mercoledì 6 ottobre 2010

Agi 6.10.10
Crisi: Fassina, serve svolta culturale interessati a Lombardi

(AGI) - Roma, 6 ott. - Il piu' grande ostacolo per l'uscita dalla crisi e' di ordine culturale: siamo da quattro anni nel tunnel, ma il pensiero diffuso non si e' svegliato dal 'sonno dogmatico'. E' necessaria una svolta culturale, prima che politica, per rimettere a posto un ordine economico e sociale insostenibile, per rianimare la voglia di futuro. E noi siamo interessati a sviluppare il pensiero economico autonomo di Riccardo Lombardi, la sua proposta del 1967 per "una societa' ricca perche' diversamente ricca". E' la diagnosi e terapia del responsabile economico del Partito Democratico Stefano Fassina, sulla perdurante crisi economica e occupazionale che attanaglia il Paese. "Dovremmo guardare - spiega Fassina - alla logica di funzionamento del sistema: invece per inerzia intellettuale e corporativismo cieco, si continuano a riproporre le ricette fallite della crescita bugiarda". Rimettere al centro il lavoro e la tutela dei diritti, l'occupazione e l'equita' fiscale, ma soprattutto riportare "la politica a dimensione dell'economia": sono queste le direttrici di fondo per una forza riformista, in vista dell'Assemblea Nazionale dell'8 e 9 ottobre, chiamata a lanciare un 'progetto nuovo' di societa' per 'risvegliare' l'Italia.
Secondo Fassina, "la causa di fondo dell'afasia dei riformisti" risiede "nello scarto tra la forza dell'economia globale e la triste anemia della politica locale". In tal senso, "il pensiero economico forte, autonomo rispetto alla cultura dominante di allora, di Lombardi ci interessa. Se pensiamo al rapporto tra pubblico e privato, alla assoluta necessita' di una sua ridefinizione rispetto a quanto accaduto nell'ultimo ventennio, allora Lombardi ci offre spunti interessantissimi da recuperare". Ad esempio il ruolo dello Stato nella direzione dell'economia del Paese: ruolo- guida che e' stato praticamente abbandonato laddove il mercato l'ha fatta da padrone assoluto. "Se si guarda al peso enorme che hanno assunto gli istituti finanziari in generale, si vede che hanno acquisito un potere enorme globale e sempre piu' difficilmente regolabile dalla politica. Sono giusti ed opportuni gli sforzi di regolamentazione nazionali e soprattutto sovranazionali perche' ci sia, da parte degli operatori finanziari, piu' sostegno all'economia reale - aggiunge - perche' la vocazione dei profitti a breve periodo, lasci il passo alla crescita dell'economia reale". Insomma, precisa ancora Fasina, "meno speculazione finanziaria e piu' investimenti produttivi". L'attenzione del Pd e', dunque, rivolta piu' al sistema produttivo reale, al rilancio della politica industriale che "in questo Paese non c'e'", mentre "c'e' un Ministro del Lavoro che pensa di risolvere tutto con la compressione dei salari e dei diritti sindacali". L'esatto contrario, insomma, di quella che fu l'opera di Lombardi: la richiesta del 1962 di mettere all'ordine del giorno lo Statuto dei Diritti dei Lavoratori all le sue riforme di struttura per creare nuove occasioni di lavoro, nuovi spazi di democrazia. Pat

l’Unità 6.10.10
Portateci le prove dell’esistenza di Dio
di Francesca Fornario


A mensa: «Hai letto? Il cardinale Ruini è contrario al Nobel per la medicina al padre della fecondazione assistita. Dice che una coppia non può fare un figlio con il seme di un donatore esterno». «E Gesù?». «Uhm, non ci avevo mai pensato». «È così che ci fregano, che uno non ci pensa. E pure se ci pensa non lo dice». «Ma cosa?». «Che Dio non esiste». «Che c'entra, non è questo il punto! Il punto è che i cardinali non devono interferire nella vita politica come fa Ruini. Pensa che lui il Nobel per la scienza lo avrebbe dato a Bagnasco». «E che ha scoperto?». «Che Berlusconi può invocare il legittimo impedimento anche per sottrarsi ai dieci comandamenti. Ha detto che le bestemmie vanno contestualizzate. Diavolo di un Bagnasco. È così legato a Berlusconi che vuole chiedere al Parlamento una commissione d'inchiesta contro Mosé». «Non sarà il punto, ma non lo diciamo mai». «Ma cosa?» «Che Dio non esiste». «Che c'etra, non sono cose che si dicono!». «Tipo a Ballarò, in tv, in quei posti lì. Se si parla della legge sul fine vita o del crocifisso nelle scuole, non c'è mai un politico dei nostri che dice: 'Sapete, io non sono d'accordo a mettere il crocifisso in classe perché Dio non esiste e non è corretto dire le bugie'». «Ma è una battaglia di retroguardia! Con la riforma Gelmini che ha ridotto il numero delle classi di crocifissi ne hanno dovuti mettere quindici in ogni aula. E sono gli unici che riescono ad allungare le gambe. E poi si fa presto a dire che Dio non esiste, bisogna provarlo». «Dai, lo dicono il 95 per cento degli scienziati! E poi il Vaticano che prove ha dell'esistenza di Dio? Come fanno i Vescovi a sapere tutto di lui e a dettare legge se ammettono di non averlo mai visto se non prima di nascere?». «Come fanno con l'utero». «Ma te lo immagini che cosa succederebbe se tutti insieme, pacatamente, dicessimo: Signori, se volete continuare a essere presi sul serio come interlocutori politici, portateci le prove dell'esistenza di Dio». «Sì. Che le pubblicherebbe Feltri».

l’Unità 6.10.10
Legge elettorale Fini in pressing Bersani: un’intesa è possibile
La maggioranza ha incardinato la legge elettorale al Senato, dove Pdl e Lega sono autosufficienti. Lettera del presidente della Camera per chiedere la discussione a Montecitorio, dove i finiani sono determinanti.
di Simone Collini


«E tu quale proposta di riforma della legge elettorale stai scrivendo?», chiede in pieno Transatlantico il capogruppo del Pdl in commissione Affari costituzionali Peppino Calderisi al deputato del Pd Salvatore Vassallo. E il costituzionalista veltroniano, rispondendo al sorriso col sorriso: «Ora nessuna, ho già dato». C’è anche una voce su wikipedia effettivamente, il Vassallum, ma anche se i due scherzano, sul superamento del “porcellum” si sta giocando una partita molto delicata, con i finiani che riservatamente stanno lavorando insieme a Pd e Udc a una nuova legge elettorale e con Pdl e Lega che stanno ricorrendo a ogni mezzo per impedire l’operazione. Per dire: una settimana prima del voto di fiducia, quando già era chiaro che a Palazzo Madama i finiani non erano determinanti per la sopravvivenza del governo, la maggioranza ha incardinato la discussione sulla legge elettorale nella commissione Affari costituzionali del Senato. Pd e Udc hanno chiesto ieri che venga calendarizzata invece a Montecitorio. «Sta a Schifani accettare», dice sornione Calderisi. E lo farà? «Perché dovrebbe? Del resto era negli accordi: la Camera si occupa della riforma della Giustizia e il Senato di riforme istituzionali, compresa la legge elettorale». Sennonché è lo stato stesso Gianfranco Fini a esporsi, scrivendo al presidente della commissione Affari costituzionali di Montecitorio Donato Bruno (Pdl) di incardinare il dibattito sulla legge elettorale alla Camera.
Sarà la riunione dei capigruppo convocata per stamattina a decidere, e bisognerà vedere se i finiani faranno fronte comune con Pd, Udc, e Idv e se questo asse avrà la meglio sul niet già espresso da Pdl e Lega. Italo Bocchino manda a dire: «Se qualcuno vuole portare il paese al voto, si può discutere di cambiare la legge elettorale. Su questo non c’è un vincolo di coalizione». Un’uscita che ha fatto irritare Berlusconi, che ha affidato a Osvaldo Napoli il compito di rispondere, con una dichiarazione che in sintesi dice: se il vincolo salta è per sempre. I vertici del Pdl e della Lega non vogliono neanche sentir parlare dell’ipotesi di superare il “porcellum”. Il capogruppo del Pdl alla Camera Fabrizio Cicchitto lancia un messaggio preventivo piuttosto chiaro, e cioè che se i finiani al vertice di maggioranza di oggi metteranno sul piatto anche la legge elettorale, «il vertice finisce prima di cominciare». E Umberto Bossi: «Abbiamo fatto tanto per cambiare la legge elettorale dopo tangentopoli in modo da evitare che i deputati andassero in cerca di soldi per il partito e ora vogliono di nuovo cambiarla».
Nonostante tutto, gli incontri tra gli esperti della materia di Pd, Udc e Fli proseguono, tanto che si è arrivati alla definizione di un modello proporzionale con collegi uninominali (Beppe Fioroni preferirebbe le preferenze), soglia di sbarramento e nessun premio di maggioranza. E nonostante tutto il leader del Pd Bersani, ieri impegnato in una serie di colloqui con D’Alema, Franceschini e Follini, è «soddisfatto» per come sta procedendo l’operazione, perché «prende corpo l’idea di una riforma elettorale»: «Siamo pronti a discuterne nelle sedi proprie, l’obiettivo è superare il porcellum».

Repubblica 6.10.10
Riforma elettorale, pressing di Fini prove di governo tecnico Pd-Udc-Fli
di Giovanna Casadio


Bossi: legge già cambiata. Lite nella maggioranza sul Copasir
Franceschini avverte: c´è una maggioranza per cambiare subito il porcellum

ROMA - Fini passa dalle parole ai fatti e avvia il pressing per cambiare la legge elettorale. Il presidente della Camera si fa interprete delle richieste di Pd, Udc e Idv e del "suo" gruppo "Futuro e libertà". Chiede a Donato Bruno, che guida la commissione Affari costituzionali di Montecitorio, di mettere in discussione i progetti di legge, una quindicina, già presentati. Parte subito il fuoco di sbarramento della Lega e del Pdl.
Ma soprattutto è il governo ad affidare al ministro Altero Matteoli, ex "colonnello" di An, l´assoluta contrarietà a questa operazione. Di riforma elettorale nemmeno a parlarne, dice Matteoli. «Non possono esserci due maggioranze, una per l´attività di governo e una per la legge elettorale, che è tra le norme fondamentali per la democrazia. Né può esistere una coalizione di governo che non si ritrova sulla legge elettorale. Peraltro non vedo la necessità di modificare quella attuale su cui si fondano il bipolarismo e la scelta di chi governa da parte dei cittadini». Fini insomma è avvertito: non s´avventuri in prove di governo tecnico. E arriva anche la bocciatura di Bossi: «Abbiamo fatto tanto per cambiare la legge elettorale dopo Tangentopoli in modo da evitare che i deputati andassero in cerca di soldi per il partito e ora vogliono di nuovo cambiarla...basta».
Ma è una guerra di posizione quella che si consuma dentro la maggioranza. È fatta di ripicche e tregua armata. Ieri mattina la riunione del Copasir - la commissione di controllo sull´intelligence - è stata sospesa perché mancavano quattro parlamentari della maggioranza (Cicchitto, Quagliariello, Esposito del Pdl e la leghista Maria Piera Pastore), presente invece il finiano Briguglio. Il presidente Massimo D´Alema ha ammonito: «L´attività non si può fermare». Francesco Rutelli, ex presidente, giudica da «irresponsabili» far ricadere le divisioni della maggioranza sul funzionamento della commissione. Gli assenti contrattaccano con una nota in cui dicono di aspettare che Fini e Schifani rivedano la composizione del Copasir visto che i gruppi della maggioranza sono cambiati. Italo Bocchino, capogruppo di Fli a Montecitorio, replica: «Non si possono fare modifiche, la legge lo vieta».
Poi però - per la serie tregua armata - sul rinnovo delle presidenze delle commissioni, il Pdl tende la mano ai "futuristi": saranno riconfermati i presidenti finiani, quindi Giulia Bongiorno (Giustizia); Moffa (Lavoro); Baldassarri (Finanze). A patto, sembra di capire, che Briguglio lasci il Copasir. Al vertice di maggioranza oggi si parlerà anche di questo.
Tuttavia la partita vera è sulla riforma elettorale, su cui potrebbe nascere la nuova maggioranza. Pier Luigi Bersani, il segretario del Pd, è certo: «Un´intesa è possibile. Noi siamo pronti a discutere e siamo soddisfatti perché l´esigenza di cambiare il Porcellum sta prendendo concretezza». Bersani ha avuto colloqui con Fini e Casini, il leader dell´Udc, e si è già parlato di una intesa in sei punti. Se cambiarla è l´imperativo categorico delle opposizioni e di Fli, come cambiarla è terreno minato. Il Pd è ufficialmente per il collegio a doppio turno. Mentre un sistema tedesco - con una soglia di sbarramento al 3%, l´indicazione del premier, e l´introduzione di una-due preferenze - raccoglierebbe il fronte più ampio. Casini insiste: «Spero in una convergenza ampia, anche di Pdl e della Lega; chi parla di ribaltoni dice cavolate». Il capogruppo Pd, Dario Franceschini intervistato a Repubblica-tv : «Di certo non si può tornare a votare con questa legge: è un´esigenza democratica. Se c´è una crisi di governo io credo ci sia una maggioranza alternativa per cambiarla al Senato e alla Camera». Aggiunge che il Porcellum può portare a «distorsioni gravi per la democrazia». Ci sono quindi i margini per l´alleanza ampia? «So che bisogna provarci». Oggi si riunisce la commissione Affari costituzionali alla Camera: deve decidere se incardinare la discussione. Al Senato fanno sapere che hanno già cominciato loro e vanno avanti con i ddl di Grillo, i quattro del costituzionalista Stefano Ceccanti, tra cui il "modello australiano".

