domenica 10 ottobre 2010

l’Unità 10.10.10
La sfida del programma
Bersani: «È il Pd l’alternativa Rischio di derive autoritarie»
 Il leader democratico incassa il sì sulla «svolta» del programma: «D’ora in poi si parla dei problemi»
Papa straniero? «Abbiamo un nostro progetto e non faremo gli utili idioti per qualcun altro»
Bersani incassa il sì unanime sul programma e rilancia l’allarme sul «secondo tempo» del berlusconismo: «Rischio di deriva plebiscitaria». Rivendica: «Senza il Pd non c’è alternativa e il premier non va a casa».
di Simone Collini

Ai compagni di partito che storcono la bocca sul nome di Casini o di Fini dice di non fare troppo i «sofistici» perché di fronte al rischio di «una deriva plebiscitaria» bisogna dar vita a una «alleanza per la democrazia» quanto più larga possibile. Agli alleati o aspiranti tali dice invece di smetterla con infide punzecchiature o plateali attacchi, perché «chi maltratta il Pd deve riflettere sul fatto che senza di noi Berlusconi non va a casa, senza il Pd non c’è alternativa». E se poi ci sono alcuni che pensano che per battere il centrodestra sia meglio affidarsi a un “papa straniero”, magari da reclutare tra gli imprenditori invece che tra i politici, ecco, anche per questi Pier Luigi Bersani ha un messaggio piuttosto preciso, e cioè che i Democratici hanno un loro «progetto per l’Italia» e non faranno i portatori d’acqua (di voti) per altri: «Spero che sia chiaro agli altri e anche in casa nostra, il Pd discute con tutti ma non fa la salmeria di nessuno dice tra gli applausi dei mille raccolti al Malpensafiere di Busto Arsizio, in provincia di Varese e nessuno pensi che possiamo fare gli utili idioti di qualcos’altro. Avremo il fisico per essere il traino dell’alternativa».
LA SVOLTA DI VARESE
L’Assemblea nazionale di Varese si chiude con quella che Bersani definisce una «svolta» per il suo partito, per via delle proposte su fisco, federalismo, immigrazione, piccole e medie imprese, ma anche per la discussione che c’è stata in questi due giorni di lavori, diversa da quella delle settimane passate. «Le gazzette sono ancora troppo piene di un partito che parla di sé e non dei problemi, che sono tanti. Non possiamo permetterci scarti su questo, perché i tempi stringono», dice il leader del Pd facendo anche notare che se il partito oggi «non viene rispettato abbastanza né dagli avversari né dagli amici» le cose cambieranno, ma a una condizione: «Che ci rispettiamo noi. E qui ci siamo rispettati».
SFIDA SULLA RIFORMA FISCALE
Non mancano i distinguo, qualche lamentela da parte di chi si aspettava di più su alcuni punti specifici, ma la discussione e poi l’approvazione all’unanimità dei documenti programmatici dà ai vertici del Pd la sensazione di ripartire da Varese con gli strumenti giusti per interloquire con la società. «Il problema oggi è la disaffezione nei confronti della politica, e qui abbiamo riavvicinato la politica ai cittadini, alle persone che lavorano», dice Bersani sfidando la destra a discutere il pacchetto di proposte fiscali lanciato dal Pd a sostegno dei redditi medio-bassi e in favore di chi reinveste nella propria azienda: «La riforma fiscale è un’urgenza in una fase di crisi come questa, e dal governo finora sono venuti solo balbettii e promesse mentre le tasse sono aumentate, per chi le paga».
SANSONE E I FILISTEI
Le proposte programmatiche lanciate a Varese in questo «Nord tradito dalla destra, preso in ostaggio da un interesse politico», sono per Bersani «materiali per un combattimento» che non sarà facile: «Non siamo oltre ma nel secondo tempo di Berlusconi, ed è la fase più pericolosa. La fine del berlusconismo non sarà un pranzo di gala, Berlusconi non se ne andrà bevendo una tazza di thè, preferirà il “muoia Sansone con tutti i filistei”». Quello che si è visto nelle ultime settimane, dice i leader del Pd, potrebbe non essere che l’inizio: «Se ci siano dossier in giro non lo so, però c’è paura in giro. Io no, io no eh ripete due volte ma c’è paura in giro, e non solo a Roma».
GOVERNO PER LA LEGGE ELETTORALE
Il rischio è che anche qualche «pilastro costituzionale» venga buttato giù dalla crisi della destra. Per questo è meglio evitare «sofismi» e cercare «tutte le possibili convergenze» per arginare il rischio di una «deriva plebiscitaria» e anzi «mettere in sicurezza la democrazia». E questo vuol dire non solo lavorare «con chi ci sta» per un governo tecnico che cambi la legge elettorale. Ma anche, nella prospettiva del voto, dar vita a un Nuovo Ulivo con le «forze di centrosinistra che abbiano attitudine di governo», e anche, pur senza ripetere l’errore dell’Unione, «ricercare un patto di governo con tutte le forze di opposizione», Udc compresa.
Un discorso condiviso dalla platea, che risponde con applausi ai passaggi sulla sfida alla destra e agli appelli all’unità. E da Dario Franceschini: «Siamo in una situazione di emergenza a cui si risponde con strumenti di emergenza, e cioè un appello a tutti quelli che ci stanno per cambiare questa legge elettorale e poi tornare alla normalità del bipolarismo». Applaude alla fine anche Walter Veltroni, che pure nelle settimane scorse aveva messo in guardia circa i rischi insiti nelle “sante alleanze”. Oggi l’ex segretario dice però di aver «apprezzato» il discorso di Bersani: «Ha ascoltato ed ha tenuto conto e risposto positivamente a molte delle osservazioni che erano state fatte. È proprio il metodo giusto per rafforzare il partito e il suo profilo riformista».

Repubblica 10.10.10
Bersani: "Berlusconi è pericoloso serve un governo di transizione"
Il leader Pd: dal governo balbettii sul fisco. Stretta sugli immigrati
Il segretario agli alleati: "Non maltrattate il mio partito, senza di noi non c´è alternativa"
Anche Franceschini rilancia l´Alleanza costituzionale: "È il momento dell´emergenza"
di Giovanna Casadio

Busto Arsizio - «Non se ne andrà, quest´uomo, sorseggiando il thè. Siamo in un secondo tempo di Berlusconi ed è la fase più pericolosa». Pier Luigi Bersani lancia l´allarme sulla fine del governo Berlusconi. Maniche rimboccate (come da slogan «Rimbocchiamoci le maniche»), il segretario del Pd denuncia un clima di paura: mentre l´Italia di certi tg di regime sembra «alla Gozzano», ossia senza problemi. Invece crisi economica e sociale si stanno avvitando e qui occorrono «ricette concrete». Rilancia: «Siamo pronti a un breve governo di transizione per la legge elettorale. Per questo progetto ci rivolgiamo a tutte le forze che vogliono mettere in sicurezza la democrazia». Stessa identità di vedute con Dario Franceschini, che poco prima ha detto: «A emergenza democratica si danno risposte di emergenza». Non è «tempo di sofismi, ma di far comprendere la posta in gioco - insiste Bersani -. Se diffondiamo l´idea che c´è voglia di inciucio facciamo solo danni». Mentre qui c´è una legge elettorale che è una «stra-vergogna», che con il 35% dei consensi consente di prendersi tutto «compresa la maggioranza delle Camere riunite per eleggere il capo dello Stato».
Il catino del Malpensafiera, dove si tiene l´Assemblea nazionale dei Democratici - nella tana della Lega - applaude a lungo. «Da qui», dal varesotto laborioso, delle piccole e medie imprese, delle partite Iva, degli artigian,i «deve partire la svolta». Sul fisco. Altro che «i balbettii, la riforma fiscale è un´urgenza. Sono due grandi messaggi: alleggeriamo il lavoro e l´impresa, la famiglia con i figli che ha difficoltà. Non lasciamoli a Bossi che fa solo promesse. Non è vero che siamo stranieri al nord, il sogno e il progetto di Bossi e Berlusconi sono falliti. Il Nord tradito, l´Italia tradita. Dov´è il federalismo? Chiacchiere. Si parlava di fisco, infrastrutture, burocrazia. non c´è un miglioramento in nessuno di questi campi». Lo dice tutto d´un fiato Bersani in un´ora circa di intervento, che piace anche a Veltroni («Giusto il metodo per rafforzare il partito «) e ai «75» movimentisti. Sull´immigrazione, che è stato in questa due giorni varesina il punto di massima distanza tra maggioranza e minoranza del Pd, si lascia la palla ancora in campo.
Veltroni ha fatto una proposta (gli ingressi a punti) che al ministro dell´Interno, Roberto Maroni piace. Bersani media: «Sull´immigrazione noi dobbiamo trovare un´idea che non oscilli tra modelli securitari e modelli buonisti, bisogna essere razionali». A condurre l´attacco contro Veltroni è soprattutto Franceschini. La disfida tra i due è aperta su immigrazione, "buonismo" e integrazione. Il capogruppo alla Camera rivendica: «Sì alle regole certe per l´immigrazione ma io sto dalla parte del cardinale Tettamanzi, coniugare accoglienza e integrazione». E i delegati democratici s´infiammano. Poi un altro affondo: «No alle ipocrisie, per cui si va d´accordo nelle riunioni ufficiali, di partito mentre si fa la guerra sui giornali». Fioroni, Veltroni e Gentiloni giudicano l´attacco «un errore». D´altra parte, Bersani invita a «rispettarsi anche dentro il partito per farsi rispettare, siamo un bel partito». Si rivolge anche a Vendola: «Senza il Pd Berlusconi non va a casa, non siamo utili idioti, non faremo la salmeria a nessuno. Chi maltratta il Pd rischia di tenersi Berlusconi». Apre il capitolo alleanze. «Mai più l´Unione - assicura - in cui mentre il governo faceva le uniche cose per il Nord come il cuneo fiscale e le infrastrutture, qualche tuo alleato metteva le dita negli occhi. Noi vogliamo bene agli artigiani, alle piccole imprese, a chi lavora per bene». Sette i documenti programmatici votati per far decollare la sfida al Nord. Bersani ringrazia i «democratici lumbàrd». Daniele Marantelli, il pd varesino che si è speso per organizzare la kermesse, incassa i complimenti. Tra un mese appuntamento a Napoli.


Repubblica 10.10.10
Il documento dell’ex segretario sull´immigrazione divide i democratici. La Turco: "Dobbiamo essere alternativi al Pdl"
L’ultimo affondo dei dalemiani "Ormai Veltroni parla come la destra"
di Goffredo De Marchis

Sempre più netta la divisione tra Walter e Franceschini. L´ex sindaco: "Dario fuori luogo"
Il documento approvato è stato apprezzato dal ministro degli Interni Maroni

Busto Arsizio - Una lunga mediazione notturna. E un testo approvato all´unanimità perché alla fine lascia in piedi tutte le posizioni: immigrazione selettiva sì, ma attraverso le quote o i punti? C´è una bella differenza e se ne riparlerà più avanti. Ma il sasso è lanciato, Veltroni impugna, con il tema extracomunitari, la bandiera dell´innovazione che secondo lui tanto manca nel Partito democratico. E non ha intenzione di mollarla se è vero che nei prossimi giorni la materia-chiave su cui si giocano i voti del Nord sarà oggetto di un confronto tra lui e il ministro dell´Interno Maroni a Porta a porta. Sull´«immigrato doc», più integrabile se ha la laurea e conosce un po´ di italiano come semplificano nella sala di MalpensaFiere alcuni delegati del Pd non proprio veltroniani, finiscono per misurarsi anche gli schieramenti interni. Il dalemiano più alto in grado presente a Busto Arsizio, stante l´assenza di D´Alema, è Nicola Latorre. Non usa mezzi termini: «Un´iniziativa, quella dell´ammissione a punti, da partito di destra. Non la condivido e penso che inseguire la Lega sul suo terreno non sia né utile né giusto». Il franceschiniano David Sassoli, capodelegazione del Pd al Parlamento europeo, tira fuori un po´ di fogli dalla sua cartella: «Ecco qua. La proposta di Walter è identica a quella dei partiti conservatori. L´idea delle forze progressiste nella Ue muove dall´integrazione».
Si dice in sala che Maroni sia attento al documento dei veltroniani. L´attenzione dei leghisti naturalmente diventa un tema scivoloso dentro il Pd, tanto più dopo le ferite dei recenti scambi di accuse sull´intelligenza con il nemico. Ecco perché l´ex segretario Veltroni fa sapere che quando vedrà Maroni in tv l´argomento sarà la lotta alla criminalità. Si sono consumati sulla serissima questione anche alcuni duelli che riguardano le dinamiche interne, soprattutto nell´area della vecchia minoranza. Jean Leonard Touadì, il deputato di colore già assessore nella giunta Veltroni, ha trovato la sua firma in cima all´elenco del documento sui punti. «Ma io non l´ho mai firmato», ha chiarito e alcuni suoi colleghi hanno fatto notare la strumentalità della mossa. Livia Turco ha precisato che l´ipotesi dei punti era anche nel suo documento iniziale. Certo non con quella chiarezza. Prima di chiudere i battenti dell´assemblea nazionale ci tiene a dire: «Noi siamo alternativi al centrodestra su queste politiche». Come dire: altri lo sono meno. Ma il cattolico Andrea Sarubbi difende il documento veltroniano: «Vedo il mio blog. Si sente la necessità di un approccio diverso».
Veltroni, seduto in prima fila, raccoglie i dubbi, discute senza polemica con la Turco. È infastidito dall´intervento di Dario Franceschini. Per l´attacco diretto a chi predica unità negli organismi del partito e poi sui giornali il giorno successivo alimenta divisioni. «È fuori luogo. Le interviste ai giornali le facciamo tutti, anche lui», commenta l´ex segretario. Anche le parole sull´immigrazione sembrano rivolte agli ex amici della minoranza. «Noi abbiamo un´idea diversa dalla destra. Sto con il cardinale Tettamanzi: accoglienza e integrazione», dice il capogruppo. Dal palco il segretario Pier Luigi Bersani media: «Non dobbiamo essere buoni con il fenomeno. Ma razionali. E soprattutto dobbiamo trovare il modo per cui non deve pagare un povero italiano l´arrivo di un altro povero straniero». Prima che si spengano le luci di MalpensaFiere, Veltroni elogia il segretario per il suo discorso: «Usciamo meglio di come siamo entrati. Il Pd ora è più aperto, più plurale». Ma anche l´asse Franceschini-Bersani sembra solidissimo. Sono due minoranze o ex tali che cercano un rapporto diretto con il leader del partito. Un vantaggio per Bersani.


il Fatto 10.10.10
Il Pd va al Nord ma fa autoanalisi collettiva
L’Assemblea nazionale vuole riconquistare le roccaforti leghiste
di Ferruccio Sansa

