venerdì 24 settembre 2010

l’Unità 24.9.10
Pd, via libera a Bersani Veltroni si astiene
Il segretario ribadisce le critiche ma apre ai 76. Si smorzano i toni dello scontro
Il Direttivo Pd dà via libera al leader che critica il documento dei 76: «Un errore, ha creato sgomento»
Bersani: la bussola c’è
Con Veltroni 31 astenuti
A larghissima maggioranza il direttivo Pd dà via libera a Besani che commenta: «Evidentemente la bussola c’è». Veltroni apprezza i toni usati del segretario. Tra i 32 astenuti anche i componenti dell’area Marino.
di Simone Collini


«Evidentemente, la bussola c’è». È un Bersani particolarmente soddisfatto quello che emerge dalla nuvola di Toscano e da sette ore filate di discussione. La tanto attesa Direzione del Pd si apre col segretario che ribadisce le critiche al documento veltronian-fioroniano firmato da 76 parlamentari (ieri si è aggiunta la pugliese Cinzia Capano) e si chiude con un voto sulla sua relazione che incassa solo sì (compreso quello della “firmataria” Franca Biondelli) e 32 astensioni (compresi 17 voti appartenenti all’area Marino).
Alla votazione segue sotto traccia uno strascico di polemiche, con i veltroniani e gli ex-ppi che contestano alla presidente Bindi di non aver contato né i votanti né i sì, cosa che avrebbe fatto apparire percentualmente più estesa la pattuglia “movimentista”, visto che non tutti i 201 membri della Direzione erano presenti al momento del voto. Ma nessuno ha voglia di rivivere giornate come quelle passate: non ce l’ha Bersani, per il quale ora il Pd deve andare sui giornali per
le proposte per affrontare i problemi del paese: «C’è gente che non mangia, non parliamogli delle nostre inquietudini»; e non ce l’ha Veltroni, che non vuole passare né per lo sfidante di Bersani («Pier Luigi è il mio segretario») né per quello che può innescare processi di divisione: «Ci sono le condizioni perché da questa discussione il Pd esca più unito e più forte». Lo scontro viene dunque evitato, con l’esito della Direzione che appare chiaro non appena, subito dopo la relazione d’apertura di Bersani, i veltroniani commentano positivamente l’intervento del segretario per i «toni» utilizzati.
BERSANI RIBADISCE LE CRITICHE
In realtà Bersani apre i lavori ribadendo tutte le critiche al documento dei 76, che giudica «un errore». «Io valuto l’effetto oggettivo: un atto avvenuto a organismi convocati (il coordinamento, la direzione, l’assemblea) che ha provocato sbandamento e in alcune aree sgomento tra i nostri sostenitori. È stato veicolato come l’immagine di un partito senza rotta, in perenne congresso, che discute di temi incomprensibili ai cittadini». Bersani dice che la «linea» è quella espressa alla chiusura
della Festa di Torino («non ho nulla di sostanziale da correggere»), che ben venga la discussione ma «niente gioco dell’oca, non possiamo ricominciare sempre dall’inizio», che «si devono archiviare le chiacchiere politiciste per parlare del nostro progetto per l’Italia». Poi il segretario dice anche «alleanze sì, ma non a tutti i costi» e ammette che il partito ha delle difficoltà («non trasmettiamo un’idea di rinnovamento, bisogna che riflettiamo con più generosità come gruppo dirigente»). Tanto basta, oltre ai toni effettivamente pacati da buon emiliano, per far vedere a Veltroni nell’intervento del leader Pd ombre ma anche luci.
I SASSOLINI DI VELTRONI
«Abbiamo colto positivamente nella relazione di Bersani gli elementi che accolgono problemi e ansie nostre dice Veltroni lavoreremo perché tutti insieme dobbiamo fare un Pd più forte». Ma insieme ai toni unitari, arriva anche qualche sassolino tolto dalla scarpa. Veltroni ricorda la dalemiana Red quando lui era segretario («114 parlamentari fondarono un’associazione con tanto di tessere») e lancia una frecciata allo stesso leader Pd: «Quando nel pieno della campagna elettorale in Sardegna Bersani si candidò per le primarie non ci rimasi bene ma non obbiettai. Egli sostenne che voleva solo discutere e non litigare. Ecco, uso le sue parole: stiamo solo discutendo». Poi arriva il voto, e viene sancita la tregua.

l’Unità 24.9.10
La nuova minoranza è nata: parte la corsa per assumere la guida degli ex Ppi
Con l’astensione i veltroniani si sono formalmente differenziati dall’Area democratica guidata da Franceschini. L’ex segretario chiede a Bersani una gestione collegiale e a Veltroni di far prevalere l’interesse generale.
di S. C.


Dopo la riunione della Direzione nel Pd c’è una nuova minoranza e una guerra aperta per assumere la guida della componente ex-ppi. Sarà solo il tempo a dire se le due cose faranno traballare la tregua siglata ieri. «Noi in Direzione non abbiamo mai votato, si potrebbe fare così anche oggi ma comunque...». Walter Veltroni non nasconde che avrebbe preferito evitare la conta. Ma in Area democratica più d’uno è convinto che la ritrosia dell’ex segretario sia più che altro simulata. E il sospetto viene confermato quando Giorgio Tonini, della prima cerchia veltroniana, fa sapere mentre ci si avvia verso la chiusura dei lavori: «Bersani ha impostato il dibattito in modo costruttivo ma è utile che la minoranza faccia fino in fondo il suo dovere perché serve una discussione vera e non compromessi verbali dentro il gruppo dirigente. L’astensione è un segnale di distinzione che però prende atto delle aperture». Insomma nessun “no” che sancirebbe una rottura poi difficile da gestire, ma anche il sì alla relazione di Bersani espresso da Dario Franceschini viene giudicato dai veltroniani dannoso. «Dobbiamo mantenere l’inquietudine aperta perché troppe volte ci sia-
mo messi il cuore in pace tra di noi però poi l’unanimismo non è compreso dagli elettori». L’obiettivo critico è proprio il capogruppo alla Camera del Pd, che alla Direzione interviene per chiedere al segretario una «gestione collegiale» e ai firmatari del documento di «far prevalere l’interesse generale alla convenienza e al calcolo». La crisi economica, sociale e democratica del paese, dice Franceschini, «impone scelte di emergenza»: «Non rinuncio alle idee che rappresento ma metto a disposizione di tutto il partito il milione di voti raccolto alle primarie sulla mia candidatura».
Un discorso che non convince Veltroni, Fioroni e gli altri firmatari del documento. Che puntano ora, dopo che il voto di ieri ha certificato la nascita di una componente diversa dalla vecchia Area democratica, a giocare il ruolo della minoranza che si contrappone a Bersani. Una minoranza in cui non vuol confluire l’area Marino: «Nessuno è autorizzato a pensare che la nostra astensione possa sommarsi o fondersi con posizioni e voti espressi da altri», dice Michele Meta. E una minoranza in cui intende giocare un ruolo di primo piano Fioroni, ponendosi come la nuova guida della componente ex-ppi: «Non faremo la fine degli armeni. E da questo partito non me ne vado, neanche se mi cacciate». Franco Marini lo ascolta e poi un po’ lo prende in giro: «Da responsabile welfare, dovrebbe dedicare più tempo alle iniziative sulla scuola e meno alle cene, lì si chiacchiera molto ma non si fanno proposte».

Corriere della Sera 24.9.10

L’obiettivo della nuova maggioranza: fare fuori i due eterni rivali
di Maria Teresa Meli

Gli uomini del segretario: Pier Luigi non ha bisogno di D’Alema

ROMA — Apparentemente è un pari e patta. Ed effettivamente tra un Bersani che non voleva la conta e un Veltroni che non agognava lo scontro, la partita si chiude senza né un vincitore né un vinto.
Ma seguendo il filo del dibattito in Direzione si capisce che qualche cadavere, politicamente parlando, cade sul campo. Meglio cominciare dall’inizio. I dalemiani tacciono. Parla solo Barbara Pollastrini per dire: «Io che ho fatto "Red" quando Walter era segretario, non posso prendermela adesso per quel documento che pure non mi piace». Parla Enrico Letta e c’è bisogno dei sottotitoli: non voglio D’Antoni responsabile degli Enti Locali come moneta di scambio per l’alleanza con Franceschini. Parla il suddetto, e senza nessun ausilio, si capisce che scarica diverse colpe su Rosy Bindi, rea di aver dichiarato al Corriere che è tutta colpa di Veltroni. Il quale Veltroni parla anche lui e non si capisce se voterà a favore, contro o se, piuttosto, si asterrà, come alla fine sarà.
Sul voto in questa Direzione ci si eserciterà tra amanti del genere: quel quarto di consensi dell’ex segretario è veramente un quarto, e, se, nel caso, che sarà di quel pacchetto di voti? Giù disquisizioni sull’esito della riunione e vivisezioni del Partito democratico. Poi ci sono i fatti. Primo, Fassino e Franceschini sono passati in maggioranza. L’ex segretario dei Ds con una certa discrezione. Il capogruppo dei deputati con maggior clamore e con il suo portavoce Piero Martino che dice: «Bersani ha fatto un discorso coraggioso, è stato bravissimo». Secondo, Veltroni e Fioroni hanno ottenuto meno di quel che si aspettavano ma hanno comunque segnato un argine. Terzo, la nuova maggioranza che esce dalla Direzione di ieri ha un obiettivo: fare fuori D’Alema e Veltroni, ossia superare la dialettica su cui è rimasto sempre appeso il centrosinistra. Sono i quarantenni che danno questa lettura. Stefano Di Traglia, portavoce del segretario: «Pier Luigi non ha bisogno di D’Alema per decidere quello che deve fare». Martino: «Che cosa conta quello che dicono i dalemiani?».
Ma siccome di sola politica non si vive, ecco che si arriva al «sodo». Ossia alle liste che, come confidava qualche giorno fa Andrea Orlando a qualche compagno di partito, si stanno già preparando perché non bisogna farsi trovare impreparati di fronte all’eventualità che si arrivi al voto anticipato a marzo del prossimo anno. Ed è su questa materia che il Pd si avviterà e si dividerà.
Le voci si rincorrono già per il Transatlantico. La minoranza ex ppi passata in maggioranza — Franceschini e Marini, per intendersi — non ha fatto un grande exploit e si è fatta sfilare da Beppe Fioroni un pacchetto di consensi e quadri dirigenti. E quindi difficilmente verrà premiata. Nelle liste che si stanno preparando traballano due fedelissimi di Franceschini, come Pina Picierno e Alberto Losacco, mentre resistono Martino e Antonello Giacomelli. A «casa Fassino» la situazione non è migliore: il passaggio in maggioranza non ha portato posti in più. In bilico Morri e Tempestini, due fedelissimi dell’ex segretario Ds, stabile Anna Serafini, incerti tutti gli altri. I veltroniani avranno i loro caduti, ma comunque la corrente li tutelerà, lo stesso dicasi per i sostenitori di Ignazio Marino, che, non a caso, dopo aver sposato la linea Bersani, ha fatto un passo indietro, non si sa mai. In difficoltà anche Rosy Bindi ed Enrico Letta. Si sono scagliati a testa bassa contro Veltroni, ma non gli hanno sfilato nemmeno un parlamentare, e con Fioroni dall’altra parte il loro peso di ex ppi cala vertiginosamente. La prima rischia di non poter più candidare Giovanni Bachelet, il secondo salverà Francesco Boccia, quanto agli altri chissà. Di tutto questo non si discute negli interventi in Direzione, ma nei corridoi di largo Nazareno non si parla d’altro.

Repubblica 24.9.10
La tela del segretario Cisl per dar vita al terzo polo. Marini: "I veri popolari restano qui"
L´ombra della scissione sui democratici Bonanni organizza l´uscita degli ex Ppi
di Goffredo De Marchis

Telefonate del sindacalista a sei senatori per "suggerire" di firmare con i 75

ROMA - Sembra una vendetta. È invece un´operazione politica partita sottotraccia ma dai contorni sempre più definiti. A Raffaele Bonanni tirarono un petardo sul palco della Festa democratica di Torino. Ragazzi dei centri sociali, non militanti del Pd. Adesso il segretario della Cisl potrebbe tirare un fumogeno sul corpo di un partito già piuttosto agitato.
Bonanni, raccontano, avrebbe telefonato personalmente a 6 senatori democratici di provenienza popolare per invitarli a firmare il documento dei 75 che ha scosso la segreteria Bersani. E non è la vocazione maggioritaria la spinta ideale del leader sindacale. Tantomeno un improvvisa cotta per Walter Veltroni. Spaccare il Pd facendo leva sul disagio dei moderati significa dare una mano alla nascita del terzo polo, dominato da Pier Ferdinando Casini. Il pacchetto di voti Cisl fa gola a molti. E paura a chi potrebbe perderlo. Una scissione corroborata da quel bacino elettorale sarebbe un problema gigantesco per Bersani, niente a che vedere con le fughe isolate degli ultimi tempi. Non è un mistero che Bonanni ha un alleato fedele nel Pd, Beppe Fioroni. Promotore del testo dei 75, cassaforte di buon numero di voti ex ppi e tra i dirigenti più a disagio nel soggetto creato tre anni fa. Fioroni lavora anche sul territorio per creare una rete legata agli ex popolari. E al mondo cislino.
Operazione che Franco Marini, ex segretario del sindacato "bianco" ha stoppato con forza alla riunione di mercoledì scorso. Alludendo alle voci sui movimento di Bonanni e Fioroni. «Non vi preoccupare - ha detto agli amici ex ppi - io continuo a parlare con la Cisl, ad avere rapporti con loro». Poi ha messo nella cassetto la bandiera scudocrociata dal Partito popolare. In modo che nessuno possa sbandierarla in un luogo diverso dal Partito democratico. «Qui finisce la storia del Ppi e degli ex ppi. Non esiste più un´area politica. Esiste solo l´associazione guidata da Castagnetti che si occupa di attività culturali».
Il senatore Lucio D´Ubaldo, vicino a Fioroni, parlando con il Foglio ha disegnato una strategia scissionista. «Siamo stanchi di sentirci ospiti nel Pd», ha detto. L´ex ministro dell´Istruzione comincia a muoversi per conto suo nella corrente dei 75 e domenica a Orvieto riunisce un gruppo di amministratori locali. Cioè, un bel pacchetto di voti. Dice pubblicamente che lui rimane nel partito: «So che qualcuno vorrebbe che me ne andassi. Ma i cattolici non mollano». Al di là delle vere intenzioni scissioniste, Bersani è sicuramente preoccupato dei movimenti dell´ala cattolica e democristiana. Oggi andrà al convegno dei cristiano sociali. Ma non basta. Ha dato l´avallo all´operazione della giunta Lombardo quater in Sicilia. Sapendo però che è stata una trovata tattica gestita tutta dall´area ex popolare, in cuila compenente ex diessina non ha toccato palla. Adesso il fronte dei lealisti è più compatto. A Marini e Castagnetti si sono aggiunti Dario Franceschini e tutti i moderati di Area democratica. Ma è l´intervento diretto di Bonanni, più che le mosse di Fioroni e dei suoi a preoccupare il Pd e i vecchi amici democristiani. Perché il terzo polo, l´area moderata oggi sono un avversario del Pd. E non si sa se e quando diventeranno degli alleati.

l’Unità 24.9.10
Italia, Francia, Svezia: allarme xenofobia
I Rom e il ritorno della bestia razzista
di Dijana Pavlovic


