lunedì 4 ottobre 2010

l’Unità 4.10.10
Premier in difficoltà. Per il segretario Pd il comizio è un’aggressione ai «capisaldi costituzionali»
«Non facciamoci trascinare» in un referendum sulla persona, «dimostriamo che ha fallito»
Bersani: «Indietro di 16 anni Ora attenti ai colpi di coda»
Il segretario del Pd da Cortona cerca di smarcarsi da Berlusconi e che alza i toni della polemica in modo artificioso. «Sono sedici anni che dice le stesse cose. Dobbiamo dimostrare che ha fallito».
di Simone Collini


«E fortuna che gliel’ho anche chiesto in Parlamento, l’altro giorno: ma quanto volete governare prima di ammettere che siete voi che non ne siete capaci, che non è colpa di qualcun altro se non ci riuscite, ottant’anni?» Bersani vorrebbe liquidare con una battuta il «comizio vecchio di 16 anni» di Berlusconi. Il leader del Pd è da poco ripartito da Cortona, dov’è andato a chiudere la scuola di politica del suo partito, quando gli raccontano quel che sta dicendo il premier a Milano. I magistrati, i sindaci di sinistra, i soliti comunisti, la Corte costituzionale e pure l’ex capo di Stato Scalfaro. «Cos’è, ha copiato l’elenco che ho fatto io mercoledì alla Camera?», ironizza Bersani con i suoi. Ma per il segretario del Pd c’è poco da scherzare perché ora che il premier è così in difficoltà c’è da temere l’arrivo di pericolosi «colpi di coda». Che potranno essere neutralizzati soltanto se si mostrerà ai cittadini che la destra «ha fallito» e che c’è dall’altra parte «un’alternativa credibile». Viceversa, è il ragionamento di Bersani, se le opposizioni cadranno nella trappola di farsi trascinare nello scontro frontale, a rischiare sarà «la democrazia rappresentativa già oggi in crisi» e la politica nel suo complesso: «Già ora c’è disaffezione, rabbia impotente, distacco da parte dei cittadini. Berlusconi potrebbe lasciarci nel pieno discredito della politica».
Per questo Bersani fa arrivare alle agenzie di stampa questa nota: «È chiaro che il presidente del Consiglio non si sta predisponendo a governare ma a organizzare un nuovo scontro ideologico. La sua risposta ai problemi del Paese è un comizio datato 1994 con l’aggiunta di sedici anni di assoluta inconcludenza e di aggressione ai capisaldi costituzionali». Poche parole, perché una risposta diretta va data, ma senza farsi trascinare nello scontro personale (Bersani non replica a Berlusconi che dice che il Pd non ha un leader) e facendo attenzione a non alimentare una discussione riducibile a un referendum pro o contro Berlusconi, che è esattamente quello che il premier cerca. «Noi dobbiamo invece parlare delle nostre proposte per il paese, dobbiamo rompere il muro del suono che divide politica e società e dire quello che faremmo per risolvere i problemi delle persone».
BARZELLETTE E CRICCHE
Non a caso chiede ai quattrocento ragazzi che hanno seguito queste giornate di formazione di impegnarsi nella campagna di mobilitazione del mese prossimo. «La politica italiana è di fronte a un passaggio fondamentale», dice facendo capire che il «porta a porta» di novembre potrebbe essere il primo passo di una vera e propria campagna elettorale. Il governo infatti «va avanti traccheggiando», e se il ministro leghista Maroni dice che nelle prossime tre settimane si capirà se si andrà alle urne, Bersani dice che «non c’è bisogno di così tanto tempo per capire la situazione, bastano tre minuti»: «Si rimettano al Capo dello Stato«. Anche perché, dice il leader del Pd, «di fronte a tutti i problemi che ha il paese non se ne può più di barzellette, servono un po’ di regole, di onestà e di legalità, e se il sistema è stato deformato da elementi di corruttela, se la legislazione speciale dietro nomi nobili come grandi opere o terremoto ha generato cricche, è perché quelle leggi lì le hanno fatte proprio le cricche».
PAPI E RADICALI
Sono anche fenomeni come questi che per Bersani generano disaffezione nei confronti della politica. E sarebbe controproducente tanto affidarsi a cosiddetti «papi stranieri» quanto lasciarsi trascinare sulla strada della radicalità. Ragionamenti che fa il giorno dopo il NoBDay e le polemiche per le assenze dei vertici Pd, parlando di un Di Pietro che dovrebbe decidere se sfidare Grillo e continuare ad alzare i toni o contribuire a costruire una vera alternativa, e di un Vendola che può scegliere se fare la guerra ai riformisti o lavorare per portare pezzi della sinistra alla sfida di governo. E ragionamenti che fa nel giorno in cui si parla di un possibile impegno di Montezemolo in politica e delle critiche di Marchionne al governo. «L’impegno in politica è sempre una buona cosa in un momento in cui bisogna darsi tutti da fare», dice del primo. E del secondo: «Marchionne ha detto che aspettare la crescita senza fare niente è un atto di fede. Se l’avesse fatto due anni fa ci avrebbe dato una mano».

l’Unità 4.10.10
Il secondo No B. day di sabato, un anno dopo la prima manifestazione, è stato un successo
In piazza anche Ignazio Marino: un errore non esserci. Bersani: sbagliato metterci il cappello
Quell’urlo del popolo viola per far svegliare l’Italia
Decine di migliaia in piazza San Giovanni per il secondo «No B Day». «Siamo 500mila», hanno detto gli organizzatori. Marino: «Un errore l’assenza Pd». Bersani: «Indichiamo una strada positiva alle energie della piazza».
di Felice Diotallevi


Decine di migliaia per la seconda volta in piazza per il «No B Day». Ancora San Giovanni, a Roma, meno di un anno dopo la manifestazione del dicembre 2009 che mobilitò una folla fino ad allora ignota alla scena politica: giovani soprattutto, Popolo di Internet, senza partiti, affamati di legalità. Quest’anno all’appuntamento hanno risposto meno persone rispetto al 2009, colpa anche delle divisioni tra i vertici nazionali del movimento e i gruppi locali che avevano deciso di dare forfait in polemica «per la scarsa democrazia interna». Comunque una manifestazione imponente: 500mila per gli organizzatori, solo 10mila per la questura.
SVEGLIATI ITALIA
«Svegliati Italia», lo slogan principale. «Licenziamo Berlusconi», la parola d’ordine del corteo cui hanno aderito vari partiti, dall’Idv a Sinistra e libertà, Verdi, Federazione della Sinistra. E proprio il numero eccessivo di bandiere Idv, migliaia, ha creato qualche imbarazzo agli organizzatori, tanto che dal palco più volte è stato chiesto di abbassarle, anche con la “motivazione” che rendevano più complicate le dirette tv. Di Pietro, in piazza nel giorno del suo 60esimo compleanno con la famiglia, ha fatto la parte del leone, attaccando l’assenza del Pd e tallonato da Nichi Vendola nella gara di autografi e strette di mano. In piazza anche Ignazio Marino, unico esponente Pd, sciarpa viola al collo: «È un errore che il Pd non sia qui». Tanti cori e
striscioni contro Berlusconi, c’era pure una riproduzione del famoso “lettone di Putin”. E un cartello anche contro i democratici, con un Bersani dormiente e la scritta «Non facciamo rumore altrimenti il Pd si sveglia». Il leader Pd, dal canto suo, ieri ha commentato positivamente la manifestazione: «È una delle tante voci che si sta alzando nel Paese contro questa situazione. In piazza c’erano energie cui bisogna dare una strada positiva, perché c’è tanta rabbia, tanta disillusione e tanto distacco». Da Bersani una stoccata a Idv e partiti si sinistra: «È una manifestazione che parte dalla società civile, meglio che i partiti non mettano il cappello, che non si tirino la giacca l’un l’altro». «Qui c’è l’Italia migliore, può vincere», ha detto Vendola. «Quel che oggi l’opposizione fa non è sufficiente, non basta stare in Parlamento, bisogna riagganciare il popolo».
PIENONE DI STUDENTI
Tantissimi gli studenti delle superiori, attenti quando hanno parlato dal palco il prof. Stefano Rodotà e Salvatore Borsellino. Il fratello del giudice ucciso dalla mafia, già protagonista del primo «No B Day», ha lanciato una dura invettiva contro il premier al grido di «Resistenza» e alzando l’agenda rossa, imitato da centinaia di manifestanti. «La società italiana si sta decomponendo, c’è stata una pianificazione legislativa del degrado, questo è il momento di stare uniti», ha detto Rodotà. A ruba tra i ragazzi le magliette con la scritta «Partigiani del terzo millennio», ovazione per il rappresentante dell’Anpi che ha gridato dal palco: «Che ci frega della casa di Montecarlo, a noi interessa chi la casa non ce l’ha...».

Corriere della Sera 4.10.10
Allearsi con Fli se si vota a marzo: ora ci pensa anche Bersani
di Maria Teresa Meli


ROMA — Che D’Alema e Fini si parlino non è cosa nuova, bensì una consuetudine che dura da anni. Ma che Pier Luigi Bersani e il presidente della Camera abbiano aperto un canale di dialogo è una novità di questi ultimi tempi. Del resto, come ama ripetere il segretario, «il Pd non può assistere inerme a questa crisi del sistema politico». Il che significa muoversi sul fronte delle alleanze possibili e futuribili esplorando tutte le strade. È vero che D’Alema, in pubblico, continua a dire che «è stupido pensare che Fini possa essere un’opportunità per la sinistra». In realtà, però, i dirigenti del Partito democratico non escludono che, soprattutto in caso di elezioni anticipate a marzo, si possa creare un’alleanza con il cosiddetto terzo Polo (Casini, Fini, Rutelli). Quando lo aveva proposto Rosy Bindi, le reazioni negative nel Pd erano state moltissime. Ora che lo ha fatto Dario Franceschini gli unici a sparare a zero sono stati i veltroniani. Anche se, a onor del vero, Bersani appare ancora il più prudente di tutti i big di largo del Nazareno. Ma le pressioni, interne ed esterne, sono forti e molteplici. Certo, al Pd non dispiacerebbe imbarcare anche Di Pietro, nonostante il leader dell’Idv appaia scettico e Casini abbia già detto che il Partito democratico deve scegliere tra lui e l’ex magistrato. Fuori della partita, invece, Nichi Vendola che critica anche il tentativo di cambiare la legge elettorale con i finiani: «Un’eresia», dice il governatore della Puglia, il quale ricorda al Pd che «Fli solo pochi giorni fa ha votato la fiducia a Berlusconi». Totalmente opposto il ragionamento di Enrico Letta che vuole aprire «il confronto» sulla legge elettorale con i finiani. Beppe Fioroni è uno dei (pochi) dirigenti del Partito democratico che non è d’accordo con l’ipotesi di Santa Alleanza (che invece non sembra dispiacere ai falchi di Fli): «In questo modo perderemmo tantissimi voti a sinistra, senza contare il fatto che un’alleanza con un post-fascista come Fini sarebbe per noi una cosa innaturale. Ma temo che si stia cercando di andare proprio in quella direzione». Che si tratti di un’operazione ad altissimo rischio è chiaro a tutti i leader del partito. Tant’è vero che sono stati commissionati diversi sondaggi per capire come l’elettorato accoglierebbe un’alleanza del genere. E per cercare di comprendere quale potrebbe essere il leader in grado di guidare una coalizione di questo tipo. In questo senso è stato testato anche Luca Cordero di Montezemolo. È chiaro che i giochi sono solo agli inizi e anche per questa ragione Bersani vorrebbe che si parlasse esclusivamente di «contenuti» e delle «proposte del Pd», lasciando lo spinoso tema delle alleanze sullo sfondo, onde evitare polemiche anzitempo. Ma sotto traccia si lavora su questo fronte. Con una, inevitabile, subordinata: nel caso in cui Fini decidesse di andare alle elezioni per conto suo, allora si tenterebbe l’alleanza con il solo Casini, coinvolgendo a questo punto anche Vendola (il quale, per la verità, non ha mostrato particolare interesse nemmeno per questa proposta). Offrendo la leadership al leader dell’Udc? Chissà. Casini, che sembra apprezzare le ultime mosse del Pd («hanno fatto passi avanti»), pubblicamente si schermisce, ma tra i suoi c’è chi giura che questa ipotesi sia tutt’altro che campata in aria.

Corriere della Sera 4.10.10
«Montezemolo sarebbe il benvenuto». Aperture dal segretario pd e da Letta


ROMA — «L’impegno in politica è sempre una buona cosa in un momento in cui bisogna darsi tutti da fare. Poi, non so cosa Montezemolo abbia in testa...». Pier Luigi Bersani, a Cortona per la scuola di politica del Pd, non chiude all’ipotesi che il presidente della Ferrari decida di scendere in campo. E ancor più accogliente si mostra Enrico Letta, intervistato da Maria Latella per SkyTg24: «Non credo alla logica del papa straniero, ma ritengo molto utile che Montezemolo si impegni in politica. Sarebbe solo il benvenuto e aiuterebbe la politica italiana». Anche la vicepresidente del Pd, Marina Sereni, guarda positivamente all’attivismo di Luca Cordero di Montezemolo. «Attraverso la sua fondazione ha spesso indicato soluzioni», riconosce la Sereni, favorevole al «confronto» per costruire una alternativa alla destra. «Chi la guiderà, con quali alleanze e con quali forme, lo vedremo al momento giusto». Cesare Damiano, responsabile Welfare del Pd, parla di Montezemolo come di «un nome prestigioso che può sparigliare i giochi» e aggiunge che, con lui in campo, «le sorprese in termini di alleanze, schieramenti e programmi, non mancherebbero». L’11 ottobre a Roma tornerà a riunirsi Italia Futura e il direttore della fondazione, Andrea Romano, smentisce retroscena: «Non c’è alcun vertice che prelude e un impegno politico...».

