lunedì 27 settembre 2010

Repubblica 27.9.10
L’era del New Labour è finita adesso torniano tra la gente
Famiglia e scuola ecco i valori del mio Labour
di Ed Miliband


Ieri il Partito laburista ha dato il via al lungo viaggio per tornare al potere. Una nuova generazione ha ricevuto il mandato di trasformare il partito e fare in modo che il Labour torni a difendere gli interessi delle famiglie di ogni parte della Gran Bretagna. Abbiamo molta strada da fare se vogliamo ricostruire quell´ampia base di consenso che nel 1997 ci portò al potere con una vittoria travolgente.
Il viaggio sarà difficile e richiederà tempo. Per arrivare a destinazione, dovremo fare tre cose. Trarre gli insegnamenti giusti dagli anni che abbiamo trascorso al governo, condurre un´opposizione responsabile e offrire un´alternativa costruttiva al governo in carica.
Io sono orgoglioso di gran parte di quello che ha realizzato il Labour negli anni in cui è stato maggioranza, ma non ritengo che dobbiamo difendere ogni decisione che abbiamo preso. Abbiamo commesso degli errori. È necessario riconoscerlo se vogliamo andare avanti e affrontare le sfide del futuro. Negli ultimi quattro mesi, durante la campagna per l´elezione a leader del partito, ho girato il paese in lungo e in largo, parlando con padri e madri di famiglia, piccoli imprenditori e capitani d´impresa, studenti e pensionati, e ho sentito dire tante cose sul perché il nostro partito ha perso la fiducia.
La gente si ritrova a lavorare più che mai, e nonostante questo fa più fatica ad andare avanti. La gente vuole che i propri figli abbiano opportunità migliori di quelle che hanno avuto loro, ma devono fare i conti con le tasse universitarie e la mancanza di abitazioni a prezzi abbordabili per chi compra casa per la prima volta.
Questa gente ha giocato rispettando le regole, ma ha la sensazione che la società non ricompensi chi dà prova di responsabilità, ed è preoccupata per l´immigrazione. Vogliono un Governo che difenda la Gran Bretagna, ma sull´Iraq - il test decisivo per la nostra esperienza di Governo per quello che riguarda la politica estera - hanno perso la fiducia in noi.
Dobbiamo riconoscere gli errori che abbiamo commesso in tutti questi ambiti, e dimostrare che siamo cambiati. Mai più dobbiamo perdere il contatto con la maggioranza del nostro Paese. Il secondo dovere che abbiamo è quello di condurre un´opposizione responsabile.
È fondamentale, per la nostra democrazia, che questo Governo sia obbligato a rispondere del suo operato. Ma farò opposizione senza cadere nella trappola dell´opportunismo. Sul piano antideficit, non ci opporremo a qualsiasi taglio. Dopo anni di espansione che hanno trasformato i nostri servizi pubblici, rispetto ai tempi dei soffitti gocciolanti e delle aule nei container, ora i nostri servizi pubblici dovranno imparare a fare di più con meno.
Ma questo non significa mandar giù senza fiatare il piano di tagli che il Governo propone. Non è giusto che troppo spesso a essere penalizzati siano quelli che non hanno avuto nessuna responsabilità nella crisi, mentre quelli che l´hanno scatenata vengono protetti. E tagli sbagliati nel momento sbagliato possono mettere a rischio la ripresa.
È economicamente sbagliato buttare a mare i progetti per la costruzione di nuove scuole, e lasciare senza lavoro gli operai edili in un momento in cui il settore è in difficoltà. È economicamente sbagliato buttare a mare i prestiti pubblici a quelle imprese britanniche che possono creare posti di lavoro nelle industrie del futuro.
Questo approccio è pericoloso per il nostro Paese, ed importante condurre queste battaglie. Oltre a offrire un´alternativa alle politiche sbagliate del Governo, noi daremo il nostro sostegno a questo esecutivo quando adotterà misure corrette.
Questo è l´approccio che ho adottato durante tutta la campagna per la guida del partito: ho sostenuto la tabella di marcia del Governo in Afghanistan, ho sostenuto le proposte di Ken Clarke sulla criminalità e ho sostenuto Vince Cable nella sua battaglia per abolire le tasse universitarie.
Per progredire, non ci limiteremo a riconoscere i nostri errori e offrire un´opposizione costruttiva. Proporremo i nostri piani per il futuro in modo da offrire un´alternativa costruttiva al Governo. Ci vorrà del tempo, ma è fondamentale per dimostrare che siamo pronti per governare. Proporremo un nuovo approccio che aumenti l´offerta di case e venga incontro ai timori degli studenti sul debito sostituendo il sistema delle tasse universitarie. Un nuovo approccio alla società che protegga le cose a cui attribuiamo valore nelle nostre comunità, e a cui il liberismo dei conservatori non attribuisce valore. Un nuovo approccio all´uguaglianza che contribuisca a forgiare una Gran Bretagna meno divisa. Ma che sia ben chiaro: io non intendo fare il capo dell´opposizione un giorno in più del necessario.
Il mio scopo è dimostrare che il nostro partito è al fianco delle classi medie in difficoltà nel nostro Paese, al fianco di tutti coloro che hanno lavorato duramente e vogliono riuscire ad andare avanti. Il mio scopo è riportare il nostro partito al potere. È una sfida impegnativa. È un viaggio lungo. Ma il nostro partito ha fatto il primo passo eleggendo un leader di una nuova generazione. Ora spetta a me concretizzare questo cambiamento. È una sfida che attendo con impazienza.
(Copyright Sunday Telegraph Traduzione di Fabio Galimberti)

Corriere della Sera 27.9.10
Fondi dimezzati, la Biblioteca muore
Il governo senza soldi non può accettare passivamente un disastro annunciato
La Nazionale di Firenze, memoria del Paese, è alla paralisi
di Ernesto Galli Della Loggia


Signor ministro, quella che si appresta a leggere è l’ennesima lettera che le viene indirizzata di questi tempi per lamentare le tristi condizioni economiche che affliggono un’istituzione culturale. Sono d’accordo con lei: c’è qualcosa di insopportabilmente petulante non scevro di una vaga supponenza in queste lamentele in nome della cultura. La cultura: una roba — come senz’altro deve averle detto più di una volta qualche suo collega in Consiglio dei ministri — che non produce un centesimo ma sta sempre a chiedere soldi.
Di soldi, questa volta, ha bisogno, un urgente e disperato bisogno, la Biblioteca Nazionale di Firenze. La Biblioteca — non sto certo a dirlo a lei, che di sicuro lo sa benissimo, ma a qualche lettore distratto — è la nostra massima istituzione libraria, il luogo della Penisola dove è conservata la stragrande maggioranza del nostro patrimonio a stampa specie degli ultimi due secoli. Oltre ai libri di ogni tipo, giornali, riviste, opuscoli: tutto ciò che in Italia si è pensato e scritto da un certo momento in avanti sta qui, in questi depositi, in questi schedari, in queste sale. Per far funzionare e mantenere le quali è stato speso quest’anno 1 milione circa di euro, cui il suo ministero ha contribuito con la cifra modesta di 716 mila euro (escluso il pagamento degli stipendi): cifra modesta in sé e tanto più, vorrà convenirne, rispetto all’importanza dell’istituzione finanziata. Che però, ciò nonostante, l’anno prossimo si vedrà decurtare la cifra suddetta a meno della metà: 350 mila euro. Si aggiunga, per completare il quadro, il blocco del turn over: in cinque anni il personale della Biblioteca è diminuito del 60 per cento.
Il risultato lo si può immaginare. La catalogazione dei libri, ripresa solo grazie alla generosità del Monte dei Paschi, copre solo il 10 per cento (il 10 per cento!) dei volumi pubblicati negli ultimi due anni; dappertutto arredi vecchi che cadono a pezzi, scarsa pulizia e per finire — e quel che più conta — è stato annunciato che ormai restano in cassa solo poche decine di migliaia di euro per pagare il personale della ditta che si occupa della distribuzione dei volumi al pubblico, il cui contratto scade alla fine di novembre. Dopo, quindi, bisognerà ridurre drasticamente anche gli orari di apertura della Biblioteca. In pratica, per un’istituzione come questa, l’inizio della fine.
Vede, signor ministro, se i soldi non ci sono, non ci sono, chi non lo capisce? (naturalmente per un certo tipo di cose non mancano mai, ma lasciamo perdere) e dunque nessuno intende farle una colpa di una cosa (l’entità del bilancio del suo ministero) che non dipende certo da lei. Ciò che però colpisce — che almeno colpisce le persone come me che hanno un qualche interesse diretto in questo genere di faccende — è il modo tranquillo, mi viene da dire quasi disinvolto e distratto, spesso addirittura infastidito verso chi se ne lamenta, con cui lei vive e rappresenta all’esterno questa situazione di penuria.
Lei è niente di meno che il ministro preposto all’arte, al cinema, ai musei, ai teatri, alle biblioteche, di un Paese che non è il Paraguay o il Madagascar (degni peraltro del più incondizionato rispetto), ma che è l’Italia. Lei sa che senza quelle cose, senza i musei, le biblioteche, il cinema, l’opera, l’Italia non è niente. «Noi» non siamo niente. Senza di esse anche la nostra storia, anche l’oggi citatissimo e celebratissimo Risorgimento, non significano più nulla, l’Italia scompare. Ma non solo l’Italia (come forse a qualcuno piacerebbe). Scompaiono anche, mettiamo, la provincia di Verona o quella di Bergamo; le quali senza le cose di cui stiamo dicendo diventerebbero nient’altro che due floridi distretti economici senza passato, senza radici, che potrebbero stare qui come in Cina o in Romania. Ricchi ma insignificanti: come tutto ciò che non ha identità.
Vede, signor ministro, nessuno le chiede di darsi fuoco per protesta davanti al ministero del Tesoro. Ma il Paese — per essere più modesti almeno quella sua parte che condivide il contenuto di questa lettera — le chiede se non altro di condividere pubblicamente le sue preoccupazioni, di dare a esse voce intervenendo nell’arena pubblica non solo per stigmatizzare questo o quell’indirizzo ideologico a lei sgradito. Ci acconteremmo che lei non si stancasse di spiegare all’opinione pubblica e alla classe politica che ogni euro sottratto alle biblioteche, ai musei, al cinema, ai teatri, è una ferita aperta nella nostra storia. Insomma: alla fine non le chiediamo altro che di condividere una pena, di partecipare a un dolore. Mi creda, se lei lo facesse sarebbe già moltissimo. Con il mio ossequio.

Repubblica 27.9.10
Veltroni: il leader c´è, è Bersani gli ex ppi escludono la scissione
Pd, Bindi in allarme per la giunta anomala in Sicilia
di g. d. m.


L´ex segretario rivendica però la necessità di dar voce al "disagio" nel partito. Anche Parisi punta il dito sulle "capriole" con Lombardo

ROMA - Adesso è qualcosa più di una tregua. Adesso l´effetto del documento dei 75 che aveva terremotato il Pd sembra superato. «La leadership del Partito democratico c´è e si chiama Pier Luigi Bersani», dice Walter Veltroni nella trasmissione "In 1/2 ora". «La discussione politica va avanti - spiega l´ex segretario - si confrontano opinioni diverse, si esprime un disagio che secondo me esiste e si sta manifestando. Ma il leader non è in discussione. Per me non è all´ordine del giorno il tema di un cambiamento. Bersani è il mio segretario, ha tutta la mia solidarietà per il lavoro che ha fatto, e il mio impegno unitario».
Questa pace non spinge Veltroni a dichiarare fin da oggi un sostegno a Bersani per la corsa a Palazzo Chigi. «Le elezioni sono tra tre anni. Non mi impegno sui nomi». L´impegno è sul partito, sulla sua capacità di innovazione, di riformismo. Su questo proseguirà il lavoro di chi ha firmato il documento dei 75. E a Rosy Bindi che oggi dice «il discorso del Lingotto non mi piacque neanche nel 2007» risponde: «Non voglio incrinare l´unità del partito. Ma penso ancora che quella sia la base di un partito riformista». Unità che Casini non riesce a vedere: «Mi sembrano in stato confusionale».
Un altro autore del documento, Beppe Fioroni, ha riunito a Orvieto gli amministratori locali ex popolari che si riconoscono nelle sue posizioni. È l´occasione che per dire che da questa area «non verrà mai nessun proposito di scissione, chi lo sostiene bestemmia». Semmai, spiega Fioroni, con l´iniziativa dei 75 «abbiamo rimotivato la nostra gente, l´elettorato moderato e cattolico che per la stragrande maggioranza sta con noi». All´assemblea di Orvieto c´erano sindaci, consiglieri, presidenti di provincia da tutta Italia. «Da noi Bersani non avrà mai il problema di finire in un indistinto gelatinoso. Diamo voce a una parte forte della società, vogliamo tenerla dentro il Partito democratico». E il segretario accetta le strette di mano: «Per l´amor di Dio, non esiste alcun rischio scissione».
A Milano Marittima la Bindi ha riunito l´associazione Democratici davvero, ha ospitato Bersani e ha preso di mira la nuova alleanza siciliana, dove il Pd è entrato nella maggioranza di Raffaele Lombardo. Bersani la sostiene, la presidente del Pd reagisce: «Lombardo è un personaggio su cui pendono interrogativi politico-giudiziari molto seri. Lui appartiene a quella prima Repubblica che ha preparato il disastro di questi anni». Arturo Parisi, che parla di «capriole», è contrario allo stesso modo. E vuole vedere gli effetti del Lombardo quater sulle logiche romane: «Non si capisce se il Pd ha aderito per i risultati virtuosi ottenuti da un governatore che due anni fa avevamo dipinto come il maestro del clientelismo - dice con un filo di ironia - . Qualcuno deve spiegare cosa c´è sotto».