Un racconto popolare rom descrive come si sente il popolo che i nazisti volevano sterminare con gli ebrei e che tuttora viene discriminato e perseguitato: anche un “maiale” si può sentire superiore a un rom.
Come dei maiali non si butta via nulla, così dei rom non ci si libera tanto meno quanto più si strilla contro di loro. Da questo punto di vista Milano è la capitale italiana della vigliaccheria e dell’ipocrisia. Nella primavera prossima si vota per le amministrative e tempestivamente si è riaperta la questione rom: il ministro leghista Maroni finanzia il piano rom di Milano (chiusura di 4 campi regolari con circa 1000 tra adulti e minori di nazionalità italiana, rumena, macedone e kossovara da sistemare), a luglio Regione, prefettura e assessore alle politiche sociali del Comune firmano un contratto con relativo finanziamento con le associazioni del terzo settore a luglio con l’assegnazione di 25 case Aler fuori quota. Ora facendo finta di cadere dal pero lega e pdl insorgono: non una casa ai rom, presidi per le strade, benzina sul disagio delle periferie e via così verso il voto di primavera.
Ma i “nostri” non sono soli. In Francia Sarkozy di fronte al declino della sua politica monarchica ha pensato bene di aprire la caccia al rom rumeno con un editto che utilizza la direttiva europea che garantisce la libertà di movimento sul territorio comunitario condizionandolo all’autosufficienza economica. Solo che questo editto è applicato esclusivamente alla comunità rom caratterizzandosi quindi come una vera e propria espulsione su base etnica e sollevando così le proteste del parlamento europeo e attirandosi persino la reprimenda degli Stati Uniti.
C’è in tutto questo un utilizzo dell’ondata xenofoba che percorre l’Europa, un’ondata che ha lambito persino la civilissima Svezia, patria della tolleranza e dell’accoglienza, che è molto pericoloso. Il calcolo elettorale di  ̆recuperare voti coltivando il disagio, il sentimento xenofobo e la paura di fronte alla crisi economica e di valori di questa fase storica ha la gravissima conseguenza di legittimare le spinte razziste anziché contrastarle. Si pensa
che il gioco vale la candele di un pugno di voti che consenta di vincere e forse che una volta al potere queste spinte si possano tenere sotto controllo. Ma non è così: questo calcolo di breve respiro fa finta di non accorgersi del veleno che diffonde nelle coscienze e dimentica le tragiche esperienze del secolo scorso. La bestia razzista è più forte del padrone che crede di tenerla al guinzaglio.

l’Unità 24.9.10
Amato e la lezione sull’immigrazione «Italia democrazia a scartamento ridotto»
Il dottor Sottile ha parlato di immigrazione e di valore della personaa Piacenza la terza edizione del Festival di Diritto dedicato alle «disuguaglianze» e curato da Stefano Rodotà. Tre giorni per «dare voce a chi non ne ha».
di Federica Fantozzi


«L’irregolare, l’immigrato clandestino in Italia ha cessato di esistere. Non ha più diritti. Io non sono monsignor Marchetto, ma da laico chiedo: è o non è una persona?». A modo suo, sottile come è nei suoi modi codificati persino in un soprannome nella Prima Repubblica, Giuliano Amato non lesina durezze sulle pecche della nostra società così poco plurietnica e pluriculturale. Né su chi la governa: «Capita che un bambino studi qui dai 6 ai 18 anni, poi se non ha un lavoro viene espulso. Ma dovrebbe essere cittadino italiano a quel punto. È compatibile con la democrazia che chi governa non sia responsabile di chi ne subisce le decisioni? È ammissibile che i governanti non rispondano ai governati?». Questo, dice, è il problema che ci rende «una democrazia a scartamento ridotto». E che priva chi attraversa mezzo continente in cerca di futuro per sé e la propria famiglia dei più elementari diritti umani.
Con un monito sull’altro versante: «Con la diversità si può convivere se si pongono in essere politiche attive ad hoc, altrimenti prevale la diffidenza. Il volersi bene fine a se stesso è un'ideologia che non funziona». Ma «se la diversità consapevole si esprime con un velo, che riconosciamo alle nostre suore e alla Madonna, perché negarlo a chi viene da altre tradizioni?». Amato, ieri, ha inaugurato a Piacenza la terza edizione del Festival di Diritto dedicato alle «disuguaglianze» e curato da Stefano Rodotà. Tre giorni per «dare voce a chi non ne ha»: precari, migranti, donne e minori, vecchi e nuovi poveri, Paesi afflitti da un modello di sviluppo che li depreda e li inquina. Un viaggio politico, giuridico e filosofico attraverso le discriminazioni e le disparità di trattamento che tuttora si intersecano nelle pieghe delle moderne conquiste civili. E oggi, attesissimo, sarà Gianfranco Fini a indagare il compito delle istituzioni nei confronti dei "nuovi cittadini" di diverse etnie e religioni, e soprattutto nella codificazione dei loro diritti.
Impresa che, ad ascoltare l'ex ministro dell'Interno del centrosinistra, è solo agli inizi. Ed ha un importante contraltare nella coscienza di ciascuno: «Le disuguaglianze aumentano fuori perché crescono dentro di noi. Oggi eguaglianza significa non pari trattamento ma pari libertà partendo da situazione impari«. Ovvero, libertà di essere diversi. Ricordando come il primo emendamento della Costituzione Usa garantisce la libertà di religione e come le «drammatiche devianze« degli anni '20 e '30 («L'identificazione di diverse razze umane è la disuguaglianza più obbrobriosa. Chi l'ha pensata è all’inferno») abbiano prodotto la stagione delle dichiarazioni dei diritti umani. Con un importante salto di qualità: dai diritti dei cittadini si passa a quelli della persona. E dunque: «Abbiamo trionfato sul male? No, un dubbio che dilaga e ci avvelena la vita». Si chiede Amato: «A chi viene qui spetta tutto il nostro welfare? Se è qui da 5 anni e guadagna meno di me, italiano da 5 generazioni, mi passa davanti per l'alloggio popolare? Suo figlio entrerà all'asilo e il mio no? Devo consentire a un musulmano di erigere qui la sua moschea? Di segregare in casa sua moglie perché così dice il Corano? Di impedire ai figli di convertirsi al cristianesimo?». La risposta, secondo il relatore, è in una duplice bussola. Da un lato, la Costituzione e le leggi per cui ogni diversità è accettata e protetta purché non abbia come prezzo i diritti essenziali di altri. E dunque «chi viene da società più arretrate deve capire che da noi le donne hanno uguale peso e i figli diritto a scelte civili e morali». Dall’altro lato, la coscienza del singolo: «Pensiamo di costruire una società insieme o chiuderci in noi e ridurre il fenomeno dell’immigrazione finché si estinguerà da solo?».

l’Unità 24.9.10
Tiro con l’arco e tiro a volo entrano nelle classi «No alla scuola con l’elmetto»
Si chiama “Allenati alla vita” il corso, con tanto di gare pratiche tra pattuglie di studenti, valido come credito formativo scolastico, che ha ricevuto l’ok dei ministri La Russa e Gelmini. Contrari Pd, Radicali e Tavola della pace.
di Marzio Cencioni


Anche saper tirare con l’arco e con la pistola ad aria compressa vale come credito formativo scolastico. Lo prevede un Protocollo d’intesa siglato tra l’Ufficio scolastico per la Lombardia e il comando regionale dell’esercito, con il beneplacito dei ministri La Russa e Gelmini, e il «caso» è approdato in Parlamento.
A portare alla ribalta la singolare intesa è stato il settimanale cattolico Famiglia cristiana e le critiche non si sono fatte attendere. Già mercoledì le associazioni studentesche e il Pdci avevano stigmatizzato l’iniziativa, ieri la Tavola per la pace ha puntato l’indice e Pd e Radicali hanno presentato interrogazioni parlamentari.
Ma di cosa si tratta? Il progetto, denominato “Allenati alla vita” è un corso, con successiva gara pratica tra pattuglie di studenti, valido come credito formativo scolastico e con oneri di spesa sponsorizzati da enti pubblici e privati. Oltre alle lezioni teoriche, che possono essere inserite nell’attività scolastica di “Diritto e Costituzione”, il progetto sviluppa le attività di primo soccorso, arrampicata, tiro con arco e pistola ad aria compressa, nuoto e salvamento, orientiring e, infine, percorsi ginnico-militari. Queste attività è la convinzione dei promotori «permettono di avvicinare in modo innovativo e coinvolgente, il mondo della scuola alle Forze armate, alla Protezione civile, alla Croce rossa e ai gruppi volontari di soccorso». Non solo. Consentirebbero anche di contrastare il bullismo «grazie al lavoro di squadra che determina l’aumento dell’autostima individuale e il senso di appartenenza a un gruppo».
UNA VALANGA DI CRITICHE
Molti gli esponenti politici che hanno deciso di portare la questione in Aula. «Dopo aver svuotato le casse scolastiche, dopo aver fatto entrare i simboli di partito in una scuola dello Stato oggi, con la diffusione e la pratica della cultura militare e dell’utilizzo delle armi a scuola, credo spiega Francesca
Puglisi, responsabile scuola del Pd sia giunto il momento di dire: basta. Si sta drammaticamente realizzando ciò che Piero Calamandrei aveva prefigurato in un suo celeberrimo discorso: il ritorno di una dittatura nel nostro paese non avverrà con i carri armati per le strade ma distruggendo la scuola pubblica. Noi vogliamo che i nostri ragazzi apprendano a scuola la cultura della pace, l’unica che potrà garantire a tutti un futuro».
Dello stesso tenore il commento dei Radicali. «Una ne pensano e cento ne fanno al Ministero della difesa; ma mai la fanno da soli. Infatti, se per la “mini-naja” è stato coinvolto il ministro per la Gioventù, per la “scuola di guerra” afferma il senatore Marco Perduca il ministro La Russa ha coinvolto la collega Gelmini».
«Per ora si sa solo che gli studenti saranno organizzati in “pattuglie” come quelle che girano per le strade dell’Afghanistan. Verrà insegnato loro a mirare, sparare e tirare con l’arco. Non verrà chiesto di combattere i talebani ma solo di sbaragliare tutti gli avversari. Non sappiamo quale premio verrà riconosciuto ai vincitori. Si sa che vincitori e vinti riceveranno un bel Credito formativo scolastico. È questa la scuola che vogliamo per i nostri figli?» si chiede Flavio Lotti, coordinatore nazionale della Tavola della pace.

Repubblica 24.9.10
E il fucile entrò a scuola lezioni di guerra agli studenti
di Francesco Merlo


Forse è arrivato il momento di ritirare a Ignazio La Russa quell´attestato di simpatia che gli conferì Fiorello trasformando in satira e ironia il fascista primordiale ossessionato dalla virilità, con il naso adunco e righignato, le nari larghe, la barbetta sotto il mento, le ciglia aspre come setole.

Gli occhi come due palle di fuoco e l´ormai famosa voce, che è - "digiamolo" - fascismo rasposo più che buonumore rauco. In combutta con Maria Stella Gelmini, La Russa ha introdotto la pratica delle armi nelle scuole superiori. È un corso di guapperia militaresca, valido come credito formativo, che hanno chiamato "Allenati alla vita" e dove l´insegnamento pratico delle tecniche di guerra, la divisone dei ragazzi in pattuglie, il caricamento dei fucili e le sedute nei poligoni di tiro stanno insieme ad altre discipline belle, giuste e già obbligatorie nelle scuole anglosassoni, come per esempio la sopravvivenza, il nuoto, il primo soccorso e le tecniche di salvataggio. È dunque evidente il tentativo di nascondere le ortiche in un mazzo di fiori, ma il risultato finale è quello, opposto, di nascondere i fiori ed esaltare le ortiche, vale a dire lo spirito guerriero come valore educativo.
È chiaro che nessun La Russa e nessuna Gelmini riusciranno a risvegliare negli italiani la retorica degli otto milioni di baionette ed è molto probabile che non è questo che i due ministri vogliono. Insomma non è il fascismo che li anima. È però una caricatura di "libro e moschetto" questa idea che la scuola debba insegnare a sparare ed è l´ennesima prova che troppo presto e con troppa benevolenza abbiamo liquidato Ignazio La Russa come pittoresco quando concesse le Frecce Tricolori al circo di Gheddafi, o quando si fece riprendere in tuta mimetica negli avamposti afgani, o ancora quando cercò di picchiare, con le sue manone ministeriali, un giornalista che "disturbava" la conferenza stampa di Berlusconi. O, andando a ritroso, quando fu sorpreso (e registrato) da un cronista del Tempo in un bar di Roma, mentre con Gasparri e Matteoli sfogava la sua arcaica e cameratesca virilità in un turpiloquio irripetibile, a conferma di un rapporto losco con il sesso, rude, crudo, diretto, strumentale e fascista. La verità è che del fascismo nostalgico La Russa conserva la vocazione per la pagliacciata delle parate, il salto dentro il cerchio di fuoco di Starace, e da ministro della Difesa scambia i militari con i militaristi, l´esercito moderno che sa fare la guerra perché vorrebbe abolirla con i Rambo e con la maschia gioventù della sua sottocultura, i cittadini guerrieri che sanno tutto di fucili, coltelli, polvere pirica, cartucce, tute mimetiche e stivaloni.
Nelle scuole tedesche e in quelle inglesi, a Chicago come a Parigi, a Stoccarda come a Londra e anche a Torino, per non parlare di certi istituti dei quartieri caldi delle città italiane del Sud, circolano troppe pistole e coltelli, e ci sono ragazzi che sparano con il fucile dal balcone di casa, altri ancora che massacrano i loro coetanei. Insomma sempre più si diffonde, anche in Italia, l´uso delle armi da gioco e da difesa, armi da caccia e armi contro l´insicurezza, armi di paura, armi per diventare eroi, armi per diventare delinquenti. Sembra dunque incredibile che la ministra Gelmini pensi davvero che imparare a sparare permetta «di avvicinare, in modo innovativo e coinvolgente, il mondo della scuola alla forze armate, alla protezione civile, alla Croce rossa e ai gruppi volontari del soccorso». È vero il contrario: per educare e per allenare alla vita, la scuola dovrebbe, fra la altre cose, smontare la cultura della armi e insegnare a vivere con compostezza, perché i fucili, le pistole e le pallottole prima o poi trovano un nemico da abbattere: «Se al primo atto il fucile è appeso al muro, al terzo sicuramente sparerà».
Perché non insegnare allora la speciale camminata del protettore di strada, l´uso della mezza parola e dei baffoni a cespuglio o magari la loro variante padana, vale a dire il dito medio di Bossi che è come il ciuffo manzoniano, quello dei bravi? Le armi a scuola sono roba da Antistato, da picciotti appunto. La Gelmini è la loro nuova eroina se non altro perché in questo modo dimostra ai picciotti che tutto è professionale e tutto si può insegnare, anche l´accattonaggio. Esistono già le scuole, non certo comunali né regionali, nelle quali si insegna a sparare e a maneggiare bastoni e coltelli, ma anche a fingersi storpi o ciechi per impietosire la gente. E come tutti capiscono, ci vuole professionalità e tecnica anche per rubare motorini.
Come dicevamo all´inizio, facendo la caricatura dell´uomo delle caverne, Fiorello offrì a La Russa un passaporto per la simpatia. Ed è probabile che davvero a La Russa riuscì di prendere le distanze da quel se stesso che Fiorello così bene strapazzava. Ma adesso che il potere ce lo ha restituito al naturale, il brutto anatroccolo è ridiventato brutto anatroccolo. Ha perso la dignità umoristica ed è ritornato ad incarnare lo stereotipo, ridicolo ma non più simpatico, del fascista violento fuori dal tempo e fuori dal mondo. E gli si affianca la Gelmini che con cinica crudezza e con indecenza getta nella scuola-spazzatura tutte le ossessioni dei ministri del governo Berlusconi: i tagli di Tremonti, i fannulloni di Brunetta, i razzismi della Lega, il rancore verso i sindacati e il sessantotto, e ora l´arditismo del ministro della Difesa. Come ultima scelleratezza la Gelmini "addottora" infatti le armi e i miti primordiali di La Russa: appalta la scuola al selvaggio di destra con il totem della virilità.

