’idea del «riciclaggio in confessionale» fa tremare molti, specialmente a chi ha intrattenuto attività professionali con lo IOR, cioè la maggioranza delle banche e delle finanziarie internazionali.
All’estero ci si chiede come sia possibile che il braccio bancario del Vaticano continui a seguire una prassi da paradiso fiscale, autorizzando pagamenti su conti cifrati, un’attività che va contro la regola d’oro bancaria: «conosci il tuo cliente», imposta a tutte, ma proprio tutte, le banche occidentali. Ancora più incomprensibile è il comportamento della Banca d’Italia, l’organo di vigilanza, che non ha bloccato questa prassi prima che lo facesse la magistratura. Perché allo IOR si riserva un trattamento con i guanti bianchi mentre trasferimenti analoghi su conti cifrati da parte di qualsiasi altra banca italiana avrebbero provocato come minimo sanzioni salatissime?
Due pesi e due misure è il mantra che sale dal nostro paese. E spesso chi ci guadagna è il crimine organizzato la cui attività si intromette tra le maglie ormai recise dell’uguaglianza della legge. A Gioia Tauro approda una nave battente bandiera liberiana carica di esplosivo, sette tonnellate di T4, la stessa sostanza usata nell’attentato a Falcone e a Borsellino, abbastanza per far saltare in aria tutto il porto. Pare che provenga dall’Iran e sia destinata alla Siria. Transita a Gioia Tauro insieme ai seimila container che entrano ed escono quotidianamente dal porto più trafficato del Mediterraneo.
Non è la prima volta che soffiate ed intercettazioni allertano le autorità portuali, l’antidroga e l’antiterrorismo; controllare ogni giorno anche una frazione infinitesimale di seimila container è fisicamente impossibile. La scoperta di grosse partite d’armi e di cocaina a Gioia Tauro in transito o destinate alle ‘ndrine hanno infatti fatto il giro del mondo più volte. Chi vive all’estero si domanda come mai queste scoperte non avvengano anche a Barcellona o a Istanbul. Perché il crimine internazionale predilige questo porto calabrese lontano da qualsiasi grosso centro commerciale? E la risposta più logica che finoadorasiètrovataèchea Gioia Tauro è più facile farla franca.

l’Unità 23.9.10
Teresa Lewis
Virginia, a morte una disabile. I giudici non fermano il boia
Salvo sorprese dell’ultima ora, Teresa Lewis, condannata per l’omicido del marito e del figliastro, sarà messa a morte stanotte in Virginia. Di lei Ahmadiejad ha detto: il suo caso è uguale a quello di Sakineh.
di GA.B.

La strumentale e provocatoria accusa rivolta agli Stati Uniti dal presidente iraniano Ahmadinejad, paragonando la vicenda di Teresa Lewis a quella di Sakineh Ashtiani, non ha salvato la vita alla detenuta americana. Anziché
essere messa a morte nel silenzio generale, Teresa riceverà oggi un’iniezione letale di veleno, mentre il mondo intero discute il suo caso. Solo questo è cambiato per la donna che nel 2002 uccise marito e figliastro per incassarne l’assicurazione sulla vita.
POCHE SPERANZE
Ieri notte erano rimaste infatti ormai poche speranze in un rinvio dell’esecuzione, dopo il rifiuto della Corte Suprema a concedere la grazia. Salvo clamorose sorprese dell’ultimo minuto, il boia si metterà all’opera stasera nel carcere di Troy, in Virginia, dove Teresa Lewis è rinchiusa da sette anni. Gli unici a sperare ancora nel miracolo sono i promotori della campagna che viene condotta sul sito online «saveteresalewis.org», che continuano ad insistere per strappare un ripensamento al governatore della Virginia, Bob McDonnell. Questi ha però già una volta respinto la domanda di grazia, e dopo il pronunciamento della Corte Suprema è molto difficile che possa fare marcia indietro. La Corte ha deciso a larga maggioranza. Di nove membri, solo due, Sonya Sotomayor e Ruth Bader Gonsburg, entrambe donne, hanno accolto la richiesta di salvare la Lewis dal patibolo. A nulla sono valse le argomentazioni di coloro che indicano nella disabilità mentale dell’imputata una valida attenuante della sua comunque acclarata colpevolezza.
ENTRANO I SICARI
La vicenda è atroce. La sera del 30 ottobre 2002 la donna lasciò aperta la porta di casa, consentendo a due sicari di entrare e uccidere a colpi di pistola sia il marito sia il ragazzo che quest’ultimo aveva avuto da un precedente matrimonio. Uno degli assassini, Matthew Shallenberger, era l’amante di Teresa.
Fu quest’ultimo a raccontare successivamente, durante il processo di appello, di essere stato lui a trascinare la donna nella trama criminale, promettendole che, una volta ereditata la casa del marito e incassati i soldi dell’assicurazione, avrebbe vissuto assieme a lui per il resto dei suoi giorni.
Shallenberger aveva 21 anni quando conobbe Teresa Lewis, che all’epoca ne aveva 33. In tribunale il giovane raccontò di avere circuito la poveretta: «Era una donna brutta e scema, che aveva spostato un uomo solo per i soldi». Stavo cercando, confessò, proprio una così, da potere «convincere facilmente a fare per me tutto ciò che volevo».
Ma i giudici non accettarono quelle dichiarazioni, e sia in primo che in secondo grado condannarono la Lewis come mandante. Shallenberger, che assieme all’altro esecutore materiale del delitto era stato condannato all’ergastolo, nell’intervallo di tempo fra l’una e l’altra sentenza si suicidò.
RIBALTAMENTO DI POSIZIONI
La storia di Teresa Lewis è stata abilmente sfruttata dal leader di Teheran per distogliere l’attenzione mediatica dal caso di Sakineh, condannata a morte in Iran per adulterio ed omicidio. La campagna internazionale contro la lapidazione di Sakineh ha messo in imbarazzo le autorità della Repubblica islamica, che rimandano ora al mittente l’accusa di violare i diritti umani. Non potete dare lezioni a noi, voi americani che a casa vostra vi comportate esattamente nello stesso modo. Questo il senso delle dichiarazioni rese negli ultimi giorni da Ahmadinejad.

Repubblica 23.9.10
I Rom e l’Europa meticcia
L´Europa meticcia non può rifiutare i rom
di Jacques Le Goff

La direttiva del governo francese riguardo alle espulsioni era concepita in modo inammissibile: mettendo l´accento sull´identità dei rom risultava un´operazione discriminatoria e, al limite, razzista. Certo, la vicepresidente della commissione europea Viviane Reding, comparando la misura ai provvedimenti tedeschi durante la seconda guerra mondiale, ha evidentemente esagerato.
Ora, al di là delle reciproche scuse, è chiaro che in Europa esiste un problema e una questione dei rom.
È mia convinzione che questo problema debba essere regolato attraverso una politica specifica concordata in sede europea. Occorre varare un regolamento al cui rispetto siano tenuti tutti i paesi dell´Unione, al di là del fatto che il numero dei rom sia diverso in ciascun paese e che i governi europei oggi siano divisi tra quelli che hanno un atteggiamento piuttosto accogliente e quelli invece (come l´italiano) che sembrano porsi in maniera tendenzialmente ostile.
Penso che la cosa più importante da fare oggi sia aprire un confronto tra i rappresentanti di tre diverse parti: le diverse comunità rom, i governi nazionali e l´Unione europea.
Un tavolo di dialogo dovrebbe individuare, prima di tutto, dei luoghi deputati all´insediamento delle diverse comunità rom. Luoghi che i governi devono far rispettare ma che devono rispettare anche le stesse comunità rom. C´è comunque nella storia una tendenza dei rom a installarsi e rimanere in luoghi specifici.Il problema è reso più acuto dal fatto che i paesi europei dove i rom sono più numerosi - in particolare la Romania - sono anche quelli in cui la disoccupazione è più alta. Per questo credo che nei colloqui si dovrebbe affrontare anche il tema dell´occupazione.
Oggi l´attrito tra rom e gruppi di cittadini europei nasce da diverse questioni ancora insolute: una di queste è la resistenza di alcuni rom a far frequentare le scuole pubbliche nazionali ai propri figli. Io sono favorevole alla maggiore integrazione possibile dei rom nelle culture dei diversi paesi in cui risiedono, ma credo anche che potremo lasciare loro il compito di organizzare essi stessi l´educazione dei loro figli, a condizione che funzionari pubblici di diversi paesi possano sovrintendere al rispetto di alcune regole fissate di comune accordo. Dunque lascerei ai rom libertà nella scelta dei docenti degli orari e dei metodi dell´insegnamento ma con l´impegno che questo stesso insegnamento sia oggetto di una verifica da parte degli stati nazionali. Anche nel settore della sanità e della salute occorre cercare un compromesso tra la libertà dei rom di dove e come farsi curare e la verifica che queste cure siano effettivamente svolte.
Come storico credo che una progressiva realizzazione di una sempre più forte unione europea sia la strada giusta per risolvere il problema. Per riprendere un espressione di Jacques Delors il nostro spazio politico ha scelto di costruirsi come «Europa delle nazioni». E i rom si possono considerare a tutti gli effetti una nazione. Ecco perché credo che almeno una parte importante delle regole che si applicano alle nazioni europee potrebbero essere applicate ai rom. Tenendo conto che l´Europa è un insieme di diversità, anche se con forti somiglianze tra diversi paesi che la compongono.
Insomma, mi pare che l´essenziale sia la voglia di pervenire ad un accordo che non può che essere un compromesso, frutto di un dialogo. Naturalmente c´è un problema linguistico: i rom parlano sia lingue specifiche sia la lingua del paese in cui risiedono, dunque la loro nazione non si distingue per un´unica lingua. Ma questo è un problema che esiste anche altrove in Europa e anch´esso può trovare una ragionevole soluzione.
Come storico credo che ciò che ha contraddistinto l´esperienza millenaria dell´Europa siano stati il meticciato, la mescolanza delle culture e la loro progressiva integrazione.
L´Europa è nata dalla fusione tra i popoli cosiddetti romani o gallo romani o ispano romani (cioè quelli che diedero luogo a una prima integrazione) e i cosiddetti «barbari», una parola oggi bandita dagli storici. Oggi fortunatamente non disprezziamo più chi non pratichi una cultura cosiddetta superiore: gli storici e tutti coloro che hanno influenza sulla società dovrebbero mostrare come la caratteristica tipica dell´Europa sia proprio la sua capacità di integrazione nel rispetto delle diversità: una strada difficile ma possibile.
Certo, le difficoltà di accogliere gli stranieri che si manifestano oggi in Europa nascono anche dal fatto che negli ultimi anni il numero di immigrati è cresciuto. Ma non dovremmo dimenticarci che nel periodo dell´antichità tardiva o del Medioevo le cifre relative ai cosiddetti barbari, celti, germani o slavi che si spostarono sul territorio europeo erano assai più grandi. A quell´epoca l´integrazione più importante fu quella provocata dalla cristianizzazione. Oggi la religione di per sé non può essere lo strumento principale di integrazione. Serve un progetto culturale comune nello spazio europeo: un progetto scientifico ma anche educativo. E poi è necessario lavorare anche sul regime politico: la forza dell´Europa è anche quella di essere composta da stati che con tutti i loro limiti sono tutti democrazie. La sinistra in particolare deve saper rispondere con maggior forza alla destra su questo tema. Il suo limite oggi è che purtroppo non riesce a combinare la giusta ostilità alle cattive politiche di discriminazione con un´alternativa efficace, capace di offrire soluzioni di ricambio concrete percorribili. Forse la nozione più falsa e pericolosa veicolata dal nazismo è proprio quella della purezza etnica. C´è bisogno oggi di un grande progetto capace di rifarsi proprio all´originalità dell´esperienza storica europea, capace cioè di ritrovare l´ingrediente storico della sua forza: il suo multiculturalismo, la sua abitudine al meticciato. Il presidente della repubblica francese - per fare solo un esempio - dovrebbe ricordarsi di essere ungherese.
Intervento raccolto da Giuseppe Laterza e pubblicato su www. laterza. it, il sito web della casa editrice da oggi rinnovato nei contenuti

Repubblica 23.9.10
Libertà individuale, l’ossessione dell’America
di David Brooks

Nel suo nuovo libro Franzen dipinge una nazione di gente spiritualmente immatura e infelice. Molti personaggi hanno vite lasciate a metà
Ormai gli scrittori sono intrappolati e ignorano tutto ciò che potrebbe turbare il dogma della disperazione silenziosa

