giovedì 7 ottobre 2010

Agi 7.10.10
Sarah: Fagioli, non è un caso speciale, montato per coprire altro

(AGI) - Roma, 7 ott. - Non e' un caso speciale, particolare ed eccezionale: e' diffusissimo da tempo in ambito familiare. C'e' qualcosa di nuovo? Non mi pare, casi del genere accadono spesso e quando non accadano e' perche' la donna tace. Semmai c'e' una montatura di esso, per coprire altre efferatezze: lo scandalo della pedofilia, con gli abusi di tanti bambini anche da parte dei preti. Lo afferma lo psichiatra Massimo Fagioli, per il quale l'assassino della giovane Sarah, il vecchio zio materno, e' tutto sommato "una persona normale, tranquilla, lucida, con un rapporto con la realta' materiale, cose ed oggetti, preciso, ma alterato con la realta' umana". Anzi, per come sono andate le cose, "direi pure intelligente ma - chiosa - criminale per la ferocia dell'atto". Quel che lo psichiatra stigmatizza e' 'l'eccesso di interesse' per un caso, uccidere una donna se si rifiuta, ripetutosi da diversi anni e quasi ogni giorno. "La montatura di questo caso mi pare evidente e serve a nascondere e negare ben altri casi di efferatezza: abusare di bambino per me e' l'atto piu' orrendo che ci sia", conclude.


l’Unità 7.10.10
L’intervista
Marc Augé: «Rendiamo eterno il presente per paura del futuro»
L’antropologo francese parla del «nontempo» che caratterizza la nostra epoca e dei rischi di una società globale divisa in classi che ci porterà verso una pericolosa «oligarchia planetaria» piena di disuguaglianze
di Flore Murard-Yovanovitch


Immigrazione e Rom
«Non esiste una “questione Rom”, ma una cattiva accoglienza dei Rom. Quanto alla multietnicità è un fenomeno naturale»
L’ultimo suo appuntamento italiano è stato il Festival della Filosofia svoltosi il mese scorso a Modena Carpi e Sassuolo. Ma non sono i «luoghi» a interessare Marc Augé, e neanche il tempo... Al «nonluogo», il neologismo da lui coniato nel ’92, ha ora aggiunto il «nontempo», ovverosia il presente eterno che caratterizza questa nostra epoca recente. Abbiamo incontrato il celebre antropologo francese in un nonluogo e nel nontempo per chiedergli uno sguardo sulla costruzione di un’Europa multietnica, sulle attuali reazioni di xenofobia che Francia e Italia hanno in comune e sul tema della diversità.
Professor Augé, cominciando dal presente, che fine ha fatto l’idea di uguaglianza nella società contemporanea?
«A livello globale c’è più ricchezza, ma non funziona il meccanismo di redistribuzione e il divario tra ricchi e poveri sta aumentando in modo vertiginoso. La società globale verso cui andiamo è irriducibilmente divisa in classi. Non puntiamo, perciò, verso una “democrazia planetaria”, come pensa Fukuyama, bensì verso una “oligarchia” planetaria... Con il rischio di una disuguaglianza inimmaginabile oggi, perché riguarda soprattutto la conoscenza, tra quelli che saranno alla punta del sapere e quelli chiusi in una permanenza del non sapere».
Ma c’è ancora un futuro, visto che nel suo recente libro «Che fine ha fatto il futuro?» parla del «nontempo» che sarebbe davanti a noi? «Oggi c’è una sorta di ideologia del presente, si parla molto meno del “tempo”. Siamo accerchiati da strumenti di comunicazione che ci bombardano di messaggi e di immagini. C’è una istantaneità che, combinata alla sovrabbondanza visiva, dà l’impressione di essere rinchiusi dentro una specie di presente “artificiale”, eterno». Dalle sue parole sembra che siamo condannati all’«eterno ritorno dell’uguale» di nietzschiana memoria...
«È solo una impressione, che corrisponde alla nostra paura del futuro. Anche se la storia e la scienza vanno avanti velocemente, c’è come una sorta di rifiuto del presente. Abbiamo la coscienza che il pianeta è fragile, i nostri sogni di benessere non si realizzano, non c’è uguaglianza sociale e la storia è violenta. Ne sembriamo sorpresi,
allorché la storia è sempre stata violenta». Come spiega che, nonostante il suo tragico passato di nazismo e fascismo, in Europa stiano riapparendo discorsi e atti xenofobi?
«C’è una crescita dei movimenti di estrema destra in Europa occidentale e nei paesi ex comunisti, come avevo già segnalato anni fa. L’Occidente ha una sua reazione di paura, ma non è l’unica, anche altri sono violenti. Ci sono ideologie mortifere nell’ombra, situazioni di tensione che purtroppo possono essere facilmente strumentalizzate».
A questo proposito, esiste una reale «questione Rom» o è una costruzione mediatica e politica? «Non c’è un “problema Rom”, ma una questione di cattiva accoglienza dei Rom. Le strutture abitative non sono all’altezza, non hanno nemmeno decenti connessioni energetiche di base. Invece ci sarebbero cospicui finanziamenti europei per creare una degna politica di integrazione, ma essi sono sottoutilizzati e persino non utilizzati dai governi. D’altro canto, è una questione fittizia, dal momento che i rumeni sono comunitari, liberi di tornare quando lo desiderano, e che in Francia, i due terzi della cosiddetta “gente del viaggio” sono cittadini francesi. L’argomento, almeno nel mio Paese, è bassamente elettorale, in vista delle prossime elezioni».
Ma in Europa c’è, in generale, un attacco all’essere umano diverso, all’immigrato... «L’Europa è cambiata molto con l’immigrazione, è in corso un inedito rinnovamento della popolazione. Basta scendere nella metro parigina e la multietnicità salta agli occhi. Ma solo quando ci sono crisi o incidenti, si parla, e in termini negativi, della diversità... Quando invece si potrebbe riconoscere come essa sia “accaduta” in modo del tutto naturale e con una positività dei nuovi rapporti interculturali. Non sono convinto, d’altronde, che il fenomeno di rifiuto del diverso sia maggioritario.
Con questi presupposti, quale rivoluzione culturale e politica è auspicabile? «L’espressione “rivoluzione culturale” è troppo connotata storicamente. Fermo restando che la nozione di cultura e quella di rivoluzione dovrebbero essere sinonimi. La cultura dovrebbe essere sempre critica se non rivoluzionaria. La cultura non è lo specchio dell’esistente ma la sua disamina, la sua messa in causa; dovrebbe essere attenta, vigile. La cultura non è apolitica. E la politica, come la morale, dovrebbe ispirarsi alla scienza, che è il contrario della ideologia: fondarsi sullo stesso spirito della ricerca, prospettare ipotesi, cercare soluzioni anche provvisorie, formulare idee nuove, senza basarsi sui modelli del passato. Per questo faccio anzi l’elogio del futuro».

Chi è. Lo studioso che ha «inventato» il nonluogo
MARC AUGÉ

Già Directeur d’études presso l’Ecole des Hautes Etudes en Sciences Sociales di Parigi, dopo aver contribuito allo sviluppo delle discipline africanistiche ha elaborato un’antropologia della pluralità dei mondi contemporanei attenta alla dimensione rituale del quotidiano e della modernità. Ha inoltre focalizzato la sua attenzione su una serie di esperienze contemporanee che attraversano la progettazione urbanistica, le forme dell’arte contemporanea e l’espressione letteraria. Tra le sue opere tradotte di recente: «Rovine e macerie» (Torino 2004); «Perché viviamo» (Roma 2004); «Tra i confini. Città, luoghi, interazioni» (Milano 2007); «Il mestiere dell’antropologo» (Torino 2007); «Il bello della bicicletta» (Torino 2009); «Il metrò rivisitato» (Milano 2009); «Che fine ha fatto il futuro? Dai non luoghi al nontempo» (Milano 2009). È componente del Comitato Scientifico del Consorzio per il festivalfilosofia.

Un etnologo nel metrò Pensieri sulla mobilità
Tra le ultime pubblicazioni in Italia di Marc Augé, due libri sulla «mobilità»... «Per un’antropologia della mobilità» (pagine 91, euro 12, Jaca Book), nel quale si occupa del concetto di frontiera, da ripensare nel mondo globale restituendone il significato profondo, quello di «passaggio» (e non sbarramento) e, metaforicamente, di avvenire e speranza. «Un etnologo nel metrò» (pagine 108, euro 12, Eleuthera) è uno studio sugli utenti del metro di Parigi: storie individuali (di individui che passano dalla vita familiare alla vita professionale, dal lavoro al tempo libero) e collettive che si sfiorano, si sovrappongono,

l’Unità 7.10.10
Il tribunale di Firenze solleva il dubbio di incostituzionalità dopo il ricorso di due piemontesi
Il governo: difenderemo noi la legge 40. Sacconi cita il premier: «Magistrati ideologizzati»
Fecondazione eterologa «La legge torni alla Consulta»
La legge sulla fecondazione assistita è già stata bocciata dalla Corte sull’impianto di tre embrioni insieme. Il Pd: normativa ideologica e da cambiare. Roccella: vogliono che torni il Far West.
di F. Fan.


La Legge 40 sulla fecondazione assistita torna al vaglio della Corte Costituzionale. Un anno fa la Consulta si era già pronunciata abrogando il divieto di impianto contemporaneo di tre embrioni e di crioconservazione degli stessi. Adesso la prima sezione del tribunale civile di Firenze ha sollevato il dubbio di costituzionalità per la parte che vieta la fecondazione eterologa (con ovuli o seme di donatore esterno alla coppia).
Il governo fa quadrato intorno alla legge 40, voluta e approvata dal centrodestra nel 2004 e sopravvissuta al referendum: «La difenderemo» annuncia il ministro della Salute Fazio, mentre per il titolare del Lavoro Sacconi «c’è il timore che alcuni settori ideologizzati della magistratura cerchino rivalsa». Tesi condivisa dal sottosegretario alla Salute Eugenia Roccella: «Tribunali invasivi, vogliono smantellare la legge e tornare alla deregulation». Per il ciellino Maurizio Lupi «c’è un giudice a Firenze», ma non è un bene. Per Paola Binetti (Udc) si vuole «sovvertire il sistema delle regole democratiche».
Al contrario, Pd e IdV denunciano una «legge ideologica» e da rivedere. Bersani depreca che l’esecutivo «bastoni» le toghe che si muovono nel solco della Costituzione.
Marino replica alla Roccella che «il Far West c’è già» dato che chi può va all’estero per aggirare i divieti, e invita a riaprire il dialogo «senza tabù». Contrari a revisioni, nel Pd, Grassi, Bosone e Baio. Fiduciosi sull’esito del ricorso sono i medici-pionieri Antinori e Flamigni. E sulla coincidenza con il riconoscimento arrivato al padre della Fivet Robert Edwards scherza Paolo Ferrero: «La decisione fiorentina merita il Nobel».
I ricorrenti sono una coppia piemontese, impiegati di 35 e 37 anni. Lui soffre di azoospermia per terapie ricevute durante l’adolescenza: l’unica chance è offerta dall’utilizzo di materiale genetico altrui. Dopo sei tentativi a Lugano, Praga e Barcellona, hanno deciso di reagire. Si sono rivolti all’Associazione Luca Coscioni che li ha seguiti, tramite gli avvocati Gianni Baldini e Filomena Gallo. I due legali hanno sollevato rilievi accolti dal giudice fiorentino di «manifesta irragionevolezza del divieto assoluto di eterologa per l'evidente sproporzione mezzi-fini» e di «illegittima intromissione del legislatore in aspetti intimi e personali della vita privata».
Il punto di svolta arriva ad aprile di quest’anno. La Corte Europea dei Diritti dell’Uomo accoglie il ricorso di due coppie austriache che lamentavano una discriminazione (rispetto a coppie con sterilità meno gravi e risolvibili all’interno della coppia) e un’intromissione in aspetti fondamentali della vita privata quali le scelte procreative. I giudici lussemburghesi condannano l’Austria ad abrogare il divieto. Il ragionamento degli avvocati, dato che l’Italia ha ratificato la convenzione Ue dei Diritti umani, è che i principi di diritto contenuti nelle sentenze della Corte europea abbiano valore anche nel nostro Paese. Addirittura, fanno notare Baldini e Gallo, secondo il Trattato di Lisbona (anch’esso firmato dall’Italia), tali decisioni sarebbero direttamente applicabili senza bisogno della mediazione di un organo giudiziario nazionale.
Si attende il responso. La Legge 40 è già stata sconfessata in più parti dai magistrati. Dopo l’eliminazione dell’obbligo di impianto di 3 embrioni, considerato pericoloso per la salute della donna e del feto, restano irrisolte altre questioni. La diagnosi preimpianto necessaria per individuare malattie genetiche o ereditarie è stata bocciata ma al riguardo servono nuove linee guida. Se la Consulta confermasse i dubbi rispetto alla fecondazione eterologa, un altro pilastro della legge verrebbe a cadere.

il Fatto 7.10.10
La vita della legge 40 decisa dalla Corte costituzionale
di Wanda Marra


“Abbiamo    tentato per due anni. E per caso abbiamo scoperto che il problema di mio marito la mancanza di spermatozoi ci avrebbe impedito di avere figli”. A parlare è E. G., impiegata piemontese, architetto di 38 anni. È la protagonista, con il marito, M. C. di 34 anni, dell’ultimo, significativo, caso legato alla legge 40, che regola la procreazione assistita, in vigore dal 2004 e tornata in auge dopo le critiche del Vaticano al Nobel per la Medicina Edwards.
I DUE PIEMONTESI dopo aver percorso il “calvario” ormai condiviso da molte coppie sterili italiane, con i viaggi della speranza all’estero (sei i tentativi falliti in Svizzera e a Praga) e dopo essersi visti negare la fecondazione eterologa da un centro fiorentino, si sono rivolti all’Associazione Luca Coscioni, e agli avvocati Filomena Gallo e Gianni Baldini, che hanno presentato ricorso al Tribunale di Firenze. Con sentenza depositata ieri i giudici hanno deciso di sollevare il caso di fronte alla Corte costituzionale, che a questo punto dovrà riesaminare il testo.
Una legge controversa, la 40, che ha resistito anche a un referendum abrogativo con 4 quesiti e che è oggetto di una guerra giuridica, a colpi di ricorsi e sentenze della Corte costituzionale. Considerata da molti una “legge ideologica” (come ha ribadito ieri la piddina Livia Turco), anticostituzionale, oscurantista e di fatto lesiva della salute della donna, ha tra i punti cardine, il fatto che il ricorso alla procreazione assistita è consentito solo “qualora non vi siano altri metodi terapeutici efficaci per rimuovere le cause di sterilità o infertilità”. Proibisce, oltre alla fecondazione eterologa (cioè quella ottenuta con ovuli o seme non appartenenti alla coppia), “qualsiasi forma di selezione a scopo eugenetico degli embrioni e dei gameti” (passaggio tra più dibattuti dell’intero provvedimento, poiché vieta alle coppie, comprese quelle con malattie genetiche ereditarie, la diagnosi pre-impianto per stanare eventuali problemi del nascituro) e il congelamento degli embrioni. E imporre che gli embrioni prodotti (fino a un massimo di 3) vengano impiantati contemporaneamente, anche se malati.
“Violazione degli articoli 3 e 11 della Costituzione italiana, relativi rispettivamente al diritto di non discriminazione e all'obbligo di recepire il diritto comunitario”, le motivazioni della sentenza del Tribunale di Firenze. Ha spiegato Baldini: “Il giudice ha riconosciuto le istanze mosse dalla coppia, dopo aver rilevato profili di manifesta irragionevolezza del divieto assoluto di Pma eterologa per l’evidente sproporzione mezzi-fini; e di illegittima intromissione del legislatore in aspetti intimi e personali della vita privata. Questo pronunciamento, inoltre, ha a che fare anche con il Trattato di Lisbona, nel quale si afferma che le decisioni della Corte europea dei diritti dell’uomo sono direttamente applicabili nel nostro ordinamento”.
IN REALTÀ, LA LEGGE 40 da quando è entrata in vigore è stata messa in discussione da ricorsi e sentenze pezzo per pezzo. In particolare, quello di ieri è il secondo rinvio alla Consulta, sempre del Tribunale di Firenze, che già due anni fa si rivolse ai giudici costituzionali i quali accolsero il rilievo eliminando l’obbligo di produzione di soli tre embrioni in ogni ciclo di fecondazione, l’obbligo del loro contemporaneo impianto, e annullando anche il divieto di congelamento degli embrioni in sovrannumero.
La sentenza ha riaperto anche il dibattito politico. Il Pdl ha parlato addirittura di tradi “disprezzo della volontà popolare”, facendo riferimento al fallimento dei referendum. Sulla procreazione "c’è una legge e va rispettata", ha affermato il ministro della Salute Ferruccio Fazio, mentre il sottosegretario Eugenia Roccella parla di rischio di “deregulation” e di un “ritorno al Far West” della procreazione. Rincara il ministro del Welfare Maurizio Sacconi per il quale “non si può entrare nella logica della selezione della specie”. L'Osservatore Romano, poi, interviene affermando il no alla “corsa al ribasso” innescata dalle tecniche di fecondazione artificiale, e indica il vero problema nella “prevenzione della sterilità”, spesso dovuta a un errato stile di vita e all’aumento dell’età media in cui le donne fanno figli.
Di segno opposto le reazioni del centrosinistra: La presidente dei senatori del Pd, Anna Finocchiaro, rileva che “il Far West c’è già ed è causato proprio dalla legge 40”. Ignazio Marino (Pd) e Ignazio Palagiano (Idv) chiedono un cambiamento urgente delle legge. E intanto altre 5 coppie hanno annunciato il ricorso in Tribunale contro il divieto dell’eterologa.

Repubblica 7.10.10
Umberto Veronesi, oncologo e senatore Pd: tutelare la capacità di autodeterminazione
"Per un figlio è giusto avere la libertà di ricorrere a tutti i mezzi disponibili"
Un bambino è tuo in quanto lo hai desiderato è allevato, il patrimonio genetico non c´entra con l´amore
di Carlo Brambilla


MILANO - «Penso che un figlio sia tuo figlio in quanto lo hai desiderato e lo hai allevato. Il patrimonio genetico non è rilevante ai fini dell´amore genitoriale» Umberto Veronesi, oncologo e senatore del Pd, impegnato da anni sui temi della laicità della scienza, commenta favorevolmente la decisione del Tribunale di Firenze che ha sollevato il dubbio di costituzionalità sulla norma della legge sulla fecondazione artificiale con la quale si vieta la fecondazione eterologa.
Nel caso di cui si è occupato il Tribunale di Firenze, i coniugi chiedevano una fecondazione eterologa, perché l´uomo soffre di mancanza di spermatozoi.
«Nel caso specifico della coppia di Firenze ci troviamo di fronte a una condizione umana obiettivamente drammatica perché il compagno è un uomo perfettamente sano a cui alcune cure nell´infanzia hanno bloccato la spermatogenesi, cioè la capacità di produrre spermatozoi. Penso sia giusto che, in mancanza di una capacità procreativa si possa ovviare al problema con una fecondazione eterologa. Anche perché con una fecondazione di questo tipo il 50% del dna appartiene comunque a uno dei genitori».
Il divieto di fecondazione eterologa è una invasione della legge nella sfera delle libertà personali?
«Sì. La Corte Europea dei Diritti dell´Uomo si è espressa in questo senso. Prima di tutto il legislatore europeo difende l´autonomia decisionale della coppia e la capacità di autodeterminazione delle persone. Se una coppia lo vuole deve poter ricorrere ai mezzi disponibili. E sicuri per la salute della mamma e del bambino».
Cosa pensa delle prese di posizione contrarie del Vaticano?
«Che il Vaticano abbia sollevato polemiche è comprensibile e legittimo, perché il loro obiettivo è diffondere il credo cristiano. E chi crede che la vita sia dono e proprietà di Dio non può ricorrere a metodi anticoncezionali né a metodi di procreazione assistita. Ma questo riguarda, appunto, i fedeli. Chi non crede o aderisce ad altre religioni o anche chi ritiene in coscienza di non infrangere alcuna regola ricorrendo alla donazione di ovuli dovrebbe avere il diritto di poterlo fare».