Repubblica 4.10.10
Alla sinistra della delusione
di Ilvo Diamanti


A sinistra del centrosinistra i consensi crescono. Ormai si aggirano intorno all´11%. Più che di una novità, si tratta di un ritorno. Alle elezioni politiche del 2006, infatti, le formazioni a sinistra della sinistra (da qui: Sinistra) avevano, infatti, superato il 10%. In termini assoluti: circa 3 milioni e 900mila voti. Alle consultazioni del 2008, però, quest´area si riduce al 3%. Tutti compresi: Rc, Comunisti Italiani, Verdi, più le nuove formazioni uscite dai Ds dopo la nascita del (e la confluenza nel) Pd.
Il che significa: 7 punti percentuali e 2 milioni e settecentomila voti meno del 2006. Più che un calo: un tracollo. Le cui ragioni sono diverse e, in parte, note.
1. In primo luogo, la strategia del Pd di Veltroni, che – come Berlusconi - interpreta il bipolarismo in senso bipartitico - o quasi. Da un lato il Pdl insieme alla Lega, dall´altro il Pd alleato con l´Idv di Antonio Di Pietro. La legge elettorale, che premia la coalizione vincente, spinge molti elettori della Sinistra – per non "sprecare" il voto – a scegliere il Pd e (in maggior numero) l´Idv. Ma, soprattutto, ad astenersi.
2. La Sinistra, inoltre, paga la posizione ambigua assunta durante il governo Prodi. Sempre in bilico tra maggioranza e defezione.
Rispetto al 2006, il Pd cresce di 2 punti e, in termini assoluti, di neppure 200 mila voti. Mentre l´Idv supera il 4% e aumenta di 700 mila voti. In sintesi: dal bacino elettorale di centrosinistra scompaiono circa 2 milioni di elettori di Sinistra.
Oggi, due anni dopo, la Sinistra sembra ritornata oltre il 10%. Rifondazione e i Comunisti Italiani, in realtà, non vanno oltre il 2%. Ma Sinistra e Libertà (Sel), guidata da Nichi Vendola, raggiunge il 5%. E il Movimento 5 Stelle, ispirato da Beppe Grillo, supera il 4%. Si tratta di tendenze rilevate dai principali istituti demoscopici. Parallelamente, i maggiori partiti di centrosinistra appaiono in difficoltà. Il Pd sembra sceso sotto la soglia critica del 26%. Anche l´Idv, però, ha smesso di crescere e si è attestata intorno al 6-7%.
Il ritorno della Sinistra, trainato da SeL e dal Movimento 5 Stelle, sembra favorito, soprattutto, da due motivi.
a. Hanno, entrambi, una (sola) leadership: forte e personalizzata, anche se espressa da figure molto diverse. Nichi Vendola ha una lunga storia politica e di partito. Viene dalla Figc, ha militato nel Pci e in Rc. È presidente di Regione. Mentre Beppe Grillo è un outsider della politica. Uomo di spettacolo, anch´egli una lunga esperienza alle spalle. Entrambi figure di "rottura". Vendola, comunista e omosessuale, ha fatto della sua diversità un elemento "normale", perché non esibito. Ma per questo più provocatorio, politicamente. Ha ulteriormente legittimato la sua "diversità" sfidando il gruppo dirigente del Pd che non lo voleva candidato alla guida della Puglia. Grillo, da tempo, agisce "in proprio". Al tempo stesso attore e predicatore, riempie le piazze e i teatri, mettendo in scena la denuncia all´establishment politico, economico e finanziario. È un grande comunicatore. Come Nichi Vendola, in grado di parlare al "popolo". Non solo di sinistra.
b. Entrambi dispongono di un´efficiente comunicazione post-politica (per citare Berselli). Condotta attraverso Internet, accompagnata da mobilitazioni tematiche. Grillo: riferimento di una rete di blog e MeetUp tra le più frequentate al mondo. Promuove manifestazioni affollate e di grande visibilità. Da ultimo, la Woodstock 5 Stelle che si è svolta a Cesena una settimana fa. Vendola: a sua volta, ispiratore di una lunghissima e frequentatissima catena di blog e di pagine su Facebook. La sua Fabbrica (echeggia quella di Prodi) è diffusa sul territorio nazionale.
c. Entrambi interpretano la personalizzazione mediatica della politica, imposta da Berlusconi. In modo, ovviamente, antagonista. Non indulgono alle mediazioni politiche e linguistiche. Non ne hanno bisogno (per ora).
d. Entrambi i partiti dispongono di una base di militanti e di elettori molto diversa da quella del Pd e di Idv. Più giovane e istruita, maggiormente addensata nei centri urbani. Quanto a Sel: spostata a Sud.
Peraltro, le differenze tra i due soggetti sono significative. Nichi Vendola considera il centrosinistra la sua "casa". Il Pd l´interlocutore naturale. E gli elettori del Pd, peraltro, lo guardano, a loro volta, come un possibile leader della coalizione. Mentre il Movimento 5 Stelle ha, come riferimenti, i comitati del No (Tav, Dal Molin, Global, ecc…). Oltre a settori sociali apertamente anti-politici (ammesso che il termine abbia un significato). Non a caso, quasi un terzo dei suoi simpatizzanti si pone "fuori" dallo spazio Destra/Sinistra. Non a caso, peraltro, alcuni "militanti" di 5 Stelle si sono resi protagonisti di contestazioni clamorose durante la Festa nazionale del Pd, a Torino.
Questo scenario pone, peraltro, significativi problemi: ai principali partiti di Centrosinistra ma anche a quelli della Sinistra.
1. Sel e 5 Stelle appaiono pericolosi concorrenti per l´Idv. A sua volta, un partito personale – o, almeno, molto personalizzato. Che ha fatto dell´antagonismo a Berlusconi il distintivo.
2. Al Pd, invece, l´esempio della Sinistra rammenta ciò che gli manca, in questa fase difficile. Anzitutto, una – "una" - leadership personale forte e condivisa. Poi: temi chiari – "chiari" - intorno a cui comunicare la proposta politica. (Per comunicare in modo efficace, occorre sapere "cosa" comunicare.) Ancora: un´organizzazione aperta e flessibile. In grado di mobilitare. Perché "personalizzazione" non significa scomparsa delle persone e della società.
3. Quanto alla Sinistra, il problema principale riguarda la "tenuta". 5 Stelle viaggia sulla rete. Sel è strutturata per esperienze diffuse, ma ancora poco radicate. E presenti soprattutto nel Sud. Per garantirsi stabilità, però, occorre stare sul territorio. Le mobilitazioni fondate sul No (-B) non bastano. Talora (come quella Viola, di sabato) neppure mobilitano troppo.
4. C´è, infine, la questione delle alleanze. Riguarda tutti: Sinistra e Centrosinistra. Oggi e soprattutto domani. Quando (presto, immaginiamo) si andrà a nuove elezioni. Con quali alleanze? Perché se il Centrodestra è diviso, il resto dello spazio politico rischia di esserlo molto di più. Con questa legge elettorale: premessa di sconfitta sicura. Gli spazi – e i seggi – rischiano di ridursi per tutti. Anzitutto per il Pd. Ma il Centrosinistra e la Sinistra sono disponibili a cercare e a costruire alleanze, tra loro e, se necessario, con i partiti di Centro e la "Cosa" di Fini? La questione, probabilmente, non interessa Grillo e 5 Stelle. Ma avrebbe conseguenze anche per loro. Fare – comunque, apparire - un´opposizione sterile, come il Pd in questa fase, è frustrante. Ma la tentazione – diffusa nella Sinistra - di fare opposizione "a prescindere", non per vincere e governare. Alla lunga – e forse anche alla breve – logora. E rischia di fare apparire la Sinistra - ai suoi stessi elettori - "inutile".

Repubblica 4.10.10
La Costituzione fatta a pezzi
di Nadia Urbinati


Berlusconi ha detto ieri che i magistrati sono criminali e che vanno come tali trattati. Lo aveva già anticipato parlando qualche giorno fa nell´improvvisato happening di fronte alla sua residenza romana, condendo il suo gravissimo ed ennesimo colpo alla Costituzione repubblicana con barzellette e linguaggio scurrile, quasi a voler allontanare l´attenzione dell´opinione pubblica da ciò che aveva pronunciato.
Il suo attacco alla magistratura e l´identificazione della giustizia con la persecuzione non sono né nuovi né inediti: sono la carta d´identità di Berlusconi. Le circostanze dettano il linguaggio, non il contenuto che resta immobile come la terra nel sistema tolemaico. Quando le acque nella sua maggioranza si fanno burrascose tiene metodi di trattativa e moderati. Una volta rinsaldata l´alleanza, magari con l´autorevolezza del voto parlamentare come in questo caso, metodi, forme e linguaggio riprendono la loro solita andatura e ritornano a battere sul tema più vicino agli interessi del premier: l´attacco all´indipendenza della magistratura giustificato nel nome di una sovranità totalizzante del popolo, o meglio ancora della sua parte più numerosa (il mito del 51% come clava punitiva contro i suoi supposti nemici).
La sovranità della parte più preponderante non è sovranità democratica, ma dominio, soprattutto quando coltiva la pericolosissima ambizione di dichiararsi identica alla sovranità democratica della nazione italiana. A questo linguaggio demagogico, il presidente del Consiglio si affida quando si sente rinsaldato nei consensi; quando può tornare a riprendere la sua lotta contro la giustizia per affermare la sua giustizia. L´obiettivo lo conosciamo: mettere la magistratura alle dipendenze del potere politico, toglierle quella indipendenza che, vale la pena ricordarlo, non gli è stata data da altri che dal popolo stesso, nella sua massima espressione di sovranità, quella della scrittura della Costituzione. La nazione italiana ha deciso di fare della magistratura un potere indipendente dal parlamento e dall´esecutivo, per renderla dipendente sola dalla legge. Il presidente del Consiglio la vorrebbe invece dipendente dall´opinione politica che fa la legge e dal governo. La differenza è enorme; è quella che passa tra un sistema maggioritario (un´espressione barbara ma efficace) e un sistema democratico costituzionale. La minaccia rivolta ad alcuni magistrati di aprire una commissione parlamentare d´inchiesta è la vera novità di questi giorni, una proposta che è il coronamento dell´ormai incontenibile tracimazione di questo governo dai limiti costituzionali.
Uno sprovveduto o uno che non abbia seguito la traiettoria ideologica di Berlusconi in questi tre lustri potrebbe restare sorpreso di fronte a un liberale che si fa capo-popolo e propone la centralità della volontà politica sulla giustizia. Non è forse vero che la storia di Forza Italia era cominciata a colpi di propaganda liberal-liberista? Che cosa ha a che fare Friedrich von Hayek (uno degli autori più citati da chi si è identificato con Forza Italia) con il maggioritarismo del presidente del Consiglio?
Nella tradizione liberale classica, il governo e l´organizzazione normativa della vita pubblica sono giustificabili in quanto funzioni al servizio di un fine superiore e precedente: la difesa della proprietà, della vita, della libertà degli individui. I diritti individuali sono il fine non contrattabile e soprattutto un bene che legittima il mezzo, ovvero il governo. Qual è il più sicuro presidio di questa libertà se non un sistema di giustizia autonomo da quella volontà di popolo che Berlusconi vorrebbe egemonica?
Per i liberal-liberisti, quello repressivo è il compito centrale dello Stato, e in realtà la sua ragion d´essere. Una ragione che non va affiancata da compiti di altra natura se vuole essere efficace, per esempio da compiti di giustizia sociale. Affinché svolga questo compito al meglio, il solo legittimo, lo stato deve essere edificato secondo regole ben precise: limitato nelle sue funzioni; non centrato sul governo dell´assemblea; monitorato da chi obbedisce alla legge, non da chi fa la legge; e infine soggetto al giudizio elettorale dei cittadini. Il governo liberale è un governo costituzionale limitato fondato sul consenso nel quale il potere giudiziario svolge un ruolo centrale e che, proprio per questo, deve restare rigorosamente indipendente da quello politico.
Il sistema della giustizia penale e civile è il potere più importante nell´idea liberale, la quale infatti vede nella politica solo un mezzo per coordinare in maniera indiretta (con il timore della coercizione) le azioni degli individui e per riparare agli errori e ai delitti che essi commettono o in buona fede o per malevola violazione della legge naturale e civile. Questo è lo Stato ‘minimo´ dei liberali; uno Stato al servizio di una società che, pensava Hayek, è libera nella misura in cui capace di autoregolarsi con minimo dispendio di potere diretto del governo o del parlamento, ma il cui potere giudiziario è ben funzionante, non usato a discrezione dei potenti e che opera secondo procedure impersonali e regole certe. Un potere, quello della giustizia che é assolutamente essenziale che resti "negativo", cioè che non dipenda da chi fa e applica la legge. La nostra libertà è sicura – e i costituenti accettarono questa idea liberale – solo se chi la applica nei tribunali e nelle corti non dipende dall´opinione della maggioranza in carica, quale che essa sia. Berlusconi sarebbe inviso a tutti i liberali. Ora, sarebbe interessante sapere come i "liberali" che abitano la casa delle libertà giustificano questo scivolamento nel dispotismo della maggioranza, il più temuto degli orrori per i liberali di tutti i tempi e paesi.