Pochissimi romanzi ormai danno voce a tesi chiare e provocatorie sullo stile di vita americano ma il nuovo libro di Jonathan Franzen, un´opera importante, che si intitola "Freedom´´, Libertà (in Italia uscirà a febbraio per Einaudi, ndt) di queste tesi ne esprime almeno due. Innanzitutto sostiene che la cultura americana è troppo ossessionata dalla libertà individuale. In secondo luogo, dipinge un´America popolata da gente infelice e spiritualmente immatura.
Molti dei suoi personaggi hanno vite lasciate a metà. C´è una donna "un tempo attiva nel movimento studentesco Sds a Madison e oggi attivissima nella frenesia per il Beaujolais nouveau´´. Ci sono persone che dedicano le proprie energie morali alla causa della gentrificazione responsabile.
Uno dei protagonisti è vittima di accessi di giusta collera quando gli automobilisti davanti a lui cambiano corsia senza mettere la freccia.
Il principale personaggio maschile, Walter, è buono, ma sprovveduto e di un´ingenuità patetica. Il suo rivale cattivo, Richard, è un uomo di mezza età che incide album rock dai titoli beffardi e per sbarcare il lunario fa lavori di carpenteria. Dovrebbe in teoria rappresentare il lato tosto, pericoloso della vita, ma la sua è una trasgressione all´acqua di rose.
Di Patty, la donna incapace di decidere tra i due, veniamo subito a sapere che non è in grado di esprimere giudizi morali. Investe ciò che resta dei suoi desideri nel tentativo programmatico di creare la famiglia e il focolare perfetti e nel momento in cui la vita domestica non regge il peso che lei le impone, precipita in un caos di pulsioni indistinte.
Nella recensione uscita su The Atlantic B. R. Myers, acuto ma troppo pungente, contesta a Franzen la volontà di "creare un mondo in cui non possa accadere nulla di importante". Critica il linguaggio colloquiale e adolescenziale talvolta utilizzato dall´autore per dar vita al suo mondo: "Non c´è sostanza nelle cose che ‘fanno schifo´, né pathos nell´essere ‘cotto´ di qualcun altro". Ne vien fuori, secondo Myers, "un monumento di 576 pagine all´insulsaggine".
Ma senza dubbio è questo lo scopo di Franzen. In alcune occasioni importanti paragona i suoi protagonisti a quelli di Guerra e Pace. Ovviamente tenta di evidenziare l´enorme differenza di spessore tra due gruppi. I personaggi di Tolstoj sono spiritualmente ambiziosi, alla spasmodica ricerca di una qualche verità universale che possa reggere lo scrutinio della loro intelligenza. I moderni personaggi di Franzen sono distratti e sprovveduti. Facile provare ammirazione nei confronti di Pierre e del principe Andrej. Impossibile guardare ammirati a Walter e Richard, anche se è possibile che suscitino empatia.
"Freedom" non è la storia di grandi spiriti alla ricerca di importanti verità. è il ritratto di un´America in cui le cose importanti, vere, fondamentali, sono andate distrutte o ricostruite e la gente va a tentoni, senza rendersi neppure conto di ciò che ha perso. "Freedom" ti risucchia con le sue osservazioni perspicaci e il respiro ambizioso. Scatenerà migliaia di dibattiti tra i lettori attorno agli stessi interrogativi: Il libro dice la verità? Davvero l´America è così come la dipinge?
La mia risposta, per quel che vale, è che "Freedom´´ è più rivelatore della cultura letteraria americana che dell´America in sé.
Molto tempo fa un autore sulle rive del lago Walden decise che gli appartenenti alla classe media americana visti dall´esterno possono sembrare felici e realizzati ma nell´intimo vivono una silenziosa disperazione. Questo messaggio fece presa (è lusinghiero per gli scrittori ed altri dissidenti) e da allora è la base della quasi totalità delle raffigurazioni dell´America di provincia e dei sobborghi. Stando alla letteratura americana non c´è gente felice nelle periferie urbane e certo non gente realizzata.
Ormai gli scrittori sono intrappolati nei confine di questa ortodossia. E persino autori del talento di Franzen descrivono come di prammatica vicini di casa maligni e casalinghe che ingoiano pillole, ma ignorano tutto ciò che potrebbe turbare il dogma della disperazione silenziosa. La religione è quasi inesistente. C´è pochissimo del mondo del lavoro e delle imprese. Sono assenti il patrimonio etnico, il servizio militare, l´innovazione tecnologica, la ricerca scientifica e qualunque elemento potenzialmente elevato e nobilitante.
Richard è un artista ma non vediamo il legame di impegno con l´arte. Patty è un´atleta ma non vediamo lo spirito di squadra che rappresenta il meglio dello sport. Il mondo politico è oggetto della peggior caricatura. Gli ambientalisti parlano come gli snob su cui ironizza Glenn Beck. I repubblicani come il prototipo dei guerrafondai di Michael Moore.
Le componenti serie della vita vengono sfrondate e i lettori devono chinarsi per abitare un mondo dai soffitti bassi. Tutti finiscono per sentirsi superiori ai personaggi di cui leggono (cosa sempre piacevole in una società notoriamente smaniosa di status), ma qualcosa manca.
Anche i critici sociali, da Thoreau ad Allan Bloom, ai membri della Sds autori del Manifesto di Port Huron definirono piatta la vita borghese, ma quanto meno tentarono di indurre i propri lettori ad aspirare a cose serie. "Freedom" è un libro brillante ma nonostante ciò intrappolato in un cul de sac intellettuale, il suo sguardo sulla vita americana è troppo feroce e manca di una visione alternativa di livello superiore.

© New York Times News Service/La Repubblica
(Traduzione di Emilia Benghi)

Repubblica 23.9.10
La banca di Dio
Da Marcinkus all'operazione trasparenza fino alle accuse di oggi. Viaggio nello Ior, il cuore della finanza (e dei misteri) del Vaticano
di Alberto Statera

Nel bunker dei conti cifrati si sono consumati gli scandali Sindona, Ambrosiano e Enimont fino al G8. Movimenti oscuri di miliardi che in passato hanno provocato un disastro etico e di immagine. Era partita l´operazione trasparenza ma è scattata l´inchiesta shock sul riciclaggio
Su quei 200 milioni transitati dall´ex Banca di Roma all´Istituto l´ispezione si arenò
Il moralizzatore iperliberista Gotti Tedeschi: per il Papa sarebbe degno del Nobel

Spesse nove metri, le mura del Torrione di Niccolò V, eretto nel 1453, rappresentarono il potente baluardo della cristianità contro i turchi. Nel terzo millennio, quel bunker protetto dalle guardie svizzere che svetta oltre la porta vaticana di Sant´Anna, sede dell´Istituto per le Opere di Religione denominato all´origine "Ad pias causas", è giudicato se non proprio il paradiso, il purgatorio dell´offshore, dei misteriosi conti cifrati, del riciclaggio di denaro di origine opaca, di operazioni bancarie che virano sul grigio, quando non sul nero dell´inferno.
Di quelle che insomma odorano da lontano di sterco del diavolo.
Il paradosso è che dopo secoli di diaboliche e impunite frequentazioni col maligno, sembra che il divino redde rationem giudiziario giunga proprio nel momento in cui decolla un tentativo di cristiana purificazione della finanza vaticana. Con papa Ratzinger, di cui gode la stima, e con gli altri plenipotenziari in tonaca, pare che il presidente dello Ior Ettore Gotti Tedeschi, il moralizzatore, fosse proprio sul punto di lanciare il suo progetto-trasparenza per restituire prestigio alle istituzioni pontificie travolte continuamente dagli scandali, quando i magistrati di Roma l´hanno indagato con l´ipotesi di riciclaggio.
Niente più conti correnti anonimi intitolati a beati e santi, niente più pseudonimi, schermi e triangolazioni occulte, come quelle che per decenni hanno visto transitare nel Torrione miliardi e miliardi di denari talvolta d´ignobile provenienza.
Queste le promesse del banchiere che da un anno si trova a maneggiare i segreti più imbarazzanti d´Oltretevere e non solo dell´ultimo mezzo secolo. Il tutto preceduto da un´inchiesta interna, segretissima, che deve aver affrontato momenti drammatici. Quando, per esempio, ha cercato di chiarire i movimenti di denaro sul conto di un ben noto cardinale, che ha dato in escandescenze. O quando si è imbattuta nei conti di Giulio Andreotti e del gentiluomo di Sua Santità Angelo Balducci, protagonista dello scandalo G8 e referente della cricca della Protezione Civile, che dimora a palazzo Chigi negli uffici di Gianni Letta e del suo factotum Luigi Bisignani, che lo fu anche del capo della Loggia P2 di Licio Gelli.
Quello stesso Bisignani che, ancora giovanetto quasi imberbe, recava decine di miliardi della madre di tutte le tangenti (di allora) targata Enimont oltre la porta di Sant´Anna. Ben altro rispetto al miliardo e mezzo di lire attinto da Letta stesso anni prima dai fondi neri dell´Iri.
Aveva uno speciale pass Bisignani. E probabilmente lo conserva ancora, perché chi accede allo Ior, spesso con pesanti borse foderate di banconote, deve essere conosciuto per passare il vaglio della guardia svizzera. Valicata una barriera vetrata a comando elettronico - come ha raccontato in un suo libro Giancarlo Galli, che dal precedente presidente dello Ior Angelo Caloia fu condotto in visita nel Torrione blindato - si spalanca un salone moderno, un ottagono con pareti altissime, che sembrano quasi il paradiso. Il paradiso dell´offshore. In questa banca non esistono assegni con la stampigliatura Ior, solo contanti, lingotti d´oro e transazioni estero su estero via bonifico, con un clic elettronico. Niente ricevute, niente carte inutili. Chi è adeguatamente presentato può entrare portando una valigia piena di dollari di qualunque provenienza e uscirne senza ricevuta, ma con la certezza che il suo denaro andrà dove deve andare senza lasciare tracce.
L´ingresso del paradiso vero è più riservata, come si conviene.
Solo gli intimi degli intimi possono attraversare il cortile di San Damaso, il cortile del Maggiordomo, e guadagnare il ballatoio dove giunge l´ascensore che cala dall´appartamento pontificio, dove, dietro a una porticina, c´è lo studio del presidente dello Ior. Gotti Tedeschi, che Sua Santità reputa degno del premio Nobel per l´economia, non ha che da salire in ascensore per spiegargli cos´è quest´ennesimo scandalo.
Se ieri sia salito su quell´ascensore verso il cielo Gotti ovviamente non lo dice neanche a sé stesso, ma l´alta gerarchia della Curia non ignora certo che da molto tempo la procura di Roma indaga su banche e banchette, come quella del Fucino fondata dai principi Torlonia, che ogni giorno scambiano operazioni per centinaia di milioni con lo Ior, considerato uno schermo dietro il quale quasi mai c´è una persona fisica o giuridica.
E soprattutto c´è la filiale 204 dell´ex Banca di Roma, oggi Unicredit, allocata in via della Conciliazione al confine con le Mura Leonine, meno di duecento metri da piazza San Pietro, dove in due anni sono transitati su un conto Ior quasi 200 milioni di euro. Conti sconosciuti, protetti e sospetti. Di cui sicuramente, a suo tempo, non ignorava l´esistenza Cesare Geronzi. Ammesso che ne fosse all´oscuro, di certo ne fu informato il suo uomo per i rapporti con il Vaticano Marco Simeon. Ma l´ispezione interna si arenò misteriosamente.
L´Istituto per le Opere di Religione, nato una prima volta nel 1887 sulla base di quanto stabilito dalla Commissione «Ad pias causas» costituita da Leone XIII, divenne una vera banca il 27 giugno 1942 con chirografo di Pio XII, prevedendo che a usufruirne fossero dicasteri del Vaticano, conferenze episcopali, arcidiocesi e diocesi, parrocchie, nunziature, ordini religiosi, preti e monache.
Non andò proprio così, quando si scoprì che sulla riva del Tevere albergava per gli amici e gli amici degli amici una banca onshore e al tempo stesso offshore, dove tutto si poteva nel maneggiare tanto denaro in dispregio delle regole. Nel mezzo secolo successivo e se non fino ad oggi fino a ieri, stando almeno al senso di umiliazione sincera manifestato dal presidente Gotti Tedeschi per l´inchiesta che lo coinvolge, è stata una teoria ininterrotta di scandali.
Sindona, l´omicidio Calvi, la stagione di Tangentopoli, con il giovane Bisignani che versò sul suo conto proteso verso il cielo 108 miliardi di lire in certificati del Tesoro, Gelli, il denaro riciclato dei corleonesi di Totò Riina, l´ex governatore Fazio, che scambiava i ratios patrimoniali con le massime morali di San Tommaso d´Aquino, Fiorani e le scalate dei furbetti del quartierino, persino lo scandalo del calcio, con Moggi che dello Ior sarebbe uno straricco correntista. E, per finire, la cricca dei gentiluomini di Sua Santità, gonfi di ricchezze da nascondere perché ingiustificabili.
Il tutto tra guerre interne che oltre il portone di bronzo raramente filtrarono nella loro tragica povertà terrena.
«Santità - scrisse Roberto Calvi a papa Wojtyla poco prima di essere ucciso sotto il ponte dei Frati neri a Londra - sono stato io ad addossarmi il pesante fardello degli errori nonché delle colpe commesse dagli attuali e precedenti rappresentanti dello Ior; sono stato io che, su preciso incarico dei Suoi autorevoli rappresentanti, ho disposto cospicui finanziamenti in favore di molti paesi e associazioni politico-religiose dell´Est e dell´Ovest; sono stato io in tutto il Centro-Sudamerica che ho coordinato la creazione di numerose entità bancarie, soprattutto allo scopo di contrastare la penetrazione e l´espandersi di ideologie filomarxiste; e sono io infine che oggi vengo tradito e abbandonato».
Il cardinale Paul Marcinkus, ex capo dello Ior oggi defunto, che fu uno degli autori del disastro etico e d´immagine che ha segnato tutta la storia dell´oro del Vaticano maneggiando nel modo più indegno lo sterco del diavolo, paradossalmente mai si deve essere sentito il Maligno in clergyman, visto che quasi come un epitaffio sulla sua tomba disse: «Il denaro? No, non si può dirigere la chiesa con le Avemaria».
Ecco, è proprio questo il tragico paradosso con cui deve confrontarsi con la sua coscienza nel Torrione il nuovo banchiere papale iperliberista che dice di vagheggiare la trasparenza.
a. staterarepubblica. it

Corriere della Sera 23.9.10
Tutti i movimenti sospetti sui conti dello Ior
di Fiorenza Sarzanini