Repubblica 24.9.10
Corsi militari a scuola, bufera in Lombardia
Un progetto di addestramento voluto da La Russa e Gelmini. "No agli studenti con l´elmetto"
di Sandro De Riccardis


Partecipano ottocento ragazzi di 140 istituti. L´indignazione di Famiglia cristiana

MILANO - Pattuglie di studenti che come soldati imparano a tirare con l´arco, a mirare e sparare con pistole ad aria compressa, a sperimentare tecniche di primo soccorso e arrampicata, ma anche di "superamento ostacoli e sopravvivenza in ambienti ostili". Come in guerra.
Un «progetto di addestramento», si legge nella circolare che recepisce il protocollo "Allenati alla vita", siglato tra la direzione scolastica della Lombardia e il comando militare dell´Esercito, «supportato dalla sinergia» tra i ministri della Difesa Ignazio La Russa e dell´Istruzione Maria Stella Gelmini. Un corso che coinvolge tutte le province lombarde, 800 studenti, 140 istruttori appartenenti all´Unione nazionale ufficiali in congedo d´Italia, 27 docenti e 38 scuole superiori. E che scatena le polemiche di opposizione e pacifisti, e anche del settimanale Famiglia Cristiana che ne ha dato per prima notizia. «È una scelta che sa di antico, e sembra appartenere a un´altra epoca» accusa don Antonio Sciortino, direttore del periodico. La Tavola della Pace parla di «studenti con l´elmetto». «Organizzati in pattuglie come quelle che girano per le strade dell´Afghanistan – attacca Flavio Lotti, coordinatore nazionale della Tavola della pace – Non gli verrà chiesto di combattere i talebani ma solo di sbaragliare tutti gli avversari. Non sappiamo quale premio verrà riconosciuto ai vincitori».
Per tutti gli adolescenti, il corso è valido come credito formativo, si avvale di militari in congedo anche di ritorno da missioni all´estero, ha lo scopo di "far rivivere ai giovani esperienze di sport e giochi di squadra, ma anche introdurre corsi specifici e prove tecnico pratiche per avvicinare la realtà scolastica alle Forze armate, ai corpi dello Stato e alla Protezione civile e a gruppi volontari di soccorso". Per gli ideatori il corso serva anche a contrastare il bullismo, "grazie al lavoro di squadra che determina l´aumento dell´autostima individuale e il senso di appartenenza a un gruppo". Duro il commento del Partito democratico che ricorda le parole di Piero Calamandrei. «Si sta drammaticamente realizzando ciò che aveva prefigurato in un suo celeberrimo discorso – ricorda Francesca Puglisi, responsabile Scuola del partito –, il lento ritorno di una dittatura nel nostro paese, non con i carri armati per le strade ma distruggendo la scuola pubblica. Noi vogliamo che i nostri ragazzi apprendano in classe la cultura della pace, l´unica che potrà garantire a tutti un futuro». Di «scuola di guerra» parla anche il radicale Marco Perduca. Intanto, con una mozione in Consiglio regionale della Lombardia, il consigliere di Sinistra ecologia libertà Chiara Cremonesi chiede il ritiro immediato del protocollo. «Un opuscolo che ci lascia davvero esterrefatti – dice Cremonesi – Dieci pagine in cui gli studenti vengono chiamati "cadetti" e le squadre "pattuglie". Si tagliano materie importanti e si colpisce la qualità dell´insegnamento, compromettendo il futuro di un´intera generazione di studenti. Ma li si addestra a sparare».

Repubblica 24.9.10
Così si uccide la scuola pubblica
di Chiara Saraceno


Le maestre sono costrette a barcamenarsi, rallentano per non lasciare indietro gli alunni che partono svantaggiati

Una prima elementare a tempo pieno di una città del Nord, in un quartiere popolare con una forte presenza di immigrati. Trenta bambini per lo più eccitati dall´essere entrati tra i "grandi", ad imparare le cose "dei grandi", dopo il lungo apprendistato della scuola dell´infanzia, ove hanno da tempo imparato diverse cose, che un tempo si imparavano solo alla scuola elementare: non solo ad utilizzare il disegno come forma di comunicazione, ma a scrivere il proprio nome, riconoscere i segni identificativi del proprio e altrui posto, muoversi negli spazi e utilizzarli appropriatamente. Una buona metà sa già leggere e scrivere, pur con diversi livelli di competenza. Altri, anche tra gli italiani, fanno invece fatica ad esprimersi. Tra i figli di immigrati, ci sono diversi livelli di competenza linguistica: qualcuno padroneggia l´italiano come i coetanei italiani, con cui spesso è stato alla scuola materna, altri sono appena arrivati e stanno incominciando a impararlo, insieme a tutte le altre novità che comporta l´essere stato trapiantato in un paese sconosciuto.
Di fronte a questi bambini così diversi, ma tutti con le loro attese, curiosità, disponibilità ad essere conquistati dal meraviglioso mondo dell´apprendimento e della conoscenza, una sola maestra. Dato che la compresenza è stata eliminata in nome di esigenze di bilancio, ma anche perché la ministra e i suoi consiglieri la considerano uno spreco inutile di personale a solo vantaggio dei sindacati, una sola maestra per volta deve tener vivo l´interesse di trenta bambini, attenta a non scoraggiare chi è più avanti e a non lasciare irrimediabilmente indietro chi fa più fatica.
E dato che la ministra pensa che il modo migliore di integrare i bambini di provenienza non italiana sia separarli, se invece questi si trovano in mezzo ai coetanei italiani, non è previsto nessun insegnante che li segua nell´apprendimento della lingua (una misura da tempo inventata in paesi con una storia migratoria più lunga). Certo, negli anni Cinquanta e Sessanta le classi elementari potevano arrivare fino a 40 allievi. Ma era anche il tempo in cui i bambini erano molti di più e in un contesto di risorse - insegnanti, edifici - scarse c´era una sorta di trade off tra l´intento di fare in modo che tutti andassero a scuola e l´attenzione per i diversi ritmi e capacità di ciascuno. I bambini arrivavano a scuola con attitudini e competenze certamente differenziate per classe sociale, ma in un mondo ancora limitato al perimetro della famiglia e della scuola. Non c´era la televisione, il computer, internet. La pubblicità non aveva ancora scoperto i bambini come consumatori. E l´autorità e la disciplina erano lo strumento principe per tenere in ordine la classe, senza troppe preoccupazioni per gli effetti delle disuguaglianze sociali. Infatti i bocciati (già in prima elementare) appartenevano tutti alle classi più svantaggiate.
Quel mondo non esiste più, e le maestre lo sanno bene. Sanno anche che proprio perché i bambini oggi sono esposti ad una varietà di stimoli ed esperienze cognitive ben prima di arrivare nella scuola elementare, hanno bisogno di un insegnamento più dinamico e che riconosca le loro competenze e quindi più attento al diverso ritmo e sviluppo di ciascuno. Tanto più che proprio questa maggiore ricchezza di stimoli rischia di allargare le disuguaglianze sociali: tra i bambini che per appartenenza familiare sono in grado di trarne tutti i benefici ed invece quelli che ne sono esclusi. Ma non si può fare con questi numeri.
Così le maestre si barcamenano, rallentano le fasi dell´apprendimento per non lasciare troppo indietro quelli che partono svantaggiati, senza tuttavia poterlo fare del tutto. Così che comunque qualcuno sarà lasciato ad arrancare mentre i più svegli, o i più avvantaggiati, si annoieranno e forse perderanno per la strada la fiducia che avevano riposto in questa avventura. Ed i genitori che possono permetterselo si chiederanno se non sia meglio iscrivere il figlio ad una scuola privata. È così che si uccide la scuola pubblica, ma soprattutto la curiosità, la voglia di apprendere di chi vi entra con fiducia e desiderio. Non è colpa né delle maestre (che anzi fanno del loro meglio), né degli immigrati, né tantomeno dei bambini e dei loro genitori, con le loro diversità e disuguaglianze. È colpa di una gestione politica della scuola miope e indifferente all´esperienza dei bambini.

l’Unità 24.9.10
Il presidente Usa all’assemblea: moratoria delle colonie, il nuovo Stato entro un anno
Gerusalemme nega il boicottaggio del discorso: assenti perché è la festa sacra del Sukkot
Obama spinge per la Palestina All’Onu vuote le sedie di Israele
Un discorso coraggioso. «La vera sicurezza dello Stato Ebraico richiede una Palestina indipendente». È il messaggio di Barack Obama all’Assemblea generale dell’Onu. Il giallo delle sedie vuote di Israele.
di Umberto De Giovannangeli


Barack Obama lancia dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite un messaggio politico. Che dà sostanza al «Nuovo Inizio» evocato dal presidente Usa nel suo discorso all’Università del Cairo. Obama rilancia. Se ci sarà un accordo di pace in Medio Oriente nei prossimi mesi, «quando torneremo qui l’anno prossimo potremmo avere un accordo che ci porterà uno nuovo membro delle Nazioni Unite: uno Stato indipendente di Palestina, che vive in pace con Israele», rimarca Obama prendendo la parola al Palazzo di Vetro in occasione della 65ma Assemblea Generale dell’Onu.
APPOGGIO ALL’ANP
«Non vi sbagliate: il coraggio di un uomo come il presidente (dell’Autorità Nazionale Palestinese) Abu Mazen, che difende il suo popolo di fronte al mondo, è decisamente più grande di coloro lanciano razzi contro donne e bambini innocenti», scandisce l’inquilino della Casa Bianca ribadendo il suo pieno appoggio alla leadership di Mahmud il moderato. «Ma pensate per un attimo all’alternativa – prosegue Obama nel suo ragionamento se non c’è un accordo, i palestinesi non conosceranno mai l’orgoglio e la dignità che conferisce uno Stato». Mentre «gli israeliani non conosceranno mai la certezza e il senso di sicurezza che può dare un vicino sovrano e stabile,che si è impegnato seriamente per una convivenza pacifica». La certezza di Obama è una sola: se il suo tentativo fallisce, bisognerà aspettare la prossima generazione per sperare di negoziare di nuovo. Per questo, il presidente americano si rivolge, in particolare, ai Paesi arabi perché facciano di più per sostenere concretamente una pace che finora hanno solo auspicato a parole. «In questa sala molti di voi si definiscono amici dei palestinesi afferma l’inquilino della Casa Bianca alle parole ora devono seguire i fatti».
Chi appoggia l’esistenza di una Palestina indipendente, «deve smettere di tentare di distruggere Israele». Secondo l’inquilino della Casa Bianca, «i tentativi di minacciare o uccidere israeliani non gioveranno in nulla al popolo palestinese, perché il massacro di israeliani innocenti non è resistenza, è ingiustizia». Obama afferma inoltre che «coloro che hanno sottoscritto l’Iniziativa di pace araba (presentata a Riad nel 2003, ndr) dovrebbero cogliere quest’opportunità di metterla in pratica, specificando e dimostrando nei fatti la normalizzazione che essa ha promesso a Israele». Inoltre, «coloro che prendono posizione per l’autogoverno palestinese dovrebbero sostenere i palestinesi con il loro appoggio politico e finanziario e, così facendo, aiutare i palestinesi a costruire le istituzioni del loro Stato». Obama chiede anche a Israele di estendere la moratoria della costruzione di insediamenti nei Territori occupati, incontrando subito il favore di Abu Mazen. Sulla questione Iran, Obama ha ribadito che «la porta resta aperta alla diplomazia se Teheran deciderà di varcare tale soglia»’. Ma il governo iraniano «deve dimostrare al mondo gli scopi pacifici del suo programma nucleare»’. Obama ha poi confermato che tutte le truppe Usa lasceranno l’Iraq entro l’anno prossimo mentre il ritiro dall’Afghanistan scatterà nel luglio 2011. La distruzione di Al Qaeda resta un’altra priorità del presidente Usa.
Ad ascoltare Obama, al Palazzo di Vetro, non c’è la delegazione d’Israele. Generalmente, anche in caso di boicottaggio, un funzionario di basso livello ascolta l’intervento in questione.
IL FALCO LIEBERMAN
A guidare la delegazione israeliana è il ministro degli Esteri Avigdor Lieberman, capofila dei falchi nel Governo dello Stato ebraico. Ma Israele nega qualsiasi boicottaggio del discorso del presidente Usa. Rispondendo ad una domanda, una portavoce della missione israeliana, Karean Perez, ha indicato: «No, non c’e’ stato nessun boicottaggio. Sukkot, iniziata ieri sera (mercoledì ndr) , è una festa sacra e oggi (ieri, ndr) non ci siamo. Domani (oggi) saremo presenti, e avevamo avvertito. All’Onu lo sanno». Il «giallo delle sedie vuote» cade nel giorno in cui della pubblicazione del rapporto della Commissione d’inchiesta del Consiglio dei diritti dell’uomo delle Nazioni Unite, che ha indagato sull’arrembaggio alla nave turca «Mavi Marmara» che provocò la morte di nove persone. Secondo il rapporto, la Marina militare israeliana è responsabile di «gravi violazioni dei diritti umani» ed ha fatto ricorso a una «brutalità inaccettabile» durante il blitz del 31 maggio scorso contro la flottiglia di aiuti umanitari diretta alla Striscia di Gaza.

l’Unità 24.9.10
L’esecuzione fissata per le tre del mattino, ora italiana, in un carcere della Virginia
Otto anni fa fece assassinare il marito ed il figliastro. I periti: mentalmente disabile
Usa, Teresa Lewis nelle mani del boia Per Teheran è la Sakineh americana
Fissata per le tre di stamane, ora italiana, in Virginia, l’esecuzione di Teresa Lewis, che il presidente iraniano Ahmadinejad ha definito la Sakineh americana. La donna nel 2002 fece uccidere il marito ed il figliastro.
di Gabriel Bertinetto


Mentre si avvicinava inesorabilmente l’ora dell’esecuzione (le tre di stamattina in Italia) Teresa Lewis, rassegnata al suo destino, ha chiesto che le servissero per l’ultima volta i piatti preferiti: pollo fritto, piselli, torta di mele. Ed una lattina di «Dr Pepper», una bevanda gassata analcolica. Teresa Lewis, 41 anni, condannata a morte come mandante dell’omicidio del marito e del figliasto, si è congedata dal mondo vivendo le sue ultime ore come se fosse una giornata qualsiasi.
FEDE IN DIO
Dopo i due consecutivi no alla richiesta di grazia, pronunciati prima dal governatore della Virginia e poi dalla Corte Suprema degli Stati Uniti, le chances di una sospensione della sentenza si erano ridotte praticamente a zero. Mercoledì nel carcere «Greensville» di Jarratt, in Virginia, è andato a trovarla il sacerdote che da tempo ne era diventato il confidente ed assistente spirituale. Padre Lynn Litchfield è stato anche uno dei più attivi promotori della campagna per salvare la vita alla donna, che ha ammesso le sue colpe ed è stata giudicata parzialmente incapace di intendere in varie perizie psichiche.
«Da quando mi hanno condannato alla pena capitale, non ho fatto altro che affidarmi a Gesù e lasciare che entrasse nel mio cuore, nella mia mente, nella mia anima», ha scritto Teresa qualche tempo fa. Ma la conversione religiosa ed il pentimento non hanno impressionato la figliastra Cathy Clifton, che in nome della stessa fede in Dio ne ha sempre invocato la morte: «La Bibbia dice che se hai peccato, se violi la legge, devi essere punito». E per Cathy il castigo, nel caso della matrigna, non poteva essere altro che l’uccisione. Cathy ha lasciato ieri la sua casa nel distretto di Pittsylvania per assistere di persona all’esecuzione insieme al marito, una cognata, e un’amica.
VENDETTA DI STATO
La Virginia è uno degli Stati americani in cui le pena capitale viene applicata più spesso, ma da un secolo nessuna donna saliva sul patibolo. Forse l’evento avrebbe avuto scarso rilievo mediatico, senza la clamorosa accusa di Mahmoud Ahmadinejad, capo di Stato iraniano: gli Stati Uniti ci attaccano per il verdetto di morte contro Sakineh Ashtiani, ma a casa loro fanno esattamente le stesse cose. Un’accusa falsa. Sono due vicende molto diverse. E radicalmente diverso è il contesto giuridico in Iran, dove le garanzie di un processo equo sono minime, rispetto agli
Usa, dove gli avvocati hanno potuto liberamente svolgere il loro lavoro in difesa della loro assistita. Ad accomunare la sorte di Teresa e Sakineh è solo la loro vulnerabilità rispetto ad un istituto barbaro, la vendetta di Stato. Ancora ieri l'ambasciatore dell'Unione Europea negli Stati Uniti ha scritto al governatore della Virginia Bob McDonnell: «La Ue considera l'esecuzione di persone con disordini mentali contraria ai minimi standard di diritti umani». Ma l’ora fissata per la somministrazione del veleno letale si avvicinava, senza che dalle autorità americane arrivasse alcun segno tale da sperare in una marcia indietro in extremis.

l’Unità 24.9.10
Dal 1976 negli Usa mandati a morte 1226 condannati


Dal 1976, anno in cui la Corte Suprema reintrodusse in America la pena capitale, sono state messe a morte negli Stati Uniti 1.226 persone: 1.215 uomini e 11 donne. Nessuna in Virginia. Teresa Lewis, la disabile mentale di 41 anni, è la prima donna ad essere messa a morte in Virginia nell'arco di quasi cento anni. Nello Stato l'ultima esecuzione di una donna avvenne nel 1912, quando venne eseguita la sentenza nei confronti di Virginia Christian, una ragazza di 17 anni uccisa sulla sedia elettrica. Sempre in Virginia, la prima esecuzione documentata risale invece al 1632 con l'impiccagione di Jane Champion. Da quel giorno sono state 123 le donne messe a morte. Ma dal 1976, anno della reintroduzione della pena di morte, negli Stati Uniti sono state in tutto 11.