Repubblica 4.10.10
E ora lo sdoganamento del fascismo estremo
di Mario Pirani


L´unificazione nell´ambito della Destra di Storace degli sparsi gruppi nazi- fascistoidi, ha cominciato a compiere i suoi primi passi. L´annuncio di Berlusconi di volerli accogliere con entusiasmo tra gli adepti della sua maggioranza e la promessa di riservare loro qualche sgabello di governo e sottogoverno ha galvanizzato le varie accozzaglie da curva Sud, che dovrebbero, secondo i sondaggi del premier, tutte assieme portargli un 3% di voti. Con questa prospettiva il 28 scorso nella Sala dei Chiostri di Santa Corona di Vicenza, affollata di militanti entusiasti, si è svolta una specie di cerimonia di fidanzamento tra Storace e gli skinhead di Fiamma Futura guidati da Piero Puschiavo, nome finora noto soprattutto alla Digos per le varie denunce ed inchieste subite ma destinato, se la deriva assunta dai nuovi alleati del Cavaliere riceverà altri avalli, a farsi notare. A Vicenza ha dato la linea: «Le idee vanno sospinte dai numeri e io voglio portare consenso alla Destra in nome dell´unità di quella frammentata destra sociale e nazionalista finora mai raggiunta». E Storace ha spiegato: «Vogliamo un governo di destra anziché di centro». Un obbiettivo in effetti non troppo lontano, dopo l´uscita della Udc e dei finiani dalla Cdl. Sbaglierebbe chi prendesse questi segni per un fenomeno marginale. Lo sdoganamento intrapreso da Berlusconi nei loro confronti si collega direttamente con l´ondata razzista che sta inondando la mappa politica dell´Europa, dalla Svezia, dove entra per la prima volta in Parlamento col 5,7% dei voti, all´Olanda, la Danimarca, il Belgio, la Norvegia e l´Ungheria. Se in Belgio i conservatori di stampo democratico hanno seguito la linea dei partiti tedeschi che hanno eretto un cordone sanitario nei confronti dei movimenti paranazisti, e così assicurano di voler fare gli svedesi, per contro in Danimarca e si teme in Olanda i governi conservatori minoritari sembrano disposti ad accettare l´appoggio esterno della destra estrema. Per capire l´involuzione avvenuta basta ricordare che solo nel 2000 l´Unione Europea sancì misure di boicottaggio politico contro il governo cristiano democratico austriaco perché aveva accettato il sostegno del partito estremista di Jorg Heider.
Se il terreno di coltura di questo ritorno nazifascista in Europa è la crisi economica che secerne gli antichi veleni dell´xenofobia e del razzismo e se questi di fronte alla pressione migratoria si coagulano soprattutto nell´anti islamismo, ciò non li rende più accettabili né meno pericolosi. Quanto al coefficiente antisemita esso, soprattutto in Italia, è ben presente, quanto diffuso. L´ultima conferma ce la fornisce la sconcia barzelletta antiebraica sciorinata dal Cavaliere sul marciapiede di palazzo Grazioli, la cui gravità risiede non solo nella confessa volgarità dell´inesausto narratore ma nel fatto che le sue frasi contribuiscono autorevolmente a liberare da ogni freno l´antisemitismo tenuto sottotraccia da tanti suoi supporter, Basta, del resto, percorrere i siti di Storace e dei suoi nuovi sodali di cui abbiamo una antologia ricca quanto repellente la settimana scorsa. Oggi ci è stato segnalato un ultimo reperto, il sito «Destra per Milano», diretto da tal Roberto Longhi Lavarini, tra i fondatori di «Cuore nero» che si vanta di aver fatto confluire, tramite Romano La Russa, fratello del ministro, le varie sigle dei suoi sodali nel Pdl ambrosiano. In questi giorni ha prodotto un video in onore del «grande camerata Ciarrapico», irrigidito nel saluto romano cui, dopo l´incidente della kippà «va la solidarietà della Destra per Milano verso una persona coerente e coraggiosa che se ne frega di tutto e di tutti e che ha espresso chiaramente quello che pensano centinaia di migliaia di militanti: Fini è un rinnegato!». Sempre sul sito si trova documentazione della festa per la consegna dell´Ambrogino d´oro in onore di una vecchia militante della Repubblica sociale. Anche qui grande sfoggio di saluti romani. Domani sarà peggio senza una pronta reazione.

Repubblica 4.10.10
Tute blu contro tute blu così ci si divide in fabbrica
Viaggio nel sindacato dopo gli incidenti di Treviglio e Livorno
Tra Fiom, Fim e Uilm la posta in gioco è l´egemonia nelle piccole e grandi aziende
"C´è chi pensa che, in fondo, è meglio rimanere divisi per guadagnare visibilità"
di Paolo Griseri


ROMA - Non si parlano. Alcuni si ignorano addirittura quando si incontrano ai tavoli delle trattative. Improvvisamente torna d´attualità una domanda antica nella storia sindacale italiana: qual è l´avversario? «Dovrebbe essere la controparte», risponde uno dei leader. Ma usa il condizionale. E spiega: «Si è rotto qualcosa che è molto difficile rimettere insieme». Sono gli stessi vertici di Fim, Fiom, Uilm e Fismic a riconoscere che la spaccatura non è confinata alla base. È un virus che ha colpito in alto. «Venduti», gridano i cortei della Fiom a chi ha firmato gli accordi separati voluti dal Lingotto. «Squadristi», risponde la Fim dopo i lanci di uova contro le sue sedi annunciando «la preparazione di un dossier su tutti gli attacchi e le violenze subite negli ultimi mesi».
«Quella che è cambiata è la mentalità di fondo, quell´idea che c´era un tempo quando pensavamo che puoi dividerti su tutto ma esiste una solidarietà tra chi fa sindacato, dedica la vita a difendere i diritti dei lavoratori. Una solidarietà decisiva anche nelle vertenze più difficili, anche quando si arriva ad accordi separati». Il ricordo è di Giorgio Benvenuto, leader carismatico dalla Uil negli ultimi decenni del Novecento. Parla sfogliando i ricordi di trent´anni fa, quando i sindacati erano unitari. Anche sui volantini Fim, Fiom e Uilm erano una sola sigla, l´Flm, e ai cancelli di Mirafiori persero insieme. Oggi che le sigle si dividono, è più facile vincere?
Domanda difficile. Sono certamente cambiati i rapporti di forza tra i sindacati. Secondo Giuseppe Farina, numero uno dei metalmeccanici della Cisl, «le tensioni di queste settimane sono cose che accadono quando la Fiom sente che sta perdendo la sua egemonia nelle fabbriche». Gli incidenti nascono dunque dalla fine di un´era, quella della Cgil che detta legge nelle fabbriche italiane? È una spiegazione che naturalmente non convince la Fiom: c´è una lunga guerra di cifre sul numero degli iscritti delle singole organizzazioni ed è un fatto che, nonostante tutto, la Fiom è di gran lunga il sindacato più rappresentativo. Ma spesso non ha più, da solo, il 51 per cento dei consensi nelle fabbriche. E dunque tutti gli altri, magari mettendo insieme le storie non sempre compatibili tra loro di Fim, Uilm, Fismic e Ugl, possono mandare in minoranza gli uomini di Landini. La battuta di Farina chiarisce comunque qual è, per ciascuno, la vera posta in gioco: quella dell´egemonia nelle grandi e piccole aziende di una categoria che continua anche oggi a fare la storia del sindacato in Italia. La tensione nasce dalla situazione di stallo: la Fiom non è più maggioritaria da sola ma nessuno può pensare di tenere fuori a lungo l´azionista di maggioranza relativa del sindacalismo metalmeccanico italiano. Può anzi accadere che isolare i metalmeccanici della Cgil sia controproducente proprio per chi, nei sindacati e tra gli stessi imprenditori, vorrebbe far diminuire il loro peso in fabbrica.
Gli scontri tra organizzazioni sindacali, soprattutto nei metalmeccanici, non sono una novità del terzo millennio. A Torino, nel luglio del 1962, decine di migliaia di operai uscirono dagli stabilimenti Fiat e marciarono contro la sede della Uilm, nella centrale piazza Statuto. Nella notte precedente, quella tra il 6 e il 7 luglio, Uil e Sida, il sindacato considerato filopadronale («giallo», si diceva allora) avevano firmato un accordo separato con la Fiat. Gli scontri intorno alla sede della Uil furono violentissimi, durarono tre giorni con il fermo di oltre 1.200 manifestanti e 90 arresti. «Ma allora - ricordano i vecchi sindacalisti torinesi - non ci fu la copertura di Cgil e Cisl». I cortei partirono spontaneamente dagli stabilimenti. «Questa volta invece - si indigna Farina - l´assalto alla sede Cisl di Treviglio era guidato dal locale segretario della Fiom».
Quella che si sta smarrendo è la grammatica delle relazioni tra organizzazioni sindacali: «Non era mai accaduto - osservava quest´estate il segretario della Fiom di Melfi - che di fronte al licenziamento di tre operai non scattasse la solidarietà delle altre organizzazioni e che anzi Fim, Uilm e Fismic rifiutassero di concedere le assemblee per discuterne». Insomma, anche nelle famiglie più divise è opportuno continuare a seguire regole minime di convivenza. Basta questo a spiegare le tensioni? Giorgio Airaudo, che si occupa di Fiat per la Fiom nazionale, premette che «nessuna divergenza sindacale può giustificare l´assalto alle sedi e la violenza. Se invece vogliamo provare a capire, penso che una ricetta per far scendere la tensione potrebbe essere quella di tenere le assemblee in fabbrica e i referendum anche sugli accordi separati. I sindacalisti di un tempo avevano il coraggio di andare in fabbrica anche a prendersi i fischi. E´ capitato a Trentin, a D´Antoni, a Pezzotta, a Cofferati, a Epifani. Quei fischi servivano non solo far conoscere il proprio punto di vista ma anche a far scendere la rabbia. Temo che non riusciremo a uscire da questa situazione se il sindacato non tornerà a presentarsi unitariamente di fronte ai lavoratori, anche con posizioni diverse e fino a quando non avremo un meccanismo di certificazione della rappresentanza: sapere quale sindacato rappresenta quanti lavoratori».
Altre epoche non furono meno facili. Nel ‘92, quando Cgil, Cisl e Uil approvarono i sacrifici imposti dalla manovra di Amato, i comizi si facevano in piazza con scudi di plexiglas per difendere i segretari generali dal lancio di bulloni e ortaggi. Il 14 ottobre, a Milano, Sergio D´Antoni venne colpito al viso in piazza Duomo. Le cronache dell´epoca riferiscono che ad animare le contestazioni erano gli autonomi, come era successo nel ‘77 con Lama all´università di Roma. E come è successo di recente alla feste del Pd con il lancio di un fumogeno contro il leader della Cisl, Raffaele Bonanni da parte dei centri sociali torinesi. «Che ci sia nell´area antagonista una strategia per colpire una parte del sindacato, è un fatto certo di cui sono testimone oculare», racconta Paolo Pirani, segretario confederale della Uil. Che ricorda «un´assemblea sindacale a Vicenza dove centri sociali e sindacati di base lanciarono contro il palco gli stessi volantini gettati a Torino contro Bonanni». Anche per Pirani «colpisce che a certe manifestazioni contro sedi di altri sindacati partecipino dirigenti della Fiom». Per il sindacalista della Uil «la tensione nasce dalla fine dell´egemonia dei metalmeccanici della Cgil», ma anche Pirani riconosce che «sono necessarie nuove regole per certificare la rappresentanza».
Basterà una legge che regoli la contrattazione, che stabilisca chi e a quali condizioni può firmare i contratti, per ricucire il rapporti tra le organizzazioni? Roberto Di Maulo, segretario generale del Fismic, è piuttosto scettico. Conosce bene come funziona la categoria del tradimento nel sindacalismo italiano: anni fa ha lasciato la segreteria della Uilm per passare al sindacato concorrente. «Non vedo come si possano rimettere insieme i cocci. La divisione non riguarda solo i rapporti con la Fiom ma anche con Fim e Uilm. C´è chi non mi saluta dopo aver lavorato con me per decenni. E c´è chi pensa che, in fondo, è meglio rimanere divisi per guadagnare un briciolo di visibilità. Questo criterio non vale solo per la Fiom ma anche per gli altri due sindacati. Francamente è una gara che mi appassiona poco».