l’Unità 6.10.10
Perizia calligrafica sui documenti delle regionali: almeno 373 casi di sottoscrizioni fasulle
Il partito di Pannella chiede le dimissioni del governatore lombardo: «Elezioni da rifare»
La denuncia dei Radicali: «Firme false per Formigoni»
Firme false per le regionali in Lombardia, i radicali annunciano querela e invitano Formigoni a dimettersi: «Non poteva non sapere ma ha pensato bene di negare tutto e gridare al complotto».
di Laura Matteucci


«La perizia calligrafica rivela la presenza di 374 firme false sul listino regionale “Per la Lombardia” a sostegno di Roberto Formigoni. Ed è una stima prudenziale, perchè il controllo è ancora in corso». La denuncia parte dai radicali della lista Bonino-Pannella e arriverà dritta in tribunale, sede civile e penale, con l’ipotesi di reato di falso. «Il presidente si deve dimettere, le elezioni regionali di marzo sono state illegittime», dice Marco Cappato. Il leader Marco Pannella va anche oltre: «Processare Formigoni sembra inevitabile perfino in questo suo regime. Occorrerà che la democrazia italiana processi questa gente e uno come lui lo metta almeno per un po’ in galera».
Il fatto è che 374 firme non valide sarebbero sufficienti per far crollare il numero complessivo raccolto (3628) sotto la soglia minima necessaria (3500) per presentare la lista alle elezioni. Cappato ricorda anche le intercettazioni telefoniche nell’ambito dell’inchiesta sulla P3 e l’interessamento alla vicenda del presidente della Corte d’appello di Milano Alfonso Marra: «Formigoni si è rivolto a personaggi non proprio credibili per ottenere aiuto sulla questione delle liste continua l’esponente radicale ha mentito e accusato i radicali di aver manomesso i moduli, si deve dimettere perchè non poteva non sapere di avere firme totalmente false, apposte dalla stessa persona». Ancora: «Sul piano formale le elezioni sono state illegali dice sempre Cappato Poi, c’è il fatto politico: i lombardi hanno il diritto di ottenere che un presidente che ha dichiarato il falso venga sanzionato».
TRIBUNALI E COMPLOTTI
Ricapitoliamo: la lista “Per la Lombardia” era stata esclusa il primo marzo dalla Corte d’appello di Milano che aveva accolto il ricorso della lista Bonino-Pannella secondo la quale il numero di firme valide non era sufficiente. Il centrodestra si rivolse al Tar con altri due ricorsi, e due giorni dopo lo stesso Tar accolse una richiesta di sospensiva che riammetteva di fatto la lista alle elezioni, decisione poi confermata dalla sentenza e dal Consiglio di Stato a cui si erano rivolti la Federazione della sinistra e i radicali. Per recuperare le liste escluse (in Lombardia e in Lazio) il governo aveva anche approvato un decreto legge apposito. I giudici del Tar lombardo avevano comunque deciso accogliendo il ricorso del Pdl secondo cui i radicali non avevano diritto a ricorrere. «Oggi riprende Cappato abbiamo i tabulati perchè abbiamo fatto ricorso come cittadini e non più come appartenenti alla lista Bonino-Pannella». Tabulati che sono stati sottoposti all’esame di un perito calligrafo accreditato al Tribunale di Milano.
Il governatore lombardo replica stizzito: «È la solita iniziativa propagandistica dei radicali dice cui non intendo fornire alcuna eco. Facciano la querela e risponderemo in quella sede». «Le loro affermazioni aggiunge, buttandola una volta di più sul complotto sono del tutto false, offensive e infondate. Gli elettori si sono pronunciati chiaramente, dando la vittoria a me e alla mia coalizione e nessuno riuscirà a rovesciare la loro volontà». Emma Bonino lo gela così: «Formigoni lasci perdere il suo tono da lesa maestà e la chiamata in causa della volontà popolare».

Repubblica 6.10.10
Pannella: Silvio è capace di tutto rischia di finire a Piazzale Loreto


ROMA - «Berlusconi è uno di quelli capaci davvero davvero di tutto, lui rischia di finire a Piazzale Loreto». Lo ha detto ai microfoni della trasmissione di Radio2 «Un Giorno da Pecora», condotta da Claudio Sabelli Fioretti e Giorgio Lauro, Marco Pannella. Il leader del Partito Radicale ha motivato il riferimento al luogo dove venne esposto il corpo senza vita Benito Mussolini spiegando che questo avviene «quando si abolisce la democrazia e tutte le istituzioni italiane sono fuorilegge». Tuttavia, «noi da non violenti staremo attenti perchè questo non accada». 

Repubblica 6.10.10
"Vent'anni fa una svolta inutile siamo ancora aggrappati al Muro"
Occhetto: a sinistra il coraggio si è esaurito con la Bolognina
"Chi ha combattuto la nomenklatura è stato fatto fuori, come Prodi, Cofferati, Veltroni"
"Mi colpisce l'ostracismo verso Vendola: è l'unico che può portare milioni di voti"
di Curzio Maltese


Vent´anni dopo nella sinistra italiana non è come nei romanzi, non è cambiato quasi nulla. «La svolta dell´89, la fine del Pci nel ‘91, dovevano essere l´inizio di una storia nuova della sinistra italiana che poi non si è realizzata. Meglio, è stata impedita con ogni mezzo dalla nomenclatura». L´analisi di Achille Occhetto, l´ultimo segretario del Pci, è spietata. «Esasperata, direi. E´ esasperante una sinistra che impiega quattordici anni per tornare all´Ulivo, ucciso nella culla nel ‘96 per una manovra di palazzo. È come se il coraggio si fosse esaurito tutto alla Bolognina. Ma forse è vero che già allora, nel modo in cui i dirigenti affrontarono il dibattito, erano affiorati antichi vizi, un certo opportunismo»
Non sarà per caso pentito della svolta?
«Al contrario, ma tutto avvenne troppo in fretta. Io pensavo a un cambiamento epocale, a una grande svolta libertaria della sinistra. Non mi accorsi che il gruppo dirigente la considerava soltanto il male minore, un astuto stratagemma per mettersi al riparo e anzi garantirsi l´ingresso nei salotti buoni. Il lutto per la fine del comunismo venne elaborato con cinismo, come un via libera alla pratica del peggiore compromesso»
L´immagine era quella di un leader solitario, circondato dallo scetticismo, pure non dichiarato, degli altri dirigenti. Era così?
«Sì, quella scelta fu compiuta in parte in solitario, sfruttando in fondo il mito dell´obbedienza al capo tipica dei partiti comunisti. Pochi erano davvero convinti, uno di questi era Fabio Mussi. Molti altri si fermavano alla superficie, non dico al marketing, al cambio del nome e del simbolo, che infatti è stato poi replicato senza cambiare la sostanza»
Chi era i padri culturali della svolta?
«I grandi del pensiero libertario italiano, da Gramsci ai fratelli Rosselli, Gobetti, Salvemini. Fra i politici dell´epoca Brandt e Olof Palme, i maestri del pacifismo e dell´ecologismo. Ma anche qui m´illudevo. Nei fatti ha trionfato un vecchio modello togliattiano, l´ossessione del potere per il potere»
In quello che lei considera il fallimento della svolta è stata però decisiva la rovinosa sconfitta della «gioiosa macchina da guerra» nelle elezioni del ‘94.
«Ma la responsabilità di quella sconfitta era in gran parte dei centristi. L´ex Dc di Martinazzoli non accettò di far parte di una coalizione di centrosinistra. Come avrebbe dovuto fare due anni più tardi. Rimasero aggrappati alle macerie del Muro di Berlino, come del resto tutti in Italia continuano a fare, a destra e a sinistra. Conviene. Non esiste un paese dove la vita pubblica, al di là delle rutilanti apparenze, sia più bloccata su vecchi temi, oltre che vecchie facce. E non è soltanto colpa di Berlusconi, la sinistra ha dato il suo contributo»
Non è un giudizio ingeneroso nei confronti dei suoi ex compagni di partito, sono tutti conservatori mascherati?
«Ma guardiamo i fatti. Chiunque si sia allontanato dalle pratiche della nomenclatura, chiunque fosse considerato per un verso o per l´altro fuori dagli schemi, è stato usato per la sopravvivenza e fatto fuori appena possibile. Non parlo del mio caso, sarei un narcisista. Ma dello stesso Romano Prodi, di Sergio Cofferati, di Walter Veltroni»
È anche vero che sia lei che Prodi, Cofferati e Veltroni vi siete arresi piuttosto rapidamente, le pare?
«Vede, il problema è lo stesso di allora, dell´89. Mi ero reso conto benissimo che per affrontare un vero cambiamento bisognava aprire le porte alla società, uscire dalle fumose stanze dei vertici di partito. Ma l´ingresso degli esterni, il rinnovamento anche generazionale del partito, venne vissuto come una minaccia, un´intrusione, un´invasione di campo dell´antipolitica. Lo stesso è accaduto con i comitati per l´Ulivo di Prodi, con il rapporto di Cofferati con i movimenti e infine col progetto di Pd aperto di Veltroni. La questione centrale del Pd è identica a quella del Pds e sta nel rapporto chiuso con la società. Ogni volta si cambia il simbolo, il nome, l´immagine e per un po´ s´illude l´elettorato, ma poi la logica della nomenclatura prevale e i consensi tornano a disperdersi»
Nel rapporto con gli esterni si riferisce a Vendola, Di Pietro, Grillo, al popolo viola e in generale a un´area a sinistra del Pd che è oggi l´unica in espansione, insieme alla Lega?
«Certo. E chi fa il politico di professione dovrebbe pure domandarsi perché è in espansione e perché invece il Pd è inchiodato nei sondaggi intorno al 25 per cento. Mi colpisce soprattutto l´ostracismo nei confronti di Nichi Vendola. Posso capire che Di Pietro e Grillo vengano considerati lontani, in certo senso estranei alla storia della sinistra, ma perché Vendola? E´ uno che viene da una storia tutta dentro la sinistra e rappresenta comunque una grande risorsa. Che vinca o no le primarie, è l´unico in grado di portare a un´alleanza di centrosinistra milioni di voti che altrimenti andrebbero persi alla causa. È incredibile che i dirigenti del Pd considerino Vendola un fenomeno estemporaneo, una specie di fricchettone che gioca con Internet. Si vede che neppure le batoste insegnano loro nulla. E quella presa in Puglia era piuttosto sonora»
A distanza di vent´anni, dove pensa di aver sbagliato, di che cosa si sente responsabile?
«Abbiamo sbagliato allora per la fretta, nell´urgenza storica. Abbiamo sbagliato a non spiegare che il mondo era cambiato profondamente, non soltanto per il crollo del comunismo, e bisognava tornare a studiare la società. Ancora oggi la visione del mondo del lavoro della sinistra italiana è legata a vecchi schemi, a modelli sociali tramontati negli anni Ottanta. C´è un gran fermento di fondazioni che non studiano nulla e sono soltanto trucchi per fondare correnti. Nella storia del vecchio Pci, io che ho dovuto chiuderla, salvo tante cose e altre ne rimpiango. E quella che rimpiango più di tutte è questa, l´umiltà, l´impegno, il coraggio di studiare, studiare e ancora studiare per capire i grandi mutamenti sociali»

Repubblica 6.10.10
Il governatore pugliese: per vincere servono leader non amministratori di condominio, le primarie un fatto di igiene politica
Vendola: "Bersani e D'Alema sono anime morte"
di Lello Parise


BARI - Nichi Vendola dà il benservito ai dirigenti del Pd. Il governatore della Puglia cita Piero Fassino, Massimo D´Alema, Pierluigi Bersani e li definisce «anime morte». Dopo i sindaci riformisti di Firenze e Bari, Renzi ed Emiliano, che non erano stati teneri con la "vecchia guardia" dei Democratici considerata in un caso «da rottamare» e nell´altro «decomposta», Vendola è il primo uomo politico non iscritto al Pd ad affondare il colpo. In un´intervista a Chi, spiega: «Non si possono mettere in pista leader di vent´anni fa. Ci vuole un´alternativa realistica al berlusconismo, non amministratori di condominio».
Un condominio chiamato centrosinistra, che Vendola giudica «inadeguato»: «Si dovrebbe mettere tutto in discussione. Senza avere paura di proporre un modello radicalmente alternativo nell´istruzione, nelle relazioni di lavoro, nello sviluppo industriale, che non esiste» sottolinea da Bruxelles, dove il presidente della Regione partecipa ad un raduno organizzato dalla "Fabbrica di Nichi".
E´ il blog Nouvelles Bruxelles a raccontare di Vendola, «giovane politico di Terlizzi con l´orecchino». Un Vendola pirotecnico: ritiene le primarie per scegliere il candidato premier, un «elemento di igiene politica», ma, precisa, «agitarsi inconcludentemente per soddisfare il nostro narcisismo non porta a nulla». Rivela anche che gli ultimi sondaggi assegnano il 6 per cento a Sinistra e libertà, il movimento di cui è portavoce.
Di fronte a una platea di duecento ragazzi fra i venti e i trentacinque anni, appare come un fiume in piena: il nuovo ministro dello Sviluppo economico, Paolo Romani? «In questo clima da basso impero non c´è più alcun pudore né senso del limite». «Cosa sta portando in basso l´Italia? L´ignoranza deriva da una televisione povera che diffonde sottocultura? Bene, la soluzione è spegnere la tivù. La libertà va coltivata con i diritti». Va avanti: «Il problema è il precariato? Bene, si deve abolire la legge Biagi». Avverte: «Dobbiamo perdere la sindrome di Zelig, evitare cioè di diventare come il nostro interlocutore nel momento in cui ci confrontiamo con lui. Woody Allen, nel suo film, se parlava con un ebreo vedeva allungarsi le basette, se aveva di fronte a sé una donna incinta gli cresceva la pancia».
E´ lo stesso Vendola in vena di confessioni. Ammette: «Mi manca un figlio. Non nascondo che scapperei subito ad adottare un piccolo abbandonato in Kosovo». Poi il comunista e gay che tremare il mondo (della sinistra) fa, regala ancora uno scampolo di vita privata: «Io e il mio compagno canadese siamo una coppia tranquilla, morigerata, ci piace ricevere gli amici a cena».

