martedì 5 ottobre 2010

l’Unità 5.10.10
Nuova legge elettorale, c’è una bozza: sbarramento, collegi e niente premio di maggioranza
Bersani: «Non parliamo di una coalizione di governo ma di regole, ne discuta il Parlamento»
Oltre la «porcata», testo d’intesa tra Pd e finiani
Gli esperti di sistemi di voto di Pd, Udc e Fli hanno messo a punto un primo testo di riforma: via liste bloccate e premio di maggioranza, sì a collegi uninominali, soglia di sbarramento e indicazione del candidato premier.
di Simone Collini


Via il premio di maggioranza e le liste bloccate, soglia di sbarramento al 3%, possibilità di indicare il candidato premier, collegi uninominali e niente preferenze. Dopo che nei giorni scorsi Pier Luigi Bersani, Pier Ferdinando Casini e Giancarlo Fini hanno aperto i canali di dialogo, gli esperti di legge elettorale del Pd, dell’Udc e di Futuro e libertà hanno iniziato il confronto per individuare un modello di voto condiviso. Una prima intesa su alcuni principi di fondo è stata già raggiunta, e la bozza che sta venendo fuori è rinviabile al sistema tedesco, però modificato introducendo elementi che ne rafforzerebbero l’aspetto bipolare.
Il Pd ha approvato all’ultima Assemblea nazionale un documento in cui si sostiene il doppio turno alla francese, ma anche i più strenui difensori del modello d’Oltralpe veltroniani in primis difficilmente si metterebbero di traverso qualora si arrivasse a un’intesa maggioritaria in Parlamento. E anche il leader dell’Idv Antonio Di Pietro, che nelle scorse settimane si era detto contrario a operazioni e modelli che potrebbero generare confusione nell’elettorato di centrosinistra, ora garantisce la sua disponibilità: «Si può anche discutere di un sistema proporzionale alla tedesca, a patto che sia chiara agli elettori l’indicazione di chi deve governare e ci sia uno sbarramento per evitare la frammentazione». Segnali positivi insomma non mancano, ma finché non ci sarà il via libera definitivo a un testo che possa incassare la maggioranza dei voti in Parlamento (si è visto dal voto di fiducia che i finiani alla Camera sono indispensabili per tenere in piedi il governo, mentre al Senato Pdl e Lega sono sembrati autosufficienti) l’operazione dell’asse anti-porcellum proseguirà lontano dai riflettori.
BERLUSCONI PREOCCUPATO
Berlusconi vede infatti come il fumo negli occhi l’ipotesi di una maggioranza alternativa che possa approvare una nuova legge elettorale: perché il porcellum, stando agli ultimi sondaggi, gli garantirebbe di prendere il 55% dei seggi alla Camera con un Pdl che oscilla tra il 28 e il 30% (più complicata la situazione al Senato, «per colpa di Ciampi che impose la “regionalizzazione” del premio», attacca il deputato del Pdl Marco Marsilio); e perché di fronte a un numero di parlamentari sufficienti a cancellare il porcellum, Berlusconi avrebbe poco da gridare all’«eversione» (come ha fatto nei confronti di Scalfaro) se ci sarà una crisi di governo e il Quirinale avvierà le consultazioni per verificare se vi sia in Parlamento una maggioranza alternativa, prima di sciogliere le Camere e indire nuove elezioni.
È proprio quello che temono Pdl e uninominali, ma il numero di parlamentari per ogni partito viene assegnato su base proporzionale.
Lega. Non a caso appena il finiano Italo Bocchino si è detto convinto che esista «già una maggioranza alternativa, tanto alla Camera quanto al Senato, in grado di ritrovarsi sulla modifica della legge elettorale» è partito il fuoco di fila dei berluscones: «trasformismo parlamentare», ha tuonato Sandro Bondi; «mille trabocchetti», vede Fabrizio Cicchitto; «mettersi a manovrare su una legge elettorale per favorire chi è perdente sarebbe un errore molto grave», ha sentenziato Gasparri; e il leghista Roberto Castelli: «Maggioranza alternativa è il termine istituzionale per indicare il termine mediatico di ribaltone».
Attacchi che non preoccupano Fini, convinto com’è che il «vergognoso» porcellum sia da archiviare: «La sovranità appartiene al popolo, e questo significa che gli elettori devono avere il diritto non solo di scegliere il presidente del Consigli ma i loro parlamentari». Concetto che il presidente della Camera va ripetendo, in piena sintonia con Casini («evitiamo che quattro gerarchi di partito impongano i parlamentari agli elettori») e con Bersani.
Rispondendo all’ironia del ministro leghista Maroni sull’«ipotesi strampalata» che ci possa essere un governo tecnico che vada da Fini a Di Pietro per riformare la legge elettorale, Bersani ha fatto notare che «non si sta parlando di maggioranza di governo, ma di regole», che come tali vanno discusse nelle aule parlamentari: «Se c’è una maggioranza che dice che la legge è intollerabile allora si va in Parlamento e si vota. Da sempre diciamo che abbiamo una legge elettorale vergognosa, che consente la nomina dei parlamentari, la subordinazione della maggioranza al governo, e che ha portato e può portare ancora un sacco di guai al Paese. E non da oggi siamo disponibili a concordare una nuova legge elettorale. Perché la legge la si fa in Parlamento, non con le maggioranze e le minoranze ma con chi è disposto a convergere».

l’Unità 5.10.10
Maggioranza alternativa al Senato il rebus dei voti
Si è aperta la caccia ai «responsabili nazionali»
I finiani: sulla legge elettorale maggioranza ampia anche al Senato. Tenute «coperte» le new entry in Fli, Pisanu ambito come premier di un governo «responsabile». E Gianni Letta cerca di far incontrare Fini e Berlusconi.
di Natalia Lombardo


Sarà pure la mossa di una partita a scacchi, ma da fronte finiano mostrano una certa sicurezza verso un possibile governo di transizione: «Cambiare la legge elettorale è giusto, e su questo ci potrebbe essere una maggioranza molto ampia», assicura Benedetto Della Vedova; per il capogruppo Bocchino «esiste già, sia alla Camera che al Senato» e pesca anche nel Pdl. Convinti che la Lega stia «giocando in proprio per far cadere Berlusconi», i futuristi tengono in caldo le new entry e aperto il dialogo col Pd sulla legge elettorale.
Nel frattempo sembra che Gianni Letta stia cercando di convincere i duellanti, Berlusconi e Fini, a incontrarsi faccia a faccia, cosa non facile.
Maggioranza diversa, nuovi acquisti per Fli? «Suggestioni», è la sibillina risposta di un finiano doc. Come quella che vede a Palazzo Madama, dove la maggioranza di governo per ora è ferrea (174 sì alla fiducia), un drappello di senatori pronto a lasciare il Pdl per entrare in Futuro e Libertà. Senatori che Berlusconi starebbe cercando di «blindare» con posti da sottosegretario e viceministro (uno lo lascia Romani).
Molti peones «farebbero di tutto per non andare a casa temendo di non essere ricandidati», ammettono nel Pdl, tanto più che Silvio vuole «facce nuove» e che la Lega farà man bassa al Nord. «Ci sono dieci nomi al Senato, e dieci alla Camera, per ora sono “coperti”», assicura un deputato ex Fi. E, spostando sul pallottoliere anche solo tre o quattro senatori dal Pdl a Fli varrebbero il doppio, cambiando la maggioranza. Il drappello di «responsabili», come li definisce un finiano, fa riferimento a Beppe Pisanu. che aspetta solo il momento giusto per attuare lo «strappo» e passare con i «futuristi». Un passo da compiere come grande segno di «responsabilità nazionale», appunto.
LA CARTA PISANU PREMIER
Il nome dell’ex ministro dell’Interno, un forzista moderato nato nella Dc, in rotta da tempo con Berlusconi (che lo ha accusato più volte di non aver vigilato nella notte elettorale del 2006) sarebbe la carta tenuta in caldo dai finiani come presidente del Consiglio di questo governo di «responsabilità nazionale» che cambi la legge elettorale e cancelli la «porcata».
In Parlamento è addirittura nata la «Associazione per il ritorno all’uninominale» che domani esordirà con un’assemblea; molti i nomi del Pdl: Salvo Fleres, Domenico Gramazio, Antonio Martino, Francesco Nucara, Mario Pepe, Salvatore Tatarella e Enrico La Loggia, nemici del «porcellum».
Pronto a un’intesa sulla legge elettorale è Raffaele Lombardo, leader dell’Mpa: «Certamente c'è chi, pur di non votare con questa legge elettorale, farebbe i salti mortali. Io sono fra questi; poi vedremo se ci riusciremo».
A Palazzo Madama una maggioranza «diversa» non è una chimera. Se si unissero i voti dell’opposizione (112 del Pd, 12 Idv, 13 Udc senza Cuffaro) con i 10 di Fli, i 3 Mpa, 3 dell’Api, il conto è 153 senza i senatori a vita. Con qualche travaso i numeri potrebbero esserci, ma il rischio è che nasca una maggioranza «prodizzata» sul filo di un voto. Una prospettiva «terrificante» per il leghista Maroni.

il Fatto 5.10.10
Nomi ricorrenti: il Pd e l’opzione Montezemolo
Cesare Damiano: “La sua sarebbe una candidatura significativa”
di Wanda Marra


“Viste le difficoltà della politica, una candidatura di Luca Cordero di Montezemolo avrebbe un senso”. Parola di Cesare Damiano, ministro del Lavoro nel governo Prodi e attualmente parlamentare Pd. Affermazioni nelle quali convergono due linee portanti del dibattito un po’ distorto dei tempi nostrani: la ormai patologica difficoltà dei Democratici di esprimere
una leadership degna di questo nome e le voci ricorrenti ormai da anni che danno per imminente, scontata, necessaria, auspicabile a seconda dei momenti la discesa in campo dell’ex capo di Confindustria.
“Potrebbe essere allettato, interessato conferma in questo caso Damiano è chiaro che la sua sarebbe una candidatura di qualche significato”. D’altra parte era stato Veltroni solo qualche settimana fa a lanciare l’idea di un Papa straniero alla guida della coalizione di centrosinistra. Vecchie tentazioni che si riempiono di nuovi nomi. Tant’è vero che dopo l’uscita di Alessandro Profumo da Unicredit, qualcuno nel Pd aveva preso in considerazione l’ipotesi che questo Papa straniero potesse essere lui.
Il nome di Cordero è poi uscito un’altra volta domenica alla scuola politica del
Partito democratico a Cortona. “Non credo alla logica del Papa straniero”, premetteva il vicesegretario del Pd, Enrico Letta. Sottolineando però di ritenere “molto utile che Montezemolo si impegni in politica. Sarebbe solo il benvenuto aggiungeva e aiuterebbe la politica italiana”. “L'impegno in politica è sempre una buona cosa in un momento in cui bisogna darsi tutti da fare. Io però non so cosa Montezemolo abbia in testa”, rilanciava Pier Luigi Bersani, pur senza esporsi fino in fondo. E allora la riunione della Fondazione Italia Futura dell’11 ottobre si veste di nuovi significati. Ma qualsiasi voce viene smentita: “Non c'è alcun vertice che prelude a un impegno politico”, puntualizza il direttore Andrea Romano. “In questa fase ogni iniziativa dell’Associazione viene ricollegata a Montezemolo, ma non vi è nulla di politico. Si tratta di un appuntamento ordinario, nel senso che ogni due-tre mesi l’associazione riunisce i soci benemeriti, ovvero quelli che versano diecimila euro per promuovere la nostra attività, a cui viene illustrato il bilancio delle iniziative e si fa il punto sul programma dei prossimi mesi". Su un eventuale candidatura di Montezemolo non si esprime. L’interessato, interpellato direttamente al salone dell'auto di Parigi, sull’impegno in politica ha smentito decisamente.
L’ultima incursione “politica” della Fondazione Italia Futura risale al 12 agosto scorso, quando venne lanciato un appello a Berlusconi, Fini e Bossi perchè evitassero le elezioni anticipate. E ha picchiato duro su Berlusconi dicendo che “un leader si misura sulla base dei risultati che nei giudizi dei cittadini sono deludenti”.


l’Unità 5.10.10
Robert Edwards è stato il pioniere della fecondazione in vitro
Il Vaticano attacca «Una scelta completamente fuori luogo»
Il Nobel al «papà» dei bimbi in provetta La Chiesa: inaccettabile
Il Karolinska Institutet di Stoccolma ha assegnato il Nobel per la medicina a Robert Edwards, pioniere della fecondazione in vitro. Che, a partire dal ’78, ha portato alla nascita di 4 milioni di persone in tutto il mondo.
di Cristiana Pulcinelli


I messaggi arrivano da tutto il mondo: Portorico, Messico, Francia, Danimarca, Iran, Russia, Stati Uniti, Nepal, Sudafrica. Tutti scrivono sul sito della Fondazione Nobel per congratularsi con Robert Edwards, vincitore del premio per la medicina 2010. Sono soprattutto genitori e nonni di bambini nati grazie alla procreazione assistita, ma c’è anche un «grazie» firmato da «un bambino in provetta» ormai diventato adulto. Poi ci sono i colleghi che hanno applicato nel loro paese la tecnica Fivet inventata dal biologo ed embriologo inglese. Tutti ringraziano, anche chi per ora non ha avuto risultati, ma non rinuncia a sognare come la coppia italiana che scrive: «Se abbiamo ancora una piccola speranza di diventare genitori è solo grazie a lei».
Il Nobel per la medicina probabilmente non è mai stato così popolare. Anche chi pensa di non conoscere il nome del vincitore, ricorderà tuttavia quello di Louise Brown, la prima «bimba in provetta» che nacque proprio grazie a Edwards e al ginecologo Patrick Streptoe (forse il Nobel oggi sarebbe andato anche a lui se non fosse morto nel 1988). Era il 1978 e la foto di Louise finì sulle prime pagine dei giornali di tutto il mondo. Oggi Louise ha 32 anni ed è mamma a sua volta, Edwards ne ha 85 e nel mondo sono più di 4 milioni le persone nate grazie alla Fivet.
Edwards cominciò a lavorare alla tecnica per combattere la sterilità fin dagli anni Cinquanta: pensava che fecondare l’ovulo al di fuori del corpo della donna potesse permettere di superare alcuni ostacoli. Dopo molti tentativi, nel 1969 riuscì a fecondare un ovulo in una provetta. In quello stesso anno entrò in contatto con Streptoe e, grazie alla collaborazione con il ginecologo, la tecnica passò dal laboratorio alla pratica medica. Nonostante molti buoni risultati, i due scienziati non ottennero i fondi pubblici per continuare le loro sperimentazioni. Il fatto era che le loro ricerche trovarono l’opposizione della Chiesa e di alcuni bioeticisti cattolici. Fu solo grazie a una donazione privata che gli studi continuarono e che, infine fu messa a punto la tecnica che consisteva nel prelevare l’ovulo, fecondarlo in provetta e poi reinserirlo nell’utero della donna. Un’idea talmente geniale che ancora oggi la Fivet viene utilizzata in tutto il mondo per combattere l’infertilità, un problema che colpisce tra il 15 e il 20% delle coppie e la cui incidenza è in aumento.
I successi di Edwards sono sotto gli occhi di tutti, tuttavia, c’è chi non è d’accordo con la scelta compiuta dagli Accademici di Stoccolma. Radio Vaticana, per esempio, che, attraverso la voce del presidente dell’Associazione Scienza e Vita, Lucio Romano, sottolinea come quella a Edwards è «un’assegnazione che disattende tutte le problematiche di ordine etico e che rimarca che l’uomo può essere ridotto da soggetto ad oggetto». Gli fa eco monsignor Roberto Colombo, docente della Cattolica di Milano e membro della Pontificia Accademia della Vita e del Comitato nazionale di bioetica, il quale dichiara che la Chiesa cattolica, pur riconoscendo «l’importante scoperta scientifica» di Edwards, ricorda «che la fecondazione in vitro suscita gravi interrogativi morali quanto al rispetto della vita umana nascente e alla dignità della procreazione umana». E ancora, il presidente della Pontificia Accademia per la Vita, monsignor Ignacio Carrasco de Paula dichiara: «Ritengo che la scelta di Robert Edward sia completamente fuori luogo» e i «motivi di perplessità non sono pochi». Mentre, padre Gonzalo Miranda, docente di bioetica all’università Pontificia Regina Apostolorum a Roma esprime il timore che la fecondazione in vitro lasci «aperti molti dubbi, a partire dallo spreco di vite umane che si realizza con gli embrioni, spesso prodotti già in partenza con lo scopo di non far nascere bambini». E qualcuno già si preoccupa che il Nobel a Edwards rimetta in discussione la tristemente famosa legge 40 in vigore nel nostro paese.

l’Unità 5.10.10
Ignazio Marino: «Si riapra la discussione sulla legge 40»
La scelta degli accademici svedesi riaccende i riflettori sulla norma in vigore nel nostro paese dal 2004 che pone una serie di ostacoli alla possibilità offerta dalla scienza e dalla medicina
di Federica Fantozzi


Merci da Sophie, felicidades da Diego, congratulations da Yuan e Xinwen. Anche dall’Italia: «Grazie Mr. Edwards, se abbiamo ancora una piccola speranza di diventare genitori è solo grazie a lei». Firmato: «Una coppia infertile».
La scelta svedese di premiare lo scienziato inglese Robert Edwards, padre putativo di oltre 4 milioni di
bambini nati grazie alla fecondazione in vetro negli ultimi trent’anni, suscita entusiasmo. Non nel Vaticano. E nel nostro Paese è perplessa parte del mondo cattolico, dall’Associazione Scienza & Vita al sottosegretario Roccella.
Così, l’attribuzione del Premio Nobel riapre il dibattito sulla Legge 40 che regola la fecondazione assistita. Forse, un segno del destino. Nel 1968, quando il progetto partì a Cambridge, si parlò di scandalo e atto contro natura, si predisse un fallimento, si faticò a reperire i finanziamenti. Oggi, lo si definisce all’unanimità progresso.
In Italia la Legge 40, è stata approvata dopo un braccio di ferro politico nel 2004 ed è sopravvissuta a un referendum che vide in prima linea la Cei allora guidata da Ruini. È una delle più controverse e restrittive nel settore. Vieta la fecondazione eterologa, la donazione di ovociti, il ricorso da parte di single e gay. Circa 10mila coppie all’anno hanno scelto il «turismo riproduttivo» rivolgendosi ad accoglienti strutture svizzere, spagnole, belghe, slovacche.
Come previsto da molti medici, la Legge 40 è già stata sconfessata in sede giudiziaria. Nel 2009 la Corte Costituzionale ha bocciato il divieto di crioconservazione dell’embrione e abolito il correlato limite di tre embrioni da impiantare insieme. Norma pericolosa, hanno ritenuto i giudici, per la salute della donna e del feto. Maggiore potere decisionale spetta ai medici, spesso impegnati a seguire gravidanze multiple, a rischio, in età non giovanissima. Irrisolta la cruciale questione della diagnosi preimpianto che consente di individuare malattie genetiche o ereditarie: il divieto è stato bocciato da Tar e tribunali di merito, ma servono nuove linee guida.
Ieri è stato Ignazio Marino, presidente della commissione parlamentare d’inchiesta su Ssn a riaprire le danze: «Se sono normali i controlli prima di una gravidanza per individuare eventuali malattie, perché in uno Stato laico non dovrebbe essere normale, con lo stesso obiettivo, la diagnosi preimpianto? Interveniamo prima dei tribunali».
La Radicale Donatella Poretti invita «moralisti e bigotti» a riflettere su una scienza che «amplia la libertà di scelta delle persone». E Rita Levi Montalcini plaude a «un premio ben meritato per un lavoro scientifico di fondamentale importanza per il progresso della biomedicina».