Repubblica 7.10.10
Sei anni di battaglie e sentenze così la legge è stata smantellata
Dalla diagnosi pre-impianto agli embrioni congelati, quanti pezzi persi per strada
di Maria Novella De Luca


ROMA - Sei anni di battaglie e di ricorsi. Di bimbi nati e di altri attesi invano. Di coppie con la valigia sempre pronta per viaggi della speranza nelle cliniche della fertilità. Di donne e uomini affetti da malattie genetiche esclusi dalla possibilità di diventare genitori. Ora che il divieto di fecondazione eterologa, ultimo cardine della legge 40 sulla procreazione assistita approvata il 19 febbraio del 2004, verrà sottoposto alla Consulta, l´intera legge appare come bombardata, di fatto priva di senso e di autorità. A forza di sentenze di tribunali civili, tribunali regionali, e soprattutto di pronunciamenti della Consulta, tutti gli articoli più contestati sono stati via via smantellati.
Approvata dopo una battaglia più politica e ideologica che scientifica, la legge è stata poi confermata dal referendum del 2005, che doveva abrogarne alcuni articoli, ma non è riuscito a raggiungere il quorum. Ed è iniziata allora, nel 2005, la battaglia legale, così come avevano promesso le associazioni. «Faremo una valanga di ricorsi in nome di tutte le coppie sterili, discriminate da questa legge». Sia nelle aule dei tribunali che con atti di vera e propria disubbidienza civile. Ed è stata una donna sarda, Simona, affetta da talassemia, a compiere nella primavera del 2005 la prima azione di resistenza. Simona rifiuta di farsi impiantare gli embrioni che aveva prodotto con una fecondazione assistita, violando l´articolo della legge che prevedeva l´obbligatorietà. «Chiedo di fare la diagnosi pre-impianto, altrimenti rischio di mettere al mondo un bimbo malato». I ginecologi dell´ospedale Microcitremico di Cagliari sono costretti a congelare gli embrioni. Nel settembre del 2007 Simona vince la sua battaglia, e il tribunale del capoluogo sardo ammette la diagnosi pre-impianto sugli embrioni, pur in presenza del divieto della legge 40.
Migliaia di coppie intanto "migrano" ovunque nel mondo pur di riuscire ad avere un bambino. La Spagna è la meta preferita, ma i paesi dell´Est inaugurano il low cost della fecondazione, in una corsa, spesso pericolosa, al ricchissimo business della procreazione. Intanto aumentano i ricorsi di coppie che chiedono di poter congelare gli embrioni, di non doverli impiantare tutti e tre, e di accedere alla fecondazione eterologa. Nel 2008 il ministro della Salute Livia Turco vara delle nuove linee guida: è una piccola rivoluzione. Pur nelle strettissime maglie della legge 40 la Turco introduce un´apertura alla diagnosi pre-impianto e ammette il ricorso alle tecniche per le persone affette da Hiv o epatite C. Avvocati e coppie, medici e costituzionalisti, insieme ad associazioni come Hera di Catania, Amica Cicogna e Luca Coscioni, si costituiscono in vere e proprie class action contro la legge.
Nell´aprile del 2009 arriva la spallata più forte: la Consulta dichiara incostituzionali gli articoli che riguardano il divieto di crioconservazione degli embrioni, il divieto di congelarli, e la diagnosi pre-impianto. In moltissimi centri si ricominciano ad eseguire le tecniche vietate da oltre 5 anni. Un anno dopo, siamo ormai allo scorso inverno, si ricostituisce la class action contro l´articolo 4, ossia il divieto di fecondazione eterologa. Il 21 maggio del 2010 è tribunale di Strasburgo a pronunciarsi: «La fecondazione eterologa è un diritto», dicono i giudici europei. Poi le date incalzano: pochi giorni fa Robert Edwards, inventore della fecondazione in vitro riceve il Nobel per la Medicina. La Chiesa insorge, tuona contro l´etica violata. Ieri infine il tribunale di Firenze che rinvia la parola alla Consulta. Che dovrà ora pronunciarsi sull´articolo 4, il più difficile, il più controverso.

l’Unità 7.10.10
Sui temi etici il Pd cominci a dire dei sì e dei no chiari
Testamento biologico e legge 40 da rivedere. Non si possono avere esitazioni, saranno entrambi temi della campagna elettorale. E i cittadini attendono posizioni non equivoche
di Ignazio Marino


Decidere presto
Evitiamo che si arrivi ancora una volta al parere dirimente della magistratura per risolvere il conflitto tra le leggi e tra queste e i progressi della conoscenza

Louise Brown, 32 anni, mamma di un bambino di 4. La storia di una donna che ha cambiato la storia di milioni di altre è tornata in questi giorni all’attenzione del mondo, con l’assegnazione del premio Nobel per la medicina a Robert Edwards, padre della fecondazione assistita.
Louise il 25 luglio 1978 divenne infatti la prima bambina al mondo nata dopo un concepimento in provetta. Oggi alla fecondazione assistita si ricorre non solo per problemi di infertilità all'interno di una coppia, ma anche per evitare la trasmissione di malattie genetiche dai genitori al figlio.
Nel 2010 Edwards è dunque il papà scientifico di oltre 4 milioni di persone, ma purtroppo sono relativamente pochi gli italiani nati in Italia, che a lui devono la vita: il nostro paese, imbrigliato dalla legge 40, costringe infatti migliaia di coppie con problemi di fertilità a rivolgersi all’estero.
Eppure, proviamo a ragionare: se consideriamo normale e responsabile eseguire dei controlli prima di una gravidanza, con lo scopo di individuare eventuali malattie, allora perché in uno Stato laico non dovrebbe essere normale, avendo lo stesso obiettivo, la diagnosi preimpianto? Perché la legge dovrebbe obbligare una donna all'impianto anche di un embrione con una gravissima malattia genetica e poi consentire di interrompere la gravidanza con l'aborto?
A rispondere la Corte Costituzionale, che due anni fa eliminò l'obbligo di produzione di soli tre embrioni in ogni ciclo di fecondazione e l'obbligo del loro contemporaneo impianto. La Consulta è adesso nuovamente chiamata a rispondere dal tribunale civile di Firenze, questa volta sulla costituzionalità della norma che vieta alle coppie sterili di accedere alla fecondazione eterologa, con ovuli e seme donati da altri. Il sottosegretario alla salute Roccella teme il ritorno al far west, ma il far west è già qui, con la confusione che regna nei centri per la riproduzione assistita e tra le coppie, costrette al turismo riproduttivo.
L’impostazione generale della legge 40 è ideologica, dunque sbagliata: articolo per articolo, il testo viene sostanzialmente modificato, dovendo fare i conti con le evidenze scientifiche e il dettato costituzionale. Eppure sarebbe bastato, sei anni fa, gettare uno sguardo al resto d’Europa e magari fare anche un salto oltreoceano.
Nel Regno Unito, che vede il Prof. Edwards insegnare a Cambridge, nel 2006 è stata autorizzata per la prima volta la selezione embrionale in una coppia che non aveva problemi di fertilità. Lì a decidere è l'Authority per l'embriologia e la fecondazione assistita. In Spagna vi è un’analoga commissione speciale. E la selezione embrionale, negli Stati Uniti, viene autorizzata anche nel caso di rischio di una mutazione di un gene responsabile, per esempio, di un tumore al colon, sebbene non sia certa l’insorgenza della malattia.
L’America è lontana, purtroppo, anche sul fronte della ricerca: una delle prime decisioni del Presidente Obama fu quella di eliminare le restrizioni alla ricerca sulle cellule staminali embrionali, che non potevano disporre dei finanziamenti pubblici. D’altro canto, nel 2008, Obama fece della ricerca uno dei punti centrali della sua campagna elettorale. E vinse le elezioni.
Allora lancio un appello al Pd. Dalla legge 40 a quella sul testamento biologico, alla ricerca sulle staminali, i temi etici entreranno con forza nella campagna elettorale e noi dobbiamo essere capaci di dire quei sì e no chiari che tante persone che guardano al Pd con fiducia, si aspettano. Rispetto alla legge sulla riproduzione medicalmente assistita, avanziamo proposte concrete di riforma: prendiamo esempio da paesi che hanno legislazioni coerenti con la conoscenza scientifica e lasciamo che sia un organismo appunto scientifico a fornire linee guida, autorizzare trattamenti e codici di comportamento. Lo stesso vale per la legge sul testamento biologico: non permettiamo che sia approvata alla Camera una legge contro le evidenze scientifiche e le libertà individuali, ma non consentiamo neppure che ci si continui a muovere in quella zona grigia che non tutela né le volontà del malato, né le decisioni del medico. Evitiamo che si arrivi ancora una volta al parere dirimente della magistratura per risolvere il conflitto tra le leggi e tra queste e i progressi della conoscenza. Facciamoci trovare pronti a parlare con una voce sola.

Corriere della Sera 7.10.10
«Bene, quel testo viola la privacy. La Corte lo sta affondando»


ROMA — «La decisione del Tribunale di Firenze mi fa dire: finalmente si fa un po’ di giustizia», sostiene il ginecologo Nino Guglielmino, responsabile del centro Hera di Catania.
«Perché secondo lei la legge 40 è incostituzionale?»
«Perché come ha detto la Corte di Strasburgo il divieto della fecondazione eterologa viola la privacy della coppia e il suo diritto di costruire una famiglia come crede. La fecondazione eterologa è un problema privato della coppia, dice l’Europa. Se qui in Italia non vogliono adeguarsi all’Europa vadano a vivere in Afghanistan. Ma intanto aumenta la ribellione dei cittadini. La legge 40 ha messo il bavaglio: ma ormai questa storia è finita e la Corte costituzionale ci darà ragione come già ha fatto nella sentenza del maggio 2009, quando ha dichiarato incostituzionale l’obbligo dell’«unico e contemporaneo impianto, comunque non superiore a tre embrioni». La Corte ha dichiarato illegittima la legge anche nella parte in cui non prevedeva «che il trasferimento degli embrioni, da realizzare non appena possibile, debba essere effettuato senza pregiudizio della salute della donna».
Fare un figlio comunque ha un rilievo «pubblico» e non meramente privato, da tantissimi punti di vista...
«Bisogna smetterla di intrufolarsi sotto le lenzuola: la riproduzione assistita è ormai a tutti gli effetti una branca della medicina». Quali malattie cura? «La mancanza di spermatozoi negli uomini, dopo una chemioterapia ad esempio. O la menopausa precoce o la perdita delle ovaie nelle donne»
Quale è stata la sua esperienza con le coppie che sono ricorse al vostro centro prima che la legge 40 dichiarasse illegale l’eterologa?
«Che si trattava di coppie felici, e che prima che scattasse il divieto della legge votata nel 2004, tornavano da noi dopo il primo figlio, e ne volevano un altro. C’era una sola cosa che ci chiedevano...» Quale? «Che se fosse stato possibile avrebbero desiderato lo stesso donatore».

l’Unità 7.10.10
Asse trasversale anti «Porcellum». Nasce un gruppo per l’uninominale con elementi del Pdl
Finiani, Pd, Idv, Udc hanno chiesto che la proposta di legge sia discussa alla Camera
Legge elettorale Prove pratiche per un’altra maggioranza
Prove pratiche di governo tecnico: una maggioranza diversa si sta aggregando sul cambiamento della legge elettorale. Su più fronti, infatti, si sta creando un asse trasversale anti «Porcellum».
di Natalia Lombardo


Prove pratiche di governo tecnico: una maggioranza diversa si sta aggregando sul cambiamento della legge elettorale. Su più fronti, infatti, si sta creando un asse trasversale anti «Porcellum»: Pd, Italia dei Valori, Udc e i finiani di Futuro e Libertà, ieri hanno chiesto compatti che delle proposte di legge siano affrontate in commissione alla Camera (al momento si discute al Senato, dove nella Affari Costituzionali c’è solo il finiano Saia). Ed è nato anche un gruppo trasversale di parlamentari per una legge che torni al sistema uninominale maggioritario.
L’importante è il segnale politico che questo fronte manda a Berlusconi, nel caso voglia davvero «staccare la spina», sulla possibilità che nasca un governo tecnico temporaneo che elimini il «Porcellum» come prima cosa. Da Bossi arriva un secco «no» e si permette di lanciare avvertimenti al presidente Napolitano: «Un governo tecnico sarebbe un azzardo».
I «futuristi» di Fini invece aumentano le prove del loro essere determinanti nello spostamento della maggioranza; realtà che ha convinto il Pdl alla conferma delle presidenze di commissione, e ieri la «terza gamba» di Fli è stata riconosciuta nella riunione dei capigruppo di maggioranza (a cinque zampe, se si considerano Mpa e Noi Sud).
Un primo segnale arriva da Montecitorio, dove ieri in commissione Affari Costituzionali il presidente Donato Bruno ha sondato l’orientamento dei gruppi, dopo aver ricevuto il primo ottobre dal presidente Fini una lettera nella quale riportava la richiesta fatta dall’Udc in capigruppo per avviare «sollecitatamente» l’esame alla Camera della legge elettorale. Subito contrari Pdl e Lega, mentre Pd, Udc, Idv e Fli si sono espressi a favore. Ora dovrà vedersela Fini con il presidente del Senato, Schifani, per un eventuale spostamento alla Camera dei disegni di legge. Che un testo sia esaminato in contemporanea dalle due Camere non è possibile, spiega l’ex forzista Bruno ma, secondo il Pd Violante, un doppio incardinanento è possibile solo se si dimostra che l’esame di un testo in un ramo del Parlamento è «puramente ostativo».
COPASIR: BRACCIO DI FERRO INUTILE
E, sempre tra i presidenti delle Camere, dovrà essere risolta la questione del Copasir, bloccato da Pdl e Lega per togliere di mezzo il finiano Carmelo Briguglio e Francesco Rutelli. Partita persa per i berlusconiani: Fini chiarirà che al comitato per la sicurezza non vale la norma delle sostituzioni per ogni gruppo che nasce, perché la composizione del Copasir si basa su 5 membri della maggioranza e 5 dell’opposizione.
Stamattina inoltre si riunisce al Teatro dei Comici a Roma la prima assemblea di un gruppo di parlamentari uniti dalla voglia di «uninominale»: tra i firmatari di un documento ci sono, per il Pdl, Martino, De Angelis, Fleres, Germontani, Gramazio, per il Pd Ceccanti, Chiti, Gentiloni, Ichino, Marino,Morando, Negri, Tonini, e per Fli Baldassarri, Urso, Viespoli.
L’autore della «porcata», il leghista Roberto Calderoli. sbeffeggia: «Non può scrivere la legge elettorale chi ha perso le elezioni contro chi le elezioni le ha vinte. Al ministro, che sostiene come il «Porcellum» sia figlio «della riforma di 55 articoli della Costituzione», il Pd Bressa ricorda che «è figlia di un colpo di mano dell’allora maggioranza che l’ha dettata con un sub-emendamento».

l’Unità 7.10.10
Il barometro di Bersani segna bel tempo «Si apra una stagione breve di transizione»
Il segretario del Partito democratico ieri a Viareggio ha parlato anche della candidatura di Montezemolo. «La legge elettorale non la fa un partito da solo, bisogna discutere con gli altri. E noi siamo disponibili».
di Vladimiro Frullatti


Rifiuta di rispondere per le rime al Vendola che descrive (anche se poi fa un mezzo passo indietro) i dirigenti Pd come «anime morte»: «non userò mai – spiega Bersani una parola meno che amichevole o amorevole verso tutti quelli, Vendola compreso, che devono dare una mano a una battaglia comune», cioè costruire l’alternativa all’attuale governo. Non boccia l'idea (di Bettini) di Montezemolo come «Papa straniero» per il centrosinistra: «Qualsiasi cosa, anche la più fantasiosa – dice con un mezzo sorriso – ve bene pur di battere Berlusconi». Ma, soprattutto, appare fiducioso sulle possibilità che venga cambiata la legge elettorale. Le preoccupazioni del segretario Pd riguardano il Paese. Il non governo di Berlusconi con la continua altalena tregua-scontro con i finiani e lo «spettacolo disdicevole» della pace fra Bossi e Alemanno a polenta e pajata. E gli assalti alle sedi Cisl, atti che Bersani condanna avvertendo che «stiamo arrivando a un livello di guardia» e che «tira una brutta aria».
Il barometro segna bel tempo, secondo Bersani, invece sulla possibilità che in Parlamento si possa mettere insieme una maggioranza per cancellare la «porcata». Le nuvole del resto hanno abbandonato il cielo di Viareggio quando, nel primo pomeriggio il segretario del Pd arriva al convegno della Legautonomie sul federalismo fiscale. Davanti ai tanti sindaci e amministratori (in prima fila il presidente della Toscana Enrico Rossi e il sindaco di Pisa, nonché presidente di Legautonomia, Marco Filippeschi e il segretario del Pd toscano Andrea Manciulli) attacca il «federalismo delle chiacchiere» e annuncia una proposta Pd per una vera riforma federale e fiscale che metta al centro la lotta all’evasione («niente ambulanza a chi non paga le tasse»). Coi giornalisti invece Bersani mostra la propria soddisfazione perché il tema «legge elettorale» ora finalmente è iscritto nell'agenda della politica italiana. «Dopo mesi che lavoriamo perché il tema venga fuori e cominci a camminare – spiega Bersani , mi pare che stia succedendo qualcosa». Un gruppo trasversale (Pd, Pdl e Fli) di parlamentari ad esempio propone il sistema maggioritario uninominale. Bersani dice che il Pd la sua proposta l’ha decisa in assemblea nazionale (maggioritario uninominale a doppio turno), ma aggiunge che «la legge elettorale non la fa un partito da solo, bisogna discutere con gli altri. E noi siamo assolutamente disponibili».
Del resto l’obiettivo è evitare di andare a votare col Porcellum, una legge «vergognosa» che consente a chi prende solo il 34% dei voti di poter eleggere il Capo dello Stato. «Va cambiata prima delle prossime elezioni» scandisce Bersani, che sulla data del voto non si lascia andare a previsioni, ma ripropone l’idea che il dopo Berlusconi possa essere affrontato con una breve stagione di transizione che metta al primo posto, appunto, la riforma della legge elettorale.

l’Unità 7.10.10
Sinistra, il partito che non c’è
di Lidia Ravera


Un fantasma si aggira per l’Europa: lo sconfittismo di sinistra. Non si tratta soltanto di un calo generalizzato dei consensi(sono in perdita i partiti europei del PSE, salvo poche eccezioni. È eroso dalle risse interne e fragile il centrosinistra italiano), quanto di una persistente malinconia politica. Come se certi princìpi, eguaglianza solidarietà centralità del lavoro eccetera, fossero da archiviare come modelli buoni per le passerelle del passato. Strano, no? Voglio dire: la crisi economica e finanziaria, l’aumento della disoccupazione, la precarietà, i tagli al wellfare, la crescita delle diseguaglianze, l’aumento delle povertà e l’assenza di mobilità sociale dovrebbero portare, a un rilancio degli “ideali” della sinistra, più per necessità che per virtù. Mai come in questo momento s’avrebbe bisogno di un solido robusto e coeso grande partito di opposizione alle derive e ai guasti del sistema capitalistico. Non tanto per dare ricovero agli orfani degli antichi ideali, gente non più giovane (e quindi da rottamare secondo l’etica consumista), quanto per dare una speranza a disoccupati, maloccupati, cassintegrati, precari della scuola del terziario e dell’industria, operai ricattati da Marchionne, insegnanti malpagati, donne costrette al ruolo di ammortizzatori sociali, mamme senza servizi e quindi senza diritto al lavoro, risparmiatori fregati dai giocolieri della finanza, cittadini oberati dal costo dell’economia illegale (appalti truccati, sprechi lottizzati..), migranti sfruttati & perseguitati. Avrebbe una base davvero estesa, un ipotetico Grande Partito di Sinistra. Potrebbe lottare perché l’acqua resti un bene comune e non si buttino soldi nel rischioso nucleare... potrebbe, se nascesse...Invece, nella Modesta Sala Parto della Storia, è nato, con violenza, con taglio cesareo (e sappiamo tutti Cesare chi è), un altro par-
tito di destra. Il Fli.

Corriere della Sera 7.10.10
Il «manifesto futurista» piace a sinistra Firmano Cacciari, Marramao e Borgna
Iniziativa a Milano il 25 ottobre. Granata: Fini attrae gli intellettuali
di Alessandro Trocino


ROMA — Citazioni di Hannah Arendt, Nietzsche, Spinoza, Pintor e Calamandrei. Gnosticismo diffuso, in passaggi come «arteriosclerosi ideologica della ripetizione infeconda», «metamorfosi come patire attivo», «investimento sulla paideia». Ecco il «Manifesto di Ottobre», rivoluzione «futurista» che vuole spezzare «il grande silenzio» evocato da Alberto Asor Rosa e rianimare gli intellettuali per rendere «irreversibile la formazione di un nuovo soggetto pericoloso». Il manifesto-appello sarà presentato a Milano il 25 ottobre. Tra chi è stato chiamato nel gruppo (anche se non tutti hanno lavorato al manifesto) ci sono vecchie conoscenze della destra — come Franco Cardini, Peppe Nanni, Umberto Crotti e Angelo Mellone —, ma anche insospettabili esponenti dell’intellighentzia di sinistra: dal già ultra veltroniano Gianni Borgna all’irrequieto Massimo Cacciari, dall’antropologo Franco La Cecla al filosofo Giacomo Marramao.
Tutti insieme appassionatamente e trasversalmente, compresa la storica del teatro Monica Centanni e Costanza Messina, giovane direttrice del festival del Paesaggio, chiamata forse a decrittare «il sommovimento geologico delle categorie». Il manifesto non sarà quello ufficiale del partito, ma uno sforzo voluto dal Forum delle Idee, da FareFuturo e Libertiamo, le tre fondazioni di impronta finiana. Fabio Granata — presente al seminario di ieri insieme a Flavia Perina e Benedetto Della Vedova — è entusiasta: «Sarà un manifesto del patriottismo repubblicano. Un appello trasversale che unisce chi è affascinato da Fini».
Giacomo Marramao, studioso del marxismo, era assente però ci sta: «Ho sempre militato a sinistra, ma sono attento verso quello che avviene nell’area finiana. Lavorare al di là degli schieramenti tradizionali è un modo per lasciarsi alle spalle un passato tragico di divisioni». Nella fascinazione per la «rivoluzione futurista», c’è anche la delusione verso «la sinistra»: «I partiti a un certo punto hanno ritenuto di essere autosufficienti: gli intellettuali, ritenuti non controllabili, sono stati guardati con sospetto». Massimo Cacciari — che non ha visto il manifesto, ma solo accolto l’invito al convegno milanese — è d’accordo: «Tutte le iniziative che rompono gli steccati sono utili. Vedo un positivo rinnovamento negli equilibri politici. Nel ’900 c’è stata una grande cultura di destra. E poi sarebbe una novità che un partito tenesse in considerazione quel che dicono gli intellettuali e non li usasse solo per la propaganda». La Cecla spera che questo «think tank rimanga indipendente da Futuro e libertà»: «Io ho rischiato la galera e la carriera universitaria e non sono mai stato difeso né a destra né a sinistra. È la cultura che cambia un Paese. Speriamo che la politica finalmente se ne accorga».

Corriere della Sera 7.10.10
Frenata sulla crisi e nuovi scenari I Democratici riallacciano il dialogo
Bersani e D’Alema vedono Gianni Letta. Ipotesi Camera per l’ex premier
Montezemolo? Tutte le idee, anche le più fantasiose, per battere il Cavaliere hanno cittadinanza
di Maria Teresa Meli


ROMA — Mattina del 5 ottobre, l’auto di Massimo D’Alema scalda i motori sotto l’abitazione del presidente del Copasir nel quartiere romano di Prati. Una decina di minuti e la macchina arriva sotto la sede del Pd, a via sant’Andrea delle Fratte. Al partito c’è Pier Luigi Bersani, reduce da un «tour» siciliano. Poco dopo i due entrano in un palazzo di largo del Nazareno, dove ci sono alcuni uffici della Mediaset e dove è solito fare tappa, quando è nella Capitale, Fedele Confalonieri. Varca quel portone anche il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Gianni Letta. L’incontro dura quanto basta per un giro d’orizzonte sui temi oggi sul tappeto.
Il barometro della politica italiana da un paio di giorni indica che la legislatura potrebbe durare: normale, quindi, che maggioranza e opposizione si confrontino. Letta, mediatore per vocazione, è contrario al voto. I dirigenti del Pd non hanno mai nascosto la loro opinione sull’opportunità di andare subito alle elezioni anticipate. Bisogna prima cambiare la legge elettorale. E comunque, più si va avanti, più si allontana l’ipotesi della candidatura alla premiership del centrosinistra di Nichi Vendola. Ipotesi che i big del Pd vedono come fumo agli occhi anche perché, inevitabilmente, spaccherebbe il partito tra i contrari e i favorevoli.
Di carne al fuoco ce n’è tanta. C’è la questione del lodo Alfano. L’Udc, a determinate condizioni, potrebbe votarlo. E il Partito democratico, pur non dando il suo assenso, potrebbe non alzare le barricate contro una simile riforma costituzionale? E ancora, c’è il problema della presidenza della Camera. Silvio Berlusconi, nonostante i toni più concilianti, punta ancora alle dimissioni di Gianfranco Fini. Lo stesso leader di Futuro e libertà, del resto, sta meditando questa scelta, come gli ha consigliato uno degli intellettuali a lui vicino, Alessandro Campi. Il capo dello Stato, qualche giorno fa, ha definito «una novazione» quella di un presidente della Camera che fa un partito durante il suo mandato. Ma Giorgio Napolitano, com’è nel suo stile, non fa pressioni e non interviene in alcun modo: si affida alla sensibilità di Fini. In caso di dimissioni quella poltrona potrebbe andare a un esponente dell’opposizione. «Dall’altro ieri — racconta il "democrat" Beppe Fioroni — in molti mi dicono che D’Alema potrebbe succedere a Fini, ma io oltre a questo non so altro».
 Infine, il nodo della legge elettorale, che sta a cuore in modo particolare al tandem Bersani-D’Alema. Ma in questo caso la questione si fa più complessa. Infatti all’interno dello stesso Pd ci sono opinioni diverse. E anche una certa confusione: proliferano sistemi di ogni tipo. In auge, ultimamente, l’ungherese e l’australiano (il primo piace più ai proporzionalisti, il secondo ai bipolaristi): la cosa, com’è naturale, provoca frizzi e lazzi tra i parlamentari del centrosinistra. I veltroniani, comunque, su questo punto sono irremovibili, come spiega Stefano Ceccanti: «Noi siamo indisponibili a votare una riforma che ci riporti al proporzionale». È un messaggio chiaro all’attuale dirigenza del partito. Un messaggio che difficilmente potrà prendersi sotto gamba, visto che la minoranza del Pd ha più di settanta parlamentari. E il loro leader, Walter Veltroni, non crede che alla fine si cambierà il sistema elettorale: «Secondo me finché non c’è una crisi di governo non si muoverà nulla in questo campo, e a me pare proprio che non sia aria di crisi».
Sfumano le possibilità di andare alle elezioni anticipate, ma la situazione è tutt’altro che stabile e potrebbe precipitare. Per questa ragione l’ex braccio destro di Veltroni, Goffredo Bettini, lancia dalle colonne del Riformista questa proposta a titolo personale: Luca di Montezemolo candidato premier di una grande coalizione che vada da Fli al Pd per riportare l’Italia alla normalità dopo l’era berlusconiana. Un’ipotesi che lascia freddo Bersani: «Tutte le idee, anche le più fantasiose, per battere il Cavaliere hanno cittadinanza», taglia corto il segretario del Partito democratico.