Avvenire 6.10.10
Per il recupero dei pedofili un impegno corale
di Maurizio Patriciello


Papa Bene­detto, nel suo re­cente viaggio in Gran Bre­tagna, ha af­frontato an­cora una volta, con coraggio e trasparenza, la dolorosissima vicenda dei preti pedofili. Pochi giorni dopo gli ha fatto eco il cardinale Angelo Bagnasco, nella prolusione al Consiglio permanente della Conferenza episcopale italiana.
Non è la prima volta. La Chiesa non si tira indietro e chiede perdono a Dio e agli uomini per non aver vegliato abbastan­za, e per tutte le volte che non ha accolto con immediatezza il grido di dolore degli innocenti traditi da chi li doveva rispetta­re e amare. Il Papa chiede che venga fatta penitenza e noi lo seguiremo nel cammino che ci ha tracciato.
Eppure il problema, nonostan­te il tanto parlare, non è stato ancora affrontato adeguata­mente dalla società civile. Dalla Chiesa siamo stati – laici e cre­denti – spronati a reagire e assi­curati che nei seminari, nei conventi, negli oratori, nei luo­ghi frequentati da bambini e a­dolescenti si vigilerà di più e meglio. Tra i discepoli di Gesù non c’è – e non ci potrà mai più essere – posto per i lupi trave­stiti da agnelli. Bene. Ma di queste persone, poi, che ne sarà? Dove andranno? Gli unto­ri tenuti lontano, non saranno mica guariti dalle loro manìe, dalle loro insane fantasie, dai loro inconfessabili tormenti. Si può scommettere che essi, da qualche parte – sarà una scuo­la, una palestra o la villa comu­nale – tenteranno, e probabil­mente, riusciranno a colpire ancora. Il problema, quindi, è stato sfiorato, ma non affronta­to a viso aperto. Ferruccio Pinotti nel suo libro 'Olocausto bianco' ci fa sapere che, in Italia, in un solo carcere, quello di Bollate in provincia di Milano, è attivo un programma di recupero per pedofili e sex offenders detenuti. Altrove ci si limita a isolare i condannati per questo reato per non la­sciarli in balia degli altri inter­nati. Questo in carcere. E fuori?
Ragioniamo. Se un figliolo, di­sperato, confessa ai genitori di avere seri problemi con la dro­ga, con l’alcol o con il gioco, es­si, i genitori, gli potranno getta­re le braccia al collo e promet­tergli di non lasciarlo solo nel difficile cammino di recupero.
Sanno di poter contare su co­munità, percorsi terapeutici sperimentati e su professionisti e volontari ben preparati, per intraprendere la difficile – e pur possibile – strada del ritorno al­la normalità. Ma se lo stesso giovane, invece, scoprendosi pedofilo, e stanco di nascon­dersi, di colpire vigliaccamente gli innocenti, pentìto, venisse alla luce chiedendo perdono, ma anche confessando di sen­tirsi schiavo di una libidine di­sastrosa, incomprensibile, che condanna ma non riesce a soffocare, e chiedesse aiuto per uscire dall’incubo che lo impri­giona, quale percorso terapeu­tico gli si potrebbe offrire? Il problema è più grande di quanto si possa immaginare e va affrontato con tutti i mezzi che la società ha a disposizione oggi.
Penso che sia giunto il tempo di affrontare apertamente la «condizione tragica» della pe­dofilia, di cui parliamo ormai tanto e sappiamo poco, e di mettere insieme scienze e competenze per conoscere e neutralizzare il meccanismo diabolico che si scatena in chi si è macchiato di questo orribi­le delitto. Il Santo Padre ha dato alla Chiesa e al mondo un esempio di umiltà e di grande amore al­la verità e alla vita. Occorre che con le stesse virtù i cultori delle scienze mediche, psichiatriche, psicologiche e della comunica­zione ci aiutino a capire chi è il pedofilo e se – al di là delle re­sponsabilità da colpire– c’è speranza di recuperarlo a una vita normale e a una sana ses­sualità. Ci dicano anche, con­cretamente, quali cammini, quali terapie intraprendere e dove. Per amore dei bambini. Di tutti i bambini del mondo.




l’Unità 6.10.10
«Siamo amici di Israele con diritto di critica»
di Umberto De Giovannangeli


È del tutto possibile sostenere sinceramente Israele e criticarne la politica. È quanto fanno, ad esempio, scrittori come David Grossman, Amos Oz e Abraham Yehoshua. È quanto fa JCall, il nuovo movimento ebraico europeo, il cui documento fondativo, l’Appello alla ragione, sottoscritto da Bernard-Henry Lévy, Alain Finkielkraut e oltre ̆7000 ebrei di numerosi Paesi europei, esorta il governo di Israele a porre fine all’occupazione e a giungere a una soluzione negoziata di pace, basata sul principio di “Due Stati per due popoli”. Ad affermarlo è David Calef, Coordinatore per l'Italia di JCall. Su queste basi gli aderenti a JCall criticano la manifestazione “Per la Verità, per Israele indetta per domani su iniziativa della Vicepresidente della Commissione Esteri della Camera, Fiamma Nirenstein (Pdl). Un’iniziativa che fa discutere e polemizzare, anche per l'adesione di esponenti del centrosinistra. «Noi –dice a l'Unità Calef– non accettiamo il ricatto per cui se avanzi anche solo una perplessità sulla politica degli insediamenti, finisci per essere tacciato di pregiudizio verso lo Stato d'Israele o addirittura di antisemitismo».
Cosa non vi convince dell'impostazione della maratona oratoria di domani? «Evocare i pericoli che vengono per Israele dall'Iran e denunciare il clima di ostilità antiebraica – di cui peraltro abbiamo avuto negli ultimi giorni due espressioni nell'intervento del senatore Ciarrapico e nella barzelletta vergognosa di Berlusconi – ci trova concordi. Ma non è questo il punto ...».
Quale sarebbe allora?
«La manifestazione si propone di attirare l’attenzione dell’opinione pubblica sui tentativi di delegittimazione dello Stato di Israele e sulle persistenti correnti di antisemitismo che pervadono l’Europa e il Medio Oriente. Da parte nostra non sottovalutiamo certo questi fatti e a tale riguardo, lo ribadisco, l’iniziativa appare condivisibile. Ci sembra però che una difesa lungimirante d’Israele non possa sottacere, come invece viene fatto dai promotori dell'iniziativa in questione, le responsabilità del governo guidato da Benjamin Netanyahu nei negoziati con la controparte palestinese. A nostro avviso, la ripresa di nuove costruzioni negli insediamenti in Cisgiordania compromette i negoziati in corso e fa dubita messo e di pace dell’attuale governo israeliano. La politica nei Territori occupati portata avanti dall'attuale governo israeliano non contribuisce in alcun modo a creare le condizioni per il raggiungimento di una soluzione del conflitto israelo-palestinese. Con l’interruzione della moratoria –che peraltro è stata applicata in modo parziale, come documentano ricostruzioni precise di Ong israeliane, quali Pace Adesso e B’Tselem– la coalizione guidata da Netanyahu scredita l’amministrazione Obama e persegue quella politicadiespansioneneiTerritorioccupati a cui si oppone la parte più responsabile dell’opinione pubblica israeliana». In definitiva, cosa è che non vi convince nelle intenzioni dei promotori di“Per la Verità, per Israele”?
«Ci sembra che l'iniziativa promossa da Nirenstein intenda di fatto prevenire -attraverso l’argomento condivisibile dell’antisemitismoogni critica a scelte politiche che a noi appaiono errate e nocive, proprio nel momento in cui sarebbe necessario incoraggiare la volontà di negoziato e denunciare le azioni che lo vanificano. Il minimo che si possa constatare è che i promotori dell'iniziativa di Roma abbiano commesso un “peccato” di omissione...».
Gli organizzatori potrebbero ribattere: chiamarsi fuori significa, sia pur indirettamente, fare il gioco dei nemici d'Israele....
«Noi non accettiamo il ricatto per cui se avanzi anche solo una perplessità sulla politica degli insediamenti, vieni bollato di pregiudizio anti-israeliano o addirittura di antisemitismo. Essere veri amici d'Israele significa per noi riuscire, anche con sofferenza, a indicare che alcune delle scelte compiute dai governanti israeliani non esprimono una volontà di pace. E questo, sia ben chiaro, non significa per noi fare sconti all'Autorità nazionale palestinese di Abu Mazen e tanto meno al regime teocratico di Hamas».

Avvenire 6.10.10
Shlomo Sand. Un provocatore da leggere
di Anna Foa


L’uscita anche in Italia, per Rizzoli, del discusso libro dello storico israeliano Shlomo Sand, «L’invenzione del popolo ebraico», può sollecitare anche il pubblico italiano ad una discussione che ci auguriamo serena sul tema della storia ebraica e dell’identità del popolo ebraico. Dico «serena» perché anche da noi risuonano molte delle asprezze che hanno caratterizzato la prima recezione del libro al suo apparire nel 2008 in Israele, quando Sand è stato accusato di volere la distruzione dello Stato d’Israele e di essere un ebreo «antisemita e negatore di sé». In realtà Sand, che con questo scritto si è collocato nell’ala più estrema della storiografia post-sionista, ha scritto un’opera animata da dichiarati e legittimi intenti politici, non scientifici (quello di giustificare uno Stato binazionale, quello di demolire l’idea di un’appartenenza ebraica data dal sangue). Ma dal punto di vista storico, quando non ha preso delle solenni cantonate, ha comunque scoperto l’acqua calda. Nessuno storico infatti prenderà mai come modello interpretativo della storia ebraica, come suggerisce Sand, le prime affermazioni della Dichiarazione d’Indipendenza d’Israele redatta da Ben Gurion sull’esilio e la dispersione del popolo ebraico.
Sand si accanisce in realtà non contro la storiografia, ma contro una vulgata nazionalista che dubito sia davvero maggioritaria, anche a livello dell’insegnamento, a meno di non considerare l’insegnamento scolastico in Israele come catechistico, e propone un concetto di «invenzione della tradizione» che fa parte delle armi abituali degli storici da un buon numero di decenni. A livello storico, insomma, se non a livello politico, combatte contro i mulini a vento. Molte delle sue affermazioni sull’inesistenza della diaspora ebraica, sull’origine degli attuali ebrei da convertiti mediterranei o khazari, e via discorrendo, sono state puntualmente smontate dagli specialisti, e vorrei solo toccarne una: la sua idea, costantemente ribadita, che la costruzione della storia ebraica sia stata un’invenzione esclusiva dei sionisti, alla fine del XIX secolo. Chiunque abbia esercitato il mestiere di storico sa che il richiamo alla storia ebraica precede di gran lunga il nascere del movimento sionista. In Germania, la storia degli ebrei fonda un’identità ebraica moderna e assimilata nella società tedesca della seconda metà del secolo, un’identità lontana da qualunque ipotesi di ritorno alla terra promessa. Che questa tradizione storica, riscoperta e divenuta fondamento identitario di ebrei integrati nella società e non di militanti sionisti, si sia fondata su mitologie oltre che sui processi storici documentati, è condizione di ogni interpretazione storica, dove accanto ai fatti esistono gli usi politici della storia. Accanto ai fatti, sottolineo, non contro i fatti. Nulla di strano poi che queste mitologie siano apparse con particolare rilievo nel periodo della fondazione dello Stato d’Israele, dove si trattava di fondare culturalmente un’ideologia nazionale e in molti aspetti nazionalista. Ma questo è un processo ben noto e analizzato da molti storici israeliani, come ad esempio Anita Shapira, studiosa considerata sionista. Insomma, un libro sbagliato in molta parte delle sue argomentazioni, ma un libro interessante e dissacrante, in grado di stimolare il pensiero e la discussione. Un libro che è legittimo scrivere, leggere, discutere, senza stupide scomuniche ma anche senza voler a tutti i costi andare controcorrente.

l’Unità 6.10.10
Fnsi si attacca il pluralismo, battaglia di libertà contro i tagli
Risorse Impegno «bipartisan» dei parlamentari: finanziare il Fondo
Allarme rosso per l’editoria il governo strangola oltre 90 testate
Allarme rosso per l’editoria di idee e politica. Nessuna certezza sul finanziamento pubblico. Governo inadempiente. È la denuncia bipartisan di parlamentari, Fnsi, Mediacoop, Cgil. Rischio chiusura per 90 testate.
di Roberto Monteforte


Siamo oltre all’allarme rosso. Senza certezze sul finanziamento pubblico, senza una legge di riforma e senza quel regolamento annunciato da oltre due anni, il destino di tante testate di idee, politiche e non profit è segnato: la chiusura. Tutti gli impegni assunti sin qui dal governo sono stati disattesi. Sono oltre 90 quelle che, senza fatti nuovi, rischiano di non superare il prossimo 31 dicembre. E sono 4-5mila i lavoratori, che rischiano il posto di lavoro, con un un danno incommensurabile al pluralismo dell'informazione. È un vero e proprio allarme democratico, come per la «legge bavaglio», quello lanciato ieri al Senato dalla Fnsi, da Mediacoop, dall’Associazione Articolo 21, dai cdr dei giornali di idee e politici, dalla Cgil. La situazione si fa veramente critica per testate come Liberazione, Il Manifesto, Europa, la Padania, il Secolo d’Italia, Europa, la stessa Unità.
LA LUNGA SERIE DI TAGLI
È stato il presidente onorario di Mediacoop, Lelio Grassucci a richiamare nella sua drammaticità la situazione. Lo scorso 31 marzo vi è stato l’abolizione delle tariffe postali agevolate. Quindi il taglio del 50% al contributo per i giornali italiani all’estero e la cancellazione di quello per l’emittenza locale. L’abolizione del diritto soggettivo e il taglio del 50% al Fondo per l’editoria. Per il 2010 sono disponibili soltanto 195 milioni di euro a fronte dei 414 milioni del consuntivo 2008, che dovranno coprire anche i 50 milioni destinati al contratto di servizio Rai e i 46 milioni di arretrati alle Poste.
Il governo è più che inadempiente. Si assuma le proprie responsabilità dando seguito ai numerosi richiami «bipartisan» del Parlamento: lo ha affermato il segretario di Federstampa, Franco Siddi. «L'informazione è sotto tiro da più parti denuncia -. Ci sono tagli assurdi, ingiustificati e ingiustificabili». E cita le manovre in atto per le agenzie a partire dall’Ansa: «Con la riduzione delle convenzioni ad annuali, rischiano di finire in mano a chi ha il potere» afferma. Ricorda come la Fnsi abbia chiesto «pulizia e trasparenza» nella gestione dei contributi e «regole certe».
Che bisogna intervenire e in fretta lo sottolineano i parlamentari presenti, dal leghista Mura a Lusetti (Udc), a Vita, Lusi e Merlo, tutti del Pd. Chiamano in causa il sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Bonaiuti e il neo ministro per lo sviluppo economico, Paolo Romani. «Il nuovo ministro dimostri di non essere solo il ministro della tv e del conflitto d'interesse incalza il portavoce di Articolo 21 Giulietti -. Dimostri di non essere il guardiano di una sola azienda. Usi anche solo un centesimo della passione usata per la difesa di Retequattro e la questione Sky per difendere l'editoria». Vita chiede al ministro un’asta competitiva per l’assegnazione delle frequenze digitali con cui finanziare il Fondo per l’editoria. Grassucci suggerisce di equiparare l'Iva di tutti i gadget venduti nelle edicole. Fammoni (Cgil) sollecita la convocazione «dal basso» e «prima che sia troppo tardi» di quegli stati generali dell’editoria promessi e sempre rinviati da Bonaiuti.