l’Unità 5.10.10
Il Nobel all’uomo che ha favorito la vita
di Maurizio Mori


Una bella notizia, il Nobel a Bob Edwards. Lo scienziato inglese che dagli anni ’60 del secolo scorso si è impegnato nel mettere a punto la fecondazione in vitro con trasferimento di embrione: una tecnica che ha cambiato il modo di attuare la riproduzione umana e dato una svolta agli studi sull’embrione. Il Nobel non solo corona una vita dedita alla ricerca di un grande studioso di notevole spessore culturale, ma soprattutto è il sigillo dato dal mondo scientifico alla bontà della fecondazione assistita: la scienza riconosce che l’ampliamento del controllo umano della riproduzione è qualcosa di buono per l’umanità, di meritevole della massima onorificenza per uno scienziato. Di fronte a un simile riconoscimento a dir poco impallidiscono le critiche mosse da alcune religioni alla nuova tecnica, accusata essere contraria alla “vita” e alla “dignità della procreazione”. Non si capisce proprio in che senso si possa dire che sia contraria alla vita una tecnica che ha consentito la nascita di ormai oltre 4.000.000 di bambini. Si dovrebbe dire al contrario che è una tecnica che favorisce la vita e consente alle persone di avere figli anche quando la natura non li dispensa più. Ancora più difficile è capire perché dovrebbe essere contrario alla “dignità della procreazione” ricorrere all’assistenza tecnica per avere figli. Forse lo si può dire solo assumendo la “naturalità” come criterio normativo, supponendo che la natura sia buona e dimenticando come invece in realtà sia spesso avara e matrigna. Fortuna che l’uomo grazie alla scienza e alla tecnica riesce a rendere il mondo meno duro e più agevole. Solo inveterati pregiudizi antiscientifici possono far pensare il contrario. Il Nobel a Edwards deve essere anche uno stimolo a ripensare l’etica e la politica sulla fecondazione assistita. In Italia, sfruttando abilmente lo sgomento generato da alcuni casi eclatanti di fecondazione assistita si è detto che c’era una preoccupante deregulation (il Far West), e si è approvata una legge liberticida che non solo penalizza un numero alto di cittadini nell’impegno di avere figli, ma ha fatto anche arretrare l’intera riflessione bioetica, favorendo ‘idea che la scienza comporti una sorta di “eccesso” da reprimere. Oggi questo clima conservatore informa il disegno di legge Calabrò sul fine della vita che ci riporta a prima degli anni ’50, e aleggia come uno spettro sulla campagna elettorale che molti danno per imminente. Il premio Nobel a Edwards ci ricorda che la scienza è vettore di progresso morale e che molte delle remore diffuse sono frutto di pregiudizi e tabù. Invece di chiedere perdono per gli errori tra qualche anno, come già hanno fatto su altri temi, è bene chi i critici della scienza si ravvedano da ora, evitando inutili sofferenze.

l’Unità 5.10.10
Ma la Lega è federalista?
Gli scritti di Cattaneo, apprezzati da Bobbio e oggi ripubblicati, teorizzano un federalismo assai diverso da quello di Bossi e Berlusconi
di Nicola Tranfaglia


Mi sembra un’ottima idea quella dell’editore Donzelli di mettere a confronto, in un momento difficile come questo della nostra storia nazionale, un libro che si intitola Stati uniti di Italia (Donzelli editore, pp. 148, euro 17,50) quegli scritti di Carlo Cattaneo, il maggior teorico del federalismo italiano, preceduti da un saggio di Norberto Bobbio e da una precisa introduzione di Nadia Urbinati, con la crisi politica attuale.
Spiego anche perché. Bobbio racconta nella sua Autobiografia, a cura di Alberto Papuzzi (Laterza editori, 1997) che aveva pubblicato proprio nel 1945 il saggio di Cattaneo, sottolineando che aveva scoperto da poco l’originalità dell’apporto cattaneiano e che l’interesse per quel pensatore nasceva anche dal fatto che era stato uno dei pochi intellettuali, o addirittura l’unico, del Risorgimento a non poter essere utilizzato dal fascismo. E a leggere quelle pagine, oggi di grande attualità culturale e politica, si scoprono facilmente le ragioni dell’originalità come della sua profonda estraneità a tutte le dittature, a cominciare da quella populista del fascismo mussoliniano.
«Le idee federaliste e l’illuminismo riformatore osserva Nadia Urbinati nella sua introduzione erano quanto di più lontano vi potesse essere dall’ideologia fascista, un’ideologia centralistica che negava l’autonomia della società civile e i diritti individuali; che era storicamente nata con l’intento esplicito di seppellire lo stato di diritto e sopprimere la democrazia».
Ma anche oggi, a leggere il disegno di legge Gelmini sull’Università in discussione alla Camera, si devono fare analoghe osservazioni: quel disegno di legge berlusconiano, che rischia di essere approvato in maniera definitiva tra qualche settimana, è quanto di più centralistico e burocratico, oppressivo e indifferente alle libertà individuali degli studenti e dei professori. Espressione dell’attività legislativa di un regime populistico autoritario.
Ad ogni modo nel 1945, quando Bobbio pubblica le pagine di Cattaneo, i ricordi della dittatura fascista sono ancora vivi e il filosofo torinese (che troppi oggi hanno dimenticato) collega il pensiero del lombardo alla grande tradizione europea del liberalismo ma anche del socialismo democratico che ha in pensatori come Alexis de Tocqueville, John Stuart Mill e in italiani come Altiero Spinelli ma anche comunisti come Giuseppe Dozza, futuro sindaco di Bologna, e azionisti come Piero Calamandrei e Aldo Capitini, i suoi principali sostenitori che si collegavano a intuizioni del socialismo democratico e municipale del secondo Ottocento in Italia e in Europa.
E ha ragione, io credo, Nadia Urbinati scrive che «come all’indomani dell’Unità d’Italia, all’indomani della Liberazione l’assetto amministrativo diventò il terreno di battaglia per condizionare e limitare il processo di democratizzazione quale che fosse la ragione strategica perseguita dai governi (se per moderare le forze della sinistra radicale come all’indomani dell’Unità o per mettere in moto una politica anticomunista come all’indomani della seconda guerra mondiale). Se due furono i risorgimenti, due furono anche le risposte conservatrici che da essi si sprigionarono, e in entrambi i casi il federalismo e le larghe autonomie cittadine furono repressi o sacrificati».
Il paradosso di fronte al quale ci troviamo oggi è che la bandiera del federalismo è stata assunta da alcuni anni dalla Lega Nord di Umberto Bossi che è una forza razzista e secessionista e non vuole realizzare il federalismo democratico di cui parlano Cattaneo, Bobbio e la Urbinati, ma un federalismo egoista e antidemocratico, per nulla solidale, che può condurre alla divisione dell’Italia e che sembra destinato a condurre con la destra berlusconiana all’affondamento del Mezzogiorno e alla divisione del paese.
Il federalismo di Cattaneo parla di pace e libertà, quello di Bossi definisce “porci” i romani e “terroni” i meridionali e finora sul piano politico non ha rivelato i costi dell’operazione né i pesi che deriverebbero da una riforma fatta da uno Stato centralistico e burocratico come appare dalla volontà del centro-destra su molti altri provvedimenti in calendario.
Con l’odio etnico e politico e la volontà serpeggiante di secessione non è possibile costruire il federalismo democratico di cui parlava Cattaneo e questo non è oggi neppure chiaro alle forze di opposizione del centro-sinistra divise tra adesione acritica e opposizione poco ragionata. Questo è il pericolo della situazione attuale e si impone la necessità di proporre alla maggioranza parlamentare un piano alternativo che non mi pare sia stato ancora formulato dai maggiori partiti dell’opposizione.

l’Unità 5.10.10
Nel nostro paese nel 2009 ci sono state 119 vittime, 439 dal 2006
La brutale normalità della violenza
contro le donne
Le usanze islamiche ma non solo. Gli omicidi nel nord Europa e quelli nelle regioni settentrionali d’Italia. Unica costante: sono gli uomini gli aguzzini. Specialmente in casa e nelle famiglie
di Cristiana Cella


Possiamo immaginare le urla, i gesti armati, il suono delle pietre e del ferro, la paura, il sangue. Il campo di battaglia, un appartamento comune, la cucina, la porta accanto. È difficile da sopportare, perfino nella mente. Ma non deve impedirci di ragionare. Nosheen viene dal Pakistan come sua madre Begm Shez. Dove la violenza contro le donne è impunita e sancita da una tradizione fondamentalista e inaccettabile. Ma Nasheen vive in Italia, in un paese libero e democratico in cui le donne hanno conquistato i loro diritti. Un paese dove, quasi ogni giorno, una donna muore per mano del suo uomo. Nel 2009 sono state 119, 439 dal 2006, e il 2010 sembra ancora peggiore, i casi aumentano ogni anno. Una vera mattanza tra le mura domestiche. A uccidere sono in maggioranza mariti, amanti e conviventi, a volte padri e fratelli. Con armi da taglio soprattutto, oppure improprie, quello che capita. La scena del delitto è quasi sempre la casa, il luogo dove le donne rischiano di più. I moventi più frequenti (43%): la decisione di separarsi, la gelosia, il rifiuto. È così in gran parte dell’Europa, peggio nei paesi del nord, ad eccezione della Svezia. In Italia sono le città del nord ad avere il primato. La violenza scatta quando le donne sfuggono o si ribellano al potere dell’uomo sulla loro vita e sul loro corpo, quando affermano con forza i loro sacrosanti diritti. Come Nosheen. E gli assassini sono in maggioranza italiani (76%), persone “normali” di tutte le classi sociali. Questo è quanto emerge da un rapporto redatto dalla Casa delle Donne di Bologna. Nosheen non è sola nell’orrore, purtroppo, nemmeno a casa nostra. Non possiamo nasconderci dietro le culture altrui. Né ignorare un fenomeno allarmante contro il quale si sta facendo molto ma evidentemente non abbastanza. Mancano ancora educazione, azioni globali e una efficace rete di protezione per le donne.
Tolleranza e indifferenza spengono troppo spesso l’allarme. Tranne quando si tratta di migranti. Ma la strumentalizzazione non aiuta nessuno, nemmeno Nosheen. La violenza contro le donne è un problema culturale profondo, evidentemente non solo islamico. Non è l’Islam a uccidere, sono gli uomini che perdono il controllo di se stessi quando perdono il controllo sulla mente, la vita e il corpo delle loro donne.
Il padre di Nosheen è pakistano e nel suo paese, come nel vicino Afghanistan, dove la violenza contro le donne è spaventosa e impunita, il matrimonio forzato è il principale strumento di questo controllo patriarcale. Uno strumento per noi inaccettabile, che, qui, gli è sfuggito di mano. Nel suo paese la legge della famiglia è tirannica e inappellabile. Le figlie sono le pedine del gioco di potere del padre. Sono vendute, per bisogno o per avidità, un vero affare se sono anche belle. Rafforzano i legami famigliari, vengono scambiate e risolvono contrasti. Sono la riparazione di un’offesa, dalle più insignifi-
canti fino agli omicidi, il risarcimento alle vittime. Sono le regole del pashtunwali, il codice tribale. Chi si ribella scatena la violenza, chi scappa viene punito. Ma niente di tutto questo è scritto nel Corano. E non ci sono “attenuanti” né culturali né religiose. Si tratta di tradizioni tribali arcaiche diventate più forti delle leggi dello Stato. Rafforzate da anni di fondamentalismo islamico, un preciso disegno che usa la religione come arma di oppressione, soprattutto sulle donne, e di potere politico. Un disegno mai contrastato dall’Occidente, anzi incoraggiato e finanziato per fini strategici. Il padre assassino di Nosheen è figlio di questa aberrazione, di questa barbarie diventata “cultura”. Proteggere il sogno di libertà di questa giovane donna, il coraggio di sua madre e delle altre migranti, è il nostro compito di accoglienza come paese civile. Come quello di combattere il fondamentalismo religioso e politico, l’intolleranza, la violenza degli uomini, a qualsiasi paese o cultura appartengano.

Corriere della Sera 5.10.10
Le immigrate di seconda generazione
Lo scontro di civiltà in casa e le donne in prima linea
di Alessandra Coppola


MILANO — Lo scontro di civiltà in casa Ibrahim scoppiò quando Rania un giorno di fine maggio annunciò che avrebbe sposato un italiano, non musulmano. «Vidi mia madre prendersi istericamente a schiaffi e cercare di strapparsi i vestiti». Un biglietto di sola andata per Il Cairo, il passaporto sequestrato, l'ordine di dimenticare Marco. «Eppure i miei genitori erano stati, fino ad allora, abbastanza aperti, mi avevano cresciuto come una qualunque ragazza italiana», come del resto lei si sentiva, arrivata a Milano che aveva due anni.
La storia ha un lieto fine, Rania e Marco si son sposati, hanno tre figli. Lei fa la giornalista freelance ed è collaboratrice di Yalla Italia, la rivista delle seconde generazioni (allegata a Vita). Di «rivoluzioni» come le sue ne ha viste altre, tra amiche, parenti e conoscenti. «Le figlie di immigrati hanno spesso più coraggio dei fratelli — riflette —, sono più agguerrite perché devono dimostrare qualcosa in più: ai maschi è tutto concesso, possono sposare chi vogliono (l’Islam lo permette), possono uscire e tornare quando gli pare. Molti genitori, invece, si vergognano delle figlie "spensierate". Cominciano a mettere paletti e tutto diventa haram, peccato». Nascono così i conflitti, e quando va bene sono spesso le donne ad aver fatto da apripista e a essersi tirate dietro tutti gli altri. Quando va molto male, son botte. Anche se i casi di Hina, Sanaa e adesso Nosheen sono estremi e isolati.
«La componente femminile vive criticità maggiori, ma è anche una componente di trasformazione più rapida», spiega Stefano Allievi, sociologo dell’Università di Padova, e s per t o di i mmigrazione e Islam. Non succede solo tra le figlie. «C’è questo strano paradosso per cui le donne immigrate sono meno presenti nel mercato del lavoro, sono considerate al traino, meno attive, e invece è spesso il contrario, anche nella prima generazione. L’apparente chiusura è uno stereotipo: la componente femminile è trasformativa». Secondo luogo comune da sfatare: lo scontro di civiltà non riguarda esclusivamente la comunità islamica. «Casi analoghi a quelli di Modena, di matrimoni imposti, in Gran Bretagna si vedono tra indù e sikh, per esempio. Dipende più dalla cultura che dalla religione».
È anche l’esperienza della dottoressa Elena Calabrò, psicologa e psicoterapeuta che assiste le vittime di violenza domestica alla Clinica Mangiagalli di Milano: «La situazione cambia a seconda della cultura di appartenenza», ragiona, e i problemi sorgono «se c’è un gap molto forte» tra la tradizione e il contesto di arrivo. A farne le spese sono soprattutto gli adolescenti, sdoppiati tra la casa e il mondo esterno, dove tra scuola, attività sportive, bar e sale giochi sperimentano stili di vita diversi. Le cifre sono solo orientative, ogni caso è a sé e le seconde generazioni mescolano passaporti italiani e non. Ma si può scrivere (stime Ismu) che i minorenni stranieri sono poco più di un milione e che i giovani tra i 18 e i 25 anni si possono calcolare in 650 mila (su 5,2 milioni totali, irregolari compresi).
Di ragazzine che escono vestite come vuole papà e poi si cambiano in ascensore per assomigliare alle altre coetanee suor Claudia Biondi della Caritas Ambrosiana ne ha viste a decine. «Per le figlie femmine c'è sempre una maggiore attenzione e protezione soprattutto da parte di padri e fratelli, protezione che sconfina col possesso». E porta spesso alla rottura. Le madri mediano? «Non sempre. Nel caso di un’adolescente scappata di casa, per esempio, abbiamo fatto un incontro con un gruppo di donne: si sono divise». Alcune legate alle origini, altre alleate delle figlie.
Ouejdane Mejri, giovane presidente dell’associazione Pontes dei tunisini in Italia, per esperienza mette tra le ragioni della mancata emancipazione di una parte delle donne migranti anche «la dipendenza economica dal marito. E il permesso di soggiorno: molte sono arrivate in Italia con i ricongiungimenti. Separarsi significa dover tornare nel Paese di origine».
Nella comunità pakistana di Desio (Monza-Brianza) prima che di rotture e rivoluzioni bisogna affrontare il nodo del dialogo. A farsene carico sono un padre e una figlia, Jawaira Ashras, 21 anni, iscritta al secondo anno di Comunicazione interculturale all’Università. Dal caso di Hina in poi hanno cominciato a organizzare incontri genitori/figli: «Ci siamo sentiti chiamati in causa — spiega Jawaira — Nella nostra tradizione bisogna rispettare i genitori, stare zitti, non parlare. L’obiettivo mio e di mio padre è rompere questa barriera. Senza essere maleducati». Piccoli passi. Jawaira porta il velo, non esce la sera e (per ora) promette: «Sposerò un musulmano».


l’Unità 5.10.10
Assemblee affollatissime nelle facoltà di architettura in tutta Italia Alla Camera inizia oggi l’esame degli emendamenti: 200 quelli Pd
Atenei, i ricercatori chiamano precari e studenti: «In gioco il destino di tutti»
Venerdì prossimo manifestazione di tutti i lavoratori della conoscenza. Manuela Ghizzoni (Pd): «Bene il voto dopo la sessione di bilancio, così sapremo se il governo intende restituire il miliardo e 350 milioni tagliati».
di Jolanda Bufalini


Valle Giulia, facoltà di architettura a Roma 1, a pianterreno studenti seguono attraverso un monitor; primo piano, un altro monitor un’altra piccola folla attenta, un cartello indica: maxischermo in Aula 7. L’Aula magna è gremita, non si respira, sulla cattedra, in fondo, preside e capo-dipartimento delle due facoltà (Valle Giulia e Quaroni), prorettore, ricercatori. Si sta svolgendo una lezione sui generis, l’oggetto è il sistema universitario italiano, i tagli del governo, la riforma Gelmini, il perché della protesta dei ricercatori che chiamano studenti, precari e ordinari a unirsi. Carola Clemente, ricercatrice, fa scorrere le slide, statistiche ufficiali dell’Ocse: il rapporto
docenti studenti in Italia è 1 a 19,5, «siamo avanti solo a Slovenia, Turchia, Cile», in Europa le borse di studio sono al 39% mentre in Italia al 29, il finanziamento alla ricerca è sceso in Italia allo 0,8 del Pil mentre la Germania ha triplicato gli investimenti e la media europea è sopra l’1,5%. Una caterva di dati per spiegare agli studenti, attentissimi, quasi tutti dei primi corsi «come si sta smantellando l’università pubblica». Il blocco del turn over, per esempio, significa che fra due anni ci saranno 18.000 professori in meno. «La riforma Gelmini dicono i ricercatori non risolve il problema del reclutamento, impone una gavetta di 3 anni di dottorato più nove di precariato a chi vuole tentare la carriera accademica, senza alcuna certezza che alla fine del percorso ci siano i soldi per l’assunzione». Tutto questo mentre «per gli studenti della Luiss si prevede, con fondi pubblici, il diritto a 2500 fotocopie annue». Nelle università pubbliche, invece, non solo non ci sono le risorse per dare agli aventi diritto l’assegno di studio ma si prepara per gli studenti un «prestito d’onore» parametrato su un improbabile reddito di 40mila euro. Tutte ragioni per invitare alla manifestazione dell’8 ottobre.
IN PARLAMENTO
Alla Camera, intanto, inizia oggi l’esame degli emendamenti, dopo lo slittamento al 14 ottobre della discussione in Aula. «È una vittoria del buon senso spiega l’on del Pd Manuela Ghizzoni, che di mestiere è ricercatrice la discussione accelerata toglieva senso al nostro lavoro». Ora è probabile che l’esame del Ddl si concluderà dopo la sessione di bilancio: «E sapremo nero su bianco dice Manuela Ghizzoni se il governo restituirà il miliardo e 350 milioni tagliati. Se, per caso, abbia intenzione di investire». Gli emendamenti Pd sono 200 a cui si aggiungono i 50 Udc ma, «non c’è alcun ostruzionismo, è una legge complessa, di 25 articoli con paginate di commi». Pdl e Lega rispondono alle critiche di rettori e commentatori favorevoli all’approvazione veloce della riforma: «Non è colpa nostra». «E sarebbe colpa dell’opposizione? replica Manuela Ghizzoni c’è tutto il tempo di discutere seriamente. Se invece vogliono andare alle elezioni anticipate, dopo aver incassato l’approvazione senza discutere, questo sì, è un problema loro».