Dal palco Bersani lancia allarmi sulla “seconda fase” di Berlusconi: “C'è il rischio di una deriva plebiscitaria, per fermarla dobbiamo essere pronti a un’alleanza per la democrazia con chi ci sta. Questa legge elettorale consente, con il 35 per cento dei voti, di prendersi tutto, compreso il capo dello Stato”. Intanto i gruppi di lavoro del Pd votano le proposte sul fisco: aliquota fissa del 20 per cento per prima fascia Irpef, redditi da piccola impresa e da capitale.
“Il Pd è venuto al Nord”. Lo ripetono una, dieci, cento volte. È il mantra dell’assemblea nazionale del Pd. Uno slogan che è un lapsus freudiano: “Macché venire, non siamo un partito romano. Al Nord ci siamo già”, sibila Pippo Civati, lombardo, 35 anni, una delle menti più aguzze del Pd.
È vero, il Pd nel Nord c’è già. Almeno, una volta c’era. Siamo alla Malpensa, nel cuore del Nord leghista. Qui, vent’anni fa, c’erano amministrazioni di sinistra. Oggi sono più rare dei panda. Per capire il crinale su cui cammina il Pd bisogna ascoltare ogni parola di questa due giorni. Si chiama assemblea nazionale, ma sembra una seduta di autoanalisi collettiva. Si ascoltano le proposte del Pd che vuole conquistare il Nord. Ma venire alla Malpensa aiuta soprattutto a capire che cosa il Pd pensi di sé.
“Siamo progressisti, ci vedono conservatori”
A COMINCIARE da quell’immagine folgorante di Enrico Letta che vale cento discorsi: “Noi siamo progressisti, ma ci percepiscono come conservatori”, dice il vice-segretario. E il suo sguardo si sposta verso il palco con Anna Finocchiaro, Dario Franceschini, Rosy Bindi. In prima fila Piero Fassino, Walter Veltroni e Nicola Latorre: gli stessi volti di vent’anni fa. Un’altra frase dai risvolti freudiani. Mentre Letta la pronuncia, ecco Civati, con quell’espressione tra l’intellettuale e il Pierino, che raccoglie le firme per limitare l’eleggibilità degli onorevoli a tre mandati (“già prevista nello statuto”). Sarebbe una strage: dei leader ne resterebbe una manciata. Così Nicola Latorre, che ha resistito imperturbabile alle intercettazioni Antoveneta, propone una versione tutta sua: “Idea saggia, ma bisogna prevedere deroghe per alcuni leader. Le deroghe fanno parte delle regole”. Ma qualcuno ironizza: “C’è gente eletta con Giolitti”. Davvero, più che un analista politico, qui ci vorrebbe un analista tout court. Annoterebbe le frasi in cui i vertici del Pd ripetono – a se stessi, prima che al pubblico – chi sono. “Noi siamo il cambiamento” (Letta). “Noi siamo le persone giuste per vincere” (Bindi). “Siamo un bel partito, non ci rispettano abbastanza” (Bersani). Dal lettino il paziente Pd rivela i propri incubi: “Tocca a noi, noi possiamo farlo, non Beppe Grillo” (Veltroni). Già, Grillo, Vendola e, ovviamente, la Lega, le “soluzioni rabbiose” (Bersani).
L’obiettivo dell’assemblea era, per dirla con il deputato Daniele Marantelli, “fare proposte concrete”. Poi, però, ecco soprattutto echeggiare quel nome: il Cavaliere. “Berlusconi rilancerà, forse fino a far traballare qualche pilastro costituzionale, non sarà un pranzo di gala. Non siamo oltre il berlusconismo, siamo al secondo tempo ed è la fase più pericolosa” (Bersani).
“Peccato”, allarga le braccia un delegato, “perché nei documenti presentati all’assemblea affrontavamo le questioni care al Nord. Facevamo proposte concrete”. Vero, se ne discute nei gruppi di lavoro, ma quando i rif lettori di tv e giornali sono spenti. I taccuini annotano piuttosto la sistemazione in sala, secondo schieramenti contrapposti. Misurano gli applausi tiepidi che le diverse correnti riservano agli avversari. E dire che in Lombardia l’anno prossimo si gioca la battaglia forse decisiva per la stessa sopravvivenza del Pd: si vota a Milano. Il centrosinistra, se non si divorerà da solo, potrebbe farcela nel regno di Berlusconi.
La curiosità degli imprenditori
ALLORA , alla fine, lo sbarco al Nord è riuscito? “Sì, siamo venuti per vedere le carte alla Lega e scoprire il bluff”, non ha dubbi il delegato lombardo Carlo Benetti. E il suo “amico” di partito (si chiamano così quelli che una volta erano “compagni”) Dario Terreni aggiunge: “Qui a Varese abbiamo 25 mila disoccupati, il 20 per cento sono giovani sotto i 25 anni. E la Lega mostra bilanci trionfanti”.
Ma per capire se le proposte del Pd siano davvero uscite fuori dalle grandi sale bianche della Fiera bisogna sentire loro, i piccoli imprenditori. Roberto Belloli, portavoce del movimento dei “Contadini del tessile” (industriali della zona di Busto Arsizio che si battono per la difesa dei prodotti italiani) scrolla la testa: “Sono messaggi lontanissimi dall’economia reale. Altro che aliquote, servono condizioni di reciprocità nei dazi per esempio con la Cina. Ecco, la Lega qualche interesse in questo senso l’ha dimostrato”. Porta chiuse al Pd? No. Basta sentire Alberto Vanzini, industriale metalmeccanico che con la sua protesta apartitica ha richiamato nel paese di Jerago colleghi da tutta Italia: “L’aliquota del 20 per cento mi incuriosisce”, commenta. Aggiunge: “Noi dobbiamo pagare fino al 60 per cento di tasse e altre gabelle. Finora abbiamo avuto qualche segnale solo a parole, ora servono interventi sostanziali”. Insomma, lo spazio per il Pd c’è. Le sue proposte interessano. Ma non basta “venire” al Nord per due giorni e poi prendere l’aereo per Roma appena finisce di parlare Bersani.

il Riformista 10.10.10
Governo di transizione Bersani lancia l’alleanza anti-Silvio
di Alessandro Da Rold
qui
http://www.scribd.com/doc/39035915

l’Unità 10.10.10
Contro l’attacco ai diritti sabato prossimo la piazza sarà della Fiom Cgil
Molte adesioni alla manifestazione del 16, indetta subito dopo l’accordo di Pomigliano contro lo smantellamento dei diritti. Domani il segretario Landini all’università Bicocca a Milano per un incontro con gli studenti.
di Laura Matteucci

E sabato prossimo la piazza di Roma sarà della Fiom Cgil. Con lo slogan «Il lavoro è un bene comune», a piazza San Giovanni, dove parleranno il segretario Maurizio Landini e il leader della Cgil Guglielmo Epifani, sono attese migliaia di persone da tutta Italia: «Contro l’attacco al lavoro e ai diritti, contro l’idea che uscire dalla crisi è possibile solo in modo regressivo e autoritario», spiega Francesca Re David, responsabile dell’ufficio organizzazione della Fiom, riferendosi al fatto che la crisi viene utilizzata da governo e imprese per ridisegnare il mondo del lavoro.
Infatti, la manifestazione del 16 ottobre, tappa del percorso che porterà alla manifestazione della Cgil del 27 novembre, è stata indetta subito dopo l’accordo alla Fiat di Pomigliano: se per Bonanni della Cisl ce ne vorrebbero «10, 100, 1000», per la Cgil è la prova generale dello smantellamento progressivo del contratto nazionale. Altre, più recenti conferme sono poi arrivate col ddl lavoro e con l’accordo di settembre tra Federmeccanica, Cisl e Uil sulle deroghe al contratto (solo il salario minimo è rimasto come punto fisso): «Nel mondo del lavoro l’unico punto di riferimento rimasto sono i profitti continua Re David Il lavoro è solo una merce, i diritti un costo. L’attacco più forte, infatti, è al diritto stesso a contrattare le condizioni dei lavoratori. Siamo alla fine della mediazione sociale, qui c’è solo un interesse prevalente, il profitto appunto. E nessuna democrazia». La parola chiave che tiene tutti in scacco è precarietà, collegata «con il modello di sviluppo che si vuole imporre: più si concorre sui costi, infatti, e meno si ha bisogno di innovare».
ADESIONI IN AUMENTO
Dal Piemonte arriveranno a Roma 3mila lavoratori, 1.200 dei quali da Torino. «Difenderemo la manifestazione dice Giogio Airaudo, segretario nazionale, responsabile del settore auto che sarà democratica, senza intolleranze e non violenta con
l’obiettivo di rimettere al centro il lavoro e la democrazia nel lavoro per il nostro Paese». E le richieste di adesione continuano ad aumentare, sia da parte di partiti e movimenti dell’opposizione (Sel, l’Italia dei valori hanno già aderito, in piazza esponenti del Pd e anche il movimento per l’acqua pubblica), sia da parte del mondo della scuola e dell’università, che sarà presente con centinaia di studenti e di docenti precari. A conferma di un legame che si sta saldando, tra l’altro, domani mattina Landini sarà a Milano, dove terrà insieme ad alcuni docenti un’assemblea pubblica all’Università Bicocca.
Perchè, come dice Domenico Pantaleo, segretario della Flc Cgil: «L’opposizione all’idea di società che si vuole imporre, da parte del governo e delle imprese, basata sulla riduzione dei diritti sarà la questione centrale per unificare movimenti, associazioni e sindacato. C’è un nesso inscindibile tra diritti nel lavoro, saperi e libertà». Adesioni anche da parte di molti intellettuali, politici, scrittori, da Antonio Tabucchi ad Andrea Camilleri.
Due i cortei previsti, in partenza intorno alle 14 da piazzale Ostiense e da piazza della Repubblica, che convergeranno in piazza San Giovanni. Per saperne di più, si può anche visitare il sito www.fiom.cgil.it

il Fatto 10.10.10
“Io, schiavo di Stato”
La rabbia al corteo dei migranti per i soprusi dei caporali e per quelli della legge
di Vincenzo Iurillo

Arrivano in gruppi, scendono dai treni, dai pullman, si radunano nella piazza della stazione ferroviaria, punto di partenza del corteo. Sono il popolo degli immigrati africani, dei “senza diritti” che affollano le degradate periferie domiziane e della provincia casertana. Arrivano da Castel Volturno, da Casal di Principe, da Pianura, da Quarto, da Scampia, da Villa Literno. Dalle capitali del caporalato. Ognuno con la sua storia, col suo carico di povertà e di disagio, con una famiglia da mantenere in Africa o qui in Italia. Ognuno a combattere quotidianamente una guerra per la sopravvivenza e per strappare il permesso di soggiorno. E con esso la dignità di poter dire a testa alta “io esisto, io non devo nascondermi”.
Il giorno dopo lo sciopero delle rotonde stradali e dei cartelli “non lavoro per meno di 50 euro”, rieccoli, stavolta tutti insieme a Caserta, coordinati dal centro sociale dell’ex Canapificio e dai movimenti antirazzisti (i sindacati non hanno aderito alla manifestazione), per marciare pacificamente verso il palazzo della Prefettura, deve una delegazione verrà ricevuta dal prefetto.
Il sogno “permesso di soggiorno”
IN DUEMILA scandiscono slogan e ballano musica etnica per reclamare il rilascio dei permessi di soggiorno. Pratiche ferme anni tra pastoie burocratiche e leggi anti immigrazione. Insieme alla crisi e ai licenziamenti in atto al Nord, sono le cause di una quantità industriale di “irregolari di ritorno” che di nuovo affollano le campagne casertane. Immigrati col permesso scaduto e non rinnovabile senza contratto di lavoro, che in teoria dovrebbero prima tornare nel paese di origine. Il popolo colorato riceve la solidarietà del sindaco Nicodemo Petteruti (Pd): “Caserta vi dà il benvenuto, un Paese civile dovrebbe superare e risolvere le vostre difficoltà”. E del vescovo Raffaele Nogaro: “Gli immigrati sono miei fratelli, sono miei figli. La Curia è al loro fianco per proteggerli dalle insidie di questo territorio”. Nel corteo ci sono padre Alex Zanotelli, don Vitaliano della Sala, l’ex deputato “disobbediente” Francesco Caruso.
I volti mostrano i segni di storie dolorose. A reggere lo striscione dell’associazione “Jerry Masslo” (sudafricano rifugiatosi in Italia per sfuggire alle persecuzioni razziali, ucciso nel corso di una rapina da giovani balordi di Villa Literno nel 1989) di Castelvolturno, creata dall’ex sindaco comunista Renato Natali, c’è chi ha una storia incredibile da raccontare, il suo nome è Lamin.
Ventitré anni da “clandestno”
LAMIN ha 46 anni e un cognome impronunciabile che ci prega di non rivelare perché non ha il permesso di soggiorno. Eppure vive da 23 anni in Italia. Viene dal Senegal. Abita a Castelvolturno, in una casa insieme ad altri 4 immigrati, per un fitto di circa 100 euro a testa. Le bollette sono intestate a uno di loro che il permesso ce l’ha. Lamin ha conosciuto il carcere per spaccio di droga, poi il riscatto del lavoro nelle associazioni di volontariato per il recupero dei disabili. Ha una ex moglie in Africa, una ex compagna conosciuta nel Nord quando lavorava in fabbrica, una figlia che vive nel Continente Nero e che vede solo coi programmi di video-chiamate su Internet: “Arrivai a Villa Literno nel 1987, all’epoca ci chiamavano per la raccolta dei pomodori”. Poi l’emigrazione a Verona, l’impiego in fabbrica, i guai giudiziari, “perché ero giovane e volevo divertirmi”. E col carcere il permesso di soggiorno diventa un traguardo difficile. Cosi quando anche il lavoro viene a mancare, Lamin torna dagli amici neri del casertano. E si inventa una nuova vita con l’attivismo nella “Jerry Masslo”, in Libera e in una cooperativa convenzionata con l’Asl di Aversa, grazie alla quale guadagna circa 400 euro al mese lavorando 3 giorni alla settimana. Si impegna per strappare le prostitute nere dalla strada e per questo viene sequestrato e rapinato di tutti i suoi averi in casa da un clan di africani. Li denuncerà e ne farà arrestare otto. Così, ottiene un permesso di soggiorno per motivi di merito civile. Ma è scaduto, e non riesce a rinnovarlo. “Mi sento italiano e amo gli italiani – dice Lamin – e io come i miei amici africani potremmo dare tanto per questo Paese. Ma odio i politici e mi sento tradito. Non sono un buon esempio per noi, sono corrotti e ci istigano a fare il male. Hanno fatto leggi da Ku Klux Klan”.
Dalle finestre di una scuola dell’infanzia, i bambini salutano il corteo e vengono ricambiati. Sono cinque, ce n’è uno di colore. Un’operatrice ci spiega: “Siccome non hanno la documentazione a posto, i figli degli immigrati irregolari devono pagare mensa e scuolabus come se appartenessero alle fasce più ricche di reddito”. L’ennesima assurdità di uno Stato che scarica sui più deboli e indifesi le colpe degli altri.

Repubblica 10.10.10
Il quotidiano di Rifondazione è in grave crisi e numerosi artisti mettono in vendita 106 opere d´arte
Asta benefica per salvare "Liberazione"

ROMA - L´arte e le idee per impedire la chiusura di un giornale. Si chiama "Che cento fiori sboccino - Artisti per Liberazione". Ed è un´asta, ideata, per l´appunto, da un centinaio di artisti e intellettuali allo scopo di recuperare fondi e salvare una «voce libera» dell´informazione.
Il quotidiano è "Liberazione", la "voce" di Rifondazione comunista. Sigla, insieme con altre della galassia di sinistra, rimasta fuori dal Parlamento dopo le elezioni del 2008. I mesi di vita della redazione sono contati, è l´allarme lanciato dal Prc e dai vertici del giornale. Parte da qui l´iniziativa promossa dal centro per l´arte contemporanea La Nuova Pesa: sarà inaugurata domani la mostra di 106 opere di artisti italiani e stranieri che si concluderà lunedì 18 con un´asta. Il tutto presso la galleria del centro, in via del Corso 530 a Roma. Le opere sono già consultabili sul sito nuovapesa.it/eventi/catalogo.pdf. La mobilitazione degli artisti, che prende le mosse dal critico Roberto Gramiccia e dalla madrina dell´iniziativa Simona Marchini, nasce anche dall´attenzione che il quotidiano ha sempre mostrato nei confronti del mondo dell´arte. E il ricavato di quanto venduto all´asta sarà interamente devoluto a "Liberazione".
Settimana dedicata alla mostra, dunque, ma anche al dibattito per sensibilizzare l´opinione pubblica sul tema del pluralismo dell´informazione e sul rischio chiusura per molti organi di informazione, di partito e non solo, colpiti dalla stretta sui fondi per l´editoria e più in generale dalla crisi del mercato. Dal Manifesto a Europa, dal Secolo a Liberazione. Giovedì 14 è prevista dunque una tavola rotonda dal titolo "Alla democrazia serve una stampa libera, indipendente e plurale", con direttori ed editorialisti di alcuni giornali, coordinata dal direttore del tg3 Bianca Berlinguer, sempre nella sede della galleria La Nuova Pesa.