La banca vaticana
Tre operazioni di accredito, due conti correnti estinti, un elenco di «soggetti» che hanno incassato assegni o ricevuto bonifici. Su questo si concentra l’indagine della Procura di Roma sui depositi aperti presso il Credito Artigiano di Roma e intestati allo Ior dopo il sequestro dei 23 milioni avvenuto due giorni fa. Perché, nonostante il blocco operativo deciso dai vertici dell’istituto di credito il 19 aprile scorso, due settimane fa il presidente Ettore Gotti Tedeschi e il direttore generale Paolo Cipriani hanno tentato di trasferire quel denaro in parte in Germania (20 milioni di euro presso la JP Morgan di Francoforte), in parte presso un altro conto (3 milioni presso una filiale della Banca del Fucino sempre nella capitale). E per questo sono accusati di violazione della normativa antiriciclaggio. I vertici dello Ior erano stati avvisati della necessità di mettersi in regola con la normativa che impone a tutte le banche extracomunitarie di comunicare le informazioni sulla propria clientela prima di effettuare qualsiasi operazione. Si tratta dei cosiddetti «obblighi rafforzati» che riguardano la fornitura di assegni, l’esecuzione di bonifici e le operazioni contanti. Avevano assicurato di avere attivato la procedura e di essere pronti a consegnare le informazioni richieste. Ma non è accaduto quanto promesso ed è intervenuta la magistratura.
La riunione riservata tra i vertici delle banche
È proprio il provvedimento firmato dal giudice per «sigillare» la somma a ricostruire le movimentazioni degli ultimi tre anni. Ma anche a rivelare che il 23 aprile scorso, dunque quattro giorni dopo la decisione di «congelare» il conto, ci fu «un incontro tra i vertici dello Ior e del Credito Artigiano i cui esiti però non sono noti» e di cui sarà adesso chiesto conto ai due indagati. Bisognerà infatti verificare come mai, nonostante l’impegno a mettersi in regola, i responsabili della banca vaticana abbiano eluso le richieste formali che invece secondo quanto previsto dalle legge dovevano essere soddisfatte sin dal gennaio scorso e in base a un decreto legislativo entrato in vigore nel 2007. Nell’attesa degli interrogatori, i pubblici ministeri stanno esaminando la documentazione finanziaria già acquisita.
Entrando nel dettaglio delle operazioni si scopre che quelle «censite come "Accrediti e incassi connessi a effetti" per un totale di 72 milioni e 440 mila euro corrispondono a tre distinte operazioni in avere effettuate il 17 marzo, il 17 giugno e il 16 settembre del 2009 rispettivamente da 22 milioni di euro circa la prima e 25 milioni di euro circa le altre due». Ed è a questo punto che si entra nel dettaglio rivelando come i 22 milioni provengono «dall’estinzione del conto 11231 acceso sempre presso il Credito Artigiano, che in contropartita viene censita impropriamente come "prelevamento con moduli di sportello”».
I controlli sui beneficiari di assegni e bonifici. Simile procedura viene seguita anche negli altri casi. Gli accertamenti condotti dal nucleo valutario della Guardia di Finanza hanno consentito di verificare come i due versamenti da 25 milioni «si riferiscono all’accredito per "estinzione di deposito" da ritenere verosimilmente remunerato presso il medesimo istituto (circostanza ancora da verificare nel dettaglio con la banca). Tali operazioni trovano contropartita in altrettante operazioni in dare di analogo importo».
I magistrati dovranno adesso accertare quali siano i reali motivi di questi "giroconto", ma soprattutto identificare i "soggetti" che hanno Indagine Il provvedimento del gip del Tribunale di Roma che vede indagati Ettore Gotti Tedeschi e Paolo Cipriani, rispettivamente presidente e direttore generale dello Ior. Sotto, alcuni dei movimenti che sono oggetto dell’inchiesta ricevuto bonifici o incassato assegni in modo da verificare la natura di questi rapporti. E dunque stabilire se le movimentazioni servissero in realtà a riciclare i soldi. E lo faranno partendo dall’analisi degli estratti conto già acquisiti. In base ai documenti è stato accertato che «al momento del blocco sul conto erano depositati 28 milioni e 300 mila euro, ma tra il 31 dicembre 2007 e il 30 novembre 2009 ci sono state movimentazioni nella colonna "dare" per 116 milioni e 300 mila euro e nella colonna "avere" per 117 milioni e 600 mila euro».
Le contestazioni di Bankitalia sul deposito Unicredit
L'esame di tutte queste operazioni deve partire, secondo il giudice, dalla relazione della Banca d'Italia che alla fine di un'ispezione effettuata «per approfondire il funzionamento di un conto corrente che risultava intestato allo Ior presso una dipendenza di Unicredit ha evidenziato alcune criticità e in particolare: il mancato rispetto degli obblighi di adeguata verifica della clientela, di norma non sono stati infatti individuati i titolari effettivi delle operazioni poste in essere dallo Ior; fino al 31 gennaio non risultano assolti gli obblighi di registrazione nell'archivio unico informatico delle operazioni di versamento di contante sul conto intestato allo Ior; in materia di negoziazione dei titoli di credito è stata riscontrata una prassi tendente ad escludere la tracciabilità dei fondi trasferiti oltre che violazioni alla legge sull'assegno».
Nella richiesta di sequestro del denaro che doveva essere trasferito dal Credito Artigiano i pubblici ministeri evidenziano come «la condotta dell’esecutore di un’operazione che omette di comunicare la generalità dei soggetti per conto dei quali eventualmente esegue l’operazione stessa o non fornisce informazioni sullo scopo e sulla natura prevista dal rapporto continuativo integra gli estremi di reato previsti dal decreto 231 del 2007, appunto quello sulle norme antiriciclaggio, dunque non può che concludersi, esclusa evidentemente ogni indagine ulteriore volta a verificare la natura e gli scopi delle operazioni di trasferimento di fondi, che allo stato nei fatti di cui si tratta si ravvisano le fattispecie di reato delineate». Una tesi che il giudice ha accolto con un provvedimento motivato che adesso costituisce la base per effettuare i nuovi accertamenti.


Repubblica 23.9.10
La confessione dell'autore in un nuovo libro-intervista con Tesio
Vassalli: i miei genitori sono stati dei mostri
di Massimo Novelli

"Mia madre mi detestava, mio padre, fascista di Salò, era senza arte né parte"

L´epigrafe della fine è la stessa dell´inizio, un verso di Cecco Angiolieri: «Io nacqui come fungo a´ tuoni e venti». La doppia citazione accompagna, assurge a morale e compendia il racconto che Sebastiano Vassalli fa di se stesso nella lunga conversazione avuta con il critico Giovanni Tesio, all´origine del libro Un nulla pieno di storie. Ricordi e considerazioni di un viaggiatore nel tempo (pubblicato da Interlinea, pagg. 148 euro 15, sarà presentato in anteprima domenica alla mostra dell´editoria del Castello di Belgioioso, Pavia). Strappatagli dopo tante richieste da Roberto Cicala e dagli amici della casa editrice di Novara, la città presente in molta parte della sua vita, l´autobiografia di questo scrittore, tra i maggiori e anche tra i più riservati, ne conferma la ricchezza umana e letteraria, la libertà intellettuale, la coerenza.
Giunto alla vigilia dei settant´anni, Vassalli ripercorre la sua esistenza, senza mai nascondersi o mascherarsi, a cominciare dalla travagliata e dolorosa infanzia in cui fu abbandonato dai genitori. Il padre ricomparirà nel suo bel romanzo L´oro del mondo: «Mio padre, che per dargli un nome chiamerò il Merda, era un uomo di trentatré anni, senza né arte né parte. (...) Non avrebbe voluto sposare la ragazza che aveva messo incinta, ma i fratelli di lei lo minacciarono e, in pratica, lo costrinsero. Alla fine i due scombinati si sposarono e mia madre, finché visse, mi attribuì la colpa e la responsabilità di quel matrimonio sbagliato. Se non fosse stato per me, e se io non mi fossi ostinato a rimanere dentro alla sua pancia, lei non avrebbe sposato il Merda!». Fascista di Salò, «il Merda», dopo la guerra, si separò dalla moglie, facendola passare per «una donna di malaffare, una puttana», e ottenne la tutela di Sebastiano, sistemato da due sue sorelle che lo tenevano come «in deposito», «perché altrimenti avrebbe dovuto pagare il mio mantenimento. Lui, invece, non voleva pagare niente». La mamma ne fu contenta, «credo che sia stata ben lieta di liberarsi in un solo colpo del suo matrimonio sbagliato e di chi era stata la causa, cioè di me».
Il racconto prosegue con la guerra, l´amore, il dramma della prima moglie; e continua declinandosi nel suo rapporto con Dio, con il paesaggio, la politica e con l´avanguardia, in particolare quella rappresentata dal Gruppo 63, che lo scrittore, memore della giovanile adesione, definisce «una non-avanguardia, un non-gruppo, un non-tutto-e-il-contrario-di-tutto». Molto meglio, allora, con il classico senno del poi, «la posizione di Giorgio Manganelli: che qualche anno dopo l´incontro di Fano (del Gruppo 63, ndr), nel teatro di Orvieto gridò a un gruppo di contestatori «la letteratura è merda, lo so, ma a me la merda piace!»». Vassalli si sofferma sulla riscoperta della parola e ragiona del carattere degli italiani, della mafia, dell´emergere prepotente del Paese sommerso illegale; fino all´inevitabile «signor B. «, Silvio Berlusconi ovviamente, «italiano vero», nei difetti, come nella canzone di Toto Cutugno: «Se non ci fosse stato lui, sarebbe arrivato un altro con un´altra iniziale, o forse addirittura con la stessa iniziale». Amarezze, disincanti, s´addensano, insieme ad altri ricordi a volte felici e al desiderio, non spento, di raccontare ancora delle storie. Proprio alla letteratura affida la speranza: «Sì, io credo nella letteratura. L´arte del racconto, come la grande poesia, non può morire. Omero non può morire». Vassalli, invece, vorrebbe che le sue ceneri «venissero sparse davanti alla casa dove ho vissuto i miei ultimi anni, nel piccolo bosco che ho piantato io stesso».

Repubblica 23.9.10
Per il "Madre" in arrivo un finanziamento. Ma intanto è a rischio il "Mambo" di Bologna
Venezia, congelata la nomina di Sgarbi
di D.P.

ROMA - Il museo Madre di Napoli non chiuderà. Almeno per ora. È allarme, invece, per il Mambo di Bologna. Intanto, a Venezia, Vittorio Sgarbi non è più soprintendente al polo museale. Dopo i rilievi della Corte dei Conti, la sua nomina è stata "congelata". Il ministero - ha fatto sapere la Uil beni culturali - affiderà l´interim ad Anna Maria Spiazzi, già responsabile del patrimonio storico-artistico del Veneto. «Vado in ferie per 15 giorni», ha detto ieri Sgarbi. «Aspetto che, recepite le direttive della Corte dei Conti, si possa procedere alla nomina a soprintendente di Venezia nella piena legittimità». Il critico "in ferie" oggi incontrerà gli assessori alla Cultura e i direttori delle accademie di Belle arti italiani per dare inizio alla sua attività di commissario per il Padiglione Italia della Biennale.
Ma quello dei beni culturali sembra un bollettino di guerra. A Napoli, il Madre, dopo il rischio di vedersi spenta la luce, torna a sperare. La Regione Campania ha sbloccato i primi 300 mila euro degli 8 milioni dovuti alla Fondazione Donnaregina che gestisce il museo d´arte contemporanea. Giusto in tempo per pagare i dipendenti e le bollette dell´Enel. «Ma la programmazione prevista per gli ultimi mesi del 2010 non potrà comunque essere garantita. Dall´1 ottobre riusciremo ad aprire solo dalle 10 alle 14», fanno sapere dal museo. E anche il Mambo è in affanno. Ha detto ieri Lorenzo Sassoli de Bianchi, presidente del museo d´arte moderna di Bologna: «Ci sono riserve solo per il prossimo anno, poi con i finanziamenti pubblici drasticamente ridotti, nel 2012 il museo non aprirà più. Il nostro budget è di un terzo rispetto ad altri musei come il nostro. Costa 3 milioni l´anno, ma il Comune di Bologna in due anni ha ridotto il contributo passando da 1 milione a 471 mila euro».

mercoledì 22 settembre 2010

l’Unità 21.9.10
Da Porta Pia ai nuovi banchieri di Dio
Le vie dello Ior sono infinite
di Nicola Tranfaglia

Lo Ior ritorna di attualità, e non a caso. Leggiamo la notizia battuta ieri dall’Ansa: «Ettore Gotti Tedeschi, presidente dell’Istituto Opere di Religione del Vaticano e un altro importante dirigente della stessa banca vaticana, sono indagati dalla Procura della Repubblica di Roma per violazione del decreto legislativo 231 del 2007 che è la normativa di attuazione della direttiva dell’Unione Europea sulla prevenzione del riciclaggio». È stato inoltre eseguito il sequestro preventivo di 23 milioni di euro (su 28 complessivi) dell’Istituto che si trovavano su un conto corrente aperto su un conto corrente aperto presso la sede romana del Credito Artigiano spa. Il sequestro, precisa la Procura di Roma, non è stato disposto perché esiste una prova di riciclaggio ma perché, secondo gli inquirenti, è stato già commesso il reato omissivo della norma antiriciclaggio.
Fin qui la cronaca. Ma se si va oltre si scopre subito che da due anni sono in corso accertamenti su una decina di istituti di credito che sono in rapporto con lo Ior e che scambiano operazioni tra loro e con l’Istituto di Religione Vaticano per centinaia di milioni di euro. E si apprende anche che controlli finanziari compiuti dalla Guardia di Finanza in questi ultimi anni si sono trovati di fronte alla difficoltà di identificare i beneficiari degli scambi o di verificare che quando la magistratura ha chiesto nomi e cognomi, ha verificato che quelli forniti non hanno retto alla verifica tanto da suscitare il sospetto che fossero fittizi e non corrispondenti alla realtà.
Ora, per chi ricorda i casi clamorosi che hanno portato alla luce della scena pubblica l’Istituto vaticano e hanno rivelato i rapporti che c’erano stati negli anni Ottanta con Michele Sindona, Roberto Calvi e con la P2 e che si erano conclusi con la messa fuori legge della loggia di Licio Gelli e l’inchiesta parlamentare voluta dal governo Spadolini terminata con relazioni di maggioranza e di minoranza, diverse tra loro ma tutte persuase dell’illiceità delle operazioni condotte dai “banchieri di Dio”, si guarda con un certo timore a quello che sta emergendo dalla nuova inchiesta giudiziaria.
Tutto questo avviene dopo la grottesca cerimonia di domenica per i 140 anni della breccia di Porta Pia che ha visto protagonista il cardinal Bertone, segretario di Stato vaticano e grande amico del presidente dello Ior Gotti Tedeschi. Una cerimonia grottesca perché, in nome di una ennesima riconciliazione tra lo Stato e la Chiesa, si è dimenticato il significato storico della conquista di Roma da parte dello Stato liberale per farne la capitale proprio in opposizione a quel potere temporale dei Papi che sembra proprio ora essere risorto nell’Italia governata da Silvio Berlusconi e dal suo populismo autoritario.

il Fatto 21.9.10
I Pm indagano sui conti Ior
È la prima volta
Maxi-sequestro di 23 milioni di euro per mancato rispetto
della normativa anti-riciclaggio
Il presidente della banca del Papa, Gotti Tedeschi: “Mi sento umiliato”
di Gianni Barbacetto e Rita Di Giovacchino

