domenica 26 settembre 2010

l’Unità 26.9.10
Bersani “vede” le elezioni:
«Fini non può votare la fiducia»
di Simone Collini


Il leader del Pd continua ad auspicare un governo di transizione ma si prepara alle urne
Riforma fiscale e patto sociale: le proposte del partito presentate alla platea di Confindustria
Bersani si aspetta «coerenza» da Fini, quando si voterà la fiducia al governo: «Si è rotto il patto che teneva insieme la maggioranza». Per il leader del Pd sulle accuse relative alla casa di Montecarlo «c’è ancora molto da chiarire»

Ora da Gianfranco Fini si aspetta «coerenza». Perché dopo questo discorso, difficilmente mercoledì il gruppo parlamentare di Futuro e libertà potrà votare la fiducia a Berlusconi. Pier Luigi Bersani lo dice dopo una giornata passata a Genova, per intervenire al convegno di Confindustria dedicata a «occupazione e competitività» e per incontrare un gruppo di sindacalisti della Fincantieri. Il leader del Pd ha guardato «con molta attenzione» il videomessaggio del presidente della Camera. Dice di aver apprezzato la «sincerità» con cui Fini ha annunciato le proprie dimissioni nel caso in cui fossero dimostrate le accuse relative alla casa di Montecarlo, «su cui c’è ancora molto da chiarire». Ma soprattutto, per Bersani l’intervento di Fini «fa emergere ancora una volta una frattura profonda che non promette nulla di buono per il governo del paese»: «Si è rotto il patto che teneva insieme la maggioranza. La crisi è evidente. In queste condizioni la destra non garantisce un governo al paese. E di fronte ai gravi problemi che bisogna affrontare, non si può più attendere che finisca il gioco del cerino».
Per questo, quando Berlusconi avrà parlato alla Camera e si procederà con le votazioni, il segretario del Pd si aspetta un atteggiamento «coerente» da parte del gruppo dei finiani. «Siamo di fronte a una politica avvilente e avvilita, pericolosamente lontana dai cittadini, non so come Berlusconi possa venire in Parlamento e dire che va tutto bene». È arrivato il momento di chiudere questa fase, per Bersani. Che però, rispetto anche a solo qualche giorno fa, rispetto ai passi successivi a una auspicabile crisi di governo si fa poche illusioni.
Bersani continua a ribadire che quando finalmente la crisi politica si tramuterà in crisi di governo la parola dovrà passare al Quirinale e continua ad auspicare un breve governo di transizione che modifichi la legge elettorale. Ma nelle ultime ore il leader del Pd si è andato convincendo che le urne si avvicinano. E si sta muovendo di conseguenza. Non a caso incontrando i segretari regionali e provinciali del Pd ha affrontato la questione di come dare «voce ai territori» nella compilazione delle liste. Non a caso ha detto ai dirigenti nazionali e locali di impostare come una vera e propria mobilitazione da campagna elettorale le tre settimane di “porta a porta” che partiranno il primo week end di novembre con 10 mila gazebo allestiti in tutta Italia. E non a caso ha avviato un giro di confronto con le parti sociali, illustrando quel che farebbe il Pd «se andassimo al governo domani».
CONFRONTO CON CONFINDUSTRIA
Lo ha fatto ieri a Genova, al convegno di Confindustria. In una quindicina di minuti ha dato rassicurazioni sul fatto che non intende impegnare il Pd in un’alleanza stile Unione «sono stato alla Festa di Rifondazione e Pdci e ce lo siamo detto chiaro, abbiamo già dato» perché «se c’è da governare non è cosa», e poi ha illustrato le proposte che lancerà il Pd con l’Assemblea nazionale dell’8 e 9 ottobre. A cominciare da «una riforma fiscale che alleggerisca il carico su imprese, lavoro e famiglie con redditi medio-bassi, caricando invece sui redditi da finanza e patrimonio». Ma di fronte agli imprenditori Bersani insiste anche sulla necessità di «un patto sociale», che però sarà difficile da raggiungere se il governo continua a lavorare per dividere il sindacato. Berlusconi ha anche questa responsabilità, per Bersani: «Se il governo accende i fuochi, chi è che poi li spegnerà?».
In sala gli applausi scattano più volte (in un’ora di intervento il ministro Sacconi non ne incassa neanche uno), quando Bersani assicura che non ci sarà un’alleanza con Prc e Pdci ma anche quando difende le liberalizzazioni e «un mercato pulito», criticando invece «i furbetti che si fanno le leggi per farsi gli affari loro». Poi va a sedersi e ascolta l’intervento della presidente di Confindustria Emma Marcegaglia, che dice al governo «stiamo perdendo la pazienza». Non è «la pazienza è finita» della campagna lanciata dal Pd, ma quasi. «Ci manca solo scherza Bersani con i suoi che dica anche rimbocchiamoci le maniche».

l’Unità 26.9.10
Marino
Pd, discutiamo con passione ma nelle sedi adeguate


Il senatore risponde a Pietro Ichino e Magda Negri che hanno firmato il documento Veltroni «Il discorso del Lingotto va integrato e sviluppato per candidarci a governare l’Italia»
Caro Pietro e cara Magda, la vostra riflessione su l’Unità di ieri mi offre l’occasione per approfondire e chiarire alcuni dei temi che ho affrontato alla Direzione Nazionale del Partito Democratico.

Da nativo del PD, non avendo mai avuto altre tessere di partito, condivido il percorso avviato da Walter Veltroni al Lingotto nel 2007 ma dobbiamo svilupparlo e integrarlo in modo dinamico e liberale, tenendo conto di una società che, spinta da sfide globali, come l’immigrazione, l’energia e la scienza non permette alla politica di addormentarsi né di portare nella borsa il libro delle ricette del secolo passato.
Io mi vergogno e, se possibile, mi adiro più di voi quando sento dire che non è il tempo giusto per proposte nette e moderne. Dieci giorni fa a Bruxelles, chiamato come presidente della Commissione di Inchiesta sul Servizio Sanitario italiano, mi sono sentito rimproverare da una europarlamentare olandese che in regioni come il Lazio l’obiezione di coscienza dei ginecologi ha superato l’80%, non garantendo l’applicazione della legge 194. L’Europa guarda con disorientamento all’Italia e si stupisce che esistano ancora paesi dove due persone dello stesso sesso non possano vivere la loro unione con il riconoscimento della legge. E quale ferita leggere, nell’estate scorsa, di ipotetiche “sante alleanze” che andrebbero dai Comunisti Italiani agli eredi del Movimento Sociale: non è questa l’amalgama che vorrei e che comunque non riuscirebbe a tenere insieme neanche il mago Merlino. Il Presidente del Consiglio ha realizzato in Italia il dantesco quadro: «Ahi serva Italia, di dolore ostello, nave senza nocchiere in gran tempesta, non donna di province ma bordello» e proprio per questo il Pd deve prendere la guida e indicare la rotta sui temi che interessano le persone. Non possiamo perdere un solo istante per disegnare il Paese che ci impegniamo a realizzare: una scuola pubblica moderna non falciata, una sanità pubblica finanziata ma anche sottoposta a valutazioni e verifiche, un utilizzo delle risorse energetiche che provengono dal vento, dal sole e dal calore della terra, una cultura come obiettivo strategico e non vezzo collaterale. E poi, anzi, prima di tutto, il lavoro: con Cambialitalia realizzeremo a breve un incontro tematico dove, insieme a Pietro, spero di vedere tutti coloro che hanno un contributo da offrire a partire da Stefano Fassina, Cesare Damiano e Beniamino Lapadula.
Discutiamo con passione ma nelle sedi adeguate, con tutta l’energia e la convinzione che abbiamo e poi avanziamo la nostra proposta chiara e netta, nell’interesse di chi il lavoro lo vive e non solo ne parla. Ma soprattutto opponiamoci a questo vergognoso Governo, chiediamo di tornare alle urne per il bene del Paese e impegniamoci, con volti nuovi e credibili, a dimostrare che sappiamo leggere la modernità del nostro tempo e tradurla in programmi di governo.

il Fatto 26.9.10
Contro il governo intesa tra Cgil e Marcegaglia
Accordo tra parti sociali per reagire all’immobilismo della politica
di Salvatore Cannavò


“Imprese e cittadini stanno esaurendo la pazienza”, ha detto ieri il presidente di Confindustria Emma Marcegaglia, invitando però il governo ad “andare avanti” perché “ha il dovere di governare”. La tregua con la Cgil siglata ieri al convegno confindustriale di Genova sembra quasi indicare la nascita di un governo ombra “sociale”, contrapposto a un quadro politico che ormai sta stancando gli industriali. Anche nel '92-'93, nel solco della profonda instabilità creata da Tangentopoli, le parti sociali costruirono un clima di intesa e di equilibrio. Il fatto che il “disgelo di Genova” sia avvenuto in contemporanea allo scontro finale tra Gianfranco Fini e Silvio Berlusconi fa pensare a una riedizione di quella stagione.
Le ragioni dell’accordo
L’INTESA con la Cgil era nell'aria e tutti ieri attendevano le parole del segretario generale Guglielmo Epifani e le conclusioni della Marcegaglia, nella giornata finale del convegno degli industriali a Genova. E l'intesa c'è stata. “Un bicchiere mezzo pieno” come l'ha definita la Marcegaglia: Confindustria e Cgil, dopo la distanza sull'accordo di Pomigliano (nello stabilimento Fiat), sono tornate a dialogare. Con inviti all'unità ma anche elogi alla Cisl di Raffaele Bonanni e alla Uil di Luigi Angeletti la leader degli industriali ha approfittato per lanciare un “Patto sociale per le riforme”. Cioè un tentativo di riunire attorno allo stesso tavolo la Confindustria, le altre associazioni imprenditoriali, tutti i sindacati “per un'agenda di riforme” a base di “ricerca, scuola, burocrazia, fisco, energia, mobilità e naturalmente contratti e relazioni sindacali”. Insomma, a Genova torna lo spirito fondativo della concertazione, quello che diede vita agli accordi di luglio del 1993 quando Cgil, Cisl, Uil, Confindustria e governo Ciampi firmarono l'intesa per agganciare gli aumenti salariali all'inflazione programmata.
A giustificare il clima solenne è stato soprattutto l'intervento di Guglielmo Epifani che doveva rispondere alla proposta fatta venerdì dal vicepresidente di Confindustria, Alberto Bombassei, di fare “il tagliando” all'accordo sul modello contrattuale del 2009 dando così modo alla stessa Cgil di sedersi nuovamente al tavolo, visto che all’epoca non l’aveva firmato.
Le concessioni del sindacato
EPIFANI NON HA deluso le attese di Confindustria. Dopo aver insistito sulla necessità che alla crisi risponda un “sistema-Paese” più efficace, con una politica di sviluppo industriale ed economico, il segretario della Cgil è intervenuto sul nodo complicato delle deroghe al contratto nazionale, condannando la pratica degli accordi separati ma indicando chiaramente la necessità di “innovare il sistema contrattuale” offrendo una proposta precisa: “Contratti nazionali più ampi degli attuali settori e più spazio alla contrattazione di secondo livello su orari e inquadramento”. Per inquadramento si intendono i livelli retributivi collegati alle mansioni, quindi anche il salario. “Un modo – dice Sergio Bellavita, della segreteria nazionale della Fiom – per svuotare il contratto nazionale perché con aumenti salariali vincolati all'inflazione, una volta spostato al secondo livello la trattativa su inquadramento e orari, del contratto nazionale resta solo la forma: ma chi ha deciso questa nuova linea?”. La proposta di Epifani è il frutto di un seminario interno della Cgil, tenutosi nei giorni scorsi a Todi, in cui quei due punti erano stati indicati come “cedibili” al negoziato. Epifani non parla di deroghe ma preferisce riferirsi a “nuove regole”, in cui inserisce l’ipotesi di una riforma della rappresentanza anche con referendum confermativi degli accordi in grado “di vincolare qualsiasi
organizzazione sindacale”. L'idea di “nuove regole” è stata subito accolta dalla Marcegaglia: “Quello che conta sono i contratti, non le parole, e a noi interessa l'adattabilità delle regole. Come ha giustamente detto Epifani abbiamo siglato nel 2009 ben 12 mila accordi; cerchiamo di fare 12 mila e uno”. Il riferimento ovviamente è alla Fiom che non ha voluto aderire all'accordo di Pomigliano e che ieri ha scioperato alla Sevel di Atessa (gruppo Fiat) contro gli straordinari di sabato. “Non vogliamo più il teatrino sindacale”, ha detto la Marcegaglia, riferendosi a pratiche sindacali “intollerabili” cioè contrarie agli accordi nazionali. Una richiesta, più o meno implicita, di risolvere il “problema Fiom” – a Pomigliano sono previste sanzioni per chi sciopera contro materie del contratto – e su cui Epifani non si è pronunciato. Cgil e Confindustria, dunque, confermano di non voler fare a meno l'una dell'altra. “La crisi della politica – ha commentato la Marcegaglia a margine del convegno spinge le forze sociali ad unirsi”. Se l'unione si tradurrà in accordi lo si vedrà nella discussione sul “Patto sociale per le riforme” che prenderà le mosse il 4 ottobre e che, nelle forme presentate ieri, condito anche da una presa di distanza dal “teatrino della politica”.

l’Unità 26.9.10
Intervista a Maurizio Landini
«Pronti a dialogare se prima si bloccano le trattative separate»

Il segretario Fiom: «Se venisse distrutto il contratto nazionale ci sarebbe uno strappo democratico non molto diverso da quelli di questo governo»

Tutto si può dire di Maurizio Landini, ma non che manchi di coerenza. Mentre il clima politico-sindacale si rischiara e le recenti aperture al dialogo tra Confindustria e Cgil promettono tentativi di disgelo, il segretario Fiom mantiene la linea tenuta finora. E sfida gli industriali a mostrare con fatti concreti lebelle parole pronunciate a Genova.
Il vicepresidente di Confindustria ha chiamato al confronto tutto il sindacato, anche quello che non ha firmato. Lei che cosa risponde?
«Se Bombassei vuole davvero ragionare con tutto il sindacato di crescita e competitività, allora deve invitare Federmeccanica ad interrompere le trattative separate con Fim e Uilm sul contratto dei metalmeccanici. Se Confindustria vuole davvero un confronto sulle regole rispettoso di tutte le parti, la prima cosa da fare è un accordo sulla democrazia e la rappresentanza sindacale».
Guglielmo Epifani, pur con cautela, ha risposto positivamente.
«Abbiamo recentemente fatto un seminario a Todi alla presenza di tutti i gruppi dirigenti della Cgil, ma nessun organismo direttivo del sindacato ha definito e approvato un piano di proposte. Mi limito ad osservare che se, nel frattempo, verrà distrutto il contratto delle tue blu, ci troveremo di fronte ad uno strappo democratico di Confindustria non molto diverso da quelli a cui ci ha abituato questo governo».
La presidente Emma Marcegaglia, però, ha preso le distanze dal governo. Pare abbia finito la pazienza. «Ma non si capisce che cosa debba riguardare il patto sulla produttività proposto dall’associazione. Finora Confindustria ha condiviso tutte le scelte del governo, compresi il piano di Sacconi per smantellare lo Statuto dei lavoratori e il condono fiscale. Sinceramente, accorgersi ora che siamo senza una politica industriale sembra una mossa politica in vista di possibili elezioni».
Purtroppo, però, risponde a realtà.
«Nel settore metalmeccanico siamo ben lontani dall’uscita dalla crisi, come dimostrano i settori della cantieristica, dell’automobile e degli elettrodomestici, dove la totale assenza di una politica di sostegno all’innovazione e alla ricerca ha effetti pesanti sui prodotti e sulle prospettive. All’estero si è scelto di sostenere le aziende che investivano e non licenziavano, qui ci si è limitati ad incentivi che, per assurdo, hanno favorito i prodotti più innovativi provenienti dall’estero».
E non abbiamo un ministro dello Sviluppo economico. «Da ben cinque mesi. Ma politiche di stampo europeo non si sono viste nemmeno quando un ministro c’era. L’unica politica industriale del governo si basa sulla limitazione dei diritti del lavoro. E questa arretratezza la sconta anche Confindustria, che sta usando la crisi per ridiscutere i contratti. Ma la produttività non si fa con lo sfruttamento, non si misura nella quantità, ma nel valore prodotto: il punto critico è la qualità della nostra produzione industriale. Anche per questo sarebbe un errore cancellare il contratto nazionale: le imprese devono competere da un certo livello in su, non al ribasso sul costo del lavoro».