Repubblica 10.10.10
Il presidente Usa rende omaggio all´uomo che liberò i neri dalla segregazione
Il mio maestro Mandela
di Barack Obama

Mentre il futuro presidente del Sudafrica era in prigione un giovane studente americano incominciava a fare politica Il passaggio di testimone nella nuova biografia del leader anti-apartheid
Uno era il prigioniero più famoso del mondo, leader della lotta all´apartheid, futuro presidente del Sudafrica L´altro uno studente universitario che scopriva la politica, futuro presidente degli Stati Uniti. Ora l´ex allievo rende omaggio al maestro nella nuova biografia dell´uomo che liberò i neri dalla segregazione. Ne anticipiamo un brano

Come tanti altri al mondo, ho conosciuto Nelson Mandela da lontano, quando era imprigionato a Robben Island. Per molti di noi lui era più di un uomo: era un simbolo della lotta per la giustizia, l´uguaglianza e la dignità in Sudafrica e in tutto il pianeta. Il suo sacrificio era così grande da incitare ovunque le persone a fare tutto ciò che era in loro potere per il progresso dell´umanità. Nel più modesto dei modi, sono stato uno di coloro che hanno cercato di rispondere al suo appello. Ho cominciato a interessarmi di politica negli anni del college, unendomi alla campagna di disinvestimento e per la fine dell´apartheid in Sudafrica. Nessuno degli ostacoli personali che mi trovavo ad affrontare come giovane uomo era paragonabile a quello che le vittime dell´apartheid vivevano ogni giorno.
E potevo solo immaginare il coraggio che aveva portato Mandela a rimanere in quella cella per così tanti anni. Ma il suo esempio contribuiva ad aumentare la mia consapevolezza del mondo e del dovere che tutti noi abbiamo di lottare per ciò che è giusto. Con le sue scelte, Mandela dimostrava che non dobbiamo accettare il mondo così com´è, che possiamo fare la nostra parte perché diventi come dovrebbe essere.
Nel corso degli anni ho continuato a guardare a Nelson Mandela con ammirazione e umiltà, ispirato dal senso di possibilità che la sua vita dimostrava e sgomento di fronte ai sacrifici necessari per coronare il suo sogno di giustizia e uguaglianza. Di fatto, la sua vita racconta una storia che si erge in netta opposizione al cinismo e alla rassegnazione che così spesso affliggono il nostro mondo. Un prigioniero è diventato un uomo libero; un simbolo di emancipazione è diventato una voce appassionata a favore della riconciliazione; un leader di partito è diventato un presidente che ha promosso la democrazia e lo sviluppo. Anche dopo avere lasciato gli incarichi ufficiali, Mandela continua a lavorare per l´uguaglianza, l´ampliamento delle opportunità e la dignità umana. Ha fatto così tanto per cambiare il proprio Paese, e il mondo, che è difficile riuscire a immaginare la storia degli ultimi decenni senza di lui.
Poco più di vent´anni dopo aver fatto il mio ingresso nella vita politica e nel movimento per il disinvestimento come studente di college in California, sono entrato in quella che era stata la cella di Mandela a Robben Island. Ero appena stato eletto senatore degli Stati Uniti. La cella era ormai stata trasformata da una prigione in un monumento al sacrificio compiuto da così tante persone per una trasformazione pacifica del Sudafrica. Mentre mi trovavo in quella cella, ho provato a tornare indietro nel tempo, ai giorni in cui il presidente Mandela era ancora il prigioniero 466/64, quando la vittoria nella sua battaglia era tutt´altro che una certezza. Ho cercato di immaginare Mandela - quella figura leggendaria che aveva cambiato la storia - come l´uomo Mandela, che aveva sacrificato così tanto per il cambiamento.
Io, Nelson Mandela offre uno straordinario contributo al mondo, restituendoci proprio l´immagine dell´uomo Mandela. [...] Mandela aveva intitolato la sua autobiografia Lungo cammino verso la libertà. Ora, questo volume ci aiuta a ripercorrere i passi - e le deviazioni - che ha compiuto durante quel viaggio. Fornendoci questo ritratto a tutto tondo, Nelson Mandela ci ricorda di non essere stato un uomo perfetto. Anche lui, come tutti noi, ha i suoi difetti. Ma sono proprio queste imperfezioni che dovrebbero essere d´ispirazione per ciascuno di noi. Perché, se siamo onesti con noi stessi, sappiamo che affrontiamo battaglie piccole e grandi, personali e politiche, per superare la paura e il dubbio, per continuare a impegnarci anche quando l´esito della lotta è incerto, per perdonare gli altri e sfidare noi stessi. La storia raccontata da questo libro - e la storia della vita di Mandela - non è quella di esseri umani infallibili e di un inevitabile trionfo. È la storia di un uomo disposto a rischiare la vita per ciò in cui credeva e ha lavorato incessantemente per condurre quel genere di esistenza che avrebbe reso il mondo un posto migliore.
Alla fine, è questo il messaggio di Mandela a ognuno di noi. Per tutti ci sono giorni in cui sembra che cambiare sia impossibile, giorni in cui le avversità e le nostre imperfezioni possono indurci a desiderare di imboccare un sentiero più facile, che eviti le nostre responsabilità verso gli altri. Perfino Mandela ha vissuto giorni come questi. Ma anche quando soltanto un tenue raggio di sole penetrava in quella cella a Robben Island, riusciva a vedere un futuro migliore, degno del suo sacrificio. Anche quando ha dovuto fare i conti con la tentazione di cercare vendetta, ha visto la necessità di una riconciliazione e il trionfo dei principi sul mero potere. Anche quando ha raggiunto il meritato riposo, ha continuato a cercare - e continua tuttora - di ispirare i suoi compagni e le sue compagne a mettersi al servizio dell´umanità.
Prima di diventare presidente degli Stati Uniti ho avuto il grande privilegio di incontrare Mandela e dopo la mia elezione ho parlato in varie occasioni con lui al telefono. In genere sono conversazioni brevi: lui è ormai giunto al crepuscolo della sua vita e io devo affrontare il fitto programma di impegni che la mia carica mi impone. Ma sempre, durante queste conversazioni, ci sono momenti in cui traspaiono la gentilezza, la generosità la saggezza dell´uomo. Quei momenti mi ricordano che dietro la storia che è stata scritta c´è un essere umano che ha scelto di far vincere la speranza sulla paura e di guardare avanti, oltre le prigioni del passato. E mi rammentano che, per quanto sia diventato una leggenda, conoscere l´uomo - Nelson Mandela - significa rispettarlo ancora di più.
© 2010 by Barack Obama/ Agenzia Santachiara

Repubblica 10.10.10
Ma nonn volevo essere un santo
di Nelson Mandela

Gli uomini e le donne di tutto il mondo, nel corso dei secoli, vanno e vengono. Alcuni non si lasciano nulla alle spalle, nemmeno il proprio nome. Sembra che non siano nemmeno mai esistiti. Altri si lasciano dietro qualcosa: il ricordo ossessivo degli atti malvagi commessi contro gli altri, gravi violazioni dei diritti umani, che non si limitano all´oppressione e allo sfruttamento di minoranze etniche ma si spingono fino al genocidio per conservare intatte le proprie orrende politiche. Il decadimento morale di certe comunità in varie parti del mondo si rivela fra le altre cose nell´uso del nome di Dio per giustificare azioni condannate dal mondo intero come crimini contro l´umanità. Nella moltitudine di coloro che nel corso della storia si sono dedicati alla lotta per la giustizia in ogni sua forma, ci sono alcuni che hanno comandato invincibili eserciti liberatori.

Eserciti che hanno intrapreso operazioni entusiasmanti e hanno compiuto enormi sacrifici per liberare il loro popolo dal giogo dell´oppressione, per migliorare le condizioni di vita creando posti di lavoro, costruendo case, scuole, ospedali, introducendo l´elettricità e portando acqua pulita e potabile alle persone, soprattutto nelle zone rurali. Il loro scopo era eliminare il divario tra ricchi e poveri, istruiti e ignoranti, sani e malati, affetti da malattie che si potevano tranquillamente prevenire. In effetti, quando un regime reazionario veniva rovesciato, i liberatori cercavano di fare del proprio meglio, nei limiti delle risorse a loro disposizione, per portare a compimento questi nobili obiettivi e per introdurre un governo pulito, libero da ogni forma di corruzione. Quasi tutti i membri del gruppo oppresso traboccavano di speranza che i sogni tanto agognati potessero finalmente realizzarsi, che sarebbero riusciti a riacquistare una dignità umana ormai negata da decenni o addirittura secoli.
Ma la storia non smette mai di giocare brutti scherzi, anche a quei paladini della libertà famosi in tutto il mondo. Spesso i rivoluzionari del passato hanno ceduto facilmente all´avidità, e anche ultimamente la tendenza a dirottare le risorse pubbliche per l´arricchimento personale li ha sopraffatti. Accumulando grandi ricchezze e tradendo i nobili obiettivi che li avevano resi famosi, hanno virtualmente disertato le masse dei popoli e si sono alleati con gli ex oppressori, derubando senza pietà i più poveri solo per arricchirsi. Vige un rispetto universale e perfino una sorta di ammirazione per chi è umile e semplice per natura e per chi mostra assoluta fiducia in tutti gli esseri umani, indipendentemente dallo status sociale. Questi sono uomini e donne, celebri e sconosciuti, che hanno dichiarato guerra a ogni forma di grave violazione dei diritti umani in tutti i luoghi in cui tali eccessi si manifestano. Sono in genere ottimisti, convinti che in ogni comunità al mondo ci siano donne e uomini buoni che credono nella pace quale arma più potente nella ricerca di soluzioni durature.
La situazione attuale giustifica forse l´uso della violenza, che perfino quelle donne e quegli uomini buoni potrebbero avere difficoltà a evitare. Ma, anche in questi casi, l´uso della forza sarebbe una misura eccezionale, il cui scopo principale è creare le basi necessarie per soluzioni pacifiche. Sono proprio queste donne e questi uomini buoni la speranza del mondo. I loro sforzi e risultati sono riconosciuti al di là della morte, anche ben oltre i confini del loro Paese, rendendoli così immortali. La mia impressione generale, dopo avere letto diverse autobiografie, è che un´autobiografia non sia solo una raccolta di eventi e di esperienze in cui una persona è stata coinvolta, ma anche un modello su cui altri potrebbero basare la propria vita. Questo libro non ha tali pretese e non ha l´ambizione di lasciare tracce.
Da giovane […] ho vissuto le debolezze, gli errori e l´impulsività di un ragazzo di campagna, e il mio immaginario e le mie esperienze sono stati influenzati per lo più dagli avvenimenti del luogo in cui sono cresciuto e dei college in cui mi hanno mandato. Mi sono affidato all´arroganza per nascondere la debolezza. Da adulto, i miei compagni hanno tolto me e altri prigionieri, con alcune significative eccezioni, dall´oscurità del male o del mistero, anche se la leggenda secondo cui sono stato uno dei prigionieri militanti più longevo al mondo non è mai del tutto scomparsa.
Una questione che mi preoccupava molto in prigione era la falsa immagine che proiettavo involontariamente sul mondo esterno; di essere considerato un santo. Non lo sono mai stato, nemmeno sulla base della definizione terrena di santo come peccatore che non smette mai di provare a migliorarsi.
© 2010 Sperling & Kupfer Editori S. p. A. Traduzione di Claudia Lionetti, Marilisa Santarone
e Cristina Volpi
Conversations by Myself © 2010 by Nelson R. Mandela and The Foundation/
Agenzia Santachiara © 2010 by PQ Blackwell Limited /Agenzia Santachiara

Repubblica 10.10.10
Il Nobel al dissidente anticipò la fine dell´Unione Sovietica: il partito ha paura di una nuova offensiva dell´Occidente
"Vogliono farci crollare come l´Urss" ora il regime teme "l´effetto Sakharov"
La confusione sul da farsi nasconde una frattura al vertice tra falchi e colombe
Ma l’ala conservatrice vicina a Hu Jintao ha chiesto il pugno di ferro

PECHINO - Sulla Cina cala lo spettro di un «effetto Sakharov». Il Nobel al dissidente sovietico annunciò l´implosione dell´Urss, sancita dai premi a Gorbaciov e Walesa. Le autorità di Pechino, sotto choc, temono ora che «un Nobel da Guerra Fredda punti a spaccare ideologicamente il Paese, per farlo crollare». A un giorno dal riconoscimento a Liu Xiaobo i leader tacciono. Il potere però è scosso e certo di essere al centro di «una campagna dell´imperialismo occidentale, deciso a imporre i suoi valori anche in Oriente».
I falchi del regime paragonano il Nobel al professore di Tienanmen all´invasione Usa dell´Iraq e premono per scatenare una campagna nazionalista all´interno, minacciando ritorsioni economiche contro America ed Europa. L´accusa, rilanciata dalla stampa del partito comunista, è di aver «comprato il Nobel della pace», trasformandolo «in una bomba ad orologeria anti-cinese». «Quando scoppia un contenzioso economico – dice un alto funzionario di Pechino – si sgancia un Nobel contro di noi. Prima il Dalai Lama, poi Obama, che un anno fa stava per compiere il suo primo viaggio in Asia, ora Liu Xiaobo, mentre infuria il braccio di ferro su yuan e protezionismo». Confusione ed imbarazzo nascondono, per la prima volta, una frattura del vertice. Il problema più urgente, discusso ieri in una riunione straordinaria del politburo, è cosa fare di Liu Xiaobo. Il rilascio immediato è stato escluso. «Equivarrebbe – dice a tarda sera il dirigente del partito – ad una resa all´attacco occidentale». Inimmaginabile però tenere un Nobel in prigione per altri dieci. A dicembre poi c´è la consegna del premio e anche su questo il potere è diviso. Impedire a Liu Xiaobo di presenziare alla cerimonia di Oslo scatenerà «un´altra campagna tesa a ridimensionarci». Concedergli un permesso però, offrendogli un palco mondiale, sarebbe peggio. Lo stesso vale per la moglie, Liu Xia. Se andasse a ritirare il premio del marito dovrebbe dire ciò che pensa e Pechino si vedrebbe costretta a negarle il permesso di rientrare in patria. Ma costringere un rappresentante del comitato norvegese ad entrare in carcere, farebbe precipitare l´immagine nazionale al livello di Birmania e Corea del Nord.
Un pasticcio, da cui il regime non sa come uscire e che esprime una leadership cinese furiosa, decisa a ritorsioni, ma spiazzata. Come vent´anni fa, alla vigilia del massacro di Tienanmen, emergono due linee. L´ala più conservatrice, riconducibile al presidente Hu Jintao e per ora maggioritaria, teme che il Nobel filo-dissidenti destabilizzi il potere in vista del cambio di leadership, già avviato e fissato tra poco più di un anno. Ieri ha chiesto «pugno di ferro», una nuova ondata di repressioni e una «forte campagna patriottica pianificata dalla propaganda». «Deve essere chiaro – dice il funzionario della capitale - che Liu è un collaborazionista traditore». I riformisti, più vicini al premier Wen Jiabao, premono invece per «sfruttare l´occasione Xiaobo». Quattro leader, messi in minoranza, hanno proposto di chiedere ai giudici una revisione della sentenza e di avviare «esperimenti circoscritti di rinnovamento politico». Il timore è interrompere la crescita economica e di perdere la fiducia della nuova classe media, più ricca e urbanizzata, ma pure «più arrogante e restìa all´obbedienza». Un solo punto in comune, in questo drammatico dopo-Nobel che fa vacillare il governo: insistere su «una via cinese del potere e dello sviluppo». Con un unico, drammatico dubbio: che il disprezzo dei diritti umani la renda oggi percorribile.
(gp.v)


Repubblica 10.10.10
Il sogno perduto del primo kibbutz
di Alberto Stabile

Nell´ottobre del 1910 otto uomini e tre donne salparono da Odessa e raggiunsero la Terra promessa per fondare una comune agricola, Degania: dal lavoro ai figli tutto doveva essere fatto per il bene della causa. Cent´anni dopo, ecco che cosa è rimasto di quell´utopia socialista che tanto contribuì alla costruzione dello Stato d´Israele