il Fatto 5.10.10
Scuola: come tagliare 87 mila cattedre
di Marina Boscaino


È comprensibile. Lui era troppo impegnato a evitare la guerra tra Russia e Georgia e a convincere Obama ad intervenire dopo il crac della Lehman Brothers. E, mentre B. dirigeva la politica mondiale, Tremonti faceva fuori 87 mila cattedre. Con le buone o con le cattive. Tra le “cattive” il ministro dell'Economia ne ha escogitata una davvero sofisticata: abbassare il numero di ore settimanali non solo alle classi prime “beneficiate” dalla “epocale riforma” ma anche a II, III e IV del Tecnico e del Professionale. Insomma, i ragazzi di quelle scuole hanno cominciato a vedere un film ma, al secondo tempo, il film è diventato improvvisamente un altro.
Ricorso respinto
LO SCORSO luglio il Tar ha accolto in sede cautelare un ricorso presentato da Snals-Confsal, Cgil-Fp e due comitati di docenti e famiglie, basato sul fatto che su questo colpo di bisturi “in corso d’opera” il governo non aveva acquisito il parere – obbligatorio, anche se non vincolante – del Consiglio della Pubblica Istruzione.
Che il 26 agosto ha espresso parere sull'illegittimità del provvedimento, perché priva gli studenti di un diritto fondamentale: completare senza modifiche il corso di studi scelto e iniziato. In quella scuola che nello show al Senato il premier ha definito ciò che “la sinistra ha trasformato in un gigantesco ammortizzatore sociale, senza permettere ai ragazzi di entrare nel mondo del lavoro. Adesso, invece, c’è la rivoluzione del merito” Gelmini & Company hanno pensato di “premiare” i ragazzi sottraendo loro soprattutto materie come Matematica e Informatica.
Il Consiglio di Stato ha respinto il ricorso del governo contro la sospensiva del Tar, intimando “il rideterminarsi sulla definizione dell'orario complessivo annuale delle lezioni” per le classi intermedie. Decisione clamorosa – a scuole già iniziate e organici già definiti – e potenziale caos per i 750 mila ragazzi interessati.
Illegittime alcune iscrizioni
SAREBBERO circa 5 mila le cattedre soppresse per la riduzione dell'orario. Ricordo che pende sul destino delle superiori un altro ricorso (Scuola della Repubblica) sul fatto che i ragazzi si sono iscritti a nuovi ordinamenti che non erano (al momento della conclusione delle stesse iscrizioni) ancora testo di legge. Il Tar del Lazio in luglio ha dichiarato illegittime le circolari sulle iscrizioni e – di conseguenza – sono da ritenere tali tutti i provvedimenti applicativi (mancate nomine, trasferimento dei soprannumerari). Impressionano due elementi: per la prima volta, in questi tristissimi anni della scuola-Gelmini, sembra che le violazioni normative che costellano il percorso dell'Epocale Riforma – dall'abuso del decreto-legge sulla scuola primaria (che non aveva alcun carattere di “necessità e urgenza” e che scatenò la fluviale manifestazione del 30 ottobre del 2008 e il fenomeno dell'Onda), alle vicende che riguardano la superiore possano realmente essere fermate da chi ha questo potere. Avevamo quasi perso le speranze.
Ma ancor di più colpisce l’assoluta indifferenza che tale notizia determina in una gran parte dei mezzi di (dis)informazione e anche del mondo della scuola, la cui capacità di prendere in mano il proprio destino continua a dipendere (sic!) dagli annunci del Tg1. L'assuefazione a arbitrio, aggiramento truffaldino, violazione sprezzante sono tanto connaturati in una parte dei docenti italiani (anche in alcuni di quelli che continuano ostinatamente la mobilitazione) da impedire loro anche di rilevare che, per una volta, potrebbe venir ristabilito un principio di legittimità: le norme esistono e vanno rispettate. “Particolarmente grave, sotto il profilo politico, è stata l’assenza delle Regioni di centro-sinistra che non solo non hanno finora ritenuto di aderire al ricorso proposto davanti al Tar del Lazio, ma non hanno preso alcuna autonoma iniziativa, nemmeno a tutela delle loro prerogative. Il ministro difatti, violando la normativa vigente, non ha nemmeno acquisito il parere obbligatorio delle Conferenza Stato Regioni Enti Locali” afferma Corrado Mauceri, avvocato dei ricorrenti di Scuola della Repubblica.
Quanto a coloro che dovrebbero rappresentarci in Parlamento, la situazione è davvero imbarazzante. Sembrano non rendersi conto al di là dello sloganismo di maniera e l’impegno di un paio di persone che la scuola sta boccheggiando e la democrazia vacillando. Molti di noi stanno profondendo con coerenza il proprio impegno. Ma deve essere chiaro che senza un forte sostegno politico è difficile ottenere risultati concreti: non c'è peggior sordo di chi non vuole sentire. 

l’Unità 5.10.10
Olanda. Aperto il processo contro il leader del partito xenofobo che sostiene il governo
Contestato il giudice. L’imputato accusa: non è imparziale. Processo alla libertà di espressione
«Incitamento all’odio razziale»
Olanda, Wilders alla sbarra
È iniziato ieri ad Amsterdam il processo contro il capo del partito xenofobo olandese che dall’esterno puntella il nuovo governo. Geert Wilders è accusato di incitamento alla discriminazione e all’odio razziale.
di Marco Mongiello


In un'aula assediata da proteste e imponenti misure di sicurezza è iniziato ieri ad Amsterdam il processo a Geert Wilders, il leader dell'estrema destra olandese accusato di incitamento alla discriminazione e all'odio razziale. Un evento che ha attirato l'attenzione dei media olandesi ed europei dal momento che Wilders, dopo l'exploit elettorale di giugno, è in procinto di partecipare da esterno al prossimo governo olandese in via di formazione.
LA DIRETTA TV
La prima udienza, che è stata seguita in diretta dalle televisioni nazionali, è durata giusto il tempo di una breve dichiarazione perché il leader del Partito della Libertà (Pvv) ha chiesto la revoca dei giudici, accusati di essere «non imparziali». Il quarantasettenne biondo ossigenato è chiamato a rispondere di alcune dichiarazioni fatte nel 2007, tra cui l'invito a fermare «lo tsunami dell'islamizzazione» che «sta colpendo il nostro cuore, la nostra cultura e la nostra identità» e del suo filmato anti-islamico «Fitna» diffuso su Internet nel 2008, in cui si paragona il Corano al «Mein Kampf» di Hitler e si associano alcuni versi alle immagini degli attentati delle Torri Gemelle. «Sono incolpato perché ho espresso la mia opinione come rappresentante del popolo», ha esordito Wilders nella sua breve dichiarazione all'inizio dell'udienza, «formalmente sono io ad essere sotto processo qui oggi, ma con me è la libertà di espressione di molti, molti olandesi ad essere giudicata». Dopo essersi affermato come leader della terza forza politica del Paese con un milione e mezzo di voti (il 15%) ed aver costretto la destra moderata ad accettare il suo appoggio esterno al governo, Wilders è sembrato determinato a far pesare il suo nuovo consenso politico. «Con me in tribunale è in gioco la libertà di espressione di almeno 1,5 milioni di persone», ha scritto in un messaggio su Twitter.
Delle dichiarazioni oggetto dell'accusa «non ritiro niente», ha insistito in aula, «ho espresso la mia opinione nel corso della discussione pubblica e posso assicurarvi che continuerò a farlo. La democrazia ha bisogno di un dibattito aperto e libero», Wilders si è avvalso quindi della facoltà di non rispondere annunciando che saranno i suoi avvocati a condurre il processo. «Lei sembra molto bravo a fare dichiarazioni ma poi evita la discussione. Sembra che stia facendo la stessa cosa un'altra volta», ha commentato il presidente del collegio giudicante Jan Moors. È stato proprio questo commento a far saltare in piedi l'avvocato difensore Bram Moszkowicz, che ha puntato il dito contro l'imparzialità dei giudici. Ora una camera indipendente valuterà la richiesta di revoca e oggi farà sapere se il processo continuerà, con la probabile conclusione prevista per il 4 novembre, o dovrà essere nominato un nuovo collegio giudicante, il che potrebbe far slittare tutto di qualche mese. Wilders intanto raccoglie i frutti di tanta visibilità mediatica. Sabato scorso è andato a parlare a Berlino, dove un cristiano-democratico dissidente vuole fondare un partito xeonofobo antislamico sul modello del suo Partito della Libertà. «I crimini dell'era nazista», ha detto in tedesco davanti ad una platea rapita, «non sono una scusa per rinunciare a combattere per la vostra identità, la sola vostra responsabilità è di evitare gli errori del passato».

l’Unità 5.10.10
Disincanto o quarantena
I governi alle prese
con l’onda estremista


In Olanda il centro destra ha preferito invitare il partito xenofobo a condividere le responsabilità dell’esecutivo. In Svezia invece si vorrebbe isolarli cercando un’alleanza con i Verdi
In tutta l’Europa la tumultuosa ascesa dell’estrema destra sta rendendo impossibili le tradizionali coalizioni di governo moderate. In Italia siamo da tempo abituati all’indegno spettacolo di Berlusconi alleato con i pericolosi demagoghi della Lega Nord.
La scorsa settimana si è votato in Svezia e gli estremisti dei partito «Democratici svedesi» per la prima volta hanno fatto il loro ingresso in parlamento. Sebbene il partito moderato di centro-destra del primo ministro Fredrik Reinfeldt abbia raccolto più voti rispetto alla precedente consultazione, non può più contare sulla maggioranza.
Un risultato analogo è uscito di recente dalle urne anche in Olanda. Geert Wilders, a capo di una formazione politica fortemente islamofobica, ha preso così tanti voti che Mark Rutte, leader del conservatore «Partito liberale» e probabile nuovo primo ministro, ci ha messo quattro mesi a formare un governo di coalizione. Al cospetto di scelte analoghe, Reinfeldt e Rutte hanno preso decisioni politiche molto diverse. Reinfeldt, avendo promesso in campagna elettorale di non collaborare in alcun caso con i «Democratici svedesi», ha convinto i Verdi, facenti parte dello schieramento di centro-sinistra, a consentire con l’astensione un governo di minoranza. Anche Rutte ha appena deciso di varare un governo di minoranza e dovrà contare sui voti dell’estrema destra.
Chi ha preso la decisione giusta? Reinfeldt o Rutte?
Penso che siamo alle prese con un dilemma strategico e morale. Due sono le alternative ed entrambe sono poco allettanti.
Da un lato, potremmo invitare gli estremisti nel sancta sanctorum delle nostre democrazie, come di fatto accadrà in Olanda. Questa scelta esercita una certa attrazione strategica. Si tratta in sostanza di invitare gli estremisti a condividere le responsabilità di governo, di spogliarli della nobile veste di rivoluzionari autonomi che non dipendono da nessuno. Con un po’ di fortuna, i cittadini vedrebbero nel giro di poco tempo che si tratta di autentici ciarlatani. Potremmo definire questa la scelta del disincanto.
Il problema è che la scelta del disincanto è sufficientemente chiara per chiunque si sia preso la briga di dare un rapido, disgustato sguardo alla coalizione di Berlusconi: i governi del genere diventano ben presto ostaggio delle richieste radicali dei partiti estremisti. Le conseguenze sul clima politico generale sono potenzialmente devastanti. I pregiudizi xenofobi, i tabù diventano la norma e finiscono per infettare strati sempre più vasti della popolazione. I politici non più in grado di «educare e guidare la pubblica opinione» (James Madison) finiscono per contendersene il favore nella maniera più superficiale e senza scrupoli.
Tuttavia non sono certo che l’alternativa sia migliore. «Non permettiamo agli estremisti di entrare al governo», potremmo dire. «Non parliamo nemmeno con i loro leader. L’ultima cosa che vogliamo è farli diventare rispettabili». Questa è la scelta della quarantena.
È una posizione politica ammirevole ed è quella scelta dal primo ministro svedese. Ma comporta gravi rischi. Tanto per cominciare consente ai partiti estremisti di sostenere che l’establishment politico-mediatico li perseguita. In tempi di rabbia diffusa contro tutti i centri di potere, questa è una atout elettorale senza pari da giocare al momento opportuno.
Ci sono anche rischi per il funzionamento della democrazia. Per il corretto funzionamento delle democrazie parlamentari, gli elettori debbono poter scegliere tra due chiare alternative di governo con programmi diversi. In particolare gli elettori debbono poter mandare a casa un governo impopolare senza causare una profonda crisi politica. Ma questo diventa più difficile se i partiti di destra si coalizzano con quelli di sinistra. Alle prossime elezioni non si potrà più scegliere tra un governo democratico e una opposizione democratica. Gli elettori saranno invece chiamati a scegliere tra un governo democratico e una opposizione estremista. La scelta del disincanto è poco attraente e pericolosa, ma non sono convinto che quella della quarantena sia migliore.
La situazione politica italiana è talmente drammatica che è facile dare la colpa di tutti i problemi all’irresponsabilità di Berlusconi e non c’è dubbio sul fatto che Berlusconi ha fatto tutto quanto poteva per meritare la nostra rabbia. Ma non dovremmo dimenticare che, quand’anche Fini fosse il solo leader del centro-destra, se si andasse alle elezioni anticipate né il centro-sinistra né il centro-destra (senza Bossi) avrebbero i voti per governare. I drammatici problemi che si manifestano in Svezia e in Olanda – già modelli di buon governo – sono un salutare campanello d’allarme. Dobbiamo cercare di capire alla svelta come affrontare gli estremisti. Allo stato dell’arte la situazione è di pericolosa incertezza. Ma una cosa è chiara: per sconfiggere l’estremismo non basta oscillare tra il cinico opportunismo e l’inefficace moralismo, né in Italia né nel resto d’Europa.
Traduzione di Carlo Antonio Biscotto * Docente dell’Università di Harvard

l’Unità 5.10.10
Luciana Castellina:
«Serve la qualità per creare
il Pil del benessere»
L’ex parlamentare oppone all’idea berlusconiana dell’Italia-azienda una collettività da governare non con il criterio unico della produttivita
di Chiara Valerio


In un clima politico e culturale da avanspettacolo dove la bellezza ha smesso di essere meraviglia e conoscenza per trasformarsi nell’immutabile fotogenicità di un eterno presente televisivo, e dove la democrazia si è perduta, dieci domande (più una) per cercare di capire, se la bellezza è nell’occhio di chi guarda, il rispetto dell’altro dietro quale organo si nasconde.
«A Berlusconi piacciono le donne... J. F. Kennedy... probabilmente faceva più di Berlusconi ed è tutt’ora un grande mito della sinistra», «Sì ma Marilyn Monroe non è diventata ministro», «No, ma è morta in circostanze misteriose». È un dialogo tra Bocchino e Travaglio ad AnnoZero. Ci sono alternative?
«No. Ma per fortuna il mondo non è diviso tra quelli che le ammazzano e quelli che le mettono in cima alle liste elettorali. Questi sono fenomeni degenerativi che non fanno parte della politica. Non è vero che la presenza delle donne in politica abbia una relazione di dipendenza carnale o violenza. La normalità è già una alternativa».
Se un’amante è una donna giovane crede ci sia la possibilità che donne non più giovani possano ricoprire cariche politiche e culturali? E «le donne più belle che intelligenti», come ha detto Berlusconi alla Bindi a Porta a Porta, possono?
«Non vorrei confondere la realtà con la sua degenerazione. La straordinarietà di Berlusconi consiste nel far credere che il mondo sia quello che ha in testa lui, l’avere imposto un modello esclusivo e quasi imperativo. La politica non è il balletto intorno al summit del potere. Molte donne fanno politica nelle Ong o in ambiti culturali».
Ho citato un intervento di Bocchino e uno di Berlusconi perché mi sembrano rappresentativi di un certo modo di discutere, diventato canone di dibattiti. Pensa che appropriandosi delle Hogan, delle cravatte Regimental, degli occhiali fascianti, del tricolore, dell’aggressione verbale, una certa destra stia cercando di costruire un immaginario collettivo che gareggi con i maglioni di cachemire di certa sinistra italiana?
«Anche questa domanda mi lascia perplessa. Presuppone che la sinistra si vesta con cachemire e la destra con i maglioni. Non attribuirei l’eleganza sofisticata alla sinistra e l’ineleganza alla destra, storicamente è stato diverso. A nessuno viene in mente che la sinistra sia il cachemire di Bertinotti e non gli operai dell’Asinara. Sono cliché di un giornalismo che riproduce i cliché del berlusconismo. Personalmente sono allergica a quelli che introducono termini inglesi in politica. I care. Mission. La storpiatura dell’italiano in nome di un’anglofilia che corrisponde a un’americanizzazione sculturale e politica».
Le parole Onore e Ordine sono di destra? E Senso dello Stato? « L’onore dei combattenti, dei martiri della democrazia è di sinistra. La parola Onore è sì stata legata alla Patria e alle peggiori cose che la Patria ha fatto ma la letteratura della Resistenza non parla d’altro che di onore. Per Ordine è diverso, presuppone immobilismo. La sinistra si muove, cambia, rischia. Se con Senso dello stato si intende la responsabilità verso la comunità allora questo concetto è espresso dalla sinistra con la Responsabilità collettiva. Senso dello stato è una espressione di destra perché sottintende qualsiasi stato. Oggi la sinistra pensa lo stato come consolidamento di un compromesso sociale tra interessi sociali diversi, ma ora sono più forti gli interessi che vogliono distruggere lo stato e , la sinistra si schiera a sua difesa. Comunque, che non ci siano parole di destra o di sinistra è sintomo della degenerazione della nostra cultura politica. La sinistra ha smarrito le sue parole e le parole corrispondono a concetti e a fatti».
La gestione della cosa pubblica, della vita dei cittadini così come disegnato dalla Costituzione è compatibile con una gestione di tipo aziendale?
«La costituzione riconosce un diritto d’impresa e subordina l’istinto dell’impresa all’interesse sociale. La nostra costituzione è singolarmente acuta perché prevede uno scontro e cerca di regolarlo».
E in che misura onestà, istruzione, salute, libertà d’informazione, di ricerca della propria felicità e realizzazione possono entrare nel concetto di reddito di impresa? E in quello di Pil?
«Fitoussi ha fatto il Pil della felicità, del benessere. Non basta la quantità di reddito prodotto ci vuole la qualità. Il concetto di Pil verde esiste ma non è facile realizzarlo. Per tornare alla domanda precedente, l’idea dello scontro è scomparsa dalla politica. L’abitudine di Berlusconi è quella di pensare all’Italia come una impresa, ma una collettività non può essere governata tenendo conto solo della produttività. La meschinità di Berlusconi è nella sua cultura». Nell’«Amleto» Polonio invita Laerte a prestare attenzione all’abbigliamento perché «Talvolta l’abito, figlio, fa l’uomo». E il linguaggio, fa l’uomo?
«Il linguaggio è la relazione con l’altro. Il linguaggio, i vestiti danno un’immagine di un uomo che però può essere falsa».
Carlyle in «Sartor Resartus» dice «Gli Abiti ci hanno fatto uomini, adesso minacciano di far di noi degli attaccapanni». Quando si guarda allo specchio sente questa minaccia?
«Se indosso un vestito brutto, non mi piaccio ma non mi sento un attaccapanni. Mi piace vedere gli altri vestiti con gusto, ma ho anche amato e apprezzato persone vestite male». Secondo lei il nome «Partito dell’amore» è stato pensato per avvicinare le donne alla politica?
«Mi pare offensivo che le donne possano trovare più avvenente un partito chiamato partito dell’amore». Che cosa ha significato, in certi anni, essere stata una donna bellissima, comunista e alto borghese?
«Le donne dono state sempre trattate male. Se erano brutte, erano brutte. Se erano belle, dovevano essere stupide. Ci ho messo 50 anni per capire di non dover vivere in clandestinità il mio essere donna. Gli uomini non sopportano le donne intelligenti. Una responsabilità affidata a una donna è una cosa difficilissima da gestire per un uomo. Quasi si leda, per l’appunto, il senso dell’onore».