l’Unità 6.10.10
James Hillman Un saggio del grande analista junghiano su psicoanalisi e religione
Spiritualità La ricerca del rapporto col divino non è solo «appannaggio» dei credenti
La fantasia è il potere dell’anima Costruisce il mondo in cui siamo
Esce per le edizioni Moretti&Vitali (da oggi in libreria) il saggio di James Hillman «La ricerca interiore», un «libro d’anima», in cui lo psicoanalista e filosofo fa dialogare la psicoanalisi e la religione.
di James Hillman


L’interesse per la fantasia è una caratteristica della maggior parte delle discipline spirituali, sia come metodo psicologico nell’«immaginazione attiva» di Jung, sia nelle tecniche descritte nella mistica alchemica, o nei testi cristiani, indù, persiani e altri. Ma la fantasia passiva non è mai sufficiente, perché la fantasia è un continuo tessere un velo, un confondere immagine e azione. La fase successiva alla fantasia è l’immaginazione, che è il lavoro di trasformare i sogni a occhi aperti e le fantasie in visioni sceniche interiori dove si può entrare, e che sono popolate di figure vivide con le quali si può conversare, provare sentimenti, toccare la loro presenza. Questa sarebbe, allora, ricerca interiore psicologica. Una simile immaginazione costa una grande fatica. Il lavoro di convertire la fantasia in immaginazione è la base delle arti. È anche alla base dei nuovi passi che facciamo nella vita, perché la visione del nostro futuro personale viene prima come fantasie. Di nuovo, quindi, c’è una buona ragione per trattenerle dentro, all’inizio, per immaginarle come progetti molto dettagliati e su vasta scala, prima di decidere se è il caso di provarle nel mondo oppure seguirle ancora all’interno, se viverle all’esterno o viverle dentro.
L’immaginazione e il suo sviluppo sono probabilmente un problema religioso, perché l’immaginazione diventa reale soltanto credendo a essa. La teologia, il credere, è un atto di fede, oppure è la fede stessa, come primario investimento di energia in qualcosa, a rendere «reale» quel qualcosa. La vita interiore è pallida ed effimera (proprio com’è il mondo esteriore negli stati depressi) quando l’Io non vi ritorna, non ci crede, non la fornisce di realtà. Questo investimento, questa dedizione alla vita interiore accresce la sua importanza e le dà sostanza. L’interesse che si presta ripaga rapidamente con l’interesse. Le forze che spaventano diventano più pacate e più gestibili, la donna interiore più umana e affidabile. Non seduce e pretende soltanto, ma comincia a rivelare il mondo in cui ci attira, e dà anche conto di sé, della sua funzione e del suo scopo. Via via che questa «lei» diventa più umana, gli umori a cui si è soggetti diventano meno difficili e personali e sono sostituiti da un sottofondo emozionale più stabile, un tono di sentimento, un accordo. Non essendo più in conflitto con lei, adesso è disponibile più energia per la coscienza, il che dimostra che l’energia spesa in questa disciplina è restituita in una forma nuova. Tuttavia, come in un sistema fisico, non può uscire niente di più di quanto sia entrato. Solo un’attenzione devota e fedele può trasformare la fantasia in immaginazione.
Questa attenzione fedele al mondo immaginale, questo amore che trasforma le pure immagini in presenze, fa di esse degli esseri viventi o, per meglio dire, rivela che l’essere vivente che naturalmente contengono non è nient’altro che la «ri-mitologizzazione». I contenuti psichici diventano «poteri», «spiriti», «dèi». Sentiamo la loro presenza, come la sentivano in passato tutte le persone che avevano ancora anima. Queste presenze, questi poteri, sono i nostri equivalenti moderni degli antichi pantheon di esseri viventi, di parti dell’anima animate, di dèi protettori della famiglia e di sinistri demoni. Questi dèi erano «mitici» in quanto erano parte di un «racconto» o di un dramma psichico. Gli stessi drammi archetipici sonomessiinscenainnoiedanoi,e attraverso di noi e per noi, una volta che sia data attenzione all’aspetto immaginale delle nostre vite e della vita stessa. L’attenzione è la virtù psicologica cardinale. Da essa dipendono probabilmente le altre virtù cardinali, perché non può esserci né fede, né speranza né amore per nessuna cosa, se prima non le viene data attenzione.
Ma c’è un’altra conseguenza del credito che diamo alle immagini dell’anima: comincia a diffondersi e a circolare un senso di auto-indulgenza e di accettazione di sé. È come se il cuore e la parte sinistra stessero estendendo il loro dominio. Gli aspetti ombra della personalità continuano a giocare i loro pesanti ruoli, ma adesso all’interno di un «racconto» più vasto, il mito di sé stessi, semplicemente quello che uno è, e che cominciamo a sentire come se fosse proprio così che si è destinati a essere. Il mio mito diventa la mia verità, la mia vita simbolica e allegorica. Auto-indulgenza, accettazione di sé, amore di sé; ma ancora di più: ci si scopre peccatori ma non colpevoli, grati per avere i nostri peccati e non quelli degli altri, pieni di amore per il nostro destino, fino al punto di desiderare di avere e mantenere sempre questa intensa connessione interiore con la propria parte individuale. Simili forti esperienze di emozione religiosa sembrano di nuovo essere il dono dell’Anima. Questa volta l’Anima ha una qualità particolare, che potremmo meglio definire cristiana, e che comincia a rivelarsi dopo che è stata dedicata una lunga e attenta cura a gran parte della psiche che potrebbe anche non essere cristiana.
Il terzo passo è gratuito. Riguarda la libera e creativa comparsa dell’immaginazione, come se ora il risveglio del mondo interiore cominciasse ad agire spontaneamente, da solo, non diretto, senza che la coscienza dell’Io se ne occupi. Il mondo interiore non solo comincia a prendersi sempre più cura di sé, producendo delle crisi e risolvendole all’interno delle sue trasformazioni, ma si prende anche cura di te, delle preoccupazioni dell’Io e delle pretese dell’Io. Questo è la femminile Shakti dell’India, a uno stato superiore; è anche le nove Muse responsabili della cultura e della creatività. Ci si sente come vissuti dall’immaginazione.
©James Hillman published by arrangement with Agenzia Letteraria Roberto Santachiara

il Fatto 6.10.10
La rabbia inutile del Vaticano
L’arroccamento dogmatico della Santa Sede sul Nobel a Edwards fonda le proprie ragioni su una legge naturale che non esiste nella realtà: per fermare il progresso, un anatema non basta
di Marco Politi


L’ira vaticana contro il premio Nobel concesso a Robert Edwards, inventore della tecnica di
fecondazione in vitro, oscura in fondo il lavoro di tanti scienziati cattolici, impegnati da decenni nelle ricerche genetiche. E ignora anche le riflessioni di tanti teologi e filosofi cattolici che si interrogano – assieme a studiosi diversamente credenti – sui rapporti tra scienza ed etica e sul rischio che il connubio tra tecnologie e commercializzazione manipoli il “consumatore” invece di lasciargli la padronanza dei progressi scientifici.
Le autorità ecclesiastiche paiono invece arroccate su posizioni fossilizzate, che non tengono conto dello stato delle cose. Che senso ha titolare, come fa il giornale dei vescovi Avvenire, “Le mani sulla vita – E ti danno pure il Nobel” ? Sottotitolo ancora più fine: “Il premio al padre di una tecnica inventata per gli animali”. Il testo, per fortuna, è più problematico. Ma si pensa davvero di evangelizzare la società contemporanea agitando l’immagine di scienziati rozzi al servizio della commercializzazione di ovociti o, in altre occasioni, drogati da deliri alla Frankenstein? Il mite papa Luciani, durato solo trentatre giorni, si congratulò con Leslie Brown nel 1978 per aver dato alla luce un bimbo in vitro. Il “parroco veneto”, come lo chiamavano, era evidentemente più avanti del dogmatismo che impera oggi nelle alte sfere ecclesiastiche. Non a caso era prudentemente favorevole alla pillola anticoncezionale, sebbene si fosse poi piegato ubbidiente al veto emanato da Paolo VI con l’enciclica Humane Vitae.
Il fatto è che la gerarchia vaticana si sta aggrappando ad un concetto di “legge naturale”, concepita come legge bronzea incisa da Dio, che l’uomo deve solo “scoprire” e il legislatore applicare. Ma questa legge non esiste. Esistono “riflessioni umane” intorno al diritto naturale, che sempre sono state frutto di un’evoluzione culturale. Lo splendido versetto della Bibbia sull’uomo “creato a immagine e somiglianza di Dio” – oggi presentato come fondamento dell’idea di persona e di dignità umana – per secoli non ha impedito che ebrei e cristiani avessero tranquillamente degli schiavi non provando alcun rimorso di coscienza. È la storia, la cultura che ha cambiato la situazione.
Non c’è un conflitto tra fede e ragione
SU COSA si basa la pretesa della gerarchia ecclesiastica di giudicare che il lavoro dello scienziato, che porta a congiungersi lo spermatozoo maschile e l’ovulo femminile – unione bloccata da ostacoli naturali – è un atto negativa? Qui non siamo in presenza di un conflitto tra fede e ragione, ma tra un postulato teorico assunto autoritativamente e l’osservazione della ragione. E se la natura stessa, con gli aborti spontanei, elimina gli embrioni con gravi tare genetiche, perché una madre dovrebbe impiantarsi un embrione, sapendo che darà vita ad un figlio destinato a morire inesorabilmente quattro mesi dopo? E’ Dio che lo vuole? O lo vogliono uomini, convinti di essere depositari del volere di Dio?
In tema di fecondazione bisogna sapere che il più recente documento della Congregazione per la dottrina della fede “Dignitatis Personae” non ha il coraggio di definire l’embrione una persona umana, perché affermarlo apoditticamente anche nei primi stadi dello sviluppo è destituito di basi scientifiche. Perciò l’ex Sant’Uffizio di rifugia nell’asserzione ambigua che ha “la dignità di una persona”. Ma il vertice dell’astruseria parateologica si raggiunge quando il documento del 2008 indica l’unico metodo di fecondazione artificiale accettato dal
Vaticano. Il preservativo bucato. Lo so, è ridicolo e incredibile. Ma è così. Si chiama Semen Collector Device. E l’elucubrazione si basa sul fatto che la fecondazione è lecita solo se c’è il “rapporto unitivo” tra i due sposi. Dunque i due partner, già stremati da ripetuti insuccessi, dovrebbero mimare il rapporto... il buco nel preservativo lascia “in linea di principio” la possibilità che uno spermatozoo arrivi a destinazione come nel film di Woody Allen, ma “in realtà” i medici dovrebbero rapidamente catturare il seme maschile impigliato nel condom e inserirlo con un sifone nella vagina della donna. Questa è la sola fecondazione artificiale lecita per Santa Romana Chiesa. Succede così negli ospedali cattolici? No. Il partner porta il suo liquido seminale e i medici fingono di non sapere come è stato ottenuto. È la prova provata che la dottrina ufficiale ecclesiastica è totalmente avulsa dalla realtà quotidiana oltre che da quella scientifica. In questo regime è evidente che vi siano ricercatori cattolici, che hanno lavorato sulle cellule staminali embrionali, perché non è vero – come ripetono ossessivamente prelati e anche alcuni politici di centrodestra – che non hanno portato ad alcun risultato concreto. Sono state le ricerche sulle staminali embrionali “totipotenti”, che hanno fatto capire meglio agli scienziati i meccanismi delle cellule staminali “pluripotenti”, prelevate da tessuti umani. L’arroccamento dogmatico impedisce che ci si interroghi sulle questioni a più ampio raggio. Per esempio, nei paesi scandinavi è in corso una riflessione ulla fecondazione eterologa, che mette in primo piano il diritto del figlio di sapere chi sono i suoi genitori biologici e quindi in ultima analisi di crescere con chi gli ha dato la vita. Perché non è vero, in questo caso, che l’amore dei genitori giuridici copre tutto. Ci sono ritmi più profondi – vale, per esempio, per il nato da un utero in affitto – che non sono affatto ininfluenti sulla crescita psichica del bambino. E partorire con un seme prelevato postumo può soddisfare la madre, ma certo impone al nascituro uno stato d’orfano che non ha chiesto.
Ci sarebbero molte cose su cui scienziati e filosofi variamente credenti potrebbero riflettere insieme, se i dogmatici deponessero le armi.