Repubblica 24.9.10
Sconto Ici alla Chiesa, la Ue processa l´Italia
di Alberto D'Argenio

Esenzioni per due miliardi l´anno. Bruxelles accelera: "Sono aiuti di Stato"
Diciotto mesi di tempo per indagare, poi la Commissione darà il suo verdetto
Se l´Italia sarà condannata, dovrà chiedere il rimborso delle tasse non pagate

BRUXELLES - Le esenzioni fiscali concesse alla Chiesa costano allo Stato italiano un´indagine formale dell´Ue per aiuti di Stato incompatibili con le norme sulla concorrenza. Dopo quattro anni di scambi di informazioni, due archiviazioni e una serie di controricorsi, Bruxelles mette in moto «un´indagine approfondita» sui privilegi fiscali attribuiti agli enti ecclesiastici in settori in cui "l´azienda Chiesa" (conta circa 100 mila fabbricati) è leader nazionale: ospedali, scuole private, alberghi e altre strutture commerciali che godono di un´esenzione totale dal pagamento dell´Ici e del 50% da quello sull´Ires. Con un risparmio annuo che si avvicina ai due miliardi di euro e conseguenti vantaggi competitivi rispetto ai concorrenti laici.
La procedura per aiuti di Stato sarà aperta a metà ottobre dalla Commissione europea. La decisione è già stata scritta e al momento è soggetta alle ultime limature. Nell´introduzione del documento redatto dal commissario alla Concorrenza Joaquin Almunia si legge: «Alla luce delle informazioni a disposizione la Commissione non può escludere che le misure costituiscano un aiuto di Stato e decide quindi di indagare oltre». In poche parole, da scambi di informazioni informali il dossier diventa ufficiale e fa scattare quella procedura di 18 mesi al termine della quale la Ue dovrà emettere un verdetto.
La procedura contro lo Stato italiano si articolerà su tre fronti: sotto accusa verranno subito messi il mancato pagamento dell´Ici e l´articolo 149 (4 comma) del Testo unico delle imposte sui redditi che conferisce a vita la qualifica di enti non commerciali a quelli ecclesiastici (non svolgete un´attività di impresa a prescindere e quindi pagate meno tasse). Il terzo filone riguarda lo sconto del 50% dell´Ires concesso agli enti della Chiesa che operano nella sanità e nell´istruzione: prenderà la forma di una richiesta di informazioni approfondita essendo risalente agli anni ´50, prima della nascita della Cee.
L´esenzione totale dall´Ici è stata introdotta nel dicembre 2005, in campagna elettorale, dal governo Berlusconi e quindi rivista da quello Prodi (2006) che messo sotto pressione dalla Ue aveva ristretto i privilegi solo alle attività "non esclusivamente commerciali". Intervento aggirato da ospedali o scuole che al loro interno hanno una piccola cappella. Le norme erano state portate a Bruxelles da una denuncia promossa dal radicale Maurizio Turco e del fiscalista Carlo Pontesilli (segretario di anticlericale.net) assistiti dall´avvocato Alessandro Nucara. L´allora commissaria Neelie Kroes aveva però archiviato due volte il caso e a Bruxelles in molti raccontano le fortissime pressioni ricevute da entrambe le sponde del Tevere. Di fronte all´ennesima archiviazione i denuncianti si sono rivolti alla Corte di giustizia e i legali di Bruxelles hanno convinto Almunia ad aprire la scomoda procedura (andare contro il Vaticano e un Paese fondatore non è mai consigliato) per evitare una condanna per inazione da parte dei giudici del Lussemburgo.
Condanna difficile da scampare leggendo le "conclusioni preliminari" contenute nel documento dello stesso Almunia: l´esistenza dell´aiuto di Stato è resa chiara dal «minor gettito per l´erario» e la norma viola la concorrenza in quanto i beneficiari degli sconti Ici «sembrano» essere in concorrenza con altri operatori nel settore turistico-alberghiero e della sanità. Insomma, le condizioni dell´esistenza dell´aiuto e della sua incompatibilità con le norme Ue «sembrano essere soddisfatte». Analisi curiosamente opposta a quella contenuta nelle due precedenti archiviazioni (2008 e 2010) quando non c´erano timori di una sconfessione da parte della Corte. Con l´apertura dell´indagine formale le parti avranno un mese per presentare le proprie ragioni. Quindi entro 18 mesi Bruxelles dovrà decidere se assolvere o condannare l´Italia, con conseguente fine dei privilegi e inevitabile rimborso all´erario delle tasse non pagate dagli enti ecclesiastici.

il Fatto 24.9.10
Prima della Tv
Radiotre sessant’anni sull’onda
Cosa rappresentò l’investimento culturale del fondatore Mantelli? La possibilità di uno spazio libero per parlare di arte senza condizionamenti politici

di Nicola Lagioia

Se come vuole la leggenda Mike Buongiorno avrebbe insegnato la lingua nazionale a un popolo di semianalfabeti diviso tra mille dialetti, a chi, nel mondo dei media, venne affidato invece il compito di confortare l'alfabetizzatissima schiera di italiani – non così minoritaria come si crede – che sognava un paese capace di rinascere anche culturalmente? Il Terzo Programma (Radio Tre a partire dal 1976) nacque sessant'anni fa, il 1 ottobre del 1950, sotto la direzione di Alberto Mantelli. Si trattò di un evento rivoluzionario almeno sotto tre profili: 1) per la prima volta un canale tematico si proponeva come alternativa alla filosofia generalista che fino a quel momento aveva caratterizzato la radio (e che caratterizzerà in modo sempre più invasivo e insopportabile la televisione); 2) il tema scelto era la cultura; 3) questo nuovo canale radiofonico veniva diffuso grazie a una tecnologia quasi del tutto nuova per l'epoca: insieme al Terzo Programma, era praticamente nata l'fm.
La sera di quel primo ottobre 1950 fu dedicata al mito di Orfeo. Il palinsesto si apriva con una conversazione di Emilio Cecchi sulla natura del mito. A seguire, tre ascolti di grande valore storico e musicale: L'Orfeo di Claudio Monteverdi, Orfeo all'Inferno di Jacques Offenbach, e Orfeo di Igor Stravinskij. Nei giorni immediatamente successivi si continuerà a parlare di musica e ad ascoltarla, ci saranno approfondimenti letterari su Pirandello, Jean Cocteau, Victor Hugo, e ancora musica con Hector Berlioz e altre serate "a soggetto" (su Gide, su Schumann, sulla Vienna della Finis Austriae, sulla Parigi del 1830). Una rete tutta culturale dunque, di profilo decisamente alto, in sintonia con quello che più o meno negli stessi anni stava accadendo in paesi come la Francia o l'Inghilterra del Bbc Third Programme: era questa insomma la scommessa.
L'impatto del Terzo Programma sugli ascoltatori radiofonici ebbe esiti interessanti quanto imprevisti, e fu la cartina di tornasole di un'Italia ancora poco censita sotto questo profilo. Si scoprì l'esistenza di un pubblico affamato di cultura, che apprezzava ma non si accontentava, che ringraziava anche affettuosamente per l'esistenza di un canale radiofonico capace di rendere sempre più remota l'esigenza di una “gita a Chiasso” (l’antidoto mettere il naso fuori dai confini nazionali che provocatoriamente Arbasino consigliava per debellare il provincialismo culturale  dell'Italia fascista e immediatamente post-fascista) ma che sapeva anche correggere, criticare, proporre... ascoltatori insomma che rilanciavano di continuo.
LA NASCITA della televisione, nel 1954, catalizzò ovviamente intorno a sé un pubblico in gran parte diverso da quello che seguiva il Terzo Programma, ma non si mise rispetto ad esso nella posizione di quasi insanabile contrapposizione che può esserci oggi – "quando sento parlare di cultura, metto la mano alla pistola", potrebbe dire con Goebbels l'attuale televisione generalista, e anche qualche nostro ministro. Se infatti da una parte la vecchia Rai parlava l'italiano di Mike Bongiorno (che era appunto un italiano televisivo, più povero e insipido di uno qualunque dei nostri dialetti, proprio mentre in radio a parlare di lingua e di dialetto in modo totalmente diverso venivano chiamati Bruno Migliorini e Giacomo Devoto) è pure vero che gli schermi televisivi dell'epoca non erano del tutto interdetti a gente come Eco, Calvino, Pasolini, Bene, Fo, e perché no Enzo Biagi. Così, a distanza di sessant'anni, la cosa più interessante da capire è probabilmente quale sia il ruolo di una radio culturale in un paese completamente mutato, stretto nella morsa di quella che in un recente saggio Massimo Panarari ha chiamato "l'egemonia sottoculturale". In un paese in cui la televisione è diventata inguardabile e la politica un degno specchio della televisione, a Radio Tre si continua invece a parlare di letteratura, di teatro, di scienza, di cinema, si mandano in diretta i concerti di musica classica, vengono interpellati ogni giorno scrittori, filosofi, registi, storici, musicisti... oppure si fa la radio fuori dalla radio (come lo speciale di quest'anno in diretta da Bologna nel trentennale della strage, o quello andato in onda dalla Casa della memoria e della storia di Roma, o la trasferta radiofonica dal festival teatrale di Santarcangelo). Si tratta dunque di un mondo fuori dal povero mondo italiano di questi anni? "Non un'isola felice, beata e separata", dice Marino Sinibaldi, direttore di Radio3 dall'agosto del 2009 nonché ideatore e conduttore per anni dell'ormai storica trasmissione Fahrenheit, "una penisola, semmai: ben attaccata alrestodelmondomaunpo'–o molto – diversa".
IN REALTÀ , con quasi tre milioni di ascoltatori al giorno e un incremento degli ascolti di oltre il venti punti secondo le ultime rilevazioni Audiradio, questa penisola nella penisola non è un rifugio per happy few e neanche un baluardo della resistenza culturale o semplicemente l'unica realtà mediatica sopravvissuta alla morte del servizio pubblico. Piuttosto, in questi anni Radio 3 è diventata uno dei più importanti luoghi di confronto per un'Italia parallela, viva e attiva, che frequenta le librerie, che continua ad andare a cinema e ai concerti, che si ritrova ai festival, che discute, si appassiona, prova a capire il proprio tempo, e cerca soprattutto di sintonizzarsi su un linguaggio molto diverso dal non-linguaggio di un mainstream sempre più autodistruttivo, nel tentativo di dimostrare e dimostrarsi infine che sì, un altro paese non è solo possibile, ma già esiste.

giovedì 23 settembre 2010

fainotizia.it 22.9.10
Sul programma domenicale di Marco Pannella
di Denis

Considerazioni di un comune affezzionato ascoltatore di Radio Radicale relative al programma domenicale di conversazione di Marco Pannella.

Illustre Marco Pannella,
Illustre Radio Radicale.
Per la stima, l'affetto e l'interesse che mi lega da qualche anno a questa radio, vero servizio pubblico in un deserto mediatico con e senza canone, -salvo poche eccezzioni- prezioso strumento di informazione e formazione, università popolare per tanti radioascoltatori, trasversale a ceti e categorie sociali, dall'intellighenzia al sottoproletariato -che lo voglia- che da la possibilità di accedere ad una fonte di notizie ed informazione chiara, indipendente, plurale, laica, democratica, libera, anche, al netto del sacrosanto finanziamento, da canone e pubblicità
Ed è per questo che mi sono permesso di dar conto di ciò che talvolta può suscitare un piccolo disappunto o benevola critica spero, in ogni caso, costruttiva.
Da affezzionato ascoltatore del programma di conversazione domenicale di Marco Pannella con il pregevole ex Direttore Massimo Bordin o altri ospiti illustri, devo dire di aver provato un certo disappunto e disagio nell'ascolto della puntata di Domenica 19-09-10 con ospite Massimo Fagioli.
Sinceramente non mi è piaciuta proprio, per i primi tre quarti, un pò meglio l'ultima parte.
Personalmente condivido moltissimo e mi sento in piena assonanza con quanto Marco Pannella da sempre sostiene ed esprime, sul piano politico, sociale, umano, oserei dire,"filosofico", non di meno sento di dovergli una benevola critica per la conversazione di domenica 19/10/10 con Massimo Fagioli, di cui avrei desiderato ascoltare il pensiero, mentre ciò e stato limitato se non impedito a causa delle continue incursioni e sovrapposizioni dell'incontenibile Marco non consentendo all'ospite -a mio parere- di sviluppare compiutamente il suo pensiero, spesso "agganciato" in "enbrione" da Marco e declinato in modo forse improprio nelle conclusioni.
Forse mi sbaglio io in fondo è la mia percezione, tuttavia credo giusto dirlo tanto più se tale percezione non fosse meramente personale.
Suggerisco con sincera umiltà e benevolenza al grandissimo Marco a cui auguro tutto il bene possibile di provare a tenere talvolta a freno la sua esuberanza e incontenibile energia, controllando un pò l'equilibrio del dialogo con i suoi ospiti, credo sia di aiuto rispolverare sul serio un vecchio consumato concetto, inflazionato e consegnato alla retorica, di cui tutti avremmo, io per primo, per il bene comune, un immenso bisogno: l'ascolto.


Corriere della Sera 23.9.10
Quelle trame tra gli 007 inglesi e il partito di Togliatti
di Fabio Cavalera

LONDRA — Nome in codice «Rosso». Era un alto dirigente del partito comunista in esilio. Ma aveva anche rapporti confidenziali con i servizi segreti inglesi, il Sis o MI6 (come viene chiamato), l’ufficio di James Bond. Anzi, «Rosso» era un agente di Londra che teneva i piedi in due staffe: un po’ stava con Palmiro Togliatti, un po’ (in incognito) con Winston Churchill. Verso la conclusione del 1943, Rosso fu prelevato a Tunisi da Bruce Lockhart, responsabile del MI6 per l’area mediterranea, e accompagnato a Bari per occuparsi «dell’organizzazione del partito nel Sud dell’Italia». Chi era il compagno Rosso? Lo storico inglese Keith Jeffery è entrato negli archivi degli 007 e ha consultato i documenti sulle operazioni «coperte» compiute dall’ottobre 1909, la data di fondazione del MI6, fino al 1949. E nel libro che ne ha ricavato, con tanto di prefazione di sir John Sawers, l’attuale numero uno dello spionaggio britannico, oltre a raccontarci chi furono gli informatori alle dipendenze del Foreign Office (ad esempio lo scrittore Graham Greene) l’accademico ci rivela alcune vicende italiane.
L’attività del «leading party activist» Rosso è un capitoletto suggestivo del più ampio mandato affidato da Londra all’«Unità 1» di Bruce Lockhart che, all’indomani dello sbarco in Sicilia e dell’avanzata sul fronte meridionale, aveva stabilito a Bari la base dell’intelligence nel Mediterraneo. Gli 007 del MI6, dall’autunno-inverno 1943, dovevano assolvere due compiti: agganciare i servizi segreti italiani («che avevano buone fonti nella destra») e, contemporaneamente, collaborare con il partito comunista sia alla mappatura dell’esercito tedesco sia ai collegamenti fra la Resistenza nell’Italia occupata e le forze politiche nell’Italia già liberata. Veniva definito dai servizi inglesi «un matrimonio di convenienza». Palmiro Togliatti lo aveva approvato. Si era così creato, fra il Pci e l’intelligence britannica, un «network operativo» politico e militare.
Nel marzo del 1944 con la svolta di Salerno, annunciata da Togliatti (governo di coalizione fra tutte le forze antifasciste e assemblea costituente postbellica), i contatti fra MI6 e partito comunista si intensificarono. Bruce Lockhart riceveva informazioni da Rosso ma anche da un ufficiale britannico inserito nella sede della direzione provvisoria a Napoli. Togliatti non sapeva.
La «relazione» fu interrotta qualche mese più tardi, quando ancora Togliatti (ispirato da Mosca) «ordinò di allontanare» dalla federazione di Napoli quel militare inglese. La collaborazione militare, fra MI6 e Pci, si prolungò al 1945. Ma terminò il «matrimonio» politico.
Non è, questa, l’unica rivelazione che esce dai dossier degli 007 inglesi. A Bari l’intelligence di sua maestà rimasero attivi anche all’indomani della guerra. Gli archivi del MI6 hanno consegnato le prove dell’operazione «Trespass». Londra si opponeva, fra il 1947 e il 1948, all’emigrazione ebraica illegale verso la Palestina. Le «navi clandestine» salpavano o transitavano dai porti italiani. Allora, proprio da Bari (e da Roma), partirono i commando per affondare le imbarcazioni, «senza però colpire i civili». Gli obiettivi furono centrati.
Il MI6, attraverso le ricerche del professor Keith Jeffery, confessa oggi le sue scorribande nel mondo e le sue «unioni» di convenienza, dal 1909 al 1949, a destra e sinistra. Come nelle migliori spy-story resta però un dubbio: chi era l’agente o compagno Rosso?

l’Unità 23.9.10
Pd, faccia a faccia Bersani e Veltroni Oggi conta dei voti
di Maria Zagarelli

Resta teso il clima tra Bersani e Veltroni. Oggi la direzione Pd, il segretario ribadirà il suo giudizio negativo sul documento dei 75. Franceschini chiederà la gestione collegiale del partito. Ieri sera fuoco amico in Ad.