Fra questi viali di eucalipti, su questi ciottoli arroventati dal caldo, quaranta gradi, aleggia lo spirito di Moshe Dayan, bambino. Fra i molti primati che il grande Dayan s´attribuì in vita c´era anche quello di essere stato «il primo bambino nato a Degania», da una coppia di giovani pionieri, Shmuel e Dvorah, approdati in Palestina dalla fredda Ucraina per realizzare il loro sogno sionista. In realtà, se è vero che Degania è il primo kibbutz della storia, e in questi giorni se ne celebra il centenario, Moshe fu soltanto il secondo neonato della comunità, essendo stato preceduto da Gideon Baratz, figlio di Yoseph e Miriam Baratz, venuto alla luce qualche mese prima all´Ospedale della Missione Scozzese, a Tiberiade.
Erano tempi di ferro, di fame, di malattie, d´insopportabili durezze e d´incredibili privazioni quelli in cui il kibbutz Degania venne fondato. La prima infanzia di Dayan fu un susseguirsi di malanni gravi: la malaria, la polmonite, il tracoma. Un continuo girovagare tra ospedali e residenze occasionali, presumibilmente più salubri, dove tentare guarigioni improbabili sempre con accanto la madre, una raffinata intellettuale russofila, grande ammiratrice di Tolstoj che, pur credendo profondamente nei suoi ideali, non si rassegnò mai alle asprezze della vita in quelle terre di conquista.
Nella "kvutza", letteralmente il "gruppo", l´antesignano del kibbutz, di Degania il lavoro era tutto, l´ideologia, la prassi e il programma politico, la ricchezza e l´onore, e tutto era pensato e fatto in funzione del lavoro. Il privato, il personale, non avevano spazio, nulla poteva e doveva sfuggire alle regole imposte dal gruppo che su ogni cosa, dal nome da imporre ai neonati al ricovero in ospedale di un membro della comune, aveva la parola definitiva. E questo, ovviamente, «per il bene della causa».
Nel piccolo museo di Degania, accanto alla casa di mattoni a due piani che ospitò il primo nucleo di undici pionieri, otto uomini e tre donne, ai quali un anno dopo si aggiunsero Shmuel e Dvorah Dayan, si respira una doppia, stridente sensazione: l´assoluta penuria di mezzi di cui disponevano i fondatori, mista ad un´illimitata fiducia in se stessi. Ritratti in una foto color seppia, i membri della kvutza, scesi dai paesi del grande freddo su una landa a duecento metri sotto il livello del mare, guardano stupefatti il mondo nuovo che gli si è appena spalancato davanti. Gli uomini vestono la classica rubacka dei contadini russi, con l´abbottonatura laterale e la cintura stretta in vita, le donne indossano gonne lunghe fino ai piedi e camicie chiuse fino al collo che ne esaltano la figura. Sono, definitivamente, dei giovani borghesi, le loro mani hanno lunghe dita delicate, ma nei loro occhi c´è la febbrile inquietudine dei rivoluzionari, dei visionari che hanno deciso di passare all´azione.
Cent´anni dopo quella foto scattata al loro arrivo ad Haifa, su una nave salpata da Odessa, si può dire che quei giovani venuti dalla Lituania, dall´Ucraina, dalla Russia per realizzare il sogno ebraico del riscatto capovolgendo, al tempo stesso, la piramide sociale, hanno vinto. Il loro esempio ha avuto molti seguaci. Nessuno, oggi, può mettere in dubbio il contributo dato dal movimento dei kibbutz al compimento dell´impresa sionista, avvenuto nel 1948 con la proclamazione dello Stato d´Israele.
Hanno vinto loro, si può dire di quei sionisti ante litteram in posa nel piccolo museo di Degania, ma il kibbutz, inteso come cellula sociale basata su un´ideologia egualitaria e una struttura economica collettivista, è morto per sempre. Travolto dai grandi movimenti della storia, come il crollo dell´ideologia comunista e l´irrompere dell´economia globale, ma anche da fattori specificatamente israeliani, come l´inesorabile scivolamento a destra della scena politica e la crescente influenza della componente religiosa.
Quando, nel 2004, il governo Sharon decise di privatizzare i kibbutz, secondo un disegno elaborato da Ehud Olmert, la crisi incubava da anni. In un paese che aveva decisamente imboccato la strada della new economy e degli start-up, sul modello della Silicon Valley americana, i vecchi kibbutz fondati sull´agricoltura e l´allevamento del bestiame non avrebbero avuto futuro, se non contando pesantemente, come è successo negli ultimi decenni, sugli aiuti dello Stato. Trasformarsi o sparire, questa è diventata la scelta obbligata. Eppure, per Shay Shoshany, il giovane presidente di Degania, una volta si sarebbe detto «segretario», il kibbutz in generale, e Degania in particolare, non hanno perso il loro fascino. Shay resta legato ad una certa cultura politica oggi fuori moda: «Sono orgoglioso di essere uno degli ultimi socialisti rimasti», dice sorridendo. Ricorda il ruolo rivoluzionario e «globale» avuto dal kibbutz nel propagare l´idea dell´uguaglianza, «ma non siamo tutti uguali», ammette.
Ci sono molte cose buone da conservare, assicura il segretario di Degania, nella filosofia del kibbutz. Innanzitutto, la solidarietà praticata in concreto dai membri della comune, il che oggi avviene attraverso una tassa interna che serve a limare le differenze fra i salari e a migliorare i servizi comuni (tra i quali, qui a Degania, c´è anche un parco macchine). Il rispetto reciproco. L´abitudine a frenare gli impulsi consumistici. La qualità della vita. E tuttavia certe imposizioni in nome del «bene comune» non hanno più senso. «Quello che non potevo sopportare era di dover andare a chiedere il permesso per qualsiasi cosa, fosse un viaggio o un vestito», racconta Nina Ben Moshe, settantadue anni, nata a Degania da genitori membri del kibbutz e sposata ad un kibbutzik a sua volta nato da una famiglia di kibbutzniki. Eppure, nessuno dei suoi quattro figli ha seguito l´esempio dei genitori. «Ho bei ricordi, ma direi che i ricordi sono sempre belli. Da ragazzi crescevamo in una libertà assoluta, mentre i genitori erano al lavoro. Da adulti, non sapevamo cosa erano i soldi, cos´era una carta di credito. Queste cose abbiamo dovuto impararle dopo il 2004. Fino ad allora non ne avevamo sentito il bisogno perché avevamo tutto quello che ci occorreva e, soprattutto, avevamo tutti le stesse cose». «Ma - aggiunge Nina - nessun essere umano può lavorare per un lungo periodo senza ricevere nessun compenso, a meno che non sia un idealista. Quindi per rispondere alla sua domanda se eravamo felici: sì eravamo felici, ma era una felicità, come dire?, assistita. Improvvisamente ho dovuto imparare che cos´era una banca, che occorreva risparmiare e che a me stessa dovevo pensarci io e non il kibbutz».
Ad attenuare l´amarezza di alcuni vecchi membri del kibbutz si starebbe producendo una realtà nuova, un ricambio di popolazione dovuto anche alle trasformazioni economiche imposte dalla crisi. «Oggi - assicura Shay - a Degania non vivono soltanto contadini ma anche liberi professionisti, un avvocato, un medico, che hanno deciso di tornare a vivere nel kibbutz pur lavorando fuori. Naturalmente contribuiscono in tutto alle spese comuni e questo cespite proveniente dalle attività esterne, o private, rappresenta il quarantacinque per cento delle nostre entrate, mentre il trentacinque è dato dall´agricoltura (banane e datteri) e il venti dalla fabbricazione di diamanti industriali».
Che i kibbutz si siano aperti al mondo esterno non c´è dubbio. Molti giovani, ad esempio, trovano nelle vecchie comuni agricole quelle condizioni di vita che le città, affogate nello smog e nel traffico, non possono offrire. Tuttavia non si può ancora parlare di un vero e proprio afflusso. In fin dei conti, la maggiore speranza dei dirigenti dei kibbutz di migliorare le finanze comuni è affidata al turismo.
Molti kibbutz della Galilea si sono trasformati in resort. E si vede che questa, nonostante il blasone, la ricca storia e il passato eroico, di cui è testimonianza il piccolo carro armato siriano esposto ai cancelli, residuato della guerra del ´48 e di una fortunata controffensiva dei kibbutziniki a colpi di bottiglie molotov, quella del turismo, dicevamo, è nonostante tutto anche la tentazione di Degania. Approfittando della privatizzazione del 2004 una famiglia del kibbutz ha aperto un piccolo ristorante proprio di fronte alla vecchia stalla dei pionieri, oggi trasformata in teatro e sala cinematografica. Pasta, insalate e cucina kasher, naturalmente, per compiacere il pubblico religioso. Questa è la culla del socialismo laico, ma non si sa mai.

Avvenire 10.10.10
Lenin architetto del Terrore
di Paolo Sensini


Omicidi, torture e clima del sospetto non furono eccessi dovuti alla guerra civile, ma piani preordinati per creare il nuovo «homo sovieticus»

IL LIBRO
Anticipiamo in queste colonne alcuni stralci dell’introduzione di Paolo Sensini a Il terrore rosso in Russia. 1918-1923 di Sergej Mel’gunov, in uscita per Jaca Book (pagine 336, euro 29,00), e un passo delle riflessioni dello stesso Mel’gunov. Lo storico russo, nato nel 1879, fu attivo in campo politico su posizioni socialiste durante l’ultima fase dell’Impero zarista e i convulsi anni delle rivoluzioni di Marzo e d’Ottobre.
Ripetutamente arrestato dai bolscevichi, condannato a morte ma salvato in extremis dall’intercessione di alcuni influenti amici, fu espulso dall’Urss nel 1922 e riparò a Praga, a Berlino e infine a Parigi. Il terrore rosso in Russia uscì in Germania nel 1923 e fu immediatamente tradotto in tedesco, inglese, francese e spagnolo – non in italiano, almeno fino a oggi. Mel’gunov morì nel 1956.
Nel nostro Paese questo libro, che è stato il primo a denunciare pubblicamente nel dicembre 1923 la realtà storica in cui si è affermato il potere bolscevico in Russia, non ha mai trovato nessun editore disposto a farne conoscere i contenuti

«Dell’uomo si può fare quel che si vuole! Io voglio che nel pensare e nel reagire le masse russe seguano uno schema comunista!». Con queste parole, pronunciate poco dopo il colpo di mano del 25 ottobre 1917, Vladimir Il’ic Ul’janov – in arte Lenin – si rivolgeva al fisiologo russo Ivan Pavlov per chiedergli se il suo lavoro di scienziato sui riflessi condizionati del cervello potesse aiutare il Partito a «controllare il comportamento umano». Ed è esattamente questa, al di là delle contingenze e dei diversivi tattici del momento, la posta in gioco che la hýbris leninista bramava fin dall’inizio: «raddrizzare il legno storto dell’umanità». Raddrizzarlo nel senso voluto da Lenin (ossia: «Costringeremo il genere umano a essere felice, costi quel che costi!»). Da questo punto di vista l’opera di Sergej Mel’gunov che viene presentata al pubblico italiano dopo quasi novant’anni dalla sua apparizione in lingua russa a Berlino – opera che va letta al tempo stesso come rigetto morale e messa in guardia intellettuale di un socialista deciso a far conoscere per la prima volta al mondo l’«abisso» in cui era sprofondata la Russia dopo la presa del potere dei bolscevichi – rappresenta un’occasione straordinaria per osservare in presa diretta, senza veli e senza distorsioni gli eventi per come si sono svolti, i primi decisivi atti di quell’immane tragedia che ha condizionato la storia europea e mondiale del XX secolo. In Italia questo libro, che è stato il primo a denunciare pubblicamente nel dicembre 1923 la realtà storica in cui si è affermato il potere bolscevico in Russia, non ha mai trovato nessun editore disposto a farne conoscere gli sconvolgenti contenuti. L’opera di Mel’gunov risulta un contributo imprescindibile per chiunque voglia capire a fondo la situazione che si è determinata in Russia negli anni successivi ai «dieci giorni che sconvolsero il mondo». Una delle cose più ardue da far rivivere oggi, di quella convulsa sequenza, risiede per esempio nella «furia rivoluzionaria» che i bolscevichi misero in campo per cancellare fin da subito qualsiasi traccia della cultura preesistente, fosse essa iconografica, ideografica o semplicemente letteraria, quasi a voler marcare col fuoco un «prima» e un «dopo» il loro avvento messianico nella stanza dei bottoni. Bisognava insomma «sparare sugli orologi del tempo alienato» per costituire il «nuovo calendario» della civiltà futura, cosa che appunto proponeva uno dei massimi esponenti del movimento Proletkul’t (acronimo di 'Cultura proletaria') per lumeggiare quale sarebbe stato l’apporto paracletico dei rivoluzionari finalmente giunti al potere: «In nome del nostro domani – si leggeva su un documento ufficiale del gruppo –, metteremo al rogo Raffaello, distruggeremo i musei, schiacceremo i fiori dell’Arte». Ovvio che, con una simile «rivoluzione totale» da portare a compimento, il Partito comunista e i suoi «ingegneri delle anime umane» (' inzenery celoveceskich duš') non si sarebbero più fermati fino a quando gli individui sottoposti al suo imperio non si fossero finalmente trasformati in «rotelle» (' vintiki ') impersonali e sostituibili di un «ingranaggio tecnico».
Oppure in una sorta di «robot umani» incapaci di pensiero individuale e perfettamente obbedienti a quel «demone della distruzione e demiurgo della creazione» che fu Lenin. Ma come riuscire ad imporre a un sesto del mondo un simile programma in così breve tempo?
Semplice, con il «Terrore rosso di massa». Un Terrore programmato, brutale e inesorabile che era stato architettato da Lenin molto prima della «rivoluzione», il quale si estese fin da subito all’insieme della popolazione e all’esercito. Il sistema era poi ulteriormente «integrato», come mezzo per indurre chiunque a sottomettersi alla «dittatura del proletario», dalla più completa licenza di saccheggio, rappresaglia e sterminio dei «nemici di classe». Fu dunque sotto il regime di Lenin, e non sotto quello di Stalin, che la Ceka creò un autentico Stato di polizia, e fu sempre Lenin a compiere la mostruosità giuridica di fondere in una sola struttura gli organi che conducevano l’istruttoria, quelli che emettevano i verdetti, spesso alla pena di morte, e infine quelli che eseguivano le condanne. Essa era stata organizzata in modo tale da poter disporre di proprie infrastrutture leviataniche, dai comitati di controllo insediati in ogni fabbrica fino ai «campi di rieducazione mediante il lavoro», nel cui ambito operavano oltre duecentocinquantamila addetti, la cui ferocia e arbitrio senza limiti potevano evocare, mutatis mutandis, gli omologhi opricniki, i detestati scherani di Ivan il Terribile. Durante la guerra civile erano costoro a garantire la sopravvivenza del regime sul cosiddetto «fronte interno», quando ormai il Terrore era la conditio sine qua non del sistema. Un’attività, quella delle «Commissioni istruttorie straordinarie, che costituisce un esempio forse unico nella storia dei popoli civili».
In aggiunta agli illimitati poteri di cui godeva, la Ceka, «il cui lavoro si svolge in condizioni particolarmente difficili», venne dichiarata «infallibile» e fu proibita ogni critica nei suoi riguardi. Nei primi mesi successivi all’Ottobre, attuando le idee di Lenin e sotto la sua personale direzione, si delineò quindi compiutamente uno Stato di tipo nuovo, uno Stato totalitario caratterizzato non dal rigore della legge, ma essenzialmente dall’arbitrio più totale. A tale riguardo un alto funzionario della Ceka, Iosif Unšlicht, nelle sue affettuose memorie su Lenin scritte nel 1934, osservava con malcelato orgoglio: «[Lenin] trattava con implacabile brutalità i gretti membri del partito che deprecavano la spietatezza della Ceka; egli derideva e sbeffeggiava l’“umanità” del mondo capitalista». Se il partito era l’ossatura dell’apparato statale, la Commissione straordinaria ne era la muscolatura. Il partito forniva l’Idea: «tutto è lecito, lavoriamo per la Storia». La Ceka invece, «questa meravigliosa macchina per distruggere l’essere umano», forniva il braccio che attuava l’arbitrio assoluto. È stato assai difficile raffigurarsi quanto avvenuto di fronte a una vulgata storiografica compiacente, fraudolenta, omertosa e quasi sempre mistificante, che aveva come sua precipua missione d’impedire la conoscenza di quel gigantesco esperimento d’ingegneria sociale per ciò che veramente ha rappresentato. Forse, a oggi, il più terrificante e grandioso dell’intera storia dell’umanità.

Avvenire 10.10.10
«Dai bolscevichi l’apoteosi dell’omicidio come strumento di dominio»
di Sergej Mel’gunov


Gli storici hanno dato e danno una spiegazione e perfino una giustificazione al Terrore dell’epoca della Rivoluzione francese; i politici trovano una spiegazione anche all’esecrabile realtà contemporanea. Non intendo, in questa sede, spiegare un fenomeno che, prima d’ogni spiegazione, può e deve anzitutto e urgentemente essere stigmatizzato da parte della morale della società, oggi come nel passato, bensì soltanto fornirne una veridica rappresentazione. Lascio ai sociologi e ai moralisti il compito di cercare spiegazioni all’attuale ferocia che dilania il consorzio umano, magari nel retaggio dei tempi andati e nel cruento delirio dell’ultima guerra europea, nella decadenza morale dell’umanità e nello stravolgimento dei fondamenti ideologici e riferimenti ideali della psiche e del pensiero umani. Compete agli psichiatri stabilirne il nesso con le manifestazioni patologiche del secolo; attribuiscano tutto ciò, se credono, all’influsso di una psicosi di massa. Quel che mi preme sopra ogni cosa è ristabilire il quadro reale del passato e del presente tanto travisato sia dal cesello della ricerca storica sia nella valutazione soggettiva, dettata da esigenze pratiche, del politico d’oggi. Non è possibile versare più sangue umano di quanto hanno fatto i bolscevichi; non è possibile immaginare forme più ciniche di quelle in cui s’è concretato il terrore bolscevico. È un sistema che ha trovato i suoi ideologi; è un sistema di metodica attuazione della violenza e dell’arbitrio, è l’apoteosi senza remore dell’omicidio inteso come strumento di dominio alla quale non era mai ancora arrivato nessun potere al mondo. Non si tratta di eccessi, per i quali si può cercare questa o quella spiegazione nella particolare psicosi indotta dalla guerra civile. L’atrocità morale del terrore, la sua azione disgregante sulla psiche umana, consistono più che nei singoli omicidi in sé, o nel loro numero più o meno consistente, proprio nel suo essere elevato a sistema. La debolezza del potere, gli eccessi, perfino la vendetta di classe da un lato e… l’apoteosi del terrore dall’altro sono fenomeni di ordine diverso. Non potremo sentirci a posto con la coscienza fino a quando non sarà eliminato questo cupo e anacronistico Medioevo del XX secolo che abbiamo avuto in sorte di testimoniare. Certamente, sarà la vita stessa a spazzarlo via, ma solo dopo che l’avremo definitivamente superato nelle nostre coscienze, quando la democrazia europea occidentale e in primo luogo i socialisti, accantonati i fantasmi della reazione, si affrancherà veramente dall’incantamento della «testa di Medusa» e le volterà le spalle con orrore; quando i rivoluzionari di ogni tendenza capiranno finalmente che il terrore governativo uccide la rivoluzione e propaga la reazione, che il bolscevismo non è la rivoluzione e che deve cadere con disonore e infamia «tra le maledizioni di tutto il proletariato in lotta per il proprio riscatto». Sono parole del noto capo della socialdemocrazia tedesca Kautsky, uno dei pochi ad aver assunto una posizione così netta e intransigente nei confronti dell’arbitrio e della violenza dei bolscevichi. E bisogna far sì che il mondo capisca e si renda conto dell’orrore di quei mari di sangue che hanno sommerso la coscienza dell’umanità…

sabato 9 ottobre 2010

l’Unità 9.10.10
300mila in piazza in tutta Italia. Nei cortei sfilano insieme studenti, universitari e precari
A Roma «fantasmi» sotto il ministero. Incidenti a Milano e Firenze. Il 14 l’assedio alla Camera
Gelmini sotto sfratto «Ed è appena l’inizio»
Manifestazioni in novanta piazze in tutta Italia, da Milano a Palermo, contro la riforma della scuola. Ma il ministro finge di non vedere: «A qualcuno dà fastidio che la scuola non sia più di proprietà della sinistra».
di Gioia Salvatori