Repubblica 6.10.10
Scienza e fede ai confini della vita
Il Papa e la provetta
Fecondazione artificiale, staminali, clonazione. Con il Nobel a Robert Edwards si rinnova lo scontro tra Chiesa e ricercatori. Ecco perché
di Luca e Francesco Cavalli-Sforza


Dal Nobel per la fecondazione in vitro fino alle staminali, le nuove frontiere della conoscenza e della tecnologia provocano sempre più spesso le reazioni della Chiesa. Ma sarebbe sbagliato pensare di poter impedire la "manipolazione" dell´ambiente per motivi ideologici: questa fa parte del desiderio dell´uomo di spingersi oltre i limiti dell´evoluzione biologica
I teologi insistono sulla libertà e la responsabilità dell´essere umano rispetto all´animale
La questione vera è usare al meglio le nostre conoscenze, non limitarle per timore dell´ignoto

Da quando Robert Edwards, ora insignito del Nobel per la medicina, eseguì con successo la prima fecondazione in vitro, sono passati 32 anni e sono stati concepiti in provetta 4 milioni di bambini. Quattro milioni di esseri umani che non avrebbero altrimenti visto la luce e otto milioni o quasi di genitori contenti, viene da pensare, perché si tratta per lo più di coppie che non avrebbero potuto procreare in assenza delle tecniche di fecondazione artificiale per cui è stato ora premiato il ricercatore britannico.
Colpisce, quindi, la forte reazione negativa che l´annuncio ha suscitato nelle gerarchie cattoliche, di solito schierate a favore della procreazione "a oltranza" e nemiche dichiarate di quasi ogni forma di contraccezione e più ancora di ogni interruzione di gravidanza.
Quali le ragioni di questa condanna, che ha portato alti prelati a contestare l´assegnazione del premio a Edwards? Tre i ragionamenti che spiccano con maggior chiarezza: le tecniche di fecondazione assistita generano embrioni soprannumerari, destinati ad essere congelati per ulteriori eventuali tentativi di impianto e ad essere col tempo gettati nella spazzatura se inutilizzati (è così per necessità pratiche, perché solo i più vitali degli embrioni ottenuti in provetta sono impiantati nell´utero della donna).
La fecondazione artificiale ha reso possibili modalità di gravidanza che non esistono in natura, come le nonne/mamme e l´utero "in affitto". Il divieto ecclesiastico di operare praticamente qualunque manipolazione "tecnologica" sul processo riproduttivo umano.
Questa, a grandi linee, la posizione della Chiesa.
Cosa possiamo dire al riguardo dal punto di vista della biologia? In natura, non ogni fecondazione risulta in una nascita e tantomeno in un individuo adulto e capace di riprodursi a sua volta. Un pesce femmina può deporre anche milioni di uova: solo una minuscola frazione di queste sarà fecondata e si svilupperà fino a produrre un pesce adulto (le altre saranno per lo più mangiate da altri pesci: ragion di più, per le femmine, per produrre un numero maggiore anziché minore di uova). Nella specie umana la situazione riflette le centinaia di milioni di anni di evoluzione divergente che ci separano dai pesci ma non è terribilmente diversa: ogni donna nasce con circa mezzo milione di cellule-ovo, che maturano con la pubertà e divengono disponibili per la fecondazione con cadenza regolare, in genere una cellula-ovo ogni mese lunare. Quando avviene una fecondazione, questo non significa che ogni uovo fecondato si svilupperà in un embrione e poi in un nuovo nato: fra il 30% e il 50% delle gravidanze (la percentuale esatta è sconosciuta) si interrompono ben prima della nascita, per difetti genetici o di altra natura, di solito ben prima che lo zigote o l´embrione abbiano raggiunto lo stadio di feto. Per lo più la donna nemmeno si accorge di essere rimasta incinta, fa solo magari esperienza di una mestruazione più abbondante del solito, quando l´organismo espelle il prodotto del concepimento. Nascere, insomma, non è esattamente un "destino" metafisico dell´uovo fecondato: è semplicemente un tentativo che ha avuto successo.
Ben vengano, quindi, le tecniche di fecondazione artificiale, se permettono di superare qualcuno degli ostacoli intrinseci alla nostra biologia. Se poi a volte sono utilizzate per gravidanze che superano le procedure imposte dalla nostra natura, come nel caso delle madri sessantenni o della fecondazione eterologa, si può discutere sull´opportunità o meno di questo (più che sulla sua liceità) ma non è il caso di prendersela con i ricercatori che hanno messo a punto metodi per combattere l´infertilità.
Il desiderio di spingersi oltre i limiti che l´evoluzione biologica ci ha concesso ha caratterizzato il genere umano fin dalla sua comparsa sulla Terra, quando i nostri antenati vissuti due milioni e mezzo di anni fa hanno imparato a scheggiare le pietre e ad utilizzarle per rompere le ossa di animali morti e succhiarne il midollo, una azione che né le unghie né i denti avrebbero permesso loro di fare. Questa spinta alla conoscenza e alla manipolazione dell´ambiente circostante non si è mai fermata e non si fermerà mai: la questione vera è come usare al meglio le nostre conoscenze, non limitarle per timore dell´ignoto. Che poi la stessa pietra che permette di procurarsi cibo possa essere usata per uccidere un altro essere umano, o che la ruota sia stata usata tanto per macinare il grano nei mulini quanto come strumento di tortura, è una verità della nostra storia: l´uso che facciamo delle nostre invenzioni dipende dalla nostra consapevolezza e dalla nostra libertà.
Le reazioni negative degli ambienti ecclesiastici a questo Nobel non hanno a che fare, però, con la nostra biologia e nemmeno, in fondo, con la questione di un uso saggio e considerato delle nostre tecnologie: hanno invece una radice squisitamente ideologica. Nessuno sembra avere mai protestato per le tecniche di fecondazione artificiale applicate agli animali ormai da decenni. Non vi è mucca nelle nostre stalle che conosca (biblicamente) il toro, la fecondazione impiega solo lo sperma dello stesso (una pratica che riduce la biodiversità e che ha posto all´occasione problemi genetici anche gravi). Il problema è che per i teologi l´uomo gode di una dignità unica e speciale, non perché si comporti meglio delle mucche, dei tori e dei pesci ma perché sarebbe provvisto, unica specie in natura, di un´anima individuale e immortale, distinta dal corpo fisico e preposta in qualche modo ad indirizzarlo. È il congelamento e la successiva liquidazione dell´anima che la Chiesa condanna nel congelamento e soppressione dell´embrione "soprannumerario", non la sorte della masserella di cellule che lo forma. Era più ragionevole, da questo punto di vista, la posizione di San Tommaso d´Aquino, che nel Duecento sosteneva che l´anima entra nel corpo solo quando questo ha assunto forma umana, cioè all´incirca dopo tre mesi di gravidanza (il tempo entro cui l´aborto è oggi autorizzato dalla maggior parte delle leggi, fra l´altro). Negli ultimi decenni la Chiesa ha retrodatato l´ingresso dell´anima nel corpo, facendolo coincidere con il momento della fecondazione. Negli ultimi secoli si è poi deciso di rendere universale questo "diritto all´anima", estendendolo anche a quelle popolazioni, come gli aborigeni di tutto il mondo, che al momento della conquista europea dei continenti ne erano stati esclusi.
Ora, la nozione che esista un´anima distinta dal corpo e immortale è pura ideologia, un´invenzione cui alcuni si associano, altri no. Fra chi è animato da spirito religioso, alcuni preferiscono credere alle reincarnazioni, altri ad una vita unica con giudizio finale. Chi è animato da uno spirito laico pensa invece che in questo secolo siamo sulla buona strada per capire quali interazioni neuronali sono responsabili di ciò che chiamiamo "coscienza" o "autocoscienza", "spirito" o anche "anima". Negli ultimi duecento anni si è scoperto che il numero di cose e di eventi invisibili supera di gran lunga il numero delle cose visibili ma non è emersa alcuna traccia dell´esistenza dell´anima. Plagiato dalla dottrina ecclesiastica, il parlamento italiano ha prodotto anni fa una legge scellerata in materia di fecondazione assistita, negando persino il diritto alla diagnosi preimpianto alle donne che vi fanno ricorso, quindi il diritto ad avere figli se possibile sani. Per fortuna due interventi della Corte Costituzionale hanno mitigato alcune barbarie della legge. Non si vede proprio perché in un Paese che crede nella libertà di opinione le convinzioni di alcuni, sprovviste per di più di ogni riferimento condivisibile, comunicabile e assoggettabile a critica razionale, come è di ogni forma di conoscenza, dovrebbero essere imposte a tutti. La dottrina della Chiesa insiste giustamente sulla libertà e responsabilità dell´uomo; ma se guardiamo le cose da quel punto di vista c´è una domanda che sorge spontanea: se Dio ha provvisto l´uomo della capacità di intervenire sulla natura e sugli altri esseri viventi, perché mai non dovrebbe concedergli il diritto di intervenire sulla vita della sua stessa specie?
La Chiesa cattolica ha sempre favorito la procreazione e questo ha anche un effetto positivo sulla crescita del numero di fedeli, poiché la religione dei figli è quasi sempre quella ereditata dai genitori. In questo caso ha fatto una politica contraria alla procreazione. Forse coloro che la praticano non sono fra i credenti più ligi, ma con questo atteggiamento molti futuri cattolici potenziali sono probabilmente perduti. È vero d´altra parte che il Paese più cattolico del mondo, l´Italia, è quello che ha il numero di figli per famiglia di gran lunga più basso.
Comunque, abbiamo finora sentito solo le voci più estreme: il pronunciamento ex cathedra non è ancora arrivato.

Repubblica 6.10.10
Bisogna guardare alle scoperte tenendo conto dei diversi aspetti che vanno a toccare
Perché etica e ricerca devono saper dialogare
di Piero Coda


La sperimentazione scientifica e l´ingegneria tecnologica non possono esercitarsi in contrasto con il rispetto e la promozione della dignità umana. È questa un´evidenza da tutti condivisa. Ma la contemporanea situazione di pluralismo rende difficile riempire di un contenuto valoriale unanimemente riconosciuto nozioni come quelle di coscienza, dignità umana, vita, ecc. Le nuove frontiere rese fruibili dalla biogenetica, soprattutto, riportano al centro la questione antropologica. La quale, diversamente dal passato, non tende solo a interpretare l´uomo, ma a trasformarlo: e non limitatamente ai rapporti economici e sociali, ma nella sua stessa realtà biologica e psichica. L´interrogativo cruciale diventa allora quello del significato e dell´originalità dell´essere umano nel concerto della realtà, e quello del riferimento plausibile d´ogni sua impresa al rispetto e alla promozione della sua identità.
Le difficoltà che gli esperti della materia, ma non solo, affrontano nell´approntare una base epistemologica condivisibile alla bioetica derivano dalla vastità degli ambiti d´indagine e dalle diverse modalità di approccio alla questione di cui essa si occupa: la vita umana in tutti i momenti del suo sviluppo. Di qui l´impegno ineludibile a far interagire con pertinenza l´approccio scientifico e quello umanistico. Già nel saggio Bioethics, bridge to the future, del 1970, l´oncologo Van Resselaer Potter si concentrava su due aspetti: la dimensione bio-ecologica e il problema della distinzione dei saperi, mettendo in luce come gli attuali squilibri e pericoli per l´ecosistema umano e cosmico sarebbero riconducibili alla spaccatura moderna tra il sapere scientifico e quello umanistico.
Di fatto, i risultati cui le ricerche scientifiche pervengono, e che le tecnologie rendono operativi e incidenti sulla forma della nostra esistenza, suscitano una serie di problemi che esigono un livello esplicativo ulteriore, all´interno del quale le conquiste acquisite possano trovare intellegibilità e senso, evitando di diventare controproducenti, e cioè in fin dei conti di ritorcersi contro l´uomo. L´apertura a un orizzonte sapienziale diverso, ma non contrastante con quello scientifico, è senza dubbio frutto di un personale atto di libertà e di conoscenza, ma può emergere da una ricerca metodologicamente corretta come possibilità di una dimensione interpretativa che dischiuda prospettive inclusive di comprensione e di senso. D´altra parte, i risultati e le proposte maturate in ambito scientifico non possono non interpellare i credenti a prendere posizione, aprendosi a un dialogo interdisciplinare che, al di là di obsoleti steccati e di sterili separazioni fra conoscenza e coscienza, fede e scienza, dogma e ricerca, permetta uno sguardo sulla realtà nella sua globalità e nei suoi diversi livelli di significato.
Non si tratta di sovrapporre una visione metafisica astratta di natura umana all´esperienza umana vissuta e indagata dalla fede e dalla ragione, dalla teologia e dalla scienza, ma piuttosto di cogliere le istanze di senso che si dischiudono in forma positiva da ciascuna di esse, mettendole in dialogo tra loro con reciproco rispetto. Se la scienza è essenziale nel definire quali sono i fondamenti e le condizioni biologiche dell´esistere fisico dell´essere umano, la riflessione filosofica e la teologia sono chiamate a dischiuderne il senso integrale e trascendente, le coordinate del suo ethos e dunque anche i vincoli morali cui debbono rispondere la sperimentazione scientifica e l´ingegneria genetica.
Il Concilio Vaticano II afferma che «nell´intimo della coscienza l´uomo scopre una legge che non è lui a darsi, ma alla quale invece deve obbedire e la cui voce lo chiama sempre ad amare e a fare il bene e a fuggire il male... obbedire ad essa è la dignità stessa dell´uomo». La coscienza non si trova di fronte a precetti estrinsecamente imposti: ma a un progetto aperto da attuare nella gratuità e nella libertà responsabile. In ascolto della nostra umanità.
(L´autore è preside dell´Istituto Universitario Sophia e presidente dell´Associazione Teologica Italiana)

Repubblica 6.10.10
Il neurologo
"E per battere la depressione impariamo a usare la luce"
È utile risolvere dei problemi, un comportamento attivo aiuta la memoria
di p.co.