Corriere Fiorentino del Corriere della Sera 5.10.10
Prosperi, mille pagine di Inquisizione
Domani il grande storico apre la rassegna di Anna Benedetti
di Edoardo Semmola


Elegante, con fare spavaldo, un fazzoletto di batista appuntato sul vestito chiaro. Pietro Carnesecchi si avvia verso il patibolo, parole sue, «vestito da carnevale per il grande disprezzo».
Disprezzo per l’Inquisizione che lo aveva condannato a morte per aver abbracciato, come Michelangelo prima di lui, le teorie di riforma morale della Chiesa di Juan de Valdés. Sono passati appena 20 anni dall’istituzione della Santa Inquisizione Romana e Firenze non ha perso tempo. La prima e più illustre vittima è proprio l’«eretico» Carnesecchi, uno dei maggiori intellettuali del tempo, valdesiano giustiziato nel 1567. Siamo a pagina 312 del Dizionario storico dell’Inquisizione (Edizioni della Normale) del grande storico Adriano Prosperi che domani (ore 17.30 alla Biblioteca delle Oblate) apre la nuova stagione di «Leggere per non dimenticare», la rassegna letteraria di Anna Benedetti.
Quattro volumi, 1084 pagine ricche di voci su personaggi, istituti, processi, teorie, da Dante al 1965, anno della nascita della Congregazione per la Dottrina della Fede. Un enorme lavoro di compilazione che ha avuto dodici anni di gestazione. Una storia europea nella quale Firenze e la Toscana giocano un ruolo importante. A cominciare da Carnesecchi. E proseguendo quasi un secolo dopo quando, racconta il professore, «viene denunciato un gruppo di nobili delle maggiori famiglie: Capponi, Ricasoli, Acciaioli, Anselmi, Grifoni, Cardinali, sorpresi durante una partita a carte a bestemmiare (in caso di mano sfortunata). Tra loro c’è anche Alessandro de’ Medici che fu accusato di urlare: ‘‘Cristo ti desgrado che mi fai perdere…’’». La prosecuzione della frase di Alessandro non è pubblicabile neanche ai giorni nostri. Il caso dell’infausta partita fu però insabbiato e la giustizia romana non riuscì ad avere la meglio «sulla solidarietà di classe tra le famiglie di maggiori potere del granducato — sorride Prosperi — L’incartamento fu insabbiato». In Toscana si contano tre tribunali dell’Inquisizione: «Uno a Firenze, uno Pisa, e uno Siena, poi aprì anche a Volterra. Ma l’archivio di Volterra è tuttora chiuso, si sono sempre rifiutati di aprirlo». Lucca fa storia a sé perché era una città storicamente «piena di eretici, perché calvinisti, e si è sempre opposta all’ipotesi di ospitare l’Inquisizione istituendo però un tribunale sopra la religione che non era ecclesiastico ma secolare. Anche lì furono mandati streghe ed eretici a morte, ma è passato alla storia per essere un tribunale dalla mano molto più morbida degli altri». Firenze è stata però una delle prime città a disfarsi dell’Inquisizione, sull’onda delle idee illuministiche, nel 1782. Ma non fu compito facile per i Lorena che dovettero combattere una dura battaglia politica con Roma. «La polemica tra Firenze e Roma durò a lungo e si concluse con un concordato scaturito dopo alcuni processi clamorosi, i primi contro la massoneria, tra cui quello a Tommaso Crudeli nel 1739. Significativo per avviare questo lento processo fu anche il delicato caso della monaca Francesca Fabroni nel tardo Seicento: condannata dopo morta, disseppellita ( dal chiostro di Santa Croce) e processata, il suo cadavere fu dato alle fiamme».
Il concordato venne stipulato nel 1754 e il Granducato riuscì ad imporre «un modello di giustizia religiosa in stile veneziano: l’unico in cui l’inquisitore ecclesiastico veniva affiancato da tre assistenti laici». Ma sia nel periodo di maggiore efficienza persecutoria, sia nelle fasi di gelo dei rapporti tra Arno e Tevere, «la peculiarità toscana— conclude l’autore— è sempre stata quella di una forte contiguità tra potere laico e potere ecclesiastico, non a caso è dalle grandi famiglie toscane che provengono tanti papi».

Corriere della Sera 5.10.10
Svelato il «punto debole» di Darwin
L’evoluzione non avviene solo all’interno di una specie: lo dimostrano nuovi studi negli Usa su piante e animali
Quando una specie si separa, se ne creano di nuove e le diversità accelerano
di Massimo Piattelli Palmarini


Due lavori distinti, ma pubblicati fianco a fianco sulla rivista americana Science, mostrano che esiste un effetto detto «a slavina» (snowballing) quando una specie comincia a separarsi in due specie. Daniel Matute e colleghi all’Università di Chicago lo hanno verificato nel moscerino della frutta, mentre Leonie Moyle (Bloomington, Indiana) e Takuya Nakazato (Memphis, Tennessee) lo hanno verificato nelle solanacee, cui appartengono, per esempio, la patata e il pomodoro.
Nature, Nella teoria di Darwin (a destra in un’immagine giovanile) gli individui riproduttivamente più dotati si distanziano progressivamente dai meno dotati, tutti inizialmente entro la stessa specie. Tesi oggetto di dibattito: su Joseph Milton sostiene che i geni sono «programmati» per produrre specie distinte
L’effetto, quindi, sussiste sia nel regno animale che in quello vegetale. In termini molto semplici, quando interviene nel tempo una incompatibilità riproduttiva in una popolazione di individui precedentemente fertili, il numero di geni tra loro incompatibili cresce in ciascuna molto rapidamente.
Sia l’immagine della slavina che quella del treno senza freni sono state usate proprio in questi giorni. Joseph Milton, in un commento su questa scoperta appena pubblicato sulla rivista britannica Nati inizialmente entro la stessa specie. Romanes faceva notare che esiste, però, anche una distanziazione tra individui ugualmente ben dotati, capaci di riprodursi incrociandosi, ma incapaci di produrre ibridi che possono a loro volta riprodursi. Il caso del cavallo e dell’asino che producono solo muli sterili è il piu noto.
Questa separazione riproduttiva veniva vista da Romanes come precedente alla selezione naturale, che poi avrebbe affinato ciascuna specie. I rami devono separarsi, prima che ciascuno poi cominci ad evolversi. L’esempio di Romanes era quello di una variante in una specie di piante che fiorisce prima delle altre. Può riprodursi solo con altri individui che fioriscono precocemente e sono in una fase ricettiva del polline, ma non con quelli che fioriscono regolarmente. Nel tempo insorgono due specie, o almeno l’inizio di due specie distinte.
Iniziò una lunga diatriba che è ben ricostruita dallo storico della biologia Donald Forsdyke in una nota appena pubblicata su Notes and Records of the Royal Society. Nel frattempo tantissimo è cambiato, si sono scoperti i geni, il dna, l’ibridazione tra i geni e tra i cromosomi, si possono fare confronti tra le sequenze geniche e quindi il problema della sterilità degli ibridi si presenta oggi sotto un volto assai diverso.
L’effetto ora scoperto, ma antecedentemente ipotizzato dal grande evoluzionista americano Theodosius Dobzhansky molti anni addietro, consiste in un’accelerazione rapida delle divergenze genetiche in specie che iniziano a differenziarsi. Matute e colleghi hanno osservato il genoma in tre specie di drosofile (il moscerino della frutta, cavallo di battaglia dei genetisti da molti decenni) che, incrociandosi, producono ibridi sterili. Due di queste specie si sono separate 5 milioni di anni fa, altre due 13 milioni di anni fa. Questi diversi tempi di separazione consentono di applicare un orologio evolutivo e metterlo in relazione con l’accumularsi delle diversità tra i geni. La separazione più antica ha prodotto ben 65 incompatibilità geniche, quella più recente solo dieci. Il ritmo è ben più rapido di quello di una separazione lineare, un ritmo che va come il quadrato del tempo intercorso.
Forse la metafora della slavina è un po’ esagerata, ma certo la rapidità è innegabile. Jerry Coyne, coautore del lavoro con Matute e propugnatore indefesso del ruolo fondamentale della selezione naturale, interpreta questo dato come il risultato, appunto, della selezione naturale.
Geni che si comportano normalmente nelle rispettive specie, interferiscono in modo deleterio dopo che si è formata un’incompatibilità riproduttiva. E lo fanno presto, maledettamente presto, rispetto ai tempi dell’evoluzione delle specie. Secondo questa interpretazione, non solo la selezione naturale è il motore della comparsa di specie nuove, ma è il motore del motore stesso, perche ha privilegiato un meccanismo di rapida separazione riproduttiva, favorendo non una specie o un’altra, ma la formazione di specie nuove in quanto tali. Romanes suggeriva piuttosto «cause intrinseche» e una «variabilità spontanea dell’apparato riproduttivo».
Personalmente, pur ammirando la tecnologia genetica moderna e la brillantezza delle slavine genetiche, mi sento più vicino a Romanes.

Corriere della Sera 5.10.10
Da Mosè al sionismo: una storia «inventata»
Un autore israeliano contesta le affermazioni dei manuali scolastici
La religione giudaica si estese a popolazioni delle più diverse etnie
Shlomo Sand riscrive l’epopea degli ebrei. Con una sorpresa
di Paolo Mieli


Fin dalla prima infanzia i bambini israeliani vengono a «sapere» che il popolo a cui appartengono esiste dal momento in cui gli fu data la Torah sul Sinai. Quei bambini sono convinti di essere discendenti diretti delle genti che, uscite dall’Egitto, si stanziarono, dopo averla conquistata, nella «terra di Israele», promessa, come tutti «sanno», da Dio per fondarvi lo splendido regno di Davide e Salomone, poi separatosi a formare quelli di Giuda e d’Israele. Crescendo quei bambini apprenderanno che questo popolo, dopo il glorioso periodo monarchico, ha conosciuto l’esilio per ben due volte: una con la distruzione del Primo Tempio nel sesto secolo a.C.; la seconda dopo quella del Secondo Tempio nel 70 d.C. Impareranno poi che il loro popolo, il più antico di tutti, ha errato in esilio per circa duemila anni, nel corso dei quali non si è mai lasciato integrare né assimilare. Che ha raggiunto lo Yemen, il Marocco, la Spagna, la Germania, la Polonia, angoli remoti della Russia riuscendo sempre a mantenere stretti legami di sangue con le comunità più lontane, preservando di conseguenza la propria unicità.
In realtà è molto improbabile che le cose siano andate davvero così. Anzi, Shlomo Sand, storico ebreo, docente all’Università di Tel Aviv, in un libro, L’invenzione del popolo ebraico, di imminente pubblicazione per i tipi di Rizzoli, sostiene che si tratta, appunto, di una «invenzione». Questa storia non sta in piedi, afferma Sand: così come ad esempio non c’è continuità tra gli antichi elleni e i greci di oggi, non c’è una linea diretta che colleghi gli ebrei di duemila anni fa a quelli attuali. Per di più questo racconto non è andato formandosi spontaneamente; «sono stati invece abili manipolatori del passato che dalla seconda metà del XIX secolo, strato dopo strato, hanno elevato questo cumulo di ricordi servendosi soprattutto di frammenti di memoria religiosa ebraica e cristiana, da cui la loro fervida immaginazione ha ricostruito un’ininterrotta genealogia del popolo ebraico».
Quando, nel 2008, il libro di Sand è stato pubblicato in Israele si è scatenata, come era ovvio che fosse, una grande polemica (ne ha dato conto in modo esauriente, su queste pagine, Davide Frattini il 29 marzo di quello stesso anno). Ma molti storici israeliani, primo tra tutti Tom Segev, hanno difeso Sand e il suo libro che — a dispetto delle accuse piovutegli addosso — ha avuto un grande successo di pubblico. Shlomo Sand racconta di essere stato consapevole, allorché si accinse alla stesura di questo testo, dei rischi che correva: «Mi aspettavo di essere accusato dai miei detrattori di non possedere un’adeguata conoscenza della storia ebraica, di non essere in grado di cogliere l’unicità del popolo ebraico, di ignorare ottusamente la sua origine biblica e di negare la sua eterna coesione». Ma, aggiunge, «mi sembrava anche che passare il mio tempo all’Università di Tel Aviv, in mezzo alla sua ampia collezione di volumi e documenti sulla storia ebraica, senza prendermi il tempo di esaminarli, sarebbe stato un affronto alla mia professione». Con una qualche malizia nei confronti degli altri professori del suo stesso ateneo, Sand dice poi che «è sicuramente piacevole viaggiare in Francia e negli Stati Uniti in qualità di affermato docente per raccogliere materiale sulla cultura occidentale, godendosi il potere e la quiete dell’ambiente universitario». Però, aggiunge subito dopo, «come storico che contribuisce a modellare la memoria collettiva della società nella quale vive, sentivo fosse mio dovere dare un contributo diretto a questa impresa tanto delicata».
Dopodiché, sostiene Sand, «sarebbe stato megl i o s e i l volume f osse s t at o r eal i z z at o da un’équipe di ricercatori anziché da uno storico solo». Purtroppo, aggiunge non senza una buona dose di perfidia — ancora una volta — nei confronti dei suoi colleghi, non è stato possibile dal momento che non ha trovato qualcuno che fosse disposto a «collaborare a quest’azione criminosa». Sand è esplicito nel puntare l’indice contro la maggioranza degli storici del suo Paese: «Vorrei sottolineare che quelle a cui ho attinto sono state quasi esclusivamente fonti che erano già state scoperte in precedenza da storiografi sionisti e israeliani»; «quello che più lascia stupiti è che molte delle informazioni utilizzate per questo saggio erano note da sempre in alcuni circoli ristretti di ricercatori, ma finivano invariabilmente per perdersi per strada quando si trattava di renderle note alla pubblica opinione o di innestarle nella memoria trasmessa dal sistema educativo»; «alcuni elementi erano stati trascurati, altri immediatamente nascosti sotto il tappeto degli storiografi e altri ancora "dimenticati" perché non si confacevano alle necessità ideologiche di una identità nazionale in fieri». Conclusione: «Sfortunatamente pochi dei miei colleghi — gli insegnanti di storia in Israele — ritengono loro dovere intraprendere la pericolosa missione pedagogica di denunciare le tradizionali bugie che si dicono sul passato». Quanto a lui: «Non avrei potuto continuare a vivere in Israele», afferma, «se non avessi scritto questo saggio».
Reso omaggio e manifestato il suo debito nei confronti dei grandi studiosi del passato, che hanno dimostrato come sia sempre stato il nazionalismo a generare le nazioni e non viceversa — in particolare Ernest Renan con Che cos’è una nazione? (Donzelli), Eric J. Hobsbawm e Terence Ranger con L’invenzione della tradizione (Einaudi); Ernest Gellner con Nazioni e nazionalismo (Editori Riuniti) e Marcel Detienne con Essere autoctoni. Come denazionalizzare le storie nazionali (Sansoni) — Sand ricostruisce come quella della continuità del popolo ebraico dai tempi biblici a quelli odierni sia un’«invenzione» molto recente. In principio fu Giuseppe Flavio lo storico ebreo di lingua greca che nel primo secolo dopo Cristo raccontò la Guerra giudaica a cui aveva partecipato e scrisse delle Antichità giudaiche (Utet). Poi per tutto il Medioevo non è attestata nessuna forma di storiografia degli ebrei. Sand nota come trascorsero più di milleseicento anni prima che Jacques Basnage (1653-1725), teologo ugonotto originario della Normandia ma residente a Rotterdam, decidesse di riprendere il racconto della Storia degli ebrei dai tempi di Gesù Cristo ad oggi. Milleseicento anni! Tra l’altro l’opera di Basnage non aveva assolutamente le caratteristiche di uno studio storico nel senso moderno del termine (l’autore non rimandava quasi mai a fonti ebraiche) ed era stata scritta all’evidente scopo di screditare la Chiesa cattolica. L’autore non delineava alcuna continuità tra gli antichi israeliti e le comunità ebraiche a lui coeve, si limitava a descriverne le persecuzioni qui e là nel corso del Medioevo, per sostenere che la colpa di quelle vessazioni era riconducibile per intero alla corrotta istituzione del papato. E che solo la Riforma protestante avrebbe potuto condurre gli israeliti alla salvezza (che — detto per inciso — doveva coincidere con la loro conversione al cristianesimo). Poi trascorse quasi un altro secolo perché lo storico ebreo tedesco Isaak Markus Jost (1793-1860) scrivesse una seconda storia degli ebrei che, malgrado le critiche da lui stesso mosse a Basnage, conservava lo stesso impianto del lavoro dello scrittore protestante. Il primo accenno esplicito a una continuità tra gli ebrei della Bibbia e quelli di tremila anni dopo si trovò solo nel saggio Roma e Gerusalemme (1862)

Corriere della Sera 5.10.10
«La nuova legge non aiuta i librai»
di Armando Torno


Parte da Napoli un appello-denuncia. «Salvate la cultura, copiate Francia e Germania»
Mario Guida: «Viviamo grazie alla scolastica, che presto finirà sul web»

Incontriamo il libraio ed editore Mario Guida nel suo celebre negozio di via Port’Alba a Napoli. Il luogo, fatto più unico che raro, è stato dichiarato monumento storico nel 1983. Tra queste pareti, accanto alle quali vi sono tracce greche e romane della città partenopea, c’è il cuore del titolare ma pulsa anche l’energia di un’attività unica al Sud: 76 dipendenti, quattro negozi (due a Napoli, uno ad Avellino e uno a Caserta) e sette in franchising, da Ariano Irpino a Sora (Frosinone). Sono i giorni dei testi scolastici e l’afflusso è talmente alto che si «deve prendere il numero», come raccomanda un commesso. Le chiusure continue delle librerie non legate a catene sembrano fatti lontani, anche se alla fine di luglio ha abbassato definitivamente la saracinesca a Roma l’ultimo Remainders’ e così ha fatto, qui a Napoli, il Pavone Nero, che fu la prima con i tavolini. Ma l’elenco delle defunte negli ultimi tempi è allarmante: non ci sono più, per esempio, la Lef di Firenze (cara a don Milani), la Gremese di Roma, la Pergamena di Oristano, la Hobelix di Messina, la Sapienza di Viterbo, la Capriotti di Como, la Scolastica di Teramo, un numero imprecisato a Milano, dove quella di Porta Romana è stata sostituita da una banca e in Galleria siamo a meno tre in poco più di un lustro. Da Napoli giunge un allarme. Cosa sta succedendo dottor Guida? «Qualcosa di molto semplice: ci sono sei gruppi editoriali che hanno acquistato il 100% delle case editrici storiche italiane e controllano l’80% dell’informazione. Hanno creato catene di librerie, organizzato la grande distribuzione e infine messo a punto l’invasione dei supermercati con la loro produzione, con diritti di resa e sconti molto alti». Intende dire che... «Mi dicono che sia il 50% lo sconto possibile tra loro, ma forse vale di più se si tiene conto della possibilità di scambiare i titoli tra un gruppo e l’altro». E voi? «Per sopravvivere siamo costretti a vendere i testi scolastici. Ma, nonostante la gente che ha visto in negozio, facciamo sempre più fatica». Perché? «Da tre anni a questa parte la produzione per la scuola dipendente dai grandi gruppi ha ridotto ulteriormente lo sconto. Siamo al 17/18% per i libri adottati nelle superiori e al 16% per le elementari. Inoltre...». Inoltre? «Il debito che si crea con gli editori scolastici va onorato in tempi sempre più stretti. E le percentuali che ho ricordato sono da valutare con molta attenzione. Ogni Comune emette dei buoni-libro per aiutare le famiglie. In Campania, ma non deve essere molto diverso altrove, questi vengono incassati un anno dopo. E per il 2010 a Napoli non è ancora stata deliberata la cifra per mancanza di soldi e per i tagli che in Italia sono ormai consuetudine annuale». C’è ancora un mercato che... «I ragazzi non mancano, almeno sino a quando — secondo le direttive che il ministero va ripetendo e sollecitando — scaricheranno direttamente da Internet i testi scolastici. A quel punto sarà il collasso e moriranno le librerie indipendenti».
Non le sembra di essere un po’ pessimista?
«No, sono realista. Senza la scolastica non si può andare avanti. Se catene e supermercati hanno sconti privilegiati, noi ne abbiamo quasi la metà. Con la varia siamo al 28%». Cosa prevede? «Passato questo 2010, nel quale ancora una volta si alimentano ad arte le discussioni sui costi dei libri, si dovrebbe arrivare — secondo le disposizioni del ministero — alla scomparsa del cambio dei testi. Dopo di che ci saranno due, al massimo tre anni di vita. E con la nostra chiusura morirà anche molta cultura. Qui, a Port’Alba, hanno presentato i loro libri e discusso con il pubblico Pasolini e Montanelli, Moravia e Spadolini, La Capria ed Eco; insomma i lettori hanno conosciuto direttamente idee ed emozioni degli autori. Guardi quella foto: c’è Allen Ginsberg con la Nanda Pivano, in quell’altra c’è Kerouac, Andy Warhol ha fatto qui una sua prima mostra...». Cosa si può fare? «Dobbiamo copiare — ripeto copiare — la legge francese o tedesca sull’editoria. Quella italiana che sta per essere approvata non va assolutamente bene. E ricordarsi che lo sconto ammazza il libro, il quale è ancora il veicolo privilegiato per trasmettere e diffondere idee. Comperare su Internet è altra cosa, così come in un supermercato. La libreria è anche un ritrovo per consultare, per scambiare opinioni, per avere o per offrire un suggerimento, per scoprire titoli, autori. È civiltà, non vendita all’ingrosso». Le istituzioni? «Sia gentile, mi faccia un’altra domanda. Nessun aiuto con l’affitto, nessun aiuto per salvare la qualità in un momento in cui ogni figurante televisivo può pubblicare la sua fesseria (che strozza la nostra credibilità), nessuna... L’elenco è lungo. Ma quando chiuderemo si conoscerà tutto. Salvare le librerie è ormai un atto umanitario».