Chi è
Il volto gentile e radicale dei metalmeccanici Cgil

Maurizio Landini inizia giovanissimo a lavorare come apprendista saldatore in una fabbrica metalmeccanica emiliana. Già segretario della Fiom di Reggio Emilia e dell’Emilia-Romagna, prima di entrare nella segreteria nazionale, dal luglio 2010 succede a Gianni Rinaldini e diventa segretario generale delle tute blu Cgil.
La Fiom continua a scegliere il conflitto. È una scelta che paga? «Noi stiamo semplicemente facendo il nostro lavoro di sindacato. Siamo senza una politica industriale, vogliono distruggere il contratto nazionale e chiudono le fabbriche: chiediamo solo che si affrontino i problemi delle persone che lavorano. E voglio ricordare che la Fiom è il sindacato che firma più accordi aziendali, come le imprese ben sanno».
La manifestazione Fiom del 16 ottobre ha forti contenuti politici. «Quella manifestazione nasce a Pomigliano, quindi ha contenuti decisamente sindacali. Ma certo la posta in gioco è alta la libertà dei lavoratori di contrattare la propria posizione e non riguarda solo le tute blu, ma tutti i lavoratori italiani. E solo attraverso la democrazia si può ricostruire l’unità sindacale: in caso di disaccordo tra i sindacati, o sono i lavoratori a decidere con il proprio voto, o solo le aziende a scegliere le organizzazioni che preferiscono».

il Fatto 26.9.10
Italia: notizie dai confini
L’uccisione della donna che ha denunciato lo stupratore della sua bimba, le intercettazioni di Cosentino inutilizzabili, Napoli di nuovo in fiamme: qualcosa lega questi fatti
di Furio Colombo


La frase è questa: “Lo so che poi tocca a me. Non è che mi faccio illusioni. Dico solo che qui siamo soli. Io vado avanti. Faccio il mio lavoro ma lo so che ogni giorno può succedere. Qui è così”. Voce di uomo, appena un po’ stanca, ma senza costernazione e senza lamento. È una mattina di settembre (mercoledì 22) , è un programma giornalistico quotidiano della radio di stato italiana (“Tutta la città ne parla”, RadioTre3, ore 10, conduce Giorgio Zanchini). La voce appena un poco stanca l’ho ascoltata dal luogo in cui una donna, Teresa Bonocore, era stata assassinata due giorni prima per aver denunciato e fatto condannare l’uomo che ha stuprato la sua bambina (e un’altra bambina) di otto anni. Colpevole o no, qui come nella vita politica della capitale, non importa il delitto, ma chi ti fiancheggia e chi ti protegge. E così Teresa Bonocore è stata uccisa da due ragazzi ventenni dietro compenso di cinquemila euro e la promessa di un posto di lavoro. Pochi giorni prima era stato ucciso il sindaco di Pollica (periferia di Salerno), Angelo Vassallo. Era solo, nove di sera, tornava a casa.
La voce appena un po’ stanca che riflette su questi delitti con il giornalista Zanchini è di Vincenzo Cuomo, sindaco di Portici, il borgo napoletano di Teresa Bonocore. Il sindaco parla alla radio di Stato della sua possibile uccisione, oggi, in Italia. E per quanto la trasmissione che diffonde quella voce sia unica per precisione e coraggio, non c’è, né sul momento né dopo, alcuna reazione o conseguenza o emozione o commento. Non so: un vescovo, un sociologo, la firma di un giornale, i cittadini.
Il caso Cosentino
C’È PERÒ una coincidenza. Quella stessa mattina la Camera dei deputati ha dovuto votare se permettere ai giudici di utilizzare le intercettazioni di un politico di rilievo, l’ex sottosegretario Nicola Cosentino, tuttora coordinatore del partito di governo (PDL) per la Campania, ovvero della regione di Pollica, di Portici, del sindaco ucciso e di quello che parla della sua possibile uccisione. E' la regione di Teresa Bonocore e del ben difeso stupratore di bambini, che però – si capisce – nella vita ha ben altri impegni. C’è esagerazione in queste righe? No, direi che c’è una triste pedanteria. Perché quelle intercettazioni richieste come prova processuale riguardavano l’accusa e l' arresto di un deputato potente per gravi reati di camorra. Non violavano il divieto di intercettare deputati perché le intercettazioni discusse riguardavano altre persone, e la presenza del deputato, allora al Governo (e il legame intimo con la malavita che le conversazioni registrate hanno dimostrato) è stata un importante imprevisto investigativo. Ma nessuno si preoccupi per eventuali offese ai diritti di personaggi eletti. Nonostante il peso e l’evidenza delle accuse e il legame di diretta responsabilità politica di Cosentino nei territori della morte di cui aveva parlato la mattina di quel giorno il programma di RadioTre dal titolo esemplare “Tutta la città ne parla”, la libera decisione dei deputati della Repubblica italiana è stata la seguente: 308 voti a sostegno di Nicola Cosentino, per impedire ai giudici di usare le intercettazioni che provano lo stretto legame del notabile politico con la camorra. 265 a sostegno dei giudici. Voto segreto che lascia capire che non tutti coloro che avevano annunciato di votare secondo la legge (che accusa Cosentino) lo hanno fatto. Evidentemente – voto segreto o no – qualcuno si è sentito a rischio. Chi ha verificato i tabulati suggerisce che persino dall’opposizione qualcuno si è messo al riparo dal rischio Berlusconi-Cosentino-camorra che, ammettiamolo, nell’Italia di oggi non è poca cosa.
Però qualcosa deve essersi incrinato nel filo di lunga armonia fra camorra e Governo. Tornano all’improvviso i cumuli di immondizia che bloccano Napoli. Ciascuna di queste storie spiega l’altra. I telegiornali mostrano le strade di Napoli come negli ultimi giorni di Prodi. Barricate di immondizia, popolazioni in rivolta nelle strade, camion di rifiuti incendiati, tumulti di donne contro i battaglioni di polizia in tenuta da sommossa, cronache concitate che non raccontano né l’inizio, né l’esito di ciò che sta accadendo. Si direbbe che il dio della camorra non è stato placato dai delitti, perché il sangue è il suo business (il sindaco di Portici, mentre parlava a RadioTre, ha elencato senza enfasi i nomi di altri sindaci uccisi, non la storia di anni, ma la cronaca di giorni). Il dio della camorra, che aveva realizzato il celebre miracolo (attenzione, è arrivato Berlusconi, oggi l’immondizia c’è, domani è sparita, strade pulite e cassonetti in ordine, mai vista una cosa simile?) adesso non si fida. Infatti il padrone di Cosentino appare rimpicciolito, spaventato dai suoi ribelli, troppa gente infida che lo sta abbandonando. Se c’è un patto, come farà – con tutta la buona volontà – a mantenere quel patto? La camorra non è un alleato politico che compensa questo con quello. È un socio d’affari . Se non vede dividendi, va a prenderseli. Per prenderseli entra in azione. Come fai a continuare a fidarti di un capo di Governo così piccolo, così debole, così distratto dalle vendette private? Ecco dunque che è guerra. Colpisce la sequenza dei fatti e la coincidenza dei tempi. Forse molti di noi, nell’euforia di avere notato l'inizio della caduta di Berlusconi, avevano prestato un’angosciata attenzione al furibondo vandalismo istituzionale che sta segnando quella caduta (distruggere dal bunker la terza carica dello Stato come modo di destabilizzare anche gli aspetti ordinari e quotidiani della vita pubblica e renderla impossibile). Ma non avevano previsto le conseguenze del frantumarsi di un patto fra illegalità e malavita, che controlla indisturbata un terzo dell’Italia, nonostante il tarlo di giudici ostinati, di sindaci che conoscono il proprio destino e lo possono anche raccontare a un Paese inerte, di poliziotti senza mezzi, persino senza benzina, che non hanno mai smesso di fare il proprio lavoro impossibile.
I precari del crimine
ECCOCI dunque al momento in cui la Repubblica Italiana fa il suo incontro, accanto al cadavere di Teresa Bonocore, con Enrico Perillo, di professione camorrista, che dal carcere è in grado di uccidere chi lo ha denunciato per lo stupro di una bambina e ci accorgiamo che – in questa scena – lo stupro è un dettaglio, l’uccisione è un lavoro quotidiano, (Roberto Saviano) gli esecutori di quel lavoro sono precari del crimine, che sparano a prezzi stracciati con la promessa di un posto, mentre sullo sfondo si accendono i fuochi di montagne di immondizia che rischiarano la torbida scena e danno un senso alla vita che stiamo vivendo e a quella che sta per venire. Ah, se avessimo un partito o uno schieramento politico per ritrovarci insieme a parlare di queste cose, a domandarci (ma per rispondere chiaro, subito): “Che cosa fare adesso? Che cosa fare dopo?”.

Repubblica 26.9.10
Se l'Europa caccia i Rom

di Nadia Urbinati

Forse, mai prima d´ora l´Unione Europea aveva attraversato una crisi così radicale. Non perché prima d´ora non vi fossero mai stati dissidi fra gli stati membri sulle politiche comunitarie, ma perché per la prima volta il dissenso riguarda i principi fondamentali sui quali l´Unione è nata. Il governo francese e quello italiano sono alla testa di questa crisi e portano la diretta responsabilità di un ritorno arrogante ad una politica delle frontiere quanto addirittura delle espulsioni di massa. L´Articolo 19 della Carta dei Diritti dell´Unione Europea stabilisce che «le espulsioni collettive sono vietate». Nel testo di questo articolo riecheggia la storia europea del Novecento, quelle terribili tragedie che portano i nomi di Olocausto, genocidio e pulizia etnica, la persecuzione e il massacro di individui colpevoli di appartenere a un gruppo etnico o nazionale o di professare una religione. Ebrei e gitani subirono morendo a milioni la conseguenza di una delle più orrende ideologie che abbia prodotto il nostro continente: la stigmatizzazione collettiva, la persecuzione di individui a causa della loro appartenenza a una comunità che non si conforma per una qualche ragione alla cultura e ai modi di vita della comunità nazionale di maggioranza. Le radici dell´Unione Europea sono nei campi di sterminio - da questa memoria occorrerebbe partire quando si giudicano le azioni dei governi.
Non consoliamoci dicendo che gli zingari espulsi in questi mesi dalla Francia, e quelli che il governo italiano promette di espellere ed espelle dal nostro paese, non sono spediti nei campi di concentramento; che, anzi, come nel caso francese, sono "invitati" ad andarsene e accompagnati alle frontiere con in tasca il biglietto di viaggio (di sola andata) pagato con le tasse dei contribuenti. La forma "civile" dell´accompagnamento al confine non cambia la natura gravissima del fatto al quale stiamo assistendo senza, purtroppo, preoccuparci abbastanza: una discriminazione collettiva, una violazione della libertà delle persone - tra l´altro europee - in ragione della loro identità, per ciò che sono. In violazione di un altro articolo della Carta dell´Unione, l´Articolo 21: «È vietata qualsiasi forma di discriminazione fondata, in particolare, sul sesso, la razza, il colore della pelle o l´origine etnica o sociale, le caratteristiche genetiche, la lingua, la religione o le convinzioni personali, le opinioni politiche o di qualsiasi altra natura, l´appartenenza ad una minoranza nazionale, il patrimonio, la nascita, gli handicap, l´età o le tendenze sessuali».
È triste e molto preoccupante che nessuna voce laica, nessuna voce politica si sia immediatamente alzata con chiarezza e coerenza per criticare queste proposte o decisioni, per esprimere dissenso e orrore per una pratica che il nostro governo ha reso se così si può dire ordinaria. È sconfortante vedere come la cultura dei diritti umani non sia patrimonio solido della politica culturale dei partiti e dell´opinione pubblica; come solo la Chiesa si alzi per criticare queste decisioni, che solo essa senta il dovere di ricordarci che il nostro paese, come la Francia, ha sottoscritto la Carta dei diritti e quindi anche gli Articoli 19 e 21; che dunque nessun governo europeo può autonomamente decidere in riferimento a una politica europea che stabilisce sostanzialmente il diritto di insediamento e di movimento; che i problemi di integrazione vanno affrontati con politiche di integrazione non con politiche di espulsione. Un discorso che è squisitamente politico e che, soprattutto, è essenziale per la vita dell´Unione. Eppure non sembra appartenere al linguaggio della nostra politica, dei nostri politici.
È significativo che questa recrudescenza della politica cosiddetta della sicurezza avvenga in queste settimane; significativo, perché sembra l´effetto di un´azione la cui regia fa capo a governi che cercano di distogliere con la propaganda contro i Rom l´attenzione per le difficoltà nelle quali versano le loro economie e di mettere a tacere la loro crisi di legittimità. È un caso che tra i punti del programma che il nostro governo ha sfornato (e del quale relazionerà tra qualche giorno il suo leader) vi sia in primo piano quello della sicurezza? È un caso che il Presidente Sarkozy, con un governo nella bufera per scandali e corruzione, con un consenso alle politiche economiche bassissimo, voglia distrarre l´opinione pubblica del suo paese aprendo un contenzioso con l´Unione Europea su un punto cruciale come questo? Il montante nazionalismo usato come espediente per salire nei sondaggi: in Italia come in Francia è questa la strategia che sta dietro la propaganda del "pugno duro" con gli zingari e gli immigrati. Anche a costo di mandare in frantumi una nobile cultura politica comunitaria. Il dissenso che si è aperto nell´Unione Europea prefigura una sfida gravissima ai valori dei diritti umani e della dignità delle persone sui quali è nata l´Unione.

l’Unità 26.9.10
Si è aperta ieri a Roma la due giorni di lavoro per il rilancio dell’istruzione pubblica
Oltre i tagli e gli addestramenti militari
Le ricette Pd per il rilancio della scuola
di Felice Diotallevi


Quattro gruppi di lavoro, due giorni di discussione, più di 300 fra insegnanti, esperti e sindacalisti. Si sono aperti ieri a Roma i lavori del Forum nazionale organizzato dal Pd sui problemi della scuola pubblica.

Il tempo pieno e il modulo a 30 ore con le compresenze nella primaria e un sistema di valutazione che aiuti le scuole a migliorare i livelli di apprendimento degli studenti. Sono alcuni dei punti sui quali verte la proposta del Pd «per una scuola pubblica di qualità» al centro, ieri e oggi, del forum organizzato dal partito a Roma, coinvolgendo circa 300 fra insegnanti, esperti, sindacalisti, rappresentanti delle associazioni di settore, divisi in quattro gruppi di lavoro. «Se il ministro Gelmini, dopo aver licenziato 132 mila fra insegnanti e collaboratori, si diverte con l’educazione militare insieme al ministro La Russa, il Pd ha affermato Francesca Puglisi, responsabile scuola dei Democratici è al lavoro per preparare la scuola pubblica aperta e di qualità di cui l’Italia ha bisogno per tornare a crescere». Da questo «percorso partecipato», dopo la prima Festa della Scuola a Bologna che ha dato avvio al confronto, nascerà la proposta complessiva che sarà presentata e discussa nell’assemblea nazionale del Pd, in programma a Varese l’8 e 9 ottobre. Tra le questioni ritenute prioritarie: l’investimento in educazione di qualità 0-6 anni, la necessità di «innovare profondamente» la scuola media e superiore, «partendo dalle buone pratiche didattiche sperimentate nelle scuole autonome, per combattere la dispersione scolastica e alzare i livelli di apprendimento degli studenti». Nel ventaglio delle proposte del Pd anche quella di tenere scuole aperte tutto il giorno e tutto l’anno «per far diventare la scuola il cuore pulsante delle comunità locali» e l’istituzione di un sistema di valutazione che oltre ad aiutare le scuole a crescere e migliorare i livelli di apprendimento degli studenti, sappia valorizzare i diversi percorsi di carriera degli insegnanti che si potranno realizzare all’interno della scuola autonoma.
«Una scuola responsabile, autonoma, capace di valutare ed essere valutata» è la ricetta proposta da Giovanni Bachelet, presidente del Forum. «Abbiamo voluto organizzare questa due giorni di seminari, aperta a tutti, anche ai partiti dell’opposizione ha spiegato inaugurando i lavori per capire dove è più urgente intervenire. Dove, da subito, dobbiamo mettere per prime le mani. La scuola del futuro dovrà formare cittadini anche nella personalità, intervenendo in senso civico e in senso di preparazione al lavoro, con insegnamenti continui che mirino ad elevare le capacità critiche». Punta più sull’autonomia, invece, Francesca Puglisi: «per dare gamba alla riforma del titolo V della Costituzione, e poi perché ce lo chiede la Ue». La responsabile scuola del del pd continua: «Nessuno meglio degli enti locali dice conosce bisogni educativi ed esigenze sociali del proprio territorio: l’istruzione italiana, nonostante tutto, si attesta su livelli d’eccellenza. Valorizziamo dunque le buone pratiche scolastiche, già esistenti nelle scuo-le dell’autonomia, che aiutano i ragazzi a raggiungere buon livelli di apprendimento». Per la puglisi «i gioielli di famiglia del settore sono, ad esempio le scuole primarie e dell’infanzia, il modulo della 30 ore di compresenza degli insegnanti, utilissime agli studenti rimasti un po’ indietro. Tutte cose che con i tagli della Gelmini possono essere svenduti».