La Stampa 27.9.
Per sfidare l'embargo
Veliero di pacifisti ebrei verso Gaza
Il «Jews for Justice for Palestinians» ha obiettivi pacifici
Sulla barca salpata da Cipro un sopravvissuto all'Olocausto

qui
http://www.lastampa.it/redazione/cmsSezioni/esteri/201009articoli/58885girata.asp

Repubblica 27.9.10
Alle elezioni in Stiria trionfa il movimento xenofobo. In calo i socialdemocratici
L’ultradestra vince anche in Austria e adesso trema il governo di Vienna
di Andrea Tarquini


Immigrazione e crisi economica temi dominanti in campagna elettorale: i partiti tradizionali non hanno dato risposte chiare

BERLINO - Nuovo successo dell´ultradestra in Europa, dopo l´Olanda e la Svezia. Ancora una volta, in uno dei paesi più prosperi e moderni del Vecchio continente, parole dure contro l´immigrazione islamica pagano. Conquistano in modo trasversale elettori conservatori o progressisti. Alle elezioni nella Stiria, bastione rosso e uno dei più importanti Stati federali austriaci, la Fpoe, cioè il partito nazionalconservatore e dichiaratamente anti-islamico, vola. Sottrae voti a tutti: alla socialdemocrazia (Spoe) che resta prima forza politica, ai democristiani (Oevp), e persino al Partito comunista austriaco (Kpoe). Una estrema propaganda online, con giochi internettiani in cui vinci se abbatti il minareto col muezzin o elimini la moschea dal paesaggio urbano austriaco, è stata la chiave del successo della destra radicale. Successo dei messaggi più espliciti, nello Stato la cui capitale, Graz, è la seconda città austriaca, moderna e multiculturale come Milano, Monaco o Lione.
«Grande vittoria, siamo molto soddisfatti», ha detto Heinz-Christian Strache, leader della Fpoe. A lui, erede politico del capo storico dell´ultradestra austriaca Joerg Haider, morto in un grave incidente d´auto, gli elettori stanno dando un ruolo sempre più centrale. Soprattutto in vista della partita decisiva. Cioè il 10 ottobre, quando la capitale Vienna voterà per il rinnovo del suo governo. Vienna è "città rossa" (socialdemocratica) fin dai tempi di Francesco Giuseppe, ma negli ultimi sondaggi la destra radicale è in decollo. È certa di conquistare tra il 20 e il 25 per cento dei consensi.
I risultati quasi definitivi del voto in Stiria, resi noti ieri sera, danno un´indicazione chiarissima. La socialdemocrazia resta primo partito col 38,2 per cento dei voti, ma perde 3,2 punti percentuali. I democristiani ne perdono 1,5, scendendo a 37,1. La destra radicale sale da poco più del 4 per cento al 10,8, insomma un risultato a metà tra raddoppio e tripletta. Inquieti e nervosi per le sfide della crisi economica internazionale e soprattutto dell´immigrazione musulmana, molti elettori hanno voltato le spalle ai partiti storici. Come in Olanda, come in Svezia. Il leader socialdemocratico della Stiria, Franz Voves, ha detto che per restare governatore tratterà con tutti, anche con la destra radicale. Uno sdoganamento chiarissimo, e quasi senza condizioni.
(Ha collaborato Luca Faccio)

Repubblica 27.9.10
Il libro di Veronesi "Perché il futuro è delle donne"
Perchè c’è bisogno di un nuovo matriarcato
di Umberto Veronesi


Anticipazione
Anticipiamo un brano dal libro di Dell´amore e del dolore delle donne (Einaudi, pagg. 158, euro 18) da domani in libreria.La guida del paese dovrebbe essere per metà in mani femminili. Il nuovo libro di Veronesi

Occorre rovesciare un´organizzazione sociale che oggi ruota essenzialmente intorno alla figura maschile Solo in questo modo è possibile garantire lo sviluppo della civiltà
Quando chiedo alle pazienti o alle mie collaboratrici se hanno mai provato ad alleviare l´affanno in cui le vedo dibattersi, mi sento dire: "Sa, professore faccio prima a fare io"

Credo di essere stato un buon padre per i miei figli, ma sono consapevole che non deve essere stato facile per loro confrontarsi con me. Avere accanto a me in ospedale Paolo, il mio figlio maggiore, e Giulia, la mia prima figlia femmina, è una soddisfazione immensa (...). A volte penso però che lo sforzo che hanno dovuto compiere per affermarsi sia stato, per certi versi, doppio rispetto a chi ha un cognome diverso dal loro. Per Giulia a quel cognome si aggiunge «il peso» del suo essere donna e mamma di tre bambini (...).
Ho visto in mia figlia il ritratto inaspettato e vero di una donna complessa, «multidimensionale», chirurga inappuntabile, ricercatrice metodica, medico empatico, madre attenta, compagna amorevole.
Mi colpisce sempre la capacità tutta femminile di pensare contemporaneamente a tante cose, anche lontanissime: i capricci dei bambini e i dati dei pazienti; e di passare da una dimensione all´altra in modo del tutto naturale (...). Nei clan familiari del secolo scorso le donne erano il nodo centrale di una rete di parentele sulle quali si intessevano rapporti solidali fortissimi e intoccabili (...). Mi ricordo che le donne che vivevano con noi in cascina, quando ero bambino, facevano molta vita di gruppo: lavoravano insieme negli orti e nei campi, cucivano, rassettavano, erano sempre affaccendate. Spesso mi permettevano di partecipare, e fingendomi impegnato in qualcosa mi divertivo a origliare i loro discorsi. Ricordo che una frase in particolare ricorreva spesso: «Non ti lamentare con tuo marito. Tanto, appena esce dalla porta di casa, fino a sera, la padrona sei tu» (...).
Oggi lasciare la famiglia d´origine equivale a conquistarsi la libertà, ma il prezzo che si paga per questa scelta è la perdita di una condivisione – di affetti e di compiti – che sarebbe preziosa per una donna «multifunzionale». Quello che stiamo attraversando, mi pare, è un momento di transizione: la protezione e la solidarietà del vecchio modello familiare non sono ancora state sostituite da un modello sociale che abbia funzioni analoghe, e che tenga conto dei ruoli effettivamente occupati dalla donna (...). L´organizzazione sociale oggi ruota essenzialmente intorno all´uomo, e invece dovrebbe ruotare intorno alla donna, perché la donna, in questo momento, è più adatta a garantire lo sviluppo della civiltà.
So che può sembrare un´affermazione utopistica, e certamente scatenerà l´indignazione di molti uomini, ma a ben pensarci una società matriarcale avrebbe vantaggi per tutti (...). Per esprimere la propria personalità, una donna era (e talvolta, ancora, è) obbligata a ricorrere a sotterfugi, proprio come quello, semplice, delle donne della cascina della mia infanzia, che aspettavano che il marito uscisse di casa per sentirsi finalmente libere. Per questo sono a favore di una cultura e di una civiltà coniugate al femminile (...).
Il dominio maschile ci ha traghettato in un´epoca di indubbio progresso civile e scientifico, ma adesso, inevitabilmente, il timone va passato alla donna. Per questo non mi stanco di ripetere che il futuro è donna. La mia convinzione, lo so bene, cozza in modo evidente con la realtà: se è vero che la donna è più «adatta» dell´uomo, – mi sento chiedere, – com´è che ancora non ha conquistato un ruolo non solo dominante, ma neppure paritario?
La prima ragione, a cui già ho accennato, è organizzativa: la società non è strutturata per favorire la carriera lavorativa della donna. In particolare, sulle sue spalle pesa un innegabile pregiudizio psicologico: la convinzione che l´uomo sia dotato di una maggiore capacità decisionale (...).
Il secondo ostacolo ha a che fare con il peso culturale delle religioni. La religione cristiana, ad esempio, rivela la sua indole maschilista nel divieto di sacerdozio imposto alle donne, che le estromette completamente dalla «carriera» religiosa. Gli apostoli, di cui i sacerdoti sono eredi, erano tutti maschi, anche se sotto la croce di Cristo morente c´erano solo donne, e i suoi seguaci fedeli si erano dileguati (...).
Infine, a frenare la conquista femminile della società, c´è forse un residuo senso di colpa nella coscienza delle donne, che faticano a trovare un equilibrio fra ruolo pubblico-professionale e ruolo materno-familiare (...).
Quando chiedo alle pazienti o alle mie collaboratrici se hanno mai provato ad alleviare l´affanno in cui le vedo dibattersi, mi sento dire: «Sa, professore, faccio prima a fare io (...)». È una frase, questa, dal forte potere rivelatore: esplicita la percezione che tutto quell´affollarsi di compiti – e allo stesso tempo ognuno di questi compiti – sia un elemento importante dell´essere donna, e dunque un aspetto irrinunciabile quanto è ormai irrinunciabile il ruolo lavorativo. Sono convinto che progressivamente la donna smetterà di percepire la «liberazione» da alcuni ruoli come una minaccia alla propria femminilità: è un processo che vedo già in atto nelle ragazze che si affacciano oggi al mondo del lavoro, e credo che l´ambiente sociale debba contribuire a questa evoluzione, infrangendo quel che resta dei tabù culturali che impediscono alle donne una partecipazione attiva.
Ma come? Entriamo qui nel capitolo delicatissimo del «che fare» per le nostre donne. E io, su questo tema, ho le idee molto chiare. La conduzione del paese dovrebbe essere per il 50 per cento in mani femminili. Metà dei parlamentari, cioè, dovrebbero essere donne, e la stessa partizione dovrebbe essere garantita per legge nelle regioni, nelle province e nei comuni nella composizione delle giunte, dei comitati e di ogni organo decisionale. È necessario che la presenza delle donne raggiunga la parità numerica ai vertici delle carriere universitarie, e nel sistema ospedaliero e assistenziale metà delle cariche di direzione generale e scientifica dovrebbero essere ricoperte da donne (...). Se solo ci soffermassimo a riflettere con più attenzione, non sarebbe difficile individuare gli incredibili punti di forza femminili che potrebbero migliorare sensibilmente le sorti della società odierna. Io ci ho provato, e ne ho individuato almeno dieci.
Il primo è biologico: alle donne è affidata la responsabilità della sopravvivenza della specie umana sul pianeta, attraverso la procreazione e l´accudimento della prole. Non dimentichiamo che i bambini sono esposti prima di tutto all´influenza materna, che ne determina prioritariamente l´educazione e la mentalità: il mondo dell´infanzia è un mondo femminile.
Il secondo unisce questa capacità procreativa con quella lavorativa: la sintesi di ruolo sociale e ruolo materno resta una fra le più importanti conquiste femminili recenti, dotata di un grande potenziale rivoluzionario.
Il terzo è la resistenza al dolore e alla fatica. Sono stato tante volte testimone dell´eccezionale capacità femminile di accettare e affrontare la malattia – e molte altre tragedie – fino a trasformarla in un pretesto per fare ordine nella propria vita, o persino in un´occasione di rinascita personale.
Il quarto punto è la motivazione che caratterizza il loro lavoro e l´attaccamento all´istituzione che rappresentano (...).
A questo è indirettamente collegato il quinto punto, che è il senso della giustizia. Metà dei nostri magistrati è donna e molte si distinguono e si trovano alla ribalta delle cronache per la loro integrità e fermezza nel giudizio.
Del sesto punto ho già parlato più volte: è la tendenza all´armonia, che enfatizza il senso femminile per la disciplina, l´organizzazione e l´ordine.
Il settimo è la maggiore sensibilità artistica e culturale. Basta guardarsi intorno nella sala di un cinema, a teatro, a un incontro letterario, a un concerto, a una mostra di pittura, scultura o fotografia, per rendersi conto che la maggioranza del pubblico è composta da donne.
L´ottavo è la capacità intellettuale di ragionamento e concentrazione. Per secoli si è detto che la donna non era adatta alle attività scientifiche, ma è vero il contrario: più della metà dei miei ricercatori è di sesso femminile, e la loro produttività e il loro ingegno sono straordinari.
Il nono punto è che le donne, contrariamente a quanto si crede, sono più brave degli uomini a decidere nei momenti critici. Quando un matrimonio fallisce, ad esempio, in molti casi è la donna che prende in mano la situazione e fa il passo di chiedere il divorzio (...).
Il decimo è che la donna è naturalmente meno aggressiva dell´uomo, non ama la violenza ed è portata a cercare soluzioni diplomatiche. E l´assenza di conflitti è la condizione imprescindibile per il moderno progresso della civiltà.

Corriere della Sera 27.9.10
Veronesi, la vita in rosa
«Presto il mondo vedrà una supremazia al femminile»
di Isabella Bossi Fedrigotti