Repubblica 5.10.10
L’amore in 41 modi l'ultima rivoluzione del sesso in America
Crescono contraccezione e rapporti "alternativi"
di Angelo Aquaro


NEW YORK - Se la felicità è un diritto, come recita la Dichiarazione di Indipendenza, da oggi gli americani hanno 41 nuovi modi per trovarla. Quantomeno a letto. C'è poco da scandalizzarsi: a sessant'anni dal Rapporto Kinsey che fece arrossire l'America, gli Stati Uniti che si dividono tra Barack Obama e Sarah Palin, obiettivamente due bellezze, si scoprono un paese sessualmente più felice, quantomeno più liberato e con meno tabù.

D'accordo: i 41 gradini andrebbero divisi per cinque, visto che si tratta più che altro di variazioni sul tema. Nell'ordine, e scusate l'anatomica oggettività dell'Università dell'Indiana: penevagina, automasturbazione, masturbazione del partner, sesso orale e sesso anale. Ma l'ennesima frontiera conquistata da questo grande paese indica che qualcosa, anzi molto, è cambiato dall'ultimo rapporto, il National Health Survey del 1994: l'omosessualità non è più tabù, i ragazzi scoprono il sesso su Internet e "Sex and the City" è ormai un classico. Dice patriotticamente il dottor Jennis D. Fortenberry, tra i firmatari dello studio: «A meno che, come Al Qaeda, crediate che ci sia qualcosa di anormale nella gente d'America, quello che rivelano questi dati è proprio questo: tutto quello che c'è qui dentro è normale». Quindi anche quel record di crescita, l'unico in anni di recessione, difficilmente eguagliabile: il raddoppio dei rapporti anali. Certo, a spulciare meglio si scopre che il sogno americano poi si scioglie in quel gap uomodonna che dall'occupazione allo stipendio (le signore guadagnano 81 centesimi ogni dollaro guadagnato dai signori) si riverbera in camera da letto. La maggioranza dei maschietti continua a inseguire l'orgasmo con l'accoppiamento classico- la posizione del missionario fra l'altro qui introdotta dai conquistadores - mentre alle femminucce, spiega la dottoressa Debra Herbenick, piace sperimentare di più: a partire dal sesso orale.

Quello che però più avvicina gli americani al resto dell'umanità è la diversa percezione dell'orgasmo, come del resto già insegnava, vent'anni fa, "Harry ti presento Sally". Malgrado i 41 giochini, le donne fanno più fatica. E se l'85 per cento degli uomini giurano di aver fatto provare alla propria partner l'orgasmo, il 64 per cento delle compagne li sbugiardano. Non solo. Le donne sopra i cinquant'anni ammettono di provare l'orgasmo più facilmente con un partner occasionale che con il loro compagno.

La rivoluzione stravolge anche i confini dei sessi. Il 7 per cento delle donne e l'8 per cento degli uomini si dichiarano apertamente gay. Ma rispettivamente il 14 e il 13 per cento, cioè praticamente il doppio, confessa di aver avuto almeno un rapporto con un partner dello stesso sesso, preferibilmente orale. E il boom del sesso anale? Nel paese dei puritani, in cui appena sette anni fa dovette intervenire la Corte Suprema per annullare le leggi che vietavano la sodomia ancora in vigore in 32 stati, questo è il tipo di rapporto che negli ultimi vent'anni è cresciuto di più: dal 20 al 40 per cento.

Ma proprio la scoperta più chiacchierata non deve oscurare la conclusione più incoraggiante dello studio: la presa di coscienza delle generazioni più giovani.

Anni di campagne e sensibilizzazione hanno portato al boom del condom tra i ragazzi, che ormai associano la prima esperienza sessuale al concetto di protezione: ben il 79 per cento dei ragazzi tra i 14 e i 17 anni fanno uso del condom, contro il 25 per cento degli adulti. Che, si spera, lo usano meno solo perché i 41 gradini della felicità li scalano in famiglia.

Repubblica 25.1.10
Piccoli sogni crescono assenti nei bimbi si formano con l´età
Scoperta in Usa: la vera attività onirica inizia a 5 anni
Solo nel 20% dei piccoli il sonno è animato da qualche scena. Quasi mai d´azione. Le prime storie interessanti arrivano dopo
di Elena Dusi

ROMA - Anche a sognare si impara. Le trame piene di azioni ed emozioni non sono affare da bambini ma si costruiscono solo crescendo. Nonostante quel che si immagina osservando le smorfie o i movimenti del corpo, le notti dei piccoli sono calme e placide come specchi d´acqua senza vento. E ai genitori svegliati da pianti o resoconti di incubi i neuroscienziati spiegano che non dal sonno quelle paure scaturiscono, ma da stati incompleti di veglia in cui i piccoli si ritrovano confusi e disorientati.
Allo sviluppo dell´attività onirica nei bambini dedicano un capitolo Giulio Tononi e Yuval Nir, del dipartimento di psichiatria dell´università del Wisconsin a Madison, in uno studio più generale sulla natura dei sogni pubblicato dalla rivista Trends in cognitive sciences. Prima di elaborare scene ricche di movimenti, colori, interazioni ed emozioni, secondo i ricercatori, un bambino deve aver sviluppato le proprie capacità cognitive e arricchito la propria immaginazione. E questo avverrebbe attorno ai 7 anni di età.
Il pioniere degli studi sui sogni nell´infanzia fu lo psicologo americano David Foulkes che con infinita pazienza passò gli anni ´80 e ´90 a svegliare bimbi in piena notte nel suo laboratorio per farsi raccontare tra uno stropicciamento di occhi e un mugugno cosa stavano sognando. Fu lui il primo a stupirsi del fatto che, mentre gli adulti hanno quasi sempre una scena bizzarra da ricordare se svegliati durante la fase Rem (quella in cui si concentra l´attività onirica), solo il 20 per cento dei bambini riferiva di aver avuto un sogno in corso fino a un attimo prima.
«La natura statica dei sogni prima dell´età scolare - scrivono Tononi e Nir - si accorda con la difficoltà di pensare gli oggetti durante le rotazioni o le trasformazioni in genere» e con «lo sviluppo incompleto della facoltà di immaginazione, in particolare di quella visuale e spaziale». La mancanza di un vocabolario adatto a descrivere la bizzarria dei sogni o la scarsa voglia di collaborare con quel signore col camice bianco che li ha svegliati sul più bello del riposo non bastano a spiegare, secondo i ricercatori di Madison, perché i più piccoli non abbiano quasi mai sogni da raccontare.
I sogni piuttosto crescono insieme ai bambini. Fino a 5 anni le scene sono fisse e i protagonisti immobili. Nel sogno appare magari un animale, o si ha desiderio di mangiare. Le emozioni sono assenti, come pure le interazioni fra i personaggi. I ricordi delle giornate trascorse non bussano alle porte della notte e i bambini non riferiscono mai scene di aggressione, situazioni spiacevoli, paura o altre emozioni.
È a partire dai 5 anni che i sogni cominciano ad avere una trama, ancora molto banale. I protagonisti si muovono e scambiano qualche parola. Ma la frequenza degli episodi onirici è ancora bassa, lontana da quell´80-90 per cento registrata negli adulti svegliati durante il sonno Rem, anche fra coloro che sono convinti di non sognare mai semplicemente perché al mattino la memoria ha perso ogni traccia della movimentata vita notturna del cervello.
L´incapacità dei bambini di sognare scene complesse fa pensare a Tononi e Nir che neanche gli animali sappiano elaborare trame di caccia, corsa o avventurosi salti fra gli alberi. E che la loro attività onirica si limiti piuttosto a scene semplici e prive di azione. Nelle persone che hanno perso la vista invece (purché questo sia avvenuto dopo i 5-7 anni di età) le immagini e gli oggetti registrati durante l´infanzia tornano per tutte le notti della vita a riproporsi nella corteccia visiva, come se gli occhi non avessero perso la loro funzione.
I piccoli sognatori cominciano ad avere storie interessanti da raccontare a partire dai 7 anni. Ecco allora affacciarsi le emozioni nelle loro notti. I bambini in sogno si ritrovano a pensare, provano gioie o paure. Rivivono episodi avvenuti durante la giornata o ripescati dalla memoria autobiografica. E diventano finalmente protagonisti di trame sempre più colorate, complicate e - come in ogni sogno che si rispetti - bizzarre e divertentissime da raccontare.

Repubblica 25.1.10
Giulio Tononi, neuroscienziato dell´Università del Wisconsin
"Di notte il film d´un regista maldestro che ci saccheggia il fondo del cervello"
La corteccia cerebrale "suggerisce" un tema, per esempio la paura, e lì parte un’elaborazione piuttosto disorganizzata
di e. d.

ROMA - Dai tempi di Aristotele l´uomo scrive e si interroga sulla natura dei sogni. E per Giulio Tononi, neuroscienziato dell´università del Wisconsin, oggi disponiamo dei mezzi tecnici per svelare molti dei suoi misteri. «Mi occupo di sonno e di studi sulla coscienza» spiega. «E il sogno si trova esattamente all´incrocio fra questi due mondi».
Qual è il nesso fra sonno e coscienza?
«Prendiamo la fase del sonno a onde lente all´inizio della notte. Se qualcuno ci sveglia non abbiamo nulla da dire, da ricordare. Non c´eravamo, avevamo perso coscienza. Durante l´attività onirica invece, tipica ma non esclusiva del sonno Rem, il cervello genera un intero universo di esperienze coscienti. E tutto questo pur essendo disconnesso dalla realtà esterna».
Il cervello non risponde agli stimoli ma la coscienza funziona.
«Esatto, e ancora non sappiamo perché e in che modo questo avvenga. Abbiamo sperimentato che mantenendo le palpebre aperte in una persona che dorme e proiettando un film, le immagini vengono percepite dagli occhi e sono trasportate dai nervi ottici fino alla corteccia cerebrale. Ma lì si bloccano. Perché? Quale interruttore entra in funzione? È uno dei misteri più affascinanti del sonno, e speriamo di potervi rispondere presto».
L´altra domanda che affrontate è quale sia la sorgente dei sogni.
«Esistono due idee generali. La prima è che dalla parte profonda del cervello partano degli stimoli sensoriali piuttosto disordinati verso la corteccia, e che questa faccia il possibile per dare un´interpretazione a questi segnali. La seconda ipotesi, per la quale io propendo e che nasce dalle teorie di Freud, prevede che sia la corteccia a "suggerire" un tema che le sta molto a cuore. La paura, per esempio. E da lì un regista piuttosto disorganizzato cerchi di mettere insieme un film con gli elementi più disparati presi dalle aree profonde del cervello».

lunedì 4 ottobre 2010

l’Unità 4.10.10
Premier in difficoltà. Per il segretario Pd il comizio è un’aggressione ai «capisaldi costituzionali»
«Non facciamoci trascinare» in un referendum sulla persona, «dimostriamo che ha fallito»
Bersani: «Indietro di 16 anni Ora attenti ai colpi di coda»
Il segretario del Pd da Cortona cerca di smarcarsi da Berlusconi e che alza i toni della polemica in modo artificioso. «Sono sedici anni che dice le stesse cose. Dobbiamo dimostrare che ha fallito».
di Simone Collini


«E fortuna che gliel’ho anche chiesto in Parlamento, l’altro giorno: ma quanto volete governare prima di ammettere che siete voi che non ne siete capaci, che non è colpa di qualcun altro se non ci riuscite, ottant’anni?» Bersani vorrebbe liquidare con una battuta il «comizio vecchio di 16 anni» di Berlusconi. Il leader del Pd è da poco ripartito da Cortona, dov’è andato a chiudere la scuola di politica del suo partito, quando gli raccontano quel che sta dicendo il premier a Milano. I magistrati, i sindaci di sinistra, i soliti comunisti, la Corte costituzionale e pure l’ex capo di Stato Scalfaro. «Cos’è, ha copiato l’elenco che ho fatto io mercoledì alla Camera?», ironizza Bersani con i suoi. Ma per il segretario del Pd c’è poco da scherzare perché ora che il premier è così in difficoltà c’è da temere l’arrivo di pericolosi «colpi di coda». Che potranno essere neutralizzati soltanto se si mostrerà ai cittadini che la destra «ha fallito» e che c’è dall’altra parte «un’alternativa credibile». Viceversa, è il ragionamento di Bersani, se le opposizioni cadranno nella trappola di farsi trascinare nello scontro frontale, a rischiare sarà «la democrazia rappresentativa già oggi in crisi» e la politica nel suo complesso: «Già ora c’è disaffezione, rabbia impotente, distacco da parte dei cittadini. Berlusconi potrebbe lasciarci nel pieno discredito della politica».
Per questo Bersani fa arrivare alle agenzie di stampa questa nota: «È chiaro che il presidente del Consiglio non si sta predisponendo a governare ma a organizzare un nuovo scontro ideologico. La sua risposta ai problemi del Paese è un comizio datato 1994 con l’aggiunta di sedici anni di assoluta inconcludenza e di aggressione ai capisaldi costituzionali». Poche parole, perché una risposta diretta va data, ma senza farsi trascinare nello scontro personale (Bersani non replica a Berlusconi che dice che il Pd non ha un leader) e facendo attenzione a non alimentare una discussione riducibile a un referendum pro o contro Berlusconi, che è esattamente quello che il premier cerca. «Noi dobbiamo invece parlare delle nostre proposte per il paese, dobbiamo rompere il muro del suono che divide politica e società e dire quello che faremmo per risolvere i problemi delle persone».
BARZELLETTE E CRICCHE
Non a caso chiede ai quattrocento ragazzi che hanno seguito queste giornate di formazione di impegnarsi nella campagna di mobilitazione del mese prossimo. «La politica italiana è di fronte a un passaggio fondamentale», dice facendo capire che il «porta a porta» di novembre potrebbe essere il primo passo di una vera e propria campagna elettorale. Il governo infatti «va avanti traccheggiando», e se il ministro leghista Maroni dice che nelle prossime tre settimane si capirà se si andrà alle urne, Bersani dice che «non c’è bisogno di così tanto tempo per capire la situazione, bastano tre minuti»: «Si rimettano al Capo dello Stato«. Anche perché, dice il leader del Pd, «di fronte a tutti i problemi che ha il paese non se ne può più di barzellette, servono un po’ di regole, di onestà e di legalità, e se il sistema è stato deformato da elementi di corruttela, se la legislazione speciale dietro nomi nobili come grandi opere o terremoto ha generato cricche, è perché quelle leggi lì le hanno fatte proprio le cricche».
PAPI E RADICALI
Sono anche fenomeni come questi che per Bersani generano disaffezione nei confronti della politica. E sarebbe controproducente tanto affidarsi a cosiddetti «papi stranieri» quanto lasciarsi trascinare sulla strada della radicalità. Ragionamenti che fa il giorno dopo il NoBDay e le polemiche per le assenze dei vertici Pd, parlando di un Di Pietro che dovrebbe decidere se sfidare Grillo e continuare ad alzare i toni o contribuire a costruire una vera alternativa, e di un Vendola che può scegliere se fare la guerra ai riformisti o lavorare per portare pezzi della sinistra alla sfida di governo. E ragionamenti che fa nel giorno in cui si parla di un possibile impegno di Montezemolo in politica e delle critiche di Marchionne al governo. «L’impegno in politica è sempre una buona cosa in un momento in cui bisogna darsi tutti da fare», dice del primo. E del secondo: «Marchionne ha detto che aspettare la crescita senza fare niente è un atto di fede. Se l’avesse fatto due anni fa ci avrebbe dato una mano».

l’Unità 4.10.10
Il secondo No B. day di sabato, un anno dopo la prima manifestazione, è stato un successo
In piazza anche Ignazio Marino: un errore non esserci. Bersani: sbagliato metterci il cappello
Quell’urlo del popolo viola per far svegliare l’Italia
Decine di migliaia in piazza San Giovanni per il secondo «No B Day». «Siamo 500mila», hanno detto gli organizzatori. Marino: «Un errore l’assenza Pd». Bersani: «Indichiamo una strada positiva alle energie della piazza».
di Felice Diotallevi


Decine di migliaia per la seconda volta in piazza per il «No B Day». Ancora San Giovanni, a Roma, meno di un anno dopo la manifestazione del dicembre 2009 che mobilitò una folla fino ad allora ignota alla scena politica: giovani soprattutto, Popolo di Internet, senza partiti, affamati di legalità. Quest’anno all’appuntamento hanno risposto meno persone rispetto al 2009, colpa anche delle divisioni tra i vertici nazionali del movimento e i gruppi locali che avevano deciso di dare forfait in polemica «per la scarsa democrazia interna». Comunque una manifestazione imponente: 500mila per gli organizzatori, solo 10mila per la questura.
SVEGLIATI ITALIA
«Svegliati Italia», lo slogan principale. «Licenziamo Berlusconi», la parola d’ordine del corteo cui hanno aderito vari partiti, dall’Idv a Sinistra e libertà, Verdi, Federazione della Sinistra. E proprio il numero eccessivo di bandiere Idv, migliaia, ha creato qualche imbarazzo agli organizzatori, tanto che dal palco più volte è stato chiesto di abbassarle, anche con la “motivazione” che rendevano più complicate le dirette tv. Di Pietro, in piazza nel giorno del suo 60esimo compleanno con la famiglia, ha fatto la parte del leone, attaccando l’assenza del Pd e tallonato da Nichi Vendola nella gara di autografi e strette di mano. In piazza anche Ignazio Marino, unico esponente Pd, sciarpa viola al collo: «È un errore che il Pd non sia qui». Tanti cori e
striscioni contro Berlusconi, c’era pure una riproduzione del famoso “lettone di Putin”. E un cartello anche contro i democratici, con un Bersani dormiente e la scritta «Non facciamo rumore altrimenti il Pd si sveglia». Il leader Pd, dal canto suo, ieri ha commentato positivamente la manifestazione: «È una delle tante voci che si sta alzando nel Paese contro questa situazione. In piazza c’erano energie cui bisogna dare una strada positiva, perché c’è tanta rabbia, tanta disillusione e tanto distacco». Da Bersani una stoccata a Idv e partiti si sinistra: «È una manifestazione che parte dalla società civile, meglio che i partiti non mettano il cappello, che non si tirino la giacca l’un l’altro». «Qui c’è l’Italia migliore, può vincere», ha detto Vendola. «Quel che oggi l’opposizione fa non è sufficiente, non basta stare in Parlamento, bisogna riagganciare il popolo».
PIENONE DI STUDENTI
Tantissimi gli studenti delle superiori, attenti quando hanno parlato dal palco il prof. Stefano Rodotà e Salvatore Borsellino. Il fratello del giudice ucciso dalla mafia, già protagonista del primo «No B Day», ha lanciato una dura invettiva contro il premier al grido di «Resistenza» e alzando l’agenda rossa, imitato da centinaia di manifestanti. «La società italiana si sta decomponendo, c’è stata una pianificazione legislativa del degrado, questo è il momento di stare uniti», ha detto Rodotà. A ruba tra i ragazzi le magliette con la scritta «Partigiani del terzo millennio», ovazione per il rappresentante dell’Anpi che ha gridato dal palco: «Che ci frega della casa di Montecarlo, a noi interessa chi la casa non ce l’ha...».