Corriere della Sera 7.10.10
Il Vendola privato che conquista (quasi) tutti
Il governatore della Puglia e i suoi coming out
di Maria Laura Rodotà


Nichi Vendola contestualizza meglio di altri. Gay dichiarato da sempre, governa al secondo mandato una regione del Sud. Postcomunista amato dai giovani di sinistra e da vari anziani di destra, vuol fare il candidato premier dell’opposizione ma scapperebbe subito «per adottare un piccolo abbandonato in Kosovo». Cattolico con abitudini antiche (tiene in tasca un rosario di legno e dice «manco Casini»), convive col fidanzato italo-canadese Ed, giovane, bello, metropolitano e creativo, e l’ha portato nella natia Terlizzi, trenta chilometri da Bari. Queste tre coppie di elementi contrapposti possono essere rimescolate: cattolico ma che vuole adottare fuori dal matrimonio, postcomunista nella complessa e apparentemente destrorsa Puglia, aspirante presidente del Consiglio che però fa coming out sulla sua unione di fatto. Anzi no: aspirante presidente del Consiglio che perciò — per presentarsi, tutto intero — fa il suo coming out. E dice: «Viviamo insieme da anni. Siamo una coppia morigerata e tranquilla. Ci piace ricevere amici a cena». Come buona parte delle coppie italiane, di qualsiasi orientamento sessuale, in effetti. Benvenuti a Casa Vendola.
Il padrone di casa ha raccontato il tutto sull’ultimo numero di Chi. «E ha fatto bene, può raggiungere a un sacco di gente e far capire che noi omosessuali facciamo vite normalissime. In Italia ci descrivono sempre come figure borderline, instabili con vite spericolate. Se si parla di omosessuali, si mette sempre accanto una foto di tizi seminudi e truccati al Gay Pride», dice Paola Concia del Pd, unica parlamentare lesbica, anche lei tempo fa intervistata su Chi, e fotografata con la sua fidanzata. Il compagno di Vendola, nel servizio, non appare, e pare non aspiri a fare il First Gay Partner. È attivo nella Fabbrica di Nichi, il comitato elettorale vendoliano; era sul palco con molti altri la sera della vittoria alle regionali. D’estate vanno al mare in Salento, a volte cenano con Pier Ferdinando Casini e sua moglie Azzurra Caltagirone. «Azzurra stravede per Nichi», racconta un amico.
Non è l’unica. Nel settimanale Mondadori, Vendola viene definito «l’esponente della sinistra più simile al presidente del Consiglio. Per la sua umanità». E l’intervista non è aggressiva: «Governatore, lei scrive poesie e canzoni, vince sul web, confessa la sua omosessualità, trascina i giovani. Presto uscirà anche un film a lei dedicato, Sposerò Nichi Vendola. Insomma, rappresenta il "nuovo"... Chi ha paura di Nichi Vendola?». Quelle che lui chiama le «anime morte» del Pd, probabilmente. In realtà vivi, solo colpiti dall’abilità del presunto ineleggibile (gay, comunista, ecc.) nello sparigliare. Mentre a Roma si parla di elezioni, tra Bari e Terlizzi il presunto di cui sopra espone e disinnesca una per una le cause di i neleggibil i t à. Mostra l’orecchino, parla del «mio amore» che gliel’ha regalato, racconta che vorrebbe adottare, parla di «parità tra uomini e donne nei luoghi di rappresentanza politica». E si fa fotografare in cucina con la mamma (deve essere una cattiveria di Chi, contrapporre in modo subliminale la pacifica cucina Vendola a Terlizzi ai controversi componibili Fini-Tulliani a Montecarlo; poi chissà). Tutto normale, rasserenante; una perfetta ostensione pop del sincretismo vendoliano. Forse un po’ oscurata dal coming out contemporaneo di Tiziano Ferro. Ovviamente seguita da battutacce sul web (l’unica pubblicabile: «Un canadese? Allora sta con Marchionne», ma non è così). Poco notato invece il vero potenziale divo di Casa Vendola, il cane meticcio Fidel, ma potrebbe essere decisivo alle primarie di coalizione, vai a sapere.

l’Unità 7.10.10
I parlamentari Pd a Soru: «Insieme salviamo l’Unità»


Qualcosa di più di un appello per salvare l’Unità. Una lettera rivolta all’editore Renato Soru. Sotto ci sono le firme di oltre cento parlamentari, i capigruppo e i vicecapogruppo del Pd di Camera e Senato. Anna Finocchiaro e Dario Franceschini. E poi tanti altri, deputati e senatori democratici, che ancora si stanno aggiungendo. «Abbiamo appreso con preoccupazione dell’intenzione di chiudere dal prossimo 15 ottobre le cronache locali della Toscana e dell’Emilia Romagna», scrivono i parlamentari
del Pd. «Oltre che mettere a rischio tredici posti di lavoro, abbiamo il timore che tale decisione possa rendere incerto lo stesso futuro de l’Unità, al di là delle stesse intenzioni dell’editore», avvertono: «Ci risulta infatti che Toscana ed Emilia sono le regioni in cui l’Unità ha la maggior parte delle vendite, degli abbonamenti e della pubblicità».
Il contenuto del loro messaggio è molto chiaro: «Chiediamo all’editore Renato Soru la sospensione della decisione annunciata, anche di fronte all’impegno concreto e immediato a sostegno del quotidiano che si è registrato in Toscana e in Emilia Romagna da diversi soggetti sociali e politici. Il mantenimento di una data così prossima prevista per la chiusura delle due redazioni regionali, com’è il 15 ottobre, oltre a rendere vano lo sforzo di coinvolgere altri soggetti nel sostegno al giornale, impedisce di cercare soluzioni che consentano la continuità del lavoro delle redazioni». Un intervento il loro sottolineano «dettato unicamente dalla consapevolezza dell’importanza che rappresenta una testata storica come l’Unità», e dalla preoccupazione che «un suo ridimensionamento possa privare di una voce importante il dibattito politico» nel Pd e nel centrosinistra».

Repubblica 7.10.10
Il prof dell’Università che nega le camere a gas
di Marco Pasqua


Il negazionismo sulla Shoah torna in cattedra. Una delle pagine più buie della storia dell´Uomo, riscritta seguendo le orme di chi nega l´esistenza delle camere a gas o chi contesta i dati dello sterminio messo in atto dai nazisti. Tocca a Claudio Moffa, professore ordinario presso la Facoltà di Scienze politiche dell´università di Teramo, dare spazio alle tesi revisionistiche durante una lezione choc.
«Non c´è alcun documento di Hitler che dicesse di sterminare tutti gli ebrei», dice Moffa, parlando agli studenti dell´università abruzzese.
È il 25 settembre scorso, e nell´aula 12 della Facoltà di scienze politiche, Moffa tiene l´ultima lezione del master "Enrico Mattei in vicino e Medio Oriente", di cui è coordinatore. L´ora e mezza di lezione viene ripresa con una telecamera, e il video è pubblicato sulle pagine web del docente, sulle quali appaiono frequentemente articoli in difesa della libertà di espressione, fatta coincidere con la libertà di negare l´Olocausto. Tra i professori del suo master figurano anche famosi storici negazionisti: è il caso di Serge Thion e di Robert Faurisson. Quest´ultimo venne invitato da Moffa a tenere una lezione all´università abruzzese già nel 2007, tra le proteste della comunità ebraica, e dello stesso Rettore dell´epoca. Lezione cancellata, polemiche, e una petizione-appello contro la presenza dei negazionisti nelle università italiane. Moffa, però, non si è fermato e ha continuato a divulgare le sue tesi.
Il titolo della lezione del 25 settembre lascia chiaramente intuire come verrà sviluppato l´argomento: «Il tema-tabù del mondo accademico, la questione della Shoah, della difesa del suo dogma da parte della Inquisizione del III millennio». Quanto alle camere a gas, il docente cita un´intervista videoregistrata a Faurisson, in cui il negazionista arriva a contestare l´uso del Zyklon B per sterminare gli ebrei: «L´edificio che viene mostrato ad Auschwitz è un edificio che non ha nessuna delle caratteristiche tecniche atte ad essere stato una camera a gas. Il Zyklon B veniva usato per disinfestare gli abiti dei reclusi». Moffa nega anche il dato dei sei milioni di ebrei sterminati, un «numero con una valenza cabalistica. Non si capisce perché lo si debba sempre ripetere. Una cifra ormai ampiamente messa in discussione».
Il professore si spende anche per la difesa dei colleghi accusati di revisionismo. A cominciare dal professor Roberto Valvo, del liceo di via di Ripetta (accusato di aver detto che «la Shoah è stata una montatura»): «Come ai tempi dell´Inquisizione, non è concepibile che chi, argomentando o comunque parlando al bar o facendo una battuta in un consiglio di classe dice "non credo a questa cosa" venga sanzionato. Questo tipo di linciaggio e persecuzione è qualcosa di assolutamente inconcepibile».
Duro il giudizio dell´Unione delle Comunità Ebraiche Italiane, tramite il presidente, Renzo Gattegna: «Mettere in dubbio o negare la Shoah significa offendere la memoria delle vittime. Invito queste persone a visitare lo Yad Vashem e a studiare la documentazione che là è depositata».

Repubblica 7.10.10
La solitudine degli editori italiani "Nessun aiuto, ci hanno abbandonato"
Alla Buchmesse presentati i dati del nostro Paese "La gente legge ma compra meno e il Governo non ci aiuta"


Ultime voci sul toto Nobel: favoriti McCarthy e Ngugi L´ungherese Nádas possibile outsider

FRANCOFORTE. Gli editori italiani si sentono abbandonati, addirittura "borseggiati" dal governo. Non era mai successo alla tradizionale conferenza stampa d´apertura della Buchmesse che gli italiani criticassero i responsabili del governo con tanta durezza come ha fatto ieri Marco Polillo, presidente dell´Aie, l´associazione degli editori. «Non posso che denunciare una totale indifferenza», ha detto. Polillo è persona mite e di gran tatto, come gli ha riconosciuto subito dopo il sottosegretario alla Cultura Francesco Maria Giro, e tanto più eclatanti sono apparse le sue accuse. Il momento è difficile: nel 2009, il giro d´affari dell´editoria ha registrato un calo del 4,3 per cento. Un dato grave, in un mercato librario che vale 3,4 milioni di euro. Sono crollate le vendite di libri in edicola (- 30%) e quelle rateali (- 20). E l´aumento del 2% delle vendite in libreria non è certo bastato a compensarle. Invece di dare una mano, il governo ha preparato agli editori un catastrofico pesce d´aprile: così fu definito dallo stesso premier agli editori sbalorditi che avevano chiesto un incontro dopo che un decreto inaspettato il primo aprile aveva abolito le tariffe postali agevolate per gli editori. La spedizione di un pacco era salita da 1 euro a 7, con un aggravio totale di 40 milioni. Il governo promise di porre immediatamente riparo. Ma le cose sono rimaste com´erano.
L´elenco delle doléances degli editori è lungo: si va dagli intoppi burocratici che hanno bloccato un progetto di 3 milioni di euro per rendere il libro più accessibile ai non vedenti. Per non parlare del "silenzio inerte" del nostro governo a Bruxelles su un punto cruciale come quello dell´Iva sugli e-book, tassati al 20% come qualsiasi prodotto elettronico, mentre l´Iva sui cartacei in Italia è al 4 (lo 0 % in Gran Bretagna e in Polonia, il 7 in Germania). La questione dell´Iva sugli e-book è "scandalosa", conferma Riccardo Cavallero, direttore generale di Libri Trade Mondadori. E pazienza se di Mondadori il premier Berlusconi è l´editore (non "editore", "proprietario", precisa Cavallero). Scandalosa, dice, perché permette la concorrenza sleale sugli e-book a società come Amazon o Apple che hanno messo le loro sedi in Lussemburgo dove pagano un´Iva al 12 per cento. Per ora il giro di affari in Italia non supera il milione di euro ma entro Natale Cavallero prevede una esplosione e a quel punto, se la distorsione non sarà sanata, converrà non solo a Apple e Amazon spostarsi in Lussemburgo. Sugli e-book gli editori italiani puntano come sullo strumento che salverà la lettura. Un terzo ha già cominciato a offrire i suoi testi, che al momento sono 3200 (in Germania 30.000) e i titoli si moltiplicheranno nei prossimi mesi. La passione per i gadget elettronici farà sì che gli italiani leggeranno più libri, sostiene, o spera, Alessandro Bompieri, nuovo amministratore delegato della Rcs libri. E se servissero solo a guardare i cartoon o le guide di viaggio, un genere particolarmente adatto agli e-book? Ma forse i giovani salveranno il mercato. Quello che succede negli Usa finisce sempre per ripetersi da noi, dice Bompieri, e lì già il 25 per cento dei ragazzi tra i 6 e i 16 anni ha letto un libro digitale.
La lieve ripresa del mercato editoriale nei primi mesi del 2010 dà comunque qualche speranza anche per i cartacei; e nonostante i minori libri venduti, nel 2009 ci sono stati 800mila nuovi lettori. E dà speranza anche l´accresciuto interesse per i nostri titoli all´estero testimoniato a Francoforte. Bompiani esulta non solo per il successo di Eco, il cui nuovo romanzo è stato venduto in 30 paesi, dal Brasile alla Turchia agli Usa, ma anche per Acciaio dell´Avallone (Penguin Usa e altri 8 paesi), De Carlo, Carofiglio, Cotroneo. Anche Pennacchi e il nuovo Piperno (Persecuzione, uscirà a fine mese) sono stati acquistati con entusiasmo. E Newton Compton, a due ore dalla presentazione del romanzo dell´esordiente non ancora trentenne Lorenza Ghinelli, Il Divoratore, che la casa editrice definisce un miracolo di lingua e efficacia stilistica, lo ha venduto in Francia, in Inghilterra e in America Latina. Intanto anche qui arriva l´ultima eco del toto Nobel. Il premio, che sarà annunciato oggi, vede ancora super favoriti dai bookmaker McCarthy e Ngugi. Con l´incognita dell´outsider ungherese Péter Nádas.

Corriere della Sera 7.10.10
L’attenzione di Pechino per Roma (distratta)
di Marco Del Corona


La visita in Italia Oggi il premier cinese Wen Jiabao è a Roma per la sua seconda visita ufficiale in Italia: incontra Napolitano e Berlusconi

I leader cinesi cominciano a dimostrarsi degli habitué dell’Italia. Oggi il premier Wen Jiabao sbarca a Roma (secondo viaggio dopo quello del 2004), l’anno scorso era toccato al numero due della gerarchia di Pechino, il presidente del parlamento Wu Bangguo, e quindi al capo del Partito comunista (e dello Stato) Hu Jintao. La frequenza dei viaggi è un segno dell’attenzione che la seconda economia del mondo riserva all’Italia, e ci sono ricorrenze da celebrare. È il 40° anniversario delle relazioni diplomatiche fra i due Paesi e si apre l’anno della Cina in Italia. A fine mese, poi, sarà il presidente Giorgio Napolitano a visitare la Repubblica Popolare, Expo di Shanghai inclusa.
Si parlerà di economia, oggi. Si firmerà un accordo strategico triennale per dare un nuovo impulso al Comitato governativo bilaterale. Si discuterà — a maggior ragione dopo le tre vittime nell’alluvione — anche di Prato, come aveva anticipato la scorsa settimana la viceministro degli Esteri, Fu Yin, rispondendo al Corriere: una città le cui tensioni sono ben presenti alla diplomazia cinese, anche se «noi raccomandiamo ai nostri connazionali di rispettare le leggi e adeguarsi ai costumi locali». Soprattutto l’Italia con la visita di Wen può provare a far fruttare sul piano politico la simpatia nei confronti del nostro Paese che la dirigenza cinese non manca di sottolineare. Qualche margine per capitalizzare l’occasione c’è, secondo Zhang Pei, del Centro di Studi Europei dello Shanghai Institute of International Studies: «Coltivando il rapporto con la Cina — dice — l’Italia può guadagnarci anche incrementando la sua influenza e il suo peso nella Ue. Provando, tra i partner europei, a farsi ponte con la Cina e portare valore aggiunto a tutti i Ventisette».
Per ora il rapporto pare asimmetrico. Diplomazia e investimenti: Pechino sembra riservare a Roma più cura di quella che Roma riserva a Pechino. «La Cina ha le forze e, forse contrariamente a noi, la determinazione per concretizzare la sua attenzione sul piano pratico. Sa molto bene — spiega Franco Cutrupia, presidente della Camera di Commercio italiana in Cina — quale sia il nostro peso al centro del Mediterraneo e come accesso alla Ue». Come prova dell’asimmetria si può leggere il fatto che alle visite dei numeri uno, due e tre del Politburo in meno di due anni l’Italia contrappone una presenza meno intensa. In questa legislatura Silvio Berlusconi è stato sì a Pechino due anni fa, ma nel contesto del summit Asem (anche se ha avuto incontri con i vertici); il ministro degli Esteri, Franco Frattini, è stato soltanto presente all’apertura dell’Olimpiade (l’ultimo titolare della Farnesina in visita di Stato fu Massimo D’Alema nel 2006, dopo il viaggio del premier Romano Prodi); il sottosegretario competente per l’Asia, Stefania Craxi, e i presidenti dei due rami del Parlamento non sono mai venuti. Tuttavia non sono mancate missioni di altri membri del governo e comunque, rassicura Zhang Pei, «l’importanza dei rapporti bilaterali non si giudica dalla frequenza delle visite».
La asimmetria, e quindi la necessità di risistemare gli equilibri, appare anche a chi in Cina investe e lavora. «Si assiste a un’inversione di tendenza», riconosce Massimo Roj, amministratore delegato dello studio di architettura Progetto Cmr (e presidente di una società cinese collegata) che nel 2010 ha raggiunto il milione di metri quadri edificati in Cina: «Dieci anni fa l’Italia era attratta da questo Paese, 5 anni fa s’è toccato il picco. Adesso, dopo qualche batosta, stiamo tornando indietro e sono i cinesi che vengono da noi. Noi scontiamo una visione limitata e italocentrica, loro hanno uno sguardo globale, si muovono su più Paesi. Però anche se non abbiamo la massa critica di Francia e Germania, possediamo fantasia, e nicchie da allargare».
I dati economici mostrano un interscambio sui 31 miliardi di dollari nel 2009, per due terzi dato dall’import dalla Cina. L’Italia è il 15° partner commerciale della Repubblica Popolare che è, dopo gli Usa, il secondo Paese non europeo in cui sono più presenti imprese italiane (sul migliaio). E nella Ue, nessuno ha rilasciato più visti turistici a cinesi (125 mila, stima per il 2010). Ma l’asimmetria strategica emerge persino qui, se gli unici collegamenti aerei diretti sono assicurati non da Alitalia ma da Air China. L’Italia sconta uno scarto mentale che inibisce scelte politiche coraggiose, suggerisce Airaldo Piva, amministratore delegato di Hg Europe, società che fa capo alla holding cinese Hengdian, con interessi dal tessile agli ospedali agli studios cinematografici. Premiato come «amico della Cina» per la festa nazionale del 1° ottobre, Piva ammette che «la Cina cerca di conoscere l’Italia, mentre noi vediamo la Cina come via Paolo Sarpi, Prato, il Paese che copia. Rispetto ai politici di altri Paesi, i nostri viaggiano poco qui; gli imprenditori, invece, capiscono presto che la Cina va oltre gli stereotipi, ma spesso non sono attrezzati, perché questo Paese obbliga a mettere in discussione il proprio prodotto e la propria organizzazione. La chiave? Scambi culturali, interrelazioni, conoscenza, cominciando dalle nuove generazioni». Può capitare dunque che a cogliere lo spirito del tempo, o del luogo, siano esperienze più piccole. Benetton Group e Fabrica, ad esempio, si sono rivolti a un giovane studio di Milano — AL14 di Giovanna Colombo, Luca Dinelli e Marco Sala — per curare la tecnologia delle vetrine di due negozi a Pechino e Shanghai, lavagne interattive a disposizione del pubblico: «Un progetto nato in Italia — dice Sala — che si è voluto mantenere italiano anche nella realizzazione in Cina. Perché garantiamo una resa e un livello che ancora lì non si trovano».
Altrove restano resistenze che rischiano di compromettere la possibilità di cogliere le chance della visita di Wen Jiabao. Il vicepresidente italiano della Camera di Commercio europea in Cina, Davide Cucino, avverte: «Il nostro Paese continua ad avere interesse per la Cina, però contemporaneamente la teme, e così intraprendiamo spesso strategie sbagliate. La visita di Wen rappresenta soprattutto l’ennesima opportunità che l’Europa ha per incrementare l’armonia tra le due parti. La Cina ha bisogno di una maggiore presenza europea nel Paese e l’Europa ha bisogno di maggiore considerazione da parte della Cina. Purtroppo ragionare in termini di politiche nazionali anziché tracciare una strategia europea penalizza tutti, soprattutto l’Italia che nei rapporti economici con la Cina già rincorre molti dei suoi partner dell’Unione». Arriva Wen, l’Italia alzi lo sguardo.