Si erano incrociati dietro l’Aula di Montecitorio e si erano dati appuntamento al Nazareno, intorno alle 2 del pomeriggio. Pier Luigi Bersani stava ancora pranzando, nella solita trattoria, quando Walter Veltroni è arrivato nella sede del partito: un incontro veloce, dieci «minuti cronometrici», riferisce uno dei presenti.
FUMATA NERA
Alla fine ognuno è rimasto sulle sue posizioni: Veltroni ha chiesto al segretario di non mettere al voto la relazione di oggi, senza ottenere al riguardo alcuna assicurazione; Bersani non solo sembra intenzionato a procedere con il voto ma ha anche ribadito il suo giudizio sul documento dei 75, «sbagliato nei tempi e nei modi». Anche il segretario della Cgil, Guglielmo Epifani interviene: «Credo che l’iniziativa di Veltroni sia sbagliata e che le persone non la capiscano. oggi non c’è bisogno di dividere. oggi ci vuole chi sappia usare ago e filo per tessere, se non si fa così, poi non facciamo finta di non capire perché si continua a stare all’opposizione».
E si saprà soltanto oggi se prevarrà la pratica della tessitura o quella dello strappo. Sull’esito della direzione di oggi, «chi vivrà vedrà», risponde il segretario che poi aggiunge, «ma domani avremo la rotta». Oggi riprenderà molti dei temi lanciati a Torino, dal Nuovo Ulivo alle alleanze per l’alternativa del governo, alle grandi riforme. «Con l’acuirsi dei problemi politici del centrodestra e i problemi sociali, dobbiamo parlare di Italia. Spero che i chiarimenti tra noi dice in serata Bersani si svolgano lasciando spazio al punto principale: serve parlare al paese con chiarezza. Il partito, il Paese devono percepire che abbiamo intrapreso una strada». È probabile anche che accolga la richiesta lanciata ieri da Dario Franceschini di andare verso una gestione unitaria e collegiale del partito. «Con i problemi che ci sono nel paese, con i rischi che corre quotidianamente la democrazia italiana io dico che è il momento di tenere il Pd il più possibile unito», concorda il capogruppo Pd alla Camera. Linea illustrata anche ieri sera durante l’assemblea di Ad. «La minoranza è davanti a un bivio»: o lavorare all’unità del partito pur mantenendo «il nostro punto di vista e le nostre differenze», o fare la guerra tutti i giorni al segretario. «Noi scegliamo la prima strada» , e stato il succo del discorso di Franceschini.
LE CONTE
Se oggi si dovesse andare alla conta sulla relazione del segretario, come è probabile che sia (e come vogliono da Marini a Bindi a Castagnetti), la posizione dei 75 andrebbe in netta minoranza in direzione, dove il rapporto, come dice Francesco Boccia, è di «90 a 10». Per Bersani sarà l’occasione «per fare chiarezza», mentre per Walter Verini, veltroniano, «può essere occasione di apertura del dibattito oppure un momento di chiusura. noi ovviamente vogliamo che si apra, ma vedremo». Per Fioroni il cerino è tutto in mano a Bersani: «Noi abbiamo portato un contributo poi è il segretario che ha la responsabilità del bene della ditta...»
Ma l’equilibrio fragilissimo su cui si reggevano anche le relazioni diplomatiche all’interno di Ad, è saltato dopo l’incontro tra Bersani e Veltroni. Il bersaglio è diventato Franceschini, accusato di essere passato con la maggioranza. «Se dalla correzione fraterna si passa alla divisione dei pani e dei pesci, allora non si è più minoranza, vuol dire che si è passati in maggioranza....», è stato il refrain di Beppe Fioroni per tutto il giorno in Transatlantico. Rivalità personali e visioni diverse del ruolo della minoranza nel partito stanno mandando in archivio definitivamente la pax interna già minata da un precedente da pochi ricordato ma niente affatto secondario: le candidature per la presidenza dell’Umbria. È lì che si incrinò il patto da Dario e Walter.
In serata i 75 si sono incontrati e alla fine hanno deciso la linea: «Andiamo all’assemblea di Ad e ribadiamo la nostra posizione: la minoranza non può rinunciare a condurre le proprie battaglie dice Fioroni -. Se qualcuno pensa di poterci rinunciare lo dica, ma allora non fa più parte della minoranza».

l’Unità 23.9.10
Popolari, un piede fuori
Sospetti su Fioroni «Pensa alla scissione»
«Siamo stufi di sentirci ospiti non desiderati dal segretario» Giacomelli: «Beppe ha un piano di riserva... ma valeva il 4% prima, adesso che rimane? Dopo la Api avremo la Shell»
di M.Z.

La scissione. È questo lo spettro che aleggia sulla battaglia che si è aperta dentro Area Democratica. Il senatore Pd Lucio D’Ubaldo, uno degli estensori del documento del 75 non ci gira troppo intorno: «Il punto è che noi ex popolari abbiamo firmato il documento perché eravamo stufi di sentirci degli ospiti non del tutto desiderati nel Pd di Bersani». In realtà secondo molti franceschiniani il documento sarebbe un pretesto per creare le condizioni future di un’uscita «con giustificazione» dal Pd, partito secondo D’Ubaldo destinato a diventare «una sorta di vecchio Labour troppo schiacciato a sinistra», e a quel punto, conclude, «noi, come credo sia evidente non possiamo certo far parte di questa Cosa qui». Meglio lavorare ad una forza «neocentrista», progetto a cui guarderebbe con interesse Raffaele Bonanni, segretario Cisl e non solo lui, perché circolano anche i nomi di Arturo Parisi e Paolo Gentiloni.
«Ho come l’impressione se non ci fosse una reale intenzione di ricomporre la frattura», nota Ettore Rosato, franceschiniano, ambasciatore al lavoro in questi giorni nell’impresa arduadi rimettere insieme i cocci di Ad. Beppe Fioroni, dal canto suo continua a smentire, ma ormai il virus del sospetto si è insinuato. «Beppe ha un “piano b” in mente dice Antonello Giacomelli e D'Ubaldo lo esprime in modo ruvido ma schietto». Giacomelli fa due conti: «Tutti noi popolari eravamo al 4%, mi chiedo, loro da soli quanto valgono ora? Temo che dopo l'Api, arriverà la Shell». D’Ubaldi le definisce «maldestre insinuazioni», perché mai hanno pensato gli ex popolari ad andarsene, ma ieri proprio un ex popolare, di area Franceschini, rifletteva sulla partita che si è giocata intorno al documento dei 75. «Walter Veltroni molto presto si accorgerà che le sue motivazioni non sono le stesse di Fioroni, Beppe gli concederà la leadership della minoranza per una settimana e poi...». Grande amarezza anche nel quartier generale di Franco Marini, il padre nobile del Pd, sfidato da quello che un tempo non troppo lontano era il suo pupillo. Fioroni l’altra sera ha dettato la linea: non si va alla riunione indetta dagli ex segretari dell’ex Ppi, e così è stato. «Se Fioroni pensa che finirà qui si sbaglia», avvertono i mariniani. «La questione di fondo è che Fioroni, se il Pd dovesse fallire, si lascia una via di uscita; noi invece no. Al di là del Pd non abbiamo altre ipotesi politiche», ragiona ancora Giacomelli, perché, dice, «il disagio di cui parla Fioroni rispetto alla linea politica del partito è reale ma rispetto a questo ci si può atteggiare in due modi: o si fa la guerra giornaliera con il segretario, o si cerca un confronto più stretto, anche collaborando, cercando così di incidere. E spesso ci siamo pure riusciti».

il Fatto 23.9.10
Anche Bersani va alla guerra: oggi la conta delle truppe per sconfiggere Veltroni
di Wanda Marra

Un incontro casuale tanto gelido quanto rapido: ieri mattina a Montecitorio Pier Luigi Bersani e Walter Veltroni si sono “incrociati” per caso. E a tutti quelli che c’erano lo stato dei loro rapporti è apparso più che evidente: un saluto di circostanza poco più che accennato, e poi ognuno per la sua strada. Non molto diverso il faccia a faccia ufficiale del primo pomeriggio: 20 minuti e nessuna soluzione. Un confronto teso, durante il quale il segretario avrebbe confermato di ritenere sbagliato nei tempi e nei modi il documento, rinviando però ogni conclusione alla riunione di oggi in direzione. E Veltroni, a sua volta, sarebbe rimasto sulle proprie posizioni. L’esito più probabile di questa settimana di attacchi e difese, di battaglie a colpi di documenti e di lettere, sarà stamattina in direzione, dunque, il voto sulla relazione del segretario. Un voto che è in teoria ancora in forse, ma che alla fine ci sarà. Intanto, il Pd sembra sempre più assorbito in una guerra di nervi e di logoramenti. Vertici, riunioni, assemblee sono andate avanti per tutto il giorno. Nella migliore seppur breve tradizione del partito, in questo momento al centro dell’attenzione c’è la spaccatura di Area Democratica, la minoranza che fa capo a Veltroni e Franceschini. I due sono su posizioni molto diverse. Se l’ex Sindaco di Roma va più o meno esplicitamente allo scontro, appoggiandosi su Fioroni, il suo ex delfino insieme a Marini è per un riavvicinamento alla maggioranza del parto. E per una “gestione unitaria del partito”. “Siamo per stipulare un patto politico spiega Francesco Saverio Garofoli sempre se il segretario accetta in parte le ragioni della minoranza”. Per questo, Franceschini vuole un voto “per fare chiarezza” (mentre i veltroniani lo accusano di avere semplicemente paura di vedersi sottratta la leadershio della minoranza). Come lo vuole la Bindi, per smontare quella che a molti sembra la “fuffa” dei 75. A non volere un voto sono proprio i veltroniani, evidentemente non intenzionati ad andare alla conta: vorrebbero incassare qualche apertura sulle loro richieste e continuare. Di mirabile poca chiarezza le parole di Verini: la direzione “apra e non chiuda il dibattito. Può esserci anche un voto. Non è reato. Ma almeno dopo che si sia discusso”. In questi giorni, intanto, Bersani non ha nascosto la sua rabbia e il suo fastidio rispetto al documento. Ora si tratta di capire quanto sarà duro oggi. Se è certo che ribadirà la sua lettura negativa, è difficile però che andrà esplicitamente alla rottura. Tutto sta a vedere come reagiranno i 75 firmatari, allora. Un eventuale voto negativo potrebbe facilmente essere letto come un preludio alla scissione (“Si sono molto consumate le ragioni per restare”, ha detto in un intervento a Europa Antonello Soro, che pur non essendo tra i firmatari è molto critico rispetto al Pd).
E nella guerra degli epistolari, arriva anche Monica Cirinnà, consigliera comunale, ex delegata per la Giunta Veltroni ai diritti degli Animali. Che proprio a lui si rivolge con una durezza inedita: “Dopo sette anni da Sindaco, hai lasciato Roma e i romani alla destra, nel ridicolo tentativo di riconsegnarla a Rutelli. Per diventare candidato premier hai vinto le primarie, ma dopo aver perso le elezioni politiche sei rimasto saldamente al tuo posto, pur avendo detto che avresti chiuso con la politica per dedicarti alla scrittura e all’Africa. E poi, di fronte alla durezza della complessità delle grandi responsabilità politiche, ancora una volta hai deciso di sbattere la porta e andartene”. Poi, un appello: “Smettetela tu e i 75 di “mettere in giro veleni inutili”; hai reso a Bersani i calci negli stinchi che avevi ricevuto da segretario”.

Repubblica 23.9.10
Bersani-Veltroni alla battaglia sulla
Oggi la direzione del Pd. L´ex segretario: se si vota, tagliate fuori una parte di noi
di Giovanna Casadio

Areadem con il segretario. D´Antoni verso un incarico da "numero tre" del partito

ROMA Bersani non arretra sul Nuovo Ulivo e la strategia delle alleanze; Veltroni neppure, e giudica il Pd un partito in sofferenza e senza appeal. È servito a poco l´incontro tra il leader dei Democratici e l´ex segretario alla vigilia della direzione oggi del partito. Venti minuti in cui Bersani ha tenuto il punto: il documento Veltroni-Gentiloni-Fioroni, sottoscritto da 75 parlamentari, «è stato uno sbaglio». Veltroni ha insistito: «È un contributo utile, non ha mai voluto essere una conta e poi discussione e unità non si escludono». Alla fine del faccia a faccia, Bersani si limita a dire: «Parlerò in direzione». L´intenzione del segretario è quella di mettere ai voti la relazione, come d´altra parte hanno chiesto Dario Franceschini e Franco Marini, ex Ppi e leader della minoranza Areadem. «Non siamo un club di signore...», scherzano i franceschiniani. «Ci vuole chiarezza», insiste Marini. E Rosy Bindi, presidente del partito, osserva: «Se è normale discutere è normale votare. Io poi confido nelle capacità inclusive del segretario». Anche se, fino all´ultimo, Bersani ironizza: «Si vota? Chi vivrà vedrà. In direzione avremo la rotta, la bussola», quella che per il "movimento" dei 75 il Pd avrebbe perso.
La direzione si annuncia quindi come una resa dei conti che riscriverà gli equilibri interni dei Democratici. I "pontieri" in azione non sembrano portare a risultati. La giornata del Pd ieri è una sequenza di incontri. In mattinata, c´è quello tra Franceschini, Marini, Fassino e Zanda. Alle 14, nella sede del partito, confronto tra Bersani e Veltroni. Quindi colloqui (tra Franceschini e Bersani), la pre-riunione dei "75" in vista dell´assemblea di Areadem alle 20,30. Qui la minoranza è spaccata. Franceschini ribadisce che è il tempo dell´unità: «Con i problemi che ci sono nel paese e i rischi che corre quotidianamente la democrazia, questo è il momento di tenere il Pd il più possibile unito e non dividerlo. Proporrò ad Areadem che, a partire dalla direzione, si faccia un passo verso una maggiore unitarietà e collegialità». Critica il documento che «ha avuto effetti dirompenti e ha danneggiato il partito». Note stonate per "i 75": il requiem della minoranza. Beppe Fioroni tranciante: «Ormai Areadem è entrata in maggioranza. Franceschini e gli altri hanno fatto un´inversione a 360 gradi».
L´unità ritrovata escludendo il "movimento" di Veltroni sarebbe sancita anche dall´incarico di segretario organizzativo a Sergio D´Antoni, che diventerebbe il numero tre del Pd. E Franceschini a Bersani avrebbe garantito un sì alla relazione del segretario, ad alcune condizioni. Walter Verini, veltroniano, invita a più miti consigli: «Se si vota prima ancora di discutere è un passo di chiusura, è evidente che bisogna rafforzare l´impegno unitario ma il nostro documento resta». Pesante il giudizio su Areadem se «viene meno al suo compito».
Franceschini nella riunione serale difende la sua strategia. Veltroni replica senza forzare i toni: «In direzione si deciderà se questo è un partito che include o se esclude una parte. Si smetta con gli anatemi, accusandoci di avere fatto un regalo a Berlusconi, ma si consideri il documento un elemento utile ad aprire un dibattito nel Pd in un momento di difficoltà». Discussione accesa, con Marini, Damiano, Giacomelli e Sereni che aprono il fuoco di fila anti-movimentisti. Il segretario Bersani torna sulla questione delle alleanze parlando alla festa della Federazione della sinistra: «Non prendiamo reciprocamente l´impegno di dar vita a una alleanza di governo dice perché abbiamo prospettive diverse. Però nulla impedisce che possa esserci un dialogo su temi importanti come la riforma elettorale». Del resto è il ragionamento del leader Pd se arriviamo alle elezioni anticipate allora vuole dire che al voto ci porta Berlusconi e che rilancerà: «Metterà in campo più "ghe pensi mi", più potere, servirà un presidio forte. Dobbiamo trovare delle chiavi comuni per un larghissimo fronte».