Repubblica 4.10.10
Il leader della Cgil: esiste un confine netto tra le critiche e le aggressioni
Epifani: "No alle violenze ma un milione di lavoratori rischia di restare senza reddito"
di Roberto Mania


Allarme guadagni per chi è in mobilità e non può andare in pensione, per quelli cui scade la cassa in deroga e per gli statali precari
Fino a un anno fa è stato uomo del dialogo poi ha fatto alcune forzature. Il progetto Fabbrica Italia è nell´incertezza più assoluta
Non avrei mai immaginato di lasciare la Cgil così distante da Cisl e Uil, però è colpa loro io sono sempre stato per l´unità

ROMA - «Un milione di persone - dice Guglielmo Epifani, segretario generale della Cgil - sta rischiando di non avere più un reddito: non il lavoro, non la pensione, non la cassa integrazione o la mobilità». Un dramma sociale che si consuma lontano dai riflettori, «mentre il governo si occupa d´altro e galleggia». È l´Italia per la quale la crisi non è mai finita, mentre fanno capolino nel mondo del lavoro nuove forme di violenza.
Epifani, iniziamo dalle violenze. Due sedi Cisl e una della Confindustria sono state colpite da uova e petardi lanciati anche da iscritti e dirigenti della Fiom. Saranno espulsi dalla Cgil?
«Rispetto a questi episodi la nostra condanna è stata assolutamente inequivoca. Sono gesti che non appartengono alla cultura democratica della Cgil. Naturalmente, mentre lo dico, mi rendo conto che le scelte degli altri, cioè della Cisl e della Uil, sono sbagliate. Non si può destrutturare un contratto senza un rapporto democratico con i lavoratori. Queste scelte sono causa non secondaria del malessere operaio, che - sia chiaro - non c´entra nulla con la violenza. Il problema è che c´è una gigantesca questione di deficit di regole sulla rappresentatività e la democrazia sindacali. È un tema che va affrontato con urgenza. Non ci possono essere più rinvii, tentennamenti. Con Cisl e Uil dobbiamo al più presto riparlarne perché altrimenti si corre dritti verso l´anarchia e la balcanizzazione dei rapporti sindacali. Detto questo, ci sono le regole all´interno della Cgil che vanno rispettate. Si aprirà un´istruttoria e si deciderà. Noi siamo più rigidi nei confronti dei dirigenti rispetto ai semplici iscritti. Comunque - giuste o sbagliate che siano le posizioni di Cisl e Uil - non si può pensare di attaccare, intimidire, circondare una sede sindacale. C´è un limite tra la critica e i gesti di violenza».
Ci attende un autunno di violenza?
«Non lo so ma sono mesi che dico di abbassare i toni. E lo dico soprattutto agli esponenti di governo che hanno ideologizzato l´attacco alla Cgil. Tuttavia penso che tutti insieme abbiamo gestito con attenzione il malessere sociale che è derivato dalla recessione. Ora si deve stare molto attenti alle situazioni di crisi aziendali che sembrano senza sbocco. Lì, l´ansia e la disperazione possono portare a un conflitto sociale molto forte. Dico al governo e al Parlamento di occuparsi di questo. Bisogna innanzitutto rifinanziare la cassa integrazione in deroga».
Sacconi ha detto che è d´accordo.
«Non basta essere d´accordo, questo è il momento di passare alle decisioni. Sono problemi urgenti e drammatici. Ci sono almeno 100 mila lavoratori che dalla mobilità non possono andare in pensione perché nel frattempo è aumentata l´età pensionabile. E poi i precari della scuola, del pubblico impiego, delle università. C´è quasi un milione di persone che rischia di perdere qualsiasi forma di protezione al reddito».
Molte delle divisioni nascono dal caso-Fiat. Non crede che Marchionne avrebbe potuto essere proprio un vostro alleato per rilanciare il lavoro industriale?
«Fino a un anno fa Marchionne è stato un uomo del dialogo che ha anche contribuito a temperare le spinte oltranziste presenti nella Federmeccanica. Poi la situazione all´interno della Fiat si è complicata e questo l´ha portato a compiere alcune forzature. Resta il fatto che sul progetto Fabbrica Italia c´è l´incertezza più assoluta: non si sa che cosa si produrrà nei nostri stabilimenti. Il punto è che per costruire un progetto si deve partire dal prodotto e non da come si confeziona il prodotto. Questo, a mio parere, è stato il punto debole della Fiat».
Domani (oggi per chi legge, ndr) comincerà il confronto tra tutte le parti sociali sulla competitività. Qual è l´obiettivo Cgil?
«Pensiamo che ci siano alcune misure che vadano prese con urgenza: riguardano le condizioni del lavoro e la politica industriale. Poi vanno affrontati gli altri capitoli: fisco, mezzogiorno, innovazione e ricerca».
Materie che chiamano in causa il governo. Siete disposti a un negoziato e poi a un accordo con il governo?
«Intanto sarebbe importante che tutte le parti sociali convenissero sulle soluzioni da dare e le proponessero al governo e al Parlamento».
Quindi non esclude un accordo con il governo?
«La Cgil non ha mai escluso niente. Il problema è che fino ad oggi il governo non ha avuto la percezione della gravità della situazione sociale e produttiva del Paese».
Tra un mese lascerà la guida della Cgil. Avrebbe mai pensato di lasciarla così distante dalla Cisl e dalla Uil?
«Mai! Per me che ho avuto come bussola l´unità sindacale è proprio l´ultima cosa che avrei immaginato. Le strade si sono divise ma - sono convinto - non per responsabilità della Cgil».
Nemmeno per una parte?
«Di fronte alle scelte di fondo rispondo di no. Cisl e Uil hanno via via smarrito il profilo della loro autonomia e spesso contraddetto le scelte che unitariamente avevamo fatto, dal fisco alle pensioni, dalla democrazia sindacale alla rappresentanza».

Repubblica 4.10.10
"La Germania rifiuta tutti i Muri anche gli islamici sono tedeschi"
Il discorso di Wulff nel ventennale della riunificazione
Duro monito del presidente federale "Non fatevi contagiare dalla xenofobia"
di Andrea Tarquini


BERLINO - La Germania unita è patria di chiunque ci vive, anche dei musulmani, e io sono anche il loro presidente. Anche l´Islam, oltre alla tradizione cristiana e a quella ebraica, fa parte dell´identità tedesca. No a nuovi Muri, vent´anni dopo. Questo il forte messaggio lanciato ieri dal presidente federale Christian Wulff (cristiano-conservatore come la cancelliera Angela Merkel) nel suo discorso per le celebrazioni solenni del ventennale della riunificazione.
Vent´anni fa ieri, il 3 ottobre 1990, tra speranze e paure, quasi un anno dopo la caduta del Muro di Berlino, la Germania tornò unita: fu una svolta nella storia del mondo in cui viviamo. E le celebrazioni, ieri a Brema, hanno offerto l´occasione al centrodestra al potere di marcare una decisa linea di confine. Contro l´integralismo e contro chi arriva in Germania rifiutando di integrarsi, ma soprattutto contro chi vuole nuovi conflitti tra culture e religioni. Ogni giorno di più, due Weltanschauungen opposte dividono conservatori e moderati europei: da un lato il no all´islam dei radicali alla Wilders e la linea dura anti-Rom di Sarkozy, dall´altro l´apertura al mondo, in stile inglese, della cancelliera Angela Merkel e del suo team.
Ieri ci ha pensato il presidente Wulff a sottolinearlo, con chiarezza insolita. «Io mi appello ai tedeschi, chiedo loro di non farsi contagiare dalla xenofobia», ha detto. «Gli immigrati sono un arricchimento per la nostra società, pregiudizi ed emarginazioni sono inaccettabili… è nel nostro interesse nazionale». Non chiudiamo gli occhi davanti a chi vive qui e non accetta, come invece dovrebbe, il nostro modo di vivere, ha ammonito Wulff, ma al tempo stesso «il futuro appartiene alle nazioni aperte alla molteplicità culturale, alle nuove idee, al confronto tra diversi e stranieri». Quando musulmani che vivono in Germania mi scrivono, ha sottolineato, io dico fiero di essere anche il loro presidente. «Adesso anche l´Islam è parte della Germania… già Goethe scrisse 200 anni fa che Occidente e oriente non sono più divisibili».
Lo scontro politico interno sul rapporto con la forte comunità musulmana (soprattutto turca), scatenato dai successi della nuova destra altrove in Europa e dalle tesi anti-islam del banchiere Thilo Sarrazin, è stato dunque tema centrale del ventennale della riunificazione. Niente parate e niente sciovinismi. Ma un no presidenziale a chi vuole erigere nuovi muri contro gli immigrati.

Repubblica 4.10.10
E il mito creò il numero
Viaggio alle origini della matematica
di Antonio Gnoli

Oggi abbiamo smarrito il senso di sintesi fra pensiero scientifico e umanistico presente nel calcolo
Il disordine sociale cioè il male, è organizzato con cura scientifica, vale a dire che è ordinato
Intervista a Paolo Zellini che nel suo ultimo libro spiega la stretta connessione tra contare e pensare
Un´attività che determina le quotazioni di borsa il volo degli aerei i motori di ricerca le previsioni meteo

Sullo sfondo del nuovo libro di Paolo Zellini – Numero e Logos, Adelphi, pagg. 449, euro 32) – c´è un problema antico, ma non per questo meno attuale, meno, starei per dire, impellente: il rapporto ordine-disordine. È una coppia che conosciamo bene: la vediamo all´opera nella politica, nell´economia, e perfino nei rapporti privati. Non è detto che l´ordine sia un bene assoluto e che il disordine rappresenti il male. L´uno e l´altro si tengono, si condizionano, a volte familiarizzano, altre ancora si escludono. Si attraggono e si respingono. Si affiancano e si alternano. C´era una frase che circolava nel ´68, attribuita al Presidente Mao: "grande è il disordine sotto il cielo, eccellente la situazione". Voleva dire che il disordine non è solo fonte di disavventure, ma anche di sogni, di progetti, di utopie, di follie rivoluzionarie. Dal disordine può nascere il nichilismo che richiede, tuttavia, ordine ed esattezza. Zellini lo dice con molta chiarezza: «Il disordine sociale è anch´esso organizzato con cura». Egli cita I fratelli Karamazov, forse il solo grande romanzo in cui la sovversione prende l´inquietante forma del numero e del logos, della puntualità e del calcolo nell´esecuzione. Verrebbe da aggiungere che molti film di Hitchkock sono costruiti sull´idea che il disordine (il male) richiede una perfezione dell´esecuzione che solo il calcolo può offrire.
Zellini è in origine un matematico, ma le sue straordinarie competenze filosofiche ( e questo libro le esibisce con maestria, spaziando dal mondo antico a quello moderno) ne fanno un personaggio singolare, forse unico nel panorama italiano.
Il suo lavoro va in una direzione diversa dai tanti tentativi che la matematica ha fatto per assoggettare la filosofia. Insomma, niente filosofia della matematica, ma pari dignità a entrambi i saperi. È così?
«La tentazione di dire "niente filosofia della matematica" è forte, almeno nell´accezione comune del termine, nella quale prevale la convinzione erronea di poter fondare la matematica sulla logica. Quest´ultima, sebbene abbia una stretta relazione con la moderna scienza del calcolo, non basta per capire che cosa hanno in comune matematica e filosofia. Viceversa, una parte del pensiero mitico, filosofico e rituale, che di solito ignoriamo, aiuta a capire meglio il significato di importanti costruzioni matematiche».
A questo proposito è interessante che lei dedichi spazio alla figura di Proteo e al fatto che questo dio si colloca tra l´esperienza del mare e quella dei numeri. Ora, il mare è spesso visto come metafora del pericolo e del disordine e il regno dei numeri come lo strumento che ne scongiurerebbe l´ingovernabilità. Fin dall´inizio del suo libro siamo in presenza della coppia ordine-disordine.
«Il mare, nella tradizione greca come pure in quella ebraica, era metafora del disordine, ma anche della sofferenza e della prova. Navigare sui flutti – affermava Porfirio – era un modo per "placare il demone della nascita", allo scopo di raggiungere un approdo finale nella terra promessa. Ma appena fuori dei flutti si incontra il numero. Nell´Odissea Proteo, dio del mare tanto ambiguo quanto veridico, appena fuori dall´acqua passa in rassegna il suo gregge di foche contandole cinque per cinque».
Accennava alla tradizione ebraica.
«Nella tradizione ebraica, per esempio, l´arca che naviga sulle acque del diluvio ha precise forme geometriche».
Sfidando la convinzione che li vedrebbe opposti, lei descrive un accordo segreto tra il mito e il logos. Dove e quando si realizza questa alleanza?
«Mito e logos si incontrano nel quarto libro dell´Odissea. È qui che il logos rivela il senso originario di raccogliere, censire, enumerare. Faccio notare che siamo già alle soglie del problema filosofico di come l´unità si mantiene nel molteplice. E di questo senso originario è permeata la filosofia pitagorica che attraversa tutta la tradizione filosofica occidentale in misura ben maggiore di quello che si è disposti di solito a riconoscere».
Però nella tradizione filosofica è prevalsa una sola versione del logos, quella per intenderci "generalista", come mai?
«Difficile da dire. Tutto sembra aver congiurato: dalla filologia all´idealismo filosofico, dalla filosofia scientifica del ´900 agli orientamenti di pensiero che hanno emarginato la matematica o hanno preteso di intenderla alla stregua di un linguaggio rigoroso, basato su assiomi e deduzioni formali. Ma il logos non mai stato solo un "discorso"».
Non è un paradosso pensare che nel mito ritroviamo il logos che, combinandosi con misure ed enumerazioni, ci conduce dritti al calcolo moderno?
«Non lo è. Solo da poco la scienza ha scoperto che l´atto di enumerare è molto meno elementare di quello che sembra. Già in antiche prassi rituali interviene un pensiero matematico che rimane pressoché invariato nel corso di secoli ed è ancora ben riconoscibile nei procedimenti più avanzati del calcolo scientifico, dal quale dipendono, tra l´altro, le previsioni meterologiche, i prezzi di mercato, il volo degli aerei, l´industria delle automobili e i motori di ricerca».
L´accostamento tra pensiero mitico e pensiero scientifico non la espone all´accusa di irrazionalismo o di sincretismo?
«Molte formule sapienziali, ancora impregnate di pensiero mitico, sono allusioni indirette al numero e alla geometria. Le troviamo in Platone e in Boezio, nei Pitagorici e nei Neoplatonici, nella filosofia del Rinascimento e nel pensiero religioso da Filone di Alessandria in poi. Sono la base di ogni elaborazione filosofica, di ogni incontro tra scienza, filosofia e teologia. Perfino Hegel si avvale di formule verbali che, forse a sua insaputa, si adattano perfettamente agli algoritmi della matematica. Ciò che ci appare irrazionale è spesso impregnato di razionalità. Viceversa, certi modi di accogliere, usare o difendere la verità scientifica celano atteggiamenti irrazionali».
Come immagina il futuro di una società dominata dall´algoritmo e dalla Rete? Glielo chiedo alla luce delle preoccupazioni che già Max Weber aveva manifestato intorno al dominio incontrastato della scienza.
«In effetti, Weber dava un´immagine preoccupante del processo di razionalizzazione che ci domina. E oggi siamo sommersi da allusioni profetiche sui mali della tecnica. L´allarme non si può sottovalutare, ma è spesso fondato su conoscenze superficiali. I numeri e gli algoritmi che sembrano consegnarci – e forse ci consegneranno – a un destino di aridità e di povertà di pensiero, portano in sé elementi di straordinaria ricchezza concettuale. Sono questi elementi che ci permettono di dare una retta interpretazione dell´idea "intuitiva" di macchina. Solo conoscendo a fondo gli algoritmi siamo in grado di capire ed esorcizzare la paura che la macchina ci incute».
Lei sostiene che oggi è più difficile scegliere tra un uso buono e un uso cattivo della scienza. Perché?
«Il logos è una medicina ambigua, capace di liberare l´anima come di traviarla. Il numero e tutte le applicazioni della scienza possono sconfinare nella demonicità pura, nel male senza remissione di un attacco atomico o di un dominio indiscriminato della macchina, come aveva paventato Norbert Wiener, uno dei grandi scienziati del ´900. La lettura dei filosofi e dei matematici antichi aiuta d´altronde a capire quanto sarebbe assurdo attribuire al numero e ai calcoli eseguiti oggi dalle macchine una connotazione di pura malvagità. Io credo che occorra ripensare e recuperare nel calcolo moderno, la sintesi di scienza e umanesimo che vive nel significato smarrito del logos».
È la solitudine dei numeri, per dirla con una battuta, che bisogna vincere. Cercando magari un diverso equilibrio tra ordine e disordine. Non crede?
«La ricerca dell´ordine convive con la salutare minaccia di un disordine, che la matematica si incarica da sempre di riportare ai ranghi del numero, ma con la consapevolezza di poterlo fare solo in modo approssimativo, con un margine di errore e di incertezza. La sfera di pertinenza del logos e la potenza esplicativa del numero vanno ben oltre l´ordine e la precisione assoluta che si attendono di solito, ingenuamente, dalla matematica».