«Non chiamateci onda due: noi siamo più maturi e più arrabbiati. Siamo figli della crisi e fratelli dei precari e scendiamo in piazza insieme agli universitari e agli operai della Fiom perché quest’anno, i tagli, li abbiamo vissuti tutti». Così ieri 300mila studenti, universitari, precari, hanno riempito novanta piazze in tutta Italia aderendo alla mobilitazione indetta dai ragazzi delle superiori contro la riforma Gelmini. Un occhio al futuro e uno alla porta accanto, quella dove abita il fratello disoccupato, il padre cassintegrato, l’ex supplente rimasto senza cattedra e il mix è presto fatto: le piazze dei ragazzi somigliano a quelle dei lavoratori. Stessa paura del futuro, della disoccupazione, della precarietà. Stesse maschere bianche dei precari-fantasma sui volti degli studenti che, alle 6.30 di mattina, hanno già appeso uno striscione sotto le finestre del ministero dell’Istruzione in viale Trastevere a Roma. Qui termina alle 14 la manifestazione contro Gelmini “Gelminator”, e la folla urla «Dimissioni, dimissioni». «Governo, confindustria, rettori: riprendetevi il passato, il futuro siamo noi» è lo slogan in testa al corteo dei 30mila di Roma. Ci sono l’Udu, l’Sds-Run il coordinamento degli studenti Link, le sigle degli studenti delle superiori che hanno lanciato la mobilitazione UdS e Rds, la Flc Cgil e Unicobas che ieri hanno scioperato per un’ora. Mentre a Roma sfila il corteo principale a Firenze e Milano c’è tensione: nel capoluogo toscano sono uova e fumogeni contro la scuola privata dei Padri Scolopi e scontri tra studenti di sinistra e di destra; alla fine i denunciati, anche per corteo non autorizzato, sono decine. A Milano 10mila in piazza: l’ala antagonista cerca di sfondare per arrivare all’assessorato comunale all’istruzione e sono tafferugli con la polizia. In Campania 70mila gli studenti nelle piazze. A Napoli, davanti all’università Federico II c’è il lancio di carta igienica: è la scuola che va a rotoli. A Bologna, Bari, Palermo, gli altri cortei più partecipati. Roberto, uno studente palermitano dell’Uds dice: «L’onda? Era più settaria, noi sappiamo che lavoro e conoscenza sono un bene comune», così lo studente incontra l’operaio e i ragazzi fanno sapere che parteciperanno al corteo della Fiom del 16 a Roma, due giorni dopo “l’assedio” della Camera previsto per il 14, giorno della discussione del ddl Gelmini.
Un “No Gelmini Day” che ieri si è celebrato ovunque: a Parma c’è stata una manifestazione spontanea, a Padova accanto agli studenti ci sono gli operai della Fiom, a Palermo e a Roma i docenti precari. In piazza gli studenti hanno caschi gialli contro le macerie della scuola. «Non ci faremo rubare il futuro», «Non moriremo precari», dicono per esorcizzare la paura. Gelmini, mentre la Flc Cgil con Domenico Pantaleo annuncia proteste fino a Natale e la Fgci invia al ministro il film “Edward mani di forbice”, resta arroccata e minimizza: «A molti dà fastidio che la scuola, finalmente, non sia più proprietà privata della sinistra. Le proteste di oggi sono manifestazioni politiche. Vecchi slogan». «Ascolti è l’invito della responsabile scuola del Pd Francesca Puglisi se qui c’è qualcuno che abusa di vecchi slogan è il ministro, quando parla di scuola come “luogo di indottrinamento politico”».

l’Unità 9.10.10
Un’«AltraRiforma» per ridare qualità alla formazione
Gelmini e Tremonti conoscono soltanto la politica dei tagli E il 16 ottobre saremo in strada con i lavoratori della Fiom
di Tito Russo, Unione degli Studenti


Ieri abbiamo suonato la sveglia. Trecento mila studenti e studentesse sono scesi nelle piazze, da Trieste a Ragusa, dalle città metropolitane ai piccoli centri di provincia. Abbiamo bloccato l’intero paese, abbiamo lanciato il nostro grido d’allarme per la condizione comatosa in cui versano le nostre scuole e le nostre università. Le piazze si sono riempite di giovani studenti convinti che la politica non possa continuare a giocare con il nostro futuro. Tagliare i finanziamenti alle scuole significa imporre un modello di società basato sui privilegi e sulle ingiustizie, significa mortificare i sogni e le aspettative di chi, come noi, rischia di essere condannato ad un futuro fatto di precarietà e sfruttamento. Per questo l’Unione degli Studenti ha da tempo ha lanciato l’AltraRiforma, un percorso partecipato che ha visto la costruzione dal basso di una vera riforma che sia capace di migliorare la qualità della formazione nel nostro paese. Vera riforma, appunto, perché quelle di Gelmini e Tremonti non sono altro che tagli su tagli, mentre solo qualche giorno fa è stato confermato il finanziamento di circa centoventi milioni di Euro alle scuole private. Viviamo nel paese dei paradossi, da un lato si tagliano otto miliardi alle scuole pubbliche con presidi, docenti e studenti costretti ad autotassarsi per comprare gessetti e carta igienica, dall’altro si continuano a finanziare università e scuole di lusso che però niente hanno a che vedere con il merito.
Merito, appunto, altra parola che Gelmini e il suo governo hanno stravolto raccoltando frottole a tutto il paese, ieri l’abbiamo urlato nei tanti megafoni: non può esistere merito se non si parte dai diritti, dalla possibilità di poter accedere ai canali della formazione a prescidere dalla propria condizione sociale. Per questo siamo convinti che l’unica legata al passato sia proprio la Gelmini che ha in mente un modello di società prefeudale dove “leggere e scrivere” sia un privilegio per pochi, un mero strumento di controllo sociale. Le piazze di ieri hanno anche lanciato un monito a tutta la politica troppo spesso ripiegata su sè stessa. La partecipazione che abbiamo visto ieri è solo l’inizio di un percorso. La prossima settimana condivideremo, insieme a tutto il mondo della conoscenza le mobilitazioni contro il ddl dell’università nonché parteciperemo alla manifestazione del 16 Ottobre indetta dalla Fiom perché l’attacco ai diritti dei lavoratori ci riguarda da vicino. Noi ci siamo e vogliamo dire la nostra su come l’Italia può uscire dalla crisi economica e sociale ma soprattutto culturale e politica. In gioco non c’è solo il futuro di scuola e università, in gioco ci sono le nostre vite e il nostro futuro su cui non siamo disposti a cedere di un passo. Il nostro tempo è qui e comincia adesso.

l’Unità 9.10.10
«Chiamano riforma la distruzione totale»
Intervista a Fabio Mussi
Il ministro dell’Università nel governo Prodi «Anche a me chiesero sacrifici, ma davanti ai tagli feci il diavolo a quattro e minacciai le dimissioni»
di Marcella Ciarnelli


Nel vuoto delle risorse la riforma si riduce solo ad un inesorabile taglio» che significa «l’inferno» per la scuola nel suo insieme, dalle prime classi all’università. Anche Fabio Mussi, ministro dell’Università nel governo Prodi, ora presidente del Comitato scientifico di Sinistra Ecologia e Libertà, ebbe i suoi problemi di finanziamento. La questione risorse gli è nota anche perché non è che Tommaso Padoa Schioppa e lo stesso presidente del Consiglio fossero molto larghi di manica. Però una riforma come quella che sta portando tante famiglie, studenti, ricercatori in piazza, non l’avrebbe pensata nè in alcun modo sottoscritta se qualcuno glielo avesse chiesto.
Secondo lei si può ragionare solo in termini economici su argomenti come questi? «Tutti abbiamo dovuto fare i conti con le ristrettezze di bilancio ed anche con le ristrettezze mentali di classi dirigenti che, in ogni loro parte, non hanno certamente ai vertici dell’agenda questioni come la scuola, l’università e la ricerca che invece sono strategiche per un Paese. Io dovetti ingaggiare un discreto corpo a corpo con il mio ministro dell’Economia e anche con la presidenza del Consiglio. E, pubblicamente, dovetti minacciare un paio di volte le dimissioni. Che avrei sicuramente dato se i tagli fossero stati quelli che di volta in volta si affacciavano nei provvedimenti economici portati in Consiglio dei Ministri. Il primo decreto finanziario, appena formato il governo Prodi, prevedeva per l’università un colpo molto pesante. Di quel colpo, grazie anche al fatto che io feci il diavolo a quattro, restò il taglio ai consumi intermedi ma poi al momento di essere esatto, quando i soldi dovevano tornare al Tesoro, il governo rinunciò a pretenderli dagli atenei. Con il nostro governo l’investimento era lievemente cresciuto ma, per grandezze fondamentali, si può dire che rimase stabile».
E’ un risultato da rivendicare?
«Tenere l’investimento stabile significa comunque tenere l’Italia in coda ai paesi Ocse. Due cose in rapporto al Pil sono decisamente scese negli ultimi vent’anni: i salari operai e gli investimenti nella ricerca scientifica. Noi spendevamo già per ogni studente meno di qualunque altro Paese europeo, ottomila dollari o giù di lì, ma ora ci avviamo a sprofondare sotto il livello dell’inferno. Siamo l’unico paese al mondo che è progressivamente sceso nell’investimento. Eppure bisognerebbe tener sempre presente che ogni dollaro investito in questo campo ne produce
tre. La produttività nel lavoro come nella ricerca dipende sempre e solo dagli investimenti e dall’innovazione. Non serve a nulla togliere la pausa mensa degli operai o ridurre i corsi universitari. Tagliare in modo indiscriminato non rende. Questa è una concezione delle riforme degna degli uomini delle caverne».
Allora la via d’uscita è non tagliare senza valutare le conseguenze? «Tu puoi mettere soldi e non estrarne qualità. E questo a volte accade. Ma sicuramente se togli soldi la qualità scende. Il prossimo anno, l’università che era già quasi, alla fame
avrà un miliardo e quattrocento in meno. Con l’entrata in vigore dell’ultimo anno del triennio della legge 33, nel 2011, ci sarà un trasferimento di denaro pubblico quasi di un miliardo e mezzo inferiore a tre anni prima. E quindi la riforma che si sta discutendo non è altro che chiacchiere da salotto. Travestito da riforma è in atto un vero e proprio progetto di distruzione della scuola, dell’università e della ricerca».
I ministri si lamentano e minacciano di andarsene. La risposta è uguale per tutti. Tremonti dice che non ci sono soldi. «Gli investimenti devono essere in apporto al Pil. La più grande crisi economica mondiale ha visto tagli solo in Inghilterra e Italia. Tutti, anche i Paesi africani, hanno puntato sull’università e sulla ricerca. Se c’è un capitolo a cui non è stato sottratto da nessuno un finanziamento è questo. E non parliamo della Cina e dell’India, lì siamo in un’altra categoria. Il problema è delle proporzioni. Bisogna sottrarre ad alcune voci a favore di altre. Se la media della spesa in Italia per scuola, università e ricerca, è molto al di sotto dell’Ocse forse un problema bisognerebbe cominciare a porselo».
Il ministro Gelmini ha appoggiato, anzi si vanta di queste riforme... «Al governo c’è un grumo di reazionari i quali pensano che bisogna affamare la bestia. Se tu togli i soldi aumenti l’efficienza pensano loro ma questa è una colossale bufala. L’efficienza deve essere garantita con appositi sistemi, norme, metodi, riforme. Ma se riduci gli investimenti la nostra università finirà come la Grecia. E qualche rettore che pensa di salvarsi dal diluvio si sbaglia».
E allora come va a finire?
«Male. Noi abbiamo già perso posizioni pur essendo un Paese che ha sempre avuto eccellenze in ogni campo dello scibile. Bisognerebbe riflettere sul fatto che una legge così è solo un suicidio».

l’Unità 9.10.10
Mariastella delle gaffe
Il ministro senza fondi che Tremonti snobba
Ha fatto l’esame da avvocato in Calabria ma adesso tuona contro «le scuole del Sud che abbassano la qualità». Il congedo di maternità? «Un privilegio» E i precari? «Solo militanti politici»
di Federica Fantozzi


Pregiudizi contro chi, come me, ha gli occhi a fessuretta» si difendeva la vaporosa Caterina Guzzanti-Mariastella Gelmini a Parla con me. Chissà se, in consiglio dei ministri, la vera titolare dell’Istruzione ha opposto lo stesso argomento allo sferzante sarcasmo di Giulio Tremonti con le forbici in mano.
In fondo, il mite collega Bondi, che ha minacciato dimissioni dalla Cultura stanco di fronteggiare la rivolta di teatri, musei, fondazioni, enti lirici, siti archeologici, etc, ha incassato non soldi ma almeno umana solidarietà. Lei, invece, tutti si chiedono se sia cattiva o la disegnino così. L’avvocato dalle mise grigio acciaio, i lineamenti appuntiti e gli occhiali aguzzi; il ministro ribattezzato dall’Onda «della Pubblica Distruzione»; la cattolica ritratta come Beata Ignoranza in irridenti santini; la neo-mamma che ha fatto imbufalire mezza Italia dichiarando che «il congedo di maternità è un privilegio, tutte dovrebbero tornare subito a lavorare come me».
37 anni, liceo a Desenzano del Garda, laurea a Brescia, praticantato ed esame da avvocato a Reggio Calabria (trasloco foriero di molte illazioni), sposata a Sirmione con un aitante immobiliarista bergamasco (abito avorio, Berlusconi presente, servizio fotografico esclusivo con parenti e affini in posa per Chi). Forzista della prima ora, consigliere regionale lombarda e coordinatrice locale del partito. Nordista fino al midollo. Al punto che, a voler credere al Cavaliere, chiamò la bimba Emma su sua «imposizione» in onore della Marcegaglia: decisamente erano altri tempi, adesso alla presidente di Confindustria il Giornale del premier intitola dossier. Così nordista la Gelmini che quando Bossi se la prese con gli insegnanti del Sud dopo la bocciatura del figliolo, da Cortina d’Ampezzo batté un colpo: «Nel Sud alcune scuole abbassano la qualità. In Sicilia, Puglia, Calabria (che ingratitudine, avranno pensato laggiù, ndr) e Basilicata organizzeremo corsi intensivi».
Il ministro ha dato nome a due fatti epocali. La Riforma Gelmini (work in progress) di scuola e università. E il No Gelmini Day, punto culminante di una stagione di manifestazioni di genitori, maestri, professori, precari, cobas. Migliaia di caschetti gialli con il suo volto incorniciato da un segnale di senso vietato. Slogan socratici «Come nasce la dittatura? Con i tagli alla cultura» o pragmatici «Silvio, il viagra nasce dalla ricerca».
Gelmini difende la sua multiforme creatura: «meritocrazia, trasparenza e competitività internazionale», addio a baronie e incrostazioni corporative, razionalizzazione degli atenei inutili, rettori a tempo, maestro unico, liceo musicale-coreutico, ritorno ai voti. Plaude alla alla bocciatura per voto di condotta e al grembiule anti-griffe e anti-bullismo. Ma anche ai libri di testo digitali e alle lavagne interattive multimediali. Sul canale dedicato su YouTube illustra gli estimi, la figura disegnata, le tecniche di ristorazione.
Non incontra i precari «perché sono militanti politici». Non riceve gli studenti perché «dà fastidio che la scuola non sia più proprietà privata della sinistra». Quella di Adro, in realtà, è quantomeno affittata alla Lega, e nonostante la lettera con cui lei invitava il sindaco «ad adoperarsi per toglierlo» il Sole delle Alpi è ancora lì.
Il ferreo universo gelminiano mostra due sole crepe. La prima è la scelta del pirotecnico Giorgio Stracquadanio come consigliere politico. La seconda è l’assoluta mancanza di fondi per realizzare la rivoluzione dell’italica istruzione. Mancherebbero parole sue decine di milioni di euro. Copertura zero per ricercatori, associati, precari (pochi) da regolarizzare. Atenei di buon livello al collasso, incapaci di rispettare l’offerta programmatica promessa al momento delle iscrizioni. Le scuole vivono i momenti bui dei tribunali, tocca portarsi da casa il materiale di prima necessità. E Tremonti, slot machine dei dicasteri altrui, si gira dall’altra parte. Quella leghista.