Riciclaggio. L'ombra del sospetto si allunga sullo Ior, la potente banca vaticana. Nel mirino dell'autorità giudiziaria sono finiti il presidente Ettore Gotti Tedeschi, indicato come l'uomo nuovo un anno fa, e il direttore generale Paolo Cipriani da ieri indagati per violazione delle norme anti-riciclaggio su richiesta del procuratore aggiunto Nello Rossi e del pm Stefano Rocco Fava. Ma la vera novità è il provvedimento di sequestro preventivo, firmato dal gip Maria Teresa Covatta – cosa mai avvenuta finora – che riguarda 23 milioni di euro, depositati su un conto corrente aperto presso la sede romana del Credito Artigiano, che stavano per essere trasferiti all'estero. Più precisamente alla JP Morgan Frankfurt (20 milioni) e alla Banca del Fucino (altri tre).
I magistrati e il tabù
NON ERA MAI accaduto, neppure quando il giudice di Milano nel 1987 firmò un ordine di cattura nei confronti di Paul Casimir Marcinkus, che la magistratura italiana, con la complicità di Bankitalia e della Finanza, ficcasse il naso negli affari dello Ior fino a bloccare una sua operazione. Ed è la prima iniziativa in assoluto da quando, nel 2003, la Cassazione ha attribuito alla giurisdizione italiana la competenza sullo Ior e i suoi vertici. E non sarà l'ultima, altre indagini sono in corso. L'Istituto Opere Religiose, con i suoi 40 mila correntisti, molti residenti dello Stato Vaticano, non è più dunque in grado di agire extra-legem, forte della sua inviolabilità territoriale. Un privilegio che per mezzo secolo gli ha consentito di funzionare da paradiso fiscale al centro di Roma, alimentando la leggenda che lì si annidasse un'immensa “lavanderia” di denaro sporco, crocevia di tangenti, evasioni fiscali, mafia e quant'altro.
Ettore Gotti Tedeschi, appresa la notizia, ha dichiarato di sentirsi “profondamente umiliato”. Poi, in una telefonata con il direttore Giuseppe Marra dell'AdnKronos ha aggiunto: “Da quando sono stato nominato, assieme al direttore generale Paolo Cipriani, mi sono sforzato di affrontare i problemi per i quali oggi vengo indagato”. Banchiere ed economista di fama, legato all’Opus Dei, Gotti Tedeschi ha accettato un anno fa di succedere ad Angelo Caloia, lo Ior attraversava uno dei suoi momenti difficili. Era appena uscito il libro del cronista di Libero Gianluigi Nuzzi “Vaticano spa”, che rivelava i segreti a lungo custoditi nell'archivio di monsignor Renato Dardozzi, con tutte le operazioni spericolate da Sindona a Calvi, e tutti i conti coperti da nomi in codice. Il più famoso quell'“Omissis” dietro cui si celava Giulio Andreotti e la Fondazione Spellman attraverso la quale transitarono 60 miliardi della maxi-tangente Enimont. Proprio a Gotti Tedeschi è stato assegnato il compito di restituire trasparenza e credibilità alla Banca Vaticana, grazie al suo prestigio e ad amicizie trasversali nel mondo politico, bancario e finanziario italiano. Dal ministro del Tesoro Giulio Tremonti all'ex numero uno di Unicredit Alessandro Profumo. I suoi sforzi di risanamento sono apparsi insufficienti, pochi mesi fa, quando lo scandalo che ha scosso la Protezione civile ha di nuovo condotto la magistratura sulle tracce dello Ior che custodiva, tra gli altri, il conto corrente di Angelo Balducci.
Letta e Bertone come sponsor
GOTTI TEDESCHI era sì l'uomo nuovo, ma di un sistema rivolto all'esterno più che al mondo ecclesiale. Del resto a volerlo presidente era stato il cardinal Bertone che qualcuno giura sia più berlusconiano di Gianni Letta. Ora Ettore Gotti Tedeschi e Paolo Cipriani sono indagati dalla procura di Roma per violazione del decreto legislativo 231 del 2007, normativa di attuazione della direttiva Ue anti-riciclaggio. La Procura di Roma – consapevole di tanto ardire – ha precisato che il “sequestro non è stato disposto perché c’è prova di riciclaggio ma perché da parte dei vertici Ior si è omesso di applicare la norma”.
I due alti dirigenti rischiano fino a tre anni di pena e 50 mila euro di ammenda. Non si è fatta attendere la replica della Santa Sede che ha ribadito piena fiducia nell'operato di Gotti Tedeschi, manifestando “perplessità e meraviglia per l'iniziativa della Procura di Roma”. Nella nota della Segreteria di Stato si legge: “C'è la chiara volontà, da noi più volte manifestata da parte di piena trasparenza per quanto riguarda lo Ior. Ciò richiede che siano messe in atto tutte le procedure finalizzate a prevenire terrorismo e riciclaggio di capitali. Per questo da tempo le autorità si stanno adoperando nei necessari contatti e incontri, sia con la Banca d’Italia sia con gli organismi internazionali competenti”. E precisa: “Quanto agli importi citati si fa presente che si tratta di operazioni di giroconto per tesoreria presso istituti di credito non italiani il cui destinatario è il medesimo Ior”.
Ma proprio questo è il punto, dietro numeri di codice utilizzati dalla banca vaticana troppo spesso si sono celati nomi imbarazzanti.

Liberazione 21.9.10
Intervista a Giulio Giorello, filosofo della scienza
«Stiamo svendendo tutto, anche l'orgoglio delle differenze»
di Paolo Persichetti

All'insegna di una «ritrovata concordia tra la comunità civile e quella ecclesiastica», si è svolta ieri a Roma la celebrazione del 140° anniversario della breccia di Porta Pia. Presente alla cerimonia insieme al presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, e al sindaco di Roma, Gianni Alemanno, il segretario di Stato vaticano Tarcisio Bertone, che nel suo intervento dai toni distensivi ha riconosciuto «l'indiscussa verità di Roma capitale d'Italia». Circostanza non del tutto nuova per un primo segretario della curia. Già nel centenario del 1970 presenziò l'allora cardinale vicario, Angelo Dell'Acqua, che definì «la caduta del potere temporale un segno benevolo della divina provvidenza per la Chiesa». Tutto si è svolto secondo programma, fatta eccezione per una piccola contestazione organizzata dal Partito radicale e subito sedata dalla Digos. L'obiettivo, secondo i voleri del Quirinale, era quello di arrivare ad una "celebrazione condivisa", senza scossoni e polemiche. Non è stato facile. Ci sono voluti dieci mesi di laboriose trattative con l'amministrazione capitolina perché si arrivasse al placet finale. Il Vaticano ha posto proprie condizioni, preteso eventi senza venature anticlericali e polemici riferimenti al passato e al presente. L'evento, tappa importante delle celebrazioni per i prossimi 150 anni dell'unità d'Italia, ha posto non pochi paradossi. Un sindaco d'origine fascista che celebra con enfasi (nel momento in cui passa la legge per "Roma Capitale") una festività introdotta nel lontano 1895 e soppressa da Mussolini nel 1929, in occasione dei Patti lateranensi. Ed ancora, in un cerimoniale che ha mandato in frantumi ogni residua forma simbolica di laicità dello Stato, proprio nel giorno in cui le pubbliche autorità ne celebrano il compimento, il Vaticano fa da argine al legittimismo papalino più retrivo ponendo un veto alla presenza di uno storico, indicato da Alemanno, considerato troppo di destra. «Siamo un Paese senza orgoglio delle nostre battaglie», ci spiega da Lisbona il professor Giulio Giorello.
Mettere la museruola alla storia e addormentarla col cloroformio, è questo che si intende per memoria condivisa?
Mi domando cosa faranno alla prossima commemorazione della Resistenza.
Già visto. L'ultimo 25 aprile a Roma hanno invitato a parlare la Polverini. Poi l'Anpi per coprirsi a sinistra ha attaccato la manifestazione di Casa Pound.
Questa memoria condivisa mi ricorda il monumento fatto fare dal dittatore Franco ai caduti della guerra civile spagnola. Messi tutti insieme, senza distinguere le parti. Negli Stati uniti quando si celebra la guerra civile non vengono messi sullo stesso piano gli abolizionisti e gli schiavisti del Sud.
C'è chi ha definito la cerimonia di ieri, una «breccia al contrario».
A me sembra un muro di cemento messo al posto della breccia. Siamo un Paese che sta svendendo tutto, anche l'orgoglio delle differenze. Provo per questo un senso di grande amarezza.
Quale può essere una narrazione aggiornata della vicenda risorgimentale?
Ad esempio, sarebbe il caso di ricordare che i protestanti hanno avuto un ruolo tutt'altro che marginale nella rinascita della coscienza nazionale italiana. C'è stato un ruolo determinante della componente protestante. Si pensi allo stesso Giuseppe Mazzini. Sarebbe fondamentale rileggere il lavoro di Giorgio Spini, uno dei nostri migliori storici. Non c'è solo il cristianesimo «cucinato in salsa romana», come diceva Giordano Bruno. Un franco e reale riconoscimento delle differenze e non annacquare tutto in una memoria condivisa, mantenere le differenze gioverebbe anche ai cattolici che hanno un serio impegno di fede. La fede e la grazia del signore sono una cosa, le gerarchie un'altra.
Nel suo ultimo libro, "Senza Dio. Del buon uso dell'ateismo" (Longanesi), si definisce Ateo protestante. Che senso ha oggi il Risorgimento?
In questi giorni ho visto la fotografia della regina Elisabetta e del Papa che si sono incontrati. Erano l'immagine di due resti. La monarchia dentro la chiesa e la monarchia dentro lo Stato. Il mio ateismo protestante è un invito ad essere repubblicano, un cristianesimo senza monarca, uno Stato senza monarca. Mi definisco Ateo repubblicano, protestante. Porfirio Diaz diceva, «Povero Messico così lontano da dio, così vicino agli Stati uniti». Allo stesso modo possiamo dire, povera Italia così lontana da Dio e con il Vaticano dentro casa.
Questa storia condivisa dimentica massacri e misfatti anche dell'esercito piemontese.
Ci vuole il coraggio che hanno gli storici degli Stati uniti. Raccontare questi momenti di guerra civile con un grande respiro come Herman Melville per il Nord e William Faulkner per il Sud. Noi abbiamo avuto alcuni grandi come Verga, a proposito della novella "La libertà". Scavare nella nostra coscienza collettiva, esaminare con franchezza fuori dall'agiografia non nascondere le cose ma il contrario.

l’Unità 21.9.10
Veltroni smorza le critiche ma Bersani vuole chiarezza
Il segretario del Pd domani aprirà i lavori della Direzione criticando «tempi e modi» dell’iniziativa veltroniana. Letta paragona il documento dei 75 a una «bomba atomica» che rischia di «sfasciare tutto»
di Simone Collini

È la giornata delle diplomazie al lavoro, ma che la Direzione del Pd domani si chiuda senza lacerazioni ci credono in pochi. Anche perché mentre i pontieri si mettono all’opera Marco Minniti e Paolo Gentiloni, del gruppo dei cosiddetti “75”, discutono a lungo e a più riprese con Dario Franceschini scatta una guerra tutta interna agli ex-popolari, con Beppe Fioroni che convince i suoi a disertare («partecipare a una riunione indetta da due ex segretari Ppi significa tornare a due partiti fa») l’appuntamento convocato per ieri sera da Pierluigi Castagnetti e Franco Marini. E quest’ultimo che chiede alla Direzione di «esprimere un giudizio», insomma di chiudere i lavori di domani con una votazione, perché «è necessario fare chiarezza» e anche perché «non si può far finta che non sia successo niente».
BERSANI RIBADIRÀ LE CRITICHE
Pier Luigi Bersani vuole evitare spaccature, ma nella relazione con cui aprirà i lavori del parlamentino Pd ribadirà le critiche al documento di Walter Veltroni per la scelta «dei tempi e dei modi» ma anche per i contenuti: una politica delle alleanze, dirà il segretario Pd, non può essere sacrificata in nome di una vocazione maggioritaria che rischia di essere interpretata come una spinta verso l’autosufficienza. Non solo.
A Bersani non sfugge che mentre Veltroni con una mano offre un ramoscello d’ulivo, con l’altra gli lancia qualche frecciata non proprio piacevole.
VELTRONI CITA IL NOVEMBRE 2009
«Ci sono tutte le condizioni perché dalla discussione esca un Pd più unito e più forte», dice l’ex segretario conversando con i giornalisti a Montecitorio. «Solo drammatizzazioni unilaterali possono rendere difficile ciò che è noto: in politica si discute e si decide insieme». Parole che arrivano dopo che in mattinata Enrico Letta aveva paragonato il documento firmato da 75 parlamentari a una «bomba atomica» che rischia di «sfasciare tutto» e che di fatto già ora ha fatto registrare un calo nei consensi. Risponde però a distanza Veltroni, citando una data che a nessuno è apparsa casuale: «Dal novembre 2009, e non da dopo il documento, i sondaggi segnalano una continua erosione di voti e dobbiamo risalire tutti insieme la china». Novembre dell’anno scorso, ovvero un mese dopo l’elezione di Bersani a segretario.
PERPLESSITÀ SUL VOTO IN DIREZIONE
Il leader del Pd non ha risposto, ma con i suoi ha ricordato che sondaggi anche peggiori circolavano anche con Veltroni segretario (con il voto del febbraio 2009 per le regionali in Sardegna che ha registrato un Pd al 24,5%). Così, se l’ex sindaco di Roma auspica un incontro col segretario prima di domani («è giusto vederci e da parte mia c’è tutta la disponibilità»), Bersani sembra intenzionato a svolgere ogni chiarimento non in privato ma nella sede opportuna, la Direzione. Bersani ribadirà che l’operazione a cui si è dato vita ha lasciato disorientati tanti elettori che «non ci capiscono, che non vogliono litigi ma risposte ai loro problemi». Ma se un segnale di chiarezza anche per il leader Pd va dato, non è detto che questo significhi necessariamente chiudere i lavori con una votazione (magari della relazione dello stesso segretario) come vorrebbe Marini. Bersani non vuole chiudere l’appuntamento con una spaccatura. E poi, tanto nella maggioranza bersaniana quanto nella franceschinana Area democratica, c’è chi inizia a pensare che un voto e la certificazione di una nuova minoranza sia proprio l’obiettivo dei veltroniani.

l’Unità 21.9.10
Le due culture del Pd
di Bruno Gravagnuolo

Ma insomma che succede nel Pd? Tempesta in un bicchier d’acqua oppure frattura di fondo nel modo stesso di concepire il partito, e perciò incomponibile?Procediamo con ordine. Dall’affondo di Veltroni, con raccolta di 75 firme. Stavolta, ci pare, non si tratta di insofferenze, di critiche sparse, e nemmeno di un mero «contributo utile». Nulla a che fare neanche coi malumori e le sortite che tennero banco contro Veltroni, prima e dopo le sconfitte del 2008. No, stavolta si tratta di un documento politico vero e proprio, che spacca la minoranza Veltroni-Franceschini. E sottopone a critica radicale tutta l’impostazione del Bersani vittorioso al congresso e alle primarie (quelle vere del 2009). Legittimamente, certo. E però la linea di collisione è totale. Si adombra un altro candidato premier da Bersani. Malgrado lo statuto tanto invocato ieri. Si contestano le alleanze al centro e a sinistra. Inclusa, e qui la novità, quella con di Pietro. Si dichiara che il partito «ha smarrito la bussola» e che è ormai fuori dai binari sui quali venne piantato e fondato. Si denuncia il pericolo della rinascita di una sinistra targata 900, che difende le conquiste del passato. E quanto ai contenuti, i leit-motiv sono: mercato, competitività e lotta al debito. Nel segno di un «riformismo liberale e solidale». Altro che contributo utile! È un piano di battaglia, in nome di quella che è sempre stata la stella polare veltroniana: partito democratico trasversale «all’americana». Autosufficiente, ipermaggioritario, d’opinione, premierale e «primariale» (cioè leaderistico e personale, con il leader a garantire programmi e alleanze). Solo che dall’altra parte c’è ormai un’opposta stella polare: partito radicato e di rappresentanza sociale. Del lavoro, coalizionale al centro ed egemone sulla sinistra radicale. E soprattutto con Bersani c’è un partito tendenzialmente di sinistra e laico con dentro cattolici adulti e cultura sociale cattolica, ma laico e non ibridato. Morale: i Pd che abbiam visto sono due, coi cattolici divisi tra i due. Difficile conciliarli. Anzi impossibile.