ROMA - «La prima regola per mantenere il benessere psicofisico è combattere lo stress, responsabile della degenerazione dei neuroni». È il suggerimento di Piergiorgio Strata, presidente dell´istituto nazionale di Neuroscienze che avverte: «Invece di rilassarsi c´è chi, terrorizzato dall´Alzheimer, con i brain training games diventa nevrotico».
Come allenare al meglio il cervello?
«Sono utili quelle attività che servono a esprimersi e risolvere dei problemi, e che prevedono una "fase attiva": migliorano memoria e benessere. Una strategia antistress passa dall´ascolto della musica, utile anche la meditazione»
Come valuta gli effetti della luce e del cibo?
«La luce ha una fondamentale funzione antidepressiva e il nostro cervello è sensibile all´ambiente: stare all´aria aperta aiuta il benessere psicofisico e stimola l´ipotalamo che regola l´attività endocrina. Si tende ad esagerare sulle proprietà di certi cibi sulle capacità cognitive, mentre sono stati provati gli effetti nocivi di chi ne abusa rispetto al deterioramento del cervello».
Che pensa degli stimoli elettrici?
«Un filone di ricerca interessante ma ancora da approfondire: è allo studio la sua valenza applicativa per trattare i malati di Parkinson».

Repubblica 6.10.10
A sei anni dalla morte, convegni e libri ricordano il filosofo
Perché ci serve ricostruire Derrida
Grande studioso e uomo pieno di inquietudini, colse prima di altri i limiti del postmoderno
di Maurizio Ferraris


Sei anni fa moriva Jacques Derrida, grande filosofo e uomo pieno di inquietudini, generosità e segreti che vengono raccontati nella splendida biografia di Benoît Peeters, Derrida, appena uscita da Flammarion. Qui ho letto che proprio nei giorni della sua agonia si era sparsa la voce che avrebbe vinto il Nobel per la letteratura. Quando sua moglie glielo disse, Derrida incominciò a piangere: «Vogliono darmelo perché sto morendo».
Sono quasi le ultime parole di Derrida, che peraltro aveva già preparato un biglietto di congedo dagli amici che suo figlio Pierre lesse al funerale, in una giornata già fredda e con un vento che portava via la sua voce, quasi a confermare il detto verba volant, scripta manent, in cui si potrebbe condensare l´intuizione teorica fondamentale di Derrida.
Sotto il profilo pratico, però, il cruccio di Derrida, prima della fine, era la constatazione di una sorta di effetto collaterale del suo pensiero, e cioè che la volontà di decostruire la contrapposizione tra vero e falso si fosse paradossalmente realizzata nel mondo del populismo mediatico, dove i fatti sembrano dissolversi nel mare delle interpretazioni. Diversamente che nelle speranze della decostruzione, però, l´addolcimento dei fatti non si era accompagnato a un qualche esito emancipativo, ma era spesso tornato a vantaggio di chi "fa i fatti", per esempio dichiarando guerra sulla base di finte prove dell´esistenza di armi di distruzione di massa.
Così il motto di Nietzsche "non ci sono fatti, solo interpretazioni" veniva alla fine a confondersi con "la ragione del più forte è sempre la migliore". Non è un caso che negli ultimi scritti questo verso fosse una specie di Leitmotiv di Derrida, la cui ultima produzione appare come un ripensamento del momento più funambolico della decostruzione: lo stile si fa più pacato, e la critica nei confronti del presente, in particolare nei confronti della politica americana dopo l´11 settembre, è forte e, soprattutto, chiara.
Cogliendo prima di altri i limiti del postmoderno, Derrida aveva incominciato a ricostruire la decostruzione. A sei anni dalla sua morte i lavori sono ancora in corso. Ma cosa significa "ricostruire la decostruzione"? Un primo senso è storico, e consiste nel ricostruire che cosa sia stata – nella sua forza e nei suoi limiti – e più complessivamente a cosa reagisse questo tentativo di fluidificazione di un mondo, quello del dopoguerra, che si presentava come una realtà blindata, fatta di blocchi contrapposti e di identità a tutto tondo. Questo lavoro non è solo interno alla filosofia, e ci permetterà un giorno di comprendere fenomeni oggi difficilmente decifrabili anche perché circonfusi nella luce di un mito positivo o negativo, come per l´appunto il Sessantotto, il postmoderno e il populismo.
Ma c´è un altro senso, teorico, in cui "ricostruire la decostruzione" significa fornire una versione costruttiva e positiva della decostruzione, al di là degli effetti di stile e dell´insistenza sulla critica che caratterizzava il lavoro di Derrida. Nel 1967 usciva un grande libro, Della grammatologia, in cui Derrida, quando tutti erano convinti che la scrittura sarebbe scomparsa, sosteneva che avremmo assistito a una esplosione della scrittura, di cui non si può fare a meno perché è la condizione di possibilità degli individui e della società. Solo che poi, dopo avere enunciato questa tesi dirompente e profetica, si impegnava, con acume e ironia a mostrare come nella tradizione filosofica, da Platone a Heidegger, il ruolo della scrittura fosse stato rimosso a favore della voce, inseguendo il sogno di un contatto immediato tra gli uomini.
Per quello che mi riguarda, continuare un dialogo interrotto soltanto dalla morte di Derrida ha significato articolare in tre sensi l´intuizione fondamentale dello scripta manent. Anzitutto, dando la massima evidenza concreta al lavoro filosofico: la rimozione della scrittura a favore della voce non si trova solo in Platone, ma anche nei telefonini, in cui nessuno, neppure un esperto, avrebbe mai sospettato l´esplosione degli sms. In secondo luogo elaborandola sul piano concettuale, trovando le leggi costitutive per cui la scrittura e la registrazione danno vita a promesse, scommesse, denaro, matrimoni e divorzi, insomma alla nostra felicità e alla nostra infelicità.
In terzo luogo, e soprattutto, limitando la portata del detto di Derrida "nulla esiste al di fuori del testo". No, diciamo piuttosto che "nulla di sociale esiste al di fuori del testo"; ma al di fuori del testo rimane un mondo intero, reale, e indifferente a tutte le nostre interpretazioni. Indifferente, per esempio, alla dichiarazione di un Presidente che, credendo di "fare i fatti", il 1° maggio 2003 dichiarò che in Iraq la missione era compiuta e avevano vinto gli Americani.

Repubblica 6.10.10
Se le biblioteche restano senza libri
"Non si comprano più nuovi titoli. Cerchiamo donatori e sponsor"
Aumentano gli iscritti ma sono quasi bloccati gli acquisti a causa dei tagli: è il paradosso dei luoghi pubblici della lettura in Italia
"Così muoiono le piazze della cultura. Perché qui la gente s´incontra e scopre il piacere dei testi"
Nel 2011 i budget verranno ridotti anche del 35% E si dovrà ridurre anche l’orario
di Michele Smargiassi


La signora poggiò timida sul bancone una copia di Acciaio di Silvia Avallone: «L´ho già letto, posso regalarvelo? Così lo legge qualcun altro... ». In quel momento Monica Grilli, bibliotecaria di Villa Spada a Bologna, capì cos´è una biblioteca nel cuore di un lettore.
«Da otto mesi non acquistavamo un solo libro, noi che di solito stavamo sulle cinquanta novità a settimana. I lettori erano in crisi d´astinenza. Allora qualcuno ha cominciato a comprarli e a donarceli». Per colpa di un pasticcio burocratico (un appalto slittato), Bologna sta sperimentando quel che potrebbe accadere fra poche settimane in tutta Italia, quando la mannaia dei tagli ai bilanci degli enti locali cadrà pesantemente sulle biblioteche di pubblica lettura, le più popolari e frequentate, quelle comunali e di quartiere, le 5265 bibliotechine senza spocchia che saziano quotidianamente, come drogherie all´angolo, la fame di pagine di alcuni milioni di italiani. «Siamo felici di accettare donazioni», è il cartello-appello apparso sulla porta della biblioteca Delfini di Modena.
Non è da oggi che le biblioteche soffrono. Le forbici della crisi dei bilanci comunali (che coprono l´80% degli acquisti di libri "pubblici") tagliano nel vivo da almeno tre anni. In Lombardia, per esempio, dove i lettori continuano ad aumentare (+19% in tre anni) l´inversione di tendenza è iniziata nel 2008, quando per la prima volta in dieci anni i fondi destinati alla pubblica lettura sono diminuiti, da 138 a 132 milioni di euro. Finora però c´è stato spazio per economie strutturali, si è rimediato tagliando qualche attività collaterale, o disdicendo qualche abbonamento alle riviste meno popolari. Ma adesso le previsioni sono nere. «Dovunque è la stessa storia», ammette sconfortata Chiara Silla dalla Regione Toscana, «i bibliotecari mi chiamano allarmati: l´assessore mi ha avvertito, sarà dura quest´anno...». L´Aib (Associazione Italiana Biblioteche) paventa tagli tra il 15 e il 35 per cento nei bilanci 2011, che si sommeranno a quelli del 7-10% già patiti l´anno scorso. «Le piccole economie non basteranno più. Bisognerà scegliere fra la riduzione dell´orario o la riduzione degli acquisti».
Scelta straziante. Gli orari di apertura sono già ovunque ridotti all´osso, di più non si può. A Bologna la bellissima Salaborsa, che già aveva anticipato tra le proteste la chiusura alle 19, forse chiuderà alle 18 e tutti i lunedì, mentre della invocata apertura domenicale non si parla più. Angelo Guglielmi, critico letterario, uomo di libri ma anche amministratore di libri (ex assessore a Bologna, appunto), non ha il minimo dubbio: «Se proprio devo scegliere tra chiudere un´ora prima e acquistare un libro in meno, scelgo la seconda. Le biblioteche di quartiere sono le vere biblioteche, dove va la gente che lavora, sono il maggiore investimento in cultura che possa fare una comunità. Non servirebbe a niente riempirle di libri nuovi e poi chiuderle a metà pomeriggio».
Ma anche calare la scure sugli acquisti è rischioso. Dopo il rinnovo, la biblioteca San Giorgio di Pistoia ha visto più che quintuplicare i prestiti, da 23 a 150 mila: sarebbero stati gli stessi senza l´afflusso di "sangue fresco"? Per Silla, «tagliare le novità è una scelta suicida. Le biblioteche mangiano libri freschi, se glieli togli muoiono di fame». Per una biblioteca, un "buco" anche solo di un anno nell´aggiornamento del catalogo è una perdita di memoria: il vuoto non si recupera più. Rischiamo di avere, tra qualche anno, un sistema bibliotecario malato di Alzheimer. I bibliotecari reagiscono come possono. Centralizzano gli acquisti per ottenere sconti dagli editori (così in Lombardia sono stati compensati i minori stanziamenti 2009), coordinano i cataloghi fra biblioteche vicine, e ricorrono sempre più spesso al prestito inter-bibliotecario, che però rende le biblioteche a "scaffale aperto" più simili alle vecchie biblioteche a catalogo.
Nonostante questo, i numeri della crisi sono impietosi: sugli scaffali delle 83 biblioteche del Vicentino, riferisce il direttore della Bertoliana di Vicenza Giorgio Lotto, sono arrivati nell´ultimo semestre il 15 per cento di titoli in meno rispetto all´anno precedente. «Stiamo rischiando grosso», s´allarma Mauro Guerrini, presidente dell´Associazione italiana biblioteche, «non è solo un problema di aggiornamento culturale, ma di democrazia. Le biblioteche sono i luoghi della socialità, dell´integrazione, della ridistribuzione del sapere. In un piccolo centro sono spesso l´unica risorsa contro il digital divide, in una città offrono un punto d´incontro fra generazioni e culture. Strozzarne la vitalità danneggia tutta la società, non è solo un fastidio per i lettori. Guai a superare la soglia critica».
Proprio in questi giorni il governo, attraverso il Centro per il libro e la lettura, lancia con enfasi la campagna Ottobre, piovono libri. Ma nelle biblioteche di questo stesso Stato sta arrivando la siccità. Impossibile sapere come andrà a finire: ogni comune, ogni assessore farà le sue scelte. In gran parte del meridione biblioteche squattrinate confidano solo sui finanziamenti regionali, ridotti a zero quasi ovunque: in Calabria il bilancio pluriennale 2010-2012 non prevede stanziamenti per le biblioteche, e solo un´insurrezione dell´Aib ha evitato che in Sicilia le forbici riducessero i fondi per i libri a meno di un terzo. Ma perfino in Toscana sta succedendo qualcosa di inusitato: l´iniziativa Un milione di libri, pensata dalla Regione come promozione della lettura, rischia di essere sostitutiva e non aggiuntiva dei capitoli di spesa ordinaria delle singole biblioteche.
Sponsor privati, per i libri, è difficile trovarne. Un bel marchio sull´inaugurazione di una mostra si fa notare, su un libro della biblioteca no. Oppure sì? Silla lancia una proposta disperata: «Siamo disposti a infilare in ogni volume un segnalibro che dica ‘stai leggendo questo libro grazie a... ´. Tutto pur di evitare il black-out». Funzionerà? Una lunga tradizione di indifferenza verso gli strumenti del sapere scritto induce pessimismo. I bibliotecari continuano a raccontarsi, ghignando malinconicamente, la frase che pare sia davvero uscita di bocca a un alto amministratore pubblico, messo di fronte al grido di dolore delle biblioteche: «Chiedono ancora libri? Ma non glieli abbiamo già comprati l´anno scorso? Cos´è, li hanno già letti tutti?».