Corriere della Sera 4.10.10
E un pirata inventò il capitalismo
Il comportamento razionale dei filibustieri prefigura quello delle imprese
di Giulio Giorello


I marinai di un mercantile viaggiano tranquilli sulle onde. Una nave da duecento tonnellate appare all’orizzonte. Vista a distanza sembra inoffensiva. Batte bandiera inglese. Quando si fa più vicino, il naviglio rivela, però, tratti sinistri: è anch’esso un mercantile, ma alquanto modificato. Invece dei soliti sei cannoni, ne ha più di venti... La scena che Peter Leeson ci invita a contemplare in questo suo The Invisible Hook, ovvero alla lettera «l’uncino invisibile», che tratta dell’Economia secondo i pirati, è la minaccia di un arrembaggio: la nave misteriosa trasporta una ciurma di canaglie, comandate da un qualche Capitan Uncino. Gli ultimi dubbi verranno presto dissolti, perché i capi pirata amano personalizzare le loro insegne, variando lo schema di quella che è nota come la Bandiera della Morte, ovvero la Jolie Rouge (in seguito Jolly Roger), il drappo rosso — e poi nero — che reca teschio e ossa. Che cosa farà il comandante del mercantile alla vista di quello spauracchio dei mari? Magari si limiterà a seguire l’esortazione del Capitan Uncino della versione musicale di Edoardo Bennato: «Meglio che questa volta si arrenda». Ma cosa lo ha indotto a desistere da qualsiasi autodifesa?
Il fatto è che — almeno nella stragrande maggioranza — quei predoni del mare godevano fama non solo di essere spietati con chi non cedeva subito le armi, ma anche di essere fedeli alla parola data: chi si arrende avrà salva la vita, anche se perderà la roba. Uno scambio abbastanza equo per tutti coloro che si trovavano sospesi «tra il Diavolo e il profondo mare azzurro»: da una parte quelli che avevano tentato la sorte sulle onde; dall’altra i pirati stessi, che sfidavano la morte affrontando tempeste, abbordaggi, o magari l’implacabile «giustizia» di chi viveva sotto la legge.
Questo il paradosso dei pirati pacifisti. Come scrive Leeson: «La Jolly Roger finiva per salvare la vita ai marinai delle navi da carico. Segnalando l’identità dei pirati e i potenziali obiettivi preveniva una battaglia sanguinosa che avrebbe inutilmente ferito o ucciso non solo dei pirati ma anche degli innocenti marinai. Paradossalmente, dunque, l’effetto del lugubre simbolismo del teschio era simile a quello di una colomba che tiene nel becco un ramoscello d’ulivo!». I pirati erano capaci di beffarsi delle potenze del mondo intero e di elaborare insieme strumenti semiotici di mediazione piuttosto sofisticati — e tutto allo scopo di minimizzare i costi e massimizzare i profitti delle loro... imprese. Qui valeva la legge dell’Uncino Invisibile, degno correlato piratesco della Mano Invisibile di Adam Smith. La ricerca dell’utile personale di ciascun cittadino finiva per produrre la ricchezza della nazione; allo stesso modo, l’egoismo di ciascun pirata era funzionale all’economia di quello «Stato in miniatura» rappresentato dalla nave di questi predatori del mare.
Come scrive Leeson, i pirati erano sì dei «fuorilegge assoluti», ma non per questo erano incapaci di forme articolate di autogoverno. La loro massimizzazione del «piacere» richiedeva appunto «potere e libertà», e tutto questo era garantito da una «democrazia anarchica» che permetteva di affrontare con successo la grande questione che sottende l’origine dello Stato moderno. Per dirla con Baruch Spinoza: com’è possibile che ogni individuo ceda alla struttura pubblica una porzione della propria libertà e nello stesso tempo eviti «che la sua coscienza soggiaccia assolutamente all’altrui diritto»? La risposta è: definendo un sistema di controlli e contrappesi che garantisca che qualsiasi struttura statuale, «lungi dal convertire in bestie gli uomini dotati di ragione o farne degli automi», consenta invece «che la loro mente e il loro corpo possano con sicurezza esercitare le loro funzioni. Il vero fine dello Stato è la libertà».
È singolare, nota Leeson, che tutto ciò venisse realizzato con più di un secolo di anticipo rispetto al sistema di checks and balances escogitato dai padri fondatori di quell’«esperimento democratico» grazie a cui tredici colonie del Nordamerica divennero il nucleo degli Stati Uniti. Prima che contro la Corona e il Parlamento d’Inghilterra insorgessero i «risoluti ribelli», già si erano ammutinati non pochi marinai delle navi di sua maestà, per non dire delle piratesche «canaglie di tutto il mondo» che rifiutavano di chinare il capo di fronte a qualsiasi autorità. Il vero esperimento democratico è stato il loro — e le società aperte di cui oggi l’Occidente va tanto orgoglioso non hanno fatto che imparare da quei «mostri».
Non è perché fossero istintivamente miti o portati alla democrazia che i pirati finirono con lo scegliere la politica dell’intimidazione nei confronti del nemico esterno e quella del buon governo al proprio interno. Credo che ci possa aiutare a mettere in luce i tratti più salienti dell’Uncino Invisibile un modello elaborato da Elliot Sober in un contesto diverso (il dibattito sulla selezione darwiniana): in breve, biglie di diverso colore vengono filtrate da un crivello, i cui fori — che immaginiamo tutti uguali — bloccano quelle di dimensione superiore al diametro dell’apertura. Supponiamo inoltre che le biglie così piccole da non essere fermate dai buchi siano tutte colorate di rosso; possiamo concludere che il crivello seleziona solo biglie di quel colore. Ma quel tratto è tipicamente contingente: che il rosso si stabilizzi come carattere distintivo delle biglie «sopravvissute» è una mera conseguenza del meccanismo sottostante che discrimina le biglie per dimensione e del fatto «accidentale» che tutte le biglie abbastanza piccole sono di quel colore. Dunque, non è perché sono rosse che le biglie passano attraverso quel crivello; piuttosto, il fatto che sono rosse è un segno che esse erano adatte a superare l’ostacolo. Analogamente, possiamo dire che i nostri pirati erano «buoni» solo perché la loro bontà è stata selezionata come «tratto contingente» dalla logica economica che coordinava le loro pratiche.
Nel caso del crivello di Sober è facile individuare il meccanismo sottostante (se il diametro della biglia è maggiore di quello del foro, questa non passa). Nel caso dei pirati la ragione nascosta di tutto il processo è appunto l’Uncino Invisibile: la pirateria tra Seicento e Settecento aveva favorito l’evoluzione di quei tratti «buoni» perché questi erano i caratteri più vantaggiosi. Dunque, non solo l’analogia bensì anche la differenza con il crivello di Sober è istruttiva: le biglie ben poco fanno per modificare il crivello; le scelte dei pirati, invece, riescono a rimodellare il sistema di contromisure adottate dalle marine delle varie nazioni, nominalmente o realmente in guerra contro di loro. È un po’ come se il tingere di rosso alcune biglie ne riducesse la dimensione rendendole più «agili e snelle», in modo da eludere le maglie del crivello! I pirati sanno scegliere i colori, ed è grazie al rosso o al nero della Jolly Roger che riescono a piegare ai loro scopi le maglie di qualsiasi crivello venga loro opposto dal commercio «legale». Ma sanno anche che la mossa è rischiosa, perché li segnala come fuorilegge. Non diversamente, è rischioso per i pavoni possedere code sgargianti o per gli alci avere grandi palchi di corna per sedurre le femmine. Nello spirito darwiniano ciò funziona, anche se quegli animali rischiano maggiormente di apparire come possibili vittime dei predatori; quando riescono nei loro intenti, però, sono loro i «predatori» nella gara degli amori. E così sono i pirati, che il loro vessillo segnala inequivocabilmente come nemici di tutte le bandiere, ma che — quando il colpo va a segno — consente loro di ottenere quella «felicità» di cui vanno in cerca, e magari senza troppo spargimento di sangue.

Repubblica 4.10.10
Un'originale iniziativa di Giovanna Calvino alla Fiera di Francoforte
Il salone letterario si trasferisce sul web
di Babriele Pantucci

Parla la figlia dello scrittore, che insegna letteratura comparata alla New York University. Si è ispirata alle "Lezioni americane" per i suoi colti interludi su internet

Quelli che Italo Calvino indicava come valori da tramandare alle generazioni future sembrano trovare un loro "luogo", inesistente venticinque anni fa – nell´85 – quando lo scrittore scomparve. Avrebbe dovuto tenere sei lezioni a Harvard e ne aveva già scritte cinque: su leggerezza, rapidità, esattezza, visibilità e molteplicità. Non fece in tempo a scrivere l´ultima, che sarebbe stata dedicata alla consistenza. Garzanti le pubblicò nell´88 come Lezioni americane. Sei proposte per il prossimo millennio. Ed è proprio a queste "lezioni" che sua figlia Giovanna si è ispirata nella realizzazione di una serie di brevi interludi letterari su internet, che verranno presentati giovedì prossimo alla Fiera del libro di Francoforte.
Una volta alla settimana Amateur Thursdays (amateurthursdays.com ) offrirà la possibilità di riflettere su un libro, spesso con un richiamo a un classico che gli è strettamente attinente: attraverso cioè la voce di un altro scrittore. Il titolo è un riferimento ironico a The Cocktail Party di Eliot: dove un personaggio definisce amateur thursdays ("i giovedì del dilettante") i tentativi di sua moglie di creare un improbabile salon literaire.
Giovanna Calvino ha un dottorato in letteratura comparata e insegna alla New York University. Sarà lei l´executive producer. L´affiancheranno Alison Snyder, specializzata in giornalismo scientifico, e Fabrice Rozie, già addetto culturale dell´Ambasciata francese. Giovanna è poco incline a parlare di suo padre, e forse quella riservatezza le è stato trasmessa proprio da lui: «Mio padre – dice – non amava parlare di sé, e neppure dei suoi libri. Piuttosto amava parlare dei libri degli altri. Se realizzassimo l´iniziativa in Italia, il titolo giusto sarebbe proprio "I libri degli altri"... Parleremo comunque non solo di buoni libri, molto ben firmati, ma anche di quelli più popolari che hanno avuto un grandissimo successo».
La prima "puntata" avrà per tema la seduzione. Si parlerà d´un libro della categoria definita in America self help (cioè fai-da-te). Col titolo The Pick Up Artist l´autore – sotto lo pseudonimo di "Mistery" – illustra con umorismo la nuova arte della seduzione, utilizzando anche il classico di Soren Kierkegaard: Diario di un seduttore.
Poi naturalmente sarà possibile la partecipazione interattiva del pubblico. «Oggi è facile filmarsi sul computer – spiega Giovanna – e noi incoraggeremo il pubblico a inviarci dei loro video view di 30 secondi: su internet la gente dice quello che pensa e, per chi non ha facilità di esprimersi, l´espressione del volto contribuirà a rendere meglio quello che vuole esprimere e che sente davvero». A quale fascia demografica è indirizzato questo singolare progetto? «A una fascia d´età ampia: a quella dei giovani intorno ai 25 anni, ma anche a quella dei senior. Ai sessantenni che navigano molto su internet».
A Francoforte saranno presentati i primi tre filmati. Il primo è stato realizzato nella casa d´una corrispondente di Vogue. Il secondo nella sede del New York Review of Books. «Tratteremo dell´amicizia tra i cani e gli esseri umani. In America tutti adorano i cani – dice Giovanna – e ci soffermeremo su un libro bellissimo degli anni Sessanta: My Dog Tulip di J. R. Ackerley. Accanto, le favole di Esopo».
Il terzo filmato è stato "girato" al Museo Barrio. «L´argomento è la coscienza di classe nei classici. Prendiamo lo spunto da un libro appena uscito True Prep di Lisa Birnbach: un manuale ironico su come sembrare "preppy" (ben preparati) in America. Il libro contiene anche una lista di letture obbligate per chi vuole appartenere all´alta società americana. Due degli scrittori che hanno partecipato a questo "episodio" sono Rick Moody ed Edmund White». Gli scrittori che commenteranno i "libri degli altri" saranno comunque in prevalenza giovani che hanno già all´attivo la pubblicazione di un romanzo di esordio apprezzato dalla critica e dal pubblico.