il Fatto 21.9.10
Risposta a Scalfari
Caro Eugenio, ma chi è il papa del Pd?
di Paolo Flores d’Arcais

CARO EUGENIO,
domenica, nel tuo consueto editoriale su Repubblica, hai affrontato la questione politica cruciale: “La sinistra non trae finora alcun beneficio dal marasma della maggioranza. Perché?”. Per formulare una diagnosi, ma soprattutto per indicare una terapia, hai creduto di poter dividere “il popolo di sinistra” secondo “due diverse tipologie: chi vuole sognare e chi vorrebbe progetti concreti”, che puntualmente elenchi. Ma il dramma, concludi, è che “finora i cuochi [la nomenklatura Pd] si sono occupati d’altro. Non si sa bene di che cosa”. Conclusione impietosa ma ineccepibile (di cosa si siano occupati in realtà è noto: carriere e altri interessi personali, non sempre confessabili). Credo invece che fuorviante sia la polarità che istituisci tra sognatori e realisti. Del resto ammetti tu stesso che “spesso il desiderio di programmi concreti e di sogni alberga nella stessa persona”. E un classico della Realpolitik come Max Weber ammoniva che “è perfettamente esatto, e confermato da tutta l’esperienza storica, che il possibile non verrebbe raggiunto se nel mondo non si ritentasse sempre l’impossibile”.
Occhiuto realismo
ATTENIAMOCI comunque al più occhiuto realismo. Tu insisti, giustamente, che anche in politica, e forse più che mai in politica, almeno quella democratica, bisogna chiamare le cose col loro nome. Che un’arancia è un’arancia.
E un riformista? Un politico che realizza riforme, direi. Sui sedici anni che ci dividono dalla famosa “discesa in campo” di Berlusconi, circa la metà hanno visto il centrosinistra al governo. Riforme? Nessuna. E dire che non c’era poi molto da sforzarsi. Cominciando dal famoso “conflitto di interessi” per il quale la legge c’è già, risale al 1957, esclude dalla vita politica i privati che abbiano concessioni pubbliche (di valore superiore a una tabaccheria, fu spiegato allora). Sulla base di quella legge Berlusconi non era eleggibile. Bastava che la giunta parlamentare per le elezioni la rispettasse. Non lo fece, neppure col centrosinistra in maggioranza. Calpestando la “legge eguale per tutti” che è scritta nelle aule dei tribunali, avallando l’opposta “Costituzione materiale” secondo cui “Berlusconi è più eguale degli altri”. Che coincide – mi insegni – con quella della geniale Fattoria degli animali di Orwell (dove gli animali “più eguali” sono i maiali).
Né fu distrutto il duplice e mortificante monopolio televisivo: di Berlusconi sulla tv privata e della lottizzazione partitica su quella “pubblica”. Anzi, il centrosinistra varò un provvedimento (ad personam! Ad Berlusconem!) per vanificare la sentenza che aveva riconosciuto il diritto di Europa 7 di avere le frequenze abusivamente utilizzate da Rete 4. E nulla fece, va da sé, per eliminare il monopolio della pubblicità, che è lo scrigno di sicurezza contro ogni pluralismo televisivo. Quanto alla giustizia, riformismo significa far concludere (che è l’opposto di far morire) i processi in tempi ragionevoli, cioè brevi. Basterebbe calcolare la prescrizione sul rinvio a giudizio, e gli azzeccagarbugli degli imputati eccellenti non avrebbero più interesse a tirar le cose in lungo. E introdurre il reato di “ostruzione di giustizia”, sul modello e con la severità anglosassone, mentre invece si è depenalizzato di fatto quello di falsa testimonianza. E garantire le intercettazioni legali a costo zero, come dovere delle compagnie telefoniche che ottengono le lucrosissime concessioni pubbliche, punendo invece con durezza inaudita quelle illegali degli infiniti Pio Pompa, amorevolmente protette anche dal centrosinistra col segreto di Stato. Non parlo del raddoppio delle risorse materiali per l’amministrazione della giustizia e per l’azione delle forze dell’ordine (cancellieri che scrivono a mano, benzina per le volanti pagate di tasca propria...) perché sento già l’obiezione: mancano le risorse. Mancano? E i 275 miliardi annui (annui! Calcolo della Confindustria che corregge la precedente stima di “soli” 125 miliardi) rubati dall’evasione non sono risorse pubbliche? Perché nei sette anni dei due governi Prodi e del governo D’Alema ne sono stati recuperati solo alcuni insignificanti coriandoli? Non dovrebbe essere questa la prima azione del più moderato dei riformismi?
Sai bene, caro Eugenio, che potrei continuare a lungo. Del resto il giornale che tu hai fondato è costretto a ricordare costantemente la latitanza di riforme necessarie, e assolutamente possibili. Smettiamola almeno, perciò, di parlare di riformismo e di riformisti per i dirigenti del centrosinistra, TUTTI, visto che hanno governato a lungo quanto Berlusconi e non hanno riformato un prospero (su scuola e laicità hanno toccato l’efferatezza). Sono degli inguaribili NON-RIFORMISTI: un’arancia è un’arancia. Ma Prodi la seconda volta aveva la sincera intenzione di fare sul serio, sostengono i suoi nostalgici, solo che non aveva i numeri. È proprio vero che le nere disgrazie del presente colorano di rosa le grigie mediocrità del passato. Se Prodi ebbe al Senato solo un paio di voti di vantaggio, non dipese da un destino cinico e baro e meno che mai dagli elettori, ma da una decisione delle nomenklature del centrosinistra, che Prodi puntualmente ingoiò. Erano infatti pronte quasi dappertutto le “Liste civiche regionali”, accreditate di risultati variabili tra il 4% e il 12%: bastava presentarle in tre Regioni e al Senato Prodi avrebbe avuto la stessa maggioranza che alla Camera. Erano liste sul modello di quelle sperimentate in molte comunali, non liste “girotondine”. Tuttavia la nomenklatura dei D’Alema e Veltroni disse no. E alla richiesta di spiegazioni del rifiuto, visto che venivano accolte nell’alleanza le liste dei pensionati e dei consumatori (risultati previsti: da prefisso telefonico): perché loro sono un problema tecnico, voi potreste essere un problema politico. Tradotto: non vogliamo alleati che non siano totalmente proni alle nostre nomenklature. E così si sono consegnati mani e piedi allo statista di Ceppaloni. Ne converrai anche tu: lungimiranza e realismo non abitano presso i nostri non-riformisti. Un’arancia è un’arancia. Quanto al ritorno sulla scena di Veltroni l’Africano, sottoscrivi la sua proposta di ricorrere a un “Papa straniero”, cioè, fuor di metafora, a un leader della coalizione che venga dalla società civile anziché dai partiti. La proposta non è nuova, venne avanzata qualche mese fa proprio dal direttore del tuo giornale, Ezio Mauro. Figurati se non sono d’accordo anch’io, che ho cominciato a proporre un “partito azionista di massa” che nascesse dal crogiuolo di sinistra de-nomenklaturizzata e movimenti della società civile – già all’origine di MicroMega, ormai un quarto di secolo fa.
Il problema è CHI. Perché Veltroni ha già dimostrato cosa intenda per società civile con le nomine parlamentari dei Colaninno jr e dei Calearo. Questo’ultimo, benché in formato mignon, perfino più reazionario di Marchionne. Non è certo piegandosi ancora di più all’orizzonte dei (dis)valori berlusconiani che il centrosinistra sconfiggerà Berlusconi. Perciò è essenziale che il “Papa straniero” sia soprattutto un “Papa protestante”. Altrimenti tra il regime Berlusconi-Marchionne e una sua copia appena inzuccherata di veltronismi gli elettori del centrosinistra resteranno a casa a milioni. Che è quanto sta accadendo da anni e che costituisce il vero problema, come tu stesso sottolinei: un terzo di coloro che andranno a votare non ha ancora deciso. È dunque semplice dabbenaggine quella dei politici che calcolano il 50% più uno, necessario per vincere, come somma delle quote attuali dei partiti. Imbarcare Casini conta zero. Conta solo convincere quell’elettore su tre ancora indeciso. Contano perciò i (pochi) obiettivi programmatici, e la credibilità di chi governando promette di realizzarli. I nomi, per un “Papa protestante” non mancano: economisti, giuristi, giornalisti, scienziati, magistrati (niente imprenditori o finanzieri, per favore). Quanto al programma, ha ragione Michele Serra, la firma oggi più amata (dopo Altan) del giornale che hai fondato, quando sostiene che “la benzina politica e culturale per reagire al degrado... negli ultimi vent’anni è stata reperibile soprattutto nei movimenti della società civile” e che “il dramma del Pd è il suo moderatismo congenito”, mentre “con la fine del vecchio mondo bipolare serviva una nuova radicalità democratica”. Un’arancia è un’arancia.
Un programma già scritto
REALIZZARE la Costituzione, il programma già c’è. L’opposto di quanto il centrosinistra ha fatto nei suoi sette anni di governo. Se non era utopistico nel ’48, oggi dovrebbe essere addirittura ovvio. Non è perciò con alchimie partitocratiche, che finirebbero nel nulla dei veti reciproci e delle ambizioni incrociate, che si troverà il leader capace di unificare il “popolo della Costituzione”. Ma con un grande sommovimento di opinione pubblica (e di lotte e movimenti nella società civile), che metta capo a primarie vere, aperte, senza vantaggi per i candidati di apparato. Un sommovimento nel quale una testata come quella che hai fondato ormai giocherà un ruolo esplicito, dopo il tuo “endorsement” al Papa straniero.Repubblica è certamente un grande giornale. Pure, non solo Il Fatto rappresenta l’unico successo editoriale in una stagione di crisi, ma l’unica voce che sta coinvolgendo nuovi giovani lettori, ormai tutti in fuga verso il Web. Ecco perché conto che una tua risposta costituisca l’inizio di un più ampio e serrato confronto, che faccia da catalizzatore del sommovimento di opinione pubblica con cui – attraverso i giornali, i siti Internet, il mondo del volontariato, le lotte civili e sociali – potremo far uscire l’opposizione dal suo stato attuale di cronica minorità.

Repubblica 21.9.10
E il banchiere finisce già in politica "Può essere il papa straniero del Pd"
Il partito ne misurerà la popolarità con un sondaggio
di Goffredo De Marchis

Profumo ha votato per due volte alle primarie: nel 2005 (candidato Prodi) e poi nel 2007
Chiamparino: "Per come lo conosco, non è interessato ad un ruolo pubblico"

ROMA - Neanche il tempo di uscire dalla porta secondaria di Piazza Cordusio e Alessandro Profumo finisce nel totonomi dei futuri leader del Pd. La suggestione del Papa straniero, rilanciata da Walter Veltroni, lo precipita nella mischia, suo malgrado. Segno di un partito agitato, ancora instabile. Tutti dicono: «Impossibile». Ma ne parlano. Dice Sergio Chiamparino, uno dei dirigenti democratici più vicini al banchiere: «Una discussione del tutto assurda. Per quello che lo conosco Profumo non è interessato alla carriera politica». Ma è sicuramente un uomo d´area, un cittadino-elettore del Partito democratico.
Per due volte Profumo si è messo in fila e ha votato alle primarie del centrosinistra. La prima nel 2005 quando fu scelto Romano Prodi. La seconda nel 2007, quando la moglie Sabina Ratti si candidò con Rosy Bindi per entrare nell´assemblea nazionale del Pd. Una partecipazione attiva, pubblica, trasparente. Lasciò molti di stucco. Evidentemente Profumo crede (o credeva) sia nello strumento sia nei principali concorrenti di quella competizione. E nonostante le parole di Chiamparino, in passato gli è stata attribuita la tentazione della politica.
Profumo ha sicuramente un buon rapporto con Massimo D´Alema. Non solo perché Unicredit è la proprietaria della Roma, squadra del cuore dell´ex premier. Nel 2006 il banchiere partecipò a un Forum di Italianieuropei a Sesto San Giovanni insieme con Montezemolo e Enrico Letta che fu soprattutto una celebrazione del ruolo internazionale di D´Alema, allora ministro degli Esteri. Con Pier Luigi Bersani si scontrano due caratteri molto diversi, ma la stima del segretario Pd è indubbia. Piace un manager "vicino" che ha saputo tenere fuori la politica da Unicredit. La Bindi lo ha incontrato un paio di volte con la moglie durante la campagna per le primarie 2007. «Venne alla casa della Carità di don Virginio Colmegna». Luogo di volontariato. Che Profumo frequenta spesso, evitando come la peste i salotti. Scelse dunque la Bindi nel 2007, avversaria di Veltroni in quella corsa. Ma se c´è oggi un uomo libero in grado di scompaginare le carte del centrosinistra e avere il profilo del Papa straniero, quell´uomo può essere Profumo.
Il Pd farà monitorare attraverso i sondaggi il grado di popolarità di un personaggio che ha sempre preferito l´ombra. Succederà nei prossimi giorni. Per ora dirigenti di diversi orientamenti hanno reazioni del tipo "oddio, un´altra grana no". «Io non cerco un papa straniero. E mi sembra eccessivo candidare una persona che mezz´ora fa ha lasciato la sua banca», dice il prodiano Giulio Santagata. Urticante il commento di Beppe Fioroni: «Prendere come leader uno che è appena stato cacciato mi pare un´idea singolare della politica». Ma in privato non sottovaluta affatto le chanche di Profumo: «Un manager di straordinario rilievo». Alle prese con i guai interni i democratici scacciano nuovi fantasmi. Bindi spiega: «È una questione di rispetto. Non possiamo tirare la giacca di un banchiere che ha appena vissuto un momento difficile. E va rispettato un partito che non può subire tutti i giorni il totonomi». Il coordinatore della segreteria Maurizio Migliavacca condivide la linea: «Evitiamo mancanze di riguardo sia verso Profumo sia verso il Pd». Antonio Di Pietro, altro cacciatore di papi esterni alla politica, boccia a suo modo l´idea: «Ognuno faccia il suo mestiere. Di ragionieri che hanno gestito il potere delle lobby l´Italia può fare a meno». Eppure, senza dubbio, i leader Pd cercano o cercheranno Profumo. Sonderanno le sue intenzioni. Se qualcuno punterà su di lui si ricordi che il giro giusto è questo. L´ex ad di Unicredit ha firmato il "patto generazionale" promosso da Luca Josi. Una carta che impegna i contraenti a mollare tutte le poltrone a 60 anni. Profumo ne ha 53.