Di uomini che odiano le donne, stando, almeno, oltre ai romanzi e alle cupe voci rancorose che salgono dalla rete, alle cronache che riportano di ammazzamenti, di violenze e di molestie di cui sono vittime mogli, compagne, fidanzate e amanti, sia in carica che ex, ce ne sono parecchi e forse anche in aumento, mano a mano che aumenta l’autonomia femminile. Nulla, ovviamente, di fronte alla massa di uomini che le donne continuano, bene o male, ad amarle, solo che questi ultimi sono per lo più silenziosi, non si dichiarano, forse, chissà, timorosi di mostrare il fianco e di concedere troppo vantaggio alla controparte con una precisa presa di posizione.
Nella lista dei coraggiosi si può, per contro, annoverare un grande uomo di scienza, Umberto Veronesi, che ha scritto un intero libro, Dell’amore e del dolore delle donne (Editore Einaudi, in libreria da domani), per spiegare come e perché lui le donne le ama senza riserve. Il che non è poco, soprattutto perché non soltanto gli piacciono nel modo in cui piacciono alla maggioranza, possibilmente belle, possibilmente sorridenti, seducenti e affettuose ma anche perché le stima, le ammira, è curioso dei loro pensieri e sentimenti, cerca di conoscerle nel profondo e volentieri fa tesoro di certe loro parole, di certi loro ragionamenti.
Oltre alle «sue» donne, madre, moglie, sorella, figlie, parenti e amiche, egli ci racconta delle innumerevoli pazienti — il professore è, infatti, un medico delle donne per eccellenza — molte delle quali sono diventate in un certo modo «sue» al pari di quelle altre. La prima della lista non può che essere la mamma che egli ricorda con tenerezza infinita, sapiente e amorosa signora della cascina nella periferia milanese dove viveva con marito e sei figli che le ubbidivano — quasi — a bacchetta. E ottanta o più anni dopo, Veronesi ancora conserva memoria del magico momento in cui, nella stagione fredda, ella passava lo scaldino sotto le coperte dei bambini, di modo che al momento andare a letto i piedi freddi trovavano tra le lenzuola il beato, accogliente tepore.
Seconda viene Angelina, l’indimenticabile portinaia del palazzo milanese dove la famiglia si trasferì dopo la morte prematura del papà, donna geniale e coraggiosa che, una mattina di fine ’43, fece salire in ascensore gli uomini delle SS venuti a cercare il diciottenne Umberto, nascosto in casa convalescente, dopo essere saltato su di una mina. Ma quando i militari furono a metà piano, Angelina chiamò su al citofono: «Umbertino, fai svelto, scappa!» e subito dopo tolse la corrente bloccando l’ascensore a mezza corsa. E grazie a lei Umbertino si salvò la vita.
Vengono poi, in ordine sparso, pazienti, colleghe, ricercatrici, infermiere, suore, donne in carriera, imprenditrici e politiche, anche di altissimo grado, come, per esempio, Margaret Thatcher. Molte hanno nome e cognome, moltissime sono anonime, però tutte quante ben presenti, anche tanto tempo dopo, nella mente del professore. Di loro Veronesi ricorda e riporta una frase, un atteggiamento, una conversazione, una confessione; oppure nessun parola in particolare però la forza di volontà, la passione, il dolore, l’intraprendenza, la dolcezza, la fantasia, la pietà: è un coro variopinto di donne che egli porta con sé, del quale si ha l’impressione che gli sia prezioso, una specie di tesoro accumulato nei suoi ottantacinque anni, che gli fa compagnia, che lo rasserena anche.
Difficile dire se di un libro di narrativa oppure di saggistica si tratta. I due generi sembrano, infatti, costantemente presenti e ora prevale l’uno, ora l’altro: memoria e riflessione si mescolano, insomma, e si alternano in modo armonioso. Del resto, cos’altro ci si può aspettare da un uomo di scienza che, segretamente, a volte, butta giù versi (salvo poi gettarli via subito dopo)?
Non sarebbe comunque da lui scrivere un libro fatto soltanto di amabili ricordi di sia pure straordinarie figure femminili: ed ecco allora i ragionamenti — sempre particolarmente lucidi e proiettati nel futuro, da uomo di scienza, appunto — sull’amore, sul dolore, sulla malattia, sulla religione, sulla famiglia, sul sesso. Azzarda, per esempio, Veronesi o, anzi, più che azzardare, profetizza, sulla base della crescente mascolinizzazione della donne e della contemporanea femminilizzazione degli uomini, per cui abbiamo per un verso soldatesse e anche generalesse e per l’altro sempre più numerosi «mammi», che la reciproca attrazione è destinata a calare ulteriormente (già adesso — sostiene — scarseggia, altrimenti non saremmo invasi da tanta pornografia finalizzata a risvegliare il desiderio stanco) tanto che la sessualità si esprimerà in molti modi diversi.
E profetizza anche, per esempio, che il mondo, domani — sempre meno bisognoso di forza fisica — vedrà una supremazia femminile. Per la ragione biologica della riproduzione, ovviamente, prima di tutto, ma subito dopo perché le donne non sono più così lontane da una svolta epocale, di riuscire, cioè, la sintesi del ruolo sociale e professionale con quello materno; ma anche perché sono più resistenti al dolore e alla fatica e perché hanno maggiore sensibilità artistica e culturale (e basta guardarsi intorno in libreria, al cinema, a teatro e ai concerti per rendersene conto). Infine, perché sono più brave a prendere una decisione nei momenti critici e perché sono meno aggressive e più portate a cercare soluzioni diplomatiche ai conflitti, attitudine indispensabile al progresso della civiltà.
Il professore — di questi tempi una vera rarità — è sicuramente di manica abbastanza larga con le donne, però il suo autentico, profondo femminismo non può che edificare le sue lettrici.

Repubblica 27.9.10
Cent'anni fa moriva il filosofo. Un libro di Campailla svela un segreto nella sua vita
Carlo Michelstaedter e il mistero di Nadia B.
Il giovane studioso goriziano s'innamorò della donna. Lei si uccise nel 1907 a Firenze, anticipando di tre anni il suicidio dell´autore di "La persuasione e la rettorica"
di Paolo Mauri


Il 17 ottobre saranno esattamente cent´anni che Carlo Michelstaedter s´è tolto la vita sparandosi alla tempia destra. Era il giorno del compleanno della madre Emma. Il sangue di Carlo schizzò anche sui fogli che stava riempiendo per la sua tesi di laurea, poi divenuta la sua opera più importante, La persuasione e la rettorica.
Carlo, goriziano, aveva studiato a Firenze e qui aveva incontrato una giovane russa, Nadia Baraden. Le aveva dato qualche lezione di italiano. Aveva tentato un approccio. Ma lei, bella e bionda, ufficialmente studentessa di belle arti, lo aveva tenuto a bada. Una storia come tante, se non fosse per il fatto che Nadia, l´11 aprile del 1907 si spara in piazza Vittorio Emanuele II a Firenze (oggi piazza della Repubblica). Carlo è a Gorizia: manda un telegramma alla padrona di casa di Nadia chiedendo notizie.
Ma chi era veramente Nadia Baraden? Lo racconta ora Sergio Campailla, studioso ed editore dell´opera di Michelstaedter, in un libro che ripercorre con passione tutte le sue puntigliose ricerche sulla ragazza e comincia con una confessione (Il segreto di Nadia B, Marsilio, pagg. 248, euro 19.50). Quando aveva ventisei anni Campailla si trovò ad assistere al trasloco delle carte di Carlo, destinate alla Biblioteca Civica di Gorizia. Era il 4 marzo 1973. La sorella di Carlo, Paula, era morta nel giugno dell´anno precedente e l´esecutore testamentario era ora suo figlio, Carlo Winteler. Prima d´ogni altra cosa l´ingegner Winteler annunciò di voler distruggere qualche foglio che riguardava terze persone. In breve si trattava di due lettere in tedesco di Nadia Baraden al giovane amico filosofo: nella prima, senza firma, lo invitava a tenere le mani a posto. Nella seconda, ben più importante e drammatica, annunciava d´aver deciso di morire, assumendo del veleno (cosa appena fatta) e poi sparandosi per essere certa dell´esito. La donna lo invitava però ad affrontare la vita e a non rinunciare mai a se stesso e gli rivelava la tragedia della propria esistenza: a 11 anni uno zio l´aveva "violée", distruggendola.
Campailla dice d´essersi deciso solo ora, quando i fatti sono ormai storia e non più cronaca indiscreta, a far chiarezza sulla figura di Nadia Baraden, già però citata nell´epistolario di Michelstaedter uscito a sua cura nel 1983. Comincia dunque così l´indagine dello studioso, che essendo anche romanziere non rinuncia alla narrazione, anzi vi indugia con piacere seguendo l´ordine cronologico degli eventi e vagliando e citando tutte le fonti (italiane ma anche russe) che riesce ad individuare.
Il suicidio nella celebre piazza fiorentina, quella dei grandi caffè letterari Paszkowski e Giubbe Rosse, naturalmente suscita un´attenzione morbosa e i cronisti per diversi giorni seguono la vicenda, dolorosa e misteriosa insieme. Chi è Nadia B.? Una terrorista russa (siamo a ridosso della rivoluzione del 1905) uscita da una ricca famiglia ebrea, incarcerata e condannata alla Siberia e poi salvata con l´esilio. Baraden è il nome di un marito subito abbandonato: era un agente doppiogiochista. Come in un romanzo dell´Ottocento a tinte fosche la suicida ha lasciato detto che si avverta della sua morte non il padre, ma lo zio: si presume lo stupratore. Pagherà lui le esequie. Intanto si viene a sapere che la ragazza è tutt´altro che passata inosservata a Firenze: un suo ritratto, fatto dal pittore Passigli, è stato addirittura esposto in Accademia ed è stata anche fotografata. Lo stesso Carlo, che ha una buona mano come pittore e disegnatore, le ha fatto un altro ritratto ad olio, in cui figura con una rosa sul seno.
Dai giornali fiorentini la notizia del suicidio rimbalza anche fuori e se ne occupa il Corriere della Sera a Milano. Molto si scrive sul funerale, un trasporto che passando per Vienna dovrà raggiungere Pietroburgo. Sfogliando i giornali d´epoca Campailla nota un affollarsi di suicidi. Un segno dei tempi? Difficile dirlo: Nadia veniva da un altro mondo, titolare di un nichilismo furioso alimentato da una biografia pesante.
Nella famiglia di Carlo c´era già stato il suicidio, tenuto nascosto, del fratello Gino emigrato in America. La ricerca dell´autentico in un groviglio di finzioni spinge Carlo più a cercare la vera vita che non la morte. Il 10 settembre del 1910 scrive alla madre una lettera che è, in questo senso, quasi un solenne manifesto. Poi tutto precipita. La scelta finale non è filosofica e resta insondabile. Non saprà mai di Nadia B. tutta la verità. Campailla aggiunge sorprese fino alla fine. Non le guasterò anticipandole. La sorte della breve vita di Carlo Michelstaedter è quella di far nascere libri. Suoi, come La melodia del giovane divino appena uscito da Adelphi (è una antologia di scritti, curata sempre da Campailla) o altrui. Come questo su Nadia B. O come quello, intenso e doloroso, di Claudio Magris, Un altro mare, dedicato alla vicenda di un intimo amico di Carlo, Enrico Mreule. Che partì per la Patagonia e lasciò a lui, fatalmente, la sua pistola.

Repubblica 27.9.10
Perché difendo l’uso del burqua
Nella nostra società non è certamente l´unico simbolo della supremazia maschile
di Martha Nussbaum


Ai primi di luglio, in Spagna, il parlamento catalano ha respinto per pochissimi voti una proposta di legge che avrebbe vietato il burqa musulmano in tutti gli spazi pubblici, capovolgendo l´esito del voto espresso una settimana prima dal Senato a favore del divieto. Proposte analoghe potrebbero diventare presto legge in Francia e in Belgio. Perfino il foulard è spesso fonte di problemi. In Francia, le ragazze non possono indossarlo a scuola. In Germania (così come in alcune zone del Belgio e dell´Olanda) in diverse regioni alle insegnanti di scuola pubblica è proibito portarlo in classe, malgrado a preti e suore sia consentito insegnare con l´abito talare. (...)
Partiamo da una considerazione ampiamente condivisa: tutti gli esseri umani sono uguali e hanno la medesima dignità. Pressoché ovunque si concorderà sul fatto che i governi devono rapportarsi a tale dignità con immutato rispetto. Ma cosa vuol dire trattare la gente con lo stesso rispetto in ambiti che hanno a che fare con le credenze e l´osservanza religiosa? Aggiungiamoci allora un´ulteriore premessa: la facoltà attraverso cui l´uomo ricerca il significato ultimo dell´esistenza - facoltà comunemente denominata "coscienza" - è una componente fondamentale della persona, strettamente legata alla sua dignità. E a questo punto possiamo puntualizzare con un´altra premessa ancora, che potremmo chiamare la "premessa della vulnerabilità": tale facoltà, infatti, può essere gravemente compromessa da condizioni ambientali globali ostili. (...).
Generalmente a favore delle proposte di legge che presuppongono il divieto vengono sostenute cinque argomentazioni. Vediamo se esse trattano tutti i cittadini con uguale rispetto. La prima riguarda il fatto che per esigenze di sicurezza gli individui devono mostrare il volto quando frequentano luoghi pubblici. La seconda, strettamente correlata alla prima, sostiene che la trasparenza e reciprocità proprie dei rapporti tra concittadini verrebbe minata dall´abitudine di coprirsi parte della faccia. (...) Il terzo punto, di gran rilievo attualmente, è che il burqa sia un simbolo di dominazione maschile che rappresenta l´oggettivazione della donna (vista non più come persona, ma come mero oggetto). Un legislatore catalano di recente l´ha definito una «prigione degradante». La prima cosa da dire riguardo a tale tesi è che coloro che generalmente la sostengono non sanno molto dell´islam e sicuramente non sono in grado di affermare cosa simboleggi cosa in tale religione. Ma la pecca più lampante consiste nel fatto che la nostra società è piena di simboli della supremazia maschile che trattano la donna come un oggetto. Riviste erotiche, foto di nudo, jeans attillati: tutti questi prodotti possono essere tacciati di ridurre la donna a un oggetto, così come la stessa accusa può essere rivolta a molteplici aspetti della nostra cultura mediatica. Che dire della «degradante prigione» della chirurgia plastica? (...)
Una quarta argomentazione è quella secondo cui le donne indosserebbero il burqa solo perché costrette. È una tesi abbastanza non plausibile da generalizzare. (...) In ultimo, ho sentito anche l´argomentazione secondo cui il burqa sarebbe di per sé non salutare, perché caldo e scomodo (non sorprende che tale tesi sia stata avanzata in Spagna). Mi sembra forse la più stupida di tutte. (...) Tutte e cinque le argomentazioni che ho riassunto sono discriminatorie. Non dobbiamo neanche scomodarci a toccare la delicata questione del compromesso su basi religiose per renderci conto che sono profondamente inaccettabili in una società dedita alla libertà e all´uguaglianza. Il pari rispetto di tutte le coscienze ci impone di rifiutarle.
(Traduzione di Chiara Rizzo)

Corriere della Sera 27.9.10
Sgarbi si difende da Travaglio La disputa sul «pezzo di m...»
Diventa esilarante la battaglia legale sulla parolaccia detta in tv
Gli avvocati del critico: non ci fu offesa, la natura non è volgare