domenica 3 ottobre 2010

l’Unità oggi è in sciopero

il Fatto 3.10.10
Scene del Fascismo che torna
di Furio Colombo


Le parole di Ciarrapico, il pestaggio ai danni di Blanchaert, le freddure del premier sugli ebrei, il determinismo razziale del sindaco di Tradate: fotografie del Ventennio a colori

Sembrava toccato un fondo umiliante con la scuola di Adro, edificio dello Stato vandalizzato dalla Lega. E con il voto di fiducia ottenuto da Berlusconi per forzare a un atto di sottomissione chi ha già detto ad alta voce e in pubblico ciò che pensa di lui.
Ma nelle stesse ore due fatti ci hanno ricordato che, se il presente è squallido, il peggior passato italiano si sta facendo largo tra le rovine di Berlusconi e non ha più vergogna di ciò che è stato.
Fenomenologia dei tempi correnti
ECCO il primo fatto. È mercoledì 29 settembre, siamo a Milano, siamo in via Bagutta, siamo di fronte a una manifestazione di studenti, quasi tutti di scuola media e alcuni universitari che per comodità e per giustificare alcuni eventi, verranno descritti come “centri sociali”. La manifestazione è piccola ma la ragione che porta i ragazzi in strada, di fronte alla sede dell’Unione Ufficiali in congedo, è grande. Il ministro della Difesa La Russa, il sindaco di Milano Moratti e il ministro dell’Istruzione Gelmini hanno deciso che d’ora in poi mille ragazzi delle scuole milanesi parteciperanno ogni anno a un corso che si chiama “allenati per la vita”. Vuol dire armi, esercitazioni, sfide fra pattuglie, esercizio alla “frequentazione di luoghi ostili”. Vuol dire cultura di guerra a scuola. L’affermazione non è eccessiva perché un simile training non è affatto un modo di accostarsi alla vita dei soldati veri. Facile provarlo.
È evidente l’equivoco: gli metti l’arma in mano, lo fai agire come una persona armata, creando una presunzione di razza a parte, di razza superiore. Ed è evidente il pericolo: Impari i gesti ma non il senso, come insegnare a qualcuno ad usare il bisturi, col pretesto che non si sa mai, ma senza la scuola di Medicina.
Ho detto che un simile folle progetto non si ritrova mai nelle scuole del mondo democratico. Ma occorre aggiungere che era tipico del fascismo, che esercitava i ragazzi anche con armi finte (che diventavano vere dopo i 15 anni) su scala di massa. Dunque, senza alcun dubbio, l’iniziativa è fascista, nel senso classico e antico della parola. È il fascismo di Mussolini che voleva indurire gli italiani “molli e pacifisti”.
Tutto ciò per spiegare l’evento di Milano. Questo giornale ne ha parlato accuratamente il primo ottobre. A me preme far notare qualcosa di strano e di pericoloso nella sequenza dei fatti.
Primo, non era una grande manifestazione, i partecipanti erano pochi (pensando all’irresponsabilità di adulti come La Russa, Moratti, Gelmini, titolari del potere, viene voglia di dire “peccato”). Saranno stati rumorosi ma certo non pericolosi. Non risulta che vi siano stati contatti fisici di alcun genere.
Il modello ‘Genova’ per le vie di Milano
SECONDO, i ragazzi hanno avuto l’impressione che vi fosse, oltre alle normali forze dell’ordine (carabinieri) un gruppo di militari diverso e speciale. Non diversa la divisa, ma il comportamento. O (direbbero gli specialisti) la missione.
Qui occorre sentire la voce di Leon Blanchaert, anni 23, corso di laurea in Scienze politiche, Uni-
versità Statale, uno dei pochi adulti nella dimostrazione contro la cultura della guerra degli studenti di scuola media il 29 settembre a Milano.
“Tutto era finito in modo pacifico ma all’improvviso due di noi, io e una ragazza, evidentemente identificati come i capi della dimostrazione, siamo stati bloccati da un gruppo di militari che ci seguiva. Alla ragazza hanno storto il braccio come per romperlo. Io sono stato tenuto fermo mentre uno di loro mi picchiava sulla faccia fino a staccarmi il setto nasale. Sono in ospedale e nei prossimi giorni sarò operato. L’evento è stato terrorizzante per i ragazzi e le ragazze più piccoli (alcuni di 13 e 14 anni). Anche a nome loro chiediamo un intervento parlamentare. Vogliamo sapere chi ha ordinato una simile azione, lungo quale catena di comando, visto che il ministro della Difesa è il promotore dell’iniziativa che noi chiamiamo “la guerra a scuola” e, allo stesso tempo, il comandante in capo di coloro che ci hanno aggredito come per darci una lezione esemplare, benché nessuna misura di ordine pubblico giustificasse una simile spedizione punitiva”.
La mattina del primo ottobre mi sono assunto il compito di intervenire in aula. Era in corso la discussione generale sull’aumento ed estensione dei pedaggi sulle autostrade. Ma proprio in quel momento in Senato era accaduto qualcosa di insolito e grave. L’evento ha indotto la presidente di turno Rosy Bindi a permettere al deputato Fiano (poi a Nirenstein e poi a me) di intervenire. Ecco che cosa era accaduto. Il Senatore Giuseppe Ciarrapico, che si è sempre vantato di essere stato e di essere tuttora fascista, ha detto: “ Vedremo quanti voti prenderà il transfuga Fini. Ma mi domando: i finiani hanno già ordinato la kippah? Perché di questo si tratta. Chi ha tradito una volta tradisce sempre”.
La kippah è il tradizionale copricapo degli ebrei, avvertono le agenzie che hanno diffuso la notizia.
Intervenendo con forza e passione sul senso che hanno quelle parole nell’Italia che stiamo vivendo, Fiano ha aperto la strada che mi ha consentito di raccontare subito all’Assemblea il pestaggio organizzato a Milano contro ragazzi estranei ad ogni azione o organizzazione pericolosa, colpevoli di essersi opposti alla “scuola di guerra”, da parte di un gruppo che forse è un’unità speciale con una missione speciale, qualcosa di separato dalle normali forze dell’ordine. Insomma, assieme alle parole di Ciarrapico si intravede l’altra faccia del fascismo, che si sente libero e anzi voglioso di esserci e di farsi notare, si sente autorizzato di venire sfacciatamente allo scoperto.
Niente scorre, tutto torna
CON IL comportamento del sindaco leghista di Tradate che vieta il pagamento del premio di natalità se i genitori del nuovo nato non sono tutti e due italiani. E spiega senza ritegno che la sua iniziativa ha lo scopo di proteggere “ la nostra cultura”, torna, nella sua tipica forma odiosa, la difesa della razza. Quando il docente del conservatorio di Milano Johanne Maria Pini non esita a raccomandare l’eliminazione dei disabili, il nazismo torna ad insediarsi in Italia senza esitazione e senza pudore. Ecco la nuova Italia di cui ci ha parlato a lungo Berlusconi, prima di addormentarsi in Senato, placato e confortato da se stesso dopo aver annunciato che tutto va bene, dopo essere stato il protagonista di un “fuori onda” in cui ripete di voler dare la caccia ai giudici e racconta le sue umilianti barzellette sugli ebrei.



Repubblica 3.10.10
Il popolo under 20 "Ridateci il futuro"
Il popolo Viola ha meno di vent´anni e sa che il futuro gli è stato rubato. Nel giorno del NoB-Day 2 il corteo è pieno di giovanissimi.
L’onda viola ha meno di vent´anni "Siamo i partigiani del terzo millennio"
"Che ci frega di Montecarlo, a noi interessa chi la casa non ce l´ha"
di Maria Novella De Luca


Gli applausi per Rodotà e il "libretto rosso" di Borsellino sventolato da centi-naia di persone
Tanti gli studenti medi che sfilano, mescolando slogan contro Berlusconi, techno, pop e rock

Quelli che ti aspetti ad un corteo di studenti medi, quelli che hanno fatto forte l´Onda, e invece eccoli che arrivano ballando in piazza San Giovanni, mescolando slogan, techno, pop e rock, tutti dietro due ragazzi di Reggio Emilia che in mancanza di camion e sound system si sono messi le casse sulle spalle, e avanzano eroici e sudati tra gli applausi del corteo. Alla fine piazza San Giovanni è piena a tre quarti, con le bandiere dell´Idv che quasi sovrastano le sciarpe e gli striscioni viola.
Di Pietro in testa alla manifestazione con accanto la moglie e la figlia incamera applausi, si concede, stringe mani su mani e attacca Berlusconi "corruttore e violentatore della democrazia". Anche per Vendola, che appare per un breve saluto, è grande festa, ma l´anima della manifestazione è altrove, è tra i centomila che seduti sul prato davanti al maxi-palco applaudono Stefano Rodotà e Paul Ginsborg, Salvatore Borsellino e Ilaria Cucchi, i partigiani dell´Anpi, i cassintegrati e i parenti dei morti sul lavoro. E ricordano insieme ai martiri di mafia anche Federico Aldrovandi, Stefano Cucchi, Gabriele Sandri, tutti giovani e tutti scomparsi in modo violento mentre erano "sotto la tutela dello Stato". "Mio fratello è morto un anno fa - ricorda con la voce incrinata Ilaria Cucchi - ma la verità è sempre più lontana". Oltre le bandiere l´eterogenea folla del No B-Day 2 resta più "liquida" di quanto si pensi, il nemico è lui, Berlusconi, che i Viola vogliono licenziare, dimettere, cacciare, e allora, dicono gli striscioni "svegliati Italia", perché "l´Italia è nostra e non di Cosa Nostra", e dunque, scandisce il movimento delle "Agende rosse", "fuori la mafia dallo Stato", e "Berlusconi a San Vittore". Colpisce sentire docenti universitari, giuristi, giornalisti che parlano di legalità, legge elettorale, senso dello Stato, concetti né semplici né semplificati, applauditi con calore da una folla trasversale alle generazioni. Che punta il dito contro l´assenza il Pd, come ricordano decine di cartelli satirici con Bersani addormentato e la scritta "Non facciamo rumore altrimenti il Pd si sveglia". E in serata Ignazio Marino dice con amarezza: "E´ un errore che il Pd non sia qui".
Dopo qualche goccia di pioggia la serata diventa bella, il cielo senza nubi. Guglielmo e i suoi amici frequentano il terzo anno del liceo "Mamiani" a Roma: "Siamo qui contro Berlusconi che ci toglie il diritto allo studio, che ci toglie il futuro, siamo qui perché il popolo Viola comunica su Internet e la rete è l´unica voce libera rimasta". Parola di adolescenti che tra pochi giorni torneranno a sfilare in una grande manifestazione contro la riforma Gelmini. E infatti tanti e numerosi sono i precari della scuola, molti hanno i capelli bianchi, mentre il Coordinamento Viola di Milano porta uno striscione con una frase di Montanelli: "Il berlusconismo è veramente la feccia che risale dal pozzo".
I gruppi emergenti portano sul palco rock e canzoni di lotta, tammorre e rap napoletani. Ci sono i Rein, c´è Zona Rossa Crew, Le Formiche, Effetti Collaterali, la piazza assomiglia a quella del concerto del Primo maggio, ma esplode in un applauso quando il rappresentante dei partigiani dell´Anpi grida: "Politici, basta, ma che ci frega a noi della casa di Montercarlo, a noi interessa chi la casa non ce l´ha, chi non ha un tetto sulla testa...". Vanno a ruba le magliette con la scritta: "Partigiani del terzo millennio". In uno spicchio dell´immenso sagrato ci sono i comitati dei senzacasa, i coordinamenti dei senza tetto, arrivano da Roma, da Napoli, "da vent´anni siamo in lista - dice Salvatore Augelli, 50 anni, disoccupato - ma l´assessore ha venduto gli elenchi alla Camorra, chi ha pagato il pizzo è entrato, gli altri via, in fondo alla graduatoria, e non importa se avevamo il punteggio per arrivare primi".
E´ la disperazione del paese reale, che chiede soprattutto legalità. "La società italiana si sta decomponendo - dice Stefano Rodotà dal palco - c´è stata una pianificazione legislativa del degrado, una regressione culturale, c´è un attacco alla scuola, al futuro dei ragazzi, restiamo uniti, non dividiamoci, questo è il momento del tutti con tutti". "Grazie professore", gridano dal prato. Le divisioni tra l´ala dura dei Viola che contesta l´irruzione dei simboli politici, e chi invece allarga le maglie, sembra distante da qui, roba sterile. E tocca poi a Salvatore Borsellino, fratello di Paolo, assassinato dalla mafia, accendere il pathos del popolo delle "Agende Rosse". Centinaia di giovani che sventolano un libretto rosso a ricordo della famoso diario da cui il giudice Borsellino non si separava mai, agenda scomparsa (o fatta scomparire) dopo l´attentato. "Siamo nel fondo del baratro, la corruzione è la regola, Berlusconi che offende la Costituzione non può citare il nome di Calamandrei, stanno vincendo la mafia, la n´drangheta, il Premier si è alleato con Gheddafi per lasciar morire centinaia di disperati nel canale di Sicilia...". Un´invettiva durissima, che finisce con il grido, "Resistenza", moltiplicato per centomila voci. Molti hanno gli occhi lucidi. Per fortuna la musica ricomincia, ed è festa fino a notte.