Repubblica 21.9.10
La crisi di un partito senza identità
di Giorgio Ruffolo

C´è chi dice che il Partito democratico non c´è più. C´è chi dice che non c´è mai stato. Sulla sua esistenza grava un peccato originale. Pur di non riconoscersi in una identità socialista questo nuovo partito ha scelto un non-luogo politico esponendosi al rischio, puntualmente verificatosi, di costituirsi come congerie di gruppi e progetti disparati. Parlai allora, esprimendo le mie riserve, di salade niçoise. Il fatto è che le identità politiche non si inventano con brillanti improvvisazioni. Sono storia e memoria, non slogan che degradano la politica in pubblicità.
Questa sua condizione di nomade politico si è subito rivelata nella difficoltà di trovare una collocazione politica precisa in Europa e nella pretesa che fossero i partiti socialisti europei a rinunciare alla loro identità in nome di non si sa che cosa.
Ma c´è di più. Il nobile e ambizioso proposito di realizzare la confluenza in una nuova forza politica di due grandi correnti sociali, una sinistra laica e una sinistra cattolica, avrebbe richiesto la elaborazione di un progetto di società come fondamento ideologico del nuovo partito. Il termine ideologia è stato screditato da Marx come «falsa coscienza». E invece, come Bobbio ricorda, deve essere inteso nel suo significato originario, di interpretazione della storia e di ispirazione ideale ed etica della politica. Ora, non si ha neppure la minima traccia, nella breve e tormentata vita del Partito democratico, di un investimento culturale e politico inteso a costruire una ideologia moderna, una proposta di società, un progetto di riforme economiche, istituzionali e sociali capace di concretarla. Niente di tutto questo. Al suo posto c´è una azione incapace di allargare il nostro spazio politico angusto proponendo temi; un´azione intenta soltanto a contrastare o a emendare le iniziative della parte avversa, restringendo la propria strategia politica alla scelta contingente delle alleanze. Non si discute su che cosa ci si deve impegnare, ma con chi bisogna stare. Ora mi chiedo: c´è da stupirsi se la gente non si appassiona alle vicende del Partito democratico? Se perde consensi e simpatie?
C´è chi dice (come Galli della Loggia) che una delle principali ragioni della crisi del partito democratico sta nella sua incapacità di obbedienza ai capi. E che l´antiberlusconismo farebbe parte di questa sindrome. No, non è così.
I grandi capi socialisti, come Brandt, come Palme, suscitavano deferenza e obbedienza vastissime in virtù delle idee e dei valori che rappresentavano, non di atteggiamenti duceschi e giullareschi, che dovrebbero suggerire non una benevola condiscendenza, come accade in ambienti "liberali"; ma una vera e incontrovertibile condanna.
Ciò che alla sinistra manca non è l´obbedienza, ma la «credenza»: la convinta fiducia nei propri valori, spesso sacrificati all´opportunismo delle convenienze immediate e alle ragioni del potere; e soprattutto la capacità di tradurre quei valori in un concreto progetto di società; e non certo di affidarli a demagoghi rumorosi o a seduttori populisti.

Repubblica 21.9.10
Perché l´eguaglianza è ancora rivoluzionaria
Così si garantisce il legame sociale
di Stefano Rodotà

Di questo tema si discute da domani al terzo Festival del diritto di Piacenza
Per difendere uno dei principi fondamentali bisogna capire come si è evoluto
Le diversità culturali religiose e di genere sono un banco di prova
Resta un concetto centrale rispetto ad ogni tentativo di distorcere la democrazia

Quando, alla fine del Settecento, sulle due sponde del Lago Atlantico le dichiarazioni dei diritti pronunciano le parole «tutti gli uomini nascono liberi e eguali», si manifesta pubblicamente la fondazione di un´altra società e d´un altro diritto, e "la rivoluzione dell´eguaglianza" diviene un tratto caratteristico della modernità. Per l´eguaglianza comincia una nuova storia, nella quale si riconoscono riflessioni millenarie e diffidenze mai sopite, con una ritornante contrapposizione della libertà all´eguaglianza. È una vicenda che attraversa due secoli, non è conclusa, nel Novecento ha conosciuto tragedie, ma ha pure generato una promessa che ancora ci sfida e attende d´essere adempiuta.
Con questi dilemmi si misurano, nel momento fondativo della Repubblica, i costituenti italiani. Riconciliare libertà e eguaglianza è tra i loro obiettivi. E nasce un capolavoro istituzionale, l´art. 3 della Costituzione, frutto di un incontro tra consapevolezza politica e maturità culturale oggi impensabile. Muovendo da qui, si possono indicare sinteticamente alcuni itinerari da seguire perché davvero si possa essere liberi e eguali.
1) Un esercizio di memoria, anzitutto. La triade rivoluzionaria «libertà, eguaglianza, fraternità» vede precocemente dissolto il legame tra libertà e eguaglianza dal ruolo attribuito alla proprietà (Napoleone, nel proclama del 18 Brumaio, parlerà di «libertà, eguaglianza, proprietà»). La proprietà si presenta come presidio della libertà: solo il proprietario è davvero libero, e così torna il germe della diseguaglianza che sarà all´origine delle tensioni dei decenni successivi.
2) Proprio il tema delle diseguaglianze economiche, e più in generale "di fatto", caratterizza l´art. 3 della Costituzione, dove si prevede che compito della Repubblica sia quello di rimuoverle. In questo riconoscimento dell´eguaglianza sostanziale, che segue quello dell´eguaglianza formale, si sono visti «due modelli contrapposti di struttura socio-economica e socio-istituzionale», «l´uno per rifiutarlo, l´altro per instaurarlo». Ma non possiamo più dire che si tratta di una norma a due facce, l´una volta verso la conservazione dell´eredità, l´eguaglianza formale; l´altra rivolta alla costruzione del futuro, l´eguaglianza sostanziale. Già l´inizio dell´art. 3, che parla di dignità sociale, dà evidenza a un sistema di relazioni, al contesto in cui si trovano i soggetti dell´eguaglianza, poi esplicitamente considerato dalla seconda parte della norma. Questa lettura unitaria dell´articolo non ne depotenzia la forza "eversiva", ma dice che la stessa ricostruzione dell´eguaglianza formale non può essere condotta nell´indifferenza per la materialità della vita delle persone. E la concretezza dell´eguaglianza ha trovato riconoscimento nella versione finale della Carta dei diritti fondamentali dell´Unione europea, dove il riferimento astratto "tutti" è stato sostituito da "ogni persona".
3) Il riferimento alla dignità dà ulteriori indicazioni. Descrivendo il tragitto che ha portato all´emersione dell´eguaglianza come principio costituzionale, si è parlato di un passaggio dall´homo hierarchicus a quello aequalis. Ora quel tragitto si è allungato, ci ha portato all´homo dignus e la rilevanza assunta dalla dignità induce a proporne una lettura che la vede come sintesi di libertà e eguaglianza, rafforzate nel loro essere fondamento della democrazia. L´antica contrapposizione tra libertà e eguaglianza è respinta sullo sfondo dalla loro esplicita associazione nell´art. 3. A questo si deve aggiungere l´«esistenza libera e dignitosa» di cui parla l´art. 36. Dobbiamo concludere che l´ineliminabile associazione con la libertà è la via che immunizza dagli eccessi dell´eguaglianza e dalle ambiguità della dignità, che tanto avevano inquietato nel secolo passato e che proiettano ancora un´ombra sulle discussioni di oggi?
4) L´eguaglianza oggi è alla prova delle diversità, e più radicalmente della differenza di genere. La Carta dei diritti fondamentali «rispetta la diversità culturale, religiosa e linguistica» e stila l´elenco fino a oggi più completo dei divieti di discriminazione. Il rispetto delle diversità diventa così fondamento dell´eguaglianza, in palese connessione con il libero sviluppo della personalità, dunque con una rinnovata affermazione del nesso tra eguaglianza e libertà. E l´eguaglianza si dirama in due direzioni. Da una parte, si presenta come rimozione delle cause che producono diseguaglianza; dall´altra, come accettazione/legittimazione delle differenze, rendendo esplicita la sua vocazione dinamica, "inclusiva".
5) Si distingue tra eguaglianza delle opportunità o dei punti di partenza e eguaglianza dei punti di arrivo. Negli ultimi tempi, ponendo l´accento sulla difficoltà delle politiche redistributive, si è quasi cancellato il momento dei risultati con un riduzionismo improponibile. Un solo esempio: per la tutela della salute si può prescindere dall´effettiva disponibilità dei farmaci? Altrimenti si rischia di consegnare al cittadino "eguale" una chiave che apre solo una stanza vuota.
6) L´eguaglianza riguarda l´accesso ai beni della vita. Alla conoscenza, superando ogni "divario", e non solo quello digitale. Alla salute e al cibo, che non possono essere affidati alle disponibilità finanziarie. Al lavoro, che non può subire le esigenze della globalizzazione fino a cancellare la dignità della persona. Altrimenti, il peso delle diseguaglianze, associato alla pura logica di mercato, fa rinascere la cittadinanza censitaria. E la disponibilità crescente di opportunità tecnologiche, l´avvento del post-umano, impongono una attenzione forte per eguaglianza e dignità, insieme a una libertà declinata come autodeterminazione.
7) L´associazione di eguaglianza, libertà e dignità può metterci al riparo dal rischio dell´eguaglianza assoluta o estrema, che dissolve la società e attenta ai diritti delle persone. Ma le difficoltà antiche e nuove delle politiche egualitarie, la pressione delle identità possono indurre ad un pericoloso realismo che accantoni l´eguaglianza come inservibile. Errore politico e culturale clamoroso. La costruzione infinita della persona eguale rimane tema ineludibile. L´eguaglianza non significa solo divieto di leggi ad personam, ma garanzia del legame sociale. Proprio quando è negata, è lì ad ammonirci, a inquietare le coscienze. Rimane un potente strumento di azione culturale e lotta politica, "eversivo" rispetto a ogni tentativo di restaurare gerarchie sociali e di distorcere la democrazia.

Corriere della Sera 21.9.10
Il governatore Rossi attacca il premier sulle donne
L’esponente pd alla radio: «Siamo guidati da un noto puttaniere»
Non sono mancati strali neppure su Vendola

FIRENZE — «In un paese di puttanieri noi siamo governati da un noto puttaniere: Silvio Berlusconi». Potrebbe sembrare una delle tante discussioni da bar, lo sfogo di un avversario politico in un impeto di rabbia. E invece la frase è stata pronunciata ieri mattina dal governatore della Regione Toscana, Enrico Rossi (Pd), durante un’intervista a Controradio Popolare-Network.
La discussione, una mezz'ora dalle 8.45 alle 9.15, ad un tratto si incanala sulla vicenda, assai contorta, di una lettera anonima spedita alla Regione e alla procura nella quale si lanciano accuse pesantissime e a luci rosse e si prospetta un giro di sesso e promozioni nella quale sarebbero coinvolti funzionari regionali. Una vicenda che ha amareggiato il governatore. E Rossi, durante l'intervista, non nasconde il disappunto e stigmatizza il comportamento di alcuni media.
«Le lettere anonime si leggono e si buttano — dice Rossi sollecitato da una domanda del conduttore —. Sono frutto di veleni interni a fronte di un'organizzazione che cambia. Grave, però, che questi veleni siano amplificati dalla stampa». Poi, la frase sul presidente del consiglio. «In un paese di puttanieri, noi siamo governati da un noto puttaniere che si chiama Berlusconi e si vuol far credere che tutto il mondo sia così. Non è vero, ci sono persone che sanno distinguere e ragionare con la propria testa», dice Rossi.
In serata il governatore commenta a freddo le dichiarazioni rilasciate alla radio e non fa un passo indietro. «Confermo tutto, certo. La frase però non va estrapolata dal suo contesto — spiega — che era appunto quello di una serie di domande su una vergognosa lettera anonima sulla quale sono stati montati servizi giornalistici. E la frase su Berlusconi va intesa in questo ambito. Come dire, si tenta di montare uno scandalo inesistente, che eventualmente sarà la magistratura ad accertare, dando credito a una lettera anonima e mi si fanno domande su episodi che mi sono lontani anni luce quando abbiamo un presidente del consiglio che è notoriamente un puttaniere».
Proprio puttaniere, presidente? «Mi sembra difficile dire che non è così — risponde Rossi — come lui stesso del resto mi pare proprio si definisca».
Rosy Bindi a Firenze per un incontro con i circoli Pd commenta divertita: «Rossi? Si è lanciato… Io non dico parolacce per lo meno in pubblico, ma non c'è bisogno di parolacce per definire Berlusconi: ci sono termini scientifici».
Durante la trasmissione di Controradio non si è parlato solo di sesso e politica. Rossi è tornato ad attaccare Renzi e Vendola. «Se si è iscritti ad un partito, nell'eventualità ci siano consultazioni primarie — ha detto —, Bersani è il nostro solo candidato. Basta parlare di leadership, ma di programmi» riferendosi alle picconate del sindaco di Firenze.
Non sono mancati strali neppure su Vendola: «Su di lui stanno discutendo al Senato per il buco della sanità della Puglia: al suo posto mi preoccuperei di risolvere questi problemi». Anche perché, dice il governatore Rossi, «se riuscisse a governare bene e riformare una regione meridionale, avrebbe una carta enorme da spendere per la sua credibilità. Politicamente lo stimo ma ho qualche dubbio in più delle sue qualità di governo. Uno dei principi da ristabilire in politica è quello di sentire addosso tutta la responsabilità dell'incarico».
La risposta del governatore della Puglia, ieri in Toscana, non si fa attendere. «Portare a termine il lavoro di governatore? La stessa riflessione vale per tanti altri in campo ora come me e Chiamparino. Ma lasciamo perdere».

il Fatto 21.9.10
E le donne palestinesi videro le onde del mare
Israeliane e cisgiordane rischiano il carcere per passare assieme una giornata sulla spiaggia
di Rachel Shabi