Tutto cambiato: lo dicono gli avvocati di Vittorio Sgarbi. Che per difendere il cliente, sotto processo per aver definito Marco Travaglio «un pezzo di merda tutto intero», hanno scritto una memoria difensiva la cui tesi epocale è che la popò è sana, bella e «fa bene al corpo ed anche all’anima».
Cerchiamo di capirci: non è la prima volta che un difensore, costretto a difendere l’indifendibile, si arrampica sugli specchi. Resta indimenticabile, ad esempio, l’arringa fenomenale con cui Ippolita Ghedini, sorella del più cel e br e Niccol ò « Ma-va-l à » Ghedini, tentò di minimizzare le parole di Giancarlo Galan, che aveva bollato come comunisti dei giornalisti Rai di Venezia. A dispetto del Cavaliere e delle sue fobie anticomuniste, scrisse l’Ippolita, il soviet non era che un «organo elettivo e dunque espressione di quella democrazia reale che ancora oggi viene rimpianta da molti e l’aggettivo sovietico non ha certo valenza diffamatoria intrinseca». Spasibo tovarisha Ghedinova! Decisi a umiliare la collega nel campionato mondiale d’arrampicata sugli specchi, l’avvocato Giampaolo Cicconi e Fabrizio Maffiodo sono andati oltre. Scrivendo che Sgarbi con «la frase "è un pezzo di merda tutto intero" non ha comunque diffamato il dottor Travaglio, atteso che la frase non ha alcuna valenza offensiva».
Va detto che i due professionisti avevano un compito 2007, quando a Montecitorio si discusse fino a notte se dare o no l’autorizzazione a procedere: urlare a dei poliziotti «mi avete rotto i coglioni!» come aveva fatto Sgarbi rientrava nell’insindacabile esercizio delle funzioni parlamentari? Un dibattito unico al mondo.
Che vide il leghista Rizzi sbottare: «Sono due ore che si parla dei coglioni di Sgarbi, sinceramente ne ho pieni i coglioni». Il capolavoro fu di Filippo Mancuso, che invitò il collega, d’ora in poi, a chiamare i cosiddetti «tommasei», come faceva Leopardi per disprezzo verso l’autore del celebre dizionario. Totale degli interventi a favore e contro: 56.
La passione del critico d’arte, però, è sempre stata quella che i latini chiamavano stercus (genitivo: stercoris). Tra i tanti esempi, ne citiamo uno. Al dibattito parlamentare alla nascita del governo D’Alema, quando il nostro z a z z e r ut o mise a ver bal e : «Onorevole D’Alema, le darei volentieri il mio voto; sono molto tentato di farlo, per aggiungere la mia corruzione alla vostra, aggiungere merda a merda». Insomma, se non temessimo d’essere equivocati diremmo che ce l’ha sempre in bocca.
All’idea di perdere l’immunità, aveva confidato ad Aldo Cazzullo di non avere troppi timori: «Vinco una causa al giorno. Finora, 190 su 270; le altre sono in corso». Spiegò anzi di avere «pronto un libro: Le mie querele. L’editore non lo pubblica per paura di altre querele». In ogni caso sospirò quando fu chiaro che non fosse stato rieletto, avrebbe dovuto per sicurezza contenersi: «Mi toccherà diventare buono e insipido come Prodi». Macché: gli è impossibile.
Era appena stato condannato a pagare 30mila euro (più le spese) a Travaglio per essersi dilungato su questo genere di insulto ad AnnoZero quando, alla trasmissione domenicale su Canale 5 con Barbara D’Urso, rincarò appunto: Travaglio «è un pezzo di merda tutto intero». A quel punto i suoi due legali, presumibilmente su ispirazione «artistica» del loro stesso cliente, hanno steso una memoria difensiva che resterà negli annali. Per loro, infatti, quella lì non è un’offesa. Può essere mai volgare la natura? «Se in un agriturismo ci forniscono prodotti dell’agricoltura biologica significa che essi sono fatti con la merda nel senso che l’agricoltura biologica vuol dire coltivazioni in terreni concimati non con prodotti industriali ma con letame, con la merda, appunto, la quale serve a fertilizzare i terreni». Bucolici.
Inoltre «giova osservare che, un tempo, il letame accumulatosi per tutto l’anno veniva, con la zappa (in genere nel mese di settembre), rivoltato, sbriciolato, miscelato, messo sul carro e sparso nel campo ove si seminavano le fave ed in cui, l’anno appresso, si sarebbe piantato di grano. Le merde, invece, che le mucche depositavano nei campi durante il periodo estivo ed essiccate dal sole formavano delle dense "torte" che venivano raccolte ed immagazzinate e poi usate come combustibile per cucinare la minestra di fave...
(il seguito dell’articolo è disponibile nelle edicole)

domenica 26 settembre 2010

l’Unità 26.9.10
Bersani “vede” le elezioni:
«Fini non può votare la fiducia»
di Simone Collini


Il leader del Pd continua ad auspicare un governo di transizione ma si prepara alle urne
Riforma fiscale e patto sociale: le proposte del partito presentate alla platea di Confindustria
Bersani si aspetta «coerenza» da Fini, quando si voterà la fiducia al governo: «Si è rotto il patto che teneva insieme la maggioranza». Per il leader del Pd sulle accuse relative alla casa di Montecarlo «c’è ancora molto da chiarire»

Ora da Gianfranco Fini si aspetta «coerenza». Perché dopo questo discorso, difficilmente mercoledì il gruppo parlamentare di Futuro e libertà potrà votare la fiducia a Berlusconi. Pier Luigi Bersani lo dice dopo una giornata passata a Genova, per intervenire al convegno di Confindustria dedicata a «occupazione e competitività» e per incontrare un gruppo di sindacalisti della Fincantieri. Il leader del Pd ha guardato «con molta attenzione» il videomessaggio del presidente della Camera. Dice di aver apprezzato la «sincerità» con cui Fini ha annunciato le proprie dimissioni nel caso in cui fossero dimostrate le accuse relative alla casa di Montecarlo, «su cui c’è ancora molto da chiarire». Ma soprattutto, per Bersani l’intervento di Fini «fa emergere ancora una volta una frattura profonda che non promette nulla di buono per il governo del paese»: «Si è rotto il patto che teneva insieme la maggioranza. La crisi è evidente. In queste condizioni la destra non garantisce un governo al paese. E di fronte ai gravi problemi che bisogna affrontare, non si può più attendere che finisca il gioco del cerino».
Per questo, quando Berlusconi avrà parlato alla Camera e si procederà con le votazioni, il segretario del Pd si aspetta un atteggiamento «coerente» da parte del gruppo dei finiani. «Siamo di fronte a una politica avvilente e avvilita, pericolosamente lontana dai cittadini, non so come Berlusconi possa venire in Parlamento e dire che va tutto bene». È arrivato il momento di chiudere questa fase, per Bersani. Che però, rispetto anche a solo qualche giorno fa, rispetto ai passi successivi a una auspicabile crisi di governo si fa poche illusioni.
Bersani continua a ribadire che quando finalmente la crisi politica si tramuterà in crisi di governo la parola dovrà passare al Quirinale e continua ad auspicare un breve governo di transizione che modifichi la legge elettorale. Ma nelle ultime ore il leader del Pd si è andato convincendo che le urne si avvicinano. E si sta muovendo di conseguenza. Non a caso incontrando i segretari regionali e provinciali del Pd ha affrontato la questione di come dare «voce ai territori» nella compilazione delle liste. Non a caso ha detto ai dirigenti nazionali e locali di impostare come una vera e propria mobilitazione da campagna elettorale le tre settimane di “porta a porta” che partiranno il primo week end di novembre con 10 mila gazebo allestiti in tutta Italia. E non a caso ha avviato un giro di confronto con le parti sociali, illustrando quel che farebbe il Pd «se andassimo al governo domani».
CONFRONTO CON CONFINDUSTRIA
Lo ha fatto ieri a Genova, al convegno di Confindustria. In una quindicina di minuti ha dato rassicurazioni sul fatto che non intende impegnare il Pd in un’alleanza stile Unione «sono stato alla Festa di Rifondazione e Pdci e ce lo siamo detto chiaro, abbiamo già dato» perché «se c’è da governare non è cosa», e poi ha illustrato le proposte che lancerà il Pd con l’Assemblea nazionale dell’8 e 9 ottobre. A cominciare da «una riforma fiscale che alleggerisca il carico su imprese, lavoro e famiglie con redditi medio-bassi, caricando invece sui redditi da finanza e patrimonio». Ma di fronte agli imprenditori Bersani insiste anche sulla necessità di «un patto sociale», che però sarà difficile da raggiungere se il governo continua a lavorare per dividere il sindacato. Berlusconi ha anche questa responsabilità, per Bersani: «Se il governo accende i fuochi, chi è che poi li spegnerà?».
In sala gli applausi scattano più volte (in un’ora di intervento il ministro Sacconi non ne incassa neanche uno), quando Bersani assicura che non ci sarà un’alleanza con Prc e Pdci ma anche quando difende le liberalizzazioni e «un mercato pulito», criticando invece «i furbetti che si fanno le leggi per farsi gli affari loro». Poi va a sedersi e ascolta l’intervento della presidente di Confindustria Emma Marcegaglia, che dice al governo «stiamo perdendo la pazienza». Non è «la pazienza è finita» della campagna lanciata dal Pd, ma quasi. «Ci manca solo scherza Bersani con i suoi che dica anche rimbocchiamoci le maniche».

l’Unità 26.9.10
Marino
Pd, discutiamo con passione ma nelle sedi adeguate


Il senatore risponde a Pietro Ichino e Magda Negri che hanno firmato il documento Veltroni «Il discorso del Lingotto va integrato e sviluppato per candidarci a governare l’Italia»
Caro Pietro e cara Magda, la vostra riflessione su l’Unità di ieri mi offre l’occasione per approfondire e chiarire alcuni dei temi che ho affrontato alla Direzione Nazionale del Partito Democratico.

Da nativo del PD, non avendo mai avuto altre tessere di partito, condivido il percorso avviato da Walter Veltroni al Lingotto nel 2007 ma dobbiamo svilupparlo e integrarlo in modo dinamico e liberale, tenendo conto di una società che, spinta da sfide globali, come l’immigrazione, l’energia e la scienza non permette alla politica di addormentarsi né di portare nella borsa il libro delle ricette del secolo passato.
Io mi vergogno e, se possibile, mi adiro più di voi quando sento dire che non è il tempo giusto per proposte nette e moderne. Dieci giorni fa a Bruxelles, chiamato come presidente della Commissione di Inchiesta sul Servizio Sanitario italiano, mi sono sentito rimproverare da una europarlamentare olandese che in regioni come il Lazio l’obiezione di coscienza dei ginecologi ha superato l’80%, non garantendo l’applicazione della legge 194. L’Europa guarda con disorientamento all’Italia e si stupisce che esistano ancora paesi dove due persone dello stesso sesso non possano vivere la loro unione con il riconoscimento della legge. E quale ferita leggere, nell’estate scorsa, di ipotetiche “sante alleanze” che andrebbero dai Comunisti Italiani agli eredi del Movimento Sociale: non è questa l’amalgama che vorrei e che comunque non riuscirebbe a tenere insieme neanche il mago Merlino. Il Presidente del Consiglio ha realizzato in Italia il dantesco quadro: «Ahi serva Italia, di dolore ostello, nave senza nocchiere in gran tempesta, non donna di province ma bordello» e proprio per questo il Pd deve prendere la guida e indicare la rotta sui temi che interessano le persone. Non possiamo perdere un solo istante per disegnare il Paese che ci impegniamo a realizzare: una scuola pubblica moderna non falciata, una sanità pubblica finanziata ma anche sottoposta a valutazioni e verifiche, un utilizzo delle risorse energetiche che provengono dal vento, dal sole e dal calore della terra, una cultura come obiettivo strategico e non vezzo collaterale. E poi, anzi, prima di tutto, il lavoro: con Cambialitalia realizzeremo a breve un incontro tematico dove, insieme a Pietro, spero di vedere tutti coloro che hanno un contributo da offrire a partire da Stefano Fassina, Cesare Damiano e Beniamino Lapadula.
Discutiamo con passione ma nelle sedi adeguate, con tutta l’energia e la convinzione che abbiamo e poi avanziamo la nostra proposta chiara e netta, nell’interesse di chi il lavoro lo vive e non solo ne parla. Ma soprattutto opponiamoci a questo vergognoso Governo, chiediamo di tornare alle urne per il bene del Paese e impegniamoci, con volti nuovi e credibili, a dimostrare che sappiamo leggere la modernità del nostro tempo e tradurla in programmi di governo.

il Fatto 26.9.10
Contro il governo intesa tra Cgil e Marcegaglia
Accordo tra parti sociali per reagire all’immobilismo della politica
di Salvatore Cannavò


“Imprese e cittadini stanno esaurendo la pazienza”, ha detto ieri il presidente di Confindustria Emma Marcegaglia, invitando però il governo ad “andare avanti” perché “ha il dovere di governare”. La tregua con la Cgil siglata ieri al convegno confindustriale di Genova sembra quasi indicare la nascita di un governo ombra “sociale”, contrapposto a un quadro politico che ormai sta stancando gli industriali. Anche nel '92-'93, nel solco della profonda instabilità creata da Tangentopoli, le parti sociali costruirono un clima di intesa e di equilibrio. Il fatto che il “disgelo di Genova” sia avvenuto in contemporanea allo scontro finale tra Gianfranco Fini e Silvio Berlusconi fa pensare a una riedizione di quella stagione.
Le ragioni dell’accordo
L’INTESA con la Cgil era nell'aria e tutti ieri attendevano le parole del segretario generale Guglielmo Epifani e le conclusioni della Marcegaglia, nella giornata finale del convegno degli industriali a Genova. E l'intesa c'è stata. “Un bicchiere mezzo pieno” come l'ha definita la Marcegaglia: Confindustria e Cgil, dopo la distanza sull'accordo di Pomigliano (nello stabilimento Fiat), sono tornate a dialogare. Con inviti all'unità ma anche elogi alla Cisl di Raffaele Bonanni e alla Uil di Luigi Angeletti la leader degli industriali ha approfittato per lanciare un “Patto sociale per le riforme”. Cioè un tentativo di riunire attorno allo stesso tavolo la Confindustria, le altre associazioni imprenditoriali, tutti i sindacati “per un'agenda di riforme” a base di “ricerca, scuola, burocrazia, fisco, energia, mobilità e naturalmente contratti e relazioni sindacali”. Insomma, a Genova torna lo spirito fondativo della concertazione, quello che diede vita agli accordi di luglio del 1993 quando Cgil, Cisl, Uil, Confindustria e governo Ciampi firmarono l'intesa per agganciare gli aumenti salariali all'inflazione programmata.
A giustificare il clima solenne è stato soprattutto l'intervento di Guglielmo Epifani che doveva rispondere alla proposta fatta venerdì dal vicepresidente di Confindustria, Alberto Bombassei, di fare “il tagliando” all'accordo sul modello contrattuale del 2009 dando così modo alla stessa Cgil di sedersi nuovamente al tavolo, visto che all’epoca non l’aveva firmato.
Le concessioni del sindacato
EPIFANI NON HA deluso le attese di Confindustria. Dopo aver insistito sulla necessità che alla crisi risponda un “sistema-Paese” più efficace, con una politica di sviluppo industriale ed economico, il segretario della Cgil è intervenuto sul nodo complicato delle deroghe al contratto nazionale, condannando la pratica degli accordi separati ma indicando chiaramente la necessità di “innovare il sistema contrattuale” offrendo una proposta precisa: “Contratti nazionali più ampi degli attuali settori e più spazio alla contrattazione di secondo livello su orari e inquadramento”. Per inquadramento si intendono i livelli retributivi collegati alle mansioni, quindi anche il salario. “Un modo – dice Sergio Bellavita, della segreteria nazionale della Fiom – per svuotare il contratto nazionale perché con aumenti salariali vincolati all'inflazione, una volta spostato al secondo livello la trattativa su inquadramento e orari, del contratto nazionale resta solo la forma: ma chi ha deciso questa nuova linea?”. La proposta di Epifani è il frutto di un seminario interno della Cgil, tenutosi nei giorni scorsi a Todi, in cui quei due punti erano stati indicati come “cedibili” al negoziato. Epifani non parla di deroghe ma preferisce riferirsi a “nuove regole”, in cui inserisce l’ipotesi di una riforma della rappresentanza anche con referendum confermativi degli accordi in grado “di vincolare qualsiasi
organizzazione sindacale”. L'idea di “nuove regole” è stata subito accolta dalla Marcegaglia: “Quello che conta sono i contratti, non le parole, e a noi interessa l'adattabilità delle regole. Come ha giustamente detto Epifani abbiamo siglato nel 2009 ben 12 mila accordi; cerchiamo di fare 12 mila e uno”. Il riferimento ovviamente è alla Fiom che non ha voluto aderire all'accordo di Pomigliano e che ieri ha scioperato alla Sevel di Atessa (gruppo Fiat) contro gli straordinari di sabato. “Non vogliamo più il teatrino sindacale”, ha detto la Marcegaglia, riferendosi a pratiche sindacali “intollerabili” cioè contrarie agli accordi nazionali. Una richiesta, più o meno implicita, di risolvere il “problema Fiom” – a Pomigliano sono previste sanzioni per chi sciopera contro materie del contratto – e su cui Epifani non si è pronunciato. Cgil e Confindustria, dunque, confermano di non voler fare a meno l'una dell'altra. “La crisi della politica – ha commentato la Marcegaglia a margine del convegno spinge le forze sociali ad unirsi”. Se l'unione si tradurrà in accordi lo si vedrà nella discussione sul “Patto sociale per le riforme” che prenderà le mosse il 4 ottobre e che, nelle forme presentate ieri, condito anche da una presa di distanza dal “teatrino della politica”.