Avvenire 7.10.10
E Gödel fa i conti con Anselmo
Il grande matematico austriaco riscrisse, con le armi della logica, la prova ontologica dell’esistenza di Dio Una sfida per la teologia
di Roberto Timossi

Una delle più grandi menti del XX secolo è sicuramente quella del moravo Kurt Gödel (1906-1978).
Nato nell’odierna Brno, la vita di Gödel, come per altro quella di molti geni, fu piuttosto tormentata e dominata da quello che è stato chiamato 'il male di vivere'. Fin da giovane si dimostrò brillante negli studi, ma lungo il corso della sua esistenza dovette spesso combattere contro la depressione. Nel 1926 fu tra i frequentatori del Circolo di Vienna e in questo vivace ambiente culturale neopositivista maturò definitivamente la sua vocazione nei confronti della ricerca logico-matematica. Mai scelta risultò più azzeccata visto che già nel 1931, a soli venticinque anni, esponeva in un celebre articolo i presupposti dei suoi teoremi di incompletezza destinati a sconvolgere tutte le teorie logico-matematiche elaborate fino a quel momento. Se di Gödel sono molto noti i rivoluzionari contributi alla teoria logico-matematica, meno noto è il fatto che formulò una sua rielaborazione della prova ontologica di sant’Anselmo di Aosta, ossia di quella dimostrazione logica che ritiene di poter inferire l’esistenza di Dio a priori, partendo dal concetto che abbiamo di lui. Del resto, fino al 1987 la prova ontologica gödeliana era nota esclusivamente a pochi amici dell’autore ed è inoltre rimasta a lungo tra le sue carte inedite. Su questo tema è ritornato di recente David P. Goldman (un redattore capo che dichiara di collocarsi in una prospettiva giudaico-cristiana) sulla prestigiosa rivista First Things, facendo un rapido riassunto del dibattito apertosi in filosofia sulla cosiddetta 'prova a priori' e avanzando alcune osservazioni critiche. Goldman rileva innanzitutto come la scoperta dell’impossibilità di fare della matematica un sistema formale in sé compiuto quale conseguenza dei teoremi di incompletezza conduca lo stesso Gödel a concludere che noi non possiamo conseguire un credibile approccio con la realtà senza la presenza di Dio. Dopo aver infatti tentato nel 1949 di prospettare una soluzione originale delle equazioni della teoria generale della relatività del suo amico Albert Einstein sulla base dell’ipotesi di un universo in rotazione su se stesso, dopo aver cioè proposto una descrizione logica del cosmo, Gödel sancì che pure così al 'sistema' continuava a mancare qualcosa di essenziale: la ragione dell’esistenza del mondo secondo un ordine logico-matematico. E la soluzione di questo problema poteva venire soltanto da una dimostrazione razionale dell’esistenza di Dio, ossia dalla necessità logica della presenza di un ente che assommi in sé tutte le qualità positive. È dunque da presupposti sia logici sia esistenziali che è scaturita nella mente di Gödel l’esigenza di concepire una nuova prova ontologica modale. Ma, come nota correttamente Goldman, il Dio di Gödel non è né la divinità benevola della vecchia teologia naturale né il perfetto armonizzatore dei seguaci del disegno intelligente, dal momento che egli cela totalmente il proprio volto nel mondo e può essere colto soltanto nel paradosso e nell’intuizione razionale.
Nonostante ciò, Dio non è un’astrazione perché «può agire come una persona» ed è quanto constata facilmente chi come Gödel lo cerca nel paradosso.
Chi si imbatte nella prova ontologica di Gödel difficilmente riesce a non provare nello stesso istante ammirazione e sconcerto: ammirazione per il rigore logico della dimostrazione; sconcerto per l’arditezza della prova. Si tratta, infatti, di un teorema logico costituito da ventotto passaggi e strutturato con formule ben formate di logica simbolica (accompagnate da alcune annotazioni piuttosto scarne dell’autore), la cui conclusione equivale alla seguente perentoria affermazione: «Dio esiste necessariamente, come volevasi dimostrare». La ritrosia dell’autore a renderla nota la dice lunga sui pregiudizi del suo ambiente universitario contro fede religiosa. Come ricorda sempre Goldman riportando le parole di Adele, la moglie di Gödel, «sebbene non andasse in chiesa era religioso e leggeva la Bibbia a letto ogni domenica mattina». Non manifestava pubblicamente le sue convinzioni religiose perché temeva di risultare ridicolo, visto che – come scriveva alla madre nel 1961 – «il novanta percento dei filosofi contemporanei considerava loro principale dovere espellere dalla testa degli uomini la beatitudine religiosa». Trattando della prova a priori dell’esistenza di Dio nel mio libro intitolato Prove logiche dell’esistenza di Dio da Anselmo d’Aosta a Kurt Gödel (Marietti), ho osservato che una dimostrazione di questo tipo può essere accolta se si accetta una qualche forma di platonismo delle idee o delle essenze per cui i concetti sono dotati di una realtà oggettiva.
Con questa tesi pare concordare anche David P. Goldman, il quale lascia intendere che Gödel in matematica era un 'platonista', ovvero aderiva alla posizione di chi ritiene che i numeri e le funzioni matematiche non sono una mera 'costruzione' del nostro intelletto, ma possiedono una realtà propria. A detta di Goldman, tuttavia, la sfida maggiore lanciata dal pensiero religioso di Gödel è rivolta non ai matematici, bensì ai teologi, che lo hanno fino ad ora volutamente evitato forse perché si tratta di una sfida troppo impegnativa.
Il teorema si chiude con un perentorio: «Dio esiste necessariamente, come volevasi dimostrare». Però fu pubblicato postumo, perché il genio di Brno temeva i pregiudizi degli altri scienziati

mercoledì 6 ottobre 2010

Agi 6.10.10
Crisi: Fassina, serve svolta culturale interessati a Lombardi

(AGI) - Roma, 6 ott. - Il piu' grande ostacolo per l'uscita dalla crisi e' di ordine culturale: siamo da quattro anni nel tunnel, ma il pensiero diffuso non si e' svegliato dal 'sonno dogmatico'. E' necessaria una svolta culturale, prima che politica, per rimettere a posto un ordine economico e sociale insostenibile, per rianimare la voglia di futuro. E noi siamo interessati a sviluppare il pensiero economico autonomo di Riccardo Lombardi, la sua proposta del 1967 per "una societa' ricca perche' diversamente ricca". E' la diagnosi e terapia del responsabile economico del Partito Democratico Stefano Fassina, sulla perdurante crisi economica e occupazionale che attanaglia il Paese. "Dovremmo guardare - spiega Fassina - alla logica di funzionamento del sistema: invece per inerzia intellettuale e corporativismo cieco, si continuano a riproporre le ricette fallite della crescita bugiarda". Rimettere al centro il lavoro e la tutela dei diritti, l'occupazione e l'equita' fiscale, ma soprattutto riportare "la politica a dimensione dell'economia": sono queste le direttrici di fondo per una forza riformista, in vista dell'Assemblea Nazionale dell'8 e 9 ottobre, chiamata a lanciare un 'progetto nuovo' di societa' per 'risvegliare' l'Italia.
Secondo Fassina, "la causa di fondo dell'afasia dei riformisti" risiede "nello scarto tra la forza dell'economia globale e la triste anemia della politica locale". In tal senso, "il pensiero economico forte, autonomo rispetto alla cultura dominante di allora, di Lombardi ci interessa. Se pensiamo al rapporto tra pubblico e privato, alla assoluta necessita' di una sua ridefinizione rispetto a quanto accaduto nell'ultimo ventennio, allora Lombardi ci offre spunti interessantissimi da recuperare". Ad esempio il ruolo dello Stato nella direzione dell'economia del Paese: ruolo- guida che e' stato praticamente abbandonato laddove il mercato l'ha fatta da padrone assoluto. "Se si guarda al peso enorme che hanno assunto gli istituti finanziari in generale, si vede che hanno acquisito un potere enorme globale e sempre piu' difficilmente regolabile dalla politica. Sono giusti ed opportuni gli sforzi di regolamentazione nazionali e soprattutto sovranazionali perche' ci sia, da parte degli operatori finanziari, piu' sostegno all'economia reale - aggiunge - perche' la vocazione dei profitti a breve periodo, lasci il passo alla crescita dell'economia reale". Insomma, precisa ancora Fasina, "meno speculazione finanziaria e piu' investimenti produttivi". L'attenzione del Pd e', dunque, rivolta piu' al sistema produttivo reale, al rilancio della politica industriale che "in questo Paese non c'e'", mentre "c'e' un Ministro del Lavoro che pensa di risolvere tutto con la compressione dei salari e dei diritti sindacali". L'esatto contrario, insomma, di quella che fu l'opera di Lombardi: la richiesta del 1962 di mettere all'ordine del giorno lo Statuto dei Diritti dei Lavoratori all le sue riforme di struttura per creare nuove occasioni di lavoro, nuovi spazi di democrazia. Pat

l’Unità 6.10.10
Portateci le prove dell’esistenza di Dio
di Francesca Fornario


A mensa: «Hai letto? Il cardinale Ruini è contrario al Nobel per la medicina al padre della fecondazione assistita. Dice che una coppia non può fare un figlio con il seme di un donatore esterno». «E Gesù?». «Uhm, non ci avevo mai pensato». «È così che ci fregano, che uno non ci pensa. E pure se ci pensa non lo dice». «Ma cosa?». «Che Dio non esiste». «Che c'entra, non è questo il punto! Il punto è che i cardinali non devono interferire nella vita politica come fa Ruini. Pensa che lui il Nobel per la scienza lo avrebbe dato a Bagnasco». «E che ha scoperto?». «Che Berlusconi può invocare il legittimo impedimento anche per sottrarsi ai dieci comandamenti. Ha detto che le bestemmie vanno contestualizzate. Diavolo di un Bagnasco. È così legato a Berlusconi che vuole chiedere al Parlamento una commissione d'inchiesta contro Mosé». «Non sarà il punto, ma non lo diciamo mai». «Ma cosa?» «Che Dio non esiste». «Che c'etra, non sono cose che si dicono!». «Tipo a Ballarò, in tv, in quei posti lì. Se si parla della legge sul fine vita o del crocifisso nelle scuole, non c'è mai un politico dei nostri che dice: 'Sapete, io non sono d'accordo a mettere il crocifisso in classe perché Dio non esiste e non è corretto dire le bugie'». «Ma è una battaglia di retroguardia! Con la riforma Gelmini che ha ridotto il numero delle classi di crocifissi ne hanno dovuti mettere quindici in ogni aula. E sono gli unici che riescono ad allungare le gambe. E poi si fa presto a dire che Dio non esiste, bisogna provarlo». «Dai, lo dicono il 95 per cento degli scienziati! E poi il Vaticano che prove ha dell'esistenza di Dio? Come fanno i Vescovi a sapere tutto di lui e a dettare legge se ammettono di non averlo mai visto se non prima di nascere?». «Come fanno con l'utero». «Ma te lo immagini che cosa succederebbe se tutti insieme, pacatamente, dicessimo: Signori, se volete continuare a essere presi sul serio come interlocutori politici, portateci le prove dell'esistenza di Dio». «Sì. Che le pubblicherebbe Feltri».

l’Unità 6.10.10
Legge elettorale Fini in pressing Bersani: un’intesa è possibile
La maggioranza ha incardinato la legge elettorale al Senato, dove Pdl e Lega sono autosufficienti. Lettera del presidente della Camera per chiedere la discussione a Montecitorio, dove i finiani sono determinanti.
di Simone Collini


«E tu quale proposta di riforma della legge elettorale stai scrivendo?», chiede in pieno Transatlantico il capogruppo del Pdl in commissione Affari costituzionali Peppino Calderisi al deputato del Pd Salvatore Vassallo. E il costituzionalista veltroniano, rispondendo al sorriso col sorriso: «Ora nessuna, ho già dato». C’è anche una voce su wikipedia effettivamente, il Vassallum, ma anche se i due scherzano, sul superamento del “porcellum” si sta giocando una partita molto delicata, con i finiani che riservatamente stanno lavorando insieme a Pd e Udc a una nuova legge elettorale e con Pdl e Lega che stanno ricorrendo a ogni mezzo per impedire l’operazione. Per dire: una settimana prima del voto di fiducia, quando già era chiaro che a Palazzo Madama i finiani non erano determinanti per la sopravvivenza del governo, la maggioranza ha incardinato la discussione sulla legge elettorale nella commissione Affari costituzionali del Senato. Pd e Udc hanno chiesto ieri che venga calendarizzata invece a Montecitorio. «Sta a Schifani accettare», dice sornione Calderisi. E lo farà? «Perché dovrebbe? Del resto era negli accordi: la Camera si occupa della riforma della Giustizia e il Senato di riforme istituzionali, compresa la legge elettorale». Sennonché è lo stato stesso Gianfranco Fini a esporsi, scrivendo al presidente della commissione Affari costituzionali di Montecitorio Donato Bruno (Pdl) di incardinare il dibattito sulla legge elettorale alla Camera.
Sarà la riunione dei capigruppo convocata per stamattina a decidere, e bisognerà vedere se i finiani faranno fronte comune con Pd, Udc, e Idv e se questo asse avrà la meglio sul niet già espresso da Pdl e Lega. Italo Bocchino manda a dire: «Se qualcuno vuole portare il paese al voto, si può discutere di cambiare la legge elettorale. Su questo non c’è un vincolo di coalizione». Un’uscita che ha fatto irritare Berlusconi, che ha affidato a Osvaldo Napoli il compito di rispondere, con una dichiarazione che in sintesi dice: se il vincolo salta è per sempre. I vertici del Pdl e della Lega non vogliono neanche sentir parlare dell’ipotesi di superare il “porcellum”. Il capogruppo del Pdl alla Camera Fabrizio Cicchitto lancia un messaggio preventivo piuttosto chiaro, e cioè che se i finiani al vertice di maggioranza di oggi metteranno sul piatto anche la legge elettorale, «il vertice finisce prima di cominciare». E Umberto Bossi: «Abbiamo fatto tanto per cambiare la legge elettorale dopo tangentopoli in modo da evitare che i deputati andassero in cerca di soldi per il partito e ora vogliono di nuovo cambiarla».
Nonostante tutto, gli incontri tra gli esperti della materia di Pd, Udc e Fli proseguono, tanto che si è arrivati alla definizione di un modello proporzionale con collegi uninominali (Beppe Fioroni preferirebbe le preferenze), soglia di sbarramento e nessun premio di maggioranza. E nonostante tutto il leader del Pd Bersani, ieri impegnato in una serie di colloqui con D’Alema, Franceschini e Follini, è «soddisfatto» per come sta procedendo l’operazione, perché «prende corpo l’idea di una riforma elettorale»: «Siamo pronti a discuterne nelle sedi proprie, l’obiettivo è superare il porcellum».

Repubblica 6.10.10
Riforma elettorale, pressing di Fini prove di governo tecnico Pd-Udc-Fli
di Giovanna Casadio


Bossi: legge già cambiata. Lite nella maggioranza sul Copasir
Franceschini avverte: c´è una maggioranza per cambiare subito il porcellum

ROMA - Fini passa dalle parole ai fatti e avvia il pressing per cambiare la legge elettorale. Il presidente della Camera si fa interprete delle richieste di Pd, Udc e Idv e del "suo" gruppo "Futuro e libertà". Chiede a Donato Bruno, che guida la commissione Affari costituzionali di Montecitorio, di mettere in discussione i progetti di legge, una quindicina, già presentati. Parte subito il fuoco di sbarramento della Lega e del Pdl.
Ma soprattutto è il governo ad affidare al ministro Altero Matteoli, ex "colonnello" di An, l´assoluta contrarietà a questa operazione. Di riforma elettorale nemmeno a parlarne, dice Matteoli. «Non possono esserci due maggioranze, una per l´attività di governo e una per la legge elettorale, che è tra le norme fondamentali per la democrazia. Né può esistere una coalizione di governo che non si ritrova sulla legge elettorale. Peraltro non vedo la necessità di modificare quella attuale su cui si fondano il bipolarismo e la scelta di chi governa da parte dei cittadini». Fini insomma è avvertito: non s´avventuri in prove di governo tecnico. E arriva anche la bocciatura di Bossi: «Abbiamo fatto tanto per cambiare la legge elettorale dopo Tangentopoli in modo da evitare che i deputati andassero in cerca di soldi per il partito e ora vogliono di nuovo cambiarla...basta».
Ma è una guerra di posizione quella che si consuma dentro la maggioranza. È fatta di ripicche e tregua armata. Ieri mattina la riunione del Copasir - la commissione di controllo sull´intelligence - è stata sospesa perché mancavano quattro parlamentari della maggioranza (Cicchitto, Quagliariello, Esposito del Pdl e la leghista Maria Piera Pastore), presente invece il finiano Briguglio. Il presidente Massimo D´Alema ha ammonito: «L´attività non si può fermare». Francesco Rutelli, ex presidente, giudica da «irresponsabili» far ricadere le divisioni della maggioranza sul funzionamento della commissione. Gli assenti contrattaccano con una nota in cui dicono di aspettare che Fini e Schifani rivedano la composizione del Copasir visto che i gruppi della maggioranza sono cambiati. Italo Bocchino, capogruppo di Fli a Montecitorio, replica: «Non si possono fare modifiche, la legge lo vieta».
Poi però - per la serie tregua armata - sul rinnovo delle presidenze delle commissioni, il Pdl tende la mano ai "futuristi": saranno riconfermati i presidenti finiani, quindi Giulia Bongiorno (Giustizia); Moffa (Lavoro); Baldassarri (Finanze). A patto, sembra di capire, che Briguglio lasci il Copasir. Al vertice di maggioranza oggi si parlerà anche di questo.
Tuttavia la partita vera è sulla riforma elettorale, su cui potrebbe nascere la nuova maggioranza. Pier Luigi Bersani, il segretario del Pd, è certo: «Un´intesa è possibile. Noi siamo pronti a discutere e siamo soddisfatti perché l´esigenza di cambiare il Porcellum sta prendendo concretezza». Bersani ha avuto colloqui con Fini e Casini, il leader dell´Udc, e si è già parlato di una intesa in sei punti. Se cambiarla è l´imperativo categorico delle opposizioni e di Fli, come cambiarla è terreno minato. Il Pd è ufficialmente per il collegio a doppio turno. Mentre un sistema tedesco - con una soglia di sbarramento al 3%, l´indicazione del premier, e l´introduzione di una-due preferenze - raccoglierebbe il fronte più ampio. Casini insiste: «Spero in una convergenza ampia, anche di Pdl e della Lega; chi parla di ribaltoni dice cavolate». Il capogruppo Pd, Dario Franceschini intervistato a Repubblica-tv : «Di certo non si può tornare a votare con questa legge: è un´esigenza democratica. Se c´è una crisi di governo io credo ci sia una maggioranza alternativa per cambiarla al Senato e alla Camera». Aggiunge che il Porcellum può portare a «distorsioni gravi per la democrazia». Ci sono quindi i margini per l´alleanza ampia? «So che bisogna provarci». Oggi si riunisce la commissione Affari costituzionali alla Camera: deve decidere se incardinare la discussione. Al Senato fanno sapere che hanno già cominciato loro e vanno avanti con i ddl di Grillo, i quattro del costituzionalista Stefano Ceccanti, tra cui il "modello australiano".

l’Unità 6.10.10
Perizia calligrafica sui documenti delle regionali: almeno 373 casi di sottoscrizioni fasulle
Il partito di Pannella chiede le dimissioni del governatore lombardo: «Elezioni da rifare»
La denuncia dei Radicali: «Firme false per Formigoni»
Firme false per le regionali in Lombardia, i radicali annunciano querela e invitano Formigoni a dimettersi: «Non poteva non sapere ma ha pensato bene di negare tutto e gridare al complotto».
di Laura Matteucci


«La perizia calligrafica rivela la presenza di 374 firme false sul listino regionale “Per la Lombardia” a sostegno di Roberto Formigoni. Ed è una stima prudenziale, perchè il controllo è ancora in corso». La denuncia parte dai radicali della lista Bonino-Pannella e arriverà dritta in tribunale, sede civile e penale, con l’ipotesi di reato di falso. «Il presidente si deve dimettere, le elezioni regionali di marzo sono state illegittime», dice Marco Cappato. Il leader Marco Pannella va anche oltre: «Processare Formigoni sembra inevitabile perfino in questo suo regime. Occorrerà che la democrazia italiana processi questa gente e uno come lui lo metta almeno per un po’ in galera».
Il fatto è che 374 firme non valide sarebbero sufficienti per far crollare il numero complessivo raccolto (3628) sotto la soglia minima necessaria (3500) per presentare la lista alle elezioni. Cappato ricorda anche le intercettazioni telefoniche nell’ambito dell’inchiesta sulla P3 e l’interessamento alla vicenda del presidente della Corte d’appello di Milano Alfonso Marra: «Formigoni si è rivolto a personaggi non proprio credibili per ottenere aiuto sulla questione delle liste continua l’esponente radicale ha mentito e accusato i radicali di aver manomesso i moduli, si deve dimettere perchè non poteva non sapere di avere firme totalmente false, apposte dalla stessa persona». Ancora: «Sul piano formale le elezioni sono state illegali dice sempre Cappato Poi, c’è il fatto politico: i lombardi hanno il diritto di ottenere che un presidente che ha dichiarato il falso venga sanzionato».
TRIBUNALI E COMPLOTTI
Ricapitoliamo: la lista “Per la Lombardia” era stata esclusa il primo marzo dalla Corte d’appello di Milano che aveva accolto il ricorso della lista Bonino-Pannella secondo la quale il numero di firme valide non era sufficiente. Il centrodestra si rivolse al Tar con altri due ricorsi, e due giorni dopo lo stesso Tar accolse una richiesta di sospensiva che riammetteva di fatto la lista alle elezioni, decisione poi confermata dalla sentenza e dal Consiglio di Stato a cui si erano rivolti la Federazione della sinistra e i radicali. Per recuperare le liste escluse (in Lombardia e in Lazio) il governo aveva anche approvato un decreto legge apposito. I giudici del Tar lombardo avevano comunque deciso accogliendo il ricorso del Pdl secondo cui i radicali non avevano diritto a ricorrere. «Oggi riprende Cappato abbiamo i tabulati perchè abbiamo fatto ricorso come cittadini e non più come appartenenti alla lista Bonino-Pannella». Tabulati che sono stati sottoposti all’esame di un perito calligrafo accreditato al Tribunale di Milano.
Il governatore lombardo replica stizzito: «È la solita iniziativa propagandistica dei radicali dice cui non intendo fornire alcuna eco. Facciano la querela e risponderemo in quella sede». «Le loro affermazioni aggiunge, buttandola una volta di più sul complotto sono del tutto false, offensive e infondate. Gli elettori si sono pronunciati chiaramente, dando la vittoria a me e alla mia coalizione e nessuno riuscirà a rovesciare la loro volontà». Emma Bonino lo gela così: «Formigoni lasci perdere il suo tono da lesa maestà e la chiamata in causa della volontà popolare».

Repubblica 6.10.10
Pannella: Silvio è capace di tutto rischia di finire a Piazzale Loreto


ROMA - «Berlusconi è uno di quelli capaci davvero davvero di tutto, lui rischia di finire a Piazzale Loreto». Lo ha detto ai microfoni della trasmissione di Radio2 «Un Giorno da Pecora», condotta da Claudio Sabelli Fioretti e Giorgio Lauro, Marco Pannella. Il leader del Partito Radicale ha motivato il riferimento al luogo dove venne esposto il corpo senza vita Benito Mussolini spiegando che questo avviene «quando si abolisce la democrazia e tutte le istituzioni italiane sono fuorilegge». Tuttavia, «noi da non violenti staremo attenti perchè questo non accada». 