il Fatto 26.9.10
Scuola, i sindacati uniti in piazza
La situazione è al collasso: Cgil, Cobas e gli altri sindacati di base devono trovare punti di convergenza: è ora di silenziare vecchi dissapori e fronteggiare l’emergenza
di Marina Boscaino


Da più di 2 anni la scuola italiana è in mobilitazione permanente. Vuoi nelle modalità collaborative e collegiali che appartengono alla bella cultura della scuola primaria, vuoi nella dimensione sfrangiata e quasi balbettante -spesso individuale che ormai da tempo caratterizza la superiore, la scuola protesta. È vero, sono stati i precari a restituirle la dignità del risveglio da lungo torpore; dallo stato di acquiescenza passiva che ne ha caratterizzato gli ultimi anni e ha confermato pericolose tendenze a divorare energie volontaristiche, entusiasmi a costo 0, che hanno tenuto a galla il sistema dell'istruzione, punte di diamante di una professionalità in declino, costretta da scelte bipartisan – prima tra tutte l'autonomia degli istituti – a convertire genuine vocazioni didattiche a logiche del mercato. Elemento neutro per gli strateghi del Miur – Gelmini, nonostante interrogazioni parlamentari, scioperi della fame, scuole al collasso continua nel suo silenzio autoreferenziale, confrontandosi solo con media compiacenti o interlocutori fidati -, la protesta ha riattratto la parte della società civile che avverte il disagio del presente. Varie le strategie di sensibilizzazione dei collegi docenti più motivati e responsabili: è bene, infatti, che più “utenti” (sic!) possibile capiscano che i tagli sul sistema-scuola non sono soltanto l'allontanamento coatto di 140.000 donne e uomini senza nome e volto. Ma si abbattono tragicamente sul funzionamento delle scuole. Non sto parlando di bonifica dall'amianto o messa in sicurezza degli istituti: sono progetti per un altro mondo. L'impoverimento nella scuola di tutti i giorni si tocca con mano: -72.4% i fondi per le supplenze; -50% i fondi per didattica e amministrazione; -25% per le pulizie. Il debito che il ministero ha contratto con gli istituti ammonta a 1,5 mld. Le scuole sono al collasso e si sostengono con gestioni virtuose dei pochi fondi che arrivano e al cosiddetto “contributo volontario” delle famiglie, che ormai è una tassa, di ammontare variabile e oggi sempre più adoperata per la gestione ordinaria. Che cosa succederebbe se le famiglie italiane decidessero di appellarsi alla “volontarietà” del pagamento e smettessero di versare, è facilmente immaginabile. Altrettanto immaginabile è cosa succederà se – come si sta proponendo – i docenti decideranno di smettere di fare attività aggiuntive; non accettare più nelle proprie classi studenti privi di sorveglianza di un docente assente o non aumentare il proprio orario contrattuale assumendosi gli spezzoni precedentemente assegnati ai precari, motivati e non sovraccarichi delle canoniche 18 ore: è questa la faccia più triste della strategia di “risparmio” che vari dirigenti scolastici attuano in mancanza di nomine. L'impoverimento dell'offerta formativa andrebbe a ricadere in primo luogo sugli alunni. Perché dovremmo cercare di attutire il disagio, di nascondere le difficoltà, che la “cura da cavallo” Gelmini-Tremonti ha creato e che si amplificano di anno in anno? È davvero civicamente responsabile ammortizzare i colpi del malgoverno e dello spregio che questa classe dirigente ha per la scuola pubblica? Una risposta l'avrei: chiedere ai più sensibili interlocutori dei lavoratori della scuola – la Cgil, i Cobas e altri sindacati di base– di trovare punti di convergenza per una giornata di sciopero unitario. È ora di silenziare vecchi dissapori e prepararsi a fronteggiare – insieme emergenze immediate e progetti di attacco a libertà di insegnamento e diritto alla dignità del lavoro.

l’Unità 26.9.10
I bambini e le nostre paure
di Andrea Boraschi


A Sonnino, qualche giorno addietro, è stato pacificamente risolto uno di quei casi piccini che, solitamente, rimbalzano sulle cronache nazionali per divenire presto parodia di guerre sante. Una madre di origine marocchina, residente da oltre un anno nella cittadina in provincia di Latina, era solita accompagnare il figlio all’asilo indossando un burqa (così stando alla stampa: invero, dalle foto che si son viste e dalla provenienza della signora, è più probabile indossasse un niqab). Ed ecco il “caso”: bambini così dicono – spaventati da questa insolita figura di genitore, mamme preoccupate per la reazione della loro prole e timorose per la non identificabilità di una persona che, pure, accede alla scuola quotidianamente. In molti cominciano a sollevare il problema, prima rivolgendosi alla direttrice dell’istituto poi al sindaco; con toni che non sono di ostracismo e che, tuttavia, chiedono soluzione a una controversia tanto culturale quanto pratica. E la controversia si risolve presto e serenamente: la donna e suo marito, imam, acconsentono a che il volto di lei rimanga scoperto all’interno dell’asilo. Niente più paura di quella “maestra nera” (così pare l’avessero ribattezzata i bambini), niente più dubbi sull’identità di chi entra, esce, porta via un minore affidato alla scuola.
Non è banale che la storia si sia risolta così, presto e con la disponibilità di tutte le parti a trovare un compromesso ragionevole. Ma il buon senso mostrato da chi, suo malgrado, ne è stato protagonista non risolve le questioni profonde che vi sono a monte. Incidentalmente chi scrive è padre di una bimba di poco più di due anni, che frequenta un asilo. In circostanze analoghe non sarei stato tra coloro che hanno chiesto alla madre maghrebina di scoprirsi il volto. La questione “identificabilità” di chi accede a una struttura simile è risibile: non ce lo vedo proprio no un malintenzionato che per non essere riconosciuto decide di indossare un velo integrale. Per il resto avrei parlato, qualora ve ne fosse stato bisogno, con mia figlia. Spiegandole qualcosa che non conosce e iniziando a farle capire che il mondo è un luogo ricco di infinite varietà di costumi, usi, credi, tradizioni. Non tutti condivisibili: ma tutti da rispettare sin quando non minacciano o ledono la nostra vita. Sapendo che i bambini possono sì coltivare paure, ansie: ma che spesso le riservano per cose che noi troviamo innocue e altre volte le ignorano per ciò che invece, a torto o ragione, ci fa davvero paura.
Quegli stessi bambini proverebbero disagio o timore di fronte a un uomo, genitore di un loro compagno di scuola, vestito da donna? E dinanzi a un “punkabbestia”? A una mamma maniaca del piercing? O forse la proverebbero, inducendola e coltivandola in loro, gli altri genitori?

il Fatto 26.9.10
L’appello dei Verdi: “Lavoriamo insieme”


È finita l’esperienza dei Verdi. Il “Sole che ride”, nato nel 1986 a Finale Ligure, tramonta per lasciare il posto ad un “nuovo soggetto ecologista, che nascerà dopo una Costituente, dal basso, ma che può già vantare le firme di personalità” come il meteorologo Luca Mercalli, il geologo Mario Tozzi e addirittura il regista Mario Monicelli. Angelo Bonelli, che nella storia dei Verdi sarà l’ultimo presidente, lancia un appello al Movimento 5 Stelle: “Il dialogo importante, possibile e concreto lo vedo con la gente di Beppe Grillo. Magari lui risponderà picche, ma sarebbe un buon segnale per il Paese. Poi, sia chiaro, non sto chiedendo a Grillo di dialogare con me, ma un confronto permanente con i nostri militanti e con i firmatari di questo nuovo progetto”, fra cui anche il comico Giobbe Covatta, la regista Francesca Comencini e l’economista Loretta Napoleoni.
LA SINISTRA? Dopo anni in cui i Verdi hanno camminato al fianco dei partiti della sinistra radicale, l’altra svolta di Bonelli è quella di abbandonare questo schema: “L’ecologia non è di sinistra, è un patrimonio di tutti i cittadini, quindi dobbiamo riuscire ad essere trasversali. Perché non è più accettabile che in Italia il movimento ecologista sia marginale. Se in Germani si può ottenere il 24 per cento e il 16 in Francia, dove è stata fatta un’esperienza analoga a quella che vogliamo avviare ora noi, si può anche qui. Ma andare oltre la destra e la sinistra – qui Bonelli parla proprio come Grillo – è quindi essenziale, anche perché non dimentichiamo che giunte di centrosinistra hanno cementificato interi pezzi d’Italia”.
VENDOLA ADDIO. Anche con il compagno Nichi Vendola, nel cui partito (Sinistra ecologia e libertà) sono confluiti pezzi della formazione di Bonelli, le strade si dividono nettamente: “Chi è andato con Vendola si è dato un obiettivo comprensibile e rispettabile: quello di rifare la sinistra. Noi abbiamo tutto un’altro progetto per il futuro. Per questo, ribadisco, l’unico vero dialogo possibile oggi lo vedo con il movimento di Grillo, il più sensibile a tematiche come le nostre”. Nel nuovo documento ecologista, infatti, si legge: “Va cambiato l’attuale modello di sviluppo economico e di consumi, responsabile dei cambiamenti climatici e globali in atto, basato sull’uso delle fonti fossili e su un consumo senza limiti delle risorse naturali, su produzioni intensive animali, che ha generato e genera nella Terra povertà, squilibri e guerre”. Per Bonelli “il nostro è un atto di amore e di coraggio, superarci per riaggregare”.

il Fatto 26.9.10
“La Chiesa risponderà di crimini contro l’umanità”
Prevista per fine ottobre a Roma una manifestazione internazionale contro il Vaticano
Nasce a Verona l’associazione italiana delle vittime dei preti pedofili sul modello americano
di Marco Politi


Le vittime cercano la     parola. Uomini e donne abusati dai preti nell’infanzia escono allo scoperto per rivendicare i loro diritti. A Verona li ha invitati il Gruppo “La Colpa”. Sono un centinaio di persone venute alla Gran Guardia, praticamente di fronte all’Arena, all’insegna di un manifesto dove un ragazzo trascina la sua croce, issato sulle spalle di un chierico minaccioso. Tra loro una quarantina di vittime e familiari. L’atmosfera è molto particolare. Loro, ex ragazzi con i capelli un po’ spruzzati di grigio, si sono ritrovati con il coraggio, la timidezza, la speranza e l’imbarazzo di chi per la prima volta in Italia deve dire all’opinione pubblica “Subivo in silenzio”. Tra gli stuprati c’è chi parla, chi si limita ad ascoltare, chi si nasconde, chi non se l’è sentita di venire e affida il suo racconto ad una mail. Fa impressione vedere qualcuno degli ex allievi del “Provolo” (l’istituto veronese per sordomuti, gestito dal clero, dov’è scoppiato uno scandalo nazionale) che articola faticosamente le parole, mimando il suo irrigidirsi quando il prete o l’assistente laico cominciava ad accarezzarlo. Gianni Bisoli racconta al Fatto il suo calvario iniziato a 13 anni con il prete che lo seguiva in bagno, lo chiamava di notte dal dormitorio, se lo portava in giro in macchina e lo sodomizzava. Per quattro volte, racconta, fu portato anche dal vescovo dell’epoca, che lo molestò. C’è chi comincia il suo racconto e bruscamente lo interrompe, perché non ce la fa a proseguire. Francesco da Padova ce la fa. E ricorda quei preti e quelle suore, che con la scusa di punire iniziavano a toccare. La cosa peggiore, dice, era sapere che i genitori non avrebbero creduto o avrebbero minimizzato: “E allora ti senti in colpa e anche bugiardo”.
Regalini, dolcetti e caramelle
INTERVIENE una donna ed è felice di non dover tacere. “Scusate se parlo disordinatamente – dice – perché sono tesa”. Ricorda le confessioni con il prete, che le chiedeva dove si grattasse sotto la gonna. Tornano ossessivamente nei discorsi i “regalini” dei predatori alle vittime. La caramella, il dolcetto, il gelato. Tra i messaggi di chi ha avuto vergogna a venire c’è quello di un uomo, che odia ancora oggi la “caramella al rabarbaro” e non ha dimenticato la riposta che il vescovo della sua città diede a sua madre, che era andata a denunciare le molestie del sacerdote amico di famiglia: “Il vescovo sconsigliò assolutamente di fare denunce per il bene mio (che ero adolescente) e per non dare dolore alla madre del prete!”. Una reazione classica da parte della gerarchia. “In Italia – sottolinea Salvatore Domolo, ex sacerdote e uno degli organizzatori del convegno – si è tentato di distinguere il prete pedofilo dall’istituzione, dimenticando l’assoluta complicità della gerarchia in questo enorme crimine”. C’è sempre stato il silenzio e l’atteggiamento della Chiesa di voler “difendere la propria immagine”, risolvendo il problema attraverso lo spostamento del colpevole da una parrocchia all’altra. Anche Domolo, che si è sbattezzato nel 2009, quando era ragazzo è stato abusato da un prete, poi si è fatto prete lui stesso e quando sono riemerse le angosce il suo padre spirituale lo accompagnava personalmente (e assisteva) alle sedute di terapia. “Così l’istituzione controlla. E quando non controlla, tenta di spiritualizzare il problema”, affogandolo nell’ideologia di una prova di sofferenza redentiva.
Ma i conti non tornano. Un messaggio arrivato al convegno è un grido: “Dall’età di dieci anni, hanno abusato di me per quattro anni. Poi ne sono uscito. Sono infelice. Ho perso il lavoro, ho tentato per tre volte il suicidio, il matrimonio è fallito, i figli mi odiano. Ho paura di avere tendenze pedofile, guardo i ragazzi in piscina... aiutatemi prima che mi uccida!”.
Francesco Zanardi di Savona si è trasformato da vittima in detective. Racconta che il pretepredatore Luciano Massaferro, già condannato a tre anni di carcere, se n’è andato in Svizzera e ora è tornato segretamente in Liguria. Un altro prete pedofilo pakistano, Yousuf Dominic, cacciato da Londra, emigrato nel Texas dove ha commesso altri crimini, aveva trovato ospitalità recentemente in un convento ligure. (Forse sentendosi scoperto, è morto d’infarto pochi giorni fa).
Testimonianze infinite. Ma nel convegno ci si è presi l’impegno di costruire una rete, un coordinamento delle “vittime italiane” per farsi sentire come negli Stati Uniti, in Irlanda, in Germania. A Roma, preannuncia Marco Lodi Rizzini, è in programma per il 31 ottobre una grande riunione delle associazioni internazionali di abusati dal clero per chiamare il Vaticano alle sue responsabilità. “Crimini contro l’umanità”, è l’accusa riecheggiata a Verona.
Perché l’inerzia della gerarchia è diffusa. A Verona, dopo violenti polemiche, il vescovo Zenti e il rappresentante delle vittime del “Provolo”, Giorgio Dalla Bernardina, si sono incontrati a luglio per deporre le armi ed è stato deciso di istituire una commissione d’inchiesta. Don Bruno Fasan, portavoce della diocesi, comunica che una prima relazione è già stata mandata nel 2009 alla Congregazione per la Dottrina della fede. Ora, spiega, sono
in corso audizioni degli ex allievi del “Provolo”. Replica Dalla Bernardina: “Tutte parole, niente fatti, Chiediamo un confronto pubblico tra le vittime e i colpevoli”.
E il cardinal Bagnasco non risponde
NEGLI ALTRI PAESI europei l’episcopato ha istituito commissioni d’inchiesta, numeri verdi e responsabili nazionali per ascoltare le vittime. In Italia non è successo finora nulla. Domani si riunisce il Consiglio permanente della Cei. C’è da vedere se porterà novità. Intanto Roberto Mirabile, presidente dell’associazione anti-pedofilia “Caramella Buona”, sta cercando da mesi di incontrare il cardinale Angelo Bagnasco per informarlo di due gravi casi. Il cardinale non vuole, il segretario non dà risposte, la segreteria telefonica è muta.

Corriere della Sera 26.9.10
Preti pedofili, le nuove denunce


VERONA — «Vorresti fermare il prete pedofilo che è lì, accanto ai bambini». È il sentimento nelle vittime di abusi sessuali commessi all’interno della Chiesa. È emerso durante il primo incontro pubblico «Noi vittime dei preti pedofili» nel Palazzo della Gran Guardia. «Vogliamo far vedere che esistiamo, che non possiamo più essere messi a tacere e che non siamo statistiche ma esseri umani» hanno detto. Una cinquantina di mail di denuncia di altri casi sono arrivate al gruppo «La Colpa», promotore dell’incontro. Lo ha spiegato Mario Lodi Rizzini, fratello di una delle sordomute dell’Istituto San Provolo di Verona, dove — secondo testimonianze dettagliate — ci furono numerosi casi di abuso.