l’Unità 9.10.10
Il testo Gelmini viola le leggi sulla sicurezza nelle aule


Il Movimento per la Difesa della Scuola Pubblica denuncia che la riforma Gelmini va contro le leggi sulla sicurezza. «Basterebbe appendere nelle porte delle aule dei cartelli indicanti capienza e numero massimo di alunni per le relative classi, in base a un numero massimo di 26 persone per aula e di circa due metri quadri di spazio a testa per spronare gli stessi studenti o genitori a segnalare i casi di sovraffollamento, chiedendo lo sdoppiamento delle classi, con le conseguenti ricadute positive date da lezioni con meno alunni.
Molte classi non si formano o gli alunni abbandonano o vengono inseriti nell’apprendistato o nella formazione professionale. Il risultato è calo dei diplomati, che incide considerevolmente sul calo degli iscritti nelle università. Un vero crimine, visto che in Italia dal 2003, e in Sardegna da 2 anni, gli alunni delle scuole inferiori aumentano».

l’Unità 9.10.10
Solo i tagli sul personale ammontano a quasi 8 miliardi di euro, pari a 130mila posti di lavoro
Ma la lista è lunga e articolata: offerta formativa, cancelleria, edilizia scolastica, crediti inevasi
La scuola, vittima prediletta dal governo per fare cassa
L’impossibile conteggio dei tagli alla scuola inflitti dal governo: 8 miliardi sul personale, 1,6 miliardi di crediti non pagati, 73 milioni sulla cancelleria, 10 milioni sull’offerta formativa. Ma la lista è ancora lunga.
di Luigina Venturelli


Ci sono i tagli al personale, quelli all’ampliamento dell’offerta formativa, quelli per il funzionamento ordinario amministrativo. Poi ci sono i crediti che gli istituti vantano nei confronti del Ministero ma che vengono pagati con anni di ritardo, i fondi per l’edilizia scolastica che non si trovano mai, e le risorse che stanziavano gli enti locali prima di essere strozzati dalla manovra d’estate di Tremonti. Impossibile fare una somma esaustiva dei tagli che questo governo ha inflitto e continua ad infliggere alle scuole italiane: il salasso arriva da più parti e spesso sotto mentite spoglie.
LA RIDUZIONE DEL PERSONALE
Un dato acclarato è quello relativo al piano triennale di riduzione del personale che ha preso avvio nel 2009: quasi 8 miliardi di euro in meno, equivalenti ad oltre 130 mila posti di lavoro in corso di cancellazione, 87mila docenti e 45mila ausiliari. «Ma i tagli effettivi sono superiori» sottolineano Gianna Fracassi e Annamaria Santoro dell’Flc Cgil, «perchè il conto finale non considera la soppressione quasi totale dei corsi serali per adulti». Sono infatti sparite quasi del tutto le classi riservate agli studenti lavoratori, quelle allestite negli istituti penitenziari, quelle per persone in età matura: un’utenza debole che non ha avuto modo di alzare la voce e di venir considerata nell’elenco dei danneggiati dalla Gelmini. I numeri sono comunque previsionali, quelli reali potrebbero presto rivelarsi peggiori: la perdita dei posti di lavoro, infatti, considera il licenziamento di 17mila precari all’anno, ma la cifra è destinata a salire man mano che docenti e ausiliari a fine carriera decideranno di ritardare la pensione per non rimetterci in termini economici.
LA VTTIMA PRESCELTA
Quando c’è da recuperare risorse per aggiustare i conti pubblici, la scuola si rivela spesso la vittima prescelta: certo la manovra di luglio ha bloccato i rinnovi contrattuali per tutti i pubblici dipendenti, ma il grosso del risparmio è arrivato dal blocco delle anzianità tra il personale scolastico. E non stupisce il risparmio di 73 milioni di euro attuato sul funzionamento ordinario amministrativo, ovvero sulle spese per la carta, i toner e la cancelleria in generale: lo sanno bene le famiglie degli studenti, a cui gli insegnanti chiedo-
no di farsi carico delle fotocopie necessarie all’attività didattica.
Ancora più odioso il salasso ai fondi per la legge 440 sull’offerta formativa, vale a dire corsi aggiuntivi e sperimentali, sostegno all’innovazione, scuola digitale, integrazione degli alunni in situazione di handicap. Quelli per il 2010 ammontano a 129 milioni di euro, 10,5 milioni in meno rispetto al 2009 e la metà dei 260 milioni che erano disponibili dieci anni fa. Ma la lista non è ancora finita: ci sono i 350 milioni di euro stanziati per l’edilizia scolastica che invece, secondo le stime della Protezione civile, ne richiederebbe 13 miliardi. I crediti per 1,6 miliardi che le scuole vantano nei confronti del Miur e che hanno convinto la Cgil scuola e le associazioni dei genitori a presentare una class action nei confronti del Ministero. E i tagli per ora non quantificabili che gli enti locali saranno costretti a fare sui servizi scolastici dopo la stretta finanziaria della scorsa estate.
«Si tratta di tagli orizzontali che non eliminano gli sprechi per reinvestire in qualità, ma che impoveriscono il sistema dell’istruzione con una operazione di bilancio» spiega il segretario generale della Flc, Domenico Pantaleo. «Eppure l’Italia spende già molto meno degli altri paesi Ocse nella scuola e nell’università: solo il 4,5% della spesa pubblica a fronte di una media europea del 5,7%».

Corriere della Sera 9.10.10
Gli espartriati della scuola
di Ernesto Galli Della Loggia


Nella crisi italiana non c'è solo l'economia. Qua e là affiorano sintomi di altra natura che hanno un significato forse ancora più grave: sintomi di un domani alle porte nel quale ad essere colpiti finiranno per essere la nostra stessa identità collettiva, il senso del nostro stare insieme come Paese. Tra questi uno mi appare più inquietante degli altri: da qualche tempo le élites italiane non mandano più i figli alle scuole italiane.
Non sto dicendo che non li mandano più nelle scuole pubbliche, preferendo quelle private. Accade massicciamente anche questo, ma ormai accade che non li mandino più nelle scuole in cui comunque si parla italiano e dove s'impartiscono programmi italiani. Perlomeno nelle grandi città un numero sempre maggiore di persone agiate sceglie per i propri figli scuole francesi, tedesche, o perlopiù anglo-americane. Fino a qualche anno fa il fenomeno riguardava essenzialmente l'università. Chi poteva permetterselo mandava i figli a studiare, o almeno a specializzarsi, fuori d'Italia. Ora invece questa scelta riguarda sempre più spesso anche la scuola superiore e ormai, sembra di capire, la stessa scuola elementare. Cifre non ne conosco, ma ho l'impressione che la cosa coinvolga già migliaia di giovani delle classi superiori.
È impossibile non vedere che cosa tutto ciò significhi. È la prova certamente del decadimento del nostro sistema d'istruzione, vittima di un marasma organizzativo e di uno sfilacciamento culturale grazie ai quali hanno avuto sempre più spazio prepotenze corporative di ogni tipo: da quelle dei professori universitari a quelle dei sindacati degli insegnanti.
Ma tutto ciò non può impedire di vedere che dietro la diserzione dei giovani figli delle élites dalla scuola del proprio Paese c'è ben altro; e non certo il desiderio di imparare bene una lingua straniera. C'è in generale il progressivo, profondo, sentimento di dissociazione psicologica e spirituale degli italiani dalla dimensione della collettività nazionale. Che si esprime soprattutto nella convinzione che per la propria identità, per il proprio modo di essere e di sentire, per ciò che si è, e dunque per quella dei propri discendenti, la storia, la letteratura, l'arte italiane — per l'appunto ciò che si apprende (o si apprendeva) nella scuola — non hanno più alcun valore particolare. Questa repulsa del nostro passato esprime la convinzione che ormai questo Paese come tale non ha più alcun futuro: intendo un futuro in qualche modo specificamente suo, che porti impressi le caratteristiche, le vocazioni, la storia, il genio, suoi propi, se così posso dire. La convinzione che tutte queste cose, se mai esistono, tuttavia sono ormai fuori gioco, e dunque inutili. Come fuori gioco e inutile appare la nostra lingua; che nel Mondo Nuovo globale, com'è ossessivamente definito, l'Italia in quanto tale non ha più molto da dire. Ecco perché, allora, è meglio cercare di diventare belle o brutte copie degli inglesi o degli americani che restare italiani condannati per sempre alla serie B.
In altri tempi si sarebbe detto che proprio, se non soprattutto di queste cose, una classe politica degna del nome dovrebbe preoccuparsi ed occuparsi. Ma erano altri tempi, per l'appunto. Adesso, il solo parlarne suona perfettamente inutile. Certi discorsi e il loro oggetto appaiono destinati irrimediabilmente a finire nel malinconico mare dei ricordi.

il Fatto 9.10.10
“Tutti con la Fiom”
Alla manifestazione del 16 ottobre con gli operai e contro “il regime B.-Marchionne”
“L’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro, ma si cerca di negarlo”


“La pretesa di calpestare i diritti costituzionali nello stabilimento Fiat di Pomigliano è diventata la linea dell’intera Federmeccanica, con l’avvallo infine dell’intera Confindustria spalleggiata dal sostegno del governo”, quindi la necessità di scendere in piazza, a Roma il 16 ottobre, accanto alla Fiom, spiegano nell’appello di MicroMega alla mobilitazione, firmato Andrea Camilleri, Paolo Flores d’Arcais, don Andrea Gallo e Margherita Hack: “La volontà di assassinare la Costituzione tracima oltre il berlusconismo tradizionale, appartiene ormai al regime Berlusconi-Marchionne. Ecco perché sentiamo il dovere di rilanciare con convinzione ancora più forte il nostro appello, facendo coincidere l’appuntamento con la giornata di lotta già indetta dai metalmeccanici Fiom”.
Le adesioni non si contano. Intellettuali, politici, giornalisti, esponenti della società civile, dallo scrittore Antonio Tabucchi al regista Giuliano Montaldo, da Luigi De Magistris a Moni Ovadia, da Altan a sacerdoti come don Paolo Farinella e don Enzo Mazzi.
LO SCRITTORE. Una manifestazione “in difesa della Repubblica italiana dall’aggressione del sistema berlusconiano – per Antonio Tabucchi –, oltreché in difesa dei diritti del lavoro di cui si fa carico la Fiom, contro il ricatto dell’azienda Fiat che porta uno sfregio irreversibile alla Costituzione. Un’azienda, vorrei ricordare, che in tutto il dopoguerra è vissuta grazie alle iniezioni di denaro pubblico, cioè al denaro di tutti noi cittadini. A tutto questo si aggiunge il mio allarme per le parole eversive pronunciate sabato 2 ottobre a Milano da Silvio Berlusconi, che costituiscono un attacco inaudito alle garanzie istituzionali. Affermare – continua lo scrittore – come ha fatto Berlusconi, che dietro la caduta del suo governo nel 1994 ci siano la magistratura e l’ex presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro e proporre una commissione parlamentare che indaghi sulla magistratura italiana è eloquente, penso, sull’imminente pericolo che l’Italia sta vivendo. Ricordo che Mussolini arrogò a sé l’inchiesta sul delitto Matteotti. Cittadini, vigiliamo”.
IL GIORNALISTA. Sarà una “manifestazione in difesa del lavoro, ma soprattutto della Costituzione”, che rappresenta “i valori attorno ai quali adunar si”, spiega Furio Colombo, deputato del Pd e firma del Fatto Quotidiano: “Questa è una Repubblica fondata sul lavoro, ma si cerca di negarlo. Un dovere particolarmente urgente esserci – il 16 ottobre – in un momento particolarmente aspro, duro, buio della vita italiana”.
L’ATTORE. Una Repubblica fondata sul lavoro ormai trasformata, per l’attore Moni Ovadia, una “diarchia berlusconiana” che ha uno scopo preciso: “Demolire la giustizia sociale togliendo al lavoratore la dignità di titolare di diritti. Il lavoro diventa una concessione e il lavoratore serve sotto ricatto. Dobbiamo attivare un processo di mobilitazione costante contro questo imbarbarimento. La battaglia più importante da fare”.
VOCI DI CHIESA. Adesione all’appello, di cui uno dei primi firmatari è don Gallo, anche da altre voci cattoliche. Come don Paolo Farinella, anche lui sacerdote di Genova, che non ha dubbi: “In piazza con la Fiom contro il regime Berlusconi–Marchionne. Perché il progetto di Marchionne è quello di eliminare il sindacato e in questo converge con la politica del governo, che è quella di instaurare un regime anti-democratico. Una manifestazione di piazza intesa, quindi, come nuova Resistenza contro il tentativo non solo di umiliare ma di distruggere l’Italia intera”. Don Enzo Mazzi indica anche una prospettiva: “Non dobbiamo rincorrere il berlusconismo, dobbiamo cambiare strada, perché non si risolvono i problemi con lo stesso schema che li ha creati. Dobbiamo uscire da questo orrido pantano culturale, politico e sociale.
LA POLITICA. Gli europarlamentari dell’Idv Sonia Alfano e Luigi De Magistris si schierano con la Fiom: “Ci interessa la sorte di quelle migliaia di cittadini che ogni giorno perdono il posto di lavoro” perché “è in atto un disegno autoritario di questo governo per cambiare sempre più l’equilibrio tra capitale e lavoro”.

il Fatto 9.10.10
Bersani ci sarà oppure no?
di Sa. Can.


La Fiom qualche sondaggio riservato lo ha fatto e al Pd ha chiesto conto della sua partecipazione in piazza il 16 ottobre. Solo che al momento non ha avuto risposta. Magari Bersani e soci decideranno il 15 ottobre verso la mezzanotte. Eppure la manifestazione Fiom sta diventando sempre di più l’appuntamento di riferimento dell’opposizione sociale e anche politica. Bersani non smette mai di dire che il lavoro è al centro del Pd che lui ha in mente. Se è così la sua assenza in piazza si noterebbe almeno quanto la sua presenza. Ovviamente se Bersani decidesse di partecipare si sottoporrebbe a una sfilza di critiche, il “partito Fiat” all’interno dei Democratici è piuttosto notevole e le contestazioni alla Cisl di questi giorni rendono ancora più difficile l’adesione. L’ex popolare Fioroni, dopo la manifestazione con fumogeni alla sede Cisl di Roma, ha chiesto al Pd di battersi contro questa “nuova strategia della tensione”. Ma la domanda resta: ci sarà o no il Pd il 16 ottobre in piazza con la Fiom?   

il Fatto 9.10.10
Dopo Pomigliano si sono aperte tutte le valvole di sicurezza: diritti calpestati
Esserci perché siamo ai colpi di coda del Caimano e allo sfacelo totale
di Andrea Camilleri


 Queste mie parole, quale che sia il peso che possono avere, hanno il valore di un invito, dettato dal sentimento e dalla ragione, a partecipare alla grande manifestazione del 16 ottobre, indetta dalla Fiom, nel corso della quale saremo presenti anche noi. Perché c’è questa necessità? Credo sia evidente, da tutte le notizie che quotidianamente filtrano attraverso i giornali e le televisioni, che siamo allo sfacelo della politica e agli estremi colpi di coda di un governo. E di un uomo che non ha nessun senso delle istituzioni, né della Costituzione, né della giustizia. E quindi fa di tutto perché queste istituzioni siano modificate a suo uso e consumo. Questo non si può assolutamente permettere in uno Stato democratico.
DIRÒ DI PIÙ: è molto importante che la nostra manifestazione sia all’interno della grande manifestazione della Fiom. In questi ultimi mesi la Fiom ha difeso i diritti dei lavoratori. Ora, diritti non significa solo le pause, la durata delle ore di lavoro.
Diritto è soprattutto il diritto del lavoro ad essere rispettato in quanto tale. La Fiom sta difendendo prima di tutto la dignità del lavoro. Manifestare uniti alla Fiom, oggi, ha un senso preciso di unione di volontà.
La posizione che la Fiom ha assunto nei riguardi dello Statuto dei lavoratori e delle condizioni dei lavoratori nasce nel momento in cui Marchionne a Pomigliano ha fatto un vero e proprio diktat, di quelli o prendere o lasciare.
Credo che già allora i rappresentanti della Fiom avessero intuito che, cedendo al diktat di Marchionne, in realtà avrebbero aperto le valvole di sicurezza per una moltiplicazione dell’esempio Pomigliano, il che è avvenuto. Vorrei farvi riflettere su una cosa vista nei telegiornali. I lavoratori di Pomigliano, intervistati dalla televisione, non rispondono all’intervistatore perché hanno paura di essere licenziati se parlano. Un clima così, io che ho 85 anni, l’ho vissuto nei miei primi diciotto anni, sotto il fascismo.
Voglio dire, Marchionne dà un cospicuo contributo a quello che è il mutamento della democrazia italiana in una dittatura strisciante.
CHE COSA vorremmo in questa manifestazione? Che fossero presenti “tutti coloro che”. Chi sono “tutti coloro che”?
Certo che c’è la società civile, c’è il Popolo viola che ha già manifestato per i fatti suoi, ma vorrei che ci fosse la gente che sento parlare al mercato, la gente che sento parlare in autobus, quelli che non ne possono più e che pure esitano a scendere in piazza.
Ora, una volta che non possono più eleggere i loro deputati con questa legge elettorale, che vengano a dire come la pensano almeno in piazza. Altrimenti tutto questo dà maggiore sicurezza al governo.
Oggi, chi non osa minimamente manifestare il proprio pensiero assieme agli altri, in realtà finisce per dare una mano a questo governo. Quindi non è che posso fare un appello a singole categorie di persone. Posso fare un appello a tutti gli italiani di buona volontà, perché ce ne sono tanti: che si sveglino, che scendano in piazza con noi.