Repubblica 6.10.10
"Vent'anni fa una svolta inutile siamo ancora aggrappati al Muro"
Occhetto: a sinistra il coraggio si è esaurito con la Bolognina
"Chi ha combattuto la nomenklatura è stato fatto fuori, come Prodi, Cofferati, Veltroni"
"Mi colpisce l'ostracismo verso Vendola: è l'unico che può portare milioni di voti"
di Curzio Maltese


Vent´anni dopo nella sinistra italiana non è come nei romanzi, non è cambiato quasi nulla. «La svolta dell´89, la fine del Pci nel ‘91, dovevano essere l´inizio di una storia nuova della sinistra italiana che poi non si è realizzata. Meglio, è stata impedita con ogni mezzo dalla nomenclatura». L´analisi di Achille Occhetto, l´ultimo segretario del Pci, è spietata. «Esasperata, direi. E´ esasperante una sinistra che impiega quattordici anni per tornare all´Ulivo, ucciso nella culla nel ‘96 per una manovra di palazzo. È come se il coraggio si fosse esaurito tutto alla Bolognina. Ma forse è vero che già allora, nel modo in cui i dirigenti affrontarono il dibattito, erano affiorati antichi vizi, un certo opportunismo»
Non sarà per caso pentito della svolta?
«Al contrario, ma tutto avvenne troppo in fretta. Io pensavo a un cambiamento epocale, a una grande svolta libertaria della sinistra. Non mi accorsi che il gruppo dirigente la considerava soltanto il male minore, un astuto stratagemma per mettersi al riparo e anzi garantirsi l´ingresso nei salotti buoni. Il lutto per la fine del comunismo venne elaborato con cinismo, come un via libera alla pratica del peggiore compromesso»
L´immagine era quella di un leader solitario, circondato dallo scetticismo, pure non dichiarato, degli altri dirigenti. Era così?
«Sì, quella scelta fu compiuta in parte in solitario, sfruttando in fondo il mito dell´obbedienza al capo tipica dei partiti comunisti. Pochi erano davvero convinti, uno di questi era Fabio Mussi. Molti altri si fermavano alla superficie, non dico al marketing, al cambio del nome e del simbolo, che infatti è stato poi replicato senza cambiare la sostanza»
Chi era i padri culturali della svolta?
«I grandi del pensiero libertario italiano, da Gramsci ai fratelli Rosselli, Gobetti, Salvemini. Fra i politici dell´epoca Brandt e Olof Palme, i maestri del pacifismo e dell´ecologismo. Ma anche qui m´illudevo. Nei fatti ha trionfato un vecchio modello togliattiano, l´ossessione del potere per il potere»
In quello che lei considera il fallimento della svolta è stata però decisiva la rovinosa sconfitta della «gioiosa macchina da guerra» nelle elezioni del ‘94.
«Ma la responsabilità di quella sconfitta era in gran parte dei centristi. L´ex Dc di Martinazzoli non accettò di far parte di una coalizione di centrosinistra. Come avrebbe dovuto fare due anni più tardi. Rimasero aggrappati alle macerie del Muro di Berlino, come del resto tutti in Italia continuano a fare, a destra e a sinistra. Conviene. Non esiste un paese dove la vita pubblica, al di là delle rutilanti apparenze, sia più bloccata su vecchi temi, oltre che vecchie facce. E non è soltanto colpa di Berlusconi, la sinistra ha dato il suo contributo»
Non è un giudizio ingeneroso nei confronti dei suoi ex compagni di partito, sono tutti conservatori mascherati?
«Ma guardiamo i fatti. Chiunque si sia allontanato dalle pratiche della nomenclatura, chiunque fosse considerato per un verso o per l´altro fuori dagli schemi, è stato usato per la sopravvivenza e fatto fuori appena possibile. Non parlo del mio caso, sarei un narcisista. Ma dello stesso Romano Prodi, di Sergio Cofferati, di Walter Veltroni»
È anche vero che sia lei che Prodi, Cofferati e Veltroni vi siete arresi piuttosto rapidamente, le pare?
«Vede, il problema è lo stesso di allora, dell´89. Mi ero reso conto benissimo che per affrontare un vero cambiamento bisognava aprire le porte alla società, uscire dalle fumose stanze dei vertici di partito. Ma l´ingresso degli esterni, il rinnovamento anche generazionale del partito, venne vissuto come una minaccia, un´intrusione, un´invasione di campo dell´antipolitica. Lo stesso è accaduto con i comitati per l´Ulivo di Prodi, con il rapporto di Cofferati con i movimenti e infine col progetto di Pd aperto di Veltroni. La questione centrale del Pd è identica a quella del Pds e sta nel rapporto chiuso con la società. Ogni volta si cambia il simbolo, il nome, l´immagine e per un po´ s´illude l´elettorato, ma poi la logica della nomenclatura prevale e i consensi tornano a disperdersi»
Nel rapporto con gli esterni si riferisce a Vendola, Di Pietro, Grillo, al popolo viola e in generale a un´area a sinistra del Pd che è oggi l´unica in espansione, insieme alla Lega?
«Certo. E chi fa il politico di professione dovrebbe pure domandarsi perché è in espansione e perché invece il Pd è inchiodato nei sondaggi intorno al 25 per cento. Mi colpisce soprattutto l´ostracismo nei confronti di Nichi Vendola. Posso capire che Di Pietro e Grillo vengano considerati lontani, in certo senso estranei alla storia della sinistra, ma perché Vendola? E´ uno che viene da una storia tutta dentro la sinistra e rappresenta comunque una grande risorsa. Che vinca o no le primarie, è l´unico in grado di portare a un´alleanza di centrosinistra milioni di voti che altrimenti andrebbero persi alla causa. È incredibile che i dirigenti del Pd considerino Vendola un fenomeno estemporaneo, una specie di fricchettone che gioca con Internet. Si vede che neppure le batoste insegnano loro nulla. E quella presa in Puglia era piuttosto sonora»
A distanza di vent´anni, dove pensa di aver sbagliato, di che cosa si sente responsabile?
«Abbiamo sbagliato allora per la fretta, nell´urgenza storica. Abbiamo sbagliato a non spiegare che il mondo era cambiato profondamente, non soltanto per il crollo del comunismo, e bisognava tornare a studiare la società. Ancora oggi la visione del mondo del lavoro della sinistra italiana è legata a vecchi schemi, a modelli sociali tramontati negli anni Ottanta. C´è un gran fermento di fondazioni che non studiano nulla e sono soltanto trucchi per fondare correnti. Nella storia del vecchio Pci, io che ho dovuto chiuderla, salvo tante cose e altre ne rimpiango. E quella che rimpiango più di tutte è questa, l´umiltà, l´impegno, il coraggio di studiare, studiare e ancora studiare per capire i grandi mutamenti sociali»

Repubblica 6.10.10
Il governatore pugliese: per vincere servono leader non amministratori di condominio, le primarie un fatto di igiene politica
Vendola: "Bersani e D'Alema sono anime morte"
di Lello Parise


BARI - Nichi Vendola dà il benservito ai dirigenti del Pd. Il governatore della Puglia cita Piero Fassino, Massimo D´Alema, Pierluigi Bersani e li definisce «anime morte». Dopo i sindaci riformisti di Firenze e Bari, Renzi ed Emiliano, che non erano stati teneri con la "vecchia guardia" dei Democratici considerata in un caso «da rottamare» e nell´altro «decomposta», Vendola è il primo uomo politico non iscritto al Pd ad affondare il colpo. In un´intervista a Chi, spiega: «Non si possono mettere in pista leader di vent´anni fa. Ci vuole un´alternativa realistica al berlusconismo, non amministratori di condominio».
Un condominio chiamato centrosinistra, che Vendola giudica «inadeguato»: «Si dovrebbe mettere tutto in discussione. Senza avere paura di proporre un modello radicalmente alternativo nell´istruzione, nelle relazioni di lavoro, nello sviluppo industriale, che non esiste» sottolinea da Bruxelles, dove il presidente della Regione partecipa ad un raduno organizzato dalla "Fabbrica di Nichi".
E´ il blog Nouvelles Bruxelles a raccontare di Vendola, «giovane politico di Terlizzi con l´orecchino». Un Vendola pirotecnico: ritiene le primarie per scegliere il candidato premier, un «elemento di igiene politica», ma, precisa, «agitarsi inconcludentemente per soddisfare il nostro narcisismo non porta a nulla». Rivela anche che gli ultimi sondaggi assegnano il 6 per cento a Sinistra e libertà, il movimento di cui è portavoce.
Di fronte a una platea di duecento ragazzi fra i venti e i trentacinque anni, appare come un fiume in piena: il nuovo ministro dello Sviluppo economico, Paolo Romani? «In questo clima da basso impero non c´è più alcun pudore né senso del limite». «Cosa sta portando in basso l´Italia? L´ignoranza deriva da una televisione povera che diffonde sottocultura? Bene, la soluzione è spegnere la tivù. La libertà va coltivata con i diritti». Va avanti: «Il problema è il precariato? Bene, si deve abolire la legge Biagi». Avverte: «Dobbiamo perdere la sindrome di Zelig, evitare cioè di diventare come il nostro interlocutore nel momento in cui ci confrontiamo con lui. Woody Allen, nel suo film, se parlava con un ebreo vedeva allungarsi le basette, se aveva di fronte a sé una donna incinta gli cresceva la pancia».
E´ lo stesso Vendola in vena di confessioni. Ammette: «Mi manca un figlio. Non nascondo che scapperei subito ad adottare un piccolo abbandonato in Kosovo». Poi il comunista e gay che tremare il mondo (della sinistra) fa, regala ancora uno scampolo di vita privata: «Io e il mio compagno canadese siamo una coppia tranquilla, morigerata, ci piace ricevere gli amici a cena».

Avvenire 6.10.10
Per il recupero dei pedofili un impegno corale
di Maurizio Patriciello


Papa Bene­detto, nel suo re­cente viaggio in Gran Bre­tagna, ha af­frontato an­cora una volta, con coraggio e trasparenza, la dolorosissima vicenda dei preti pedofili. Pochi giorni dopo gli ha fatto eco il cardinale Angelo Bagnasco, nella prolusione al Consiglio permanente della Conferenza episcopale italiana.
Non è la prima volta. La Chiesa non si tira indietro e chiede perdono a Dio e agli uomini per non aver vegliato abbastan­za, e per tutte le volte che non ha accolto con immediatezza il grido di dolore degli innocenti traditi da chi li doveva rispetta­re e amare. Il Papa chiede che venga fatta penitenza e noi lo seguiremo nel cammino che ci ha tracciato.
Eppure il problema, nonostan­te il tanto parlare, non è stato ancora affrontato adeguata­mente dalla società civile. Dalla Chiesa siamo stati – laici e cre­denti – spronati a reagire e assi­curati che nei seminari, nei conventi, negli oratori, nei luo­ghi frequentati da bambini e a­dolescenti si vigilerà di più e meglio. Tra i discepoli di Gesù non c’è – e non ci potrà mai più essere – posto per i lupi trave­stiti da agnelli. Bene. Ma di queste persone, poi, che ne sarà? Dove andranno? Gli unto­ri tenuti lontano, non saranno mica guariti dalle loro manìe, dalle loro insane fantasie, dai loro inconfessabili tormenti. Si può scommettere che essi, da qualche parte – sarà una scuo­la, una palestra o la villa comu­nale – tenteranno, e probabil­mente, riusciranno a colpire ancora. Il problema, quindi, è stato sfiorato, ma non affronta­to a viso aperto. Ferruccio Pinotti nel suo libro 'Olocausto bianco' ci fa sapere che, in Italia, in un solo carcere, quello di Bollate in provincia di Milano, è attivo un programma di recupero per pedofili e sex offenders detenuti. Altrove ci si limita a isolare i condannati per questo reato per non la­sciarli in balia degli altri inter­nati. Questo in carcere. E fuori?
Ragioniamo. Se un figliolo, di­sperato, confessa ai genitori di avere seri problemi con la dro­ga, con l’alcol o con il gioco, es­si, i genitori, gli potranno getta­re le braccia al collo e promet­tergli di non lasciarlo solo nel difficile cammino di recupero.
Sanno di poter contare su co­munità, percorsi terapeutici sperimentati e su professionisti e volontari ben preparati, per intraprendere la difficile – e pur possibile – strada del ritorno al­la normalità. Ma se lo stesso giovane, invece, scoprendosi pedofilo, e stanco di nascon­dersi, di colpire vigliaccamente gli innocenti, pentìto, venisse alla luce chiedendo perdono, ma anche confessando di sen­tirsi schiavo di una libidine di­sastrosa, incomprensibile, che condanna ma non riesce a soffocare, e chiedesse aiuto per uscire dall’incubo che lo impri­giona, quale percorso terapeu­tico gli si potrebbe offrire? Il problema è più grande di quanto si possa immaginare e va affrontato con tutti i mezzi che la società ha a disposizione oggi.
Penso che sia giunto il tempo di affrontare apertamente la «condizione tragica» della pe­dofilia, di cui parliamo ormai tanto e sappiamo poco, e di mettere insieme scienze e competenze per conoscere e neutralizzare il meccanismo diabolico che si scatena in chi si è macchiato di questo orribi­le delitto. Il Santo Padre ha dato alla Chiesa e al mondo un esempio di umiltà e di grande amore al­la verità e alla vita. Occorre che con le stesse virtù i cultori delle scienze mediche, psichiatriche, psicologiche e della comunica­zione ci aiutino a capire chi è il pedofilo e se – al di là delle re­sponsabilità da colpire– c’è speranza di recuperarlo a una vita normale e a una sana ses­sualità. Ci dicano anche, con­cretamente, quali cammini, quali terapie intraprendere e dove. Per amore dei bambini. Di tutti i bambini del mondo.




l’Unità 6.10.10
«Siamo amici di Israele con diritto di critica»
di Umberto De Giovannangeli


È del tutto possibile sostenere sinceramente Israele e criticarne la politica. È quanto fanno, ad esempio, scrittori come David Grossman, Amos Oz e Abraham Yehoshua. È quanto fa JCall, il nuovo movimento ebraico europeo, il cui documento fondativo, l’Appello alla ragione, sottoscritto da Bernard-Henry Lévy, Alain Finkielkraut e oltre ̆7000 ebrei di numerosi Paesi europei, esorta il governo di Israele a porre fine all’occupazione e a giungere a una soluzione negoziata di pace, basata sul principio di “Due Stati per due popoli”. Ad affermarlo è David Calef, Coordinatore per l'Italia di JCall. Su queste basi gli aderenti a JCall criticano la manifestazione “Per la Verità, per Israele indetta per domani su iniziativa della Vicepresidente della Commissione Esteri della Camera, Fiamma Nirenstein (Pdl). Un’iniziativa che fa discutere e polemizzare, anche per l'adesione di esponenti del centrosinistra. «Noi –dice a l'Unità Calef– non accettiamo il ricatto per cui se avanzi anche solo una perplessità sulla politica degli insediamenti, finisci per essere tacciato di pregiudizio verso lo Stato d'Israele o addirittura di antisemitismo».
Cosa non vi convince dell'impostazione della maratona oratoria di domani? «Evocare i pericoli che vengono per Israele dall'Iran e denunciare il clima di ostilità antiebraica – di cui peraltro abbiamo avuto negli ultimi giorni due espressioni nell'intervento del senatore Ciarrapico e nella barzelletta vergognosa di Berlusconi – ci trova concordi. Ma non è questo il punto ...».
Quale sarebbe allora?
«La manifestazione si propone di attirare l’attenzione dell’opinione pubblica sui tentativi di delegittimazione dello Stato di Israele e sulle persistenti correnti di antisemitismo che pervadono l’Europa e il Medio Oriente. Da parte nostra non sottovalutiamo certo questi fatti e a tale riguardo, lo ribadisco, l’iniziativa appare condivisibile. Ci sembra però che una difesa lungimirante d’Israele non possa sottacere, come invece viene fatto dai promotori dell'iniziativa in questione, le responsabilità del governo guidato da Benjamin Netanyahu nei negoziati con la controparte palestinese. A nostro avviso, la ripresa di nuove costruzioni negli insediamenti in Cisgiordania compromette i negoziati in corso e fa dubita messo e di pace dell’attuale governo israeliano. La politica nei Territori occupati portata avanti dall'attuale governo israeliano non contribuisce in alcun modo a creare le condizioni per il raggiungimento di una soluzione del conflitto israelo-palestinese. Con l’interruzione della moratoria –che peraltro è stata applicata in modo parziale, come documentano ricostruzioni precise di Ong israeliane, quali Pace Adesso e B’Tselem– la coalizione guidata da Netanyahu scredita l’amministrazione Obama e persegue quella politicadiespansioneneiTerritorioccupati a cui si oppone la parte più responsabile dell’opinione pubblica israeliana». In definitiva, cosa è che non vi convince nelle intenzioni dei promotori di“Per la Verità, per Israele”?
«Ci sembra che l'iniziativa promossa da Nirenstein intenda di fatto prevenire -attraverso l’argomento condivisibile dell’antisemitismoogni critica a scelte politiche che a noi appaiono errate e nocive, proprio nel momento in cui sarebbe necessario incoraggiare la volontà di negoziato e denunciare le azioni che lo vanificano. Il minimo che si possa constatare è che i promotori dell'iniziativa di Roma abbiano commesso un “peccato” di omissione...».
Gli organizzatori potrebbero ribattere: chiamarsi fuori significa, sia pur indirettamente, fare il gioco dei nemici d'Israele....
«Noi non accettiamo il ricatto per cui se avanzi anche solo una perplessità sulla politica degli insediamenti, vieni bollato di pregiudizio anti-israeliano o addirittura di antisemitismo. Essere veri amici d'Israele significa per noi riuscire, anche con sofferenza, a indicare che alcune delle scelte compiute dai governanti israeliani non esprimono una volontà di pace. E questo, sia ben chiaro, non significa per noi fare sconti all'Autorità nazionale palestinese di Abu Mazen e tanto meno al regime teocratico di Hamas».

Avvenire 6.10.10
Shlomo Sand. Un provocatore da leggere
di Anna Foa


L’uscita anche in Italia, per Rizzoli, del discusso libro dello storico israeliano Shlomo Sand, «L’invenzione del popolo ebraico», può sollecitare anche il pubblico italiano ad una discussione che ci auguriamo serena sul tema della storia ebraica e dell’identità del popolo ebraico. Dico «serena» perché anche da noi risuonano molte delle asprezze che hanno caratterizzato la prima recezione del libro al suo apparire nel 2008 in Israele, quando Sand è stato accusato di volere la distruzione dello Stato d’Israele e di essere un ebreo «antisemita e negatore di sé». In realtà Sand, che con questo scritto si è collocato nell’ala più estrema della storiografia post-sionista, ha scritto un’opera animata da dichiarati e legittimi intenti politici, non scientifici (quello di giustificare uno Stato binazionale, quello di demolire l’idea di un’appartenenza ebraica data dal sangue). Ma dal punto di vista storico, quando non ha preso delle solenni cantonate, ha comunque scoperto l’acqua calda. Nessuno storico infatti prenderà mai come modello interpretativo della storia ebraica, come suggerisce Sand, le prime affermazioni della Dichiarazione d’Indipendenza d’Israele redatta da Ben Gurion sull’esilio e la dispersione del popolo ebraico.
Sand si accanisce in realtà non contro la storiografia, ma contro una vulgata nazionalista che dubito sia davvero maggioritaria, anche a livello dell’insegnamento, a meno di non considerare l’insegnamento scolastico in Israele come catechistico, e propone un concetto di «invenzione della tradizione» che fa parte delle armi abituali degli storici da un buon numero di decenni. A livello storico, insomma, se non a livello politico, combatte contro i mulini a vento. Molte delle sue affermazioni sull’inesistenza della diaspora ebraica, sull’origine degli attuali ebrei da convertiti mediterranei o khazari, e via discorrendo, sono state puntualmente smontate dagli specialisti, e vorrei solo toccarne una: la sua idea, costantemente ribadita, che la costruzione della storia ebraica sia stata un’invenzione esclusiva dei sionisti, alla fine del XIX secolo. Chiunque abbia esercitato il mestiere di storico sa che il richiamo alla storia ebraica precede di gran lunga il nascere del movimento sionista. In Germania, la storia degli ebrei fonda un’identità ebraica moderna e assimilata nella società tedesca della seconda metà del secolo, un’identità lontana da qualunque ipotesi di ritorno alla terra promessa. Che questa tradizione storica, riscoperta e divenuta fondamento identitario di ebrei integrati nella società e non di militanti sionisti, si sia fondata su mitologie oltre che sui processi storici documentati, è condizione di ogni interpretazione storica, dove accanto ai fatti esistono gli usi politici della storia. Accanto ai fatti, sottolineo, non contro i fatti. Nulla di strano poi che queste mitologie siano apparse con particolare rilievo nel periodo della fondazione dello Stato d’Israele, dove si trattava di fondare culturalmente un’ideologia nazionale e in molti aspetti nazionalista. Ma questo è un processo ben noto e analizzato da molti storici israeliani, come ad esempio Anita Shapira, studiosa considerata sionista. Insomma, un libro sbagliato in molta parte delle sue argomentazioni, ma un libro interessante e dissacrante, in grado di stimolare il pensiero e la discussione. Un libro che è legittimo scrivere, leggere, discutere, senza stupide scomuniche ma anche senza voler a tutti i costi andare controcorrente.

l’Unità 6.10.10
Fnsi si attacca il pluralismo, battaglia di libertà contro i tagli
Risorse Impegno «bipartisan» dei parlamentari: finanziare il Fondo
Allarme rosso per l’editoria il governo strangola oltre 90 testate
Allarme rosso per l’editoria di idee e politica. Nessuna certezza sul finanziamento pubblico. Governo inadempiente. È la denuncia bipartisan di parlamentari, Fnsi, Mediacoop, Cgil. Rischio chiusura per 90 testate.
di Roberto Monteforte