Repubblica 26.9.10
La macchina da guerra che schiaccia il dissenso
di Eugenio Scalfari

Da un lato Gianfranco Fini e la famiglia Tulliani, dall´altro il comunicato di un ministro della Giustizia dell´isola caraibica di Santa Lucia, i giornali della famiglia di Silvio Berlusconi e lo stuolo di «aiutanti» che si sono prodigati per incastrare il presidente della Camera.
La posta dello scontro è la distruzione politica dell´uno o dell´altro con le conseguenze che possono derivarne per tutto il paese. Esamineremo tra poco queste conseguenze, ma prima dobbiamo mettere a fuoco il video con il quale Fini si è ieri sottoposto al giudizio dell´opinione pubblica nazionale e internazionale.
A tale proposito e a titolo di premessa anticipo una riflessione: la risposta di Fini è comunque tardiva, poteva e doveva arrivare molto prima, subito dopo le notizie pubblicate dal "Giornale" di Feltri. Il presidente della Camera disse allora con una pubblica dichiarazione (e l´ha ribadito nel video di ieri) che nulla aveva mai saputo fino a quel momento della vicenda concernente l´abitazione di Montecarlo a suo tempo venduta ad equo prezzo (secondo le valutazioni di allora) da Alleanza nazionale che ne era proprietaria. Aggiunse che il coinvolgimento di suo cognato in quella vicenda gli aveva causato un forte disagio. Alle parole avrebbero dovuto seguire i fatti e cioè la netta separazione tra lui e la famiglia Tulliani.
Comprendiamo benissimo che un comportamento del genere implicava non solo interessi ma soprattutto sentimenti, ma la responsabilità istituzionale avrebbe dovuto far premio su ogni altra considerazione anche a costo di mettere in gioco un assetto privato molto delicato.
Si parla spesso (e non sempre a proposito) dell´autonomia della politica. Ma questo concetto non può essere invocato soltanto per rivendicare i diritti, bensì anche i doveri che l´autonomia della politica impone a chi ne è protagonista. Fini non separò le sue responsabilità da quelle della famiglia. È stato un grave errore che ha purtroppo aperto la strada ad un imbarbarimento senza precedenti del quale Fini è stato al tempo stesso inconsapevole artefice e vittima, di fronte alla spregiudicatezza estrema del suo avversario sulla quale nessuno che lo conosca poteva aver dubbi. Chi ne ha sofferto il danno maggiore sono state le istituzioni della Repubblica e il danno non ha ancora terminato di generare i suoi effetti.
Ciò detto esaminiamo la risposta del presidente della Camera.
* * *
La risposta, cioè la verità di Fini, ribadisce i seguenti punti: Fini nulla sapeva. Apprese solo un mese fa che suo cognato era affittuario dell´appartamento di Montecarlo. Mostrò disagio, ebbe una violenta lite in famiglia, invitò il cognato a disdire il suo contratto di locazione e ancor oggi ha ripetuto l´invito con molto vigore.
Suo cognato continua a smentire privatamente e pubblicamente di essere non solo il locatario ma anche il proprietario dell´appartamento in questione. Fini ne prende atto ma dubita che il cognato dica la verità. Se sarà accertato dalla magistratura o da altra fonte ufficiale che suo cognato ha mentito e gli ha mentito, darà le dimissioni da presidente della Camera non perché abbia una responsabilità in quanto è accaduto ma per rispetto dell´etica pubblica che gli sta particolarmente a cuore. Contro di lui è partita una vergognosa campagna di killeraggio nel momento in cui ha manifestato un legittimo dissenso politico rispetto alla linea del partito di cui è stato cofondatore. Questa campagna è stata condotta da giornali di proprietà della famiglia Berlusconi e da televisioni asservite ai suoi ordini e ai suoi interessi.
Tali metodi sono stati adottati non solo contro di lui ma contro chiunque dissenta dalla voce del padrone. Questa è una gravissima ferita inferta alla democrazia. Riconosce d´aver commesso qualche ingenuità. Ma nessun reato è stato compiuto da nessuna delle persone implicate in questa vicenda nella quale non sono in gioco soldi pubblici e interessi della pubblica amministrazione. Infine per quanto lo riguarda non ha alcuna responsabilità in una vicenda privata che riguarda un appartamento di 50 metri quadrati.
Fin qui il video-messaggio del presidente della Camera il quale ha accompagnato queste sue dichiarazioni sui fatti ad una durissima requisitoria contro lo stile di governo e l´atmosfera di killeraggio che è diventata purtroppo una nota dominante e può colpire chiunque dissenta dal potere berlusconiano.
Oltre a prendere atto delle affermazioni di Fini, molte delle quali sono a nostro avviso pienamente condivisibili, bisogna anche leggerne in controluce alcuni passaggi.
Soprattutto quello che riguarda la sua «ingenuità» e la lite in famiglia quando alcuni fatti compiuti sono arrivati a sua conoscenza.
Abbiamo già scritto all´inizio che l´ingenuità - evidentemente connessa ai sentimenti più che ad un attento esame dei fatti - comporta un prezzo da pagare. Fini si è impegnato a pagarlo con le dimissioni se il fatto della proprietà del cognato (che non è un reato) sarà accertato.
Questa posizione è fragile. Ci si aspettava che Fini esibisse la prova che la proprietà non è di Tulliani ma questa prova non è stata data. Lo stesso Fini dice di dubitare della parola di Tulliani. Sarà quindi difficile che resista a lungo in una posizione di evidente difficoltà.
Resta un problema che ci porta ad esplorare che cosa è veramente accaduto a Palazzo Grazioli e dintorni. È accaduto ciò che sappiamo da tempo e che siamo in grado di prevedere in anticipo: la macchina da guerra berlusconiana entra in funzione per colpire il dissenso e per proteggere gli amici e gli amici degli amici. Se Fini si fosse sottoposto, la macchina da guerra contro di lui non avrebbe colpito. Ma per difendere Cosentino da ben altre colpe la macchina da guerra berlusconiana si è mossa, togliendo dalle mani dei giudici un elemento decisivo per le sorti del giudizio, cioè le intercettazioni dalle quali emergerebbe la prova dei legami tra l´imputato e le cosche camorristiche. Quell´elemento non soltanto non sarà reso noto alla pubblica opinione ma non potrà essere utilizzato in processo, per i giudici sarà come se non sia esistito.
A questo risultato la macchina da guerra è arrivata con l´intimidazione, le promesse, le lusinghe, la compravendita delle persone e del loro voto. Si parla molto di trasformismo, ma non è soltanto di questo che si tratta.
Il trasformismo è un vizio antico delle democrazie, in Italia particolarmente diffuso. Il voto di scambio, ottenuto attraverso la concessione di benefici o la minaccia di ritorsioni, è invece un reato previsto dal codice penale e come tale andrebbe perseguito.
Per concludere su quanto è accaduto a Palazzo Grazioli e dintorni: il caso Fini ha dimostrato per l´ennesima volta la natura del potere berlusconiano che si regge sullo slogan «o con me o contro di me», sul belante ritornello del «meno male che Silvio c´è» e sul dossieraggio ricattatorio come pratica di governo.
* * *
Le conclusioni di questa avvilente vicenda mi sembrano le seguenti: le elezioni si allontanano di qualche mese ma non di più. La legge elettorale resterà quella che è, strumento formidabile di pressione e corruzione. Le ipotesi di un terzo polo si fanno evanescenti perché anche Casini è nel mirino della macchina da guerra berlusconiana che alterna nei suoi confronti lusinghe e minacce. Berlusconi imporrà al Parlamento la legge sul processo breve e ritirerà fuori quella sulle intercettazioni.
Intanto l´economia è ansimante, la coesione sociale è a pezzi e nessuno se ne dà carico. Un bilancio che dire sconfortante è dir poco.

Corriere della Sera 26.9.10
«Hitler? Un grande uomo» Il viaggio-provocazione di Irving
Il negazionista guida in Polonia un gruppo di nostalgici
di Luigi Ofeddu


FORESTA DI POZEZDRZE (Polonia) — «Attenti, c’è un uomo fra quegli alberi, può essere uno di loro: lei non ha idea, i miei nemici arrivano dappertutto». Il professore afferra il fischietto che porta al collo, e soffia forte: chiama Jannette, la sua giovane assistente americana, perché dia un’ultima occhiata nel bosco. Lei arriva, con un altro fischietto e uno spray contro le zanzare: i «nemici» sono loro, oggi. David Irving si riferiva però ad altro: «ambienti ebraici, sì, anche se io ho avuto buoni rapporti con ebrei come Steven Spielberg o Walter Matthau…». E poi, coloro che lo chiamano negatore dell’Olocausto: «Io però non nego. Io s t udi o. Mi c hi a mi un c a ne sciolto, se proprio vuole...».
Ma qui nella foresta di Pozezdrze, sui laghi Masuri, dove si nasconde il quartier generale in rovina di Heinrich Himmler, a contestare Irving oggi non c’è nessuno. Gli 11 uomini che lo seguono in fila indiana fra i larici sono infatti gli iscritti — 2.650 dollari l’uno — al suo «tour storico» di 8 giorni nei luoghi del genocidio, nel lager di Treblinka, nella «Tana del lupo» di Hitler, e così via. Girano in segreto, spiegano, per evitare incidenti. Della comitiva fanno parte due signore, che però oggi sono andate a far compere. E alla Tana del Lupo, compariranno anche due mai invitati: poliziotti polacchi in borghese, che fotograferanno il gruppo da lontano.
Gli 11 «turisti» vengono da Germania, Usa, Gran Bretagna, e così via. C’è anche un australiano. Uno indossa una camicetta hawaiana, uno — Leroy, dell’Arizona — il cappellino di un gruppo cristiano integralista, tutto stampigliato: la sagoma degli Usa trafitta da una spada posata su una bibbia, e lo slogan: «Le Sacre Scritture per l’America». L’australiano raccoglie un frammento del bunker: «Per ricordo…». E chiacchiera con un gallese sulle prospettive dell’eugenetica. Un altro spiega: «Sapete, tutte le finanze dei re d’Europa le controllavano loro. Loro, gli ebrei…». Nei discorsi ricorre poi un «lui», Adolf Hitler: «Lui parlava tranquillo, fuori dai comizi: esiste un nastro con la sua voce "vera", io l’ho sentito. Lui per l’America è come Saddam Hussein: ne hanno fatto dei diavoli». Altre spiegazioni non servono, il linguaggio è a tratti quello di una confraternita.
L’età media dei «turisti» è sui 50 anni. Se si chiede loro una foto di gruppo, scatta il monito: «Sì, però il professore di faccia, e noi tutti di spalle». E niente cognomi: temono, spiegano anch’essi, «i nemici, che sono organizzatissimi in tutto il mondo».
E credono, invece, a quel che dice ora Irving: «Per questo siamo venuti, per documentarci. Ma non siamo nazisti». Irving scherza, bussa alla pietra dello spettrale bunker: «Herr Heinrich, ci senti? Lo sappiamo che hai fatto tutto tu, e il Führer non sapeva nulla...». Poi, serio: «Certo fa impressione star qui, perché qui vissero alcuni degli uomini più importanti d’Europa negli ultimi 500 anni...».
Irving sta scrivendo le sue memorie («Saranno dinamite!») e un libro su Himmler, e il terzo volume della biografia su Churchill: dice di avere indizi sul fatto che Hitler sapeva poco dell’Olocausto. Quanto agli altri enigmi, la sua versione la condivide ora con i «turisti»: «La Gestapo? Grandi poliziotti. Auschwitz? Fino a 300 mila vittime. Treblinka? Fino a 800 mila... Io non minimizzo, aspetto smentite. Sono pronto a cambiare idea. Ma di queste cose non voglio parlare qui in Polonia: possono arrestarmi, come in Austria». Altre domande fioccano: «Von Stauffenberg, l’ufficiale che attentò a Hitler? Un traditore». E Hitler, Hitler? «Un uomo grandissimo, uno dei più grandi europei nei secoli. Però sapeva essere molto crudele. Non era immorale, ma si circondò di gentucola. E poi, non seppe fermarsi. Ma per 6 anni, tenne testa a tutte le potenze del mondo. Proprio come Annibale: solo che nessuno ha mai negato la grandezza di Annibale».
Irving, lui, si presenta invece come un signore britannico estremamente cortese. Un britannico stregato da Hitler, e tuttavia non un uomo cui sia estranea la cognizione del dolore: «La mia figlia più grande è con gli angeli. Paralizzata e senza gambe per un terribile incidente, si tolse la vita poco prima del mio processo: e nei 14 mesi passati nella prigione austriaca, non c’è stato un solo giorno in cui io non abbia pensato a lei».

Alla sera, cena tutti insieme in una saletta dell’albergo, Irving a capotavola. Appena seduti, una voce forte e chiara fra loro: «Ehi, ma che odore, qui. Sembra di essere in una camera a gas». Alcuni tacciono. Diversi ridono.

Corriere della Sera 26.9.10
Lettere, appunti e correzioni: i bauli segreti di Kafka
di Francesco Battistini


I dieci forzieri aperti rivelano un patrimonio di manoscritti e missive. Ma infuria la battaglia tra Israele e Germania per aggiudicarseli

GERUSALEMME — «Non è una fortuna: è un tesoro». Chi quest’estate ha aperto i dieci forzieri coi manoscritti di Kafka, sei in una banca di Tel Aviv e quattro in un caveau dell’Ubs di Zurigo, a bocca aperta ora confida: «Non è immaginabile quel che c’è lì dentro. Centinaia di documenti. Lettere che Kafka scriveva a Thomas Mann e ad Arthur Schnitzler, a Stefan Zweig, a Jaroslav Hašek, a scrittori di tutt’Europa. Un elenco infinito. È come se la gente, a quei tempi, non facesse che scrivere...». C’è di tutto, lascia ora filtrare un giornale israeliano. Inediti da catalogare con pazienza: il block notes che lo scrittore usava per imparare l’ebraico (come si dice funerale? Come si scrive stupidità?), e poi appunti di vita quotidiana, il manoscritto del racconto Preparativi di nozze in campagna, la famosa Lettera al Padre, note e correzioni a margine del Castello, un promemoria per Riccardo e Samuele (romanzo mai finito), pagine di riflessioni indirizzate a Kurt Tucholsky e a Franz Werfel... «Una cosa si capisce: quando potremo leggere quelle carte, avremo recuperato solo una piccola parte d’una montagna di parole perdute per sempre».
Kafka bruciò il novanta per cento della sua produzione letteraria originale, ricordava ieri il «New York Times». Di quel che resta, due terzi sono a Oxford. E l’ultimo terzo sta in quelle casseforti: manoscritti che da quarant’anni sono al centro di un’interminabile contesa cultural-diplomatica fra Israele e la Germania, d’una sfinente sfida legale tra avvocati di eredi, privati e di fondazioni pubbliche. Da una parte, chi considera Kafka uno scrittore soprattutto ebreo e vorrebbe che tutto quel materiale restasse alla Biblioteca nazionale di Gerusalemme; dall’altra chi vorrebbe riavere gli originali nelle biblioteche tedesche, lingua in cui per altro il boemo austroungarico Franz scriveva. Mai s’era visto un conflitto simile fra istituzioni culturali dei due Paesi. Conflitto che scoppiò nel 1973, all’aeroporto Ben Gurion, quando una mite signora fu bloccata alla dogana israeliana con valigie piene di carte, destinazione Germania: era Esther Hoffe, segretaria e amante dello scrittore Max Brod morto quattro anni prima, intimo di Kafka. Sionista, nel ’39 Brod era scappato dai nazisti e a Tel Aviv — venendo meno alle volontà dell’amico Franz che avrebbe voluto fossero bruciati — s’era portato quei manoscritti, La metamorfosi e Il castello compresi, per regalarli infine all’amata assieme alle chiavi delle cassette di sicurezza. Assediata dai gatti e dai debiti, nel suo appartamentino telavivi al pianoterra del 23 di Spinoza Street, casette Bauhaus scrostate e puzzolenti in una vietta alberata dalle parti della centralissima Rothschild Avenue, Esther aveva cominciato a vendere tutto: due milioni di dollari per l’originale de Il processo, a Londra, più altre carte che ancora circolano nelle case d’aste europee e americane. Quando la signora Hoffe fu fermata, partì un processo per illegittima custodia che ancora dura alla corte di Tel Aviv, un’inchiesta sopravvissuta alla vecchia Esther, morta nel 2007, e che al momento coinvolge le di lei figlie, Hava e Ruti, quanto mai decise a nascondere nelle banche e a non mollare il malloppo se non ai tedeschi (che al contrario degl’israeliani sono disposti a pagarlo).
Ora che il contenuto dei forzieri è noto, gli appetiti crescono. «Quel mate r i a l e a p p a r t i e n e a Ger u s a - lemme — dice Mark Gelber, dell’università Ben Gurion —, come quello dell’ebreo Einstein. Kafka era sionista, si preparava a partire per la Palestina». «Quei documenti sono in tedesco — ribatte dalla Germania il più importante biografo kafkiano, Reiner Stach —. Definirli un’eredità della cultura israeliana mi sembra fuori luogo. In Israele, a Kafka non hanno dedicato nemmeno una strada». «Vorrei chiedere ai tedeschi — è la replica di Ilana Haber, direttrice degli archivi israeliani —: che sarebbe stato di Kafka se, anziché morire nel ’24 di tbc, fosse vissuto più a lungo? Sarebbe finito ad Auschwitz, come la sua famiglia». Il processo, kafkiano assai, continua.