l’Unità 26.9.10
Intervista a Maurizio Landini
«Pronti a dialogare se prima si bloccano le trattative separate»

Il segretario Fiom: «Se venisse distrutto il contratto nazionale ci sarebbe uno strappo democratico non molto diverso da quelli di questo governo»

Tutto si può dire di Maurizio Landini, ma non che manchi di coerenza. Mentre il clima politico-sindacale si rischiara e le recenti aperture al dialogo tra Confindustria e Cgil promettono tentativi di disgelo, il segretario Fiom mantiene la linea tenuta finora. E sfida gli industriali a mostrare con fatti concreti lebelle parole pronunciate a Genova.
Il vicepresidente di Confindustria ha chiamato al confronto tutto il sindacato, anche quello che non ha firmato. Lei che cosa risponde?
«Se Bombassei vuole davvero ragionare con tutto il sindacato di crescita e competitività, allora deve invitare Federmeccanica ad interrompere le trattative separate con Fim e Uilm sul contratto dei metalmeccanici. Se Confindustria vuole davvero un confronto sulle regole rispettoso di tutte le parti, la prima cosa da fare è un accordo sulla democrazia e la rappresentanza sindacale».
Guglielmo Epifani, pur con cautela, ha risposto positivamente.
«Abbiamo recentemente fatto un seminario a Todi alla presenza di tutti i gruppi dirigenti della Cgil, ma nessun organismo direttivo del sindacato ha definito e approvato un piano di proposte. Mi limito ad osservare che se, nel frattempo, verrà distrutto il contratto delle tue blu, ci troveremo di fronte ad uno strappo democratico di Confindustria non molto diverso da quelli a cui ci ha abituato questo governo».
La presidente Emma Marcegaglia, però, ha preso le distanze dal governo. Pare abbia finito la pazienza. «Ma non si capisce che cosa debba riguardare il patto sulla produttività proposto dall’associazione. Finora Confindustria ha condiviso tutte le scelte del governo, compresi il piano di Sacconi per smantellare lo Statuto dei lavoratori e il condono fiscale. Sinceramente, accorgersi ora che siamo senza una politica industriale sembra una mossa politica in vista di possibili elezioni».
Purtroppo, però, risponde a realtà.
«Nel settore metalmeccanico siamo ben lontani dall’uscita dalla crisi, come dimostrano i settori della cantieristica, dell’automobile e degli elettrodomestici, dove la totale assenza di una politica di sostegno all’innovazione e alla ricerca ha effetti pesanti sui prodotti e sulle prospettive. All’estero si è scelto di sostenere le aziende che investivano e non licenziavano, qui ci si è limitati ad incentivi che, per assurdo, hanno favorito i prodotti più innovativi provenienti dall’estero».
E non abbiamo un ministro dello Sviluppo economico. «Da ben cinque mesi. Ma politiche di stampo europeo non si sono viste nemmeno quando un ministro c’era. L’unica politica industriale del governo si basa sulla limitazione dei diritti del lavoro. E questa arretratezza la sconta anche Confindustria, che sta usando la crisi per ridiscutere i contratti. Ma la produttività non si fa con lo sfruttamento, non si misura nella quantità, ma nel valore prodotto: il punto critico è la qualità della nostra produzione industriale. Anche per questo sarebbe un errore cancellare il contratto nazionale: le imprese devono competere da un certo livello in su, non al ribasso sul costo del lavoro».

Chi è
Il volto gentile e radicale dei metalmeccanici Cgil

Maurizio Landini inizia giovanissimo a lavorare come apprendista saldatore in una fabbrica metalmeccanica emiliana. Già segretario della Fiom di Reggio Emilia e dell’Emilia-Romagna, prima di entrare nella segreteria nazionale, dal luglio 2010 succede a Gianni Rinaldini e diventa segretario generale delle tute blu Cgil.
La Fiom continua a scegliere il conflitto. È una scelta che paga? «Noi stiamo semplicemente facendo il nostro lavoro di sindacato. Siamo senza una politica industriale, vogliono distruggere il contratto nazionale e chiudono le fabbriche: chiediamo solo che si affrontino i problemi delle persone che lavorano. E voglio ricordare che la Fiom è il sindacato che firma più accordi aziendali, come le imprese ben sanno».
La manifestazione Fiom del 16 ottobre ha forti contenuti politici. «Quella manifestazione nasce a Pomigliano, quindi ha contenuti decisamente sindacali. Ma certo la posta in gioco è alta la libertà dei lavoratori di contrattare la propria posizione e non riguarda solo le tute blu, ma tutti i lavoratori italiani. E solo attraverso la democrazia si può ricostruire l’unità sindacale: in caso di disaccordo tra i sindacati, o sono i lavoratori a decidere con il proprio voto, o solo le aziende a scegliere le organizzazioni che preferiscono».

il Fatto 26.9.10
Italia: notizie dai confini
L’uccisione della donna che ha denunciato lo stupratore della sua bimba, le intercettazioni di Cosentino inutilizzabili, Napoli di nuovo in fiamme: qualcosa lega questi fatti
di Furio Colombo


La frase è questa: “Lo so che poi tocca a me. Non è che mi faccio illusioni. Dico solo che qui siamo soli. Io vado avanti. Faccio il mio lavoro ma lo so che ogni giorno può succedere. Qui è così”. Voce di uomo, appena un po’ stanca, ma senza costernazione e senza lamento. È una mattina di settembre (mercoledì 22) , è un programma giornalistico quotidiano della radio di stato italiana (“Tutta la città ne parla”, RadioTre3, ore 10, conduce Giorgio Zanchini). La voce appena un poco stanca l’ho ascoltata dal luogo in cui una donna, Teresa Bonocore, era stata assassinata due giorni prima per aver denunciato e fatto condannare l’uomo che ha stuprato la sua bambina (e un’altra bambina) di otto anni. Colpevole o no, qui come nella vita politica della capitale, non importa il delitto, ma chi ti fiancheggia e chi ti protegge. E così Teresa Bonocore è stata uccisa da due ragazzi ventenni dietro compenso di cinquemila euro e la promessa di un posto di lavoro. Pochi giorni prima era stato ucciso il sindaco di Pollica (periferia di Salerno), Angelo Vassallo. Era solo, nove di sera, tornava a casa.
La voce appena un po’ stanca che riflette su questi delitti con il giornalista Zanchini è di Vincenzo Cuomo, sindaco di Portici, il borgo napoletano di Teresa Bonocore. Il sindaco parla alla radio di Stato della sua possibile uccisione, oggi, in Italia. E per quanto la trasmissione che diffonde quella voce sia unica per precisione e coraggio, non c’è, né sul momento né dopo, alcuna reazione o conseguenza o emozione o commento. Non so: un vescovo, un sociologo, la firma di un giornale, i cittadini.
Il caso Cosentino
C’È PERÒ una coincidenza. Quella stessa mattina la Camera dei deputati ha dovuto votare se permettere ai giudici di utilizzare le intercettazioni di un politico di rilievo, l’ex sottosegretario Nicola Cosentino, tuttora coordinatore del partito di governo (PDL) per la Campania, ovvero della regione di Pollica, di Portici, del sindaco ucciso e di quello che parla della sua possibile uccisione. E' la regione di Teresa Bonocore e del ben difeso stupratore di bambini, che però – si capisce – nella vita ha ben altri impegni. C’è esagerazione in queste righe? No, direi che c’è una triste pedanteria. Perché quelle intercettazioni richieste come prova processuale riguardavano l’accusa e l' arresto di un deputato potente per gravi reati di camorra. Non violavano il divieto di intercettare deputati perché le intercettazioni discusse riguardavano altre persone, e la presenza del deputato, allora al Governo (e il legame intimo con la malavita che le conversazioni registrate hanno dimostrato) è stata un importante imprevisto investigativo. Ma nessuno si preoccupi per eventuali offese ai diritti di personaggi eletti. Nonostante il peso e l’evidenza delle accuse e il legame di diretta responsabilità politica di Cosentino nei territori della morte di cui aveva parlato la mattina di quel giorno il programma di RadioTre dal titolo esemplare “Tutta la città ne parla”, la libera decisione dei deputati della Repubblica italiana è stata la seguente: 308 voti a sostegno di Nicola Cosentino, per impedire ai giudici di usare le intercettazioni che provano lo stretto legame del notabile politico con la camorra. 265 a sostegno dei giudici. Voto segreto che lascia capire che non tutti coloro che avevano annunciato di votare secondo la legge (che accusa Cosentino) lo hanno fatto. Evidentemente – voto segreto o no – qualcuno si è sentito a rischio. Chi ha verificato i tabulati suggerisce che persino dall’opposizione qualcuno si è messo al riparo dal rischio Berlusconi-Cosentino-camorra che, ammettiamolo, nell’Italia di oggi non è poca cosa.
Però qualcosa deve essersi incrinato nel filo di lunga armonia fra camorra e Governo. Tornano all’improvviso i cumuli di immondizia che bloccano Napoli. Ciascuna di queste storie spiega l’altra. I telegiornali mostrano le strade di Napoli come negli ultimi giorni di Prodi. Barricate di immondizia, popolazioni in rivolta nelle strade, camion di rifiuti incendiati, tumulti di donne contro i battaglioni di polizia in tenuta da sommossa, cronache concitate che non raccontano né l’inizio, né l’esito di ciò che sta accadendo. Si direbbe che il dio della camorra non è stato placato dai delitti, perché il sangue è il suo business (il sindaco di Portici, mentre parlava a RadioTre, ha elencato senza enfasi i nomi di altri sindaci uccisi, non la storia di anni, ma la cronaca di giorni). Il dio della camorra, che aveva realizzato il celebre miracolo (attenzione, è arrivato Berlusconi, oggi l’immondizia c’è, domani è sparita, strade pulite e cassonetti in ordine, mai vista una cosa simile?) adesso non si fida. Infatti il padrone di Cosentino appare rimpicciolito, spaventato dai suoi ribelli, troppa gente infida che lo sta abbandonando. Se c’è un patto, come farà – con tutta la buona volontà – a mantenere quel patto? La camorra non è un alleato politico che compensa questo con quello. È un socio d’affari . Se non vede dividendi, va a prenderseli. Per prenderseli entra in azione. Come fai a continuare a fidarti di un capo di Governo così piccolo, così debole, così distratto dalle vendette private? Ecco dunque che è guerra. Colpisce la sequenza dei fatti e la coincidenza dei tempi. Forse molti di noi, nell’euforia di avere notato l'inizio della caduta di Berlusconi, avevano prestato un’angosciata attenzione al furibondo vandalismo istituzionale che sta segnando quella caduta (distruggere dal bunker la terza carica dello Stato come modo di destabilizzare anche gli aspetti ordinari e quotidiani della vita pubblica e renderla impossibile). Ma non avevano previsto le conseguenze del frantumarsi di un patto fra illegalità e malavita, che controlla indisturbata un terzo dell’Italia, nonostante il tarlo di giudici ostinati, di sindaci che conoscono il proprio destino e lo possono anche raccontare a un Paese inerte, di poliziotti senza mezzi, persino senza benzina, che non hanno mai smesso di fare il proprio lavoro impossibile.
I precari del crimine
ECCOCI dunque al momento in cui la Repubblica Italiana fa il suo incontro, accanto al cadavere di Teresa Bonocore, con Enrico Perillo, di professione camorrista, che dal carcere è in grado di uccidere chi lo ha denunciato per lo stupro di una bambina e ci accorgiamo che – in questa scena – lo stupro è un dettaglio, l’uccisione è un lavoro quotidiano, (Roberto Saviano) gli esecutori di quel lavoro sono precari del crimine, che sparano a prezzi stracciati con la promessa di un posto, mentre sullo sfondo si accendono i fuochi di montagne di immondizia che rischiarano la torbida scena e danno un senso alla vita che stiamo vivendo e a quella che sta per venire. Ah, se avessimo un partito o uno schieramento politico per ritrovarci insieme a parlare di queste cose, a domandarci (ma per rispondere chiaro, subito): “Che cosa fare adesso? Che cosa fare dopo?”.