Siamo oltre all’allarme rosso. Senza certezze sul finanziamento pubblico, senza una legge di riforma e senza quel regolamento annunciato da oltre due anni, il destino di tante testate di idee, politiche e non profit è segnato: la chiusura. Tutti gli impegni assunti sin qui dal governo sono stati disattesi. Sono oltre 90 quelle che, senza fatti nuovi, rischiano di non superare il prossimo 31 dicembre. E sono 4-5mila i lavoratori, che rischiano il posto di lavoro, con un un danno incommensurabile al pluralismo dell'informazione. È un vero e proprio allarme democratico, come per la «legge bavaglio», quello lanciato ieri al Senato dalla Fnsi, da Mediacoop, dall’Associazione Articolo 21, dai cdr dei giornali di idee e politici, dalla Cgil. La situazione si fa veramente critica per testate come Liberazione, Il Manifesto, Europa, la Padania, il Secolo d’Italia, Europa, la stessa Unità.
LA LUNGA SERIE DI TAGLI
È stato il presidente onorario di Mediacoop, Lelio Grassucci a richiamare nella sua drammaticità la situazione. Lo scorso 31 marzo vi è stato l’abolizione delle tariffe postali agevolate. Quindi il taglio del 50% al contributo per i giornali italiani all’estero e la cancellazione di quello per l’emittenza locale. L’abolizione del diritto soggettivo e il taglio del 50% al Fondo per l’editoria. Per il 2010 sono disponibili soltanto 195 milioni di euro a fronte dei 414 milioni del consuntivo 2008, che dovranno coprire anche i 50 milioni destinati al contratto di servizio Rai e i 46 milioni di arretrati alle Poste.
Il governo è più che inadempiente. Si assuma le proprie responsabilità dando seguito ai numerosi richiami «bipartisan» del Parlamento: lo ha affermato il segretario di Federstampa, Franco Siddi. «L'informazione è sotto tiro da più parti denuncia -. Ci sono tagli assurdi, ingiustificati e ingiustificabili». E cita le manovre in atto per le agenzie a partire dall’Ansa: «Con la riduzione delle convenzioni ad annuali, rischiano di finire in mano a chi ha il potere» afferma. Ricorda come la Fnsi abbia chiesto «pulizia e trasparenza» nella gestione dei contributi e «regole certe».
Che bisogna intervenire e in fretta lo sottolineano i parlamentari presenti, dal leghista Mura a Lusetti (Udc), a Vita, Lusi e Merlo, tutti del Pd. Chiamano in causa il sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Bonaiuti e il neo ministro per lo sviluppo economico, Paolo Romani. «Il nuovo ministro dimostri di non essere solo il ministro della tv e del conflitto d'interesse incalza il portavoce di Articolo 21 Giulietti -. Dimostri di non essere il guardiano di una sola azienda. Usi anche solo un centesimo della passione usata per la difesa di Retequattro e la questione Sky per difendere l'editoria». Vita chiede al ministro un’asta competitiva per l’assegnazione delle frequenze digitali con cui finanziare il Fondo per l’editoria. Grassucci suggerisce di equiparare l'Iva di tutti i gadget venduti nelle edicole. Fammoni (Cgil) sollecita la convocazione «dal basso» e «prima che sia troppo tardi» di quegli stati generali dell’editoria promessi e sempre rinviati da Bonaiuti.

l’Unità 6.10.10
James Hillman Un saggio del grande analista junghiano su psicoanalisi e religione
Spiritualità La ricerca del rapporto col divino non è solo «appannaggio» dei credenti
La fantasia è il potere dell’anima Costruisce il mondo in cui siamo
Esce per le edizioni Moretti&Vitali (da oggi in libreria) il saggio di James Hillman «La ricerca interiore», un «libro d’anima», in cui lo psicoanalista e filosofo fa dialogare la psicoanalisi e la religione.
di James Hillman


L’interesse per la fantasia è una caratteristica della maggior parte delle discipline spirituali, sia come metodo psicologico nell’«immaginazione attiva» di Jung, sia nelle tecniche descritte nella mistica alchemica, o nei testi cristiani, indù, persiani e altri. Ma la fantasia passiva non è mai sufficiente, perché la fantasia è un continuo tessere un velo, un confondere immagine e azione. La fase successiva alla fantasia è l’immaginazione, che è il lavoro di trasformare i sogni a occhi aperti e le fantasie in visioni sceniche interiori dove si può entrare, e che sono popolate di figure vivide con le quali si può conversare, provare sentimenti, toccare la loro presenza. Questa sarebbe, allora, ricerca interiore psicologica. Una simile immaginazione costa una grande fatica. Il lavoro di convertire la fantasia in immaginazione è la base delle arti. È anche alla base dei nuovi passi che facciamo nella vita, perché la visione del nostro futuro personale viene prima come fantasie. Di nuovo, quindi, c’è una buona ragione per trattenerle dentro, all’inizio, per immaginarle come progetti molto dettagliati e su vasta scala, prima di decidere se è il caso di provarle nel mondo oppure seguirle ancora all’interno, se viverle all’esterno o viverle dentro.
L’immaginazione e il suo sviluppo sono probabilmente un problema religioso, perché l’immaginazione diventa reale soltanto credendo a essa. La teologia, il credere, è un atto di fede, oppure è la fede stessa, come primario investimento di energia in qualcosa, a rendere «reale» quel qualcosa. La vita interiore è pallida ed effimera (proprio com’è il mondo esteriore negli stati depressi) quando l’Io non vi ritorna, non ci crede, non la fornisce di realtà. Questo investimento, questa dedizione alla vita interiore accresce la sua importanza e le dà sostanza. L’interesse che si presta ripaga rapidamente con l’interesse. Le forze che spaventano diventano più pacate e più gestibili, la donna interiore più umana e affidabile. Non seduce e pretende soltanto, ma comincia a rivelare il mondo in cui ci attira, e dà anche conto di sé, della sua funzione e del suo scopo. Via via che questa «lei» diventa più umana, gli umori a cui si è soggetti diventano meno difficili e personali e sono sostituiti da un sottofondo emozionale più stabile, un tono di sentimento, un accordo. Non essendo più in conflitto con lei, adesso è disponibile più energia per la coscienza, il che dimostra che l’energia spesa in questa disciplina è restituita in una forma nuova. Tuttavia, come in un sistema fisico, non può uscire niente di più di quanto sia entrato. Solo un’attenzione devota e fedele può trasformare la fantasia in immaginazione.
Questa attenzione fedele al mondo immaginale, questo amore che trasforma le pure immagini in presenze, fa di esse degli esseri viventi o, per meglio dire, rivela che l’essere vivente che naturalmente contengono non è nient’altro che la «ri-mitologizzazione». I contenuti psichici diventano «poteri», «spiriti», «dèi». Sentiamo la loro presenza, come la sentivano in passato tutte le persone che avevano ancora anima. Queste presenze, questi poteri, sono i nostri equivalenti moderni degli antichi pantheon di esseri viventi, di parti dell’anima animate, di dèi protettori della famiglia e di sinistri demoni. Questi dèi erano «mitici» in quanto erano parte di un «racconto» o di un dramma psichico. Gli stessi drammi archetipici sonomessiinscenainnoiedanoi,e attraverso di noi e per noi, una volta che sia data attenzione all’aspetto immaginale delle nostre vite e della vita stessa. L’attenzione è la virtù psicologica cardinale. Da essa dipendono probabilmente le altre virtù cardinali, perché non può esserci né fede, né speranza né amore per nessuna cosa, se prima non le viene data attenzione.
Ma c’è un’altra conseguenza del credito che diamo alle immagini dell’anima: comincia a diffondersi e a circolare un senso di auto-indulgenza e di accettazione di sé. È come se il cuore e la parte sinistra stessero estendendo il loro dominio. Gli aspetti ombra della personalità continuano a giocare i loro pesanti ruoli, ma adesso all’interno di un «racconto» più vasto, il mito di sé stessi, semplicemente quello che uno è, e che cominciamo a sentire come se fosse proprio così che si è destinati a essere. Il mio mito diventa la mia verità, la mia vita simbolica e allegorica. Auto-indulgenza, accettazione di sé, amore di sé; ma ancora di più: ci si scopre peccatori ma non colpevoli, grati per avere i nostri peccati e non quelli degli altri, pieni di amore per il nostro destino, fino al punto di desiderare di avere e mantenere sempre questa intensa connessione interiore con la propria parte individuale. Simili forti esperienze di emozione religiosa sembrano di nuovo essere il dono dell’Anima. Questa volta l’Anima ha una qualità particolare, che potremmo meglio definire cristiana, e che comincia a rivelarsi dopo che è stata dedicata una lunga e attenta cura a gran parte della psiche che potrebbe anche non essere cristiana.
Il terzo passo è gratuito. Riguarda la libera e creativa comparsa dell’immaginazione, come se ora il risveglio del mondo interiore cominciasse ad agire spontaneamente, da solo, non diretto, senza che la coscienza dell’Io se ne occupi. Il mondo interiore non solo comincia a prendersi sempre più cura di sé, producendo delle crisi e risolvendole all’interno delle sue trasformazioni, ma si prende anche cura di te, delle preoccupazioni dell’Io e delle pretese dell’Io. Questo è la femminile Shakti dell’India, a uno stato superiore; è anche le nove Muse responsabili della cultura e della creatività. Ci si sente come vissuti dall’immaginazione.
©James Hillman published by arrangement with Agenzia Letteraria Roberto Santachiara

il Fatto 6.10.10
La rabbia inutile del Vaticano
L’arroccamento dogmatico della Santa Sede sul Nobel a Edwards fonda le proprie ragioni su una legge naturale che non esiste nella realtà: per fermare il progresso, un anatema non basta
di Marco Politi


L’ira vaticana contro il premio Nobel concesso a Robert Edwards, inventore della tecnica di
fecondazione in vitro, oscura in fondo il lavoro di tanti scienziati cattolici, impegnati da decenni nelle ricerche genetiche. E ignora anche le riflessioni di tanti teologi e filosofi cattolici che si interrogano – assieme a studiosi diversamente credenti – sui rapporti tra scienza ed etica e sul rischio che il connubio tra tecnologie e commercializzazione manipoli il “consumatore” invece di lasciargli la padronanza dei progressi scientifici.
Le autorità ecclesiastiche paiono invece arroccate su posizioni fossilizzate, che non tengono conto dello stato delle cose. Che senso ha titolare, come fa il giornale dei vescovi Avvenire, “Le mani sulla vita – E ti danno pure il Nobel” ? Sottotitolo ancora più fine: “Il premio al padre di una tecnica inventata per gli animali”. Il testo, per fortuna, è più problematico. Ma si pensa davvero di evangelizzare la società contemporanea agitando l’immagine di scienziati rozzi al servizio della commercializzazione di ovociti o, in altre occasioni, drogati da deliri alla Frankenstein? Il mite papa Luciani, durato solo trentatre giorni, si congratulò con Leslie Brown nel 1978 per aver dato alla luce un bimbo in vitro. Il “parroco veneto”, come lo chiamavano, era evidentemente più avanti del dogmatismo che impera oggi nelle alte sfere ecclesiastiche. Non a caso era prudentemente favorevole alla pillola anticoncezionale, sebbene si fosse poi piegato ubbidiente al veto emanato da Paolo VI con l’enciclica Humane Vitae.
Il fatto è che la gerarchia vaticana si sta aggrappando ad un concetto di “legge naturale”, concepita come legge bronzea incisa da Dio, che l’uomo deve solo “scoprire” e il legislatore applicare. Ma questa legge non esiste. Esistono “riflessioni umane” intorno al diritto naturale, che sempre sono state frutto di un’evoluzione culturale. Lo splendido versetto della Bibbia sull’uomo “creato a immagine e somiglianza di Dio” – oggi presentato come fondamento dell’idea di persona e di dignità umana – per secoli non ha impedito che ebrei e cristiani avessero tranquillamente degli schiavi non provando alcun rimorso di coscienza. È la storia, la cultura che ha cambiato la situazione.
Non c’è un conflitto tra fede e ragione
SU COSA si basa la pretesa della gerarchia ecclesiastica di giudicare che il lavoro dello scienziato, che porta a congiungersi lo spermatozoo maschile e l’ovulo femminile – unione bloccata da ostacoli naturali – è un atto negativa? Qui non siamo in presenza di un conflitto tra fede e ragione, ma tra un postulato teorico assunto autoritativamente e l’osservazione della ragione. E se la natura stessa, con gli aborti spontanei, elimina gli embrioni con gravi tare genetiche, perché una madre dovrebbe impiantarsi un embrione, sapendo che darà vita ad un figlio destinato a morire inesorabilmente quattro mesi dopo? E’ Dio che lo vuole? O lo vogliono uomini, convinti di essere depositari del volere di Dio?
In tema di fecondazione bisogna sapere che il più recente documento della Congregazione per la dottrina della fede “Dignitatis Personae” non ha il coraggio di definire l’embrione una persona umana, perché affermarlo apoditticamente anche nei primi stadi dello sviluppo è destituito di basi scientifiche. Perciò l’ex Sant’Uffizio di rifugia nell’asserzione ambigua che ha “la dignità di una persona”. Ma il vertice dell’astruseria parateologica si raggiunge quando il documento del 2008 indica l’unico metodo di fecondazione artificiale accettato dal
Vaticano. Il preservativo bucato. Lo so, è ridicolo e incredibile. Ma è così. Si chiama Semen Collector Device. E l’elucubrazione si basa sul fatto che la fecondazione è lecita solo se c’è il “rapporto unitivo” tra i due sposi. Dunque i due partner, già stremati da ripetuti insuccessi, dovrebbero mimare il rapporto... il buco nel preservativo lascia “in linea di principio” la possibilità che uno spermatozoo arrivi a destinazione come nel film di Woody Allen, ma “in realtà” i medici dovrebbero rapidamente catturare il seme maschile impigliato nel condom e inserirlo con un sifone nella vagina della donna. Questa è la sola fecondazione artificiale lecita per Santa Romana Chiesa. Succede così negli ospedali cattolici? No. Il partner porta il suo liquido seminale e i medici fingono di non sapere come è stato ottenuto. È la prova provata che la dottrina ufficiale ecclesiastica è totalmente avulsa dalla realtà quotidiana oltre che da quella scientifica. In questo regime è evidente che vi siano ricercatori cattolici, che hanno lavorato sulle cellule staminali embrionali, perché non è vero – come ripetono ossessivamente prelati e anche alcuni politici di centrodestra – che non hanno portato ad alcun risultato concreto. Sono state le ricerche sulle staminali embrionali “totipotenti”, che hanno fatto capire meglio agli scienziati i meccanismi delle cellule staminali “pluripotenti”, prelevate da tessuti umani. L’arroccamento dogmatico impedisce che ci si interroghi sulle questioni a più ampio raggio. Per esempio, nei paesi scandinavi è in corso una riflessione ulla fecondazione eterologa, che mette in primo piano il diritto del figlio di sapere chi sono i suoi genitori biologici e quindi in ultima analisi di crescere con chi gli ha dato la vita. Perché non è vero, in questo caso, che l’amore dei genitori giuridici copre tutto. Ci sono ritmi più profondi – vale, per esempio, per il nato da un utero in affitto – che non sono affatto ininfluenti sulla crescita psichica del bambino. E partorire con un seme prelevato postumo può soddisfare la madre, ma certo impone al nascituro uno stato d’orfano che non ha chiesto.
Ci sarebbero molte cose su cui scienziati e filosofi variamente credenti potrebbero riflettere insieme, se i dogmatici deponessero le armi.

Repubblica 6.10.10
Scienza e fede ai confini della vita
Il Papa e la provetta
Fecondazione artificiale, staminali, clonazione. Con il Nobel a Robert Edwards si rinnova lo scontro tra Chiesa e ricercatori. Ecco perché
di Luca e Francesco Cavalli-Sforza


Dal Nobel per la fecondazione in vitro fino alle staminali, le nuove frontiere della conoscenza e della tecnologia provocano sempre più spesso le reazioni della Chiesa. Ma sarebbe sbagliato pensare di poter impedire la "manipolazione" dell´ambiente per motivi ideologici: questa fa parte del desiderio dell´uomo di spingersi oltre i limiti dell´evoluzione biologica
I teologi insistono sulla libertà e la responsabilità dell´essere umano rispetto all´animale
La questione vera è usare al meglio le nostre conoscenze, non limitarle per timore dell´ignoto

Da quando Robert Edwards, ora insignito del Nobel per la medicina, eseguì con successo la prima fecondazione in vitro, sono passati 32 anni e sono stati concepiti in provetta 4 milioni di bambini. Quattro milioni di esseri umani che non avrebbero altrimenti visto la luce e otto milioni o quasi di genitori contenti, viene da pensare, perché si tratta per lo più di coppie che non avrebbero potuto procreare in assenza delle tecniche di fecondazione artificiale per cui è stato ora premiato il ricercatore britannico.
Colpisce, quindi, la forte reazione negativa che l´annuncio ha suscitato nelle gerarchie cattoliche, di solito schierate a favore della procreazione "a oltranza" e nemiche dichiarate di quasi ogni forma di contraccezione e più ancora di ogni interruzione di gravidanza.
Quali le ragioni di questa condanna, che ha portato alti prelati a contestare l´assegnazione del premio a Edwards? Tre i ragionamenti che spiccano con maggior chiarezza: le tecniche di fecondazione assistita generano embrioni soprannumerari, destinati ad essere congelati per ulteriori eventuali tentativi di impianto e ad essere col tempo gettati nella spazzatura se inutilizzati (è così per necessità pratiche, perché solo i più vitali degli embrioni ottenuti in provetta sono impiantati nell´utero della donna).
La fecondazione artificiale ha reso possibili modalità di gravidanza che non esistono in natura, come le nonne/mamme e l´utero "in affitto". Il divieto ecclesiastico di operare praticamente qualunque manipolazione "tecnologica" sul processo riproduttivo umano.
Questa, a grandi linee, la posizione della Chiesa.
Cosa possiamo dire al riguardo dal punto di vista della biologia? In natura, non ogni fecondazione risulta in una nascita e tantomeno in un individuo adulto e capace di riprodursi a sua volta. Un pesce femmina può deporre anche milioni di uova: solo una minuscola frazione di queste sarà fecondata e si svilupperà fino a produrre un pesce adulto (le altre saranno per lo più mangiate da altri pesci: ragion di più, per le femmine, per produrre un numero maggiore anziché minore di uova). Nella specie umana la situazione riflette le centinaia di milioni di anni di evoluzione divergente che ci separano dai pesci ma non è terribilmente diversa: ogni donna nasce con circa mezzo milione di cellule-ovo, che maturano con la pubertà e divengono disponibili per la fecondazione con cadenza regolare, in genere una cellula-ovo ogni mese lunare. Quando avviene una fecondazione, questo non significa che ogni uovo fecondato si svilupperà in un embrione e poi in un nuovo nato: fra il 30% e il 50% delle gravidanze (la percentuale esatta è sconosciuta) si interrompono ben prima della nascita, per difetti genetici o di altra natura, di solito ben prima che lo zigote o l´embrione abbiano raggiunto lo stadio di feto. Per lo più la donna nemmeno si accorge di essere rimasta incinta, fa solo magari esperienza di una mestruazione più abbondante del solito, quando l´organismo espelle il prodotto del concepimento. Nascere, insomma, non è esattamente un "destino" metafisico dell´uovo fecondato: è semplicemente un tentativo che ha avuto successo.
Ben vengano, quindi, le tecniche di fecondazione artificiale, se permettono di superare qualcuno degli ostacoli intrinseci alla nostra biologia. Se poi a volte sono utilizzate per gravidanze che superano le procedure imposte dalla nostra natura, come nel caso delle madri sessantenni o della fecondazione eterologa, si può discutere sull´opportunità o meno di questo (più che sulla sua liceità) ma non è il caso di prendersela con i ricercatori che hanno messo a punto metodi per combattere l´infertilità.
Il desiderio di spingersi oltre i limiti che l´evoluzione biologica ci ha concesso ha caratterizzato il genere umano fin dalla sua comparsa sulla Terra, quando i nostri antenati vissuti due milioni e mezzo di anni fa hanno imparato a scheggiare le pietre e ad utilizzarle per rompere le ossa di animali morti e succhiarne il midollo, una azione che né le unghie né i denti avrebbero permesso loro di fare. Questa spinta alla conoscenza e alla manipolazione dell´ambiente circostante non si è mai fermata e non si fermerà mai: la questione vera è come usare al meglio le nostre conoscenze, non limitarle per timore dell´ignoto. Che poi la stessa pietra che permette di procurarsi cibo possa essere usata per uccidere un altro essere umano, o che la ruota sia stata usata tanto per macinare il grano nei mulini quanto come strumento di tortura, è una verità della nostra storia: l´uso che facciamo delle nostre invenzioni dipende dalla nostra consapevolezza e dalla nostra libertà.
Le reazioni negative degli ambienti ecclesiastici a questo Nobel non hanno a che fare, però, con la nostra biologia e nemmeno, in fondo, con la questione di un uso saggio e considerato delle nostre tecnologie: hanno invece una radice squisitamente ideologica. Nessuno sembra avere mai protestato per le tecniche di fecondazione artificiale applicate agli animali ormai da decenni. Non vi è mucca nelle nostre stalle che conosca (biblicamente) il toro, la fecondazione impiega solo lo sperma dello stesso (una pratica che riduce la biodiversità e che ha posto all´occasione problemi genetici anche gravi). Il problema è che per i teologi l´uomo gode di una dignità unica e speciale, non perché si comporti meglio delle mucche, dei tori e dei pesci ma perché sarebbe provvisto, unica specie in natura, di un´anima individuale e immortale, distinta dal corpo fisico e preposta in qualche modo ad indirizzarlo. È il congelamento e la successiva liquidazione dell´anima che la Chiesa condanna nel congelamento e soppressione dell´embrione "soprannumerario", non la sorte della masserella di cellule che lo forma. Era più ragionevole, da questo punto di vista, la posizione di San Tommaso d´Aquino, che nel Duecento sosteneva che l´anima entra nel corpo solo quando questo ha assunto forma umana, cioè all´incirca dopo tre mesi di gravidanza (il tempo entro cui l´aborto è oggi autorizzato dalla maggior parte delle leggi, fra l´altro). Negli ultimi decenni la Chiesa ha retrodatato l´ingresso dell´anima nel corpo, facendolo coincidere con il momento della fecondazione. Negli ultimi secoli si è poi deciso di rendere universale questo "diritto all´anima", estendendolo anche a quelle popolazioni, come gli aborigeni di tutto il mondo, che al momento della conquista europea dei continenti ne erano stati esclusi.
Ora, la nozione che esista un´anima distinta dal corpo e immortale è pura ideologia, un´invenzione cui alcuni si associano, altri no. Fra chi è animato da spirito religioso, alcuni preferiscono credere alle reincarnazioni, altri ad una vita unica con giudizio finale. Chi è animato da uno spirito laico pensa invece che in questo secolo siamo sulla buona strada per capire quali interazioni neuronali sono responsabili di ciò che chiamiamo "coscienza" o "autocoscienza", "spirito" o anche "anima". Negli ultimi duecento anni si è scoperto che il numero di cose e di eventi invisibili supera di gran lunga il numero delle cose visibili ma non è emersa alcuna traccia dell´esistenza dell´anima. Plagiato dalla dottrina ecclesiastica, il parlamento italiano ha prodotto anni fa una legge scellerata in materia di fecondazione assistita, negando persino il diritto alla diagnosi preimpianto alle donne che vi fanno ricorso, quindi il diritto ad avere figli se possibile sani. Per fortuna due interventi della Corte Costituzionale hanno mitigato alcune barbarie della legge. Non si vede proprio perché in un Paese che crede nella libertà di opinione le convinzioni di alcuni, sprovviste per di più di ogni riferimento condivisibile, comunicabile e assoggettabile a critica razionale, come è di ogni forma di conoscenza, dovrebbero essere imposte a tutti. La dottrina della Chiesa insiste giustamente sulla libertà e responsabilità dell´uomo; ma se guardiamo le cose da quel punto di vista c´è una domanda che sorge spontanea: se Dio ha provvisto l´uomo della capacità di intervenire sulla natura e sugli altri esseri viventi, perché mai non dovrebbe concedergli il diritto di intervenire sulla vita della sua stessa specie?
La Chiesa cattolica ha sempre favorito la procreazione e questo ha anche un effetto positivo sulla crescita del numero di fedeli, poiché la religione dei figli è quasi sempre quella ereditata dai genitori. In questo caso ha fatto una politica contraria alla procreazione. Forse coloro che la praticano non sono fra i credenti più ligi, ma con questo atteggiamento molti futuri cattolici potenziali sono probabilmente perduti. È vero d´altra parte che il Paese più cattolico del mondo, l´Italia, è quello che ha il numero di figli per famiglia di gran lunga più basso.
Comunque, abbiamo finora sentito solo le voci più estreme: il pronunciamento ex cathedra non è ancora arrivato.