l’Unità 9.10.10
Premiato Liu Xiaobo l’autore della Charta 08, condannato a 11 anni e in carcere dal 2008
Un dissidente Nobel per la pace
L’ira della Cina
Il Nobel entra nelle carceri cinesi. E premia un professore di letteratura che ha lanciato la sua sfida di libertà al Gigante cinese: Liu Xiaobo. Pechino reagisce con rabbia, mentre i dissidenti esultano.
di Umberto De Giovannangeli


«Il Comitato norvegese per il Nobel ha deciso di assegnare il premio Nobel per la pace 2010 a Liu Xiaobo per la sua lunga e non violenta battaglia in favore dei diritti umani fondamentali in Cina. Il Comitato norvegese per il Nobel ritiene da tempo che ci sia uno stretto legame tra i diritti umani e la pace. Tali diritti sono un prerequisito per la “fratellanza tra le nazioni”della quale Alfred Nobel scrisse nel suo testamento...». Un Nobel del coraggio. Un Nobel che sfida il Gigante cinese. Il Nobel a Liu Xiaobo. A ricordarlo è lo stesso Comitato di Oslo.
SFIDA DI LIBERTA’
Ogni parola è un macigno politico per Pechino: «Da oltre due decenni, ricorda il Comitato Nobel Liu Xiaobo è un forte portavoce della battaglia per l'applicazione dei diritti umani fondamentali anche in Cina. Prese parte alle proteste di Tienanmen nel 1989; è stato uno degli autori promotori della Charta 08, il manifesto di tali diritti in Cina che è stato pubblicato nel 60/o anniversario della Dichiarazione Universale dei Diritti umani, il 10 dicembre 2008. L’anno successivo, Liu è stato condannato a undici anni di prigione e a due anni di privazione di diritti politici per “aver incitato alla sovversione contro lo Stato”. Liu ha ripetutamente sostenuto che questa sentenza viola sia la Costituzione cinese che i diritti umani fondamentali. «La campagna per promuovere i diritti umani universali anche in Cina è stata intrapresa da molti cinesi, sia nella stessa Cina che all'estero. Attraverso le severe punizioni inflittegli, Liu è diventato il principale simbolo dell' intera battaglia per i diritti umani in Cina». Spiegando i motivi della scelta il presidente del comitato norvegese Thorbjoern Jagland ha affermato che « la Cina, la seconda economia del mondo, deve aspettarsi di essere sotto stretta osservazione man mano che diventa più potente, come gli Usa dopo la seconda guerra mondiale». «Mentre la Cina cresce ha proseguito abbiamo il diritto di criticarla...noi vogliamo far avanzare le forze che vogliono che la Cina diventi più democratica».
LA RABBIA DI PECHINO
La Cina ha reagito con rabbia, affermando che la decisione del Comitato per il Nobel,è «un’oscenità». In una nota diffusa sul suo sito web, il ministero degli Esteri cinese sostiene che Liu Xiaobo è «un criminale» che è stato condannato «dalla giustizia cinese». La decisione è destinata a «nuocere alle relazioni tra la Cina e la Norvegia», il cui ambasciatore a Pechino è stato subito convocato dalle autorità cinesi. Il ministero degli Esteri cinese ricorda che secondo le parole del suo fondatore Alfred Nobel, il premio per la pace deve essere assegnato a «persone che hanno promosso la fratellanza tra le nazioni, l'abolizione o la riduzione degli armamenti e che si sono sforzate di promuovere iniziative di pace«. Le «azioni di Liu Xiaobo conclude il comunicato sono completamente contrarie a questi principi». Liu Xiaobo, un professore di letteratura che oggi ha 54 anni, ha iniziato la sua attività di dissidente nel 1989, schierandosi con il movimento per la democrazia guidato dagli studenti. Subito dopo il massacro che mise fine al movimento, trascorse 18 mesi in prigione e nel 1995 fu condannato a tre anni di «rieducazione attraverso il lavoro». Il Nobel a Liu, rileva Teng Biao, un avvocato democratico impegnato in tutte le principali iniziative per i diritti umani degli ultimi ann, «incoraggerà sicuramente la società civile della Cina e sempre più gente si batterà per la pace e la democrazia». Una speranza che sa di sfida al Gigante cinese. Una sfida di libertà. Nel nome di Liu, un Nobel coraggioso. Scomodo.

l’Unità 9.10.10
Le motivazioni del Comitato che assegna il premio


Pubblichiamo ampi stralci delle motivazione del premio

«Il Comitato norvegese per il Nobel ha deciso di assegnare il premio Nobel per la pace 2010 a Liu Xiaobao per la sua lunga e non violenta battaglia in favore dei diritti umani fondamentali in Cina. Il Comitato ... ritiene da tempo che ci sia uno stretto legame tra i diritti umani e la pace. Tali diritti sono un prerequisito per la ‘fratellanza tra le nazioni’ della quale Alfred Nobel scrisse nel suo testamento. Nei decenni passati, la Cina ha raggiunto risultati economici difficilmente eguagliabili nella storia. Il Paese è oggi la seconda economia più grande del mondo; centinaia di milioni di persone sono state sottratte alla povertà. Anche le possibilità di partecipazione politica sono state ampliate. Il nuovo status della Cina deve comportare una maggiore responsabilità. La Cina viola diversi accordi internazionali dei quali è firmataria, così come la sua stessa legislazione in merito ai diritti umani. L'articolo 35 della Costituzione cinese sancisce che ‘i cittadini della Repubblica popolare cinese godono della libertà di espressione, di stampa, di assemblea, di associazione, di corteo e di manifestazione’. In pratica, è dimostrato che queste libertà sono chiaramente limitate per i cittadini cinesi. Da oltre due decenni, Liu Xiaobao è un forte portavoce della battaglia per l'applicazione dei diritti umani fondamentali anche in Cina. Prese parte alle proteste di Tienanmen nel 1989; è stato uno degli autori promotori della Charta08, il manifesto di tali diritti in Cina che è stato pubblicato nel 60/o anniversario della Dichiarazione Universale dei Diritti umani, il 10 dicembre 2008... Attraverso le severe punizioni inflittegli, Liu è diventato il principale simbolo dell'intera battaglia per i diritti umani in Cina».

l’Unità 9.10.10
Il presidente degli Stati Uniti: «La Cina ancora indietro sui diritti umani fondamentali»
Obama, Francia e Germania: ora dovete liberare Liu
Liberate il Nobel dei diritti umani. Liberate Liu. A chiederlo esplicitamente sono gli Stati Uniti, la Francia e la Germania. Parlano Obama, Angela Merkel, Sarkozy. Il silenzio assordante di Palazzo Chigi....
di Umberto De Giovannangeli


Barack Obama, Angela Merkel, Nicolas Sarkozy. I leader più accorti plaudono al Nobel per la pace assegnato a Liu Xiaobo e chiedono al Governo cinese di liberare il paladino dei diritti umani. La Comunità internazionale si mobilita e preme su Pechino. ««Chiediamo che il governo cinese rilasci Liu Xiaobo al più presto possibile», dichiara il presidente degli Usa. «Lo scorso anno, ho sottolineato come molti che hanno ricevuto il premio hanno affrontato molti più sacrifici di me» si legge ancora nella dichiarazione di Obama, al quale lo scorso anno l'accademia di Oslo ha conferito il Nobel, suscitando non poche polemiche. «Premiando Liu, il comitato dei Nobel ha scelto qualcuno che è stato un sostenitore coraggioso e fermo dell'avanzamento dei valori universali attraverso i metodi pacifici e non violenti, compreso il suo sostegno alla democrazia, i diritti umani e lo Stato di diritto» , ha detto ancora Obama che ha dato anche un chiaro giudizio politico della scelta del Comitato di Oslo.
PRESSIONI SU PECHINO
Sottolineando come in questi ultimi tre decenni la Cina ha fatto importantissimi progressi economici facendo uscire centinaia di milioni di persone dalla povertà, il capo della Casa Bianca ha sostenuto che «questo premio ci ricorda che la riforme politiche non hanno tenuto il passo e che i diritti fondamentali di ogni uomo, donna e bambino vanno rispettati». Per la liberazione di Liu si schiera Parigi. «La Francia, come l'Unione Europea, ha espresso la sua preoccupazione al momento del suo arresto e ha chiesto in più occasioni la sua liberazione ha affermato il ministro degli Esteri Bernard Kouchner in un comunicato ribadiamo questo appello. La Francia riafferma il suo sostegno alla libertà di espressione ovunque nel mondo. Il Comitato Nobel, che fa le sue scelte in modo indipendente, ha voluto inviare un messaggio forte a tutti coloro che militano in modo pacifico per la promozione e la tutela dei diritti dell'uomo». Da Parigi a Berlino. La Germania si augura che il dissidente cinese Liu Xiaobo venga rimesso in libertà dalla Cina e possa così ricevere di persone il Nobel per la pace: a dichiararlo è il portavoce del governo di Berlino, Steffen Seibert. «Il governo tedesco auspica che (Liu Xiaobo) sia presto liberato per poter ricevere di persona il premio», afferma Seibert in un briefing con la stampa. «Il governo si è già impegnato in passato per la sua liberazione e continuerà a farlo», ha aggiunto il portavoce del governo della premier Angela Merkel.
L’UE PLAUDE
L'Unione europea si felicita per l'assegnazione del Nobel per la pace al dissidente cinese Liu Xiaobo, ma non chiede esplicitamente la sua liberazione. Nel suo messaggio di felicitazione, il presidente della Commissione Ue, Josè Durao Barroso, rileva che il premio a Liu Xiaobao è un sostegno a tutti quelli che nel mondo lottano per la libertà e i diritti umani ma non fa esplicito riferimento alla Cina e neppure chiede la liberazione del leader cinese dissidente. Parlano Obama, Merkel, Sarkozy....Parole chiare e forti verso Pechino. Silenzio da Palazzo Chigi. Ed è un silenzio assordante. A parlare è Franco Fratti-
ni. «L'assegnazione, in maniera, come noto, del tutto indipendente, del Premio Nobel al dissidente cinese Liu Xiaobo incarna il riconoscimento internazionale per tutti coloro che, a prescindere dalla nazionalità di appartenenza, lottano per la libertà ed i diritti della persona», commenta il titolare della Farnesina. « Sono valori che, come ha sottolineato il Presidente della Commissione Barroso, aggiunge Frattini sono alla base della costruzione europea e che l'Europa deve continuare a sostenere ovunque nel mondo, senza eccezioni...». Ma Roma non segue Washington, Berlino, Parigi nel chiedere la liberazione di Liu.

l’Unità 9.10.10
«La Cina una prigione. Il premio aiuterà i paladini dei diritti»
Il portavoce Italia di Amnesty International: «L’Occidente deve far tesoro della scelta del Comitato di Oslo, la difesa delle libertà non può rimanere all’ultimo posto, dietro gli affari»
di U. D. G.


Il Nobel per la pace a Liu Xiaobo visto da Amnesty International (AI). L’Unità ne parla con Riccardo Noury, portavoce in Italia di AI. «Vorremmo che questo Nobel sottolinea Noury portasse l’Italia a considerare la Cina non solo come un enorme mercato ma anche come una grande prigione». E al Governo cinese che bolla come una «oscenità» il riconoscimento a Liu Xiaobo, il rappresentante di Amnesty International ribatte: «A suscitare oscenità è il fatto che un difensore dei diritti umani stia scontando una condanna a 11 anni di carcere».
Qual è il significato del Nobel per la pace assegnato a Liu Xiaobo? «Da parte di un Premio Nobel per la pace qual è Amnesty International, la scelta di conferire il premio a Liu Xiaobo è molto importante e coraggiosa. È un “premio alla carriera” che onora decenni di impegno per i diritti umani in Cina».
Il Governo cinese ha definito una «oscenità» l’assegnazione del Nobel per la pace al «criminale» Liu Xiaobo... «A suscitare oscenità è il fatto che un difensore dei diritti umani stia scontando una condanna a 11 anni di carcere. Piuttosto che bollare come una inammissibile interferenza negli affari interni ogni occasione in cui si parla di diritti umani, il Governo di Pechino dovrebbe considerare la decisione del Comitato di Oslo come un autorevole, ulteriore stimolo per rilasciare immediatamente Liu Xiaobo e tutti gli altri prigionieri di coscienza».
E all’Occidente cosa dovrebbe insegnare questo Nobel? «Il riconoscimento a Liu Xiaobo dà un monito fondamentale. i diritti umani devono essere in testa e non in fondo all’agenda dei rapporti con la Cina. Se Liu Xiaobo si trova ancora in carcere è anche perché, in questi anni, il mondo ha rinunciato a parlare di diritti umani con Pechino».
Gli affari «silenziano» le coscienze?
«Non tutte le coscienze, per fortuna, ma certamente in nome degli affari i diritti umani sono stati ampiamente sacrificati. Anche per questo la decisione di Oslo è importante, perché consente di riaccendere i riflettori sulla drammatica situazione dei diritti umani in Cina». In una metafora, si può dire che oggi (ieri per chi legge, ndr) Davide-Liu ha sconfitto il Golia cinese?
«Si ma solo in parte, perché “Davide” è ancora in carcere». Stando agli ultimi rapporti di Amnesty International è possibile dimensionare il fenomeno dei dissidenti imprigionati in Cina?
«Molti dei cofirmatari di Charta 08 condividono la stessa sorte di Liu Xiaobo e fanno parte di un gruppo di decine e decine di persone che si trovano in carcere per aver chiesto riforme e difeso i diritti umani».
Gli Stati Uniti, la Francia e la Germania hanno chiesto ufficialmente alle autorità cinesi di liberare Liu Xiaobo. E l’Italia?
«Mi auguro che faccia lo stesso, anche alla luce dell’assenza di un qualsiasi riferimento ai diritti umani nella visita dell’altro ieri del primo ministro cinese a Roma. L’Italia negli ultimi quindici anni è stata in prima fila per chiedere la fine dell’embargo dell’Unione Europea sulle armi alla Cina. Nello stesso arco di tempo abbiamo sentito poche voci chiedere la fine delle violazioni dei diritti umani in Cina. Vorremmo che questo Nobel portasse l’Italia a considerare la Cina non solo come un enorme mercato ma anche come una grande prigione».

l’Unità 9.10.10
In Campania Gli immigrati occupano le rotonde della vergogna
«Oggi non lavoriamo per meno di cinquanta euro al giorno»
Diritti e salario Il popolo invisibile del lavoro nero incrocia le braccia
Protesta in Campania degli immigrati irregolari impiegati nell’agricoltura o nell’edilizia. Il sindaco di Castel Volturno, che il 18 settembre ha rifiutato di ricordare i due anni dalla strage di camorra, li ha ricevuti.
di Massimiliano Amato


CASERTA. Ai “kalifoo round”, le rotonde della vergogna, stamattina non ci sono braccia in vendita, solo uomini che chiedono rispetto e una paga decente. E i caporali si tengono prudenzialmente alla larga: troppe telecamere e giornalisti. Baia Verde, dove due anni fa Miriam Makeba, “Mamma Africa”, dopo un concerto memorabile reclinò il bel capo altero e se ne andò a volteggiare libera nei prati del cielo, e i ragazzi del Ghana e della Nigeria la ricordano intonando i suoi must. E Villa Literno, Giugliano. E ancora: Casal di Principe, Qualiano, Scampia, Pianura. Sono 16 le rotonde della vergogna occupate pacificamente dagli “invisibili” di colore costretti a lavorare per poco più di 20 euro al giorno: la paga base è di 25 euro per dodici, anche tredici ore di lavoro filate nei campi, nell’edilizia, nei piccoli lavori di facchinaggio. Due euro e mezzo, il 10%, vanno al caporale, il resto è sufficiente a malapena per la cena. Così per mesi, per anni. Con una folla di incubi per compagnia. Le ronde della camorra e quelle dello Stato. Le prime ammazzano senza pietà, come avvenne la sera di San Gennaro di due anni fa a Castel Volturno: sei ghanesi crivellati da una banda di pazzi sanguinari capeggiati da un boss casalese che si era finto cieco per uscire dal carcere. Le seconde sono meno rumorose ma fanno male lo stesso: braccano i richiedenti asilo in attesa di risposta e i clandestini. La prospettiva di un futuro rispettabile nell’Occidente opulento può evaporare nello spazio di un blitz.
Lo spirito dello sciopero che gli “invisibili” inscenano rinunciando anche ai 22 euro e mezzo di una giornata di lavoro, va quindi oltre i cartelli inalberati sulle rotonde della vergogna: «Noi non lavoriamo per meno di 50 euro al giorno». Da Salerno, dove nel 2006 organizzò il primo grande sciopero dei braccianti “invisibili” della Piana del Sele, Anselmo Botte, sindacalista della Cgil che martedì prossimo presenta il suo secondo libro sui dannati di San Nicola Varco, argomenta: «Spero che la richiesta sia per il datore di lavoro, altrimenti suonerebbe come una legalizzazione del caporalato. Non bisogna mai dimenticare, infatti, che dietro ogni caporale c’è un datore che calpesta le leggi sull’avviamento al lavoro». «È stato solo un primo appuntamento – spiegano i ragazzi della rete antirazzista – perché l’impegno per far terminare la spirale dello sfruttamento è molto lungo». Gli obiettivi sono due, molto ambiziosi: estendere l’articolo 18 del testo unico anche a chi denuncia di essere stato costretto all’irregolarità del lavoro e avviare «un percorso permanente di emersione dalla clandestinità».
Un primo risultato, la mobilitazione lo ottiene a fine mattinata, quando anche il sindaco di Castel Volturno Antonio Scalzone, che il 18 settembre scorso si era rifiutato di celebrare il secondo anniversario della strage dei ghanesi davanti alla sartoria Oba Oba, capitola. Accetta di incontrare le associazioni in Comune, ed è la prima volta dal giorno dell’insediamento della nuova Amministrazione. «È servito a conoscerci meglio», commenta laconico il primo cittadino. «Ho l’impressione che si sia tornati indietro sulle dichiarazioni fatte in precedenza», è invece la versione di Gianluca Castaldi, della Caritas casertana. Oggi seconda tappa della protesta: corteo a Caserta contro il razzismo, lo sfruttamento e le camorre (tutte) per il permesso di soggiorno e i diritti di cittadinanza. Previsti 2000 migranti, oltre a studenti e lavoratori.