Repubblica 26.9.10
Se l'Europa caccia i Rom

di Nadia Urbinati

Forse, mai prima d´ora l´Unione Europea aveva attraversato una crisi così radicale. Non perché prima d´ora non vi fossero mai stati dissidi fra gli stati membri sulle politiche comunitarie, ma perché per la prima volta il dissenso riguarda i principi fondamentali sui quali l´Unione è nata. Il governo francese e quello italiano sono alla testa di questa crisi e portano la diretta responsabilità di un ritorno arrogante ad una politica delle frontiere quanto addirittura delle espulsioni di massa. L´Articolo 19 della Carta dei Diritti dell´Unione Europea stabilisce che «le espulsioni collettive sono vietate». Nel testo di questo articolo riecheggia la storia europea del Novecento, quelle terribili tragedie che portano i nomi di Olocausto, genocidio e pulizia etnica, la persecuzione e il massacro di individui colpevoli di appartenere a un gruppo etnico o nazionale o di professare una religione. Ebrei e gitani subirono morendo a milioni la conseguenza di una delle più orrende ideologie che abbia prodotto il nostro continente: la stigmatizzazione collettiva, la persecuzione di individui a causa della loro appartenenza a una comunità che non si conforma per una qualche ragione alla cultura e ai modi di vita della comunità nazionale di maggioranza. Le radici dell´Unione Europea sono nei campi di sterminio - da questa memoria occorrerebbe partire quando si giudicano le azioni dei governi.
Non consoliamoci dicendo che gli zingari espulsi in questi mesi dalla Francia, e quelli che il governo italiano promette di espellere ed espelle dal nostro paese, non sono spediti nei campi di concentramento; che, anzi, come nel caso francese, sono "invitati" ad andarsene e accompagnati alle frontiere con in tasca il biglietto di viaggio (di sola andata) pagato con le tasse dei contribuenti. La forma "civile" dell´accompagnamento al confine non cambia la natura gravissima del fatto al quale stiamo assistendo senza, purtroppo, preoccuparci abbastanza: una discriminazione collettiva, una violazione della libertà delle persone - tra l´altro europee - in ragione della loro identità, per ciò che sono. In violazione di un altro articolo della Carta dell´Unione, l´Articolo 21: «È vietata qualsiasi forma di discriminazione fondata, in particolare, sul sesso, la razza, il colore della pelle o l´origine etnica o sociale, le caratteristiche genetiche, la lingua, la religione o le convinzioni personali, le opinioni politiche o di qualsiasi altra natura, l´appartenenza ad una minoranza nazionale, il patrimonio, la nascita, gli handicap, l´età o le tendenze sessuali».
È triste e molto preoccupante che nessuna voce laica, nessuna voce politica si sia immediatamente alzata con chiarezza e coerenza per criticare queste proposte o decisioni, per esprimere dissenso e orrore per una pratica che il nostro governo ha reso se così si può dire ordinaria. È sconfortante vedere come la cultura dei diritti umani non sia patrimonio solido della politica culturale dei partiti e dell´opinione pubblica; come solo la Chiesa si alzi per criticare queste decisioni, che solo essa senta il dovere di ricordarci che il nostro paese, come la Francia, ha sottoscritto la Carta dei diritti e quindi anche gli Articoli 19 e 21; che dunque nessun governo europeo può autonomamente decidere in riferimento a una politica europea che stabilisce sostanzialmente il diritto di insediamento e di movimento; che i problemi di integrazione vanno affrontati con politiche di integrazione non con politiche di espulsione. Un discorso che è squisitamente politico e che, soprattutto, è essenziale per la vita dell´Unione. Eppure non sembra appartenere al linguaggio della nostra politica, dei nostri politici.
È significativo che questa recrudescenza della politica cosiddetta della sicurezza avvenga in queste settimane; significativo, perché sembra l´effetto di un´azione la cui regia fa capo a governi che cercano di distogliere con la propaganda contro i Rom l´attenzione per le difficoltà nelle quali versano le loro economie e di mettere a tacere la loro crisi di legittimità. È un caso che tra i punti del programma che il nostro governo ha sfornato (e del quale relazionerà tra qualche giorno il suo leader) vi sia in primo piano quello della sicurezza? È un caso che il Presidente Sarkozy, con un governo nella bufera per scandali e corruzione, con un consenso alle politiche economiche bassissimo, voglia distrarre l´opinione pubblica del suo paese aprendo un contenzioso con l´Unione Europea su un punto cruciale come questo? Il montante nazionalismo usato come espediente per salire nei sondaggi: in Italia come in Francia è questa la strategia che sta dietro la propaganda del "pugno duro" con gli zingari e gli immigrati. Anche a costo di mandare in frantumi una nobile cultura politica comunitaria. Il dissenso che si è aperto nell´Unione Europea prefigura una sfida gravissima ai valori dei diritti umani e della dignità delle persone sui quali è nata l´Unione.

l’Unità 26.9.10
Si è aperta ieri a Roma la due giorni di lavoro per il rilancio dell’istruzione pubblica
Oltre i tagli e gli addestramenti militari
Le ricette Pd per il rilancio della scuola
di Felice Diotallevi


Quattro gruppi di lavoro, due giorni di discussione, più di 300 fra insegnanti, esperti e sindacalisti. Si sono aperti ieri a Roma i lavori del Forum nazionale organizzato dal Pd sui problemi della scuola pubblica.

Il tempo pieno e il modulo a 30 ore con le compresenze nella primaria e un sistema di valutazione che aiuti le scuole a migliorare i livelli di apprendimento degli studenti. Sono alcuni dei punti sui quali verte la proposta del Pd «per una scuola pubblica di qualità» al centro, ieri e oggi, del forum organizzato dal partito a Roma, coinvolgendo circa 300 fra insegnanti, esperti, sindacalisti, rappresentanti delle associazioni di settore, divisi in quattro gruppi di lavoro. «Se il ministro Gelmini, dopo aver licenziato 132 mila fra insegnanti e collaboratori, si diverte con l’educazione militare insieme al ministro La Russa, il Pd ha affermato Francesca Puglisi, responsabile scuola dei Democratici è al lavoro per preparare la scuola pubblica aperta e di qualità di cui l’Italia ha bisogno per tornare a crescere». Da questo «percorso partecipato», dopo la prima Festa della Scuola a Bologna che ha dato avvio al confronto, nascerà la proposta complessiva che sarà presentata e discussa nell’assemblea nazionale del Pd, in programma a Varese l’8 e 9 ottobre. Tra le questioni ritenute prioritarie: l’investimento in educazione di qualità 0-6 anni, la necessità di «innovare profondamente» la scuola media e superiore, «partendo dalle buone pratiche didattiche sperimentate nelle scuole autonome, per combattere la dispersione scolastica e alzare i livelli di apprendimento degli studenti». Nel ventaglio delle proposte del Pd anche quella di tenere scuole aperte tutto il giorno e tutto l’anno «per far diventare la scuola il cuore pulsante delle comunità locali» e l’istituzione di un sistema di valutazione che oltre ad aiutare le scuole a crescere e migliorare i livelli di apprendimento degli studenti, sappia valorizzare i diversi percorsi di carriera degli insegnanti che si potranno realizzare all’interno della scuola autonoma.
«Una scuola responsabile, autonoma, capace di valutare ed essere valutata» è la ricetta proposta da Giovanni Bachelet, presidente del Forum. «Abbiamo voluto organizzare questa due giorni di seminari, aperta a tutti, anche ai partiti dell’opposizione ha spiegato inaugurando i lavori per capire dove è più urgente intervenire. Dove, da subito, dobbiamo mettere per prime le mani. La scuola del futuro dovrà formare cittadini anche nella personalità, intervenendo in senso civico e in senso di preparazione al lavoro, con insegnamenti continui che mirino ad elevare le capacità critiche». Punta più sull’autonomia, invece, Francesca Puglisi: «per dare gamba alla riforma del titolo V della Costituzione, e poi perché ce lo chiede la Ue». La responsabile scuola del del pd continua: «Nessuno meglio degli enti locali dice conosce bisogni educativi ed esigenze sociali del proprio territorio: l’istruzione italiana, nonostante tutto, si attesta su livelli d’eccellenza. Valorizziamo dunque le buone pratiche scolastiche, già esistenti nelle scuo-le dell’autonomia, che aiutano i ragazzi a raggiungere buon livelli di apprendimento». Per la puglisi «i gioielli di famiglia del settore sono, ad esempio le scuole primarie e dell’infanzia, il modulo della 30 ore di compresenza degli insegnanti, utilissime agli studenti rimasti un po’ indietro. Tutte cose che con i tagli della Gelmini possono essere svenduti».

il Fatto 26.9.10
Scuola, i sindacati uniti in piazza
La situazione è al collasso: Cgil, Cobas e gli altri sindacati di base devono trovare punti di convergenza: è ora di silenziare vecchi dissapori e fronteggiare l’emergenza
di Marina Boscaino


Da più di 2 anni la scuola italiana è in mobilitazione permanente. Vuoi nelle modalità collaborative e collegiali che appartengono alla bella cultura della scuola primaria, vuoi nella dimensione sfrangiata e quasi balbettante -spesso individuale che ormai da tempo caratterizza la superiore, la scuola protesta. È vero, sono stati i precari a restituirle la dignità del risveglio da lungo torpore; dallo stato di acquiescenza passiva che ne ha caratterizzato gli ultimi anni e ha confermato pericolose tendenze a divorare energie volontaristiche, entusiasmi a costo 0, che hanno tenuto a galla il sistema dell'istruzione, punte di diamante di una professionalità in declino, costretta da scelte bipartisan – prima tra tutte l'autonomia degli istituti – a convertire genuine vocazioni didattiche a logiche del mercato. Elemento neutro per gli strateghi del Miur – Gelmini, nonostante interrogazioni parlamentari, scioperi della fame, scuole al collasso continua nel suo silenzio autoreferenziale, confrontandosi solo con media compiacenti o interlocutori fidati -, la protesta ha riattratto la parte della società civile che avverte il disagio del presente. Varie le strategie di sensibilizzazione dei collegi docenti più motivati e responsabili: è bene, infatti, che più “utenti” (sic!) possibile capiscano che i tagli sul sistema-scuola non sono soltanto l'allontanamento coatto di 140.000 donne e uomini senza nome e volto. Ma si abbattono tragicamente sul funzionamento delle scuole. Non sto parlando di bonifica dall'amianto o messa in sicurezza degli istituti: sono progetti per un altro mondo. L'impoverimento nella scuola di tutti i giorni si tocca con mano: -72.4% i fondi per le supplenze; -50% i fondi per didattica e amministrazione; -25% per le pulizie. Il debito che il ministero ha contratto con gli istituti ammonta a 1,5 mld. Le scuole sono al collasso e si sostengono con gestioni virtuose dei pochi fondi che arrivano e al cosiddetto “contributo volontario” delle famiglie, che ormai è una tassa, di ammontare variabile e oggi sempre più adoperata per la gestione ordinaria. Che cosa succederebbe se le famiglie italiane decidessero di appellarsi alla “volontarietà” del pagamento e smettessero di versare, è facilmente immaginabile. Altrettanto immaginabile è cosa succederà se – come si sta proponendo – i docenti decideranno di smettere di fare attività aggiuntive; non accettare più nelle proprie classi studenti privi di sorveglianza di un docente assente o non aumentare il proprio orario contrattuale assumendosi gli spezzoni precedentemente assegnati ai precari, motivati e non sovraccarichi delle canoniche 18 ore: è questa la faccia più triste della strategia di “risparmio” che vari dirigenti scolastici attuano in mancanza di nomine. L'impoverimento dell'offerta formativa andrebbe a ricadere in primo luogo sugli alunni. Perché dovremmo cercare di attutire il disagio, di nascondere le difficoltà, che la “cura da cavallo” Gelmini-Tremonti ha creato e che si amplificano di anno in anno? È davvero civicamente responsabile ammortizzare i colpi del malgoverno e dello spregio che questa classe dirigente ha per la scuola pubblica? Una risposta l'avrei: chiedere ai più sensibili interlocutori dei lavoratori della scuola – la Cgil, i Cobas e altri sindacati di base– di trovare punti di convergenza per una giornata di sciopero unitario. È ora di silenziare vecchi dissapori e prepararsi a fronteggiare – insieme emergenze immediate e progetti di attacco a libertà di insegnamento e diritto alla dignità del lavoro.

l’Unità 26.9.10
I bambini e le nostre paure
di Andrea Boraschi


A Sonnino, qualche giorno addietro, è stato pacificamente risolto uno di quei casi piccini che, solitamente, rimbalzano sulle cronache nazionali per divenire presto parodia di guerre sante. Una madre di origine marocchina, residente da oltre un anno nella cittadina in provincia di Latina, era solita accompagnare il figlio all’asilo indossando un burqa (così stando alla stampa: invero, dalle foto che si son viste e dalla provenienza della signora, è più probabile indossasse un niqab). Ed ecco il “caso”: bambini così dicono – spaventati da questa insolita figura di genitore, mamme preoccupate per la reazione della loro prole e timorose per la non identificabilità di una persona che, pure, accede alla scuola quotidianamente. In molti cominciano a sollevare il problema, prima rivolgendosi alla direttrice dell’istituto poi al sindaco; con toni che non sono di ostracismo e che, tuttavia, chiedono soluzione a una controversia tanto culturale quanto pratica. E la controversia si risolve presto e serenamente: la donna e suo marito, imam, acconsentono a che il volto di lei rimanga scoperto all’interno dell’asilo. Niente più paura di quella “maestra nera” (così pare l’avessero ribattezzata i bambini), niente più dubbi sull’identità di chi entra, esce, porta via un minore affidato alla scuola.
Non è banale che la storia si sia risolta così, presto e con la disponibilità di tutte le parti a trovare un compromesso ragionevole. Ma il buon senso mostrato da chi, suo malgrado, ne è stato protagonista non risolve le questioni profonde che vi sono a monte. Incidentalmente chi scrive è padre di una bimba di poco più di due anni, che frequenta un asilo. In circostanze analoghe non sarei stato tra coloro che hanno chiesto alla madre maghrebina di scoprirsi il volto. La questione “identificabilità” di chi accede a una struttura simile è risibile: non ce lo vedo proprio no un malintenzionato che per non essere riconosciuto decide di indossare un velo integrale. Per il resto avrei parlato, qualora ve ne fosse stato bisogno, con mia figlia. Spiegandole qualcosa che non conosce e iniziando a farle capire che il mondo è un luogo ricco di infinite varietà di costumi, usi, credi, tradizioni. Non tutti condivisibili: ma tutti da rispettare sin quando non minacciano o ledono la nostra vita. Sapendo che i bambini possono sì coltivare paure, ansie: ma che spesso le riservano per cose che noi troviamo innocue e altre volte le ignorano per ciò che invece, a torto o ragione, ci fa davvero paura.
Quegli stessi bambini proverebbero disagio o timore di fronte a un uomo, genitore di un loro compagno di scuola, vestito da donna? E dinanzi a un “punkabbestia”? A una mamma maniaca del piercing? O forse la proverebbero, inducendola e coltivandola in loro, gli altri genitori?