Repubblica 6.10.10
Bisogna guardare alle scoperte tenendo conto dei diversi aspetti che vanno a toccare
Perché etica e ricerca devono saper dialogare
di Piero Coda


La sperimentazione scientifica e l´ingegneria tecnologica non possono esercitarsi in contrasto con il rispetto e la promozione della dignità umana. È questa un´evidenza da tutti condivisa. Ma la contemporanea situazione di pluralismo rende difficile riempire di un contenuto valoriale unanimemente riconosciuto nozioni come quelle di coscienza, dignità umana, vita, ecc. Le nuove frontiere rese fruibili dalla biogenetica, soprattutto, riportano al centro la questione antropologica. La quale, diversamente dal passato, non tende solo a interpretare l´uomo, ma a trasformarlo: e non limitatamente ai rapporti economici e sociali, ma nella sua stessa realtà biologica e psichica. L´interrogativo cruciale diventa allora quello del significato e dell´originalità dell´essere umano nel concerto della realtà, e quello del riferimento plausibile d´ogni sua impresa al rispetto e alla promozione della sua identità.
Le difficoltà che gli esperti della materia, ma non solo, affrontano nell´approntare una base epistemologica condivisibile alla bioetica derivano dalla vastità degli ambiti d´indagine e dalle diverse modalità di approccio alla questione di cui essa si occupa: la vita umana in tutti i momenti del suo sviluppo. Di qui l´impegno ineludibile a far interagire con pertinenza l´approccio scientifico e quello umanistico. Già nel saggio Bioethics, bridge to the future, del 1970, l´oncologo Van Resselaer Potter si concentrava su due aspetti: la dimensione bio-ecologica e il problema della distinzione dei saperi, mettendo in luce come gli attuali squilibri e pericoli per l´ecosistema umano e cosmico sarebbero riconducibili alla spaccatura moderna tra il sapere scientifico e quello umanistico.
Di fatto, i risultati cui le ricerche scientifiche pervengono, e che le tecnologie rendono operativi e incidenti sulla forma della nostra esistenza, suscitano una serie di problemi che esigono un livello esplicativo ulteriore, all´interno del quale le conquiste acquisite possano trovare intellegibilità e senso, evitando di diventare controproducenti, e cioè in fin dei conti di ritorcersi contro l´uomo. L´apertura a un orizzonte sapienziale diverso, ma non contrastante con quello scientifico, è senza dubbio frutto di un personale atto di libertà e di conoscenza, ma può emergere da una ricerca metodologicamente corretta come possibilità di una dimensione interpretativa che dischiuda prospettive inclusive di comprensione e di senso. D´altra parte, i risultati e le proposte maturate in ambito scientifico non possono non interpellare i credenti a prendere posizione, aprendosi a un dialogo interdisciplinare che, al di là di obsoleti steccati e di sterili separazioni fra conoscenza e coscienza, fede e scienza, dogma e ricerca, permetta uno sguardo sulla realtà nella sua globalità e nei suoi diversi livelli di significato.
Non si tratta di sovrapporre una visione metafisica astratta di natura umana all´esperienza umana vissuta e indagata dalla fede e dalla ragione, dalla teologia e dalla scienza, ma piuttosto di cogliere le istanze di senso che si dischiudono in forma positiva da ciascuna di esse, mettendole in dialogo tra loro con reciproco rispetto. Se la scienza è essenziale nel definire quali sono i fondamenti e le condizioni biologiche dell´esistere fisico dell´essere umano, la riflessione filosofica e la teologia sono chiamate a dischiuderne il senso integrale e trascendente, le coordinate del suo ethos e dunque anche i vincoli morali cui debbono rispondere la sperimentazione scientifica e l´ingegneria genetica.
Il Concilio Vaticano II afferma che «nell´intimo della coscienza l´uomo scopre una legge che non è lui a darsi, ma alla quale invece deve obbedire e la cui voce lo chiama sempre ad amare e a fare il bene e a fuggire il male... obbedire ad essa è la dignità stessa dell´uomo». La coscienza non si trova di fronte a precetti estrinsecamente imposti: ma a un progetto aperto da attuare nella gratuità e nella libertà responsabile. In ascolto della nostra umanità.
(L´autore è preside dell´Istituto Universitario Sophia e presidente dell´Associazione Teologica Italiana)

Repubblica 6.10.10
Il neurologo
"E per battere la depressione impariamo a usare la luce"
È utile risolvere dei problemi, un comportamento attivo aiuta la memoria
di p.co.


ROMA - «La prima regola per mantenere il benessere psicofisico è combattere lo stress, responsabile della degenerazione dei neuroni». È il suggerimento di Piergiorgio Strata, presidente dell´istituto nazionale di Neuroscienze che avverte: «Invece di rilassarsi c´è chi, terrorizzato dall´Alzheimer, con i brain training games diventa nevrotico».
Come allenare al meglio il cervello?
«Sono utili quelle attività che servono a esprimersi e risolvere dei problemi, e che prevedono una "fase attiva": migliorano memoria e benessere. Una strategia antistress passa dall´ascolto della musica, utile anche la meditazione»
Come valuta gli effetti della luce e del cibo?
«La luce ha una fondamentale funzione antidepressiva e il nostro cervello è sensibile all´ambiente: stare all´aria aperta aiuta il benessere psicofisico e stimola l´ipotalamo che regola l´attività endocrina. Si tende ad esagerare sulle proprietà di certi cibi sulle capacità cognitive, mentre sono stati provati gli effetti nocivi di chi ne abusa rispetto al deterioramento del cervello».
Che pensa degli stimoli elettrici?
«Un filone di ricerca interessante ma ancora da approfondire: è allo studio la sua valenza applicativa per trattare i malati di Parkinson».

Repubblica 6.10.10
A sei anni dalla morte, convegni e libri ricordano il filosofo
Perché ci serve ricostruire Derrida
Grande studioso e uomo pieno di inquietudini, colse prima di altri i limiti del postmoderno
di Maurizio Ferraris


Sei anni fa moriva Jacques Derrida, grande filosofo e uomo pieno di inquietudini, generosità e segreti che vengono raccontati nella splendida biografia di Benoît Peeters, Derrida, appena uscita da Flammarion. Qui ho letto che proprio nei giorni della sua agonia si era sparsa la voce che avrebbe vinto il Nobel per la letteratura. Quando sua moglie glielo disse, Derrida incominciò a piangere: «Vogliono darmelo perché sto morendo».
Sono quasi le ultime parole di Derrida, che peraltro aveva già preparato un biglietto di congedo dagli amici che suo figlio Pierre lesse al funerale, in una giornata già fredda e con un vento che portava via la sua voce, quasi a confermare il detto verba volant, scripta manent, in cui si potrebbe condensare l´intuizione teorica fondamentale di Derrida.
Sotto il profilo pratico, però, il cruccio di Derrida, prima della fine, era la constatazione di una sorta di effetto collaterale del suo pensiero, e cioè che la volontà di decostruire la contrapposizione tra vero e falso si fosse paradossalmente realizzata nel mondo del populismo mediatico, dove i fatti sembrano dissolversi nel mare delle interpretazioni. Diversamente che nelle speranze della decostruzione, però, l´addolcimento dei fatti non si era accompagnato a un qualche esito emancipativo, ma era spesso tornato a vantaggio di chi "fa i fatti", per esempio dichiarando guerra sulla base di finte prove dell´esistenza di armi di distruzione di massa.
Così il motto di Nietzsche "non ci sono fatti, solo interpretazioni" veniva alla fine a confondersi con "la ragione del più forte è sempre la migliore". Non è un caso che negli ultimi scritti questo verso fosse una specie di Leitmotiv di Derrida, la cui ultima produzione appare come un ripensamento del momento più funambolico della decostruzione: lo stile si fa più pacato, e la critica nei confronti del presente, in particolare nei confronti della politica americana dopo l´11 settembre, è forte e, soprattutto, chiara.
Cogliendo prima di altri i limiti del postmoderno, Derrida aveva incominciato a ricostruire la decostruzione. A sei anni dalla sua morte i lavori sono ancora in corso. Ma cosa significa "ricostruire la decostruzione"? Un primo senso è storico, e consiste nel ricostruire che cosa sia stata – nella sua forza e nei suoi limiti – e più complessivamente a cosa reagisse questo tentativo di fluidificazione di un mondo, quello del dopoguerra, che si presentava come una realtà blindata, fatta di blocchi contrapposti e di identità a tutto tondo. Questo lavoro non è solo interno alla filosofia, e ci permetterà un giorno di comprendere fenomeni oggi difficilmente decifrabili anche perché circonfusi nella luce di un mito positivo o negativo, come per l´appunto il Sessantotto, il postmoderno e il populismo.
Ma c´è un altro senso, teorico, in cui "ricostruire la decostruzione" significa fornire una versione costruttiva e positiva della decostruzione, al di là degli effetti di stile e dell´insistenza sulla critica che caratterizzava il lavoro di Derrida. Nel 1967 usciva un grande libro, Della grammatologia, in cui Derrida, quando tutti erano convinti che la scrittura sarebbe scomparsa, sosteneva che avremmo assistito a una esplosione della scrittura, di cui non si può fare a meno perché è la condizione di possibilità degli individui e della società. Solo che poi, dopo avere enunciato questa tesi dirompente e profetica, si impegnava, con acume e ironia a mostrare come nella tradizione filosofica, da Platone a Heidegger, il ruolo della scrittura fosse stato rimosso a favore della voce, inseguendo il sogno di un contatto immediato tra gli uomini.
Per quello che mi riguarda, continuare un dialogo interrotto soltanto dalla morte di Derrida ha significato articolare in tre sensi l´intuizione fondamentale dello scripta manent. Anzitutto, dando la massima evidenza concreta al lavoro filosofico: la rimozione della scrittura a favore della voce non si trova solo in Platone, ma anche nei telefonini, in cui nessuno, neppure un esperto, avrebbe mai sospettato l´esplosione degli sms. In secondo luogo elaborandola sul piano concettuale, trovando le leggi costitutive per cui la scrittura e la registrazione danno vita a promesse, scommesse, denaro, matrimoni e divorzi, insomma alla nostra felicità e alla nostra infelicità.
In terzo luogo, e soprattutto, limitando la portata del detto di Derrida "nulla esiste al di fuori del testo". No, diciamo piuttosto che "nulla di sociale esiste al di fuori del testo"; ma al di fuori del testo rimane un mondo intero, reale, e indifferente a tutte le nostre interpretazioni. Indifferente, per esempio, alla dichiarazione di un Presidente che, credendo di "fare i fatti", il 1° maggio 2003 dichiarò che in Iraq la missione era compiuta e avevano vinto gli Americani.

Repubblica 6.10.10
Se le biblioteche restano senza libri
"Non si comprano più nuovi titoli. Cerchiamo donatori e sponsor"
Aumentano gli iscritti ma sono quasi bloccati gli acquisti a causa dei tagli: è il paradosso dei luoghi pubblici della lettura in Italia
"Così muoiono le piazze della cultura. Perché qui la gente s´incontra e scopre il piacere dei testi"
Nel 2011 i budget verranno ridotti anche del 35% E si dovrà ridurre anche l’orario
di Michele Smargiassi


La signora poggiò timida sul bancone una copia di Acciaio di Silvia Avallone: «L´ho già letto, posso regalarvelo? Così lo legge qualcun altro... ». In quel momento Monica Grilli, bibliotecaria di Villa Spada a Bologna, capì cos´è una biblioteca nel cuore di un lettore.
«Da otto mesi non acquistavamo un solo libro, noi che di solito stavamo sulle cinquanta novità a settimana. I lettori erano in crisi d´astinenza. Allora qualcuno ha cominciato a comprarli e a donarceli». Per colpa di un pasticcio burocratico (un appalto slittato), Bologna sta sperimentando quel che potrebbe accadere fra poche settimane in tutta Italia, quando la mannaia dei tagli ai bilanci degli enti locali cadrà pesantemente sulle biblioteche di pubblica lettura, le più popolari e frequentate, quelle comunali e di quartiere, le 5265 bibliotechine senza spocchia che saziano quotidianamente, come drogherie all´angolo, la fame di pagine di alcuni milioni di italiani. «Siamo felici di accettare donazioni», è il cartello-appello apparso sulla porta della biblioteca Delfini di Modena.
Non è da oggi che le biblioteche soffrono. Le forbici della crisi dei bilanci comunali (che coprono l´80% degli acquisti di libri "pubblici") tagliano nel vivo da almeno tre anni. In Lombardia, per esempio, dove i lettori continuano ad aumentare (+19% in tre anni) l´inversione di tendenza è iniziata nel 2008, quando per la prima volta in dieci anni i fondi destinati alla pubblica lettura sono diminuiti, da 138 a 132 milioni di euro. Finora però c´è stato spazio per economie strutturali, si è rimediato tagliando qualche attività collaterale, o disdicendo qualche abbonamento alle riviste meno popolari. Ma adesso le previsioni sono nere. «Dovunque è la stessa storia», ammette sconfortata Chiara Silla dalla Regione Toscana, «i bibliotecari mi chiamano allarmati: l´assessore mi ha avvertito, sarà dura quest´anno...». L´Aib (Associazione Italiana Biblioteche) paventa tagli tra il 15 e il 35 per cento nei bilanci 2011, che si sommeranno a quelli del 7-10% già patiti l´anno scorso. «Le piccole economie non basteranno più. Bisognerà scegliere fra la riduzione dell´orario o la riduzione degli acquisti».
Scelta straziante. Gli orari di apertura sono già ovunque ridotti all´osso, di più non si può. A Bologna la bellissima Salaborsa, che già aveva anticipato tra le proteste la chiusura alle 19, forse chiuderà alle 18 e tutti i lunedì, mentre della invocata apertura domenicale non si parla più. Angelo Guglielmi, critico letterario, uomo di libri ma anche amministratore di libri (ex assessore a Bologna, appunto), non ha il minimo dubbio: «Se proprio devo scegliere tra chiudere un´ora prima e acquistare un libro in meno, scelgo la seconda. Le biblioteche di quartiere sono le vere biblioteche, dove va la gente che lavora, sono il maggiore investimento in cultura che possa fare una comunità. Non servirebbe a niente riempirle di libri nuovi e poi chiuderle a metà pomeriggio».
Ma anche calare la scure sugli acquisti è rischioso. Dopo il rinnovo, la biblioteca San Giorgio di Pistoia ha visto più che quintuplicare i prestiti, da 23 a 150 mila: sarebbero stati gli stessi senza l´afflusso di "sangue fresco"? Per Silla, «tagliare le novità è una scelta suicida. Le biblioteche mangiano libri freschi, se glieli togli muoiono di fame». Per una biblioteca, un "buco" anche solo di un anno nell´aggiornamento del catalogo è una perdita di memoria: il vuoto non si recupera più. Rischiamo di avere, tra qualche anno, un sistema bibliotecario malato di Alzheimer. I bibliotecari reagiscono come possono. Centralizzano gli acquisti per ottenere sconti dagli editori (così in Lombardia sono stati compensati i minori stanziamenti 2009), coordinano i cataloghi fra biblioteche vicine, e ricorrono sempre più spesso al prestito inter-bibliotecario, che però rende le biblioteche a "scaffale aperto" più simili alle vecchie biblioteche a catalogo.
Nonostante questo, i numeri della crisi sono impietosi: sugli scaffali delle 83 biblioteche del Vicentino, riferisce il direttore della Bertoliana di Vicenza Giorgio Lotto, sono arrivati nell´ultimo semestre il 15 per cento di titoli in meno rispetto all´anno precedente. «Stiamo rischiando grosso», s´allarma Mauro Guerrini, presidente dell´Associazione italiana biblioteche, «non è solo un problema di aggiornamento culturale, ma di democrazia. Le biblioteche sono i luoghi della socialità, dell´integrazione, della ridistribuzione del sapere. In un piccolo centro sono spesso l´unica risorsa contro il digital divide, in una città offrono un punto d´incontro fra generazioni e culture. Strozzarne la vitalità danneggia tutta la società, non è solo un fastidio per i lettori. Guai a superare la soglia critica».
Proprio in questi giorni il governo, attraverso il Centro per il libro e la lettura, lancia con enfasi la campagna Ottobre, piovono libri. Ma nelle biblioteche di questo stesso Stato sta arrivando la siccità. Impossibile sapere come andrà a finire: ogni comune, ogni assessore farà le sue scelte. In gran parte del meridione biblioteche squattrinate confidano solo sui finanziamenti regionali, ridotti a zero quasi ovunque: in Calabria il bilancio pluriennale 2010-2012 non prevede stanziamenti per le biblioteche, e solo un´insurrezione dell´Aib ha evitato che in Sicilia le forbici riducessero i fondi per i libri a meno di un terzo. Ma perfino in Toscana sta succedendo qualcosa di inusitato: l´iniziativa Un milione di libri, pensata dalla Regione come promozione della lettura, rischia di essere sostitutiva e non aggiuntiva dei capitoli di spesa ordinaria delle singole biblioteche.
Sponsor privati, per i libri, è difficile trovarne. Un bel marchio sull´inaugurazione di una mostra si fa notare, su un libro della biblioteca no. Oppure sì? Silla lancia una proposta disperata: «Siamo disposti a infilare in ogni volume un segnalibro che dica ‘stai leggendo questo libro grazie a... ´. Tutto pur di evitare il black-out». Funzionerà? Una lunga tradizione di indifferenza verso gli strumenti del sapere scritto induce pessimismo. I bibliotecari continuano a raccontarsi, ghignando malinconicamente, la frase che pare sia davvero uscita di bocca a un alto amministratore pubblico, messo di fronte al grido di dolore delle biblioteche: «Chiedono ancora libri? Ma non glieli abbiamo già comprati l´anno scorso? Cos´è, li hanno già letti tutti?».

Repubblica 6.10.10
Van Gogh e i suoi maestri
Quel viaggio a colori dentro l´anima di campagne e città
di Lea Mattarella


Da venerdì, al complesso del Vittoriano di Roma, 70 opere del grande pittore olandese vengono affiancate a 30 dipinti di artisti come Gauguin, Millet e Cézanne
Al centro della rassegna il rapporto con l´ambiente rurale e la realtà urbana
C´è sempre in agguato l´occhio allucinato che costruisce immagini a vortice

La leggenda Van Gogh sbarca a Roma al Complesso del Vittoriano. Con qualcosa di più. La mostra Vincent Van Gogh, Campagna senza tempo - Città moderna, curata da Cornelia Homburg permette infatti di far luce su alcuni aspetti inediti della produzione del pittore olandese, contribuendo a far piazza pulita dei luoghi comuni che spesso lo accompagnano. Sembra incredibile che l´artista più amato del Novecento, probabilmente anche il più studiato e comunque colui che, con la sua vita drammatica e la sua pittura impetuosa, carica di espressività e di pathos, ha ispirato fiumi di inchiostro e chilometri di pellicola, abbia ancora qualche zona da scoprire. Eppure è così.
Viene qui indagato l´ancora inesplorato rapporto tra città e campagna, che si rivela costante nella sua pittura dagli esordi fino agli ultimi, tragici giorni che lo vedono togliersi la vita nel 1890 a soli 37 anni. In una specie di match che mostra tutta l´essenza simbolica, carica di significati di questi spazi. Paesaggi, certamente. Ma anche luoghi dello spirito.
Van Gogh è considerato uno dei più straordinari e originali interpreti dell´ambiente rurale. E non c´è dubbio sia così. Tutti sanno che il suo capolavoro giovanile, I mangiatori di patate, trasforma in eroi dalle membra deformate di una fatica senza tempo, un gruppo di contadini ritratti intorno a un tavolo nella loro umile casa. Ma questo è soltanto un lato del suo sguardo sul mondo. Già agli inizi della carriera, e non soltanto negli eroici anni parigini, l´artista si lascia sedurre dalla città che per lui significa movimento, progresso, irrompere della modernità. Mentre la campagna, con il susseguirsi delle stagioni, il lavoro nei campi, il sole che sorge e tramonta, è il luogo del ripetersi immutabile degli eventi, di una rassicurante circolarità, lo spazio urbano ha il sapore di ciò che è nuovo. E quindi attrae e, nello stesso tempo, crea repulsione. E tra la realtà rurale e quella cittadina c´è un mondo incerto, di passaggio, a cavallo tra i due: il sobborgo, la periferia. E anche questo diventa un grande palcoscenico su cui lavorare, dove le differenze si specchiano, le contraddizioni si esaltano, o magari finiscono per mostrare una loro segreta affinità.
Questo viaggio tra città e campagna, che l´artista ha afferrato con occhio nostalgico oppure inquieto, ma comunque con la foga di chi sta cercando qualcosa di più di una semplice rappresentazione del reale, perché insegue un senso e, addirittura, una verità, attraversa paesaggi, campi e ciminiere, strade, parchi cittadini, cascine. Entra anche nelle case e mostra i volti di chi le abita: da quelli dei contadini, dei tessitori del suo periodo olandese, scuro e bituminoso, fino alla Vecchia Arlesiana, dipinta ormai con la tavolozza chiara che Van Gogh conquista in Francia a contatto con la pittura impressionista, e al Giardiniere, immerso in un paesaggio giallo, come costruito da sole e grano. E poi c´è lui. Il suo sguardo da genio sregolato, ma anche consapevole del suo valore, punge il cuore di chi guarda in tre capolavori che lo inquadrano, alternativamente ma con la stessa fierezza, come un cittadino elegante e sofisticato o come un semplice uomo di campagna con il cappello di paglia e la pipa. Sono dipinti tra il 1886 e il 1887, anni memorabili per Vincent che proprio nell´86 lascia l´Olanda e arriva in Francia dove scopre la potenza del colore puro, della luce e di una pennellata libera e veloce, rivoluzionando non soltanto il suo modo di dipingere ma, anche, per sempre, tutta la pittura del suo tempo. Passato il ciclone Van Gogh, niente sarà più lo stesso.
La qualità dell´esposizione non è soltanto nell´infilata di capolavori che provengono dai più importanti musei del mondo, (dal Van Gogh Museum naturalmente, ma anche dal Solomon R. Guggenheim, dal Louvre, dall´Art Institut of Chicago, dal Rijksmuseum e da molti altri ancora), ma nella coerenza e nel rigore del percorso espositivo in cui ogni opera è come il tassello di un mosaico, il capitolo di un romanzo. Non c´è un quadro che esca dalla partitura. E i due soggetti scelti, il loro scontrarsi e incontrarsi restituiscono il pittore a tutto tondo, attraverso un settantina di opere autografe. A cui se ne aggiungono quaranta degli artisti che lo hanno influenzato: dagli olandesi come Anton Mauve e Anthon Van Rappard al François Millet che lui chiamava père. E poi i capolavori di Paul Gauguin che vive con Van Gogh una breve stagione di comunione di intenti e di lavoro, terminata drammaticamente a Arles, di Paul Cézanne, Camille Pissaro fino a Georges Seurat e Paul Signac che lo introducono al divisionismo. Tra gli amori dell´olandese va ricordato Honoré Daumier di cui Van Gogh copia i Quattro bevitori inserendovi però un particolare significativo per l´idea della mostra: il profilo di una città con il fumo delle ciminiere.
Ecco la sua oscurità nei primi paesaggi in cui sembra sempre che stia per arrivare il temporale. È una campagna, quella dipinta in Olanda, difficile, grigia, fatta di ombre. Eppure per Van Gogh le case coloniche, le cascine dai tetti di paglia resteranno per sempre edifici protettivi, come "nidi di uccelli". Li ritroverà a Saint Remy e a Auvers-sur-Oise e li inquadrerà ancora, sebbene con un fare rapido e un colore puro e totalizzante ormai completamente diversi. Albe, tramonti, torri nella nebbia, contadini che sorgono dalla terra come alberi nodosi sono i soggetti del primo Van Gogh. Non li abbandonerà mai. È il suo stile che cambia, diventando inconfondibile. Ci sono momenti di pace e serenità come nel Ponte sulla Senna d´Asnières, dove si intravede il fumo delle ciminiere di una città che qui, stranamente, non è minacciosa, perché tutto è rosato e sul fiume passano anche le barche. O negli Albicocchi in fiore, i Cipressi con figure, le coppie nei parchi. Ma c´è sempre, in agguato, l´occhio allucinato, la mano febbrile che costruisce l´immagine a vortice, come fosse investita da un vento impetuoso. E sul Seminatore che naviga incerto in un campo blu di notte incombe la città che si allarga, a volte abbracciando, più spesso minacciando. Così nello stesso quadro si incontrano i due temi paralleli: città e campagna. Che altro non sono che il destino dell´uomo.