Corriere della Sera 4.10.10
Allearsi con Fli se si vota a marzo: ora ci pensa anche Bersani
di Maria Teresa Meli


ROMA — Che D’Alema e Fini si parlino non è cosa nuova, bensì una consuetudine che dura da anni. Ma che Pier Luigi Bersani e il presidente della Camera abbiano aperto un canale di dialogo è una novità di questi ultimi tempi. Del resto, come ama ripetere il segretario, «il Pd non può assistere inerme a questa crisi del sistema politico». Il che significa muoversi sul fronte delle alleanze possibili e futuribili esplorando tutte le strade. È vero che D’Alema, in pubblico, continua a dire che «è stupido pensare che Fini possa essere un’opportunità per la sinistra». In realtà, però, i dirigenti del Partito democratico non escludono che, soprattutto in caso di elezioni anticipate a marzo, si possa creare un’alleanza con il cosiddetto terzo Polo (Casini, Fini, Rutelli). Quando lo aveva proposto Rosy Bindi, le reazioni negative nel Pd erano state moltissime. Ora che lo ha fatto Dario Franceschini gli unici a sparare a zero sono stati i veltroniani. Anche se, a onor del vero, Bersani appare ancora il più prudente di tutti i big di largo del Nazareno. Ma le pressioni, interne ed esterne, sono forti e molteplici. Certo, al Pd non dispiacerebbe imbarcare anche Di Pietro, nonostante il leader dell’Idv appaia scettico e Casini abbia già detto che il Partito democratico deve scegliere tra lui e l’ex magistrato. Fuori della partita, invece, Nichi Vendola che critica anche il tentativo di cambiare la legge elettorale con i finiani: «Un’eresia», dice il governatore della Puglia, il quale ricorda al Pd che «Fli solo pochi giorni fa ha votato la fiducia a Berlusconi». Totalmente opposto il ragionamento di Enrico Letta che vuole aprire «il confronto» sulla legge elettorale con i finiani. Beppe Fioroni è uno dei (pochi) dirigenti del Partito democratico che non è d’accordo con l’ipotesi di Santa Alleanza (che invece non sembra dispiacere ai falchi di Fli): «In questo modo perderemmo tantissimi voti a sinistra, senza contare il fatto che un’alleanza con un post-fascista come Fini sarebbe per noi una cosa innaturale. Ma temo che si stia cercando di andare proprio in quella direzione». Che si tratti di un’operazione ad altissimo rischio è chiaro a tutti i leader del partito. Tant’è vero che sono stati commissionati diversi sondaggi per capire come l’elettorato accoglierebbe un’alleanza del genere. E per cercare di comprendere quale potrebbe essere il leader in grado di guidare una coalizione di questo tipo. In questo senso è stato testato anche Luca Cordero di Montezemolo. È chiaro che i giochi sono solo agli inizi e anche per questa ragione Bersani vorrebbe che si parlasse esclusivamente di «contenuti» e delle «proposte del Pd», lasciando lo spinoso tema delle alleanze sullo sfondo, onde evitare polemiche anzitempo. Ma sotto traccia si lavora su questo fronte. Con una, inevitabile, subordinata: nel caso in cui Fini decidesse di andare alle elezioni per conto suo, allora si tenterebbe l’alleanza con il solo Casini, coinvolgendo a questo punto anche Vendola (il quale, per la verità, non ha mostrato particolare interesse nemmeno per questa proposta). Offrendo la leadership al leader dell’Udc? Chissà. Casini, che sembra apprezzare le ultime mosse del Pd («hanno fatto passi avanti»), pubblicamente si schermisce, ma tra i suoi c’è chi giura che questa ipotesi sia tutt’altro che campata in aria.

Corriere della Sera 4.10.10
«Montezemolo sarebbe il benvenuto». Aperture dal segretario pd e da Letta


ROMA — «L’impegno in politica è sempre una buona cosa in un momento in cui bisogna darsi tutti da fare. Poi, non so cosa Montezemolo abbia in testa...». Pier Luigi Bersani, a Cortona per la scuola di politica del Pd, non chiude all’ipotesi che il presidente della Ferrari decida di scendere in campo. E ancor più accogliente si mostra Enrico Letta, intervistato da Maria Latella per SkyTg24: «Non credo alla logica del papa straniero, ma ritengo molto utile che Montezemolo si impegni in politica. Sarebbe solo il benvenuto e aiuterebbe la politica italiana». Anche la vicepresidente del Pd, Marina Sereni, guarda positivamente all’attivismo di Luca Cordero di Montezemolo. «Attraverso la sua fondazione ha spesso indicato soluzioni», riconosce la Sereni, favorevole al «confronto» per costruire una alternativa alla destra. «Chi la guiderà, con quali alleanze e con quali forme, lo vedremo al momento giusto». Cesare Damiano, responsabile Welfare del Pd, parla di Montezemolo come di «un nome prestigioso che può sparigliare i giochi» e aggiunge che, con lui in campo, «le sorprese in termini di alleanze, schieramenti e programmi, non mancherebbero». L’11 ottobre a Roma tornerà a riunirsi Italia Futura e il direttore della fondazione, Andrea Romano, smentisce retroscena: «Non c’è alcun vertice che prelude e un impegno politico...».

Repubblica 4.10.10
Alla sinistra della delusione
di Ilvo Diamanti


A sinistra del centrosinistra i consensi crescono. Ormai si aggirano intorno all´11%. Più che di una novità, si tratta di un ritorno. Alle elezioni politiche del 2006, infatti, le formazioni a sinistra della sinistra (da qui: Sinistra) avevano, infatti, superato il 10%. In termini assoluti: circa 3 milioni e 900mila voti. Alle consultazioni del 2008, però, quest´area si riduce al 3%. Tutti compresi: Rc, Comunisti Italiani, Verdi, più le nuove formazioni uscite dai Ds dopo la nascita del (e la confluenza nel) Pd.
Il che significa: 7 punti percentuali e 2 milioni e settecentomila voti meno del 2006. Più che un calo: un tracollo. Le cui ragioni sono diverse e, in parte, note.
1. In primo luogo, la strategia del Pd di Veltroni, che – come Berlusconi - interpreta il bipolarismo in senso bipartitico - o quasi. Da un lato il Pdl insieme alla Lega, dall´altro il Pd alleato con l´Idv di Antonio Di Pietro. La legge elettorale, che premia la coalizione vincente, spinge molti elettori della Sinistra – per non "sprecare" il voto – a scegliere il Pd e (in maggior numero) l´Idv. Ma, soprattutto, ad astenersi.
2. La Sinistra, inoltre, paga la posizione ambigua assunta durante il governo Prodi. Sempre in bilico tra maggioranza e defezione.
Rispetto al 2006, il Pd cresce di 2 punti e, in termini assoluti, di neppure 200 mila voti. Mentre l´Idv supera il 4% e aumenta di 700 mila voti. In sintesi: dal bacino elettorale di centrosinistra scompaiono circa 2 milioni di elettori di Sinistra.
Oggi, due anni dopo, la Sinistra sembra ritornata oltre il 10%. Rifondazione e i Comunisti Italiani, in realtà, non vanno oltre il 2%. Ma Sinistra e Libertà (Sel), guidata da Nichi Vendola, raggiunge il 5%. E il Movimento 5 Stelle, ispirato da Beppe Grillo, supera il 4%. Si tratta di tendenze rilevate dai principali istituti demoscopici. Parallelamente, i maggiori partiti di centrosinistra appaiono in difficoltà. Il Pd sembra sceso sotto la soglia critica del 26%. Anche l´Idv, però, ha smesso di crescere e si è attestata intorno al 6-7%.
Il ritorno della Sinistra, trainato da SeL e dal Movimento 5 Stelle, sembra favorito, soprattutto, da due motivi.
a. Hanno, entrambi, una (sola) leadership: forte e personalizzata, anche se espressa da figure molto diverse. Nichi Vendola ha una lunga storia politica e di partito. Viene dalla Figc, ha militato nel Pci e in Rc. È presidente di Regione. Mentre Beppe Grillo è un outsider della politica. Uomo di spettacolo, anch´egli una lunga esperienza alle spalle. Entrambi figure di "rottura". Vendola, comunista e omosessuale, ha fatto della sua diversità un elemento "normale", perché non esibito. Ma per questo più provocatorio, politicamente. Ha ulteriormente legittimato la sua "diversità" sfidando il gruppo dirigente del Pd che non lo voleva candidato alla guida della Puglia. Grillo, da tempo, agisce "in proprio". Al tempo stesso attore e predicatore, riempie le piazze e i teatri, mettendo in scena la denuncia all´establishment politico, economico e finanziario. È un grande comunicatore. Come Nichi Vendola, in grado di parlare al "popolo". Non solo di sinistra.
b. Entrambi dispongono di un´efficiente comunicazione post-politica (per citare Berselli). Condotta attraverso Internet, accompagnata da mobilitazioni tematiche. Grillo: riferimento di una rete di blog e MeetUp tra le più frequentate al mondo. Promuove manifestazioni affollate e di grande visibilità. Da ultimo, la Woodstock 5 Stelle che si è svolta a Cesena una settimana fa. Vendola: a sua volta, ispiratore di una lunghissima e frequentatissima catena di blog e di pagine su Facebook. La sua Fabbrica (echeggia quella di Prodi) è diffusa sul territorio nazionale.
c. Entrambi interpretano la personalizzazione mediatica della politica, imposta da Berlusconi. In modo, ovviamente, antagonista. Non indulgono alle mediazioni politiche e linguistiche. Non ne hanno bisogno (per ora).
d. Entrambi i partiti dispongono di una base di militanti e di elettori molto diversa da quella del Pd e di Idv. Più giovane e istruita, maggiormente addensata nei centri urbani. Quanto a Sel: spostata a Sud.
Peraltro, le differenze tra i due soggetti sono significative. Nichi Vendola considera il centrosinistra la sua "casa". Il Pd l´interlocutore naturale. E gli elettori del Pd, peraltro, lo guardano, a loro volta, come un possibile leader della coalizione. Mentre il Movimento 5 Stelle ha, come riferimenti, i comitati del No (Tav, Dal Molin, Global, ecc…). Oltre a settori sociali apertamente anti-politici (ammesso che il termine abbia un significato). Non a caso, quasi un terzo dei suoi simpatizzanti si pone "fuori" dallo spazio Destra/Sinistra. Non a caso, peraltro, alcuni "militanti" di 5 Stelle si sono resi protagonisti di contestazioni clamorose durante la Festa nazionale del Pd, a Torino.
Questo scenario pone, peraltro, significativi problemi: ai principali partiti di Centrosinistra ma anche a quelli della Sinistra.
1. Sel e 5 Stelle appaiono pericolosi concorrenti per l´Idv. A sua volta, un partito personale – o, almeno, molto personalizzato. Che ha fatto dell´antagonismo a Berlusconi il distintivo.
2. Al Pd, invece, l´esempio della Sinistra rammenta ciò che gli manca, in questa fase difficile. Anzitutto, una – "una" - leadership personale forte e condivisa. Poi: temi chiari – "chiari" - intorno a cui comunicare la proposta politica. (Per comunicare in modo efficace, occorre sapere "cosa" comunicare.) Ancora: un´organizzazione aperta e flessibile. In grado di mobilitare. Perché "personalizzazione" non significa scomparsa delle persone e della società.
3. Quanto alla Sinistra, il problema principale riguarda la "tenuta". 5 Stelle viaggia sulla rete. Sel è strutturata per esperienze diffuse, ma ancora poco radicate. E presenti soprattutto nel Sud. Per garantirsi stabilità, però, occorre stare sul territorio. Le mobilitazioni fondate sul No (-B) non bastano. Talora (come quella Viola, di sabato) neppure mobilitano troppo.
4. C´è, infine, la questione delle alleanze. Riguarda tutti: Sinistra e Centrosinistra. Oggi e soprattutto domani. Quando (presto, immaginiamo) si andrà a nuove elezioni. Con quali alleanze? Perché se il Centrodestra è diviso, il resto dello spazio politico rischia di esserlo molto di più. Con questa legge elettorale: premessa di sconfitta sicura. Gli spazi – e i seggi – rischiano di ridursi per tutti. Anzitutto per il Pd. Ma il Centrosinistra e la Sinistra sono disponibili a cercare e a costruire alleanze, tra loro e, se necessario, con i partiti di Centro e la "Cosa" di Fini? La questione, probabilmente, non interessa Grillo e 5 Stelle. Ma avrebbe conseguenze anche per loro. Fare – comunque, apparire - un´opposizione sterile, come il Pd in questa fase, è frustrante. Ma la tentazione – diffusa nella Sinistra - di fare opposizione "a prescindere", non per vincere e governare. Alla lunga – e forse anche alla breve – logora. E rischia di fare apparire la Sinistra - ai suoi stessi elettori - "inutile".

Repubblica 4.10.10
La Costituzione fatta a pezzi
di Nadia Urbinati


Berlusconi ha detto ieri che i magistrati sono criminali e che vanno come tali trattati. Lo aveva già anticipato parlando qualche giorno fa nell´improvvisato happening di fronte alla sua residenza romana, condendo il suo gravissimo ed ennesimo colpo alla Costituzione repubblicana con barzellette e linguaggio scurrile, quasi a voler allontanare l´attenzione dell´opinione pubblica da ciò che aveva pronunciato.
Il suo attacco alla magistratura e l´identificazione della giustizia con la persecuzione non sono né nuovi né inediti: sono la carta d´identità di Berlusconi. Le circostanze dettano il linguaggio, non il contenuto che resta immobile come la terra nel sistema tolemaico. Quando le acque nella sua maggioranza si fanno burrascose tiene metodi di trattativa e moderati. Una volta rinsaldata l´alleanza, magari con l´autorevolezza del voto parlamentare come in questo caso, metodi, forme e linguaggio riprendono la loro solita andatura e ritornano a battere sul tema più vicino agli interessi del premier: l´attacco all´indipendenza della magistratura giustificato nel nome di una sovranità totalizzante del popolo, o meglio ancora della sua parte più numerosa (il mito del 51% come clava punitiva contro i suoi supposti nemici).
La sovranità della parte più preponderante non è sovranità democratica, ma dominio, soprattutto quando coltiva la pericolosissima ambizione di dichiararsi identica alla sovranità democratica della nazione italiana. A questo linguaggio demagogico, il presidente del Consiglio si affida quando si sente rinsaldato nei consensi; quando può tornare a riprendere la sua lotta contro la giustizia per affermare la sua giustizia. L´obiettivo lo conosciamo: mettere la magistratura alle dipendenze del potere politico, toglierle quella indipendenza che, vale la pena ricordarlo, non gli è stata data da altri che dal popolo stesso, nella sua massima espressione di sovranità, quella della scrittura della Costituzione. La nazione italiana ha deciso di fare della magistratura un potere indipendente dal parlamento e dall´esecutivo, per renderla dipendente sola dalla legge. Il presidente del Consiglio la vorrebbe invece dipendente dall´opinione politica che fa la legge e dal governo. La differenza è enorme; è quella che passa tra un sistema maggioritario (un´espressione barbara ma efficace) e un sistema democratico costituzionale. La minaccia rivolta ad alcuni magistrati di aprire una commissione parlamentare d´inchiesta è la vera novità di questi giorni, una proposta che è il coronamento dell´ormai incontenibile tracimazione di questo governo dai limiti costituzionali.
Uno sprovveduto o uno che non abbia seguito la traiettoria ideologica di Berlusconi in questi tre lustri potrebbe restare sorpreso di fronte a un liberale che si fa capo-popolo e propone la centralità della volontà politica sulla giustizia. Non è forse vero che la storia di Forza Italia era cominciata a colpi di propaganda liberal-liberista? Che cosa ha a che fare Friedrich von Hayek (uno degli autori più citati da chi si è identificato con Forza Italia) con il maggioritarismo del presidente del Consiglio?
Nella tradizione liberale classica, il governo e l´organizzazione normativa della vita pubblica sono giustificabili in quanto funzioni al servizio di un fine superiore e precedente: la difesa della proprietà, della vita, della libertà degli individui. I diritti individuali sono il fine non contrattabile e soprattutto un bene che legittima il mezzo, ovvero il governo. Qual è il più sicuro presidio di questa libertà se non un sistema di giustizia autonomo da quella volontà di popolo che Berlusconi vorrebbe egemonica?
Per i liberal-liberisti, quello repressivo è il compito centrale dello Stato, e in realtà la sua ragion d´essere. Una ragione che non va affiancata da compiti di altra natura se vuole essere efficace, per esempio da compiti di giustizia sociale. Affinché svolga questo compito al meglio, il solo legittimo, lo stato deve essere edificato secondo regole ben precise: limitato nelle sue funzioni; non centrato sul governo dell´assemblea; monitorato da chi obbedisce alla legge, non da chi fa la legge; e infine soggetto al giudizio elettorale dei cittadini. Il governo liberale è un governo costituzionale limitato fondato sul consenso nel quale il potere giudiziario svolge un ruolo centrale e che, proprio per questo, deve restare rigorosamente indipendente da quello politico.
Il sistema della giustizia penale e civile è il potere più importante nell´idea liberale, la quale infatti vede nella politica solo un mezzo per coordinare in maniera indiretta (con il timore della coercizione) le azioni degli individui e per riparare agli errori e ai delitti che essi commettono o in buona fede o per malevola violazione della legge naturale e civile. Questo è lo Stato ‘minimo´ dei liberali; uno Stato al servizio di una società che, pensava Hayek, è libera nella misura in cui capace di autoregolarsi con minimo dispendio di potere diretto del governo o del parlamento, ma il cui potere giudiziario è ben funzionante, non usato a discrezione dei potenti e che opera secondo procedure impersonali e regole certe. Un potere, quello della giustizia che é assolutamente essenziale che resti "negativo", cioè che non dipenda da chi fa e applica la legge. La nostra libertà è sicura – e i costituenti accettarono questa idea liberale – solo se chi la applica nei tribunali e nelle corti non dipende dall´opinione della maggioranza in carica, quale che essa sia. Berlusconi sarebbe inviso a tutti i liberali. Ora, sarebbe interessante sapere come i "liberali" che abitano la casa delle libertà giustificano questo scivolamento nel dispotismo della maggioranza, il più temuto degli orrori per i liberali di tutti i tempi e paesi.