il Fatto 26.9.10
L’appello dei Verdi: “Lavoriamo insieme”


È finita l’esperienza dei Verdi. Il “Sole che ride”, nato nel 1986 a Finale Ligure, tramonta per lasciare il posto ad un “nuovo soggetto ecologista, che nascerà dopo una Costituente, dal basso, ma che può già vantare le firme di personalità” come il meteorologo Luca Mercalli, il geologo Mario Tozzi e addirittura il regista Mario Monicelli. Angelo Bonelli, che nella storia dei Verdi sarà l’ultimo presidente, lancia un appello al Movimento 5 Stelle: “Il dialogo importante, possibile e concreto lo vedo con la gente di Beppe Grillo. Magari lui risponderà picche, ma sarebbe un buon segnale per il Paese. Poi, sia chiaro, non sto chiedendo a Grillo di dialogare con me, ma un confronto permanente con i nostri militanti e con i firmatari di questo nuovo progetto”, fra cui anche il comico Giobbe Covatta, la regista Francesca Comencini e l’economista Loretta Napoleoni.
LA SINISTRA? Dopo anni in cui i Verdi hanno camminato al fianco dei partiti della sinistra radicale, l’altra svolta di Bonelli è quella di abbandonare questo schema: “L’ecologia non è di sinistra, è un patrimonio di tutti i cittadini, quindi dobbiamo riuscire ad essere trasversali. Perché non è più accettabile che in Italia il movimento ecologista sia marginale. Se in Germani si può ottenere il 24 per cento e il 16 in Francia, dove è stata fatta un’esperienza analoga a quella che vogliamo avviare ora noi, si può anche qui. Ma andare oltre la destra e la sinistra – qui Bonelli parla proprio come Grillo – è quindi essenziale, anche perché non dimentichiamo che giunte di centrosinistra hanno cementificato interi pezzi d’Italia”.
VENDOLA ADDIO. Anche con il compagno Nichi Vendola, nel cui partito (Sinistra ecologia e libertà) sono confluiti pezzi della formazione di Bonelli, le strade si dividono nettamente: “Chi è andato con Vendola si è dato un obiettivo comprensibile e rispettabile: quello di rifare la sinistra. Noi abbiamo tutto un’altro progetto per il futuro. Per questo, ribadisco, l’unico vero dialogo possibile oggi lo vedo con il movimento di Grillo, il più sensibile a tematiche come le nostre”. Nel nuovo documento ecologista, infatti, si legge: “Va cambiato l’attuale modello di sviluppo economico e di consumi, responsabile dei cambiamenti climatici e globali in atto, basato sull’uso delle fonti fossili e su un consumo senza limiti delle risorse naturali, su produzioni intensive animali, che ha generato e genera nella Terra povertà, squilibri e guerre”. Per Bonelli “il nostro è un atto di amore e di coraggio, superarci per riaggregare”.

il Fatto 26.9.10
“La Chiesa risponderà di crimini contro l’umanità”
Prevista per fine ottobre a Roma una manifestazione internazionale contro il Vaticano
Nasce a Verona l’associazione italiana delle vittime dei preti pedofili sul modello americano
di Marco Politi


Le vittime cercano la     parola. Uomini e donne abusati dai preti nell’infanzia escono allo scoperto per rivendicare i loro diritti. A Verona li ha invitati il Gruppo “La Colpa”. Sono un centinaio di persone venute alla Gran Guardia, praticamente di fronte all’Arena, all’insegna di un manifesto dove un ragazzo trascina la sua croce, issato sulle spalle di un chierico minaccioso. Tra loro una quarantina di vittime e familiari. L’atmosfera è molto particolare. Loro, ex ragazzi con i capelli un po’ spruzzati di grigio, si sono ritrovati con il coraggio, la timidezza, la speranza e l’imbarazzo di chi per la prima volta in Italia deve dire all’opinione pubblica “Subivo in silenzio”. Tra gli stuprati c’è chi parla, chi si limita ad ascoltare, chi si nasconde, chi non se l’è sentita di venire e affida il suo racconto ad una mail. Fa impressione vedere qualcuno degli ex allievi del “Provolo” (l’istituto veronese per sordomuti, gestito dal clero, dov’è scoppiato uno scandalo nazionale) che articola faticosamente le parole, mimando il suo irrigidirsi quando il prete o l’assistente laico cominciava ad accarezzarlo. Gianni Bisoli racconta al Fatto il suo calvario iniziato a 13 anni con il prete che lo seguiva in bagno, lo chiamava di notte dal dormitorio, se lo portava in giro in macchina e lo sodomizzava. Per quattro volte, racconta, fu portato anche dal vescovo dell’epoca, che lo molestò. C’è chi comincia il suo racconto e bruscamente lo interrompe, perché non ce la fa a proseguire. Francesco da Padova ce la fa. E ricorda quei preti e quelle suore, che con la scusa di punire iniziavano a toccare. La cosa peggiore, dice, era sapere che i genitori non avrebbero creduto o avrebbero minimizzato: “E allora ti senti in colpa e anche bugiardo”.
Regalini, dolcetti e caramelle
INTERVIENE una donna ed è felice di non dover tacere. “Scusate se parlo disordinatamente – dice – perché sono tesa”. Ricorda le confessioni con il prete, che le chiedeva dove si grattasse sotto la gonna. Tornano ossessivamente nei discorsi i “regalini” dei predatori alle vittime. La caramella, il dolcetto, il gelato. Tra i messaggi di chi ha avuto vergogna a venire c’è quello di un uomo, che odia ancora oggi la “caramella al rabarbaro” e non ha dimenticato la riposta che il vescovo della sua città diede a sua madre, che era andata a denunciare le molestie del sacerdote amico di famiglia: “Il vescovo sconsigliò assolutamente di fare denunce per il bene mio (che ero adolescente) e per non dare dolore alla madre del prete!”. Una reazione classica da parte della gerarchia. “In Italia – sottolinea Salvatore Domolo, ex sacerdote e uno degli organizzatori del convegno – si è tentato di distinguere il prete pedofilo dall’istituzione, dimenticando l’assoluta complicità della gerarchia in questo enorme crimine”. C’è sempre stato il silenzio e l’atteggiamento della Chiesa di voler “difendere la propria immagine”, risolvendo il problema attraverso lo spostamento del colpevole da una parrocchia all’altra. Anche Domolo, che si è sbattezzato nel 2009, quando era ragazzo è stato abusato da un prete, poi si è fatto prete lui stesso e quando sono riemerse le angosce il suo padre spirituale lo accompagnava personalmente (e assisteva) alle sedute di terapia. “Così l’istituzione controlla. E quando non controlla, tenta di spiritualizzare il problema”, affogandolo nell’ideologia di una prova di sofferenza redentiva.
Ma i conti non tornano. Un messaggio arrivato al convegno è un grido: “Dall’età di dieci anni, hanno abusato di me per quattro anni. Poi ne sono uscito. Sono infelice. Ho perso il lavoro, ho tentato per tre volte il suicidio, il matrimonio è fallito, i figli mi odiano. Ho paura di avere tendenze pedofile, guardo i ragazzi in piscina... aiutatemi prima che mi uccida!”.
Francesco Zanardi di Savona si è trasformato da vittima in detective. Racconta che il pretepredatore Luciano Massaferro, già condannato a tre anni di carcere, se n’è andato in Svizzera e ora è tornato segretamente in Liguria. Un altro prete pedofilo pakistano, Yousuf Dominic, cacciato da Londra, emigrato nel Texas dove ha commesso altri crimini, aveva trovato ospitalità recentemente in un convento ligure. (Forse sentendosi scoperto, è morto d’infarto pochi giorni fa).
Testimonianze infinite. Ma nel convegno ci si è presi l’impegno di costruire una rete, un coordinamento delle “vittime italiane” per farsi sentire come negli Stati Uniti, in Irlanda, in Germania. A Roma, preannuncia Marco Lodi Rizzini, è in programma per il 31 ottobre una grande riunione delle associazioni internazionali di abusati dal clero per chiamare il Vaticano alle sue responsabilità. “Crimini contro l’umanità”, è l’accusa riecheggiata a Verona.
Perché l’inerzia della gerarchia è diffusa. A Verona, dopo violenti polemiche, il vescovo Zenti e il rappresentante delle vittime del “Provolo”, Giorgio Dalla Bernardina, si sono incontrati a luglio per deporre le armi ed è stato deciso di istituire una commissione d’inchiesta. Don Bruno Fasan, portavoce della diocesi, comunica che una prima relazione è già stata mandata nel 2009 alla Congregazione per la Dottrina della fede. Ora, spiega, sono
in corso audizioni degli ex allievi del “Provolo”. Replica Dalla Bernardina: “Tutte parole, niente fatti, Chiediamo un confronto pubblico tra le vittime e i colpevoli”.
E il cardinal Bagnasco non risponde
NEGLI ALTRI PAESI europei l’episcopato ha istituito commissioni d’inchiesta, numeri verdi e responsabili nazionali per ascoltare le vittime. In Italia non è successo finora nulla. Domani si riunisce il Consiglio permanente della Cei. C’è da vedere se porterà novità. Intanto Roberto Mirabile, presidente dell’associazione anti-pedofilia “Caramella Buona”, sta cercando da mesi di incontrare il cardinale Angelo Bagnasco per informarlo di due gravi casi. Il cardinale non vuole, il segretario non dà risposte, la segreteria telefonica è muta.

Corriere della Sera 26.9.10
Preti pedofili, le nuove denunce


VERONA — «Vorresti fermare il prete pedofilo che è lì, accanto ai bambini». È il sentimento nelle vittime di abusi sessuali commessi all’interno della Chiesa. È emerso durante il primo incontro pubblico «Noi vittime dei preti pedofili» nel Palazzo della Gran Guardia. «Vogliamo far vedere che esistiamo, che non possiamo più essere messi a tacere e che non siamo statistiche ma esseri umani» hanno detto. Una cinquantina di mail di denuncia di altri casi sono arrivate al gruppo «La Colpa», promotore dell’incontro. Lo ha spiegato Mario Lodi Rizzini, fratello di una delle sordomute dell’Istituto San Provolo di Verona, dove — secondo testimonianze dettagliate — ci furono numerosi casi di abuso.

Repubblica 26.9.10
La macchina da guerra che schiaccia il dissenso
di Eugenio Scalfari