Corriere della Sera 23.9.10
Il dilemma del leader su una sfida che rischia di spaccare il partito
di Maria Teresa Meli

ROMA — Nell’incontro con Bersani Veltroni è andato subito al sodo: «Far votare la tua relazione sarebbe un errore. Diventeresti segretario di una parte e non più di tutto il Pd, ti chiuderesti in un recinto, e il partito si dividerebbe, pensaci». E il segretario ha promesso: «Ci penserò». Si sono lasciati così, senza una parola o una decisione definitiva. Ora il pallino è nelle mani del leader. Come ha detto anche D’Alema: «Io sono contrario alle drammatizzazioni e penso che occorra agire con prudenza, ma il segretario è Pier Luigi, faccia lui». Fosse facile.
Bersani è alle prese con un dilemma. Sentimenti e risentimenti lo spingono ad arrivare fino al voto. I suoi consiglieri gli suggeriscono questa strada. I cosiddetti «giovani turchi», il gruppo di quarantenni che si è schierato al suo fianco, spingono per questa soluzione. Rosy Bindi, che non sa decidere se sia Veltroni o Fioroni l’avversario interno da abbattere, vuole andare alla conta. Franco Marini è scatenato. E con lui Franceschini. Sono pronti a votare per Bersani, certificando la morte di Area Democratica e il passaggio in maggioranza. Il loro bersaglio è Fioroni, ancora più di Veltroni. Vogliono riprendersi quegli ex ppi che il responsabile del Welfare ha loro sottratto, soprattutto nei territori. E contano di farlo grazie all’appoggio del leader. Se il segretario nominerà Sergio D’Antoni responsabile Enti Locali, e se favorirà i transfughi della minoranza a metà ottobre, quando si tratterà di eleggere i segretari provinciali, allora Marini e Franceschini potranno cercare di espugnare le «roccaforti» di Fioroni in giro per l’Italia.
Fin qui, però, si parla solo di quel che potrebbero guadagnare gli ex ppi che hanno abbandonato Veltroni. Ma Bersani? Qual è il guadagno del segretario? Ed è questo il dilemma del leader del Pd. Spingendo il confronto fino alle estreme conseguenze, otterrà un allargamento della sua maggioranza e l’isolamento di Veltroni. Rinunciando al voto, invece, lo sconfitto e l’isolato sarà Franceschini. Ma il gioco vale la candela? Perché assieme ai pro ci sono i contro. Innanzitutto il leader non sa quante siano le truppe che Franceschini e Marini sono in grado di portargli in dote. Non sono molti i parlamentari che fanno capo a loro e che hanno voti. Ce li ha D’Antoni, ma non ce li hanno, per esempio, i tanti collaboratori di Franceschini che sono stati eletti in Parlamento. E ancora: conviene veramente isolare Veltroni, che, comunque, al di fuori del partito, in un certo mondo del centrosinistra, ha ancora un certo appeal? Tanto più che neanche la minoranza che fa capo a Ignazio Marino è disposta a votare a favore di Bersani. Ultima domanda: è opportuno dividere il Pd, e, magari, provocare una scissione, quando potrebbero esserci le elezioni già a marzo? «Oggi si decide se il Pd è un partito che include o che esclude», è il monito di Veltroni. E il segretario ci sta pensando.


il Fatto 23.9.10
“La mia armonia tra arte e politica: scelgo Vendola”
Il canto della Mannoia “per un paese migliore”
di Sandra Amurri

“Il Tempo e l’Armonia” è il nuovo cd di Fiorella Mannoia. “La musica è tempo e armonia”. La incontriamo a Taranto al termine del tour acustico iniziato quest’inverno, in cui ha abbandonato i suoni preregistrati, le tastiere, le macchine, per accogliere strumenti acustici veri (il pianoforte, un quartetto d’archi la chitarra acustica) e avere la libertà di seguire l’ispirazione del momento. “Volevo, con i musicisti, ritrovare il piacere di suonare insieme. Oggi puoi inviare un brano via Internet e avere la partecipazione di un artista che si trova dall'altra parte del mondo senza mai averlo incontrato. Tutto questo da una parte è meraviglioso, ma la velocità rischia di togliere l’anima alla musica, quindi penso che non bisognerebbe abusarne”. Jeans, canotta e scarpe da tennis, il viso che il tempo non ha sciupato, protetto dalla sua folta cascata di capelli rossi, Fiorella parla di sé, dell’amore, della ricerca dell’armonia e di politica. Perché “tutto è politica, senza non si vive”. Una stretta di mano e senti che quell’artista di cui conosci le canzoni a memoria ti rappresenta anche come persona. Il successo di quella voce che canta e recita la forza delle donne, gli amori, i sogni, le speranze e l’indignazione è figlia della normalità di cui questo Paese ha tanto bisogno. Poi la ascolti dal palco e vieni inondato dal profumo delle emozioni. Il suo rapporto con il pubblico è corporeo. Osservi il suo pubblico e ti accorgi che chi la segue la rispetta come persona ancor prima che come artista, percepisce l’onestà di una donna che non si è mai venduta, di una donna libera, di un’artista non legata a vincoli promozionali e non schiava del successo che dice la sua mettendoci faccia e cuore. Seduto con la mamma in prima fila Nichi Vendola. Lo sguardo di Fiorella si posa sul suo e si perde in un mare di applausi quando dal palco dice: “Non si capisce più chi sta con chi e chi contro chi ,quelli di sinistra parlano come fossero di destra quelli di destra come fossero di sinistra, spero che qualcuno ci aiuti a venire fuori da questa crisi economica, etica, morale, culturale”. Uno dei possibili candidati alle primarie come futuro premier ad ascoltarti. Te l’aspettavi? Siete amici?
L’ho incontrato una sola volta in aereo. Quando lessi in un’intervista che si autodefiniva “una delle persone più belle che conosco”. Ho pensato: “O è pazzo o è sincero”. Nel tempo, ho capito che diceva la verità. Mi piace la delicatezza con cui parla di sé. Sa risvegliare la passione politica, la voglia di lottare, di sperare e sa togliere la polvere dai nostri cuori. Sono stanca di votare contro, vorrei votare per chi sa opporre parole, a cui seguono decisioni, per chi abbia un programma semplice e chiaro. Spero che Vendola si candidi alle primarie per poter scegliere. Ti sei accorta che mentre cantavi “Ho imparato a sognare” e la “Storia siamo noi”, Vendola si commuoveva? Sì, ho colto la sua timidezza il suo pudore che non conoscevo.
Non temi esprimendo opinioni politiche di perdere una parte di pubblico?
Quando prendi posizioni chiare rischi che qualcuno non le condivida, lo metti in conto, ma non ho mai pensato che l'arte sia staccata dalla politica.
Mentre cantavi “Se veramente Dio esisti”, una struggente preghiera, mi sono chiesta se eri credente.
Sono agnostica, ma sento di avere una grande spiritualità. In un’epoca in cui assistiamo ad una rincorsa al Dio migliore come fosse una squadra di calcio da tifare. Penso che se smettessimo di dare un nome alla nostra fede l'umanità vivrebbe meglio e da "lassù", se esiste, qualcuno sarebbe più contento di noi. Non prego quasi mai, piuttosto ringrazio molto per la salute che ho, per questa fortuna che ho costruito sì con le mie forze ma che è pur sempre un privilegio. E cerco di non dimenticarlo, mai. Tutte le canzoni che scegli di cantare trasudano di amore e umanità... Amore è compassione, è gioire della felicità del tuo uomo, della tua amica, dell'altro, anche se di quella felicità non sei parte. Sono alla costante ricerca di umanità. Non è un caso che io sia stata catturata da Salvador de Bahia, una città che mi assomiglia. Baia è femmina, è la madre terra, è un misto di follia, di contrasti forti che ti uccidono e ti risuscitano nello stesso istante, è allegria disperata, è passione e molto altro ancora. È il luogo dove un giorno mi piacerebbe vivere.
Stai pensando di fuggire dall’Italia? AmoilmioPaeseemifa male vederlo ridotto così. I giovani senza futuro, la ricerca morta, la scuola distrutta. Un sindaco che tappezza la scuola pubblica con i simboli della Lega. Come si fa a restare indifferenti di fronte a un governo che accoglie a braccia aperte il dittatore Gheddafi, che arriva con il suo circo equestre che vuole convertire le donne con il Corano in mano? La volgarità e la disonestà sono sempre esistite, ma ora assistiamo alla loro legittimazione allo sdoganamento dell’illegalità, all’informazione padronale. È anche per questo che sono abbonata a Il Fatto. Lunga vita a chi difende la libertà quotidianamente.

l’Unità 23.9.10
Gli indecenti
Un Paese senza legge
di Loretta Napoleoni

Oltralpe sono in molti a pensare che in Italia la legge non sia più uguale per tutti. Ieri ne abbiamo avuto l’ennesima conferma. Il Parlamento ha respinto la richiesta di autorizzazione all’uso di intercettazioni nei confronti di Nicola Cosentino, l’ex sottosegretario indagato per presunti rapporti con il clan dei Casalesi. L’applauso che ha accolto i risultati della votazione sembrava celebrare l’ennesima vittoria dei politici sui poteri giudiziari, ormai identificati da una buona fetta dei parlamentari come il «nemico».
L’ostilità tra esecutivo e magistratura fornisce anche una possibile chiave di interpretazione del giallo della votazione. Al conteggio finale dei sì mancavano una quindicina di voti, presumibilmente finiti tra i no. Qualcuno che non doveva si è schierato con il Popolo della libertà. Diserzioni importanti poiché questo governo è appeso ad una corda sfilacciata, che può cedere in qualsiasi momento. Ma è chiaro che ciò non avverrà mai su una questione come le intercettazioni dei parlamentari. C’era infatti d’aspettarsi che su questo voto la fedeltà al proprio partito e leader contava ben poco poiché votando no si proteggevano i propri interessi.
Legislazioni, votazioni e prassi ad personam sono ormai la manifestazione di quello che europei ed americani definiscono contaminazione Italia: come il Bel Paese si sta trasformando nel regno dell’illegalità. E mentre l’illecito prende piede nella quotidianità, confinando fette sempre più sostanziose della nostra economia nel sommerso, le critiche degli stranieri sono concentrate sulla gestione delle istituzioni dello Stato e sul dilagare dell’attività del crimine organizzato.
La presunta attività di riciclaggio all’interno dello IOR, che ha portato al sequestro di 23 milioni di euro, ha riempito le prime pagine dei maggiori quotidiani stranieri. Una singolare triangolazione bancaria trasferiva denaro dai conti dello IOR accesi presso il Credito Artigiano a beneficiari sconosciuti presso la JP Morgan di Francoforte e presso la Banca del Fucino. Nelle sale cambi del villaggio globale e nelle banche centrali occidentali l’idea del «riciclaggio in confessionale» fa tremare molti, specialmente a chi ha intrattenuto attività professionali con lo IOR, cioè la maggioranza delle banche e delle finanziarie internazionali.
All’estero ci si chiede come sia possibile che il braccio bancario del Vaticano continui a seguire una prassi da paradiso fiscale, autorizzando pagamenti su conti cifrati, un’attività che va contro la regola d’oro bancaria: «conosci il tuo cliente», imposta a tutte, ma proprio tutte, le banche occidentali. Ancora più incomprensibile è il comportamento della Banca d’Italia, l’organo di vigilanza, che non ha bloccato questa prassi prima che lo facesse la magistratura. Perché allo IOR si riserva un trattamento con i guanti bianchi mentre trasferimenti analoghi su conti cifrati da parte di qualsiasi altra banca italiana avrebbero provocato come minimo sanzioni salatissime?
Due pesi e due misure è il mantra che sale dal nostro paese. E spesso chi ci guadagna è il crimine organizzato la cui attività si intromette tra le maglie ormai recise dell’uguaglianza della legge. A Gioia Tauro approda una nave battente bandiera liberiana carica di esplosivo, sette tonnellate di T4, la stessa sostanza usata nell’attentato a Falcone e a Borsellino, abbastanza per far saltare in aria tutto il porto. Pare che provenga dall’Iran e sia destinata alla Siria. Transita a Gioia Tauro insieme ai seimila container che entrano ed escono quotidianamente dal porto più trafficato del Mediterraneo.
Non è la prima volta che soffiate ed intercettazioni allertano le autorità portuali, l’antidroga e l’antiterrorismo; controllare ogni giorno anche una frazione infinitesimale di seimila container è fisicamente impossibile. La scoperta di grosse partite d’armi e di cocaina a Gioia Tauro in transito o destinate alle ‘ndrine hanno infatti fatto il giro del mondo più volte. Chi vive all’estero si domanda come mai queste scoperte non avvengano anche a Barcellona o a Istanbul. Perché il crimine internazionale predilige questo porto calabrese lontano da qualsiasi grosso centro commerciale? E la risposta più logica che finoadorasiètrovataèchea Gioia Tauro è più facile farla franca.

l’Unità 23.9.10
Teresa Lewis
Virginia, a morte una disabile. I giudici non fermano il boia
Salvo sorprese dell’ultima ora, Teresa Lewis, condannata per l’omicido del marito e del figliastro, sarà messa a morte stanotte in Virginia. Di lei Ahmadiejad ha detto: il suo caso è uguale a quello di Sakineh.
di GA.B.

La strumentale e provocatoria accusa rivolta agli Stati Uniti dal presidente iraniano Ahmadinejad, paragonando la vicenda di Teresa Lewis a quella di Sakineh Ashtiani, non ha salvato la vita alla detenuta americana. Anziché
essere messa a morte nel silenzio generale, Teresa riceverà oggi un’iniezione letale di veleno, mentre il mondo intero discute il suo caso. Solo questo è cambiato per la donna che nel 2002 uccise marito e figliastro per incassarne l’assicurazione sulla vita.
POCHE SPERANZE
Ieri notte erano rimaste infatti ormai poche speranze in un rinvio dell’esecuzione, dopo il rifiuto della Corte Suprema a concedere la grazia. Salvo clamorose sorprese dell’ultimo minuto, il boia si metterà all’opera stasera nel carcere di Troy, in Virginia, dove Teresa Lewis è rinchiusa da sette anni. Gli unici a sperare ancora nel miracolo sono i promotori della campagna che viene condotta sul sito online «saveteresalewis.org», che continuano ad insistere per strappare un ripensamento al governatore della Virginia, Bob McDonnell. Questi ha però già una volta respinto la domanda di grazia, e dopo il pronunciamento della Corte Suprema è molto difficile che possa fare marcia indietro. La Corte ha deciso a larga maggioranza. Di nove membri, solo due, Sonya Sotomayor e Ruth Bader Gonsburg, entrambe donne, hanno accolto la richiesta di salvare la Lewis dal patibolo. A nulla sono valse le argomentazioni di coloro che indicano nella disabilità mentale dell’imputata una valida attenuante della sua comunque acclarata colpevolezza.
ENTRANO I SICARI
La vicenda è atroce. La sera del 30 ottobre 2002 la donna lasciò aperta la porta di casa, consentendo a due sicari di entrare e uccidere a colpi di pistola sia il marito sia il ragazzo che quest’ultimo aveva avuto da un precedente matrimonio. Uno degli assassini, Matthew Shallenberger, era l’amante di Teresa.
Fu quest’ultimo a raccontare successivamente, durante il processo di appello, di essere stato lui a trascinare la donna nella trama criminale, promettendole che, una volta ereditata la casa del marito e incassati i soldi dell’assicurazione, avrebbe vissuto assieme a lui per il resto dei suoi giorni.
Shallenberger aveva 21 anni quando conobbe Teresa Lewis, che all’epoca ne aveva 33. In tribunale il giovane raccontò di avere circuito la poveretta: «Era una donna brutta e scema, che aveva spostato un uomo solo per i soldi». Stavo cercando, confessò, proprio una così, da potere «convincere facilmente a fare per me tutto ciò che volevo».
Ma i giudici non accettarono quelle dichiarazioni, e sia in primo che in secondo grado condannarono la Lewis come mandante. Shallenberger, che assieme all’altro esecutore materiale del delitto era stato condannato all’ergastolo, nell’intervallo di tempo fra l’una e l’altra sentenza si suicidò.
RIBALTAMENTO DI POSIZIONI
La storia di Teresa Lewis è stata abilmente sfruttata dal leader di Teheran per distogliere l’attenzione mediatica dal caso di Sakineh, condannata a morte in Iran per adulterio ed omicidio. La campagna internazionale contro la lapidazione di Sakineh ha messo in imbarazzo le autorità della Repubblica islamica, che rimandano ora al mittente l’accusa di violare i diritti umani. Non potete dare lezioni a noi, voi americani che a casa vostra vi comportate esattamente nello stesso modo. Questo il senso delle dichiarazioni rese negli ultimi giorni da Ahmadinejad.