sabato 25 settembre 2010

Repubblica 25.9.10
"Basta piangersi addosso i nostri film piacciono di nuovo"
Videoforum a Repubblica Tv sullo stato della cinematografia nazionale dopo le polemiche veneziane
Il produttore: "Da noi si girano ogni anno almeno 3 o 4 film come quello della Coppola"
"Il pubblico? Attenzione a non inseguirlo troppo, si è formato il gusto sulla televisione"

ROMA. «In Italia di Somewhere se ne fanno tre, quattro ogni anno». Riccardo Tozzi, presidente dei produttori italiani, non è tenero nei confronti del verdetto della Mostra di Venezia. Da qui si parte per il Forum sullo stato del cinema italiano, ospitato da Repubblica Tv. E come spunto servono anche le riflessioni di Gabriele Salvatores, giurato a Venezia, che non tutti hanno gradito. Il nostro cinema deve seppellire padri ingombranti come il neorealismo e la commedia all´italiana?
Marco Bellocchio. «Voglio ricordare a Salvatores che il neorealismo è stato seppellito da Antonioni nel 1959 con L´avventura, quindi il discorso è privo di senso. Né ha senso quello sulla commedia all´italiana, un genere che ha creato tanti capolavori, e che comunque oggi è molto diversa da quella del passato. Voglio anche dire che ho visto i quattro film italiani in concorso a Venezia e sono tutti molto più belli di quello che ha vinto. Somewhere è un film mediocre, una pallida imitazione di Lost in translation».
Natalia Aspesi. «Non sono d´accordo sul film della Coppola, è la storia di una bambina che si difende dalla separazione dei genitori, raccontata dal punto di vista femminile, forse per questo non piace agli uomini. È un film intimista, bello. Al nostro cinema manca sempre qualcosa per diventare grande e internazionale».
Paolo Virzì. «Anche se questa cose dei padri ingombranti la dice spesso come frase ad effetto, credo che Salvatores non volesse criticare la commedia all´italiana, diventata patrimonio del cinema mondiale. Però in qualche maniera ci ha fatto discutere. I padri e i nonni del nostro cinema avevano una mitologia, sfidavano il teatro. Noi sfidiamo i media parcellizzati, Internet, non siamo al centro di una tavola imbandita».
Carlo Mazzacurati. «Pensando a quello che eravamo e non siamo più, in questi anni chi racconta il paese di una volta trova riscontro con il pubblico, chi parla dell´oggi fa più fatica. Per fortuna Il divo e Gomorra hanno rotto questa cappa».
Giorgio Diritti. «In Italia ogni anno ci sono sei o sette film interessanti. Forse non riusciamo ad avere il respiro magico di un tempo, ma potremmo arrivarci».
Il ministro Bondi vorrebbe "mettere bocca" sulle giurie di Venezia perché siano più attente al cinema italiano...
Saverio Costanzo. «La Mostra è un festival internazionale con una giuria internazionale. Perché dovrebbe vincere un film italiano? Mettere le mani sulla giuria significa uccidere il festival. Per me, per altro, Somewhere è un film splendido. Non capisco il campanilismo. Se mai, quattro film in concorso erano troppi, l´Italia è un paese con tanti festival, sarebbe meglio spargere i quattro, cinque film buoni su tutti i festival».
È vero che nel confronto con film di altri paesi ci manca qualcosa?
Mazzacurati. «L´Italia è stata molto simpatica all´estero, ora non lo è più. È un paese antipatico. Forse è anche questo un problema per il cinema italiano, non c´entra la qualità. Noi poi facciamo un´enorme fatica ad andare all´estero, non siamo rappresentati. Quando si tratta di olio o di vino l´Italia si mobilita, mentre secondo me nessuno è andato alle riunioni europee sul cinema».
Virzì. «Siamo davvero antipatici? Io ho riscontrato il contrario all´estero. Una sceneggiatrice di Sex and the city mi ha perfino detto "Beati voi che potete fare un cinema libero. Noi dobbiamo puntare sul sicuro, possiamo sperimentare solo in tv"».
Tozzi. «Non siamo simpatici neanche a noi stessi... In realtà in Francia e in Germania ad esempio si parla molto bene di noi, ci invidiano i nostri attori, non solo Toni Servillo ed Elio Germano, ma tutta una nuova generazione. Sembra schizofrenia: all´estero sentiamo certe cose, rientriamo e abbiamo Brunetta e la stampa negativa».
Allora perché è difficile uscire dall´Italia?
Tozzi. «Abbiamo buoni film e abbiamo brutte strutture. La promozione dei nostri film all´estero non c´è mai stata, neanche quando c´era una struttura addetta che però non aveva i mezzi necessari. E non ci sarà, sarà un lavoro che dovremo fare da soli, noi produttori, gli autori».
E il mercato interno?
Tozzi. «Il cinema italiano alla fine degli anni 90 era quasi morto. Oggi siamo al 30% del mercato, come in Francia, dove c´è una politica di protezione, mentre noi abbiamo Brunetta e Bondi. Le presenze aumentano e ricordo che se il 3D ha un prezzo maggiorato, il biglietto per i film italiani è fermo al tempo dell´arrivo dell´euro. Ci siamo lasciati alle spalle gli anni 90, abbiamo ricucito il rapporto tra autori e produttori, ritrovato il legame tra autori e la narrativa italiana, ricostruito lo star system, si è tornati ai generi. Il cinema italiano ha ristabilito il rapporto con il suo pubblico, nel recupero del consumo in sala si alza la quota del nostro cinema».
Che peso hanno Medusa e RaiCinema nella produzione?
Bellocchio. «Il duopolio in questo momento strozza il mercato. L´Italia sarà anche antipatica, ma io voglio raccontarla, voglio raccontare i giornalisti, una categoria interessante, e i politici. Rai e Mediaset me lo permettono? O bisogna ricorrere alle metafore? Negli anni del potere democristiano tutta la politica accettava il cinema che aveva come riferimento la sinistra».
Tozzi. «Oggi tutte le politiche sono estemporanee, di destra o di sinistra, anche se quelle di destra di più. Il problema è che le tv hanno abbassato i prezzi e non sono più interessate al cinema. Da una parte la Rai produce - e spesso non manda in onda i film prodotti come Gomorra - dall´altra è più orientata verso la fiction e i reality. La tendenza è di tutte le tv del mondo».
Aspesi. «Credo che le televisioni non abbiano più interesse a trasmettere film, perché molte serie, soprattutto americane, sono molto più interessanti e avanzate del cinema».
Tozzi. «Il futuro del cinema sarà la sala e Internet, ma ci dobbiamo arrivare vivi e per farlo le tv devono trasmettere i film. Il cinema italiano perde 600 milioni all´anno per la pirateria, il mercato nero equivale a quello regolare. Da una parte sono triste, dall´altra mi rallegro perché c´è un mercato potenziale, il cinema italiano piace. Dobbiamo trasformare i pirati in clienti. Siamo tutti colpevoli per il ritardo con cui ci muoviamo, c´era l´idea di Internet come l´agorà, libera, se fai pagare sei capitalista. Se facciamo un´offerta ragionata, con facilità di scaricare, la gente ci seguirà come ha fatto con la musica, che ha visto fallire la sua industria per il ritardo nel capire la situazione. Stiamo lavorando al progetto, speriamo di farcela entro l´anno. Un cinema che vive di sale, di dvd e di Internet sarà un cinema libero».
Che conseguenze avrà l´abbassamento dei finanziamenti statali?
Diritti. «Il mio film Il vento fa il suo giro non sarebbe venuto alla luce senza il fondo di garanzia. Sono molto critico sulla scelta di limitarlo alle opere prime e seconde, sono le solite decisioni con l´accetta, senza buon senso. Andrà a discapito di progetti dal budget intermedio. La politica ha la sua responsabilità, il cinema non è un valore per l´Italia, si sostengono i frigoriferi e le auto, il cinema no. Ma non è più emozionante vedere un film in sala piuttosto che stare a guardare un frigorifero e una lavatrice?».
Quanto è difficile fare il film d´esordio?
Costanzo. «Per me è stato tragico: ipotecammo una casa per fare Private. Ho l´immagine di produttori che mi guardavano spaesati, con gli occhi come di vetro. Non era una proposta facile, ma non costava. Alla fine facemmo da soli, in totale libertà, con un costo di 150 mila euro. Niente».
Scrivendo un film pensate anche a che pubblico destinarlo?
Bellocchio. «Spero sempre che ci vada tanta gente, poi cerco di fare il film giusto per me. Il pubblico deve scomparire altrimenti diventi pazzo, devi andare per conto tuo, naturalmente con responsabilità».
Mazzacurati. «Il vero problema ce lo poniamo più noi autori. Forse il rischio di questo cinema è che a volte si autocensura per cercare di piacere. Come quando nei cartoni animati corri nel vuoto poi guardi giù e cadi. Credo che più c´è libertà, più si arriva alle persone. Il rischio è per gli esordienti quando sono troppo attenti al pubblico che si è creato il gusto con la televisione».
Virzì. «Io penso a tante persone, ho in mente una platea, c´è mia figlia, la professoressa delle medie, mia mamma... Dopo un po´ lo dimentico. Ma mi piace anche fare un film per qualcuno. Quando mia figlia mi ha parlato bene di un film di Muccino, ho fatto Caterina va in città per riconquistarla».
Se poteste fare un film sull´attualità più calda?
Bellocchio. «Apri il giornale e ci sono cinque soggetti. Io ce l´ho un film sull´oggi, si chiama Italia mia».
Costanzo. «Dovremmo davvero fare una cosa sull´Italia di oggi senza ricorrere a metafore, forse abbiamo paura di essere giudicati. Ci sto pensando, sono passato da un musical su Berlusconi a cose molto più intime ma nello stesso tempo politiche. Bisogna trovare l´immagine giusta».
Mazzacurati. «In ogni film che facciamo cerchiamo di assorbire il senso dell´umore del tempo. L´Italia degli ultimi 15 anni meriterebbe un romanzo ottocentesco, che ancora non è stato fatto. Ma forse c´è bisogno di sedimentare».
Diritti. «Il gioco potrebbe essere raccontare l´Italia che avremmo potuto avere in questi anni e che non abbiamo avuto: gente di buona volontà che lavora e che lotta. La gente che nessuno vede».
(a cura di maria pia fusco)
Dopo Venezia, il punto sul cinema italiano. Ne hanno discusso al Videoforum negli studi di Repubblica Tv, condotto da Giulia Santerini e Maria Pia Fusco, i registi Marco Bellocchio, Saverio Costanzo (in concorso alla Mostra con "La solitudine dei numeri primi"), Giorgio Diritti, Paolo Virzì, il produttore Riccardo Tozzi; in collegamento da Milano Carlo Mazzacurati (che a Venezia ha portato "La Passione") e Natalia Aspesi.

l’Unità 25.9.10
Guardiamo al futuro
Crediamo nella scuola
di Pier Luigi Bersani


Cari ragazzi e ragazze, insegnanti e lavoratori della scuola, genitori ed educatori,
noi sappiamo che, nonostante i tagli drammatici del Governo, che sottraggono 8 miliardi di euro e compiono il più grande licenziamento di massa della nostra Repubblica, la scuola aprirà comunque le sue porte. Ce la farà per la straordinaria passione che gli insegnanti mettono nel loro lavoro di formazione dei cittadini di domani; ce la farà perché i dirigenti scolastici, grazie anche all’aiuto dei nostri amministratori, riusciranno a salvare il salvabile del tempo scuola richiesto dalle famiglie; ce la farà perché i pochi collaboratori scolastici rimasti faranno funzionare le scuole. Grazie a loro i bambini potranno riprendere i progetti educativi interrotti.
Ma la cosiddetta ‘riforma epocale’ della scuola pubblica, approvata da Tremonti-Gelmini, assicurerà davvero la ‘qualità’ della scuola italiana? Aiuterà il nostro Paese a dimezzare il tasso di dispersione scolastica e a triplicare il numero di laureati come l’Europa ci chiede di fare entro il 2020? No, ne siamo certi. Aggraverà, al contrario, i cronici mali del nostro sistema scolastico. Aumenterà i divari nei livelli di apprendimento tra nord e sud del Paese, la dispersione e l’abbandono scolastico, gli insuccessi e le frustrazioni.
In un paese moderno il merito si sposa con i diritti e con le pari opportunità, e il sistema scolastico è centrale perché funziona da ‘ascensore sociale’, strumento di uguaglianza e libertà. Ogni studente è un cittadino che attraverso il sistema dell’istruzione pubblica può emanciparsi dalla condizione sociale di partenza, con le proprie capacità e responsabilità, se adeguatamente sostenuto. Di più, alla Repubblica spetta il compito, come recita l’Art. 3 della nostra Costituzione di ‘rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana’.
Le proposte del PD, arricchite dal confronto con le associazioni di studenti, insegnanti, genitori e sindacati, non rifiutano l’innovazione anzi la chiedono. Non ci rassegniamo all’idea che l’Italia sia ‘maglia nera’ in Europa per l’abbandono scolastico, all’idea di un nuovo analfabetismo. Vogliamo una riforma della scuola che finalmente faccia ritrovare al sistema pubblico la fiducia di tutti gli italiani. Ma questo non si ottiene con la riduzione dell’offerta formativa, della ricerca didattica, la riduzione dell’obbligo scolastico; non si ottiene lasciando per la strada professori che insegnano da anni sotto il titolo di precario mentre decine di migliaia di posti in organico continuano a restare scoperti.
La destra nega alla scuola questa funzione e quella che si sta disegnando è la scuola delle divisioni: fra ricchi e poveri, italiani e stranieri, nord e sud, dirigenti e manovalanza. E’ una scuola senza autonomia che rispecchia il modello di società che Berlusconi ha in testa: un Paese fermo che rinuncia a competere nel mondo e sottrae il uturo alle giovani generazioni. Raccontano favole sul riconoscimento del merito degli insegnanti, mentre bloccano gli stipendi; inventano percentuali sull’aumento del tempo pieno, mentre le famiglie restano senza; parlano di mondo del lavoro e chiudono i laboratori; accorpano classi e stipano i ragazzi in aule sempre piú affollate, contro ogni norma di sicurezza. I precari della scuola vanno sui tetti e fanno lo sciopero della fame e il Ministro neppure li riceve, mentre alle scuole dell’obbligo i genitori fanno collette per la carta igienica e l’ora di inglese. Ci hanno raccontato che i tagli alla scuola sono necessari. Non è vero. I recenti dati OCSE dimostrano che siamo molto al di sotto della media europea e i tagli ci spingeranno ancora piú in basso. Non è un problema di soldi, ma di scelte politiche. Il nostro ultimo governo Prodi pagava annualmente i debiti alle scuole, aveva innalzato l’obbligo scolastico e aveva avviato un piano realistico di assunzione dei precari. Eppure, diversamente dal governo attuale, aveva migliorato i conti pubblici. Anche oggi le risorse possono essere recuperate dell’evasione fiscale e da altri risparmi che abbiamo indicato. Anche oggi migliaia di cantieri per rinnovare una fatiscente edilizia scolastica potrebbero rilanciare non solo la scuola, ma anche l’economia locale. Anche oggi, se il Governo rinunciasse all’ossessione del controllo sull’universo televisivo e mettesse immediatamente a gara le frequenze liberate dal digitale terrestre, incasseremmo un po’ di miliardi che nell’emergenza potrebbero essere investiti nella scuola, nella conoscenza, nel sapere.
Le proposte del PD, arricchite dal confronto con le associazioni di studenti, insegnanti, genitori e sindacati, non rifiutano l’innovazione anzi la chiedono. Non ci rassegniamo all’idea che l’Italia sia ‘maglia nera’ in Europa per l’abbandono scolastico, all’idea di un nuovo analfabetismo. Vogliamo una riforma della scuola che finalmente faccia ritrovare al sistema pubblico la fiducia di tutti gli italiani. Ma questo non si ottiene con la riduzione dell’offerta formativa, della ricerca didattica, la riduzione dell’obbligo scolastico; non si ottiene lasciando per la strada professori che insegnano da anni sotto il titolo di precario mentre decine di migliaia di posti in organico continuano a restare scoperti.
Non è retorica ripetere che sulla scuola si gioca il futuro del Paese. Il futuro economico e quello civile si tengono e crescono insieme solo se si investe nell’istruzione e nei saperi. Noi guardiamo al futuro. Per questo crediamo nella scuola pubblica.

l’Unità 25.9.10
Consultori e RU486
La crociata Polverini sul corpo delle donne
Dopo il blocco della somministrazione della pillola abortiva l’ultima novità: un progetto di legge che vuole equiparare le strutture pubbliche a quelle private o gestite dalle Diocesi
di Luciana Cimino