il Riformista 3.10.10
No B-Day 2 Vendola fa show Il corteo fa flop
Opposizione. Pesano le divisioni nel popolo viola: insuccesso di partecipazione alla manifestazione anti-Silvio. Nichi si prende la scena. E tesse la tela dei rapporti con la Cgil in vista delle primarie.
di Ettore Colmbo

qui
http://www.scribd.com/doc/38620536

Corriere della Sera 3.10.10
Urne anticipate, un elettore su tre verso l’astensione
di Renato Mannheimer


Il 56% ha un’opinione negativa della politica, il 28 prova addirittura «disgusto»

Come ogni settimana, abbiamo effettuato nei giorni scorsi un sondaggio sulle intenzioni di voto degli italiani. La distribuzione delle preferenze non differisce molto dalle ricerche precedenti, salvo la conferma della tendenza ad abbandonare il consenso per i due partiti maggiori (sia il Pdl, sia il Pd) per dirigerlo verso le forze più piccole. Ma l’esito più significativo non riguarda tanto il voto, quanto il non voto. Rispetto al passato, infatti, si sono di molto accresciute le risposte «non so cosa votare», «non so se andare a votare» e similari. L’insieme di queste espressioni di indecisione, se non di rifiuto dell’intera offerta elettorale attuale, si avvicina oggi al 33% (era il 25% prima dell’estate). Insomma, più di un italiano su tre non vuole o non riesce a prendere posizione sul partito da votare.
È un altro indicatore del processo di sfiducia verso la politica e le sue istituzioni che, di nuovo, si sta manifestando nel nostro Paese. Gli avvenimenti che hanno connotato lo scenario politico di questi ultimi mesi hanno rafforzato questo andamento. I litigi interni, sia nel centrodestra, sia nel centrosinistra, l’attenzione talvolta esagerata a tematiche che poco riguardano gli interessi reali dei cittadini (ad esempio, la vicenda della casa di Montecarlo) hanno favorito l’allargarsi degli atteggiamenti di disaffezione.
Se ne ha conferma anche dai dati di molte altre ricerche di questo periodo. Ad esempio, dai risultati dell’osservatorio trimestrale che Ispo conduce per Confesercenti, si rileva come la percentuale di chi ritiene che le principali istituzioni (il governo, l’opposizione, ma anche i sindacati) «abbiano promosso misure concrete per aiutare le famiglie italiane in questi mesi di crisi economica» sia assai poco elevata e, per di più, in forte diminuzione. Oggi, solo il 23% (era il 31 l’anno scorso) pensa che l’esecutivo abbia agito in tal senso. E solo l’11% (era il 21 sei mesi fa) attribuisce questi comportamenti all’opposizione.
Tutto ciò si traduce in un ancor più accentuato distacco dalla politica nel suo insieme e dalle sue vicende quotidiane. Interrogata sulla «prima espressione che viene in mente pensando alla politica», la maggioranza relativa degli italiani (27,8%) dice, senza esitazione, «disgusto». Una quota sostanzial menteanaloga (27,6%) dichiara «noia» o «indifferenza». Tra gli altri, prevalgono le risposte «rabbia» (20,7%) o «diffidenza» (8,1%). Solo il 6,3% esprime «interesse» e una percentuale ancora inferiore (2,4%) manifesta «passione». Nel loro insieme, gli atteggiamenti positivi verso la politica coinvolgono il 16% del campione, quelli negativi il 56%, quelli di indifferenza il 28%.
Ma il risultato più interessante si rileva dal confronto col passato. Rispetto al 2007, quando fu posta agli italiani la stessa domanda, infatti, calano significativamente le risposte che mostrano un qualche coinvolgimento, positivo o negativo, e si accrescono notevolmente le manifestazioni di noia e di indifferenza. Insomma, si accentua, in misura ancora maggiore del passato, il distacco dalla politica, specie nell’elettorato di centrosinistra. «Affari loro», sembrano dire gli italiani, di fronte al penoso scenario offerto dai partiti in questi mesi.
In questa situazione, se permane l’attuale offerta da parte delle forze politiche, è ragionevole pensare, in caso di nuove elezioni, ad un ulteriore aumento delle astensioni, accompagnato forse da un incremento dei voti per le forze che più si lanciano sui temi dell’antipolitica (dalla Lega a Grillo, a Di Pietro). Tutti indicatori della crescente distanza del dibattito politico attuale dalla vita e dai problemi più sentiti del Paese.




il Fatto 3.10.10
Germania Anno Venti, quel divario così difficile da cancellare
A due decenni dalla riunificazione torna la “nostalgia dell’Est”
di Paolo Carlo Soldini


Nell’ex Ddr stipendi più bassi, molta disoccupazione e 4 milioni di “transfughi” verso l’Ovest
C’era un vecchio signore, vent’anni fa, che seguiva come un’ombra Helmut Kohl ogni volta che il Cancelliere si presentava in pubblico in una città dell’Est. Il vecchio signore indossava una specie di pettorale, in cui polemizzava con uno slogan che il cancelliere dell’unità tedesca amava molto ripetere. I nuovi Länder – diceva Kohl – saranno in breve tempo “blühende Landschaften”: panorami fiorenti, ricchi e belli come quelli dell’Ovest. Il vecchio signore probabilmente non c’è più, ma l’ex Cancelliere, diventato vecchio com’era all’epoca il suo contestatore, deve aver pensato proprio a quell’antica sfida quando nell’aprile scorso, compiendo 80 anni, ha voluto dire ai tedeschi che dopo tutto aveva avuto ragione lui: quello che fu il triste “primo Stato degli operai e dei contadini sul suolo tedesco”, la Germania in bianco e nero delle Trabant e delle fabbriche puzzolenti, del Muro e della Stasi, è diventata un pezzo della Germania a colori, quella che macina successi economici, condiziona più d’ogni altro paese l’Unione europea e rivendica un posto e un voto permanente nel Consiglio di sicurezza dell’Onu.
MA SON FIORITI davvero, i Länder dell’ex Rdt? Bella domanda: ognuno, in Germania, ha la sua personale risposta. Che dipende dalla condizione sociale, dall’età, dalle esperienze di vita e, soprattutto, dalla provenienza regionale: gli Ossis, quelli dell’Est, tendono in generale ad essere molto più pessimisti dei Wessis, quelli dell’Ovest. Insomma, vent’anni dopo il Grande Abbraccio tra i fratelli separati, è ancora in piedi quel “Muro nelle teste” che – si disse subito – aveva preso il posto del Muro di cemento appena abbattuto. I dati delle analisi economiche e dei sondaggi nel ventennale della proclamazione dell’unità tedesca (avvenuta il 3 ottobre 1990), non aiutano molto. Certo, le regioni orientali hanno conosciuto un certo sviluppo, ma il gap resta. Il contributo medio dell’est al Pil della Repubblica federale è cresciuto molto dal 43% del ’91, ma è ancora sotto i tre quarti di quello dell’Ovest. Nei Länder orientali sono fluiti più di 30 miliardi di euro di investimenti e più di 25 di aiuti diretti, ma accanto a isole di benessere ai livelli dell’ovest c’è anche una penosa arretratezza con redditi del 20% più bassi, più disoccupati – soprattutto tra i giovani – mancanza di infrastrutture moderne. Le retribuzioni medie dei lavoratori all’Est sono ancora all’83% di quelle all’Ovest. Così continua l’esodo verso l’eldorado occidentale: al momento dell’unificazione i tedeschi Germania orientale erano 17 milioni, oggi sono 13 milioni; nel 2020 potrebbero scendere a 11 milioni.
CERTO, IL DIVARIO è spiegabile alla luce delle condizioni di partenza. Ma ciò non toglie che sia pesante per chi lo vive sulla propria pelle e non ha più vivida nella memoria la dura realtà di vent’anni fa. O la memoria non l’ha affatto perché, magari, è nato o cresciuto dopo il 3 ottobre del 1990. Ecco allora che nelle difficoltà dell’oggi molti tendono a mitizzare un passato dei cui aspetti bui si stempera il ricordo. Dice l’ufficialissimo “Sozialreport” del 2010 che il 49% dei tedeschi orientali ritengono che la Rdt abbia avuto “più aspetti positivi che negativi”. Via la memoria del Muro, delle proibizioni ad espatriare, della repressione della libertà di opinione, della Stasi, l’apparato spionistico che controllava tutto e tutti, delle vessazioni imposte da un regime autoritario fino al grottesco. Ciò che viene conservata è l’immaginedi un paese in cui era più “facile” vivere, in cui non c’erano disoccupazione e durezze sociali, in cui la cultura (se non era dissidente) veniva rispettata, in cui i rapporti umani erano meno alienati. Da un altro sondaggio si ricava addirittura che un 10% degli Ossis, se potesse, ricostruirebbe il Muro. Per nascondercisi dietro, evidentemente, con le proprie debolezze e le proprie insicurezze.
Non è un fenomeno nuovo. La Ostalgie (la nostalgia dell’Est) è una componente ormai consolidata nella cultura della Repubblica federale e non è solo passatismo, ma anche ricerca, sincera, di stili di vita meno alienati di quelli imposti dal capitalismo rampante. Il successo della Linke – il partito della sinistra radicale
nato dal matrimonio tra gli ex comunisti dell’Est e i socialdemocratici dissidenti dell’Ovest – è largamente (anche se non del tutto) spiegabile in questa chiave. A vent’anni dalla sua formalizzazione istituzionale, mentre alla guida del governo c’è una cancelliera nata e cresciuta all’Est, l’unificazione tedesca è ancora incompleta. Una incompletezza dovuta certo ai tempi lunghi con cui la storia macina la realtà, ma anche alle debolezze della classe dirigente tedesca ed europea.
In ogni caso, ieri sono iniziati i festeggiamenti ufficiali per il ventennale della riunificazione, quest’anno ospitati a Brema, dove oggi interverranno il presidente federale Christian Wulff e il Cancelliere Angela Merkel.

Corriere della Sera 3.10.10
Ricerca, farmaci, medici
Ricette e business
di Giuseppe Remuzzi


Di questi tempi la gente si chiede se quelli che scelgono di fare il medico lo facciano davvero per essere di aiuto agli ammalati. Per la maggior parte dei nostri medici è certamente così tanto che il nostro servizio sanitario è uno dei primi al mondo per qualità delle cure e risultati. Ma c’è anche la medicina degli affari: quella di appalti e nomine per esempio, ma anche quella dei medici che prescrivono un farmaco in cambio di regali o di soldi e quella di chi produce i farmaci e vuole soprattutto venderli. L’industria del farmaco ha grandi meriti — i vaccini, i farmaci per il cuore e per certi tumori e per il diabete e tanti altri hanno salvato milioni di vite —, ma deve fare profitto, non può essere altrimenti.
Ogni giorno in Italia 25.000 «informatori» incontrano ciascuno diversi medici e devono fare di tutto per convincerli della bontà dei propri farmaci (e qualcuno è pagato tanto di più quanto più i medici che incontra prescrivono). Ça va sans dire che più il farmaco è nuovo e più costa, più i collaboratori dell’industria hanno margini per essere convincenti. C’è niente che si possa fare dato che gli interessi in gioco sono davvero rilevanti? Come minimo intensificare i controlli e assicurarsi che non ci siano deviazioni in numero e tipologia di prescrizioni rispetto a quelle che ci si può aspettare in una certa zona in base agli ammalati che si curano. Ma i controlli non bastano, meglio darsi delle regole e sarebbe bello che lo facessero i medici come hanno fatto negli Stati Uniti. Basta attenersi all’evidenza scientifica, si dà un farmaco solo se è efficace e fra due farmaci uguali si sceglie quello che costa meno (e se c’è il generico si usa il generico); lo stesso si dovrebbe poter fare per i diagnostici e per tutto ciò che ruota intorno alla medicina.
Anche noi possiamo contribuire con tante piccole cose in occasioni diverse che aiuteranno certamente i medici a essere più accorti. C’è il caso che il dottore vi dica «ecco un farmaco nuovo, proprio quello che fa per lei». Chiedetegli «dottore, lei come lo sa?». Se la risposta vi convince prendete la medicina nuova, se no meglio quella vecchia, costa meno ed è quasi sempre più sicura.