Repubblica 6.10.10
Van Gogh e i suoi maestri
Quel viaggio a colori dentro l´anima di campagne e città
di Lea Mattarella


Da venerdì, al complesso del Vittoriano di Roma, 70 opere del grande pittore olandese vengono affiancate a 30 dipinti di artisti come Gauguin, Millet e Cézanne
Al centro della rassegna il rapporto con l´ambiente rurale e la realtà urbana
C´è sempre in agguato l´occhio allucinato che costruisce immagini a vortice

La leggenda Van Gogh sbarca a Roma al Complesso del Vittoriano. Con qualcosa di più. La mostra Vincent Van Gogh, Campagna senza tempo - Città moderna, curata da Cornelia Homburg permette infatti di far luce su alcuni aspetti inediti della produzione del pittore olandese, contribuendo a far piazza pulita dei luoghi comuni che spesso lo accompagnano. Sembra incredibile che l´artista più amato del Novecento, probabilmente anche il più studiato e comunque colui che, con la sua vita drammatica e la sua pittura impetuosa, carica di espressività e di pathos, ha ispirato fiumi di inchiostro e chilometri di pellicola, abbia ancora qualche zona da scoprire. Eppure è così.
Viene qui indagato l´ancora inesplorato rapporto tra città e campagna, che si rivela costante nella sua pittura dagli esordi fino agli ultimi, tragici giorni che lo vedono togliersi la vita nel 1890 a soli 37 anni. In una specie di match che mostra tutta l´essenza simbolica, carica di significati di questi spazi. Paesaggi, certamente. Ma anche luoghi dello spirito.
Van Gogh è considerato uno dei più straordinari e originali interpreti dell´ambiente rurale. E non c´è dubbio sia così. Tutti sanno che il suo capolavoro giovanile, I mangiatori di patate, trasforma in eroi dalle membra deformate di una fatica senza tempo, un gruppo di contadini ritratti intorno a un tavolo nella loro umile casa. Ma questo è soltanto un lato del suo sguardo sul mondo. Già agli inizi della carriera, e non soltanto negli eroici anni parigini, l´artista si lascia sedurre dalla città che per lui significa movimento, progresso, irrompere della modernità. Mentre la campagna, con il susseguirsi delle stagioni, il lavoro nei campi, il sole che sorge e tramonta, è il luogo del ripetersi immutabile degli eventi, di una rassicurante circolarità, lo spazio urbano ha il sapore di ciò che è nuovo. E quindi attrae e, nello stesso tempo, crea repulsione. E tra la realtà rurale e quella cittadina c´è un mondo incerto, di passaggio, a cavallo tra i due: il sobborgo, la periferia. E anche questo diventa un grande palcoscenico su cui lavorare, dove le differenze si specchiano, le contraddizioni si esaltano, o magari finiscono per mostrare una loro segreta affinità.
Questo viaggio tra città e campagna, che l´artista ha afferrato con occhio nostalgico oppure inquieto, ma comunque con la foga di chi sta cercando qualcosa di più di una semplice rappresentazione del reale, perché insegue un senso e, addirittura, una verità, attraversa paesaggi, campi e ciminiere, strade, parchi cittadini, cascine. Entra anche nelle case e mostra i volti di chi le abita: da quelli dei contadini, dei tessitori del suo periodo olandese, scuro e bituminoso, fino alla Vecchia Arlesiana, dipinta ormai con la tavolozza chiara che Van Gogh conquista in Francia a contatto con la pittura impressionista, e al Giardiniere, immerso in un paesaggio giallo, come costruito da sole e grano. E poi c´è lui. Il suo sguardo da genio sregolato, ma anche consapevole del suo valore, punge il cuore di chi guarda in tre capolavori che lo inquadrano, alternativamente ma con la stessa fierezza, come un cittadino elegante e sofisticato o come un semplice uomo di campagna con il cappello di paglia e la pipa. Sono dipinti tra il 1886 e il 1887, anni memorabili per Vincent che proprio nell´86 lascia l´Olanda e arriva in Francia dove scopre la potenza del colore puro, della luce e di una pennellata libera e veloce, rivoluzionando non soltanto il suo modo di dipingere ma, anche, per sempre, tutta la pittura del suo tempo. Passato il ciclone Van Gogh, niente sarà più lo stesso.
La qualità dell´esposizione non è soltanto nell´infilata di capolavori che provengono dai più importanti musei del mondo, (dal Van Gogh Museum naturalmente, ma anche dal Solomon R. Guggenheim, dal Louvre, dall´Art Institut of Chicago, dal Rijksmuseum e da molti altri ancora), ma nella coerenza e nel rigore del percorso espositivo in cui ogni opera è come il tassello di un mosaico, il capitolo di un romanzo. Non c´è un quadro che esca dalla partitura. E i due soggetti scelti, il loro scontrarsi e incontrarsi restituiscono il pittore a tutto tondo, attraverso un settantina di opere autografe. A cui se ne aggiungono quaranta degli artisti che lo hanno influenzato: dagli olandesi come Anton Mauve e Anthon Van Rappard al François Millet che lui chiamava père. E poi i capolavori di Paul Gauguin che vive con Van Gogh una breve stagione di comunione di intenti e di lavoro, terminata drammaticamente a Arles, di Paul Cézanne, Camille Pissaro fino a Georges Seurat e Paul Signac che lo introducono al divisionismo. Tra gli amori dell´olandese va ricordato Honoré Daumier di cui Van Gogh copia i Quattro bevitori inserendovi però un particolare significativo per l´idea della mostra: il profilo di una città con il fumo delle ciminiere.
Ecco la sua oscurità nei primi paesaggi in cui sembra sempre che stia per arrivare il temporale. È una campagna, quella dipinta in Olanda, difficile, grigia, fatta di ombre. Eppure per Van Gogh le case coloniche, le cascine dai tetti di paglia resteranno per sempre edifici protettivi, come "nidi di uccelli". Li ritroverà a Saint Remy e a Auvers-sur-Oise e li inquadrerà ancora, sebbene con un fare rapido e un colore puro e totalizzante ormai completamente diversi. Albe, tramonti, torri nella nebbia, contadini che sorgono dalla terra come alberi nodosi sono i soggetti del primo Van Gogh. Non li abbandonerà mai. È il suo stile che cambia, diventando inconfondibile. Ci sono momenti di pace e serenità come nel Ponte sulla Senna d´Asnières, dove si intravede il fumo delle ciminiere di una città che qui, stranamente, non è minacciosa, perché tutto è rosato e sul fiume passano anche le barche. O negli Albicocchi in fiore, i Cipressi con figure, le coppie nei parchi. Ma c´è sempre, in agguato, l´occhio allucinato, la mano febbrile che costruisce l´immagine a vortice, come fosse investita da un vento impetuoso. E sul Seminatore che naviga incerto in un campo blu di notte incombe la città che si allarga, a volte abbracciando, più spesso minacciando. Così nello stesso quadro si incontrano i due temi paralleli: città e campagna. Che altro non sono che il destino dell´uomo.

Repubblica 6.10.10
L'avventura creativa di un genio inquieto
Il tormento da cui nascevano i capolavori
di Achille Bonito Oliva


Ho sempre pensato che l´artista è un errore biologico rispetto alla propria opera. Sennò come si conciliano gli accesi fuochi fatui della pittura di Van Gogh con il suo autolesionismo biografico che lo porta al suicidio: un colpo di pistola in una buca di letame fertilizzante. Ci resta infatti una serie di capolavori a futura memoria di un artista che era riuscito ad imparare molto bene una lezione involontaria, «considerare il dolore senza ripugnanza».
Eppure aveva cominciato la sua avventura creativa, sempre sostenuta anche economicamente dal fratello Theo, con uno sguardo sul fuori del mondo, della detenzione e del lavoro. Certo erano già cupi i disegni di allora e i colori che sigillavano immagini di oppressione psicologica e di denuncia sociale.
All´inizio Van Gogh considera l´arte come un farmakon, che con una forte denuncia iconografica può lenire ogni ingiustizia sociale e poi ogni angoscia personale, liberarlo dalla prigionia di cui è lui stesso vittima e carnefice: il mondo interiore.
Questo universo si dimostra più slittante, insidioso e sconfinato di quanto non possa essere una cella di una comune prigione. Qui dentro, nella sua pittura, davanti c´è il bel canto e dietro la tortura. Un Io liquido lo possiede fino a travolgere ogni divisione tra mondo interiore e quello esteriore.
La sua mano accende continui fuochi fatui cromatici che non riescono a scontornare il suo dolore, la perdita di controllo e le derive della sua mente. Insomma a Van Gogh non basta dar cornice agli orrori della propria sofferenza, quello che lui chiama "l´orrore spaventoso".
Per questo sotto il suo sguardo gli alberi si contorcono, le forme si attorcigliano su se stesse secondo un serpentinato di una sofferenza inarrestabile. Così il suo Autoritratto, l´Arlesiana, la Notte stellata, la sua Camera, portano sempre il timbro deformato di una visione del mondo che anticipa l´espressionismo, quello figurativo delle avanguardie storiche e quello astratto delle neo-avanguardie del secondo dopoguerra.
Si comprende che, quando l´8 maggio del 1889 entra nell´ospedale psichiatrico di Saint-Rémy de Provence, per rimanervi ricoverato 13 mesi, ormai la pittura non è più un farmaco, non riesce a lenire alcuna sofferenza, semmai a rendere visibile l´invisibile, portare alla luce ogni tortura interiore come pura rappresentazione di un dolore ormai tautologico, senza ragione.
Van Gogh crea una sorta di diretta iconografica, una messa in visione stereofonica e squillante, per timbro cromatico del suo squilibrio, invaso ormai da uno sguardo obbligato, quasi anamorfico sulle cose che lo circondano. Come se il suo sguardo accartocciasse il mondo nel momento in cui si poggia sulla pelle del paesaggio e degli uomini con cui è costretto a convivere.

Corriere della Sera 6.10.10
Ateismo, una via per arrivare a Dio
di Giulio Giorello


È vero, pratico il consiglio del poeta Cecil Day Lewis, alias il giallista Nicholas Blake: mai lasciarsi coinvolgere in una discussione con dei teologi. Faccio, però, un’eccezione per rispondere alle garbate critiche che dalle pagine di «Avvenire» (5 ottobre) Vittorio Possenti rivolge al mio libro Senza Dio, edito da Longanesi. In breve, non mi sarei occupato abbastanza dell’Altissimo, rischiando così di «confondere il Signore con il Dio Padrone». Ma non è «padrone» il primo significato di quel termine — dominus — cui tanta teologia ha consacrato i suoi sforzi d’intelletto e sentimento?
Possenti mostra così che ho colpito nel segno, poiché la mia idea di ateismo è quella di una provocazione continua ai credenti e ai praticanti di qualsiasi religione a chiarire i loro presupposti, nella convinzione che questo lavoro serva a tutti, credenti o non credenti: l’ateismo è soprattutto un metodo. Possenti mi chiede: per arrivare a che cosa? Potrei ribattere con le parole di un mio «lettore»: magari per «arrivare a Dio prescindendo da Dio». Ossia da tutte le gabbie in cui i signori della teologia e della morale hanno imprigionato il Dio che ci parla in grandi testi come i Vangeli o il Corano, facendone semplicemente un pretesto per giustificare coazione o gerarchia.
Concordo con Possenti che solo nella coscienza può sorgere l’esigenza della legge morale e civile, ma non vedo proprio perché io o qualsiasi altro «libertario» dobbiamo indicarne un qualche «fondamento» a cui sottometterci con spirito di «servizio». La possibilità di costruire un’autentica solidarietà senza «fondarla come su solida roccia» (cioè, detto senza retorica, senza imporla a chi la pensa diversamente) non è un dettaglio accademico, ma una questione cruciale per qualsiasi democrazia matura. Proposta per gli amici di «Avvenire» (e per tutti i cattolici aperti al confronto delle idee): perché non proviamo a rispondere insieme?

Corriere della Sera 6.10.10
Quando Petrarca scoprì l’onore
di Franco Cordelli


Dobbiamo chiederci cosa indica questo termine: è solo difesa della democrazia?
La scrittrice Chiara Valerio su «l’Unità» di ieri pone a Luciana Castellina dieci domande non già politiche, o sulla politica, ma che si potrebbero definire di natura etica: quali sono i valori (e i disvalori) nell’Italia di oggi? Le prime due e le ultime due riguardano la donna, il ruolo e la posizione della donna, come essa viene valutata (ovvero svalutata), come vi sia una dignità possibile, una risposta alla sempre più incalzante e asfissiante immagine di degradazione.
Non sempre, personalmente, sono d’ accordo con le domande della Valerio. Non tutte le donne provenienti dalla destra offrono di sé figure meno che dignitose. Penso sia giusto premetterlo, si rischia altrimenti di vedere un mondo fin troppo facile da descrivere, troppo rassicurante, e dell’intervista alla Castellina non vi sarebbe neppure bisogno. È lei stessa, l’ex parlamentare di Rifondazione e giornalista del «Manifesto», a chiarire nella prima risposta che gli estremi non aiutano né a vivere né a capire: «Non è vero che la presenza delle donne in politica abbia una relazione di dipendenza carnale o di violenza». Sta pensando ai casi di donne diventate ministro per ragioni improprie o a Marilyn Monroe, morta in circostanze misteriose. «La normalità», dice Luciana Castellina, «è già un’alternativa». Poi, più sotto, insiste: «La politica non è il balletto intorno al summit del potere. Molte donne fanno politica nelle Ong o in ambiti culturali».
Altri luoghi comuni che la Castellina spazza via: perché presupporre (in modo crescente) «che la sinistra si vesta con cachemire e la destra con i maglioni»? Non è forse (aggiungo io) una coltre culturale, che si distende su di noi come menzogna, il convincere che la sinistra altro non sia se non quella delle sue élite? O, ancora, altro luogo comune che la Castellina respinge: «Sono allergica all’introduzione di termini inglesi in politica. I care. Mission. La storpiatura dell’italiano in nome di un’anglofilia che corrisponde a un’americanizzazione culturale e politica».
Ma forse il punto caldo, il più interessante dell’intervista, è nella domanda: «Le parole Onore e Ordine sono di destra? E Senso dello Stato?». Sul secondo punto della domanda la Castellina risponde che Senso dello Stato «è un’espressione di destra, perché sottintende qualsiasi Stato». D’altra parte «che non ci siano parole di destra o di sinistra è sintomo della degenerazione della nostra cultura politica. La sinistra ha smarrito le sue parole, le parole corrispondono a concetti e a fatti». Il primo punto della domanda è però cruciale. «L’onore dei combattenti, dei martiri della democrazia è di sinistra. La parola Onore è sì stata legata alla Patria e alle peggiori cose che la Patria ha fatto, ma la letteratura della Resistenza non parla d’altro che di onore». È indubbiamente vero. Così è la letteratura della Resistenza, sia nelle parole di chi è sopravvissuto sia in quelle di chi non lo è.
Tuttavia, l’uso della parola onore, e il suo concetto, la sua idea non direi siano così pacificamente di sinistra. Nel suo monumentale Forma del vivere, una storia dei moralisti classici italiani, Amedeo Quondam riconosce in Petrarca il suo capostipite. «Qui — dice — si elaborala forma del vivere del nuovo vir bonus: tale per onore e per virtù». Per onore, dunque. Fin dalla metà del XIV secolo. Ma che cos’è onore? È solo difesa della democrazia? O non è qualcosa di complesso, di molteplice, di più antico? Molte sono le ragioni di virtù legate al concetto di onore, questo Luciana Castellina che si richiama alla sacrosanta normalità lo deve riconoscere.
Forse nell’onore sono comprese risposte di fedeltà a virtù che per lei (e per me) sono estranee, ma non per questo meno legittime per chi in loro nome si sia sacrificato.