Ancora sulla pelle delle donne. È una guerriglia ideologica quella scatenata nel Lazio dalla destra di governo, combattuta a suon di boicottaggi e proposte di legge che di fatto precipitano la regione indietro di decenni rispetto a diritti che si credevano acquisiti. Renata Polverini va all’attacco della 194 e lo fa bloccando la somministrazione della pillola abortiva RU486 e con una legge regionale che privatizza i consultori e li rende non più strutture al servizio della salute della donna ma simili a comitati di difesa della vita. «Allo stato dei fatti nessun ospedale della regione è in grado di usare la RU486 – dice Lisa Canitano, ginecologa e membro della commissione che ha redatto le linee guida per l’applicazione della pillola – le donne laziali per trovarla vanno a Bologna o in Toscana. Polverini ha fatto di tutto per boicottare l’iter del prodotto e ci è riuscita». Ma la furia confessionale della destra si abbatte anche su servizi essenziali sul territorio come i consultori e lo fa con la proposta di legge 21 del 26 maggio 2010, in discussione nelle commissioni Sanità e Servizi Sociali. La legge è stata presentata dalla consigliera del Pdl Olimpia Tarzia, convinta “pro-life”. Scorrendo il suo curriculum si legge che il consigliere è vicepresidente nazionale della Confederazione Italiana Consultori Familiari di Ispirazione Cristiana, tra i fondatori del Movimento per la vita e Presidente del Comitato per la Famiglia. E la sua proposta di riforma dei consultori prevede l’equiparazione delle strutture private che fanno capo a diocesi o ad associazioni a quelle pubbliche e quindi il finanziamento con fondi regionali. Nel testo si legge che i consultori non saranno più enti «deputati a fornire servizi sanitari, bensì a sostenere la famiglia e i valori etici di cui è portatrice». Inoltre si parla di «tutela del figlio concepito» che «va già considerato membro della famiglia». Che significa? Che in ogni consultorio sarà attivo un “comitato bioetico per la vita” che dovrà convincere con vari mezzi la donna a non abortire (anche con un contributo economico fino al 5 ̊ anno di vita del bambino, per il quale al momento però non c’è nessuna copertura finanziaria), con «un vero e proprio calvario psicologico in cui operatori dovrebbero inquisire sulle motivazioni di ogni singola donna; persino con la sanzione finale costituita dal dover firmare un documento in cui si dichiara di non aver voluto accedere alle per ora fantomatiche alternative», spiega Giulia Rodano, dell’Idv, che con Luigi Nieri di Sel (che parla di «legge medievale con la quale si arricchiscono i privati sulla pelle delle donne») sta conducendo in consiglio un’agguerrita battaglia contro la legge. «La proposta Tarzia è incostituzionale – dichiara Roberta Agostini, responsabile Salute e Conferenza delle donne della Segreteria Nazionale del Pd – perché entra in ambiti che non sono regionali e poi viola la 405 del 75 (istituzione dei consultori, ndr) e soprattutto la 194». I consultori a Roma sono 51, dovrebbero essere 150, uno ogni 20 mila abitanti, come prescrive la legge, «così potremmo fare un lavoro a tappeto sulle fasce di popolazione a rischio – dice Pina Adorno, presidente della Consulta dei consultori di Roma – per questo noi chiediamo che siano stanziate somme adeguate affinché i consultori siano finalmente messi in condizione di operare al meglio». E l’Assemblea permanente delle donne, che raccoglie oltre 50 sigle tra associazioni, sindacati, partiti e che si riunisce nella storica sede della Casa Internazionale delle Donne, chiede a gran voce il ritiro immediato della legge attraverso mobilitazioni e proteste di piazza ma anche con un appello (da firmare su www.petizionionline.it)e su Facebook. Per questo sono stati accusati dalla Tarzia di «fanatismo laico».

l’Unità 25.9.10
Indietro di un secolo Nello Stato l’ultima sentenza di morte per una donna eseguita nel 1912
Ahmadinejad attacca: «Caso simile a Sakineh, perché se accade negli Usa è accettabile?»
In Virginia torna il boia Giustiziata la donna disabile
Crea discussione e imbarazzo negli Usa la condanna a morte eseguita ieri notte in Virginia di Teresa Lewis. Al limite del ritardo mentale, giustiziata come «cervello» dell’omicidio del marito. L’Iran: come Sakineh.
di Rachele Gonnelli


Non sono state pietre, solo un’igienica siringa. La tendina blu è scesa sulla lettiga della morte, il boia ha iniettato barbiturici, pentotal e curaro. Ci sono voluti tredici minuti per farla passare dallo stordimento alla morte. Una giornalista, tra i die-
ci a presenziare all’esecuzione, ha raccontato di una debole scossa ai piedi, l’unico segnale da cui si è capito che la sentenza era stata eseguita. Erano le 3 e 13 di ieri notte, corrispondenti alle 21 e 13 ora locale in Virginia, quando Teresa Lewis ha cessato di vivere. Fuori dal carcere di Greensville dove la donna ha passato gli ultimi sette anni nel braccio della morte, una piccola folla stanca di attivisti americani contro la pena di morte, hanno interrotto le loro preghiere, ripiegato i loro cartelli. Su uno c’era scritto: «Perchè uccidere persone che hanno ucciso per insegnare che uccidere è sbagliato?». Teresa Lewis in realtà non ha material-
mente ucciso il marito e il figlio adottivo di lui. A sparare nel camper mentre dormivano, quella notte del 30 settembre del 2002, fu il suo amante 22enne Matthew Shallenberger e l’amico Rodney Fuller. Ma, come nel caso dell’iraniana Sakineh Ashtiani condannata alla lapidazione in Iran, i due complici uomini hanno avuto una condanna inferiore: in questo caso l’ergastolo, in Iran l’amante omicida è stato liberato. Per il giudice della Virginia era lei la mente dell’omicidio, la donna traditrice e diabolica, parole sue: «La testa del serpente».
A niente è valso che il suo quoziente intellettivo misurasse appena 72, quando sotto i 70 punti anche negli Usa è costituzionalmente vietato comminare una sentenza capitale perchè oltre la soglia della demenza.
La Corte Suprema degli Stati Uniti ha rigettato la richiesta di sospensione della pena di morte in considerazione del suo ritardo cognitivo, non ha voluto considerare neanche le lettere con cui i due complici rei confessi si addossavano la colpa, l’amante Matthew ammettendo di averla addirittura circuita perchè manipolabile, volendo mettere le mani sui 350 mila dollari dell’assicurazione sulla vita del marito, si è poi suicidato in carcere dopo la condanna. Nessuna pietà neanche dal governatore della Virginia, il repubblicano Bob McDonnell.

l’Unità 25.9.10
«Basta infibulazione» Italia in prima fila all’Onu per il bando globale
Niente più infibulazioni o escissioni di clitoride. L’Italia insieme all’Egitto si fa sponsor all’Onu per una risoluzione di messa al bando globale delle mutilazioni sessuali femminili, rituali inflitte a 3 milioni di donne l’anno.
di Rachele Gonnelli


Non toccate le bambine. Il titolo non è questo ma il senso sì, della risoluzione per una messa al bando universale delle pratiche di mutilazione sessuale femminile presentata ufficialmente all’Assemblea dell’Onu su impulso dell’Italia e dell’Egitto. Il testo in realtà è il risultato di un lavoro diplomatico che coinvolge molti altri Paesi, inclusi alcuni dove recentemente sono state approvate leggi che puniscono queste mutilazioni rituali ed è frutto di una battaglia decennale che ha coinvolto associazioni, istituzioni e anche religiosi islamici. A partire dalla Conferenza del Cairo del 2003 che ha visto il protagonismo, su questo problema, della First Lady egiziana, moglie del presidente Hosni Mubarak, Suzanne. Conquistata alla causa e molto attiva è anche la First Lady del Burkina Faso, Chantal Compaoré. Oggi dei 29 Paesi dove esistono mutilazioni tradizionali delle bambine, in 19 di questi sono state introdotte norme di proibizione ma «c’è ancora molto lavoro da fare», dice Emma Bonino, da sempre impegnata in questa battaglia. Si stima che ogni anno nel mondo tre milioni di bambine vengano sottoposte a escissione o infibulazione. È chiaro che il potere di reprimere santoni e mammane che si prestano a questi riti di iniziazione è compito degli Stati, così come promuovere una cultura del rispetto del corpo delle donne e delle bambine. La risoluzione Onu è soprattutto un emblema. Ma riconoscere l’inviolabilità della sessualità femminile come parte dell’integrità fisica da tutelare, come diritto umano, significherebbe dare forza al fronte abolizionista.
L’IMPEGNO DI ROMA
L’Italia porta in dote l’esperienza diplomatica sulla moratoria universale della pena di morte e la legge del 2004 che proibisce le mutilazioni sessuali femminili anche nel nostro territorio. Secondo l’Istat, infatti anche in Italia sono circa 35mila le
donne e le bambine emigrate vittime annualmente di quella che può essere considerata una pratica pre islamica, non indicata nel Corano ma che trova origine nella notte dei tempi ed è difficile ancora oggi da estirpare specialmente in alcune aree dell’Africa, nel Sud Est asiatico e in Medioriente.
LE NAZIONI UNITE
Arrivare ad una risoluzione che sia approvata e condivisa dalla stragrande maggioranza dei rappresentanti dei 192 membri delle Nazioni unite non è un percorso semplice o breve. L'obiettivo resta quello di ottenere un risultato entro il 2015. Per il momento si tratta ancora dei primi passi. La prima fase del dibattito generale all'Assemblea si concluderà oggi pomeriggio, quando è previsto, tra gli altri, l'intervento su questi temi del ministro degli Esteri Franco Frattini. Il Senato italiano ha approvato una decina di giorni fa una mozione trasversale ai partiti e agli schieramenti politici che supporta l’impegno del governo italiano per promuovere e sostenere a livello nazionale e internazionale tutte le iniziative perché la 65esima Assemblea generale delle Nazioni Unite adotti una risoluzione contro le mutilazioni genitali femminili.

l’Unità 25.9.10
Rapporto shock: «Stupri di massa Caschi blu assenti»

Né le forze congolesi, né i caschi blu dell’Onu presenti nella regione sono stati in grado di portare soccorso alle popolazioni dei villaggi dell’est della Repubblica democratica del Congo vittime di terrificanti stupri di massa tra il 30 luglio ed il 2 agosto: lo ha affermato un rapporto preliminare della missione di inchiesta dell’Onu incaricata di fare luce sugli attacchi condotti da tre gruppi armati nella regione di Walikale (Nird Kivu) e nel corso dei quali almeno 303 persone, quasi tutte donne, sono state stuprate. Il rapporto preliminare (15 pagine) è stato reso noto ieri a Ginevra. Presenti nella regione, i Caschi blu dell’Onu si sono trovati di fronte a condizioni «operative che ne hanno limitato la capacità di intervento e la rapida raccolta di informazioni sugli attacchi», afferma il rapporto.

l’Unità 25.9.10
Scuola e pubblico impiego
senza elezioni per le Rsu Cgil: «Si nega la democrazia»
Tre milioni e mezzo di lavoratori pubblici non possono votare i loro rappresentanti sindacali perché governo, Cisl e Uil rinviano e non fissano la data delle elezioni. «Negano la democrazia», denuncia Guglielmo Epifani.
di Felicia Masocco


Chi ha paura di votare per eleggere i nuovi rappresentanti sindacali nel pubblico impiego? La domanda l’ha posta Guglielmo Epifani davanti a duemila delegati di Fp e Flc cioè le due organizzazioni della Cgil di scuola, sanità e di tutto il lavoro pubblico nelle sue varie declinazioni, riuniti ieri a Roma. Un pezzo d’Italia che da mesi ritroviamo nelle piazze: i tagli della manovra di Tremonti infieriscono sui settori pubblici, basti pensare ai precari della scuola dell’università, ma non solo. A migliaia si ritroveranno per strada.
Per quelli che restano ci sono altri «fronti». A novembre avrebbero dovuto tenersi le elezioni per il rinnovo delle Rsu, cioè dei delegati nei luoghi di lavoro, che nel pubblico sono regolate dalla legge D’Antona. L’Aran (l’agenzia che contratta in nome e per conto del governo) ha rinviato il voto d’accordo con Cisl e Uil. Una decisione osteggiata dal sindacato di Corso d’Italia. È a Cisl e Uil che Epifani si è rivolto, «non posso credere ha detto che ci possano essere corpi sociali così grandi che possano avere paura del voto e del giudizio». La Cgil è stata sempre premiata nelle elezioni e il malessere diffuso tra i lavoratori potrebbero premiarla ulteriormente. Una lettura respinta dalla Cisl che dice sì alle elezioni ma di fatto propone di cambiare le regole, cioè «un accor-
do con il governo, per riportare lavoratori e sindacato a concertare, contrattare e decidere sulle riforme», afferma il segretario generale dei pubblici, Giovanni Faverin. Quelle che ci sono non bastano?
DEMOCRAZIA E CONVENIENZE
Per Rossana Dettori, leader di Fp, «La democrazia è un’opportunità, invece sta diventando opportunismo e convenienza». «Il governo inventa ogni scusa per rinviare. Ma il diritto al voto è inalienabile, la nostra battaglia è giusta e ci fermeremo soltanto quando Brunetta e l’Aran stabiliranno la data delle elezioni». E pensare che il governo in questione non fa altro che richiamarsi al mandato democratico del voto, «poi non può negarlo a milioni di dipendenti pubblici», chiosa Epifani che vede un’operazione per far sparire il sindacato: «Non si contratta né in alto né in basso, visto il blocco della contrattazione attuato con la manovra economica estiva spiegaDi conseguenza, non si rinnovano le Rsu, eliminando e congelando i soggetti che sono titolari della contrattazione». La Cgil propone il voto entro il primo trimestre del 2011, stabilendo la data contestualmente alla firma dell’accordo sulla riorganizzazione dei comparti pubblici, riforma che la Cgil è disponibile a firmare. Dal ministero di Brunetta un rimpallo: «Non è il ministro dover fissare la data delle elezioni delle Rsu bensì l’Aran con i sindacati». Si attendono sviluppi.

il Fatto 25.9.10
I Democratici alla guerra? Sì, delle poltrone
Bersani e Veltroni, entrambi vinti e vincitori
di Luca Telese

 

 Si potrebbe andare tutti alla riunione dell’Area democratica... vengo anch’io! no tu no!. Ennesima puntata della telenovela sulla scissione della minoranza nel Pd (con retroscena elettorale). Tenetevi forte perché è difficile anche solo provare a spiegarla a chiunque non sia calato nelle faide del gruppo dirigente del partito.
A mezzogiorno di ieri nel Pd infatti esplode l’ultima polemica di giornata. Già, perché ieri Dario Franceschini dirama gli inviti per convocare l’assemblea dell’Area democratica (la vecchia componente dell’opposizione a Bersani costituita da lui e Veltroni). E ovviamente omette di convocare i firmatari del documento dei 75, fedeli all’ex sindaco di Roma. Così, fin dal primo pomeriggio le agenzie sono intasate di polemiche surreali. Veltroniani all’attacco e franceschiniani in difesa, alè. Polemiche surreali, a dire il vero, perché i 75 si considerano già separati dai loro ex compagni, ma denunciano ugualmente l’affronto, come se fosse un’offesa mortale: “Franceschini non può considerarsi Area democratica, ma solo una parte”, grida il senatore veltroniano Stefano Ceccanti.
Il problema è che Franceschini, che ieri mattina si era incontrato alla Camera, con quelli che sono rimasti al suo fianco Piero Fassino, Luigi Zanda, Pierluigi Castagnetti, David Sassoli e Deborah Serracchiani sa già che la componente è di fatto finita, e che per i suoi inizia un percorso nuovo, dentro
la maggioranza. Ma fa di tutto per fingere che non sia così: non si può concedere agli ex amici il monopolio della componente, e appiccicarsi sulle spalle l’etichetta dei traditori.
La minoranza alla divisione finale
MA ADESSO fate attenzione, perché solo a provare di dipanare il filo di quello che accade si finisce nello scioglilingua. Esempio: Beppe Fioroni, grande azionista della maggioranza della minoranza (quella che non segue il capogruppo del Pd nell’abbraccio con Pier Luigi Bersani) spiega: “Nessuna separazione! Noi siamo la maggioranza che resta: loro sono la minoranza che se ne va. Non possiamo essere noi a separarci, se sono loro che se ne vanno”. Ci avete capito qualcosa? Ovviamente no.
E allora bisogna provare a ricostruire cosa è successo davvero. L’antefatto è il documento dei giovani turchi contro Veltroni. Attaccano l’ex segretario, convocano un convegno a Orvieto contro di lui. Poi, per non arrivare alla battaglia finale, lo ritirano. I “giovani turchi” sono gli uomini più vicini a Bersani, i quarantenni della sua segreteria, a partire dal braccio destro del leader, Stefano Di Traglia. Poi arriva “il documento dei 75”, quello dei veltroniani che all’inizio della settimana apre le danze. Un attacco durissimo alla segreteria, che diventa il casus belli per sancire la divisione definitiva già nell’aria fin dalle polemiche per le primarie in Umbria tra Franceschini e Veltroni. Il documento conteneva addirittura un’affermazione che viene rimossa: “Il partito è rimasto senza bussola”. Fatto curioso. La battuta viene tolta, ma Bersani risponde comunque con un ruggito d’orgoglio: “La bussola c’è!”.
Sembra che si debba arrivare al cataclisma, alla frattura definitiva nel partito, si parla di iniziative dentro-e-fuori, si dice che Veltroni già pensa al Papa straniero. Alla fine, anche stavolta non succede nulla, e la montagna partorisce il topolino: i veltroniani si astengono, per non arrivare alla rottura definitiva. E così nasce una ridicola polemica sui voti in direzione. “Gli oppositori si sono dimezzati!”, dicono cantando vittoria i bersaniani. “Macché, non avete contato i presenti!”, ribattono i veltroniani.
Elettori e dirigenti: due pianeti diversi
BENE , tutto questo non si può spiegare se non con l’unico vero retroscena possibile. Ovvero: il merito c’entra poco. E nessuno ha ancora capito su cosa si dividano le due fazioni che si danno battaglia. Non sulle primarie, per esempio, che tutti dicono di volere, ma sui cui nessuno ha chiesto un voto. Non sul governissimo, o sulle alleanze, su cui esistono tutte le posizioni possibili in entrambi gli schieramenti. La verità che nessuno può raccontare è che l’imminenza delle elezioni anticipate ha prodotto una fibrillazione per le liste elettorali. I franceschiniani che entrano in maggioranza conquistano un posto a capotavola nella spartizione dei seggi, e una quota protetta per la loro mossa politica. Hanno rafforzato la posizione di Bersani nel momento dell’assedio e ora verranno premiati. Ieri Franceschini spiegava: “Alle primarie voterei Bersani, il mio segretario” (curioso per uno che lo aveva sfidato meno di un anno fa, ma è il bipolarismo all’italiana).
Ma anche i veltroniani e i fioroniani per paradosso conquistano peso e visibilità: si sono guadagnati uno status di minoranza, con una quota di posti garantita proprio in virtù di questo.