Da un lato Gianfranco Fini e la famiglia Tulliani, dall´altro il comunicato di un ministro della Giustizia dell´isola caraibica di Santa Lucia, i giornali della famiglia di Silvio Berlusconi e lo stuolo di «aiutanti» che si sono prodigati per incastrare il presidente della Camera.
La posta dello scontro è la distruzione politica dell´uno o dell´altro con le conseguenze che possono derivarne per tutto il paese. Esamineremo tra poco queste conseguenze, ma prima dobbiamo mettere a fuoco il video con il quale Fini si è ieri sottoposto al giudizio dell´opinione pubblica nazionale e internazionale.
A tale proposito e a titolo di premessa anticipo una riflessione: la risposta di Fini è comunque tardiva, poteva e doveva arrivare molto prima, subito dopo le notizie pubblicate dal "Giornale" di Feltri. Il presidente della Camera disse allora con una pubblica dichiarazione (e l´ha ribadito nel video di ieri) che nulla aveva mai saputo fino a quel momento della vicenda concernente l´abitazione di Montecarlo a suo tempo venduta ad equo prezzo (secondo le valutazioni di allora) da Alleanza nazionale che ne era proprietaria. Aggiunse che il coinvolgimento di suo cognato in quella vicenda gli aveva causato un forte disagio. Alle parole avrebbero dovuto seguire i fatti e cioè la netta separazione tra lui e la famiglia Tulliani.
Comprendiamo benissimo che un comportamento del genere implicava non solo interessi ma soprattutto sentimenti, ma la responsabilità istituzionale avrebbe dovuto far premio su ogni altra considerazione anche a costo di mettere in gioco un assetto privato molto delicato.
Si parla spesso (e non sempre a proposito) dell´autonomia della politica. Ma questo concetto non può essere invocato soltanto per rivendicare i diritti, bensì anche i doveri che l´autonomia della politica impone a chi ne è protagonista. Fini non separò le sue responsabilità da quelle della famiglia. È stato un grave errore che ha purtroppo aperto la strada ad un imbarbarimento senza precedenti del quale Fini è stato al tempo stesso inconsapevole artefice e vittima, di fronte alla spregiudicatezza estrema del suo avversario sulla quale nessuno che lo conosca poteva aver dubbi. Chi ne ha sofferto il danno maggiore sono state le istituzioni della Repubblica e il danno non ha ancora terminato di generare i suoi effetti.
Ciò detto esaminiamo la risposta del presidente della Camera.
* * *
La risposta, cioè la verità di Fini, ribadisce i seguenti punti: Fini nulla sapeva. Apprese solo un mese fa che suo cognato era affittuario dell´appartamento di Montecarlo. Mostrò disagio, ebbe una violenta lite in famiglia, invitò il cognato a disdire il suo contratto di locazione e ancor oggi ha ripetuto l´invito con molto vigore.
Suo cognato continua a smentire privatamente e pubblicamente di essere non solo il locatario ma anche il proprietario dell´appartamento in questione. Fini ne prende atto ma dubita che il cognato dica la verità. Se sarà accertato dalla magistratura o da altra fonte ufficiale che suo cognato ha mentito e gli ha mentito, darà le dimissioni da presidente della Camera non perché abbia una responsabilità in quanto è accaduto ma per rispetto dell´etica pubblica che gli sta particolarmente a cuore. Contro di lui è partita una vergognosa campagna di killeraggio nel momento in cui ha manifestato un legittimo dissenso politico rispetto alla linea del partito di cui è stato cofondatore. Questa campagna è stata condotta da giornali di proprietà della famiglia Berlusconi e da televisioni asservite ai suoi ordini e ai suoi interessi.
Tali metodi sono stati adottati non solo contro di lui ma contro chiunque dissenta dalla voce del padrone. Questa è una gravissima ferita inferta alla democrazia. Riconosce d´aver commesso qualche ingenuità. Ma nessun reato è stato compiuto da nessuna delle persone implicate in questa vicenda nella quale non sono in gioco soldi pubblici e interessi della pubblica amministrazione. Infine per quanto lo riguarda non ha alcuna responsabilità in una vicenda privata che riguarda un appartamento di 50 metri quadrati.
Fin qui il video-messaggio del presidente della Camera il quale ha accompagnato queste sue dichiarazioni sui fatti ad una durissima requisitoria contro lo stile di governo e l´atmosfera di killeraggio che è diventata purtroppo una nota dominante e può colpire chiunque dissenta dal potere berlusconiano.
Oltre a prendere atto delle affermazioni di Fini, molte delle quali sono a nostro avviso pienamente condivisibili, bisogna anche leggerne in controluce alcuni passaggi.
Soprattutto quello che riguarda la sua «ingenuità» e la lite in famiglia quando alcuni fatti compiuti sono arrivati a sua conoscenza.
Abbiamo già scritto all´inizio che l´ingenuità - evidentemente connessa ai sentimenti più che ad un attento esame dei fatti - comporta un prezzo da pagare. Fini si è impegnato a pagarlo con le dimissioni se il fatto della proprietà del cognato (che non è un reato) sarà accertato.
Questa posizione è fragile. Ci si aspettava che Fini esibisse la prova che la proprietà non è di Tulliani ma questa prova non è stata data. Lo stesso Fini dice di dubitare della parola di Tulliani. Sarà quindi difficile che resista a lungo in una posizione di evidente difficoltà.
Resta un problema che ci porta ad esplorare che cosa è veramente accaduto a Palazzo Grazioli e dintorni. È accaduto ciò che sappiamo da tempo e che siamo in grado di prevedere in anticipo: la macchina da guerra berlusconiana entra in funzione per colpire il dissenso e per proteggere gli amici e gli amici degli amici. Se Fini si fosse sottoposto, la macchina da guerra contro di lui non avrebbe colpito. Ma per difendere Cosentino da ben altre colpe la macchina da guerra berlusconiana si è mossa, togliendo dalle mani dei giudici un elemento decisivo per le sorti del giudizio, cioè le intercettazioni dalle quali emergerebbe la prova dei legami tra l´imputato e le cosche camorristiche. Quell´elemento non soltanto non sarà reso noto alla pubblica opinione ma non potrà essere utilizzato in processo, per i giudici sarà come se non sia esistito.
A questo risultato la macchina da guerra è arrivata con l´intimidazione, le promesse, le lusinghe, la compravendita delle persone e del loro voto. Si parla molto di trasformismo, ma non è soltanto di questo che si tratta.
Il trasformismo è un vizio antico delle democrazie, in Italia particolarmente diffuso. Il voto di scambio, ottenuto attraverso la concessione di benefici o la minaccia di ritorsioni, è invece un reato previsto dal codice penale e come tale andrebbe perseguito.
Per concludere su quanto è accaduto a Palazzo Grazioli e dintorni: il caso Fini ha dimostrato per l´ennesima volta la natura del potere berlusconiano che si regge sullo slogan «o con me o contro di me», sul belante ritornello del «meno male che Silvio c´è» e sul dossieraggio ricattatorio come pratica di governo.
* * *
Le conclusioni di questa avvilente vicenda mi sembrano le seguenti: le elezioni si allontanano di qualche mese ma non di più. La legge elettorale resterà quella che è, strumento formidabile di pressione e corruzione. Le ipotesi di un terzo polo si fanno evanescenti perché anche Casini è nel mirino della macchina da guerra berlusconiana che alterna nei suoi confronti lusinghe e minacce. Berlusconi imporrà al Parlamento la legge sul processo breve e ritirerà fuori quella sulle intercettazioni.
Intanto l´economia è ansimante, la coesione sociale è a pezzi e nessuno se ne dà carico. Un bilancio che dire sconfortante è dir poco.

Corriere della Sera 26.9.10
«Hitler? Un grande uomo» Il viaggio-provocazione di Irving
Il negazionista guida in Polonia un gruppo di nostalgici
di Luigi Ofeddu


FORESTA DI POZEZDRZE (Polonia) — «Attenti, c’è un uomo fra quegli alberi, può essere uno di loro: lei non ha idea, i miei nemici arrivano dappertutto». Il professore afferra il fischietto che porta al collo, e soffia forte: chiama Jannette, la sua giovane assistente americana, perché dia un’ultima occhiata nel bosco. Lei arriva, con un altro fischietto e uno spray contro le zanzare: i «nemici» sono loro, oggi. David Irving si riferiva però ad altro: «ambienti ebraici, sì, anche se io ho avuto buoni rapporti con ebrei come Steven Spielberg o Walter Matthau…». E poi, coloro che lo chiamano negatore dell’Olocausto: «Io però non nego. Io s t udi o. Mi c hi a mi un c a ne sciolto, se proprio vuole...».
Ma qui nella foresta di Pozezdrze, sui laghi Masuri, dove si nasconde il quartier generale in rovina di Heinrich Himmler, a contestare Irving oggi non c’è nessuno. Gli 11 uomini che lo seguono in fila indiana fra i larici sono infatti gli iscritti — 2.650 dollari l’uno — al suo «tour storico» di 8 giorni nei luoghi del genocidio, nel lager di Treblinka, nella «Tana del lupo» di Hitler, e così via. Girano in segreto, spiegano, per evitare incidenti. Della comitiva fanno parte due signore, che però oggi sono andate a far compere. E alla Tana del Lupo, compariranno anche due mai invitati: poliziotti polacchi in borghese, che fotograferanno il gruppo da lontano.
Gli 11 «turisti» vengono da Germania, Usa, Gran Bretagna, e così via. C’è anche un australiano. Uno indossa una camicetta hawaiana, uno — Leroy, dell’Arizona — il cappellino di un gruppo cristiano integralista, tutto stampigliato: la sagoma degli Usa trafitta da una spada posata su una bibbia, e lo slogan: «Le Sacre Scritture per l’America». L’australiano raccoglie un frammento del bunker: «Per ricordo…». E chiacchiera con un gallese sulle prospettive dell’eugenetica. Un altro spiega: «Sapete, tutte le finanze dei re d’Europa le controllavano loro. Loro, gli ebrei…». Nei discorsi ricorre poi un «lui», Adolf Hitler: «Lui parlava tranquillo, fuori dai comizi: esiste un nastro con la sua voce "vera", io l’ho sentito. Lui per l’America è come Saddam Hussein: ne hanno fatto dei diavoli». Altre spiegazioni non servono, il linguaggio è a tratti quello di una confraternita.
L’età media dei «turisti» è sui 50 anni. Se si chiede loro una foto di gruppo, scatta il monito: «Sì, però il professore di faccia, e noi tutti di spalle». E niente cognomi: temono, spiegano anch’essi, «i nemici, che sono organizzatissimi in tutto il mondo».
E credono, invece, a quel che dice ora Irving: «Per questo siamo venuti, per documentarci. Ma non siamo nazisti». Irving scherza, bussa alla pietra dello spettrale bunker: «Herr Heinrich, ci senti? Lo sappiamo che hai fatto tutto tu, e il Führer non sapeva nulla...». Poi, serio: «Certo fa impressione star qui, perché qui vissero alcuni degli uomini più importanti d’Europa negli ultimi 500 anni...».
Irving sta scrivendo le sue memorie («Saranno dinamite!») e un libro su Himmler, e il terzo volume della biografia su Churchill: dice di avere indizi sul fatto che Hitler sapeva poco dell’Olocausto. Quanto agli altri enigmi, la sua versione la condivide ora con i «turisti»: «La Gestapo? Grandi poliziotti. Auschwitz? Fino a 300 mila vittime. Treblinka? Fino a 800 mila... Io non minimizzo, aspetto smentite. Sono pronto a cambiare idea. Ma di queste cose non voglio parlare qui in Polonia: possono arrestarmi, come in Austria». Altre domande fioccano: «Von Stauffenberg, l’ufficiale che attentò a Hitler? Un traditore». E Hitler, Hitler? «Un uomo grandissimo, uno dei più grandi europei nei secoli. Però sapeva essere molto crudele. Non era immorale, ma si circondò di gentucola. E poi, non seppe fermarsi. Ma per 6 anni, tenne testa a tutte le potenze del mondo. Proprio come Annibale: solo che nessuno ha mai negato la grandezza di Annibale».
Irving, lui, si presenta invece come un signore britannico estremamente cortese. Un britannico stregato da Hitler, e tuttavia non un uomo cui sia estranea la cognizione del dolore: «La mia figlia più grande è con gli angeli. Paralizzata e senza gambe per un terribile incidente, si tolse la vita poco prima del mio processo: e nei 14 mesi passati nella prigione austriaca, non c’è stato un solo giorno in cui io non abbia pensato a lei».

Alla sera, cena tutti insieme in una saletta dell’albergo, Irving a capotavola. Appena seduti, una voce forte e chiara fra loro: «Ehi, ma che odore, qui. Sembra di essere in una camera a gas». Alcuni tacciono. Diversi ridono.

Corriere della Sera 26.9.10
Lettere, appunti e correzioni: i bauli segreti di Kafka
di Francesco Battistini


I dieci forzieri aperti rivelano un patrimonio di manoscritti e missive. Ma infuria la battaglia tra Israele e Germania per aggiudicarseli

GERUSALEMME — «Non è una fortuna: è un tesoro». Chi quest’estate ha aperto i dieci forzieri coi manoscritti di Kafka, sei in una banca di Tel Aviv e quattro in un caveau dell’Ubs di Zurigo, a bocca aperta ora confida: «Non è immaginabile quel che c’è lì dentro. Centinaia di documenti. Lettere che Kafka scriveva a Thomas Mann e ad Arthur Schnitzler, a Stefan Zweig, a Jaroslav Hašek, a scrittori di tutt’Europa. Un elenco infinito. È come se la gente, a quei tempi, non facesse che scrivere...». C’è di tutto, lascia ora filtrare un giornale israeliano. Inediti da catalogare con pazienza: il block notes che lo scrittore usava per imparare l’ebraico (come si dice funerale? Come si scrive stupidità?), e poi appunti di vita quotidiana, il manoscritto del racconto Preparativi di nozze in campagna, la famosa Lettera al Padre, note e correzioni a margine del Castello, un promemoria per Riccardo e Samuele (romanzo mai finito), pagine di riflessioni indirizzate a Kurt Tucholsky e a Franz Werfel... «Una cosa si capisce: quando potremo leggere quelle carte, avremo recuperato solo una piccola parte d’una montagna di parole perdute per sempre».
Kafka bruciò il novanta per cento della sua produzione letteraria originale, ricordava ieri il «New York Times». Di quel che resta, due terzi sono a Oxford. E l’ultimo terzo sta in quelle casseforti: manoscritti che da quarant’anni sono al centro di un’interminabile contesa cultural-diplomatica fra Israele e la Germania, d’una sfinente sfida legale tra avvocati di eredi, privati e di fondazioni pubbliche. Da una parte, chi considera Kafka uno scrittore soprattutto ebreo e vorrebbe che tutto quel materiale restasse alla Biblioteca nazionale di Gerusalemme; dall’altra chi vorrebbe riavere gli originali nelle biblioteche tedesche, lingua in cui per altro il boemo austroungarico Franz scriveva. Mai s’era visto un conflitto simile fra istituzioni culturali dei due Paesi. Conflitto che scoppiò nel 1973, all’aeroporto Ben Gurion, quando una mite signora fu bloccata alla dogana israeliana con valigie piene di carte, destinazione Germania: era Esther Hoffe, segretaria e amante dello scrittore Max Brod morto quattro anni prima, intimo di Kafka. Sionista, nel ’39 Brod era scappato dai nazisti e a Tel Aviv — venendo meno alle volontà dell’amico Franz che avrebbe voluto fossero bruciati — s’era portato quei manoscritti, La metamorfosi e Il castello compresi, per regalarli infine all’amata assieme alle chiavi delle cassette di sicurezza. Assediata dai gatti e dai debiti, nel suo appartamentino telavivi al pianoterra del 23 di Spinoza Street, casette Bauhaus scrostate e puzzolenti in una vietta alberata dalle parti della centralissima Rothschild Avenue, Esther aveva cominciato a vendere tutto: due milioni di dollari per l’originale de Il processo, a Londra, più altre carte che ancora circolano nelle case d’aste europee e americane. Quando la signora Hoffe fu fermata, partì un processo per illegittima custodia che ancora dura alla corte di Tel Aviv, un’inchiesta sopravvissuta alla vecchia Esther, morta nel 2007, e che al momento coinvolge le di lei figlie, Hava e Ruti, quanto mai decise a nascondere nelle banche e a non mollare il malloppo se non ai tedeschi (che al contrario degl’israeliani sono disposti a pagarlo).
Ora che il contenuto dei forzieri è noto, gli appetiti crescono. «Quel mate r i a l e a p p a r t i e n e a Ger u s a - lemme — dice Mark Gelber, dell’università Ben Gurion —, come quello dell’ebreo Einstein. Kafka era sionista, si preparava a partire per la Palestina». «Quei documenti sono in tedesco — ribatte dalla Germania il più importante biografo kafkiano, Reiner Stach —. Definirli un’eredità della cultura israeliana mi sembra fuori luogo. In Israele, a Kafka non hanno dedicato nemmeno una strada». «Vorrei chiedere ai tedeschi — è la replica di Ilana Haber, direttrice degli archivi israeliani —: che sarebbe stato di Kafka se, anziché morire nel ’24 di tbc, fosse vissuto più a lungo? Sarebbe finito ad Auschwitz, come la sua famiglia». Il processo, kafkiano assai, continua.