Repubblica 23.9.10
I Rom e l’Europa meticcia
L´Europa meticcia non può rifiutare i rom
di Jacques Le Goff

La direttiva del governo francese riguardo alle espulsioni era concepita in modo inammissibile: mettendo l´accento sull´identità dei rom risultava un´operazione discriminatoria e, al limite, razzista. Certo, la vicepresidente della commissione europea Viviane Reding, comparando la misura ai provvedimenti tedeschi durante la seconda guerra mondiale, ha evidentemente esagerato.
Ora, al di là delle reciproche scuse, è chiaro che in Europa esiste un problema e una questione dei rom.
È mia convinzione che questo problema debba essere regolato attraverso una politica specifica concordata in sede europea. Occorre varare un regolamento al cui rispetto siano tenuti tutti i paesi dell´Unione, al di là del fatto che il numero dei rom sia diverso in ciascun paese e che i governi europei oggi siano divisi tra quelli che hanno un atteggiamento piuttosto accogliente e quelli invece (come l´italiano) che sembrano porsi in maniera tendenzialmente ostile.
Penso che la cosa più importante da fare oggi sia aprire un confronto tra i rappresentanti di tre diverse parti: le diverse comunità rom, i governi nazionali e l´Unione europea.
Un tavolo di dialogo dovrebbe individuare, prima di tutto, dei luoghi deputati all´insediamento delle diverse comunità rom. Luoghi che i governi devono far rispettare ma che devono rispettare anche le stesse comunità rom. C´è comunque nella storia una tendenza dei rom a installarsi e rimanere in luoghi specifici.Il problema è reso più acuto dal fatto che i paesi europei dove i rom sono più numerosi - in particolare la Romania - sono anche quelli in cui la disoccupazione è più alta. Per questo credo che nei colloqui si dovrebbe affrontare anche il tema dell´occupazione.
Oggi l´attrito tra rom e gruppi di cittadini europei nasce da diverse questioni ancora insolute: una di queste è la resistenza di alcuni rom a far frequentare le scuole pubbliche nazionali ai propri figli. Io sono favorevole alla maggiore integrazione possibile dei rom nelle culture dei diversi paesi in cui risiedono, ma credo anche che potremo lasciare loro il compito di organizzare essi stessi l´educazione dei loro figli, a condizione che funzionari pubblici di diversi paesi possano sovrintendere al rispetto di alcune regole fissate di comune accordo. Dunque lascerei ai rom libertà nella scelta dei docenti degli orari e dei metodi dell´insegnamento ma con l´impegno che questo stesso insegnamento sia oggetto di una verifica da parte degli stati nazionali. Anche nel settore della sanità e della salute occorre cercare un compromesso tra la libertà dei rom di dove e come farsi curare e la verifica che queste cure siano effettivamente svolte.
Come storico credo che una progressiva realizzazione di una sempre più forte unione europea sia la strada giusta per risolvere il problema. Per riprendere un espressione di Jacques Delors il nostro spazio politico ha scelto di costruirsi come «Europa delle nazioni». E i rom si possono considerare a tutti gli effetti una nazione. Ecco perché credo che almeno una parte importante delle regole che si applicano alle nazioni europee potrebbero essere applicate ai rom. Tenendo conto che l´Europa è un insieme di diversità, anche se con forti somiglianze tra diversi paesi che la compongono.
Insomma, mi pare che l´essenziale sia la voglia di pervenire ad un accordo che non può che essere un compromesso, frutto di un dialogo. Naturalmente c´è un problema linguistico: i rom parlano sia lingue specifiche sia la lingua del paese in cui risiedono, dunque la loro nazione non si distingue per un´unica lingua. Ma questo è un problema che esiste anche altrove in Europa e anch´esso può trovare una ragionevole soluzione.
Come storico credo che ciò che ha contraddistinto l´esperienza millenaria dell´Europa siano stati il meticciato, la mescolanza delle culture e la loro progressiva integrazione.
L´Europa è nata dalla fusione tra i popoli cosiddetti romani o gallo romani o ispano romani (cioè quelli che diedero luogo a una prima integrazione) e i cosiddetti «barbari», una parola oggi bandita dagli storici. Oggi fortunatamente non disprezziamo più chi non pratichi una cultura cosiddetta superiore: gli storici e tutti coloro che hanno influenza sulla società dovrebbero mostrare come la caratteristica tipica dell´Europa sia proprio la sua capacità di integrazione nel rispetto delle diversità: una strada difficile ma possibile.
Certo, le difficoltà di accogliere gli stranieri che si manifestano oggi in Europa nascono anche dal fatto che negli ultimi anni il numero di immigrati è cresciuto. Ma non dovremmo dimenticarci che nel periodo dell´antichità tardiva o del Medioevo le cifre relative ai cosiddetti barbari, celti, germani o slavi che si spostarono sul territorio europeo erano assai più grandi. A quell´epoca l´integrazione più importante fu quella provocata dalla cristianizzazione. Oggi la religione di per sé non può essere lo strumento principale di integrazione. Serve un progetto culturale comune nello spazio europeo: un progetto scientifico ma anche educativo. E poi è necessario lavorare anche sul regime politico: la forza dell´Europa è anche quella di essere composta da stati che con tutti i loro limiti sono tutti democrazie. La sinistra in particolare deve saper rispondere con maggior forza alla destra su questo tema. Il suo limite oggi è che purtroppo non riesce a combinare la giusta ostilità alle cattive politiche di discriminazione con un´alternativa efficace, capace di offrire soluzioni di ricambio concrete percorribili. Forse la nozione più falsa e pericolosa veicolata dal nazismo è proprio quella della purezza etnica. C´è bisogno oggi di un grande progetto capace di rifarsi proprio all´originalità dell´esperienza storica europea, capace cioè di ritrovare l´ingrediente storico della sua forza: il suo multiculturalismo, la sua abitudine al meticciato. Il presidente della repubblica francese - per fare solo un esempio - dovrebbe ricordarsi di essere ungherese.
Intervento raccolto da Giuseppe Laterza e pubblicato su www. laterza. it, il sito web della casa editrice da oggi rinnovato nei contenuti

Repubblica 23.9.10
Libertà individuale, l’ossessione dell’America
di David Brooks

Nel suo nuovo libro Franzen dipinge una nazione di gente spiritualmente immatura e infelice. Molti personaggi hanno vite lasciate a metà
Ormai gli scrittori sono intrappolati e ignorano tutto ciò che potrebbe turbare il dogma della disperazione silenziosa

Pochissimi romanzi ormai danno voce a tesi chiare e provocatorie sullo stile di vita americano ma il nuovo libro di Jonathan Franzen, un´opera importante, che si intitola "Freedom´´, Libertà (in Italia uscirà a febbraio per Einaudi, ndt) di queste tesi ne esprime almeno due. Innanzitutto sostiene che la cultura americana è troppo ossessionata dalla libertà individuale. In secondo luogo, dipinge un´America popolata da gente infelice e spiritualmente immatura.
Molti dei suoi personaggi hanno vite lasciate a metà. C´è una donna "un tempo attiva nel movimento studentesco Sds a Madison e oggi attivissima nella frenesia per il Beaujolais nouveau´´. Ci sono persone che dedicano le proprie energie morali alla causa della gentrificazione responsabile.
Uno dei protagonisti è vittima di accessi di giusta collera quando gli automobilisti davanti a lui cambiano corsia senza mettere la freccia.
Il principale personaggio maschile, Walter, è buono, ma sprovveduto e di un´ingenuità patetica. Il suo rivale cattivo, Richard, è un uomo di mezza età che incide album rock dai titoli beffardi e per sbarcare il lunario fa lavori di carpenteria. Dovrebbe in teoria rappresentare il lato tosto, pericoloso della vita, ma la sua è una trasgressione all´acqua di rose.
Di Patty, la donna incapace di decidere tra i due, veniamo subito a sapere che non è in grado di esprimere giudizi morali. Investe ciò che resta dei suoi desideri nel tentativo programmatico di creare la famiglia e il focolare perfetti e nel momento in cui la vita domestica non regge il peso che lei le impone, precipita in un caos di pulsioni indistinte.
Nella recensione uscita su The Atlantic B. R. Myers, acuto ma troppo pungente, contesta a Franzen la volontà di "creare un mondo in cui non possa accadere nulla di importante". Critica il linguaggio colloquiale e adolescenziale talvolta utilizzato dall´autore per dar vita al suo mondo: "Non c´è sostanza nelle cose che ‘fanno schifo´, né pathos nell´essere ‘cotto´ di qualcun altro". Ne vien fuori, secondo Myers, "un monumento di 576 pagine all´insulsaggine".
Ma senza dubbio è questo lo scopo di Franzen. In alcune occasioni importanti paragona i suoi protagonisti a quelli di Guerra e Pace. Ovviamente tenta di evidenziare l´enorme differenza di spessore tra due gruppi. I personaggi di Tolstoj sono spiritualmente ambiziosi, alla spasmodica ricerca di una qualche verità universale che possa reggere lo scrutinio della loro intelligenza. I moderni personaggi di Franzen sono distratti e sprovveduti. Facile provare ammirazione nei confronti di Pierre e del principe Andrej. Impossibile guardare ammirati a Walter e Richard, anche se è possibile che suscitino empatia.
"Freedom" non è la storia di grandi spiriti alla ricerca di importanti verità. è il ritratto di un´America in cui le cose importanti, vere, fondamentali, sono andate distrutte o ricostruite e la gente va a tentoni, senza rendersi neppure conto di ciò che ha perso. "Freedom" ti risucchia con le sue osservazioni perspicaci e il respiro ambizioso. Scatenerà migliaia di dibattiti tra i lettori attorno agli stessi interrogativi: Il libro dice la verità? Davvero l´America è così come la dipinge?
La mia risposta, per quel che vale, è che "Freedom´´ è più rivelatore della cultura letteraria americana che dell´America in sé.
Molto tempo fa un autore sulle rive del lago Walden decise che gli appartenenti alla classe media americana visti dall´esterno possono sembrare felici e realizzati ma nell´intimo vivono una silenziosa disperazione. Questo messaggio fece presa (è lusinghiero per gli scrittori ed altri dissidenti) e da allora è la base della quasi totalità delle raffigurazioni dell´America di provincia e dei sobborghi. Stando alla letteratura americana non c´è gente felice nelle periferie urbane e certo non gente realizzata.
Ormai gli scrittori sono intrappolati nei confine di questa ortodossia. E persino autori del talento di Franzen descrivono come di prammatica vicini di casa maligni e casalinghe che ingoiano pillole, ma ignorano tutto ciò che potrebbe turbare il dogma della disperazione silenziosa. La religione è quasi inesistente. C´è pochissimo del mondo del lavoro e delle imprese. Sono assenti il patrimonio etnico, il servizio militare, l´innovazione tecnologica, la ricerca scientifica e qualunque elemento potenzialmente elevato e nobilitante.
Richard è un artista ma non vediamo il legame di impegno con l´arte. Patty è un´atleta ma non vediamo lo spirito di squadra che rappresenta il meglio dello sport. Il mondo politico è oggetto della peggior caricatura. Gli ambientalisti parlano come gli snob su cui ironizza Glenn Beck. I repubblicani come il prototipo dei guerrafondai di Michael Moore.
Le componenti serie della vita vengono sfrondate e i lettori devono chinarsi per abitare un mondo dai soffitti bassi. Tutti finiscono per sentirsi superiori ai personaggi di cui leggono (cosa sempre piacevole in una società notoriamente smaniosa di status), ma qualcosa manca.
Anche i critici sociali, da Thoreau ad Allan Bloom, ai membri della Sds autori del Manifesto di Port Huron definirono piatta la vita borghese, ma quanto meno tentarono di indurre i propri lettori ad aspirare a cose serie. "Freedom" è un libro brillante ma nonostante ciò intrappolato in un cul de sac intellettuale, il suo sguardo sulla vita americana è troppo feroce e manca di una visione alternativa di livello superiore.

© New York Times News Service/La Repubblica
(Traduzione di Emilia Benghi)

Repubblica 23.9.10
La banca di Dio
Da Marcinkus all'operazione trasparenza fino alle accuse di oggi. Viaggio nello Ior, il cuore della finanza (e dei misteri) del Vaticano
di Alberto Statera

Nel bunker dei conti cifrati si sono consumati gli scandali Sindona, Ambrosiano e Enimont fino al G8. Movimenti oscuri di miliardi che in passato hanno provocato un disastro etico e di immagine. Era partita l´operazione trasparenza ma è scattata l´inchiesta shock sul riciclaggio
Su quei 200 milioni transitati dall´ex Banca di Roma all´Istituto l´ispezione si arenò
Il moralizzatore iperliberista Gotti Tedeschi: per il Papa sarebbe degno del Nobel