il Fatto 25.9.10
La scissione di Bonanni?
Sì, no, forse
di Stefano Caselli


 Qualcuno rimpiangerà i tempi in cui il dissenso cattolico all’interno del Pd si chiamava Paola Binetti, facilmente riconducibile alla netta categoria “cilicio” e non a quella nebulosa di “corrente”. I rivoli, reali o ipotetici, del Terzo polo, oramai, non si contano più. L’ultimo, in ordine di tempo, è quello attribuito all’asse Bonanni-Fioroni. Il segretario della Cisl, secondo quanto riportato da Repubblica, avrebbe telefonato personalmente a sei senatori democratici di provenienza popolare per invitarli a firmare il documento veltroniano dei 75, che tanto ha scosso il partito. Quanto basta per ventilare progetti di scissione da parte del segretario della Cisl e del suo buon “alleato” Beppe Fioroni.
Ma i due non ci stanno: “Non ho nessuna intenzione di fare politica – risponde Bonanni – né tantomeno di ingerire nelle vicende interne di un partito”. A sera, intervenendo a “Sud Camp ‘10”, convegno organizzato dall’area lettiana del Pd, non risparmia un affondo: “A metter in giro queste voci sono i ‘pci-inì’ della politica, che per giocare le loro piccole partitelle mettono dentro cose che non c’entrano. Stiano tranquilli tutti, resterò fino all'ultimo giorno utile a dirigere la Cisl”. Imbufalito Beppe Fioroni: “Parlare di propositi di scissione è una cosa vergognosa e indegna – dichiara – tipica di chi intende la politica come calunnia e denigrazione dell’avversario. Non è certo colpa di Repubblica, ma di chi coinvolge indebitamente il segretario di un grande sindacato che sta cercando di cambiare l’Italia, senza l’appoggio di proposte serie che il Pd non ha ancora messo in campo”. Su chi metta in giro queste voci, l’ex ministro dell’Istruzione glissa: “No comment – risponde – dico solo che alimentare un clima di sospetti in questo momento è pericoloso. Additare due esponenti del partito e del sindacato come colpevoli di collusione con il nemico (e uno dei due, come sappiamo, si è anche preso un fumogeno) è un atto irresponsabile, di intollerabile calunnia”. Se dunque pare scongiurata l’ipotesi di una scissione, sembra evidente in alcune stanze del partito non tiri proprio aria buona.

il Fatto 25.9.10
Intervista a Maurizio Landini
In piazza non solo la Fiom
Manifesteranno anche precari e movimenti Il 16 ottobre i metalmeccanici con la società civile
di Salvatore Cannavò


Il segretario della Fiom, Maurizio Landini, è in giro per l’Italia a seguire le vertenze territoriali.
Dopo il problema Fiat è scoppiato il caso Fincantieri e altri problemi si accumulano sulla sua agenda. Inoltre sta preparando la manifestazione del 16 ottobre che ieri ha avuto anche un ulteriore sostegno dall’appello firmato da Paolo Flores d’Arcais, Andrea Camilleri, don Gallo e Margherita Hack che il Fatto Quotidiano ha pubblicato. Un appello importante che Landini ha molto “apprezzato” e conferisce alla manifestazione Fiom un carattere davvero rilevante, punto di raccordo di diversi disagi, di diverse proteste ma anche di una proposta che si può riassumere nella difesa della Costituzione, della democrazia, del lavoro. Per questo il 16 ci saranno molti interventi, non solo sindacali ma anche espressione del lavoro precario, studentesco, associativo.
Contro cosa manifesterete e perché scenderete in piazza? Il 16 scendiamo in piazza per fare in modo che il lavoro ritorni al centro dell’interesse della politica e del governo. Per uscire dalla crisi serve una nuova idea di sviluppo che non può avere nel lavoro e nei lavoratori un punto di riferimento essenziale. È chiaro che nel contesto attuale scendiamo in piazza contro chi vuole eliminare il contratto nazionale di lavoro come strumento decisivo di solidarietà, ma anche contro le politiche del governo che puntano a scardinare i diritti, come sta facendo il collegato al ddl lavoro sull’arbitrato. Manifestiamo anche per un’effettiva politica industriale perché è fallita l’idea che la crisi possa essere risolta dal libero mercato e richiede invece un serio intervento pubblico. Cosa intende per intervento pubblico?
Faccio due esempi molto chiari: Fincantieri e il settore dell’auto. La cantieristica è di proprietà statale e opera in un settore strategico a livello internazionale. La difficoltà dipende direttamente dall’assenza di qualsiasi ipotesi di sviluppo in cui il governo può giocare un ruolo decisivo. Ma anche per l’auto si potrebbe impostare un intervento utile. Finora si sono utilizzati solo gli incentivi mentre assistiamo alla totale assenza di finanziamenti all’innovazione di prodotto, come l’auto elettrica, a differenza di Francia o Usa che invece difendono la propria industria. Ma si potrebbe intervenire anche sul fronte della riforma degli ammortizzatori sociali, estendendoli ai precari.In Germania è stato firmato un accordo alla Siemens che garantisce, sia pure con dei limiti, il posto di lavoro ai dipendenti a tempo indeterminato in cambio di riduzioni di salario e di orario di lavoro. Che ne pensa? Penso che le differenze con quanto scelto dal nostro paese siano evidenti e macroscopiche. Lì le imprese investono su lavoro e occupazione cercando di evitare che la crisi disperda competenze e redistribuendo. Non si punta alla cancellazione di diritti, non si discute di deroghe ai contratti ma di ridefinizione degli orari con accordo sindacale. Infine, lì tutto ciò è possibile grazie al fatto che i salari tedeschi sono quasi doppi rispetto a quelli italiani o che, ad esempio, in Volkswagen, quando si allunga l’orario di lavoro lo si porta da 28 ore settimanali a 33. Una bella differenza.
La Germania privilegia la coesione sociale al conflitto? Non c’è dubbio, anzi la scelta della coesione sociale passa per il rispetto e la centralità della contrattazione. Tutto il contrario di quanto accade in Italia dove la risposta alla crisi da parte delle imprese passa per la cancellazione del contratto, chiedendo la piena esigibilità delle prestazioni da parte dei lavoratori. Da noi si rompe con una cultura della rivendicazione sindacale mentre in Germania non si licenzia né si chiudono stabilimenti come invece fa la Fiat a Termini Imerese. Insomma, c’è un modello tedesco che piace alla Fiom. Avreste firmato l’accordo della Siemens? Noi di accordi di quel tipo ne abbiamo visti tanti e molto spesso li firmiamo. Penso ai contratti di solidarietà. Chi li rifiuta invece è la Confindustria, da parte nostra c’è un’ampia disponibilità.
Che pensa dell’ipotesi di deroghe a tempo che si sta affermando nel dibattito interno alla Cgil?
Per me non esistono. Se si deroga dal contratto significa che non c’è più il contratto.
Ma Confindustria vi rimprovera di non porvi il problema della scarsa produttività del lavoro. Bisogna intendersi e faccio un esempio: se per produttività intendiamo il valore di un’ora di lavoro chiunque capisce che un’ora di lavoro per produrre una Panda e un’ora di lavoro per produrre una Mercedes non dipendono da quanto si lavora ma anche dalla qualità del prodotto. Se pensiamo che occorra solo intensificare il lavoro non si comprende che in Italia su questo piano siamo ai limiti come è dimostrato anche dai bassi salari. Se invece il punto è la richiesta di un maggior utilizzo degli impianti noi rispondiamo che gli strumenti sono presenti già nel contratto nazionale. Su orari, straordinari, flessibilità siamo disposti a trattare e a discutere, lo prevede già il contratto.
Il 16 si annuncia una grande manifestazione? Cosa succederà dopo? Quando abbiamo deciso questa manifestazione l’abbiamo pensata come un’iniziativa sindacale aperta all’opinione pubblica, ai movimenti, alla società civile. Vediamo che questa offerta è stata già recepita e quindi il 16 ottobre si annuncia come un appuntamento importante. Che noi speriamo abbia una continuità. Sia sul piano sindacale, con una battaglia per difendere il contratto ma anche costruendo un collegamento a livello territoriale tra il mondo del lavoro e le istanze ambientaliste e di difesa della democrazia. Per questo il 16 troveremo le forme perché le diverse istanze presenti alla fine possano esprimersi e possano trovare un modo di stare insieme anche dopo.

Repubblica 25.9.10
"Io, abusata da un prete a 11 anni vi racconto una vita di vergogna"
Storia di Laura, una delle vittime italiane. Oggi il primo raduno a Verona
di Vera Schiavazzi


Non c´è risarcimento per qualcosa che ti impedisce di essere te stesso e ti fa perdere la fiducia
Ogni scusa era buona per restare solo con me e attirarmi in casa sua, sopra la sacrestia. Io ero debole e non capivo

ROMA - «Erano giovani, belli, intelligenti, puliti. Molti li ho ritrovati su Facebook, sono rimasta annichilita nel sapere che erano ancora in contatto con quel prete. Soprattutto se penso a quello che hanno subito, più grave e pesante ancora di quel che è toccato a me, forse perché ero una bambina e loro dei maschietti. Gli abusi e le violenze che abbiamo patito hanno cambiato per sempre la nostra vita, non c´è risarcimento per qualcosa che ti impedisce di essere te stesso, ti fa perdere la fiducia, stravolge per sempre la tua vita amorosa». Laura M. ha 35 anni, un compagno, un lavoro da insegnante in un piccolo centro del nordest. Insieme a quello di molti altri sconosciuti che hanno risposto all´appello il suo sarà uno dei racconti che oggi a Verona vorrebbe cambiare la storia italiana delle vittime della pedofilia nelle chiese, nei seminari, nei collegi. Quelle vittime di preti pedofili che - secondo il gruppo ‘La colpa´ (infolacolpa.it) che ha organizzato l´incontro al Palazzo della Gran Guardia, scegliendo non per caso uno dei luoghi più visibili della città - in Italia fanno ancora così fatica a denunciare gli abusi subiti, a essere creduti, a ottenere giustizia. Il racconto di Laura è arrivato prima con una timida mail: «Gentili signori, ho visto il vostro annuncio su Internet. Non so se il mio caso vi può interessare perché non mi sono mai rivolta alla polizia e ancora oggi non ho il coraggio di svergognare quel prete, che sia pure molto anziano è ancora presente nella sua comunità». Dall´altra parte, la donna ha trovato incoraggiamento e comprensione: «È capitato anche a noi, a volte si convive tutta la vita col peso di un´ingiusta vergogna». Così, è riuscita a continuare: «Avevo 11 anni quando ho sentito per la prima volta su di me il sesso di un uomo. Era il mio parroco, e ogni scusa era buona per restare solo con me e attirarmi in casa sua, sopra la sacrestia. Io resistevo, ma ero debole, indifesa, non capivo quanto fossero gravi quelle molestie e non avevo il coraggio di ribellarmi a un adulto del quale mi fidavo ciecamente. Lo scandalo scoppiò quell´estate, un ragazzino più piccolo raccontò a casa quel che gli stava capitando e scoprimmo così che la cosa andava avanti da anni, che alcune famiglie avevano cambiato parrocchia senza però mai pensare a proteggere i figli degli altri…».
Ma, come in molti altri casi, le gerarchie locali scelsero di insabbiare il caso: «Quel prete lo trasferirono per due anni al Tribunale ecclesiastico, poi gli affidarono un´altra parrocchia, poi ancora un´altra, neppure troppo lontana. Andai dal padre spirituale del collegio, mi disse di non parlare e che potevo continuare a volere bene al mio parroco… Dopo, venne un altro prete, un uomo di grande moralità, è grazie a lui se non ho smesso di credere in Dio. Ma per anni e anni non ho potuto avvicinare un uomo, non sopportavo neppure l´idea e soffrivo ancor di più pensando ai miei amici, quelli con cui ho diviso gli anni che dovevano essere i più belli. Ora so che molti di loro non hanno potuto farsi una famiglia né essere felici, e non riesco a perdonare». Resta un peso difficile da cancellare: «Ho cambiato città, mi sono allontanata, a trent´anni mi sono fidanzata, ma ancora non riesco a pensare a dei figli. E vorrei far qualcosa per non lasciare più che la vita di un bambino sia compromessa per un sistema malato, che la vita di un adulto sia sprecata. Naturalmente non farò il nome dei miei amici. Vorrei poter dir loro del mio affetto, ma consegno la mia esperienza come la denuncia del nostro male».
Storie come quella di Laura hanno convinto il gruppo originario dei fondatori di ‘La colpa´, perlopiù ex allievi del ‘Provolo´, la scuola per bambini sordi di Verona dove decine di allievi sarebbero stati abusati, che era giunto il momento di uscire allo scoperto. «Vogliamo offrire a tutte le vittime di preti pedofili italiani il sostegno psicologico che è indispensabile, perché queste violenze sono paragonabili a quelle familiari anche per le conseguenze che lasciano - spiega Salvatore Domolo, 45 anni, il portavoce, che ha alle spalle una storia di bambino abusato e di ex prete - e il sostegno legale. Ma non ci interessano i risarcimenti, quanto l´urgenza di un´azione legale verso la Chiesa cattolica per crimini contro l´umanità. E il 31 ottobre saremo a Roma, insieme alle vittime da tutto il mondo, per manifestare con le nostre facce e le nostre storie quello che è accaduto anche in Italia, a centinaia di bambini e di ragazzi».