Corriere della Sera 6.10.10
E la donna non fu più una cosa
Gianfranco Ravasi rilegge il Comandamento della passione e dell’amore
di Armando Torno


Nel libro dell’Esodo (20,17) si legge: «Non desidererai la casa del tuo prossimo. Non desidererai la moglie del tuo prossimo, né il suo schiavo, né la sua schiava, né il suo bue, né il suo asino, né alcuna cosa appartenente al tuo prossimo». Un comandamento ribadito in una formulazione successiva nel libro del Deuteronomio (5,21), con alcune varianti. Se nell’Esodo il primato spetta alla «casa» ( bêt), intesa nella sua dimensione globale che va oltre quella dell’edificio, nel Deuteronomio la donna è estrapolata dall’asse patrimoniale e acquista una posizione autonoma, anzi un primato distintivo: «Non desiderare la moglie del tuo prossimo» precede ed è separato dalla «brama» per le proprietà del capofamiglia. Non a caso l’autore sacro muta il verbo del «desiderio», introducendo la radicale ’wh che denota una maggiore avidità e materialità. Queste osservazioni, con le varianti linguistiche e i relativi significati, si trovano nell’ultimo saggio di Gianfranco Ravasi che, con Andrea Tagliapietra, ha scritto per Il Mulino (nella serie dedicata ai comandamenti) Non desiderare la donna e la roba d’altri (in libreria domani, 7 ottobre, pp. 160 e 12). Ravasi, che ha appena pubblicato da Mondadori Questioni di fede. 150 risposte ai perché di chi crede e di chi non crede ( pp. 266, 19) intervenendo sulle domande più spinose e cruciali, nonché su interrogativi insoliti e curiosi, ha intitolato il suo scritto per il libro de Il Mulino Non desidererai la moglie e la casa del tuo prossimo; Tagliapietra, invece, L’ultima delle dieci parole ovvero non desiderare. Dalla nuova interpretazione del comandamento scritta da Ravasi per l’editrice bolognese offriamo in anteprima un estratto riguardante l’«oggetto del desiderio». Sì, il desiderio. Se per Aristotele nel De anima rappresenta «l’appetizione di ciò che è piacevole», Heidegger in Essere e tempo l’ha connesso ontologicamente alla natura dell’uomo, mentre Spinoza incantò romantici e idealisti con la definizione dell’Etica: «La tristezza che riguarda la mancanza della cosa che amiamo». Ravasi in Non desidererai la moglie e la casa del tuo prossimo ricorda che il desiderio è una delle componenti capitali e positive della spiritualità biblica, anche se per la fede continua a conservare un’ambiguità. Del resto, nella Prima Lettera di Giovanni (2,16) si legge il monito contro la bramosia che lo ha trasformato in concupiscenza. Senza la quale, tuttavia, per Oscar Wilde, la vita si riempirebbe di sbadigli. Ha scritto in Lady Windermere’s Fan: «Preferisco le donne con un passato. La loro conversazione è sempre così maledettamente divertente».

Corriere della Sera 6.10.10
Sesso e corpo: i vocaboli del desiderio
di Gianfranco Ravasi


È suggestivo osservare che il vocabolo ebraico del desiderio sessuale, teshuqah, che nella Genesi rappresentava l’oscura pulsione sessuale («Verso tuo marito sarà la tua teshuqah / desiderio, ed egli ti dominerà», 3,16), nel Cantico viene riproposto come segno di donazione e di comunione totale: «Io sono del mio amato e la sua teshuqah / desiderio è verso di me» (7,10). Certo, il desiderio non elide la sua componente sessuale ed erotica, come appare nelle stupende rappresentazioni dei corpi dei due innamorati (capitoli 4; 5; 7). Anche Pio XII, in un discorso del 29 ottobre 1951, affermava: «Il Creatore stesso ha stabilito che nella reciproca donazione fisica totale gli sposi provino un piacere e una soddisfazione sia del corpo sia dello spirito. Quindi, gli sposi non commettono nessun male cercando tale piacere e godendone. Accettano quello che il Creatore ha voluto per loro». La sessualità e l’eros devono però inserirsi nella donazione d’amore che trasforma e trasfigura il desiderio facendolo tendere a quella pienezza, totalità, assolutezza che la donna del Cantico esprime nella sua «professione d’amore»: «Il mio amato è mio e io sono sua. Io sono del mio amato e il mio amato è mio» (2,16; 6,3).
La tensione rimane perché la creatura umana è fragile e può contaminare la purezza assoluta della donazione. Questa tensione, però, è anche positiva. Infatti, il desiderio di sua natura rimane sempre mobile e dinamico, e dev’essere conservato anche in questa sua qualità: essa è ben rappresentata dallo stupore e dalla tenerezza, che brillano soprattutto nello sbocciare dell’amore. Il desiderio dovrebbe saper mantenere continuamente questo clima di dolcezza, questa sorta di «stato nascente» dell’amore che ne rivela la vitalità, ma anche il suo non essere un possesso acquisito. Come si è già detto, pur nell’abbraccio, la coppia del Cantico sa che sempre deve correre verso «i monti dei balsami» (2,17; 8,14). Si intuisce, così, anche nel desiderio dell’amore umano, quell’ «insoddisfacibilità» che è tensione verso l’assoluto e l’infinito: è l’«inquietudine» agostiniana che può «riposare» solo nella trascendenza e quindi in Dio. Per questo possiamo parlare di «simbolicità» del desiderio: esso vive nella realtà concreta, presente e temporale, ma al tempo stesso si protende verso l’Altro, l’Oltre, lo Spirito, l’Eterno. Lacan, che al desiderio ha dedicato un’analisi interessante (basata sulla nostalgia del bambino separato dalla madre), connettendosi proprio al linguaggio simbolico, dichiarava: «Se bisogna fondare la nozione dell’Altro con una A maiuscola come il luogo della parola, bisogna affermare che, essendo l’uomo un animale in preda al linguaggio, il suo desiderio è il desiderio dell’Altro».
La storia umana è scandita da grandi desideri che, come il mare è composto da tante gocce, si costruiscono e si sviluppano a partire da singoli desideri personali. Si ha, in tal modo, una tensione universale e costante non solo «verticale» nel procedere oltre che è propria del desiderio, ma anche «orizzontale» fra desideri opposti, negativi e positivi. È quello che è illustrato a livello generale dalla Città di Dio agostiniana ed è anche ciò che, nel microcosmo del singolo, ha descritto sant’Ignazio di Loyola nella sua parabola delle «due bandiere»: esse hanno schiere opposte di seguaci, in marcia verso mete antitetiche, spinti dai loro desideri. La dinamica della storia universale e di quella personale presuppone, dunque, anche uno scenario tenebroso. Ai figli della luce si accostano e si oppongono i figli delle tenebre, alla tavola luminosa del desiderio dell’amore si allinea in un dittico anche la tavola notturna del desiderio degenerato che tende verso il negativo, l’abisso infernale. Anche la Bibbia raffigura in modo plastico questo desiderio cieco, indomabile e dotato di un suo insaziabile dinamismo, di un’insoddisfazione inestinguibile. Pensiamo, per esempio, al racconto — straordinario anche a livello psicologico — della passione cieca di Ammon che lo conduce allo stupro di una sua sorellastra, la bellissima Tamar, figlia di suo padre, il re Davide: «Ammon afferrò Tamar e le disse: Dài, unisciti a me, amore mio! E lei: No, fratello mio, non farmi violenza! Non commettere questa infamia! Egli però non ne volle sapere: era più forte di lei e la violentò unendosi a lei. Ma dopo l’atto, Ammon provò verso di lei un odio grandissimo, l’odio che sentiva verso di lei era ben più potente dell’amore con cui l’aveva prima amata» (si legga l’intero testo 2 Sam 13, 1-17). La brutalità della pulsione insita nel desiderio affiora spesso nelle narrazioni bibliche: le scene di Sodoma (Gen 19) e di Gàbaa, quest’ultima ancor più truculenta (Gdc 19), descrivono le crude e brutali passioni come pure le violente e infami pulsioni degli uomini della steppa che ancor oggi si ripetono nei deserti metropolitani.

Avvenire 6.10.10
Dio non esiste? Pochi lo affermano con convinzione. Molti pensano di poter fare a meno di Lui. La riflessione dello storico Poulat
Non ci sono più gli atei di una volta
di Èmile Poulat


Sylvain Maréchal (1750­ 1803) è ancora conosciuto per il suo Dizionario degli atei antichi e moderni (1800), dove non si lesina sui nomi: ci sono Pascal, sant’Agostino e perfino Gesù, ovvero tutti quelli che sono stati critici con la religione della loro epoca. Però questo discepolo di Lucrezio detestava gli atei del suo tempo, gente che veniva da un’aristocrazia libertina, dissoluta, perversa. Per reazione aveva fondato una «lega dei senza-Dio» e le aveva dato una liturgia che, ogni dieci giorni, celebrava il culto della virtù. Di certo non si tratta della maggior preoccupazione dei nostri contemporanei, tuttavia questa distinzione merita di essere annotata e ripresa in un altro senso.
Ateo e ateismo sono parole attestate nella lingua francese dalla metà del XVI secolo. La loro diffusione sarà lenta e a volte curiosa (vedi Balzac e la sua Messa dell’ateo ). Oggi l’ateismo fa pochi seguaci: in Francia, l’Unione degli atei non dovrebbe superare i 2 o 3000 aderenti. Vi si aggiungono quanti preferiscono definirsi liberi pensatori, umanisti, razionalisti, materialisti (termine però caduto in disuso) o libertari («Né Dio, né maestro»).
Tutti costoro esprimono una convinzione forte e chiara, spesso militante. Si contrappongono così a quelli che si dicono decisamente, profondamente religiosi in base a un’appartenenza: in genere cattolica, protestante, ortodossa, ebraica, musulmana, buddhista.
Il mondo vago della «non credenza» oggi è maggioritario in Francia. I sociologi hanno mostrato la sua differenza e misurato il grado e le forme di legame alle grandi denominazioni religiose, nel senso di un crescente allontanamento. Ciò che domina oggi è quello che in termini dotti si chiama agnosticismo e indifferentismo, accompagnato da un crollo – in una o due generazioni – della cultura religiosa tradizionale veicolata dal catechismo, dalla scuola e dall’ambiente. Resiste in modo oscuro, celato a un’osservazione frettolosa, ciò che Serge Bonnet ha definito le «preghiere segrete dei francesi moderni» e la loro alchimia: un immenso terreno incolto o quasi.
Gli atteggiamenti e le iniziative «missionarie» della Chiesa francese di fronte all’ateismo aspettano ancora il loro studio sistematico e ragionato. Nel 1940, nella piccola serie «Cattolica» di Gallimard, padre Sertillanges, domenicano conosciuto per la sua apertura, pubblicava un opuscoletto, Atei, fratelli miei . «Non esistono atei, ci sono soltanto persone che credono di esserlo; ci sono soltanto degli incoscienti», scriveva. È il pensiero espresso da Jean-Luc Marion in una recente conferenza in Svezia: l’ateismo è impossibile. Il cardinal Veuillot, futuro arcivescovo di Parigi, esigeva dai padri Le Sourd e Liégé, autori di Credenti e non credenti oggi (1962), la sottolineatura che l’ateismo era peccato grave. Nel 1965, il Vaticano II lo collocava «tra i fatti più gravi del nostro tempo» e creava un Segretariato per i non credenti di cui il cardinal Poupard ha assunto la direzione per un quarto di secolo.
Siamo così passati dal Dio-Sole (i nostri ostensori), luce del mondo (lux mundi), a ciò che Léon Brunschwig, professore alla Sorbona, definiva nel 1928 La disputa dell’ateismo e il suo successore Étienne Souriau nel 1955 L’Ombra di Dio.
Torna qui la vecchia distinzione di Sylvain Maréchal, pronta per un nuovo uso: l’ateo è colui che – a torto o a ragione – afferma la sua convinzione che Dio non esiste o almeno che non c’è alcuna prova della sua esistenza. L’uomo senza Dio è colui che, molto semplicemente, senza farsi troppi problemi, fa a meno di Dio, pensa senza di lui ed esiste senza di lui. È decisivo cioè non quanto si agita nel cuore delle persone, e neppure il movimento di un mondo che deve tutto al proprio sforzo, bensì la condizione umana – comune a tutti, credenti e non credenti – compresa tra queste due istanze.
«E Dio in tutto ciò?», chiedeva Jacques Chancel agli ospiti alla fine del suo programma
Radioscopia. Ad ognuno la sua risposta, ma – quale che sia – dovrà tener conto del rullo compressore all’opera «in tutto ciò». Dio era onnipresente.
Esclusa una serie di nicchie a volte anche di una certa importanza, è diventato o diventa onni-assente nella vita sociale, pubblica o privata. È la crescente pressione della quotidianità a costruire l’uomo contemporaneo. Si tratta di un dato essenziale per una riflessione cattolica preoccupata dell’«apertura al mondo» e sempre a rischio di ripiegamento su se stessa.
(per gentile concessione del quotidiano «La Croix»)