Spesse nove metri, le mura del Torrione di Niccolò V, eretto nel 1453, rappresentarono il potente baluardo della cristianità contro i turchi. Nel terzo millennio, quel bunker protetto dalle guardie svizzere che svetta oltre la porta vaticana di Sant´Anna, sede dell´Istituto per le Opere di Religione denominato all´origine "Ad pias causas", è giudicato se non proprio il paradiso, il purgatorio dell´offshore, dei misteriosi conti cifrati, del riciclaggio di denaro di origine opaca, di operazioni bancarie che virano sul grigio, quando non sul nero dell´inferno.
Di quelle che insomma odorano da lontano di sterco del diavolo.
Il paradosso è che dopo secoli di diaboliche e impunite frequentazioni col maligno, sembra che il divino redde rationem giudiziario giunga proprio nel momento in cui decolla un tentativo di cristiana purificazione della finanza vaticana. Con papa Ratzinger, di cui gode la stima, e con gli altri plenipotenziari in tonaca, pare che il presidente dello Ior Ettore Gotti Tedeschi, il moralizzatore, fosse proprio sul punto di lanciare il suo progetto-trasparenza per restituire prestigio alle istituzioni pontificie travolte continuamente dagli scandali, quando i magistrati di Roma l´hanno indagato con l´ipotesi di riciclaggio.
Niente più conti correnti anonimi intitolati a beati e santi, niente più pseudonimi, schermi e triangolazioni occulte, come quelle che per decenni hanno visto transitare nel Torrione miliardi e miliardi di denari talvolta d´ignobile provenienza.
Queste le promesse del banchiere che da un anno si trova a maneggiare i segreti più imbarazzanti d´Oltretevere e non solo dell´ultimo mezzo secolo. Il tutto preceduto da un´inchiesta interna, segretissima, che deve aver affrontato momenti drammatici. Quando, per esempio, ha cercato di chiarire i movimenti di denaro sul conto di un ben noto cardinale, che ha dato in escandescenze. O quando si è imbattuta nei conti di Giulio Andreotti e del gentiluomo di Sua Santità Angelo Balducci, protagonista dello scandalo G8 e referente della cricca della Protezione Civile, che dimora a palazzo Chigi negli uffici di Gianni Letta e del suo factotum Luigi Bisignani, che lo fu anche del capo della Loggia P2 di Licio Gelli.
Quello stesso Bisignani che, ancora giovanetto quasi imberbe, recava decine di miliardi della madre di tutte le tangenti (di allora) targata Enimont oltre la porta di Sant´Anna. Ben altro rispetto al miliardo e mezzo di lire attinto da Letta stesso anni prima dai fondi neri dell´Iri.
Aveva uno speciale pass Bisignani. E probabilmente lo conserva ancora, perché chi accede allo Ior, spesso con pesanti borse foderate di banconote, deve essere conosciuto per passare il vaglio della guardia svizzera. Valicata una barriera vetrata a comando elettronico - come ha raccontato in un suo libro Giancarlo Galli, che dal precedente presidente dello Ior Angelo Caloia fu condotto in visita nel Torrione blindato - si spalanca un salone moderno, un ottagono con pareti altissime, che sembrano quasi il paradiso. Il paradiso dell´offshore. In questa banca non esistono assegni con la stampigliatura Ior, solo contanti, lingotti d´oro e transazioni estero su estero via bonifico, con un clic elettronico. Niente ricevute, niente carte inutili. Chi è adeguatamente presentato può entrare portando una valigia piena di dollari di qualunque provenienza e uscirne senza ricevuta, ma con la certezza che il suo denaro andrà dove deve andare senza lasciare tracce.
L´ingresso del paradiso vero è più riservata, come si conviene.
Solo gli intimi degli intimi possono attraversare il cortile di San Damaso, il cortile del Maggiordomo, e guadagnare il ballatoio dove giunge l´ascensore che cala dall´appartamento pontificio, dove, dietro a una porticina, c´è lo studio del presidente dello Ior. Gotti Tedeschi, che Sua Santità reputa degno del premio Nobel per l´economia, non ha che da salire in ascensore per spiegargli cos´è quest´ennesimo scandalo.
Se ieri sia salito su quell´ascensore verso il cielo Gotti ovviamente non lo dice neanche a sé stesso, ma l´alta gerarchia della Curia non ignora certo che da molto tempo la procura di Roma indaga su banche e banchette, come quella del Fucino fondata dai principi Torlonia, che ogni giorno scambiano operazioni per centinaia di milioni con lo Ior, considerato uno schermo dietro il quale quasi mai c´è una persona fisica o giuridica.
E soprattutto c´è la filiale 204 dell´ex Banca di Roma, oggi Unicredit, allocata in via della Conciliazione al confine con le Mura Leonine, meno di duecento metri da piazza San Pietro, dove in due anni sono transitati su un conto Ior quasi 200 milioni di euro. Conti sconosciuti, protetti e sospetti. Di cui sicuramente, a suo tempo, non ignorava l´esistenza Cesare Geronzi. Ammesso che ne fosse all´oscuro, di certo ne fu informato il suo uomo per i rapporti con il Vaticano Marco Simeon. Ma l´ispezione interna si arenò misteriosamente.
L´Istituto per le Opere di Religione, nato una prima volta nel 1887 sulla base di quanto stabilito dalla Commissione «Ad pias causas» costituita da Leone XIII, divenne una vera banca il 27 giugno 1942 con chirografo di Pio XII, prevedendo che a usufruirne fossero dicasteri del Vaticano, conferenze episcopali, arcidiocesi e diocesi, parrocchie, nunziature, ordini religiosi, preti e monache.
Non andò proprio così, quando si scoprì che sulla riva del Tevere albergava per gli amici e gli amici degli amici una banca onshore e al tempo stesso offshore, dove tutto si poteva nel maneggiare tanto denaro in dispregio delle regole. Nel mezzo secolo successivo e se non fino ad oggi fino a ieri, stando almeno al senso di umiliazione sincera manifestato dal presidente Gotti Tedeschi per l´inchiesta che lo coinvolge, è stata una teoria ininterrotta di scandali.
Sindona, l´omicidio Calvi, la stagione di Tangentopoli, con il giovane Bisignani che versò sul suo conto proteso verso il cielo 108 miliardi di lire in certificati del Tesoro, Gelli, il denaro riciclato dei corleonesi di Totò Riina, l´ex governatore Fazio, che scambiava i ratios patrimoniali con le massime morali di San Tommaso d´Aquino, Fiorani e le scalate dei furbetti del quartierino, persino lo scandalo del calcio, con Moggi che dello Ior sarebbe uno straricco correntista. E, per finire, la cricca dei gentiluomini di Sua Santità, gonfi di ricchezze da nascondere perché ingiustificabili.
Il tutto tra guerre interne che oltre il portone di bronzo raramente filtrarono nella loro tragica povertà terrena.
«Santità - scrisse Roberto Calvi a papa Wojtyla poco prima di essere ucciso sotto il ponte dei Frati neri a Londra - sono stato io ad addossarmi il pesante fardello degli errori nonché delle colpe commesse dagli attuali e precedenti rappresentanti dello Ior; sono stato io che, su preciso incarico dei Suoi autorevoli rappresentanti, ho disposto cospicui finanziamenti in favore di molti paesi e associazioni politico-religiose dell´Est e dell´Ovest; sono stato io in tutto il Centro-Sudamerica che ho coordinato la creazione di numerose entità bancarie, soprattutto allo scopo di contrastare la penetrazione e l´espandersi di ideologie filomarxiste; e sono io infine che oggi vengo tradito e abbandonato».
Il cardinale Paul Marcinkus, ex capo dello Ior oggi defunto, che fu uno degli autori del disastro etico e d´immagine che ha segnato tutta la storia dell´oro del Vaticano maneggiando nel modo più indegno lo sterco del diavolo, paradossalmente mai si deve essere sentito il Maligno in clergyman, visto che quasi come un epitaffio sulla sua tomba disse: «Il denaro? No, non si può dirigere la chiesa con le Avemaria».
Ecco, è proprio questo il tragico paradosso con cui deve confrontarsi con la sua coscienza nel Torrione il nuovo banchiere papale iperliberista che dice di vagheggiare la trasparenza.
a. staterarepubblica. it

Corriere della Sera 23.9.10
Tutti i movimenti sospetti sui conti dello Ior
di Fiorenza Sarzanini

La banca vaticana
Tre operazioni di accredito, due conti correnti estinti, un elenco di «soggetti» che hanno incassato assegni o ricevuto bonifici. Su questo si concentra l’indagine della Procura di Roma sui depositi aperti presso il Credito Artigiano di Roma e intestati allo Ior dopo il sequestro dei 23 milioni avvenuto due giorni fa. Perché, nonostante il blocco operativo deciso dai vertici dell’istituto di credito il 19 aprile scorso, due settimane fa il presidente Ettore Gotti Tedeschi e il direttore generale Paolo Cipriani hanno tentato di trasferire quel denaro in parte in Germania (20 milioni di euro presso la JP Morgan di Francoforte), in parte presso un altro conto (3 milioni presso una filiale della Banca del Fucino sempre nella capitale). E per questo sono accusati di violazione della normativa antiriciclaggio. I vertici dello Ior erano stati avvisati della necessità di mettersi in regola con la normativa che impone a tutte le banche extracomunitarie di comunicare le informazioni sulla propria clientela prima di effettuare qualsiasi operazione. Si tratta dei cosiddetti «obblighi rafforzati» che riguardano la fornitura di assegni, l’esecuzione di bonifici e le operazioni contanti. Avevano assicurato di avere attivato la procedura e di essere pronti a consegnare le informazioni richieste. Ma non è accaduto quanto promesso ed è intervenuta la magistratura.
La riunione riservata tra i vertici delle banche
È proprio il provvedimento firmato dal giudice per «sigillare» la somma a ricostruire le movimentazioni degli ultimi tre anni. Ma anche a rivelare che il 23 aprile scorso, dunque quattro giorni dopo la decisione di «congelare» il conto, ci fu «un incontro tra i vertici dello Ior e del Credito Artigiano i cui esiti però non sono noti» e di cui sarà adesso chiesto conto ai due indagati. Bisognerà infatti verificare come mai, nonostante l’impegno a mettersi in regola, i responsabili della banca vaticana abbiano eluso le richieste formali che invece secondo quanto previsto dalle legge dovevano essere soddisfatte sin dal gennaio scorso e in base a un decreto legislativo entrato in vigore nel 2007. Nell’attesa degli interrogatori, i pubblici ministeri stanno esaminando la documentazione finanziaria già acquisita.
Entrando nel dettaglio delle operazioni si scopre che quelle «censite come "Accrediti e incassi connessi a effetti" per un totale di 72 milioni e 440 mila euro corrispondono a tre distinte operazioni in avere effettuate il 17 marzo, il 17 giugno e il 16 settembre del 2009 rispettivamente da 22 milioni di euro circa la prima e 25 milioni di euro circa le altre due». Ed è a questo punto che si entra nel dettaglio rivelando come i 22 milioni provengono «dall’estinzione del conto 11231 acceso sempre presso il Credito Artigiano, che in contropartita viene censita impropriamente come "prelevamento con moduli di sportello”».
I controlli sui beneficiari di assegni e bonifici. Simile procedura viene seguita anche negli altri casi. Gli accertamenti condotti dal nucleo valutario della Guardia di Finanza hanno consentito di verificare come i due versamenti da 25 milioni «si riferiscono all’accredito per "estinzione di deposito" da ritenere verosimilmente remunerato presso il medesimo istituto (circostanza ancora da verificare nel dettaglio con la banca). Tali operazioni trovano contropartita in altrettante operazioni in dare di analogo importo».
I magistrati dovranno adesso accertare quali siano i reali motivi di questi "giroconto", ma soprattutto identificare i "soggetti" che hanno Indagine Il provvedimento del gip del Tribunale di Roma che vede indagati Ettore Gotti Tedeschi e Paolo Cipriani, rispettivamente presidente e direttore generale dello Ior. Sotto, alcuni dei movimenti che sono oggetto dell’inchiesta ricevuto bonifici o incassato assegni in modo da verificare la natura di questi rapporti. E dunque stabilire se le movimentazioni servissero in realtà a riciclare i soldi. E lo faranno partendo dall’analisi degli estratti conto già acquisiti. In base ai documenti è stato accertato che «al momento del blocco sul conto erano depositati 28 milioni e 300 mila euro, ma tra il 31 dicembre 2007 e il 30 novembre 2009 ci sono state movimentazioni nella colonna "dare" per 116 milioni e 300 mila euro e nella colonna "avere" per 117 milioni e 600 mila euro».
Le contestazioni di Bankitalia sul deposito Unicredit
L'esame di tutte queste operazioni deve partire, secondo il giudice, dalla relazione della Banca d'Italia che alla fine di un'ispezione effettuata «per approfondire il funzionamento di un conto corrente che risultava intestato allo Ior presso una dipendenza di Unicredit ha evidenziato alcune criticità e in particolare: il mancato rispetto degli obblighi di adeguata verifica della clientela, di norma non sono stati infatti individuati i titolari effettivi delle operazioni poste in essere dallo Ior; fino al 31 gennaio non risultano assolti gli obblighi di registrazione nell'archivio unico informatico delle operazioni di versamento di contante sul conto intestato allo Ior; in materia di negoziazione dei titoli di credito è stata riscontrata una prassi tendente ad escludere la tracciabilità dei fondi trasferiti oltre che violazioni alla legge sull'assegno».
Nella richiesta di sequestro del denaro che doveva essere trasferito dal Credito Artigiano i pubblici ministeri evidenziano come «la condotta dell’esecutore di un’operazione che omette di comunicare la generalità dei soggetti per conto dei quali eventualmente esegue l’operazione stessa o non fornisce informazioni sullo scopo e sulla natura prevista dal rapporto continuativo integra gli estremi di reato previsti dal decreto 231 del 2007, appunto quello sulle norme antiriciclaggio, dunque non può che concludersi, esclusa evidentemente ogni indagine ulteriore volta a verificare la natura e gli scopi delle operazioni di trasferimento di fondi, che allo stato nei fatti di cui si tratta si ravvisano le fattispecie di reato delineate». Una tesi che il giudice ha accolto con un provvedimento motivato che adesso costituisce la base per effettuare i nuovi accertamenti.


Repubblica 23.9.10
La confessione dell'autore in un nuovo libro-intervista con Tesio
Vassalli: i miei genitori sono stati dei mostri
di Massimo Novelli

"Mia madre mi detestava, mio padre, fascista di Salò, era senza arte né parte"

L´epigrafe della fine è la stessa dell´inizio, un verso di Cecco Angiolieri: «Io nacqui come fungo a´ tuoni e venti». La doppia citazione accompagna, assurge a morale e compendia il racconto che Sebastiano Vassalli fa di se stesso nella lunga conversazione avuta con il critico Giovanni Tesio, all´origine del libro Un nulla pieno di storie. Ricordi e considerazioni di un viaggiatore nel tempo (pubblicato da Interlinea, pagg. 148 euro 15, sarà presentato in anteprima domenica alla mostra dell´editoria del Castello di Belgioioso, Pavia). Strappatagli dopo tante richieste da Roberto Cicala e dagli amici della casa editrice di Novara, la città presente in molta parte della sua vita, l´autobiografia di questo scrittore, tra i maggiori e anche tra i più riservati, ne conferma la ricchezza umana e letteraria, la libertà intellettuale, la coerenza.
Giunto alla vigilia dei settant´anni, Vassalli ripercorre la sua esistenza, senza mai nascondersi o mascherarsi, a cominciare dalla travagliata e dolorosa infanzia in cui fu abbandonato dai genitori. Il padre ricomparirà nel suo bel romanzo L´oro del mondo: «Mio padre, che per dargli un nome chiamerò il Merda, era un uomo di trentatré anni, senza né arte né parte. (...) Non avrebbe voluto sposare la ragazza che aveva messo incinta, ma i fratelli di lei lo minacciarono e, in pratica, lo costrinsero. Alla fine i due scombinati si sposarono e mia madre, finché visse, mi attribuì la colpa e la responsabilità di quel matrimonio sbagliato. Se non fosse stato per me, e se io non mi fossi ostinato a rimanere dentro alla sua pancia, lei non avrebbe sposato il Merda!». Fascista di Salò, «il Merda», dopo la guerra, si separò dalla moglie, facendola passare per «una donna di malaffare, una puttana», e ottenne la tutela di Sebastiano, sistemato da due sue sorelle che lo tenevano come «in deposito», «perché altrimenti avrebbe dovuto pagare il mio mantenimento. Lui, invece, non voleva pagare niente». La mamma ne fu contenta, «credo che sia stata ben lieta di liberarsi in un solo colpo del suo matrimonio sbagliato e di chi era stata la causa, cioè di me».
Il racconto prosegue con la guerra, l´amore, il dramma della prima moglie; e continua declinandosi nel suo rapporto con Dio, con il paesaggio, la politica e con l´avanguardia, in particolare quella rappresentata dal Gruppo 63, che lo scrittore, memore della giovanile adesione, definisce «una non-avanguardia, un non-gruppo, un non-tutto-e-il-contrario-di-tutto». Molto meglio, allora, con il classico senno del poi, «la posizione di Giorgio Manganelli: che qualche anno dopo l´incontro di Fano (del Gruppo 63, ndr), nel teatro di Orvieto gridò a un gruppo di contestatori «la letteratura è merda, lo so, ma a me la merda piace!»». Vassalli si sofferma sulla riscoperta della parola e ragiona del carattere degli italiani, della mafia, dell´emergere prepotente del Paese sommerso illegale; fino all´inevitabile «signor B. «, Silvio Berlusconi ovviamente, «italiano vero», nei difetti, come nella canzone di Toto Cutugno: «Se non ci fosse stato lui, sarebbe arrivato un altro con un´altra iniziale, o forse addirittura con la stessa iniziale». Amarezze, disincanti, s´addensano, insieme ad altri ricordi a volte felici e al desiderio, non spento, di raccontare ancora delle storie. Proprio alla letteratura affida la speranza: «Sì, io credo nella letteratura. L´arte del racconto, come la grande poesia, non può morire. Omero non può morire». Vassalli, invece, vorrebbe che le sue ceneri «venissero sparse davanti alla casa dove ho vissuto i miei ultimi anni, nel piccolo bosco che ho piantato io stesso».

Repubblica 23.9.10
Per il "Madre" in arrivo un finanziamento. Ma intanto è a rischio il "Mambo" di Bologna
Venezia, congelata la nomina di Sgarbi
di D.P.

ROMA - Il museo Madre di Napoli non chiuderà. Almeno per ora. È allarme, invece, per il Mambo di Bologna. Intanto, a Venezia, Vittorio Sgarbi non è più soprintendente al polo museale. Dopo i rilievi della Corte dei Conti, la sua nomina è stata "congelata". Il ministero - ha fatto sapere la Uil beni culturali - affiderà l´interim ad Anna Maria Spiazzi, già responsabile del patrimonio storico-artistico del Veneto. «Vado in ferie per 15 giorni», ha detto ieri Sgarbi. «Aspetto che, recepite le direttive della Corte dei Conti, si possa procedere alla nomina a soprintendente di Venezia nella piena legittimità». Il critico "in ferie" oggi incontrerà gli assessori alla Cultura e i direttori delle accademie di Belle arti italiani per dare inizio alla sua attività di commissario per il Padiglione Italia della Biennale.
Ma quello dei beni culturali sembra un bollettino di guerra. A Napoli, il Madre, dopo il rischio di vedersi spenta la luce, torna a sperare. La Regione Campania ha sbloccato i primi 300 mila euro degli 8 milioni dovuti alla Fondazione Donnaregina che gestisce il museo d´arte contemporanea. Giusto in tempo per pagare i dipendenti e le bollette dell´Enel. «Ma la programmazione prevista per gli ultimi mesi del 2010 non potrà comunque essere garantita. Dall´1 ottobre riusciremo ad aprire solo dalle 10 alle 14», fanno sapere dal museo. E anche il Mambo è in affanno. Ha detto ieri Lorenzo Sassoli de Bianchi, presidente del museo d´arte moderna di Bologna: «Ci sono riserve solo per il prossimo anno, poi con i finanziamenti pubblici drasticamente ridotti, nel 2012 il museo non aprirà più. Il nostro budget è di un terzo rispetto ad altri musei come il nostro. Costa 3 milioni l´anno, ma il Comune di Bologna in due anni ha ridotto il contributo passando da 1 milione a 471 mila euro».