Repubblica 4.10.10
E ora lo sdoganamento del fascismo estremo
di Mario Pirani


L´unificazione nell´ambito della Destra di Storace degli sparsi gruppi nazi- fascistoidi, ha cominciato a compiere i suoi primi passi. L´annuncio di Berlusconi di volerli accogliere con entusiasmo tra gli adepti della sua maggioranza e la promessa di riservare loro qualche sgabello di governo e sottogoverno ha galvanizzato le varie accozzaglie da curva Sud, che dovrebbero, secondo i sondaggi del premier, tutte assieme portargli un 3% di voti. Con questa prospettiva il 28 scorso nella Sala dei Chiostri di Santa Corona di Vicenza, affollata di militanti entusiasti, si è svolta una specie di cerimonia di fidanzamento tra Storace e gli skinhead di Fiamma Futura guidati da Piero Puschiavo, nome finora noto soprattutto alla Digos per le varie denunce ed inchieste subite ma destinato, se la deriva assunta dai nuovi alleati del Cavaliere riceverà altri avalli, a farsi notare. A Vicenza ha dato la linea: «Le idee vanno sospinte dai numeri e io voglio portare consenso alla Destra in nome dell´unità di quella frammentata destra sociale e nazionalista finora mai raggiunta». E Storace ha spiegato: «Vogliamo un governo di destra anziché di centro». Un obbiettivo in effetti non troppo lontano, dopo l´uscita della Udc e dei finiani dalla Cdl. Sbaglierebbe chi prendesse questi segni per un fenomeno marginale. Lo sdoganamento intrapreso da Berlusconi nei loro confronti si collega direttamente con l´ondata razzista che sta inondando la mappa politica dell´Europa, dalla Svezia, dove entra per la prima volta in Parlamento col 5,7% dei voti, all´Olanda, la Danimarca, il Belgio, la Norvegia e l´Ungheria. Se in Belgio i conservatori di stampo democratico hanno seguito la linea dei partiti tedeschi che hanno eretto un cordone sanitario nei confronti dei movimenti paranazisti, e così assicurano di voler fare gli svedesi, per contro in Danimarca e si teme in Olanda i governi conservatori minoritari sembrano disposti ad accettare l´appoggio esterno della destra estrema. Per capire l´involuzione avvenuta basta ricordare che solo nel 2000 l´Unione Europea sancì misure di boicottaggio politico contro il governo cristiano democratico austriaco perché aveva accettato il sostegno del partito estremista di Jorg Heider.
Se il terreno di coltura di questo ritorno nazifascista in Europa è la crisi economica che secerne gli antichi veleni dell´xenofobia e del razzismo e se questi di fronte alla pressione migratoria si coagulano soprattutto nell´anti islamismo, ciò non li rende più accettabili né meno pericolosi. Quanto al coefficiente antisemita esso, soprattutto in Italia, è ben presente, quanto diffuso. L´ultima conferma ce la fornisce la sconcia barzelletta antiebraica sciorinata dal Cavaliere sul marciapiede di palazzo Grazioli, la cui gravità risiede non solo nella confessa volgarità dell´inesausto narratore ma nel fatto che le sue frasi contribuiscono autorevolmente a liberare da ogni freno l´antisemitismo tenuto sottotraccia da tanti suoi supporter, Basta, del resto, percorrere i siti di Storace e dei suoi nuovi sodali di cui abbiamo una antologia ricca quanto repellente la settimana scorsa. Oggi ci è stato segnalato un ultimo reperto, il sito «Destra per Milano», diretto da tal Roberto Longhi Lavarini, tra i fondatori di «Cuore nero» che si vanta di aver fatto confluire, tramite Romano La Russa, fratello del ministro, le varie sigle dei suoi sodali nel Pdl ambrosiano. In questi giorni ha prodotto un video in onore del «grande camerata Ciarrapico», irrigidito nel saluto romano cui, dopo l´incidente della kippà «va la solidarietà della Destra per Milano verso una persona coerente e coraggiosa che se ne frega di tutto e di tutti e che ha espresso chiaramente quello che pensano centinaia di migliaia di militanti: Fini è un rinnegato!». Sempre sul sito si trova documentazione della festa per la consegna dell´Ambrogino d´oro in onore di una vecchia militante della Repubblica sociale. Anche qui grande sfoggio di saluti romani. Domani sarà peggio senza una pronta reazione.

Repubblica 4.10.10
Tute blu contro tute blu così ci si divide in fabbrica
Viaggio nel sindacato dopo gli incidenti di Treviglio e Livorno
Tra Fiom, Fim e Uilm la posta in gioco è l´egemonia nelle piccole e grandi aziende
"C´è chi pensa che, in fondo, è meglio rimanere divisi per guadagnare visibilità"
di Paolo Griseri


ROMA - Non si parlano. Alcuni si ignorano addirittura quando si incontrano ai tavoli delle trattative. Improvvisamente torna d´attualità una domanda antica nella storia sindacale italiana: qual è l´avversario? «Dovrebbe essere la controparte», risponde uno dei leader. Ma usa il condizionale. E spiega: «Si è rotto qualcosa che è molto difficile rimettere insieme». Sono gli stessi vertici di Fim, Fiom, Uilm e Fismic a riconoscere che la spaccatura non è confinata alla base. È un virus che ha colpito in alto. «Venduti», gridano i cortei della Fiom a chi ha firmato gli accordi separati voluti dal Lingotto. «Squadristi», risponde la Fim dopo i lanci di uova contro le sue sedi annunciando «la preparazione di un dossier su tutti gli attacchi e le violenze subite negli ultimi mesi».
«Quella che è cambiata è la mentalità di fondo, quell´idea che c´era un tempo quando pensavamo che puoi dividerti su tutto ma esiste una solidarietà tra chi fa sindacato, dedica la vita a difendere i diritti dei lavoratori. Una solidarietà decisiva anche nelle vertenze più difficili, anche quando si arriva ad accordi separati». Il ricordo è di Giorgio Benvenuto, leader carismatico dalla Uil negli ultimi decenni del Novecento. Parla sfogliando i ricordi di trent´anni fa, quando i sindacati erano unitari. Anche sui volantini Fim, Fiom e Uilm erano una sola sigla, l´Flm, e ai cancelli di Mirafiori persero insieme. Oggi che le sigle si dividono, è più facile vincere?
Domanda difficile. Sono certamente cambiati i rapporti di forza tra i sindacati. Secondo Giuseppe Farina, numero uno dei metalmeccanici della Cisl, «le tensioni di queste settimane sono cose che accadono quando la Fiom sente che sta perdendo la sua egemonia nelle fabbriche». Gli incidenti nascono dunque dalla fine di un´era, quella della Cgil che detta legge nelle fabbriche italiane? È una spiegazione che naturalmente non convince la Fiom: c´è una lunga guerra di cifre sul numero degli iscritti delle singole organizzazioni ed è un fatto che, nonostante tutto, la Fiom è di gran lunga il sindacato più rappresentativo. Ma spesso non ha più, da solo, il 51 per cento dei consensi nelle fabbriche. E dunque tutti gli altri, magari mettendo insieme le storie non sempre compatibili tra loro di Fim, Uilm, Fismic e Ugl, possono mandare in minoranza gli uomini di Landini. La battuta di Farina chiarisce comunque qual è, per ciascuno, la vera posta in gioco: quella dell´egemonia nelle grandi e piccole aziende di una categoria che continua anche oggi a fare la storia del sindacato in Italia. La tensione nasce dalla situazione di stallo: la Fiom non è più maggioritaria da sola ma nessuno può pensare di tenere fuori a lungo l´azionista di maggioranza relativa del sindacalismo metalmeccanico italiano. Può anzi accadere che isolare i metalmeccanici della Cgil sia controproducente proprio per chi, nei sindacati e tra gli stessi imprenditori, vorrebbe far diminuire il loro peso in fabbrica.
Gli scontri tra organizzazioni sindacali, soprattutto nei metalmeccanici, non sono una novità del terzo millennio. A Torino, nel luglio del 1962, decine di migliaia di operai uscirono dagli stabilimenti Fiat e marciarono contro la sede della Uilm, nella centrale piazza Statuto. Nella notte precedente, quella tra il 6 e il 7 luglio, Uil e Sida, il sindacato considerato filopadronale («giallo», si diceva allora) avevano firmato un accordo separato con la Fiat. Gli scontri intorno alla sede della Uil furono violentissimi, durarono tre giorni con il fermo di oltre 1.200 manifestanti e 90 arresti. «Ma allora - ricordano i vecchi sindacalisti torinesi - non ci fu la copertura di Cgil e Cisl». I cortei partirono spontaneamente dagli stabilimenti. «Questa volta invece - si indigna Farina - l´assalto alla sede Cisl di Treviglio era guidato dal locale segretario della Fiom».
Quella che si sta smarrendo è la grammatica delle relazioni tra organizzazioni sindacali: «Non era mai accaduto - osservava quest´estate il segretario della Fiom di Melfi - che di fronte al licenziamento di tre operai non scattasse la solidarietà delle altre organizzazioni e che anzi Fim, Uilm e Fismic rifiutassero di concedere le assemblee per discuterne». Insomma, anche nelle famiglie più divise è opportuno continuare a seguire regole minime di convivenza. Basta questo a spiegare le tensioni? Giorgio Airaudo, che si occupa di Fiat per la Fiom nazionale, premette che «nessuna divergenza sindacale può giustificare l´assalto alle sedi e la violenza. Se invece vogliamo provare a capire, penso che una ricetta per far scendere la tensione potrebbe essere quella di tenere le assemblee in fabbrica e i referendum anche sugli accordi separati. I sindacalisti di un tempo avevano il coraggio di andare in fabbrica anche a prendersi i fischi. E´ capitato a Trentin, a D´Antoni, a Pezzotta, a Cofferati, a Epifani. Quei fischi servivano non solo far conoscere il proprio punto di vista ma anche a far scendere la rabbia. Temo che non riusciremo a uscire da questa situazione se il sindacato non tornerà a presentarsi unitariamente di fronte ai lavoratori, anche con posizioni diverse e fino a quando non avremo un meccanismo di certificazione della rappresentanza: sapere quale sindacato rappresenta quanti lavoratori».
Altre epoche non furono meno facili. Nel ‘92, quando Cgil, Cisl e Uil approvarono i sacrifici imposti dalla manovra di Amato, i comizi si facevano in piazza con scudi di plexiglas per difendere i segretari generali dal lancio di bulloni e ortaggi. Il 14 ottobre, a Milano, Sergio D´Antoni venne colpito al viso in piazza Duomo. Le cronache dell´epoca riferiscono che ad animare le contestazioni erano gli autonomi, come era successo nel ‘77 con Lama all´università di Roma. E come è successo di recente alla feste del Pd con il lancio di un fumogeno contro il leader della Cisl, Raffaele Bonanni da parte dei centri sociali torinesi. «Che ci sia nell´area antagonista una strategia per colpire una parte del sindacato, è un fatto certo di cui sono testimone oculare», racconta Paolo Pirani, segretario confederale della Uil. Che ricorda «un´assemblea sindacale a Vicenza dove centri sociali e sindacati di base lanciarono contro il palco gli stessi volantini gettati a Torino contro Bonanni». Anche per Pirani «colpisce che a certe manifestazioni contro sedi di altri sindacati partecipino dirigenti della Fiom». Per il sindacalista della Uil «la tensione nasce dalla fine dell´egemonia dei metalmeccanici della Cgil», ma anche Pirani riconosce che «sono necessarie nuove regole per certificare la rappresentanza».
Basterà una legge che regoli la contrattazione, che stabilisca chi e a quali condizioni può firmare i contratti, per ricucire il rapporti tra le organizzazioni? Roberto Di Maulo, segretario generale del Fismic, è piuttosto scettico. Conosce bene come funziona la categoria del tradimento nel sindacalismo italiano: anni fa ha lasciato la segreteria della Uilm per passare al sindacato concorrente. «Non vedo come si possano rimettere insieme i cocci. La divisione non riguarda solo i rapporti con la Fiom ma anche con Fim e Uilm. C´è chi non mi saluta dopo aver lavorato con me per decenni. E c´è chi pensa che, in fondo, è meglio rimanere divisi per guadagnare un briciolo di visibilità. Questo criterio non vale solo per la Fiom ma anche per gli altri due sindacati. Francamente è una gara che mi appassiona poco».

Repubblica 4.10.10
Il leader della Cgil: esiste un confine netto tra le critiche e le aggressioni
Epifani: "No alle violenze ma un milione di lavoratori rischia di restare senza reddito"
di Roberto Mania


Allarme guadagni per chi è in mobilità e non può andare in pensione, per quelli cui scade la cassa in deroga e per gli statali precari
Fino a un anno fa è stato uomo del dialogo poi ha fatto alcune forzature. Il progetto Fabbrica Italia è nell´incertezza più assoluta
Non avrei mai immaginato di lasciare la Cgil così distante da Cisl e Uil, però è colpa loro io sono sempre stato per l´unità

ROMA - «Un milione di persone - dice Guglielmo Epifani, segretario generale della Cgil - sta rischiando di non avere più un reddito: non il lavoro, non la pensione, non la cassa integrazione o la mobilità». Un dramma sociale che si consuma lontano dai riflettori, «mentre il governo si occupa d´altro e galleggia». È l´Italia per la quale la crisi non è mai finita, mentre fanno capolino nel mondo del lavoro nuove forme di violenza.
Epifani, iniziamo dalle violenze. Due sedi Cisl e una della Confindustria sono state colpite da uova e petardi lanciati anche da iscritti e dirigenti della Fiom. Saranno espulsi dalla Cgil?
«Rispetto a questi episodi la nostra condanna è stata assolutamente inequivoca. Sono gesti che non appartengono alla cultura democratica della Cgil. Naturalmente, mentre lo dico, mi rendo conto che le scelte degli altri, cioè della Cisl e della Uil, sono sbagliate. Non si può destrutturare un contratto senza un rapporto democratico con i lavoratori. Queste scelte sono causa non secondaria del malessere operaio, che - sia chiaro - non c´entra nulla con la violenza. Il problema è che c´è una gigantesca questione di deficit di regole sulla rappresentatività e la democrazia sindacali. È un tema che va affrontato con urgenza. Non ci possono essere più rinvii, tentennamenti. Con Cisl e Uil dobbiamo al più presto riparlarne perché altrimenti si corre dritti verso l´anarchia e la balcanizzazione dei rapporti sindacali. Detto questo, ci sono le regole all´interno della Cgil che vanno rispettate. Si aprirà un´istruttoria e si deciderà. Noi siamo più rigidi nei confronti dei dirigenti rispetto ai semplici iscritti. Comunque - giuste o sbagliate che siano le posizioni di Cisl e Uil - non si può pensare di attaccare, intimidire, circondare una sede sindacale. C´è un limite tra la critica e i gesti di violenza».
Ci attende un autunno di violenza?
«Non lo so ma sono mesi che dico di abbassare i toni. E lo dico soprattutto agli esponenti di governo che hanno ideologizzato l´attacco alla Cgil. Tuttavia penso che tutti insieme abbiamo gestito con attenzione il malessere sociale che è derivato dalla recessione. Ora si deve stare molto attenti alle situazioni di crisi aziendali che sembrano senza sbocco. Lì, l´ansia e la disperazione possono portare a un conflitto sociale molto forte. Dico al governo e al Parlamento di occuparsi di questo. Bisogna innanzitutto rifinanziare la cassa integrazione in deroga».
Sacconi ha detto che è d´accordo.
«Non basta essere d´accordo, questo è il momento di passare alle decisioni. Sono problemi urgenti e drammatici. Ci sono almeno 100 mila lavoratori che dalla mobilità non possono andare in pensione perché nel frattempo è aumentata l´età pensionabile. E poi i precari della scuola, del pubblico impiego, delle università. C´è quasi un milione di persone che rischia di perdere qualsiasi forma di protezione al reddito».
Molte delle divisioni nascono dal caso-Fiat. Non crede che Marchionne avrebbe potuto essere proprio un vostro alleato per rilanciare il lavoro industriale?
«Fino a un anno fa Marchionne è stato un uomo del dialogo che ha anche contribuito a temperare le spinte oltranziste presenti nella Federmeccanica. Poi la situazione all´interno della Fiat si è complicata e questo l´ha portato a compiere alcune forzature. Resta il fatto che sul progetto Fabbrica Italia c´è l´incertezza più assoluta: non si sa che cosa si produrrà nei nostri stabilimenti. Il punto è che per costruire un progetto si deve partire dal prodotto e non da come si confeziona il prodotto. Questo, a mio parere, è stato il punto debole della Fiat».
Domani (oggi per chi legge, ndr) comincerà il confronto tra tutte le parti sociali sulla competitività. Qual è l´obiettivo Cgil?
«Pensiamo che ci siano alcune misure che vadano prese con urgenza: riguardano le condizioni del lavoro e la politica industriale. Poi vanno affrontati gli altri capitoli: fisco, mezzogiorno, innovazione e ricerca».
Materie che chiamano in causa il governo. Siete disposti a un negoziato e poi a un accordo con il governo?
«Intanto sarebbe importante che tutte le parti sociali convenissero sulle soluzioni da dare e le proponessero al governo e al Parlamento».
Quindi non esclude un accordo con il governo?
«La Cgil non ha mai escluso niente. Il problema è che fino ad oggi il governo non ha avuto la percezione della gravità della situazione sociale e produttiva del Paese».
Tra un mese lascerà la guida della Cgil. Avrebbe mai pensato di lasciarla così distante dalla Cisl e dalla Uil?
«Mai! Per me che ho avuto come bussola l´unità sindacale è proprio l´ultima cosa che avrei immaginato. Le strade si sono divise ma - sono convinto - non per responsabilità della Cgil».
Nemmeno per una parte?
«Di fronte alle scelte di fondo rispondo di no. Cisl e Uil hanno via via smarrito il profilo della loro autonomia e spesso contraddetto le scelte che unitariamente avevamo fatto, dal fisco alle pensioni, dalla democrazia sindacale alla rappresentanza».

Repubblica 4.10.10
"La Germania rifiuta tutti i Muri anche gli islamici sono tedeschi"
Il discorso di Wulff nel ventennale della riunificazione
Duro monito del presidente federale "Non fatevi contagiare dalla xenofobia"
di Andrea Tarquini


BERLINO - La Germania unita è patria di chiunque ci vive, anche dei musulmani, e io sono anche il loro presidente. Anche l´Islam, oltre alla tradizione cristiana e a quella ebraica, fa parte dell´identità tedesca. No a nuovi Muri, vent´anni dopo. Questo il forte messaggio lanciato ieri dal presidente federale Christian Wulff (cristiano-conservatore come la cancelliera Angela Merkel) nel suo discorso per le celebrazioni solenni del ventennale della riunificazione.
Vent´anni fa ieri, il 3 ottobre 1990, tra speranze e paure, quasi un anno dopo la caduta del Muro di Berlino, la Germania tornò unita: fu una svolta nella storia del mondo in cui viviamo. E le celebrazioni, ieri a Brema, hanno offerto l´occasione al centrodestra al potere di marcare una decisa linea di confine. Contro l´integralismo e contro chi arriva in Germania rifiutando di integrarsi, ma soprattutto contro chi vuole nuovi conflitti tra culture e religioni. Ogni giorno di più, due Weltanschauungen opposte dividono conservatori e moderati europei: da un lato il no all´islam dei radicali alla Wilders e la linea dura anti-Rom di Sarkozy, dall´altro l´apertura al mondo, in stile inglese, della cancelliera Angela Merkel e del suo team.
Ieri ci ha pensato il presidente Wulff a sottolinearlo, con chiarezza insolita. «Io mi appello ai tedeschi, chiedo loro di non farsi contagiare dalla xenofobia», ha detto. «Gli immigrati sono un arricchimento per la nostra società, pregiudizi ed emarginazioni sono inaccettabili… è nel nostro interesse nazionale». Non chiudiamo gli occhi davanti a chi vive qui e non accetta, come invece dovrebbe, il nostro modo di vivere, ha ammonito Wulff, ma al tempo stesso «il futuro appartiene alle nazioni aperte alla molteplicità culturale, alle nuove idee, al confronto tra diversi e stranieri». Quando musulmani che vivono in Germania mi scrivono, ha sottolineato, io dico fiero di essere anche il loro presidente. «Adesso anche l´Islam è parte della Germania… già Goethe scrisse 200 anni fa che Occidente e oriente non sono più divisibili».
Lo scontro politico interno sul rapporto con la forte comunità musulmana (soprattutto turca), scatenato dai successi della nuova destra altrove in Europa e dalle tesi anti-islam del banchiere Thilo Sarrazin, è stato dunque tema centrale del ventennale della riunificazione. Niente parate e niente sciovinismi. Ma un no presidenziale a chi vuole erigere nuovi muri contro gli immigrati.