Inizia presto la giornata in una stazione di servizio a Gerusalemme. Il traffico è già intenso. Le 15 donne israeliane sono un po’ tese e non c’è da meravigliarsi: stanno per violare la legge e anche uno dei tabù del Paese. Hanno intenzione di raggiungere in auto i territori occupati della Cisgiordania, prendere a bordo alcune donne e alcuni bambini palestinesi e portarli per un giorno a Tel Aviv.
“Legittimo violare delle regole illegali”
QUELLO DI OGGI è il secondo viaggio del genere (un altro gruppo di donne ha realizzato un’analoga iniziativa pubblica il mese scorso). Lo scopo di questa azione dimostrativa è far capire alla gente quanto assurde siano le leggi che disciplinano gli spostamenti dei palestinesi e dimostrare che sono infondati i timori degli israeliani di recarsi in Cisgiordania. Riki è una sessantatreenne di Tel Aviv che, al pari delle altre donne, non ha voluto fornire il suo cognome. Dice che ci ha messo del tempo per decidersi a far parte del gruppo. “Resistevo all’idea di violare la legge. Ma poi ho capito che le azioni civili pacifiche sono il solo modo per fare qualche passo avanti e che, quindi, violare una legge illegale è perfettamente legittimo”. Il convoglio delle autovetture si mette in marcia oltrepassando i posti di blocco nei paraggi di Hebron. Dozzine di donne palestinesi prendono posto sulle diverse vetture. Due giovani palestinesi salgono in auto, si tolgono lo hijab, i fazzoletti e i lunghi cappotti e rimangono in jeans aderenti e capelli sciolti al vento, un look che consente loro di passare il posto di blocco dei coloni israeliani senza subire alcun controllo. “Ho paura dei soldati”, dice nervosamente la ventunenne Sara. Ma sia lei che la diciannovenne Sahar tirano un sospiro di sollievo quando l’auto passa indisturbata dinanzi al posto di blocco. Dalla borsa tirano fuori numerosi cd e si mettono ad ascoltare musica dabke araba a tutto volume mentre l’auto percorre la strada che porta a Tel Aviv. “Ai soldati dei posti di blocco non verrebbe mai in mente che delle donne israeliane possano fare una cosa del genere”, dice Irit.
Giornalista indagata per una gita
A TEL AVIV le donne palestinesi guardano in silenzio gli alti edifici e i caffè all’aperto e sembrano particolarmente colpite dalla moltitudine di motociclette e motorini che sciamano per le vie della città. “Mi piacerebbe andare in motocicletta”, dice Sara indicando una donna in pantaloncini corti seduta sul sellino posteriore di una moto. Molte non sono mai state al mare. Finalmente arrivano a Jaffa e lì le palestinesi rimangono a bocca aperta nel vedere le onde che si infrangono sulle rocce bianche. “È molto più bello di quanto pensassi”, dice Nawal mentre osserva la figlia di sette anni che si ritrae per non essere colpita dagli spruzzi delle onde. “È più bello di quando lo vedo in televisione: il colore è sbalorditivo”. Fatima, 24 anni, guarda l’orizzonte. “Non credevo che il rumore del mare potesse essere così rilassante”, dice. Sara chiede un foglio di carta, con destrezza costruisce una barchetta, ci scrive sopra il suo nome e la lascia andare in mare. “Per essere ricordata”, commenta. Tutti i palestinesi per entrare nello Stato di Israele hanno bisogno di un permesso e per chi viola la legge è previsto anche il carcere. Inoltre la legge vieta agli israeliani di aiutare i palestinesi a varcare illegalmente la Linea Verde. Anche chi viola questa legge rischia il carcere. Pochi mesi fa Ilana Hammerman, una giornalista israeliana, ha raccontato sul giornale Haaretz la sua gita a Tel Aviv in compagnia di alcune donne palestinesi della Cisgiordania. È stata immediatamente indagata, ma il suo articolo è stato di ispirazione per un gruppo di donne che ora fanno la stessa cosa con l’intenzione di farlo poi sapere pubblicando un annuncio a pagamento sul giornale. “Vogliamo che un crescente numero di israeliani capisca che non c’è nulla da temere. Vogliamo che la gente cominci a rifiutare l’ideologia che ci tiene separati e che cominci a rifiutare l’idea che siamo nemici”, dice Esti.
Solo l’1% può entrare in Israele
PRIMA DEL 1991 i palestinesi della Striscia di Gaza e della Cisgiordania potevano circolare liberamente e il divieto di entrare nel territorio di Israele era una eccezione. Poi Israele ha introdotto l’obbligatorietà di un permesso per cui i palestinesi non possono recarsi in Israele senza una autorizzazione rilasciata dall’amministrazione civile israeliana insediata in Cisgiordania con decreto militare. Tra i palestinesi della Cisgiordania in possesso del permesso ci sono i lavoratori che debbono avere più di 35 anni e devono essere sposati, le persone bisognose di cure ospedaliere, gli studenti sia pure con delle limitazioni e gli anziani che si mettono in viaggio per motivi religiosi. Il permesso viene anche concesso ad alcuni commercianti e vip. Gisha, il “Centro legale per la libera di circolazione delle persone”, stima che l’1% circa dei palestinesi sia in possesso del permesso di entrare in Israele. Circa 24.000 lavoratori palestinesi possono entrare in Israele dalla Cisgiordania. Dalla Striscia di Gaza l’ingresso nel territorio israeliano è un fatto assolutamente eccezionale e il permesso viene concesso per lo più per ragioni mediche o umanitarie.
Copyright The Guardian; traduzione di Carlo Antonio Biscotto

l’Unità 21.9.10
Vivere con la paura
di Igiaba Scego

Il primo film che ho visto dei fratelli Taviani l’ho visto in Somalia all’Istituto di cultura italiano. Ero piccola, erano ancora gli anni ’80 e la guerra non si era mangiata il Paese. Quel giorno l’Istituto apriva le sue porte e il film era San Michele aveva un gallo, la storia di un anarchico condannato all’ergastolo. Giulio Manieri, così si chiamava, cercava di vincere lo sgomento della segregazione riempiendo la sua cella di fantasie e di impegno politico. Giulio attraverso l’immaginazione si conservava vivo. Io ero piccola, ma ricordo che mi colpì la forza di quel personaggio. Quando l’altro giorno ho sentito parlare Vittorio Taviani (al Salina Doc Festival) mi sono ricordata di Giulio Manieri. Ho intravisto in quel signore, che tanto ha dato al nostro cinema, una forza che i nostri politici non hanno più. Vittorio Taviani rivendicava il suo essere toscano, romano e anche un po’ siciliano, anzi salinese. L’identità è un flusso in movimento, non una entità rigida diceva il signor Vittorio. Siamo da sempre un popolo in continuo meticciato. Peccato non aver avuto un registratore con me. Avrei registrato quelle parole per l’assessore di Roma Marsilio (che vi ricordo ha detto che i figli di migranti nati in Italia non sono italiani, poi ha smentito per le pressioni politiche). Essere italiani è sempre stato complesso, ma la sfida che abbiamo davanti è creare un italiano felice e a suo agio nella sua complessità. Dire che i figli di migranti non sono italiani è un passo falso. Un precedente molto pericoloso. Un popolo complesso è felice solo se ogni sua parte è accettata e amata. Invece l’assessore di Roma ha puntato il dito e ha voluto alimentare le paure degli italiani. Ma come dice un proverbio spagnolo “Vivir con miedo es como vivir a medias”: vivere con la paura è come vivere a metà. Speriamo che Dio ci salvi da questo vivere a metà.

Repubblica 21.9.10
Virginia, domani una donna al patibolo l'Iran attacca: "È la vostra Sakineh"
Ahmadinejad: l'Occidente fa due pesi e due misure
La detenuta ha problemi mentali ma sarà giustiziata con un'iniezione letale

Teresa Lewis condannata a morte per aver ideato l´omicidio di marito e figliastro.

NEW YORK Sono due donne quarantenni. Tutt´e due accusate di avere congiurato con il proprio amante per uccidere il marito. Tutt´e due condannate a morte dalla giustizia del loro paese. Per una di loro l´esecuzione è stata sospesa, su pressione dell´opinione pubblica internazionale. L´altra riceverà domani l´iniezione letale, nell´indifferenza generale. «Due pesi e due misure, le campagne dell´Occidente per i diritti umani sono pura propaganda politica», ha denunciato ieri alle Nazioni Unite il presidente iraniano Mahmoud Ahmadinejad.
Teresa Lewis, 41 anni, americana, è la donna che quasi certamente morirà domani. L´ha condannata un tribunale della Virginia per un delitto commesso nel 2002: suo marito e il figliastro furono uccisi dal suo amante. Secondo la giuria la Lewis non solo aiutò l´assassino ma fu «la mente del duplice omicidio». Il giudice Charles Strauss la definì «la testa di serpente» nell´emettere la condanna capitale. Unico problema: quella testa ha un quoziente d´intelligenza misurato a 72 punti, «ai limiti dell´incapacità mentale» secondo la perizia psichiatrica. Un test che mal si concilia con l´immagine della diabolica manipolatrice. Il suo amante e un altro complice furono condannati solo all´ergastolo, lei invece sarà la prima donna a morire della pena capitale in Virginia da un secolo.
Il governatore dello Stato, Robert McDonnell, ha respinto la domanda di conversione della pena dichiarando che «Teresa Lewis non rientra nella definizione legale di una ritardata mentale». Per due soli punti: è a quota 70 che la legge della Virginia fissa il confine tra l´handicap mentale e la normalità. Un´ultima speranza potrebbe essere l´intervento della Corte suprema federale. Che dal 2002 ha stabilito in una sentenza il divieto di eseguire condanne a morte su invalidi mentali. Ma la seduta della Corte per occuparsi del caso Teresa Lewis è stata fissata il 27 settembre. L´iniezione letale deve avvenire il 23. «Dov´è l´indignazione mondiale?" si è chiesto ieri Ahmadinejad a New York. «Perché nessuno sta protestando nelle piazze occidentali, per la condanna a morte di questa donna americana? I mass media occidentali sono agenti della propaganda, parlano di democrazia e diritti umani ma i loro slogan sono bugiardi».
Da Teheran gli ha fatto eco l´agenzia stampa Fars, vicina ai Guardiani della Rivoluzione: «Da sette anni Teresa Lewis è in carcere in attesa dell´esecuzione, ma la stampa americana l´ha ignorata. Il giorno della sua esecuzione la signora Lewis rimpiangerà di non essere nata in un altro paese, un paese che ascolti i propri cittadini invece di interferire negli affari degli altri e di fare prediche al resto del mondo». Il confronto naturalmente è stato fatto con il caso di Sakineh Mohammadi Ashtani, la 43enne iraniana condannata a morte per lapidazione. Anche lei accusata di adulterio e di avere congiurato per l´assassinio del marito. «Milioni di pagine di Internet sono state dedicate al suo caso», ha denunciato ieri Ahmadinejad. E la lapidazione a Teheran è stata sospesa, almeno temporaneamente. La giustizia iraniana ha deciso di riesaminare il suo caso: una concessione alle pressioni internazionali. Che verso la giustizia della Virginia sono state certo molto inferiori. Non del tutto assenti, però. In realtà il caso di Teresa Lewis è stato più volte sollevato da Amnesty International, che ha dato ampia pubblicità alla perizia psichiatrica. Il Washington Post, molto prima che intervenisse Ahmadinejad, aveva intervistato la condannata a morte in carcere. «Non ho premuto io il grilletto quel giorno dichiarò la Lewis all´intervistatrice, Maria Glod però feci del male, lasciai che due persone fossero uccise. Questo lo so. Ho tradito delle persone che amavo. Ma ho paura di morire, vorrei continuare a vivere». Gli Stati Uniti sono in compagnia della Cina, dell´Iran e dell´Arabia saudita, tra i paesi dove la pena di morte viene eseguita con maggiore frequenza.
(f.ramp.)

Repubblica 21.9.10
Nell’acceleratore di particelle più potente del mondo, l´Lhc del Cern, un fenomeno mai osservato prima Ricreato un "brodo primordiale" come quello presente 20 microsecondi dopo la nascita dell’Universo
Viaggio all'origine del Cosmo "vista" la materia del Big Bang
di Elena Dusi

Un effetto mai visto, e ancora tutto da spiegare. Ma che catapulta gli scienziati alle origini del nostro universo e a una possibile spiegazione dei momenti immediatamente successivi al Big Bang. Al Cern di Ginevra l´acceleratore di particelle più potente del mondo, Lhc, ha prodotto "tracce e fenomeni potenzialmente nuovi e interessanti", come annunciava ieri un comunicato dell´Organizzazione europea per la ricerca nucleare.
Le collisioni fra i protoni che avvengono all´interno di Lhc a velocità prossime a quelle della luce hanno fatto sprizzare frammenti di particelle in zone e in quantità inattese e anomale per i fisici. Una delle possibili interpretazioni (ancora tutta da confermare) è che nel tunnel sotterraneo dell´acceleratore sia stato riprodotto uno stato della materia caldo e ricchissimo di energia, esistito 20-30 microsecondi dopo il Big Bang: il plasma di quark e gluoni.
«È solo una delle possibili interpretazioni fra le almeno cinque o sei che stiamo studiando» mette in guardia Guido Tonelli dell´Istituto nazionale di fisica nucleare (Infn), che coordina al Cern l´esperimento Cms dove a metà luglio è stato osservato il nuovo effetto. Ma l´organizzazione di Ginevra punta in alto nelle sue interpretazioni, ricordando che «un fenomeno simile era stato osservato in precedenza dall´acceleratore americano Rhic di Brookhaven, negli Stati Uniti, ed associato alla creazione di materia densa e calda». I risultati del Rhic, ottenuti nel 2005 facendo scontrare nuclei di oro e non protoni, furono interpretati in maniera relativamente concorde dai fisici: per un istante brevissimo sulla terra era stato ricreato il plasma di quark e gluoni, una sorta di "brodo primordiale" della materia densissimo e caldo circa 10mila miliardi di gradi.
Mentre intorno a noi protoni e neutroni sono composti da particelle più elementari come quark e gluoni, negli istanti immediatamente successivi al Big Bang questi due mattoni della materia erano sfusi e slegati fra loro per effetto dell´altissima energia. Si è trattato solo di pochi microsecondi, perché subito dopo l´espansione e il raffreddamento dell´universo hanno "riportato nei ranghi" quark e gluoni, impacchettandoli in modo disciplinato all´interno dei protoni e dei neutroni.
Facendo scontrare particelle a velocità molto prossime a quelle della luce ed energie estreme (Lhc lavora a un valore record di 7 teraelettronvolt), gli acceleratori puntano ad avvicinare i protoni o i nuclei talmente tanto da provocare una sorta di fusione, riproducendo il "brodo primordiale" della materia. Provare a ricreare queste condizioni di energia sulla terra è stata una delle ambizioni di Lhc fin dalla sua progettazione. A novembre anche all´interno dell´acceleratore europeo, che corre per 27 chilometri a 100 metri di profondità al confine tra Svizzera e Francia, verranno fatti scontrare non più protoni ma nuclei di elementi pesanti. Anziché oro come al Rhic, verrà usato questa volta il piombo. Si tratta di un altro degli svariati sentieri che i fisici cercano di percorrere per ottenere comunque un unico risultato: la comprensione della natura della materia in condizioni di energia, temperatura e densità estreme. «Per avere spiegazioni certe abbiamo bisogno ancora di molti dati» conclude Tonelli. «Ma possiamo dire di essere entrati in una nuova fisica e in un nuovo mondo, che Lhc ci permetterà di indagare».