Repubblica 6.10.10
L'avventura creativa di un genio inquieto
Il tormento da cui nascevano i capolavori
di Achille Bonito Oliva


Ho sempre pensato che l´artista è un errore biologico rispetto alla propria opera. Sennò come si conciliano gli accesi fuochi fatui della pittura di Van Gogh con il suo autolesionismo biografico che lo porta al suicidio: un colpo di pistola in una buca di letame fertilizzante. Ci resta infatti una serie di capolavori a futura memoria di un artista che era riuscito ad imparare molto bene una lezione involontaria, «considerare il dolore senza ripugnanza».
Eppure aveva cominciato la sua avventura creativa, sempre sostenuta anche economicamente dal fratello Theo, con uno sguardo sul fuori del mondo, della detenzione e del lavoro. Certo erano già cupi i disegni di allora e i colori che sigillavano immagini di oppressione psicologica e di denuncia sociale.
All´inizio Van Gogh considera l´arte come un farmakon, che con una forte denuncia iconografica può lenire ogni ingiustizia sociale e poi ogni angoscia personale, liberarlo dalla prigionia di cui è lui stesso vittima e carnefice: il mondo interiore.
Questo universo si dimostra più slittante, insidioso e sconfinato di quanto non possa essere una cella di una comune prigione. Qui dentro, nella sua pittura, davanti c´è il bel canto e dietro la tortura. Un Io liquido lo possiede fino a travolgere ogni divisione tra mondo interiore e quello esteriore.
La sua mano accende continui fuochi fatui cromatici che non riescono a scontornare il suo dolore, la perdita di controllo e le derive della sua mente. Insomma a Van Gogh non basta dar cornice agli orrori della propria sofferenza, quello che lui chiama "l´orrore spaventoso".
Per questo sotto il suo sguardo gli alberi si contorcono, le forme si attorcigliano su se stesse secondo un serpentinato di una sofferenza inarrestabile. Così il suo Autoritratto, l´Arlesiana, la Notte stellata, la sua Camera, portano sempre il timbro deformato di una visione del mondo che anticipa l´espressionismo, quello figurativo delle avanguardie storiche e quello astratto delle neo-avanguardie del secondo dopoguerra.
Si comprende che, quando l´8 maggio del 1889 entra nell´ospedale psichiatrico di Saint-Rémy de Provence, per rimanervi ricoverato 13 mesi, ormai la pittura non è più un farmaco, non riesce a lenire alcuna sofferenza, semmai a rendere visibile l´invisibile, portare alla luce ogni tortura interiore come pura rappresentazione di un dolore ormai tautologico, senza ragione.
Van Gogh crea una sorta di diretta iconografica, una messa in visione stereofonica e squillante, per timbro cromatico del suo squilibrio, invaso ormai da uno sguardo obbligato, quasi anamorfico sulle cose che lo circondano. Come se il suo sguardo accartocciasse il mondo nel momento in cui si poggia sulla pelle del paesaggio e degli uomini con cui è costretto a convivere.

Corriere della Sera 6.10.10
Ateismo, una via per arrivare a Dio
di Giulio Giorello


È vero, pratico il consiglio del poeta Cecil Day Lewis, alias il giallista Nicholas Blake: mai lasciarsi coinvolgere in una discussione con dei teologi. Faccio, però, un’eccezione per rispondere alle garbate critiche che dalle pagine di «Avvenire» (5 ottobre) Vittorio Possenti rivolge al mio libro Senza Dio, edito da Longanesi. In breve, non mi sarei occupato abbastanza dell’Altissimo, rischiando così di «confondere il Signore con il Dio Padrone». Ma non è «padrone» il primo significato di quel termine — dominus — cui tanta teologia ha consacrato i suoi sforzi d’intelletto e sentimento?
Possenti mostra così che ho colpito nel segno, poiché la mia idea di ateismo è quella di una provocazione continua ai credenti e ai praticanti di qualsiasi religione a chiarire i loro presupposti, nella convinzione che questo lavoro serva a tutti, credenti o non credenti: l’ateismo è soprattutto un metodo. Possenti mi chiede: per arrivare a che cosa? Potrei ribattere con le parole di un mio «lettore»: magari per «arrivare a Dio prescindendo da Dio». Ossia da tutte le gabbie in cui i signori della teologia e della morale hanno imprigionato il Dio che ci parla in grandi testi come i Vangeli o il Corano, facendone semplicemente un pretesto per giustificare coazione o gerarchia.
Concordo con Possenti che solo nella coscienza può sorgere l’esigenza della legge morale e civile, ma non vedo proprio perché io o qualsiasi altro «libertario» dobbiamo indicarne un qualche «fondamento» a cui sottometterci con spirito di «servizio». La possibilità di costruire un’autentica solidarietà senza «fondarla come su solida roccia» (cioè, detto senza retorica, senza imporla a chi la pensa diversamente) non è un dettaglio accademico, ma una questione cruciale per qualsiasi democrazia matura. Proposta per gli amici di «Avvenire» (e per tutti i cattolici aperti al confronto delle idee): perché non proviamo a rispondere insieme?

Corriere della Sera 6.10.10
Quando Petrarca scoprì l’onore
di Franco Cordelli


Dobbiamo chiederci cosa indica questo termine: è solo difesa della democrazia?
La scrittrice Chiara Valerio su «l’Unità» di ieri pone a Luciana Castellina dieci domande non già politiche, o sulla politica, ma che si potrebbero definire di natura etica: quali sono i valori (e i disvalori) nell’Italia di oggi? Le prime due e le ultime due riguardano la donna, il ruolo e la posizione della donna, come essa viene valutata (ovvero svalutata), come vi sia una dignità possibile, una risposta alla sempre più incalzante e asfissiante immagine di degradazione.
Non sempre, personalmente, sono d’ accordo con le domande della Valerio. Non tutte le donne provenienti dalla destra offrono di sé figure meno che dignitose. Penso sia giusto premetterlo, si rischia altrimenti di vedere un mondo fin troppo facile da descrivere, troppo rassicurante, e dell’intervista alla Castellina non vi sarebbe neppure bisogno. È lei stessa, l’ex parlamentare di Rifondazione e giornalista del «Manifesto», a chiarire nella prima risposta che gli estremi non aiutano né a vivere né a capire: «Non è vero che la presenza delle donne in politica abbia una relazione di dipendenza carnale o di violenza». Sta pensando ai casi di donne diventate ministro per ragioni improprie o a Marilyn Monroe, morta in circostanze misteriose. «La normalità», dice Luciana Castellina, «è già un’alternativa». Poi, più sotto, insiste: «La politica non è il balletto intorno al summit del potere. Molte donne fanno politica nelle Ong o in ambiti culturali».
Altri luoghi comuni che la Castellina spazza via: perché presupporre (in modo crescente) «che la sinistra si vesta con cachemire e la destra con i maglioni»? Non è forse (aggiungo io) una coltre culturale, che si distende su di noi come menzogna, il convincere che la sinistra altro non sia se non quella delle sue élite? O, ancora, altro luogo comune che la Castellina respinge: «Sono allergica all’introduzione di termini inglesi in politica. I care. Mission. La storpiatura dell’italiano in nome di un’anglofilia che corrisponde a un’americanizzazione culturale e politica».
Ma forse il punto caldo, il più interessante dell’intervista, è nella domanda: «Le parole Onore e Ordine sono di destra? E Senso dello Stato?». Sul secondo punto della domanda la Castellina risponde che Senso dello Stato «è un’espressione di destra, perché sottintende qualsiasi Stato». D’altra parte «che non ci siano parole di destra o di sinistra è sintomo della degenerazione della nostra cultura politica. La sinistra ha smarrito le sue parole, le parole corrispondono a concetti e a fatti». Il primo punto della domanda è però cruciale. «L’onore dei combattenti, dei martiri della democrazia è di sinistra. La parola Onore è sì stata legata alla Patria e alle peggiori cose che la Patria ha fatto, ma la letteratura della Resistenza non parla d’altro che di onore». È indubbiamente vero. Così è la letteratura della Resistenza, sia nelle parole di chi è sopravvissuto sia in quelle di chi non lo è.
Tuttavia, l’uso della parola onore, e il suo concetto, la sua idea non direi siano così pacificamente di sinistra. Nel suo monumentale Forma del vivere, una storia dei moralisti classici italiani, Amedeo Quondam riconosce in Petrarca il suo capostipite. «Qui — dice — si elaborala forma del vivere del nuovo vir bonus: tale per onore e per virtù». Per onore, dunque. Fin dalla metà del XIV secolo. Ma che cos’è onore? È solo difesa della democrazia? O non è qualcosa di complesso, di molteplice, di più antico? Molte sono le ragioni di virtù legate al concetto di onore, questo Luciana Castellina che si richiama alla sacrosanta normalità lo deve riconoscere.
Forse nell’onore sono comprese risposte di fedeltà a virtù che per lei (e per me) sono estranee, ma non per questo meno legittime per chi in loro nome si sia sacrificato.

Corriere della Sera 6.10.10
E la donna non fu più una cosa
Gianfranco Ravasi rilegge il Comandamento della passione e dell’amore
di Armando Torno


Nel libro dell’Esodo (20,17) si legge: «Non desidererai la casa del tuo prossimo. Non desidererai la moglie del tuo prossimo, né il suo schiavo, né la sua schiava, né il suo bue, né il suo asino, né alcuna cosa appartenente al tuo prossimo». Un comandamento ribadito in una formulazione successiva nel libro del Deuteronomio (5,21), con alcune varianti. Se nell’Esodo il primato spetta alla «casa» ( bêt), intesa nella sua dimensione globale che va oltre quella dell’edificio, nel Deuteronomio la donna è estrapolata dall’asse patrimoniale e acquista una posizione autonoma, anzi un primato distintivo: «Non desiderare la moglie del tuo prossimo» precede ed è separato dalla «brama» per le proprietà del capofamiglia. Non a caso l’autore sacro muta il verbo del «desiderio», introducendo la radicale ’wh che denota una maggiore avidità e materialità. Queste osservazioni, con le varianti linguistiche e i relativi significati, si trovano nell’ultimo saggio di Gianfranco Ravasi che, con Andrea Tagliapietra, ha scritto per Il Mulino (nella serie dedicata ai comandamenti) Non desiderare la donna e la roba d’altri (in libreria domani, 7 ottobre, pp. 160 e 12). Ravasi, che ha appena pubblicato da Mondadori Questioni di fede. 150 risposte ai perché di chi crede e di chi non crede ( pp. 266, 19) intervenendo sulle domande più spinose e cruciali, nonché su interrogativi insoliti e curiosi, ha intitolato il suo scritto per il libro de Il Mulino Non desidererai la moglie e la casa del tuo prossimo; Tagliapietra, invece, L’ultima delle dieci parole ovvero non desiderare. Dalla nuova interpretazione del comandamento scritta da Ravasi per l’editrice bolognese offriamo in anteprima un estratto riguardante l’«oggetto del desiderio». Sì, il desiderio. Se per Aristotele nel De anima rappresenta «l’appetizione di ciò che è piacevole», Heidegger in Essere e tempo l’ha connesso ontologicamente alla natura dell’uomo, mentre Spinoza incantò romantici e idealisti con la definizione dell’Etica: «La tristezza che riguarda la mancanza della cosa che amiamo». Ravasi in Non desidererai la moglie e la casa del tuo prossimo ricorda che il desiderio è una delle componenti capitali e positive della spiritualità biblica, anche se per la fede continua a conservare un’ambiguità. Del resto, nella Prima Lettera di Giovanni (2,16) si legge il monito contro la bramosia che lo ha trasformato in concupiscenza. Senza la quale, tuttavia, per Oscar Wilde, la vita si riempirebbe di sbadigli. Ha scritto in Lady Windermere’s Fan: «Preferisco le donne con un passato. La loro conversazione è sempre così maledettamente divertente».

Corriere della Sera 6.10.10
Sesso e corpo: i vocaboli del desiderio
di Gianfranco Ravasi


È suggestivo osservare che il vocabolo ebraico del desiderio sessuale, teshuqah, che nella Genesi rappresentava l’oscura pulsione sessuale («Verso tuo marito sarà la tua teshuqah / desiderio, ed egli ti dominerà», 3,16), nel Cantico viene riproposto come segno di donazione e di comunione totale: «Io sono del mio amato e la sua teshuqah / desiderio è verso di me» (7,10). Certo, il desiderio non elide la sua componente sessuale ed erotica, come appare nelle stupende rappresentazioni dei corpi dei due innamorati (capitoli 4; 5; 7). Anche Pio XII, in un discorso del 29 ottobre 1951, affermava: «Il Creatore stesso ha stabilito che nella reciproca donazione fisica totale gli sposi provino un piacere e una soddisfazione sia del corpo sia dello spirito. Quindi, gli sposi non commettono nessun male cercando tale piacere e godendone. Accettano quello che il Creatore ha voluto per loro». La sessualità e l’eros devono però inserirsi nella donazione d’amore che trasforma e trasfigura il desiderio facendolo tendere a quella pienezza, totalità, assolutezza che la donna del Cantico esprime nella sua «professione d’amore»: «Il mio amato è mio e io sono sua. Io sono del mio amato e il mio amato è mio» (2,16; 6,3).
La tensione rimane perché la creatura umana è fragile e può contaminare la purezza assoluta della donazione. Questa tensione, però, è anche positiva. Infatti, il desiderio di sua natura rimane sempre mobile e dinamico, e dev’essere conservato anche in questa sua qualità: essa è ben rappresentata dallo stupore e dalla tenerezza, che brillano soprattutto nello sbocciare dell’amore. Il desiderio dovrebbe saper mantenere continuamente questo clima di dolcezza, questa sorta di «stato nascente» dell’amore che ne rivela la vitalità, ma anche il suo non essere un possesso acquisito. Come si è già detto, pur nell’abbraccio, la coppia del Cantico sa che sempre deve correre verso «i monti dei balsami» (2,17; 8,14). Si intuisce, così, anche nel desiderio dell’amore umano, quell’ «insoddisfacibilità» che è tensione verso l’assoluto e l’infinito: è l’«inquietudine» agostiniana che può «riposare» solo nella trascendenza e quindi in Dio. Per questo possiamo parlare di «simbolicità» del desiderio: esso vive nella realtà concreta, presente e temporale, ma al tempo stesso si protende verso l’Altro, l’Oltre, lo Spirito, l’Eterno. Lacan, che al desiderio ha dedicato un’analisi interessante (basata sulla nostalgia del bambino separato dalla madre), connettendosi proprio al linguaggio simbolico, dichiarava: «Se bisogna fondare la nozione dell’Altro con una A maiuscola come il luogo della parola, bisogna affermare che, essendo l’uomo un animale in preda al linguaggio, il suo desiderio è il desiderio dell’Altro».
La storia umana è scandita da grandi desideri che, come il mare è composto da tante gocce, si costruiscono e si sviluppano a partire da singoli desideri personali. Si ha, in tal modo, una tensione universale e costante non solo «verticale» nel procedere oltre che è propria del desiderio, ma anche «orizzontale» fra desideri opposti, negativi e positivi. È quello che è illustrato a livello generale dalla Città di Dio agostiniana ed è anche ciò che, nel microcosmo del singolo, ha descritto sant’Ignazio di Loyola nella sua parabola delle «due bandiere»: esse hanno schiere opposte di seguaci, in marcia verso mete antitetiche, spinti dai loro desideri. La dinamica della storia universale e di quella personale presuppone, dunque, anche uno scenario tenebroso. Ai figli della luce si accostano e si oppongono i figli delle tenebre, alla tavola luminosa del desiderio dell’amore si allinea in un dittico anche la tavola notturna del desiderio degenerato che tende verso il negativo, l’abisso infernale. Anche la Bibbia raffigura in modo plastico questo desiderio cieco, indomabile e dotato di un suo insaziabile dinamismo, di un’insoddisfazione inestinguibile. Pensiamo, per esempio, al racconto — straordinario anche a livello psicologico — della passione cieca di Ammon che lo conduce allo stupro di una sua sorellastra, la bellissima Tamar, figlia di suo padre, il re Davide: «Ammon afferrò Tamar e le disse: Dài, unisciti a me, amore mio! E lei: No, fratello mio, non farmi violenza! Non commettere questa infamia! Egli però non ne volle sapere: era più forte di lei e la violentò unendosi a lei. Ma dopo l’atto, Ammon provò verso di lei un odio grandissimo, l’odio che sentiva verso di lei era ben più potente dell’amore con cui l’aveva prima amata» (si legga l’intero testo 2 Sam 13, 1-17). La brutalità della pulsione insita nel desiderio affiora spesso nelle narrazioni bibliche: le scene di Sodoma (Gen 19) e di Gàbaa, quest’ultima ancor più truculenta (Gdc 19), descrivono le crude e brutali passioni come pure le violente e infami pulsioni degli uomini della steppa che ancor oggi si ripetono nei deserti metropolitani.

Avvenire 6.10.10
Dio non esiste? Pochi lo affermano con convinzione. Molti pensano di poter fare a meno di Lui. La riflessione dello storico Poulat
Non ci sono più gli atei di una volta
di Èmile Poulat


Sylvain Maréchal (1750­ 1803) è ancora conosciuto per il suo Dizionario degli atei antichi e moderni (1800), dove non si lesina sui nomi: ci sono Pascal, sant’Agostino e perfino Gesù, ovvero tutti quelli che sono stati critici con la religione della loro epoca. Però questo discepolo di Lucrezio detestava gli atei del suo tempo, gente che veniva da un’aristocrazia libertina, dissoluta, perversa. Per reazione aveva fondato una «lega dei senza-Dio» e le aveva dato una liturgia che, ogni dieci giorni, celebrava il culto della virtù. Di certo non si tratta della maggior preoccupazione dei nostri contemporanei, tuttavia questa distinzione merita di essere annotata e ripresa in un altro senso.
Ateo e ateismo sono parole attestate nella lingua francese dalla metà del XVI secolo. La loro diffusione sarà lenta e a volte curiosa (vedi Balzac e la sua Messa dell’ateo ). Oggi l’ateismo fa pochi seguaci: in Francia, l’Unione degli atei non dovrebbe superare i 2 o 3000 aderenti. Vi si aggiungono quanti preferiscono definirsi liberi pensatori, umanisti, razionalisti, materialisti (termine però caduto in disuso) o libertari («Né Dio, né maestro»).
Tutti costoro esprimono una convinzione forte e chiara, spesso militante. Si contrappongono così a quelli che si dicono decisamente, profondamente religiosi in base a un’appartenenza: in genere cattolica, protestante, ortodossa, ebraica, musulmana, buddhista.
Il mondo vago della «non credenza» oggi è maggioritario in Francia. I sociologi hanno mostrato la sua differenza e misurato il grado e le forme di legame alle grandi denominazioni religiose, nel senso di un crescente allontanamento. Ciò che domina oggi è quello che in termini dotti si chiama agnosticismo e indifferentismo, accompagnato da un crollo – in una o due generazioni – della cultura religiosa tradizionale veicolata dal catechismo, dalla scuola e dall’ambiente. Resiste in modo oscuro, celato a un’osservazione frettolosa, ciò che Serge Bonnet ha definito le «preghiere segrete dei francesi moderni» e la loro alchimia: un immenso terreno incolto o quasi.
Gli atteggiamenti e le iniziative «missionarie» della Chiesa francese di fronte all’ateismo aspettano ancora il loro studio sistematico e ragionato. Nel 1940, nella piccola serie «Cattolica» di Gallimard, padre Sertillanges, domenicano conosciuto per la sua apertura, pubblicava un opuscoletto, Atei, fratelli miei . «Non esistono atei, ci sono soltanto persone che credono di esserlo; ci sono soltanto degli incoscienti», scriveva. È il pensiero espresso da Jean-Luc Marion in una recente conferenza in Svezia: l’ateismo è impossibile. Il cardinal Veuillot, futuro arcivescovo di Parigi, esigeva dai padri Le Sourd e Liégé, autori di Credenti e non credenti oggi (1962), la sottolineatura che l’ateismo era peccato grave. Nel 1965, il Vaticano II lo collocava «tra i fatti più gravi del nostro tempo» e creava un Segretariato per i non credenti di cui il cardinal Poupard ha assunto la direzione per un quarto di secolo.
Siamo così passati dal Dio-Sole (i nostri ostensori), luce del mondo (lux mundi), a ciò che Léon Brunschwig, professore alla Sorbona, definiva nel 1928 La disputa dell’ateismo e il suo successore Étienne Souriau nel 1955 L’Ombra di Dio.
Torna qui la vecchia distinzione di Sylvain Maréchal, pronta per un nuovo uso: l’ateo è colui che – a torto o a ragione – afferma la sua convinzione che Dio non esiste o almeno che non c’è alcuna prova della sua esistenza. L’uomo senza Dio è colui che, molto semplicemente, senza farsi troppi problemi, fa a meno di Dio, pensa senza di lui ed esiste senza di lui. È decisivo cioè non quanto si agita nel cuore delle persone, e neppure il movimento di un mondo che deve tutto al proprio sforzo, bensì la condizione umana – comune a tutti, credenti e non credenti – compresa tra queste due istanze.
«E Dio in tutto ciò?», chiedeva Jacques Chancel agli ospiti alla fine del suo programma
Radioscopia. Ad ognuno la sua risposta, ma – quale che sia – dovrà tener conto del rullo compressore all’opera «in tutto ciò». Dio era onnipresente.
Esclusa una serie di nicchie a volte anche di una certa importanza, è diventato o diventa onni-assente nella vita sociale, pubblica o privata. È la crescente pressione della quotidianità a costruire l’uomo contemporaneo. Si tratta di un dato essenziale per una riflessione cattolica preoccupata dell’«apertura al mondo» e sempre a rischio di ripiegamento su se stessa.
(per gentile concessione del quotidiano «La Croix»)