Corriere della Sera 3.10.10
Calogero spiega il suo «teorema»: Toni Negri coperto dai Servizi
di Giovanni Bianconi


Dopo trent’anni parla il sostituto procuratore di Padova che nel 1979 legò il proprio nome all’operazione «7 aprile»

A più di trent’anni dall’operazione giudiziaria a cui ha legato il suo nome — il «7 aprile», inteso del 1979, quando fece arrestare Toni Negri con altri capi e gregari di Autonomia operaia, accusati di associazione sovversiva, banda armata e complicità con le Brigate rosse — il pubblico ministero Pietro Calogero difende ancora il suo «teorema», come venne definito. Mentre per lui fu solo un’indagine dagli alterni esiti processuali che riuscì a fermare l’ulteriore espansione di progetti eversivi, come rivendica ancora oggi. Aggiungendo un particolare: se il professor Negri non avesse goduto di qualche protezione o occhio di riguardo all’interno dei servizi segreti e degli organismi di polizia, la storia avrebbe potuto essere diversa.
Pietro Calogero, all’epoca sostituto procuratore a Padova e oggi procuratore generale di Venezia, lo confida in un’intervista pubblicata insieme ad altri contributi in Terrore rosso. Dall’Autonomia al partito armato, (Laterza, pp. 229, 16). A interpellare il magistrato è Silvia Giralucci, figlia del militante missino Graziano Giralucci, ucciso a Padova insieme a Giuseppe Mazzola nel giugno 1974, prime due vittime delle Brigate rosse. Gli chiede dei contatti con i servizi di sicurezza, e Calogero racconta di quando un colonnello del Sismi si presentò a casa sua un paio di mesi dopo l’arresto di Negri e compagni. Gli mostrò dei fogli le informazioni raccolte dagli infiltrati negli ambienti di Autonomia operaia, comprese quelle sugli incontri tra il professore e Renato Curcio, fondatore delle Br.
Gli appunti riservati riferivano «della collaborazione per il comune progetto di insurrezione armata», ricorda oggi Calogero. Il quale domandò all’ufficiale come mai non fossero stati trasmessi. Risposta: «Abbiamo sempre riferito agli organi di polizia giudiziaria». Ma il pubblico ministero che indagava su Negri non ne sapeva nulla, come i suoi colleghi che in passato avevano già inquisito e prosciolto il professore. «La mancata comunicazione delle notizie contenute in quelle carte non era stata solo una leggerezza, ma qualcosa di più grave: una copertura», dice oggi Calogero.
Quando il magistrato si interessò per acquisire i documenti del Sismi, il colonnello gli confidò che non li avrebbe trovati nemmeno con una perquisizione nell’archivio del Servizio: quelli che gli aveva mostrato erano «una raccolta informale che non le posso lasciare neppure in fotocopia, perché rischierei di essere scoperto». In sostanza, ricostruisce oggi Calogero, la Divisione antiterrorismo del servizio segreto militare aveva tenuto nascoste informazioni sui contatti eversivi di Negri che avrebbero potuto far fare un salto di qualità alle sue indagini (e a quelle che c’erano state in precedenza) sul teorico dell’Autonomia operaia. E continuava ufficialmente a negarle.
Calogero ricorda altri episodi di indagini arenatesi dopo aver sfiorato altri ambienti ritenuti vicini ad apparati di intelligence, come la scuola di lingue Hypérion di Parigi, dove s’erano radunati alcuni esponenti della sinistra extraparlamentare italiana vicini ai futuri brigatisti. Sostiene il magistrato che «ragionevolmente» la Cia utilizzò quella struttura per «esercitare un controllo non formale su personaggi e itinerari del terrorismo di sinistra in Italia».
Quando suo padre fu ucciso dalle Br, Silvia Giralucci era una bambina di 3 anni. Oggi cerca ancora eventuali verità nascoste dietro la sua storia di vittima. Vuole sapere da Calogero quale ruolo hanno avuto i servizi segreti nelle trame eversive, e l’intervistato risponde che il terrorismo italiano ha avuto cause e ragioni genuine.
Ma poi aggiunge: «Le indagini hanno messo in evidenza interventi di apparati pubblici che hanno cercato, con comportamenti ora ostruzionistici, ora omissivi, ora di aperto favoreggiamento e copertura, di orientare la lotta armata sia di destra che di sinistra in direzione di assetti politici diversi da quelli a cui miravano i terroristi. Precisamente in direzione non del sovvertimento, ma dello spostamento dell’asse della politica italiana dall’area di sinistra verso quella di centro o di centrodestra».

Repubblica 3.10.10
L’amore romantico e quello libertino
di Eugenio Scalfari


FINALMENTE un felice giorno di tregua politica. Il governo ha incassato un voto di fiducia sui cinque titoli del suo programma; i finiani sono determinanti alla Camera; Berlusconi continua a lanciare insulti alla magistratura, a collezionare barzellette sconce da ogni punto di vista e a magnificare il suo ruolo di demiurgo della politica mondiale; l´opposizione è unita e aggressiva.
Insomma, soddisfazione per tutti e avanti finché durerà. Durerà poco, penso io, ma forse mi sbaglio. Il solo legittimamente preoccupato è Belpietro, direttore di Libero, che ancora non conosce la verità sulla causa delle sue preoccupazioni. Gli invio la mia convinta e doverosa solidarietà.
Posso dunque dedicarmi oggi al tema dell´amore, come avevo promesso ai nostri lettori. Non è un tema peregrino. In una società agitata da guerre, terrorismo, crisi economica, egoismi feroci, l´amore sembra un sentimento quasi scomparso. Le donne, che dell´amore rappresentano l´elemento cardine, sono vilipese e usate come è sempre accaduto; la loro emancipazione che sembrava ormai conquistata anche se ancora parziale e imperfetta, sta regredendo e molte di loro non si oppongono più, anzi sembrano felici di collaborare a questo «richiamo all´ordine» che va tutto a loro detrimento. Perciò riflettere sull´amore è un tema di stretta attualità. Umberto Veronesi, in un bel libro uscito in questi giorni, è del mio stesso avviso ed arriva addirittura ad augurarsi una qualche forma di matriarcato.
Sostiene che la famiglia a direzione maschile diseduca le donne. Proprio perché sono l´elemento debole di fronte alla cultura maschile tuttora dominante, l´educazione che ricevono le sospinge a far propri i valori di competizione che sono tipici del maschio. Quelle che riescono ad emanciparsi e a raggiungere posizioni di spicco hanno introitato l´immagine della virago e fanno concorrenza agli uomini sul loro stesso terreno.
Bisognerebbe dunque – scrive Veronesi – che la loro educazione avvenisse in famiglie culturalmente orientate da valori femminili: l´amore – appunto – la pace, la solidarietà, la comprensione. Non ha torto, Veronesi, anche se l´attuale temperie in tutto il mondo sta procedendo nella direzione opposta.
L´amore però è una parola che esprime una quantità di sentimenti. Ha una sua mitologia, un suo approccio religioso, una sua poetica ed anche una sua storia. Di tempo in tempo e di luogo in luogo, quella parola ha avuto significati diversi e spesso opposti l´uno all´altro.
Questo è dunque il tema sul quale mi sembra opportuno fare chiarezza per poter meglio colmare un´evidente lacuna che affligge le nostre società, quelle ricche e quelle povere, ad Occidente e a Oriente del mondo.
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Le civiltà antiche – e qui mi limito a parlare di quelle mediterranee che più da vicino ci riguardano – non conoscevano il «privato». Gli uomini si realizzavano nella «polis» della quale la famiglia e la tribù costituivano le cellule. L´amore faceva parte dei valori familiari, incoraggiati e protetti dagli dei del luogo. Si amavano i genitori, si amavano i fratelli e le sorelle, si amava la sposa, fonte di procreatività. Le tavole mosaiche contengono la normativa più antica dell´amore familiare: «Onora il padre e la madre. Non commettere atti impuri. Non desiderare la donna d´altri». Il destinatario di queste norme è il maschio, la donna resta in una zona d´ombra ma è anch´essa colpevole dell´eventuale trasgressione.
Naturalmente i sentimenti amorosi finivano, allora come oggi e come sempre, anche al di fuori del recettacolo familiare, ma era un fatto privato e quindi del tutto irrilevante. Se però diventavano una sfida contro la famiglia l´irrilevanza diventava colpevolezza e veniva repressa con la massima severità.
Non è un caso che la guerra delle guerre, quella di Troia, scoppia a causa del tradimento di Elena e della sua fuga con Paride. È un pretesto, si sa. Simboleggiò lo scontro tra la civiltà achea e quella medio-orientale. Ma il pretesto dello scontro è la violazione dell´amore familiare e il ritorno di Elena a casa con il marito Menelao sancisce che l´ordine violato è stato ripristinato.
Nello stesso ambito leggendario il teatro greco racconta la vendetta di Elettra e di Oreste contro l´uccisore del loro padre e contro la loro madre che ne era stata l´amante durante la sua assenza da Argo.
C´è, al fondo di questa tragedia, l´ombra d´un sentimento incestuoso che si coglie nell´amore quasi morboso tra il fratello e la sorella vendicatori. L´incesto del resto rappresenta un elemento spesso presente nell´amore familiare; Edipo e il suo destino ne costituiscono il fondamento, non a caso recuperato da Freud come uno degli elementi fondanti della psicologia del profondo.
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Il carattere «pubblico» e familiare dell´amore dura molto a lungo e scavalca i secoli. Neppure il Cristianesimo riesce ad intaccarlo.
La predicazione di Gesù tramandataci dai Vangeli è intrisa di amore e questa è la grande innovazione rispetto al monoteismo ebraico che descrive il dio biblico come il condottiero del suo popolo, ancorato alla severità della Legge.
Il dio dei Vangeli è giusto ma soprattutto misericordioso e non si identifica con un popolo. Si rivolge a tutte le persone, ne riscatta la dignità, esalta i deboli e i poveri che saranno i primi a varcare la soglia della beatitudine. Parifica tutte le persone quando entreranno nel regno dei cieli, le donne come gli uomini, gli schiavi come i loro padroni. Ma sulla terra le istituzioni restano quelle che sono. I cristiani sono animati dalla fede e dalla speranza; il male e l´odio vanno ripagati dall´amore. E l´amore è la «caritas», indirizzata verso tutti, verso il prossimo, verso i nemici.
L´amore tra uomo e donna dà luogo alla famiglia, viene santificato nel sacramento del matrimonio, indissolubile con i vincoli della fedeltà e l´obiettivo della procreazione.
Si tratta dunque d´un amore che sale dai coniugi verso Dio e si santifica attraverso i figli e la loro educazione cristiana. La «pubblicità» dell´amore rimane dunque intatta, con una differenza essenziale rispetto al politeismo pagano: la «caritas» diventa il fondamento della religione. Paolo e Agostino arrivano a farne un valore addirittura più importante della stessa fede.
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La cultura medievale inventa un altro tipo di amore: l´amore cortese, cantato dai trovatori nei castelli e portato in giro per l´Europa della lingua occitana e dell´italiano volgare.
Lo «stil novo» vagheggia amori immaginari e figure di amati e di amanti stereotipi. Di qui sorge la malinconia che occhieggia nei versi del Guinizelli e diventa sostanza poetica nel Cavalcanti, nel Dante della "Vita Nova" e nel Petrarca.
Ma accanto all´amore cortese si affaccia quello licenzioso del Boccaccio e più tardi di Machiavelli della "Mandragola" e dell´Aretino. Sono i primi segnali del "privato" ma ci vorranno ancora due secoli perché il "privato" si affermi nelle società dell´Europa moderna.
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Il «privato» nasce con l´Illuminismo con l´abolizione degli assoluti e dell´assoluto come concetto. Trasforma l´economia e la politica. Poteva il sentimento amoroso sottrarsi all´irruenza di questa rivoluzione?
Nasce infatti l´amore libertino, l´amore individuale, il «privato» dell´amore e nasce nei salotti gestiti da donne emancipate da una prima sembianza di femminismo. Diderot teorizza l´amore per l´amore che prevede la libertà di amori molteplici in nome, appunto, di amare l´amore.
Dura un secolo questa forma amorosa. Se si vuol chiedere alla letteratura, alla poesia e alla musica la chiave di un nuovo mutamento, la si trova nel Werther di Goethe, nelle "Affinità elettive", nella poesia di Leopardi e in quella di Baudelaire. L´amore romantico, la poesia e la musica romantiche.
L´Ottocento è intriso di amore romantico, dove si uniscono i sentimenti e i sensi ed è questo l´amore «privato» che diventa costume pubblico e che tuttora rappresenta uno dei cardini della società moderna.
Quell´amore tuttavia contiene le spore d´un mutamento ulteriore che emerge nella seconda metà del secolo scorso ed è ora nel pieno del suo svolgimento. Deriva proprio dal «privato», dalla sopravvenuta libertà sessuale, dall´accentuarsi dell´elemento sessuale e dalla liberazione della donna e del suo accesso al lavoro fuori casa.
L´amore romantico non è scomparso ma è divenuto mobile. Sempre più raramente dura per tutta la vita. Si realizza nella fase iniziale dell´innamoramento, si trasforma dopo qualche tempo in affetto e poi in amicizia. Infine la coppia si scompone e si ricompone con altri soggetti e altri innamoramenti. Sono segmenti di amore romantico al posto della linea retta dell´amore ottocentesco.
È a questo punto che l´amore verso l´amore riacquista peso e può – potrebbe – intrecciarsi alla solidarietà laica e alla «caritas» cristiana verso il prossimo, con uno spessore sociale in grado di soverchiare l´egoismo esasperato e l´amore egolatrico verso il proprio ombelico.
Questa è la scommessa affidata al futuro: un mondo dove l´essere assume una curvatura erotica capace di avere la meglio sull´istinto del potere.

Repubblica 3.10.10
Organizzazioni estremiste: provvedimenti più "morbidi"
Il nuovo codice militare salva le camicie verdi


VERONA - «Gli inquirenti che devono colpire organizzazioni estremiste ora hanno una freccia in meno nel loro arco». Così Guido Papalia, l´ex procuratore di Verona che nel 1996 avviò l´inchiesta sulle camicie verdi, commenta la notizia dell´imminente assoluzione di tutti i 36 imputati, tra i quali il sindaco di Treviso Giampaolo Gobbo e il deputato Matteo Bragantini, entrambi della Lega. A far "morire" il processo è una modifica al codice militare approvata a maggio che entra in vigore il 9 ottobre: non è più punibile, con una pena fino a dieci anni, «chiunque promuove, costituisce, organizza o dirige associazioni di carattere militare, le quali perseguono, anche indirettamente, scopi politici». E così gli imputati saranno assolti: «perché il fatto non è più previsto come reato».
(da.c.)