Repubblica 21.9.10
Al museo di Napoli venerdì tagliano i fili
Il "Madre" in crisi resta senza luce. E arriva Sgarbi
di Dario Pappalardo

Si spengono le luci su Warhol, Hirst, Kapoor, Clemente. Sabato prossimo il Madre di Napoli rischia la chiusura per non aver pagato le bollette dell´Enel. La Regione Campania, debitrice di 8 milioni di euro, sostiene di avere stanziato fondi per quanto possibile. E Vittorio Sgarbi, intanto, sta per sbarcare sotto il Vesuvio per organizzare, in accordo col governatore Stefano Caldoro, mostre low cost nel museo da salvare. Insomma, a Napoli il sistema dell´arte contemporanea è in subbuglio.
«Da due mesi stiamo spiegando alla Regione che non riusciamo ad andare avanti, ma non mi prendono sul serio. Abbiamo anche scritto al ministro Bondi. Ora a chi devo rivolgermi? Alla camorra?», lamenta Eduardo Cicelyn, direttore del Madre dall´apertura, cinque anni fa. «Venerdì verranno a staccare i fili della luce. I ragazzi che lavorano con me hanno l´ordine di non fare entrare nessuno nella cabina elettrica, ma non so quanto potremo resistere». Il museo conta 60 dipendenti e opere del valore assicurativo pari a 65.358.083 euro. «Verrà meno ogni tipo di sorveglianza. Non potremo garantire la sicurezza e l´adeguata climatizzazione delle opere», continua Cicelyn. L´Enel chiede al museo 142.172,41 euro. Dalla Regione Campania puntualizzano: «A luglio ci siamo accordati per un milione di euro in modo da coprire le spese fino al 31 dicembre. Il museo ha a disposizione 300 mila euro cash in banca». Cicelyn ribatte: «È falso. La Regione vuole far dimettere il cda, cambiare la politica del museo. Ma io resto direttore generale: ho un contratto a tempo indeterminato. Se mi licenziano, gli faccio causa».
Di certo al Madre si avvicina Vittorio Sgarbi, che domani incontrerà il presidente della Regione Campania: «Non voglio sostituirmi a Cicelyn», precisa il critico. «L´assessore regionale Caterina Miraglia mi ha chiesto di immaginare alcune attività a budget ridotto da realizzare al Madre l´anno prossimo. Ma soprattutto il museo è adatto per ospitare nel giugno 2011 una delle mostre che organizzerò in ogni regione in occasione della Biennale, di cui sono responsabile per il Padiglione Italia. In Piemonte ho scelto Venaria; a Roma il Maxxi. Cicelyn, con cui spero di collaborare, può stare tranquillo: la Regione non vuole chiudere il Madre, solo ridurre i fondi. Bisogna smettere di stanziare denaro pubblico per mostre di arte contemporanea, che devono essere finanziate dai mercanti. Napoli ha un Donatello nella chiesa di Sant´Angelo al Nilo. Restituirlo a tutta la città con una mostra, quella sì sarebbe una provocazione contemporanea a costo zero».

Repubblica 21.9.10
Per viaggiare nel subconscio c'è un trucco: lasciarsi andare
di Natalia Aspesi

Già record in Usa, arriva anche in Italia "Inception"
Assenza di gravità, Parigi che si piega su se stessa: si esce affascinati senza aver capito nulla
Rimbombano insieme Freud, Di Caprio, action movie, e lunghe smitragliate

Più stordisce la visione di Parigi che si ripiega su se stessa, con le macchine che corrono a tetto in giù, più si naviga in un vecchio minaccioso corridoio rovesciato, assieme a corpi in assenza di gravità, più si sgretolano i rocciosi grattacieli abbandonati che fanno da gigantesca barriera sul mare, più i tromboni della colonna sonora assordano e paralizzano, più, affascinati e frastornati, non si capisce nulla. Non solo gli spettatori, anche, nel film, in cui la studentessina di architettura Ariadne dall´aria sapiente Ellen Page (noiosina rispetto a Juno) chiede incerta: in che inconscio siamo? (Chi non è già tramortito, ride).
Inception, autore Christopher Nolan, costato 170 milioni di dollari, incasso record in Usa, 570 milioni in un mese, fa rimbombare insieme fantascienza, Freud, Leonardo DiCaprio, action movie, scontri epici di automobili, sensi di colpa, incubi, Parigi, Londra, Los Angeles, Mombasa, sonniferi, vertigini, scontri tra guardie e ladri con smitragliate interminabili e Marion Cotillard (Oscar per La vie en rose, la canzone nella colonna sonora di Inception) trasformata da gobbina Edith Piaf in meravigliosa funebre fatalona alla Ava Gardner sempre in sottoveste nera. Per 2 ore e 25 minuti, il che giustifica lo smarrimento del pubblico che alla fine esce inciampando e con la testa gonfia: insomma, ne valeva la pena! Trama, forse: Cobb non è un ladro qualunque: a parte che è un Leonardo DiCaprio con baffetti biondi e una lacrima sul viso, il suo lavoro è addormentarsi, entrare nei sogni della sua preda e approfittare della sua distrazione onirica per rubargli quel che gli serve, idee, pensieri, segreti, progetti. Il magnate Saito, il più affascinante dei giapponesi, Ken Watanabe, gli chiede di ribaltare il suo lavoro, anziché sottrarre, inserire un´idea nella testa del figlio del magnate rivale moribondo, affinché divida l´immenso patrimonio evitando il pericolo che tutto il potere energetico si concentri in una sola mano.
In un altro film lo scontro tra i due lestofanti gentiluomini sarebbe avvenuto con meno casino freudiano, sia pure con intervento di gangster, ma qui ci si mettono in sei per costruire sogni che diventeranno quelli della loro vittima e in cui anche loro entreranno. Persino gli sforzi di chi è arrivato a offrire un "manuale per l´uso" di Inception non bastano a rendere il film comprensibile: siamo nella realtà oppure nel sogno, o nel sogno in cui si sogna di sognare, al primo, al secondo, o nel profondo livello del subconscio? Il continuo chiacchiericcio allucinatorio non risolve il problema, che è comunque del tutto ininfluente: basta lasciarsi andare alle immagini e non sarà certo il primo film (anche di Nolan, tipo Il cavaliere oscuro) che seduce proprio perché senza capo né coda. Comunque c´è un ascensore sferragliante in cui capita per sbaglio anche l´architettina Ariadne, che va su e giù nel subconscio di Cobb, fermandosi su spiagge, camere d´albergo, luoghi sinistri, in cui entra sempre questa bella signora in nero armata di coltello o revolver, cattivissima. Gatta ci cova, nella malinconia del bel boss, chi sarà quella tipa amatissima che non vuole farlo uscire dal sogno, chi saranno quei piccini sfuggenti e irreali che lo ossessionano?
Compare a un certo momento, si direbbe nel mondo reale, Michael Caine, che come attore resiste al tempo stoicamente e che nel film prima respinge poi accoglie e perdona Cobb per qualche tremendezza fatta in passato: padre, suocero, mah! Tripudio finale che si consiglia di affrontare con tappi alle orecchie: in pieno ron ron (dei personaggi, gli spettatori son desti per eccesso di baccano), s´intrecciano in totale frenesia tre livelli di subconscio molto pasticcioni, in cui gli stessi personaggi, sempre pestando o sparando a misteriosi nemici, si trovano contemporaneamente su un picco innevato, addormentati nella stanza di un albergo, dentro un pulmino che sta precipitando lentissimamente in un fiume. Si salveranno tutti, ci salveremo in pochi? Inspiegabile: va bene che sono gangster, ma è possibile che nei loro sogni non ci siano che bombardamenti, inseguimenti, incendi, crolli, conflitti a fuoco, e l´unica signora che compare, bella e dolente, vuol solo far fuori il suo innamorato prima che si svegli?

Il Messaggero 22.9.10
Riaffiora un teatro di epoca romana
sepolto sotto Palazzo Vecchio

FIRENZE Un teatro romano enorme, capace di contenere fino a 15 mila spettatori e “caduto in disgrazia”. Un teatro dimenticato e rimasto sepolto sotto la stratificazione degli ampliamenti di Palazzo Vecchio. Un teatro che torna alla grazie a sei anni di scavi adesso ultimati, che costituirà la parte più antica del nuovo Museo della Città, e verrà trasferito dalla Biblioteca delle Oblate alla sede del Comune.I lavori, è stato spiegato dall’assessore alla Cultura Giuliano da Empoli e da Carlotta Cianferoni della Sovrintendenza dei Beni archeologici della Toscana, hanno consentito di riportare alla luce alcuni tratti dei corridoi del teatro, la costruzione dei quali risale alla fine del I o all’inizio del II secolo d.C. Sui resti di età imperiale si sono sovrapposti, per successive stratificazioni, strutture di epoca medievale come pozzi, fondamenta di abitazioni e altri edifici. Il eatro doveva avere una capienza di quasi 7 mila spettatori ma, nel periodo di massimo splendore addirittura 15 mila. Rimasto attivo fino al V secolo, dopo questo periodo il teatro cadde in disuso e venne via via dimenticato. I suoi resti iniziarono gradualmente a riaffiorare nell’Ottocento quando, in occasione del trasferimento a Firenze della capitale del Regno d’Italia, nel 1865.

Repubblica Firenze 22.9.10
La Biblioteca Nazionale affonda
Se entro la fine di novembre non arriveranno nuovi finanziamenti dovrà chiudere al pomeriggio
Risorse ridotte, aperture a rischio. Gli intellettuali: "Va salvata"
di Laura Montanari

La Biblioteca Nazionale affonda per la mancanza di risorse. Se entro la fine di novembre non arriveranno nuovi finanziamenti la biblioteca dovrà ridurre l´orario di apertura al pubblico. Appello di ricercatori e intellettuali: «E´ un patrimonio. Va salvata».

Non bastano i soldi per il prestito libri e per i facchini che fanno la spola dal Belvedere
"Anche se ci daranno i 50mila euro promessi arriviamo a gennaio"

Il conto alla rovescia è cominciato. Se non arrivano nuove risorse, alla fine di novembre la Biblioteca Nazionale di Firenze dovrà pensare di ridurre l´orario di apertura al pubblico. Non più tutti i giorni dal lunedì al venerdì, dalle 8,15 alle 19 (e mezza giornata il sabato), ma magari come è già successo a luglio aprire solo la mattina o soltanto in certi giorni. Lo dice la direttrice, Ida Fontana che ieri ha incontrato una delle associazioni dei lettori spiegando che «da 200mila euro l´anno i fondi per il personale di una cooperativa esterna che svolge mansioni che vanno dal prestito dei volumi al facchinaggio, al ritiro e alla consegna degli ordini all´emeroteca di Forte Belvedere sono ridotti a un quarto: 50mila euro».
«Al ministero hanno detto che faranno il possibile per darcene altri 50mila, ma se anche fosse arriveremmo al massimo a gennaio» prosegue Fontana che dal 28 novembre lascerà la direzione di questa che è la più grande biblioteca italiana: 120 chilometri lineari di scaffali per 6 milioni di volumi, 25mila manoscritti e oltre 350mila fascicoli di periodici l´anno. In piazza Cavalleggeri dovrebbe approdare tutto quello che viene pubblicato in Italia e lì dovrebbe essere catalogato e archiviato. Dovrebbe. «In realtà col blocco delle assunzioni e la diminuzione dei dipendenti oggi, dei 70mila volumi che ci arrivano ogni anno, ne cataloghiamo 40mila». Il resto si accumula. Stessa cosa per i giornali: 7mila catalogati su 15mila testate. Il resto rimane nei magazzini, non accessibile al pubblico, in attesa di tempi migliori. «Siamo preoccupati - spiega Lorenzo Peri, 25 anni, a un passo dalla laurea in Lettere e animatore un´associazione di lettori della Nazionale - Non possiamo più stare fermi a guardare, vogliamo organizzare una giornata di mobilitazione generale che coinvolga intellettuali, ricercatori, politici per accendere i riflettori sul valore di questa istituzione. Ci piacerebbe poter realizzare un concerto dentro la biblioteca coinvolgendo il Maggio Musicale. Non possiamo accettare una riduzione dell´orario di apertura perché chi fa ricerca ha bisogno di consultare i libri tutti i giorni. Chiudere le sale è uccidere la missione e il ruolo stesso della Nazionale». Nei giorni scorsi si è mossa la commissione cultura di Palazzo Vecchio che sta preparando una mozione in difesa di «quest´eccellenza che non è soltanto fiorentina ma di tutto il Paese». «Il paradosso è che proprio in concomitanza dei suoi 150 anni - ha detto il presidente Leonardo Bieber (Pd) - la Biblioteca rischia di veder compromessa o ridimensionata la propria attività». Del caso si è occupato il presidente della Provincia Barducci e quello del Quartiere 1 Marmugi.
La Nazionale di Firenze ha oggi 196 dipendenti di cui 45 sono lavoratori part time, quella di Parigi ne ha 2.500, Londra 1260. «Dal ministero ci hanno offerto dei tavoli informatici con video touch screen - riprende Ida Fontana - Io ho spiegato che mi servono soldi per tenere aperte le sale, fondi per sopravvivere più che arredi. Sto contrattando con Quadrifoglio di cedere una piccola area esterna in affitto per permettere loro di interrare i cassonetti e a noi di ridurre il debito che abbiamo di 93mila euro nel pagamento della tassa sulla nettezza urbana. A questo siamo ridotti». Da quattro anni non si spolverano più i libri, da tempo è sospesa la conversione del catalogo da cartaceo a digitale, nei magazzini giacciono 200mila volumi ancora da sistemare negli scaffali. E poi l´intonaco dei muri con le ombre delle luci al neon levate dieci anni fa, il nastro isolante lungo il corrimano delle scale, il bar chiuso da tempo, il lucernario che lascia filtrare la pioggia e le sedie scassate nella sala consultazione. Questa è la fotografia di oggi della prima biblioteca italiana.