Repubblica 25.9.10
La fabbrica degli imbrogli, così truffano gli stranieri con le assunzioni fasulle
di Vladimiro Polchi


Gli irregolari hanno versato 2-7mila euro per accedere a una presunta sistemazione
Gli intermediari disonesti sono l´effetto collaterale della sanatoria del 2009 per le badanti

ROMA - Datori di lavoro fantasma: presi a caso dall´elenco del telefono, scelti tra persone decedute già da anni o detenute in carcere. Migliaia di immigrati irregolari beffati: tremila solo a Milano, almeno mille a Roma. False assunzioni pagate a caro prezzo: dai 2mila ai 7mila euro. Eccoli gli effetti collaterali della sanatoria per colf e badanti: «Una macchina da truffe», denunciano associazioni e patronati.
Con la sanatoria 2009, ogni datore di lavoro poteva regolarizzare una colf e due badanti straniere. Come è andata? Le domande d´assunzione si sono fermate poco sotto quota 300mila: Ucraina (37mila) e Marocco (36mila), le nazionalità più richieste. Ma la sanatoria vanta un altro record: quello delle truffe. «Solo a Milano la prefettura ne ha stimate tremila fino a fine 2009 - fa sapere Pietro Massarotto, presidente dell´associazione Naga - molti immigrati infatti hanno provato a rientrare nella regolarizzazione, anche se non ne avevano i titoli, perché non impiegati nel lavoro domestico». E così si sono rivolti a intermediari che promettevano facili assunzioni. «A Milano - prosegue Massarotto - molti truffatori sono risultati egiziani, in accordo con alcuni italiani. Il costo di una falsa assunzione va dai 2mila ai 7mila euro».
E una volta tirati fuori i soldi, l´irregolare si trova in mano una ricevuta priva di valore. I datori di lavoro? Fantasmi. «A Milano un invalido si è scoperto a sua insaputa titolare di 50 richieste d´assunzione». Per trovare i prestanome gli intermediari non si fanno scrupoli: persone morte già da anni o rinchiuse in carcere. È accaduto a Milano, coi reclusi del penitenziario di Opera e a Roma. «Nella capitale - conferma il viceprefetto Ferdinando Santoriello, responsabile dello Sportello unico immigrazione - non siamo riusciti a rintracciare un migliaio di datori di lavoro, per notificargli il rigetto della loro pratica. I casi sono i più vari: datori di lavoro morti ben prima della domanda d´assunzione, detenuti nelle carceri romane o presi a caso dagli elenchi telefonici. Non è un caso che molte persone abbiano denunciato in questura il furto dell´identità elettronica». Sia ben chiaro: per i truffati c´è poco da denunciare, visto che loro stessi hanno provato ad aggirare la sanatoria. «Il problema però è che questa sanatoria era assurdamente limitata a colf e badanti - sostiene Marco Paggi dell´Associazione di studi giuridici sull´immigrazione - e così molti irregolari sono stati spinti a spacciarsi per lavoratori domestici pur di uscire dall´illegalità». Per questo, il presidente nazionale delle Acli, Andrea Oliviero chiede «un meccanismo per cui le persone truffate abbiano giustizia, per esempio col rilascio di un permesso di soggiorno per ricerca lavoro di sei mesi: perché dare giustizia è molto più che chiedere legalità».

Repubblica 25.9.10
Quei primi nove mesi che scrivono la nostra vita
Suoni, umore e sorrisi: c´è un segno nella gravidanza
Un numero sempre maggiore di studi scientifici svela il ruolo del periodo pre-natale nello sviluppo dei bebè
di Elena Dusi


ROMA - Non è affatto un periodo di attesa. Tra il concepimento e la nascita, il bambino sta costruendo il suo futuro. E oggi alla scienza de "I primi nove mesi che delineano il resto della vita" dedica la copertina il magazine Time, partendo dal titolo di un libro appena pubblicato in America da Annie Murphy Paul per Free Press.
Un tempo si raccomandava giusto di non bere né fumare. Ora si moltiplicano gli studi che legano l´umore della madre, il suo stress, l´intonazione della voce, i suoni che raggiungono l´utero, l´attività fisica e la presenza di certi ormoni al benessere alla vita futura del bimbo: del suo corpo come della psiche. La madre è una porta verso il mondo esterno che il figlio sfrutta (e dal quale è influenzato) molto più di quanto non si ritenesse in passato.
L´ultima sorpresa arriva dall´università tedesca di Wurzburg. In uno studio su Current Biology i ricercatori hanno analizzato il pianto dei neonati in Francia e in Germania, osservando che nei loro primi vagiti i bimbi parlano già la lingua dei genitori. Il tono è crescente nei bebè francesi e calante in quelli tedeschi, in accordo con la melodia delle due lingue. E poiché il pianto è stato analizzato a tre giorni di vita, la conclusione è che i bambini hanno assorbito l´accento durante la gestazione. Voci e melodie musicali possono infatti essere ascoltati dal terzo trimestre in poi.
«Durante la gravidanza il feto riceve un imprinting fortissimo», conferma Salvatore Alberico, primario di ostetricia all´istituto di ricerca materno-infantile Burlo Garofolo di Trieste. «Anche nel campo delle gravidanze, uno dei problemi di salute in aumento è l´obesità». Fare ginnastica è consigliabile per la madre, dimostra uno studio dell´università di Bristol, perché aiuterà il figlio a mantenere la linea durante tutta la vita futura. «In condizioni normali - spiega Alberico - consigliamo 50 minuti di attività aerobica come nuoto, bicicletta o camminata veloce. La madre non deve essere in affanno per non ridurre l´ossigeno che arriva al feto».
Stress, ansia e paura raggiungono l´utero immediatamente. Sia attraverso l´ormone cortisolo che si fa strada attraverso la placenta, sia attraverso l´adrenalina che restringe i vasi sanguigni e riduce il sangue diretto al bambino. L´effetto, in entrambi i casi, potrebbe essere un rallentamento dello sviluppo e un carattere più ansioso del normale. «Ma donna e bambino godono anche di un meccanismo di protezione», continua il medico. «Durante la gravidanza c´è un aumento di estrogeno e, di conseguenza, di endorfine: ormoni legati al buon umore e a una sensazione generale di benessere». Se si considera che il battito cardiaco della madre è il rumore principale che un bambino percepisce, si comprende come il relax di lei metta a proprio agio anche il figlio.
Spingendosi molto in là nell´interpretazione dell´imprinting fetale, c´è anche chi ha attribuito agli ormoni della gravidanza la crisi finanziaria. Nel 2009 l´università di Cambridge dimostrò che i trader particolarmente imprudenti della city di Londra avevano l´anulare più lungo dell´indice in proporzioni superiori alla media. E poiché la lunghezza delle due dita potrebbe essere influenzata dalla quantità di testosterone assorbita dal bambino durante la gestazione, si è concluso che anche il crac finanziario ha avuto origine nel ventre materno.

Repubblica 25.9.10
L'Italia, la transizione fallita e la mancanza di una destra normale
di Guido Crainz


Con la caduta del primo governo Prodi è venuto meno il progetto di una buona politica ed è prevalsa la partitocrazia dei partiti facendo riprendere le demagogie populiste
Sono senza veli i tratti portanti della politica berlusconiana, il suo porre al centro interessi personali e di azienda anche a costo di colpire le basi della democrazia e recare durissimi colpi all´informazione

In uno scenario sempre più degradato la crisi italiana appare ormai senza ritorno. "Metodo Boffo" come prassi quotidiana, dossier caraibici, protezione parlamentare a un esponente politico indagato per reati di camorra, sino a quel che sembra affiorare in Abruzzo: i rifiuti invadono di nuovo non solo Napoli ma l´intero paese. Ogni sguardo al sistema Italia ripropone tutti i nodi di una transizione drasticamente fallita, o mai iniziata. Illumina il riemergere, in forme modificate e aggravate, della crisi istituzionale ed etica che aveva portato al tracollo dei primi anni Novanta.
Fu travolto allora il sistema dei partiti su cui si era basata per mezzo secolo la storia italiana, dopo meno di vent´anni è entrata in agonia quella che era stata enfaticamente chiamata seconda repubblica. Neppure un vero sistema, a ben vedere: piuttosto un "disequilibrio" di forze politiche che hanno basato la loro sopravvivenza e la loro fortuna soprattutto sulle debolezze degli avversari. Forze poco provviste di reali culture costituenti e incapaci al tempo stesso di disegnare un insieme di regole sociali e di orientamenti programmatici. Incapaci anche solo di abbozzare un progetto credibile per un paese attraversato da sconvolgimenti profondi, in primo luogo sul terreno del lavoro e dell´etica collettiva.
Sembrano insomma intrecciarsi e precipitare insieme, in questi mesi, gli effetti di malattie antiche e le macerie indotte da storture recenti, in un finale di partita di cui si vedono bene rischi e derive ma non si intravedono possibili alternative, o perlomeno uscite di sicurezza.
Per molte ragioni gli anni Novanta, nei loro differenti versanti, sembrano oggi lontanissimi. Crollata la «prima Repubblica», e smorzatasi presto la prima esplosione di illusionismo berlusconiano, svanì anche la speranza che il rinnovamento potesse muovere dalla parte migliore della nostra storia precedente. Già con la caduta del primo governo Prodi – se non nel corso di esso – venne di fatto accantonato un progetto di «buona politica» capace di resistere all´emergere di una inedita «partitocrazia senza partiti». Quasi paradossalmente, poi, il primo governo guidato dal leader di un partito post-comunista, Massimo D´Alema, vide non il rafforzamento ma l´ulteriore travaglio di quel partito e al tempo stesso la capitolazione – altamente simbolica – di una roccaforte storica del «riformismo rosso» come Bologna. Tramontava così l´ipotesi che il rinnovamento potesse esser guidato dalle forze che si erano in qualche modo opposte alla degenerazione della «Repubblica dei partiti» già dall´interno di essa. Ciò poneva in primo luogo agli eredi del vecchio Pci il problema di un rinnovamento radicale, che non venne.
Ripresero così campo – sul versante leghista come su quello berlusconiano – ipotesi e demagogie populiste e antipolitiche, sempre più debolmente contrastate nell´area del centrodestra dalle forze che mantenevano un qualche legame con la storia precedente, dall´Udc ad An. Forze costrette progressivamente a scegliere fra la «berlusconizzazione» e l´emarginazione, in un processo che ha avuto una forte accelerazione negli ultimi due anni e il suo definitivo approdo in questi mesi. Appaiono da tempo senza veli i tratti portanti della politica berlusconiana, il suo porre al centro interessi personali e di azienda anche a costo di colpire a fondo le basi stesse della democrazia e recare durissimi colpi all´informazione («Non ci può essere libertà per una comunità che manca di strumenti per scoprire la menzogna» scriveva Walter Lippmann novanta anni fa). Appare senza veli, anche, il sempre più pervasivo «sistema delle cricche», con i processi che esso innesca in una democrazia ormai immemore della normalità e in una «società incivile» in sotterranea espansione. Di qui la pericolosità dello scenario attuale. Di qui l´esasperazione del clima da parte di un premier sempre più debole e sempre più sottoposto al condizionamento della baldanzosa truppa di Bossi e Calderoli. Umiliato e reso al tempo stesso più aggressivo dalla necessità di degradarsi in uno squallido «mercato dei deputati» per puntellare i traballanti residui di quella che fu una trionfale maggioranza.
È l´esito di un processo. È l´esito del percorso che ha portato il "berlusconismo" a diffondere nella politica e nella società nuove forme di estraneità alla democrazia e alle regole collettive, esasperando al tempo stesso tendenze negative già presenti. E senza che si siano innescati anticorpi adeguati. Lo rivela l´evoluzione stessa di quella parte della destra – un tempo ex o post fascista, e comunque "nazionale" – che è approdata alla più completa subalternità al premier ed è priva di voce persino di fronte alle dissennatezze e alle provocazioni leghiste. È al tempo stesso illuminante, infine, la difficoltà di dar corpo a una «destra normale»: difficoltà certo non nuova nel nostro Paese, come l´ultimo Montanelli non si stancava di dire. Al di là delle contingenze dello scontro politico, inquinato dalle sopraffazioni e dai veleni del premier e dei suoi sottoposti, ne aveva recato testimonianza la stessa manifestazione di Mirabello: con le sue composite presenze, con il differenziato modularsi del discorso di Gianfranco Fini, con gli applausi e le incertezze che lo accompagnavano.
Sull´altro versante, un centrosinistra incapace di fare i conti sia con il Paese reale che con se stesso non contribuisce certo a dissipare la sensazione di un disfacimento e di una frantumazione senza freni: quasi mancasse la consapevolezza della drammaticità della situazione, dell´urgenza di costruire argini e sbocchi convincenti. È su questo terreno però che si giocherà il futuro del Paese, e non solo quello più immediato.

Repubblica 25.9.10
Benjamin, moderno 70 anni fa
di Antonio Gnoli


Domani saranno trascorsi giusto settant´anni dalla morte di Walter Benjamin. Si suicidò sul confine spagnolo convinto di cadere nelle grinfie dei nazisti. Su di lui segnalo tre libri eccellenti, di recente uscita: Walter Benjamin e la moralità del moderno di Bruno Moroncini (ed. Cronopio); Benjamin di Fabrizio Desideri e Massimo Baldi (ed. Carocci); Costellazioni di Giovanni Gurisatti (ed. Quodlibet).
Einaudi, inoltre continua la pubblicazione dell´opera completa (è da poco uscita la raccolta di scritti degli anni 1928-29). Infine da un piccolo editore (Alegre) sta per uscire una nuova edizione di Per la critica della violenza. La fortuna di Benjamin, insomma, non conosce pause, né flessioni da quando, alla fine degli anni Settanta, Giorgio Agamben ne intraprese la cura. Pensatore tra i più anomali del Novecento, Benjamin seppe leggere la contemporaneità e anticipare le traiettorie che oggi ci governano. È sorprendente come quasi tutto passi attraverso le sue analisi: dall´arte alla politica, dalla letteratura alla società. Rilevò una contraddizione tra il modo sempre più complicato di darsi delle nostre vite e l´immiserimento della nostra esperienza (personale e sociale). Intendeva dire che, rispetto al passato, siamo molto più poveri di realtà. E tanto più immersi nel virtuale e nell´onirico. Ineccepibile, se si guarda a ciò che sta accadendo in questi anni.

Repubblica 25.9.10
Chicago incorona Muti con un concerto da rockstar
Debutto sul podio dell’orchestra Usa
di Leonetta Bentivoglio


Una grande gioia la prospettiva di lavorare con musicisti eccezionali su progetti condivisi

Spectacular. Exciting. Welcome Riccardo. Grandissimo Maestro. Master of Magic. Mentre i giornali sparano titoli giganti, poster esclamativi spiccano ovunque nella città di Obama, con la sua selva di candidi grattacieli battuti dai venti. Un´America febbrile e trionfalistica, vogliosa di nuovi miti culturali da omaggiare o divorare, o nei quali cullarsi per non pensare ai propri guai, sta accogliendo la prima stagione di Riccardo Muti come Music Director della Chicago Symphony, orchestra nata nel 1891, considerata ai massimi livelli per qualità e prestigio e forgiata da campioni come Georg Solti e Daniel Barenboim (il quale oggi, in una curiosa staffetta, lavora alla Scala, che Muti diresse per 19 anni).
Il maestro napoletano ha dato il via al mese di celebrazioni che Chicago dedica alla sua "Inaugural Season" dirigendo domenica scorsa al Millennium Park un mastodontico Free Concert incoronato da un inatteso cielo estivo (piace ai media locali ipotizzare un mini-miracolo di San Gennaro nel giorno del santo, il quale, viste le orribili previsioni del tempo, avrebbe premiato col suo intervento un concittadino): un successone da evento rock, dove le musiche di Verdi, Liszt, Ciaikovskij e Respighi sono state applaudite da 25.000 spettatori. Tappa successiva della "Festa Muti" (titolo della manifestazione lunga un mese), è stato giovedì (aperto dall´inno americano e con standing ovation finale) il concerto della vera e propria investitura, primo della serie dei "Subscription Concerts" annuali della Chicago Symphony, il cui introito al box office raggiunge il 20 per cento del budget di 65 milioni di dollari all´anno, tutti privati.
Sulla scena inghirlandata di stucchi color crema della Orchestra Hall, fascinoso edificio primi Novecento affacciato su un lembo di strada ribattezzato per l´occasione "Muti Mile", il direttore ha preso ufficialmente le redini dell´orchestra, definita da molti la migliore tra le cinque corazzate sinfoniche statunitensi, le cosiddette Big Five. In programma Berlioz, con la "Symphonie fantastique", e il suo sequel "Lélio, ou le retour à la vie", animato dal massiccio e irresistibile Gérard Depardieu nella parte del Narratore.
Fiera di aver raggiunto, grazie all´arrivo di Muti, la cifra più alta di abbonamenti e biglietti venduti nell´ultimo ventennio, la presidente della CSO, Deborah Rutter, ricorda «la chimica speciale scattata tra il maestro e l´orchestra durante il tour europeo del 2007: sessanta dei nostri musicisti, al termine di quell´esperienza, gli scrissero lettere di ringraziamento individuali. Fu il gesto che lo indusse ad accettare l´incarico». Quanto a Muti, pare galvanizzato dalla nuova impresa: «Mi dà una grande gioia la prospettiva di lavorare con questi musicisti eccezionali in un rapporto di collaborazioni e progetti condivisi». Per un periodo di lavoro "in residence", Muti ha scelto due compositori giovani e sperimentali come Anna Clyne e Mason Bates (quest´ultimo di stile elettronico decisamente underground), e ha dato a un artista illuminato come il violoncellista Yo-Yo Ma il ruolo di "Creative Consultant". Annuncia inoltre la sua volontà di «portare la grande musica anche a chi non lo conosce o non la considera un bisogno primario, con programmi per i giovani e nelle scuole e andando nei sobborghi di Chicago, tra le comunità afroamericane e ispaniche, nelle carceri e nei riformatori. Perché credo davvero nel messaggio sociale e spirituale della musica e vorrei essere utile alla città secondo me più bella, vitale, affettuosa e culturalmente interessante d´America». Già lunedì darà un concerto nel Warrenville Youth Center, una prigione per ragazze.