Repubblica 4.10.10
E il mito creò il numero
Viaggio alle origini della matematica
di Antonio Gnoli

Oggi abbiamo smarrito il senso di sintesi fra pensiero scientifico e umanistico presente nel calcolo
Il disordine sociale cioè il male, è organizzato con cura scientifica, vale a dire che è ordinato
Intervista a Paolo Zellini che nel suo ultimo libro spiega la stretta connessione tra contare e pensare
Un´attività che determina le quotazioni di borsa il volo degli aerei i motori di ricerca le previsioni meteo

Sullo sfondo del nuovo libro di Paolo Zellini – Numero e Logos, Adelphi, pagg. 449, euro 32) – c´è un problema antico, ma non per questo meno attuale, meno, starei per dire, impellente: il rapporto ordine-disordine. È una coppia che conosciamo bene: la vediamo all´opera nella politica, nell´economia, e perfino nei rapporti privati. Non è detto che l´ordine sia un bene assoluto e che il disordine rappresenti il male. L´uno e l´altro si tengono, si condizionano, a volte familiarizzano, altre ancora si escludono. Si attraggono e si respingono. Si affiancano e si alternano. C´era una frase che circolava nel ´68, attribuita al Presidente Mao: "grande è il disordine sotto il cielo, eccellente la situazione". Voleva dire che il disordine non è solo fonte di disavventure, ma anche di sogni, di progetti, di utopie, di follie rivoluzionarie. Dal disordine può nascere il nichilismo che richiede, tuttavia, ordine ed esattezza. Zellini lo dice con molta chiarezza: «Il disordine sociale è anch´esso organizzato con cura». Egli cita I fratelli Karamazov, forse il solo grande romanzo in cui la sovversione prende l´inquietante forma del numero e del logos, della puntualità e del calcolo nell´esecuzione. Verrebbe da aggiungere che molti film di Hitchkock sono costruiti sull´idea che il disordine (il male) richiede una perfezione dell´esecuzione che solo il calcolo può offrire.
Zellini è in origine un matematico, ma le sue straordinarie competenze filosofiche ( e questo libro le esibisce con maestria, spaziando dal mondo antico a quello moderno) ne fanno un personaggio singolare, forse unico nel panorama italiano.
Il suo lavoro va in una direzione diversa dai tanti tentativi che la matematica ha fatto per assoggettare la filosofia. Insomma, niente filosofia della matematica, ma pari dignità a entrambi i saperi. È così?
«La tentazione di dire "niente filosofia della matematica" è forte, almeno nell´accezione comune del termine, nella quale prevale la convinzione erronea di poter fondare la matematica sulla logica. Quest´ultima, sebbene abbia una stretta relazione con la moderna scienza del calcolo, non basta per capire che cosa hanno in comune matematica e filosofia. Viceversa, una parte del pensiero mitico, filosofico e rituale, che di solito ignoriamo, aiuta a capire meglio il significato di importanti costruzioni matematiche».
A questo proposito è interessante che lei dedichi spazio alla figura di Proteo e al fatto che questo dio si colloca tra l´esperienza del mare e quella dei numeri. Ora, il mare è spesso visto come metafora del pericolo e del disordine e il regno dei numeri come lo strumento che ne scongiurerebbe l´ingovernabilità. Fin dall´inizio del suo libro siamo in presenza della coppia ordine-disordine.
«Il mare, nella tradizione greca come pure in quella ebraica, era metafora del disordine, ma anche della sofferenza e della prova. Navigare sui flutti – affermava Porfirio – era un modo per "placare il demone della nascita", allo scopo di raggiungere un approdo finale nella terra promessa. Ma appena fuori dei flutti si incontra il numero. Nell´Odissea Proteo, dio del mare tanto ambiguo quanto veridico, appena fuori dall´acqua passa in rassegna il suo gregge di foche contandole cinque per cinque».
Accennava alla tradizione ebraica.
«Nella tradizione ebraica, per esempio, l´arca che naviga sulle acque del diluvio ha precise forme geometriche».
Sfidando la convinzione che li vedrebbe opposti, lei descrive un accordo segreto tra il mito e il logos. Dove e quando si realizza questa alleanza?
«Mito e logos si incontrano nel quarto libro dell´Odissea. È qui che il logos rivela il senso originario di raccogliere, censire, enumerare. Faccio notare che siamo già alle soglie del problema filosofico di come l´unità si mantiene nel molteplice. E di questo senso originario è permeata la filosofia pitagorica che attraversa tutta la tradizione filosofica occidentale in misura ben maggiore di quello che si è disposti di solito a riconoscere».
Però nella tradizione filosofica è prevalsa una sola versione del logos, quella per intenderci "generalista", come mai?
«Difficile da dire. Tutto sembra aver congiurato: dalla filologia all´idealismo filosofico, dalla filosofia scientifica del ´900 agli orientamenti di pensiero che hanno emarginato la matematica o hanno preteso di intenderla alla stregua di un linguaggio rigoroso, basato su assiomi e deduzioni formali. Ma il logos non mai stato solo un "discorso"».
Non è un paradosso pensare che nel mito ritroviamo il logos che, combinandosi con misure ed enumerazioni, ci conduce dritti al calcolo moderno?
«Non lo è. Solo da poco la scienza ha scoperto che l´atto di enumerare è molto meno elementare di quello che sembra. Già in antiche prassi rituali interviene un pensiero matematico che rimane pressoché invariato nel corso di secoli ed è ancora ben riconoscibile nei procedimenti più avanzati del calcolo scientifico, dal quale dipendono, tra l´altro, le previsioni meterologiche, i prezzi di mercato, il volo degli aerei, l´industria delle automobili e i motori di ricerca».
L´accostamento tra pensiero mitico e pensiero scientifico non la espone all´accusa di irrazionalismo o di sincretismo?
«Molte formule sapienziali, ancora impregnate di pensiero mitico, sono allusioni indirette al numero e alla geometria. Le troviamo in Platone e in Boezio, nei Pitagorici e nei Neoplatonici, nella filosofia del Rinascimento e nel pensiero religioso da Filone di Alessandria in poi. Sono la base di ogni elaborazione filosofica, di ogni incontro tra scienza, filosofia e teologia. Perfino Hegel si avvale di formule verbali che, forse a sua insaputa, si adattano perfettamente agli algoritmi della matematica. Ciò che ci appare irrazionale è spesso impregnato di razionalità. Viceversa, certi modi di accogliere, usare o difendere la verità scientifica celano atteggiamenti irrazionali».
Come immagina il futuro di una società dominata dall´algoritmo e dalla Rete? Glielo chiedo alla luce delle preoccupazioni che già Max Weber aveva manifestato intorno al dominio incontrastato della scienza.
«In effetti, Weber dava un´immagine preoccupante del processo di razionalizzazione che ci domina. E oggi siamo sommersi da allusioni profetiche sui mali della tecnica. L´allarme non si può sottovalutare, ma è spesso fondato su conoscenze superficiali. I numeri e gli algoritmi che sembrano consegnarci – e forse ci consegneranno – a un destino di aridità e di povertà di pensiero, portano in sé elementi di straordinaria ricchezza concettuale. Sono questi elementi che ci permettono di dare una retta interpretazione dell´idea "intuitiva" di macchina. Solo conoscendo a fondo gli algoritmi siamo in grado di capire ed esorcizzare la paura che la macchina ci incute».
Lei sostiene che oggi è più difficile scegliere tra un uso buono e un uso cattivo della scienza. Perché?
«Il logos è una medicina ambigua, capace di liberare l´anima come di traviarla. Il numero e tutte le applicazioni della scienza possono sconfinare nella demonicità pura, nel male senza remissione di un attacco atomico o di un dominio indiscriminato della macchina, come aveva paventato Norbert Wiener, uno dei grandi scienziati del ´900. La lettura dei filosofi e dei matematici antichi aiuta d´altronde a capire quanto sarebbe assurdo attribuire al numero e ai calcoli eseguiti oggi dalle macchine una connotazione di pura malvagità. Io credo che occorra ripensare e recuperare nel calcolo moderno, la sintesi di scienza e umanesimo che vive nel significato smarrito del logos».
È la solitudine dei numeri, per dirla con una battuta, che bisogna vincere. Cercando magari un diverso equilibrio tra ordine e disordine. Non crede?
«La ricerca dell´ordine convive con la salutare minaccia di un disordine, che la matematica si incarica da sempre di riportare ai ranghi del numero, ma con la consapevolezza di poterlo fare solo in modo approssimativo, con un margine di errore e di incertezza. La sfera di pertinenza del logos e la potenza esplicativa del numero vanno ben oltre l´ordine e la precisione assoluta che si attendono di solito, ingenuamente, dalla matematica».

Corriere della Sera 4.10.10
E un pirata inventò il capitalismo
Il comportamento razionale dei filibustieri prefigura quello delle imprese
di Giulio Giorello


I marinai di un mercantile viaggiano tranquilli sulle onde. Una nave da duecento tonnellate appare all’orizzonte. Vista a distanza sembra inoffensiva. Batte bandiera inglese. Quando si fa più vicino, il naviglio rivela, però, tratti sinistri: è anch’esso un mercantile, ma alquanto modificato. Invece dei soliti sei cannoni, ne ha più di venti... La scena che Peter Leeson ci invita a contemplare in questo suo The Invisible Hook, ovvero alla lettera «l’uncino invisibile», che tratta dell’Economia secondo i pirati, è la minaccia di un arrembaggio: la nave misteriosa trasporta una ciurma di canaglie, comandate da un qualche Capitan Uncino. Gli ultimi dubbi verranno presto dissolti, perché i capi pirata amano personalizzare le loro insegne, variando lo schema di quella che è nota come la Bandiera della Morte, ovvero la Jolie Rouge (in seguito Jolly Roger), il drappo rosso — e poi nero — che reca teschio e ossa. Che cosa farà il comandante del mercantile alla vista di quello spauracchio dei mari? Magari si limiterà a seguire l’esortazione del Capitan Uncino della versione musicale di Edoardo Bennato: «Meglio che questa volta si arrenda». Ma cosa lo ha indotto a desistere da qualsiasi autodifesa?
Il fatto è che — almeno nella stragrande maggioranza — quei predoni del mare godevano fama non solo di essere spietati con chi non cedeva subito le armi, ma anche di essere fedeli alla parola data: chi si arrende avrà salva la vita, anche se perderà la roba. Uno scambio abbastanza equo per tutti coloro che si trovavano sospesi «tra il Diavolo e il profondo mare azzurro»: da una parte quelli che avevano tentato la sorte sulle onde; dall’altra i pirati stessi, che sfidavano la morte affrontando tempeste, abbordaggi, o magari l’implacabile «giustizia» di chi viveva sotto la legge.
Questo il paradosso dei pirati pacifisti. Come scrive Leeson: «La Jolly Roger finiva per salvare la vita ai marinai delle navi da carico. Segnalando l’identità dei pirati e i potenziali obiettivi preveniva una battaglia sanguinosa che avrebbe inutilmente ferito o ucciso non solo dei pirati ma anche degli innocenti marinai. Paradossalmente, dunque, l’effetto del lugubre simbolismo del teschio era simile a quello di una colomba che tiene nel becco un ramoscello d’ulivo!». I pirati erano capaci di beffarsi delle potenze del mondo intero e di elaborare insieme strumenti semiotici di mediazione piuttosto sofisticati — e tutto allo scopo di minimizzare i costi e massimizzare i profitti delle loro... imprese. Qui valeva la legge dell’Uncino Invisibile, degno correlato piratesco della Mano Invisibile di Adam Smith. La ricerca dell’utile personale di ciascun cittadino finiva per produrre la ricchezza della nazione; allo stesso modo, l’egoismo di ciascun pirata era funzionale all’economia di quello «Stato in miniatura» rappresentato dalla nave di questi predatori del mare.
Come scrive Leeson, i pirati erano sì dei «fuorilegge assoluti», ma non per questo erano incapaci di forme articolate di autogoverno. La loro massimizzazione del «piacere» richiedeva appunto «potere e libertà», e tutto questo era garantito da una «democrazia anarchica» che permetteva di affrontare con successo la grande questione che sottende l’origine dello Stato moderno. Per dirla con Baruch Spinoza: com’è possibile che ogni individuo ceda alla struttura pubblica una porzione della propria libertà e nello stesso tempo eviti «che la sua coscienza soggiaccia assolutamente all’altrui diritto»? La risposta è: definendo un sistema di controlli e contrappesi che garantisca che qualsiasi struttura statuale, «lungi dal convertire in bestie gli uomini dotati di ragione o farne degli automi», consenta invece «che la loro mente e il loro corpo possano con sicurezza esercitare le loro funzioni. Il vero fine dello Stato è la libertà».
È singolare, nota Leeson, che tutto ciò venisse realizzato con più di un secolo di anticipo rispetto al sistema di checks and balances escogitato dai padri fondatori di quell’«esperimento democratico» grazie a cui tredici colonie del Nordamerica divennero il nucleo degli Stati Uniti. Prima che contro la Corona e il Parlamento d’Inghilterra insorgessero i «risoluti ribelli», già si erano ammutinati non pochi marinai delle navi di sua maestà, per non dire delle piratesche «canaglie di tutto il mondo» che rifiutavano di chinare il capo di fronte a qualsiasi autorità. Il vero esperimento democratico è stato il loro — e le società aperte di cui oggi l’Occidente va tanto orgoglioso non hanno fatto che imparare da quei «mostri».
Non è perché fossero istintivamente miti o portati alla democrazia che i pirati finirono con lo scegliere la politica dell’intimidazione nei confronti del nemico esterno e quella del buon governo al proprio interno. Credo che ci possa aiutare a mettere in luce i tratti più salienti dell’Uncino Invisibile un modello elaborato da Elliot Sober in un contesto diverso (il dibattito sulla selezione darwiniana): in breve, biglie di diverso colore vengono filtrate da un crivello, i cui fori — che immaginiamo tutti uguali — bloccano quelle di dimensione superiore al diametro dell’apertura. Supponiamo inoltre che le biglie così piccole da non essere fermate dai buchi siano tutte colorate di rosso; possiamo concludere che il crivello seleziona solo biglie di quel colore. Ma quel tratto è tipicamente contingente: che il rosso si stabilizzi come carattere distintivo delle biglie «sopravvissute» è una mera conseguenza del meccanismo sottostante che discrimina le biglie per dimensione e del fatto «accidentale» che tutte le biglie abbastanza piccole sono di quel colore. Dunque, non è perché sono rosse che le biglie passano attraverso quel crivello; piuttosto, il fatto che sono rosse è un segno che esse erano adatte a superare l’ostacolo. Analogamente, possiamo dire che i nostri pirati erano «buoni» solo perché la loro bontà è stata selezionata come «tratto contingente» dalla logica economica che coordinava le loro pratiche.
Nel caso del crivello di Sober è facile individuare il meccanismo sottostante (se il diametro della biglia è maggiore di quello del foro, questa non passa). Nel caso dei pirati la ragione nascosta di tutto il processo è appunto l’Uncino Invisibile: la pirateria tra Seicento e Settecento aveva favorito l’evoluzione di quei tratti «buoni» perché questi erano i caratteri più vantaggiosi. Dunque, non solo l’analogia bensì anche la differenza con il crivello di Sober è istruttiva: le biglie ben poco fanno per modificare il crivello; le scelte dei pirati, invece, riescono a rimodellare il sistema di contromisure adottate dalle marine delle varie nazioni, nominalmente o realmente in guerra contro di loro. È un po’ come se il tingere di rosso alcune biglie ne riducesse la dimensione rendendole più «agili e snelle», in modo da eludere le maglie del crivello! I pirati sanno scegliere i colori, ed è grazie al rosso o al nero della Jolly Roger che riescono a piegare ai loro scopi le maglie di qualsiasi crivello venga loro opposto dal commercio «legale». Ma sanno anche che la mossa è rischiosa, perché li segnala come fuorilegge. Non diversamente, è rischioso per i pavoni possedere code sgargianti o per gli alci avere grandi palchi di corna per sedurre le femmine. Nello spirito darwiniano ciò funziona, anche se quegli animali rischiano maggiormente di apparire come possibili vittime dei predatori; quando riescono nei loro intenti, però, sono loro i «predatori» nella gara degli amori. E così sono i pirati, che il loro vessillo segnala inequivocabilmente come nemici di tutte le bandiere, ma che — quando il colpo va a segno — consente loro di ottenere quella «felicità» di cui vanno in cerca, e magari senza troppo spargimento di sangue.

Repubblica 4.10.10
Un'originale iniziativa di Giovanna Calvino alla Fiera di Francoforte
Il salone letterario si trasferisce sul web
di Babriele Pantucci

Parla la figlia dello scrittore, che insegna letteratura comparata alla New York University. Si è ispirata alle "Lezioni americane" per i suoi colti interludi su internet

Quelli che Italo Calvino indicava come valori da tramandare alle generazioni future sembrano trovare un loro "luogo", inesistente venticinque anni fa – nell´85 – quando lo scrittore scomparve. Avrebbe dovuto tenere sei lezioni a Harvard e ne aveva già scritte cinque: su leggerezza, rapidità, esattezza, visibilità e molteplicità. Non fece in tempo a scrivere l´ultima, che sarebbe stata dedicata alla consistenza. Garzanti le pubblicò nell´88 come Lezioni americane. Sei proposte per il prossimo millennio. Ed è proprio a queste "lezioni" che sua figlia Giovanna si è ispirata nella realizzazione di una serie di brevi interludi letterari su internet, che verranno presentati giovedì prossimo alla Fiera del libro di Francoforte.
Una volta alla settimana Amateur Thursdays (amateurthursdays.com ) offrirà la possibilità di riflettere su un libro, spesso con un richiamo a un classico che gli è strettamente attinente: attraverso cioè la voce di un altro scrittore. Il titolo è un riferimento ironico a The Cocktail Party di Eliot: dove un personaggio definisce amateur thursdays ("i giovedì del dilettante") i tentativi di sua moglie di creare un improbabile salon literaire.
Giovanna Calvino ha un dottorato in letteratura comparata e insegna alla New York University. Sarà lei l´executive producer. L´affiancheranno Alison Snyder, specializzata in giornalismo scientifico, e Fabrice Rozie, già addetto culturale dell´Ambasciata francese. Giovanna è poco incline a parlare di suo padre, e forse quella riservatezza le è stato trasmessa proprio da lui: «Mio padre – dice – non amava parlare di sé, e neppure dei suoi libri. Piuttosto amava parlare dei libri degli altri. Se realizzassimo l´iniziativa in Italia, il titolo giusto sarebbe proprio "I libri degli altri"... Parleremo comunque non solo di buoni libri, molto ben firmati, ma anche di quelli più popolari che hanno avuto un grandissimo successo».
La prima "puntata" avrà per tema la seduzione. Si parlerà d´un libro della categoria definita in America self help (cioè fai-da-te). Col titolo The Pick Up Artist l´autore – sotto lo pseudonimo di "Mistery" – illustra con umorismo la nuova arte della seduzione, utilizzando anche il classico di Soren Kierkegaard: Diario di un seduttore.
Poi naturalmente sarà possibile la partecipazione interattiva del pubblico. «Oggi è facile filmarsi sul computer – spiega Giovanna – e noi incoraggeremo il pubblico a inviarci dei loro video view di 30 secondi: su internet la gente dice quello che pensa e, per chi non ha facilità di esprimersi, l´espressione del volto contribuirà a rendere meglio quello che vuole esprimere e che sente davvero». A quale fascia demografica è indirizzato questo singolare progetto? «A una fascia d´età ampia: a quella dei giovani intorno ai 25 anni, ma anche a quella dei senior. Ai sessantenni che navigano molto su internet».
A Francoforte saranno presentati i primi tre filmati. Il primo è stato realizzato nella casa d´una corrispondente di Vogue. Il secondo nella sede del New York Review of Books. «Tratteremo dell´amicizia tra i cani e gli esseri umani. In America tutti adorano i cani – dice Giovanna – e ci soffermeremo su un libro bellissimo degli anni Sessanta: My Dog Tulip di J. R. Ackerley. Accanto, le favole di Esopo».
Il terzo filmato è stato "girato" al Museo Barrio. «L´argomento è la coscienza di classe nei classici. Prendiamo lo spunto da un libro appena uscito True Prep di Lisa Birnbach: un manuale ironico su come sembrare "preppy" (ben preparati) in America. Il libro contiene anche una lista di letture obbligate per chi vuole appartenere all´alta società americana. Due degli scrittori che hanno partecipato a questo "episodio" sono Rick Moody ed Edmund White». Gli scrittori che commenteranno i "libri degli altri" saranno comunque in prevalenza giovani che hanno già all´attivo la pubblicazione di un romanzo di esordio apprezzato dalla critica e dal pubblico.