il Fatto 9.10.10
La rivolta degli schiavi parte dal litorale domizio
di Vincenzo Iurillo


I luoghi simbolo del caporalato sono le rotonde stradali sparpagliate tra i vialoni del casertano, del litorale domiziano, della provincia Nord di Napoli. È nei pressi di questi slarghi di cemento che ogni mattina migliaia di immigrati, per lo più africani, vengono ingaggiati per pochi euro al giorno. Per lavorare in nero nell’edilizia, nella grande distribuzione, nelle campagne. Senza assicurazione, senza tutele, senza contributi. Senza
nessun diritto. Ieri mattina all’alba questo esercito di manovalanza clandestina e silenziosa – stimato in quasi 7000 persone secondo i movimenti dei migranti e dei rifugiati – ha deciso di protestare incrociando le braccia. Per dire no alle condizioni finora imposte loro dai caporali, alle paghe giornaliere da fame ancora più basse con la crisi in atto, alle trattenute di 3 o 5 euro imposte dagli schiavisti del Terzo millennio.
SOSTENUTI dai centri sociali, dai movimenti anti-razzisti e dalle associazioni di volontariato, gli immigrati si sono radunati a Baia Verde, Villa Literno, Castelvolturno, Casal di Principe, Pianura, Scampia, Afragola, Giugliano, Quagliano, Licola, Quarto, portando appeso al collo il cartello: “Oggi non lavoro per meno di 50 euro al giorno”. Distribuendo un volantino dal titolo “Siamo uomini o caporali”, hanno spiegato le proprie ragioni agli automobilisti e ai passanti incuriositi. Raccontando storie di agghiacciante sfruttamento. Come quella del nordafricano 30enne che si spacca la schiena 10 ore per 15-20 euro al giorno, a seconda dell’umore del caporale di turno. O del giovane nigeriano che scarica cassette di frutta e di latte in un supermercato gratis per giorni, nella speranza, che non sempre si avvera, di ricevere un salario a fine settimana.
JOSEPH, 39 ANNI, ghanese vive da nove in Italia, è sposato e ha due figli. Vive nella periferia di Villa Literno, dice di arrangiarsi con lavoretti da 25-30 euro al giorno e confessa di non riuscire a farcela. D’estate Joseph fa il bracciante agricolo: raccoglie la frutta per 12 ore al giorno. In alternativa, si presta a fare il giardiniere, il facchino, il muratore. Non raggiunge i mille euro al mese e al netto delle bollette e del cibo c’è davvero poco da scialare. “Qui circola una battuta che non è tanto lontana dalla realtà: c’è chi lavora soltanto per un panino” dice Mimma D’Amico del centro sociale ex Canapificio, uno degli enti che ha promosso lo sciopero. “Ma stiamo assistendo a una situazione paradossale: nei controlli incappano solo questi lavoratori, perché clandestini o irregolari, e non gli sfruttatori. Che approfittano di loro proprio perché sono privi di permesso di soggiorno, obbligandoli ad accettare condizioni davvero assurde. Cose che denunciamo da anni, nel silenzio assordante del governo e delle istituzioni, a cui ci rivolgiamo affinché favoriscano interventi per l’emersione del lavoro nero”.
LA SITUAZIONE è peggiorata da quando negli ultimi tempi alle storiche comunità di immigrati asiatici e africani si sono aggiunti i romeni e i cittadini dell’Est europeo, che accetterebbero di lavorare a condizioni peggiori (i romeni ieri hanno lavorato lo stesso). La protesta degli immigrati è comunque stata pacifica e composta. “Una bella manifestazione – commenta Alfonso De Vito, della rete antirazzista – perché queste persone hanno avuto il coraggio di scendere in piazza, metterci la faccia e sfidare i caporali”. A Baia Verde, nella piazzetta dove morì Miriam Makeba al termine di un concerto per le vittime della strage di San Gennaro a Castel Volturno, in molti si commuovono e dedicano un pensiero a Mamma Africa. Pregando per un futuro migliore.

Corriere della Sera 9.10.10
«Ammissione a punti» La nuova sfida di Veltroni è sull’immigrazione
di Maria Teresa Meli


BUSTO ARSIZIO (Varese) — È una piccola rivoluzione per il Pd. E il fatto che avvenga qui, a Busto Arsizio, a due passi da Varese, in terra leghista per intendersi, è senz’altro significativo. Si tratta della decisione di Movimento Democratico, l’area del partito che fa capo a Walter Veltroni, di presentare all’Assemblea nazionale un documento sull’immigrazione che non ricalca le parole d’ordine care alla sinistra, ma affronta il problema in maniera del tutto inedita per una forza politica come il Pd. L’ha elaborato il vice capogruppo alla Camera Alessandro Maran, e l’hanno sottoscritto tutti i leader della corrente, dall’ex segretario a Beppe Fioroni e Paolo Gentiloni. Ma a queste firme si sono aggiunte anche quelle di alcuni esponenti della maggioranza interna, come Daniele Marantelli, il deputato «padrone di casa» che ha organizzato l’Assemblea, o di rappresentanti dell’area Marino, come Paola Concia.
La premessa dell’ordine del giorno è chiara: «Vogliamo assicurare attraverso l’introduzione di un sistema d’ammissione a punti che avremo gli immigrati di cui la nostra economia ha bisogno, ma non di più. Con il ritorno della crescita vogliamo vedere crescenti livelli di occupazione e salari crescenti, ma non crescente immigrazione». Un’innovazione per il Pd, senza ombra di dubbio. Tanto più se si pensa che il sistema a punti è quello che il ministro dell’Interno Roberto Maroni vuole introdurre nel nostro Paese. Naturalmente, nella proposta di Movimento Democratico alla fine di questo percorso è prevista per gli immigrati la cittadinanza italiana e i toni del documento sono molto diversi da quelli adottati dai leghisti, ciò non toglie però che l’impostazione sia differente da quella ufficiale seguita fin qui dal partito.
«Australia, Nuova Zelanda, Canada, Gran Bretagna e Danimarca — si legge ancora nel testo presentato ieri sera – hanno adottato strategie di questo tipo. Età, sesso, stato civile, istruzione, specializzazione, conoscenza della lingua, della cultura, dell’ordinamento del paese, si combinano in un punteggio, o valutazione, dell’ammissibilità dei candidati all’immigrazione. L’esito normale del processo di inclusione, in queste società è l’acquisizione della cittadinanza, e questo avviene per la maggioranza degli immigrati». Dunque, «si tratta di una politica migratoria selettiva: l’ammissibilità legata ad una valutazione delle caratteristiche degli immigrati», perché «venire, a ancor più restare in Italia, è un’ opportunità e non un diritto».
Ma non finisce qui. Il documento prevede anche un’altra proposta «forte» che rappresenta un’ulteriore novità per la tradizionale politica dell’immigrazione adottata dal Partito democratico. «Riconosciamo inoltre — è scritto nel testo — che l’immigrazione può mettere pressione sulla disponibilità di abitazioni e di servizi pubblici delle nostre comunità, perciò dobbiamo costituire un Fondo Impatto Immigrazione pagato dalle contribuzioni degli immigrati per aiutare le aree locali». Anche in questo caso, una piccola rivoluzione per il Pd, mutuata dalla Gran Bretagna. Una proposta di tassazione degli immigrati che farà discutere.
Il documento presentato da Movimento Democratico e fortemente voluto da Veltroni, ovviamente, non prevede solo paletti. Nell’ultima pagina vi è un paragrafo tutto dedicato ai diritti degli immigrati: «Poiché buona parte dell’immigrazione è di lungo periodo o permanente deve essere in grado di acquisire pieni diritti, politici e di cittadinanza. E le riforme devono riguardare lo snellimento delle procedure per ottenere la carta di soggiorno per “lungo residenti”; la concessione del voto amministrativo; l’accesso alla cittadinanza ai nati da residenti stranieri legalmente soggiornanti e ai minori cresciuti e formati in Italia».
Oggi, dopo una nottata di trattative in un’apposita commissione di lavoro, si saprà se il gruppo dirigente del Pd è disposto ad accettare la sfida sull’immigrazione lanciatagli dalla minoranza di Veltroni (tanto più che il documento è piaciuto anche a una parte della maggioranza interna e a una fett a degli a mministratori l ocal i del Nord), o se preferirà attestarsi sul documento elaborato da Livia Turco, in linea con i temi e gli slogan tradizionali della sinistra.

Corriere della Sera 9.10.10
La barriera di silenzio che nasconde il mostro tra le mura domestiche
di Gianna Schelotto


Come riconoscere l’orco in casa? Purtroppo non esistono decaloghi. Le sensazioni più inquietanti e spaventose creano fortissima la rimozione. Può accadere di essere lambiti dal dubbio, ma di fronte a certe realtà troppo inquietanti si tende a negare, a non capire e non vedere. Le mamme delle ragazzine molestate dai papà non sono complici, ma si trincerano dietro muri di involontarie omertà. Qualunque cosa è meglio dell’indicibile.
Ma c’è un limite a tutto. Cosa succedeva a casa di Michele Misseri non lo sappiamo. Per noi osservatori esterni nessuna espressione, nessun gesto, niente nell’aspetto fisico di quell’uomo poteva far pensare che fosse l’orco. Soltanto quando ha pianto, dopo aver ritrovato il cellulare della nipote, si è insinuato il dubbio che quelle lacrime fossero il segno di una colpa non più sopportabile.
Non sono i gesti, dunque, non è lo sguardo. Dobbiamo piuttosto guardarci da certi profondissimi isolamenti. Sarah è entrata nell’oscurità di quel garage, nel buio di quell’uomo con tutta la luminosità dei suoi quindici anni, il suo sorriso, la sua freschezza. E l’orco ha voluto catturare quella luce. Si parlavano in casa Misseri? Comunicavano tra di loro? Quest’uomo chiuso che lavorava nei campi e si chiudeva nel suo garage con quali spettri si misurava? Quanta solitudine conteneva?
Forse era una famiglia silente. La caduta della confidenza, l’incapacità di trasmettersi emozioni dovrebbero destare allarme in ogni famiglia. Certi silenzi vuoti possono diventare abissi tra chi non sa più dirsi niente o vive nell’angoscia di dirsi qualcosa.
Michele Misseri è sicuramente un mostro e il suo è un delitto atroce. Ma le donne della la sua famiglia hanno emesso per lui una condanna senza appello.
Anche questo desta sgomento perché rivela in quale sconfinato deserto vivesse l’orco.

Corriere della Sera 9.10.10
Severo e distante, il Dio degli americani
Sondaggi e interviste. Solo per il 22% è benevolente (come crede anche Obama)
di Armando Torno


È apparso ieri su Usa Today un articolo di Cathy Lynn Grossman riguardante le opinioni degli americani su Dio («How America sees God»). Come lo vedono o immaginano, cosa ne pensano, quali domande si pongono e come talune figure delle Chiese lo testimoniano. Prima di offrire i dati, varrebbe la pena ricordare che soltanto il 5% si è dichiarato «ateo/ agnostico», percentuale che sarebbe stata ben più alta se questa ricerca fosse stata fatta in Russia (una recente statistica dell’Università di Mosca offre indicatori oltre il 20%) o in qualche Paese europeo.
Le domande rivolte erano chiare, e possono essere riassunte in due quesiti. Quando pregate Dio a chi o a che cosa pensate di rivolgervi? E quando cantate «God bless America» a chi chiedete di benedire la vostra terra? Non si può dimenticare che negli Stati Uniti, Dio — o l’idea di un Dio — permea la vita quotidiana. Il suo riflesso nelle coscienze è un elemento essenziale per spiegare il passato degli Usa, molti dei conflitti a cui hanno preso parte o si sono trovati coinvolti; anzi, sottolinea l’estensore dell’articolo, «potrebbe offrire un indizio di quanto riserva il futuro». Insomma, Dio è al nostro fianco, o se ne sta oltre le stelle? È adirato, geloso, vendicativo come in alcuni passi dell’Antico Testamento o misericordioso e capace di confondersi con un amore infinito? Sino a dove il suo occhio scruterà le cose?
I sondaggi dicono che nove americani su 10 credono in Dio, ma il modo di immaginarlo rivela — sottolinea la ricerca — anche l’atteggiamento in materia di economia, giustizia, morale sociale, guerra, calamità naturali, scienza, politica, amore e anche altro, come sostengono Paul Froese e Christopher Bader, due sociologi della Baylor University di Waco (Texas). Il loro nuovo libro, America’s Four Gods, dove ci si chiede essenzialmente «cosa possiamo dire di Dio?», esamina le diverse visioni dell’Onnipotente. Il metodo di ricerca utilizzato si ba-sa su indagini telefoniche (1.721 adulti nel 2006 e 1.648 nel 2008), ma soprattutto trae c onclusioni qualitative da 200 «interviste in profondità», dalle quali, tra l’altro, si sono avute risposte intorno a una dozzina di immagini evocative dell’Altissimo. Froese ricorda che una simile ricerca ha un fine pratico, giacché si possono meglio comprendere le reazioni di una popolazione — per un fatto di cronaca o per la politica estera — conoscendo l’idea che ha di Dio.
Passando ai dati, diremo che un 28% crede in un Dio autoritario, impegnato nella storia e capace di fulminare con punizioni severe coloro che non lo seguono. C’è poi il Dio benevolente, che per questa ricerca vale il 22%. Si identifica anche in azioni di politica contingente, simili a quelle in cui il presidente Obama dichiara di essere spinto a vivere la sua fede cristiana nel servizio pubblico. È un Dio impegnato e ama e ci sostiene quando ci prendiamo cura degli altri. C’è poi il Dio critico. Vale il 21%. Chi crede in Lui? I poveri, i sofferenti e gli sfruttati. Sono convinti che non perda di vista le cose di questo mondo. Come rappresentarlo? Si può immaginare attraverso una battuta ascoltata in un sermone nella chiesa Open Door, a Rifle (Colorado): «I nostri conti bancari vuoti saranno i magazzini del Signore». C’è infine il Dio lontano: lo crede il 24%. Quasi un americano su quattro lo considera distante, ma ciò non significa che non abbia alcuna religione. È un’idea che i ricercatori hanno trovato in molti ebrei e nei seguaci di religioni e filosofie come il buddismo o l’induismo. Sovente questa categoria parla di un Dio inconoscibile, che si cela in dimensioni non percorribili dalla ragione, quasi fosse racchiuso in un teorema di matematica indimostrabile; oppure lo spiritualizzano sino a trasformarlo in qualcosa di incomunicabile.
Una ricerca come questa va presa con il beneficio di inventario, ma è estremamente importante il motivo che l’ha suggerita: le opinioni che gli uomini hanno su Dio permettono di comprendere meglio le loro scelte. Potrà sembrare a taluni una vecchia questione riportata alla luce e scritta in margine a Voltaire — il quale riteneva indispensabile la religione per il buon funzionamento degli Stati — ma in realtà è attualissima. Dio, per intenderci, non è morto, non è tramontato, non è quello che hanno cercato di dimostrare o distruggere i filosofi; anzi dopo il crollo delle ideologie, dei totalitarismi e di molte illusioni del Novecento si è presentato di nuovo sul palcoscenico della storia. Se Heidegger aveva scritto che soltanto un Dio ci può salvare, noi ora ricominciamo a capire quanto sia ancora indispensabile per spiegare l’uomo.

l’Unità 9.10.10
L’essere fuori luogo secondo Derrida
Il filosofo francese accosta il nostro tempo a quello  ́sconnessoÆdi Amleto. Epoca ambigua dove tutto è fuori asse
di Beppe Sabaste


In  un’epoca in cui sempre più violentemente si assiste a una messa al bando delle idee, della scrittura, della memoria, della gratuità, quindi della vita, Jacques Derrida teneva alta la complessità del pensare e della lingua, e assicurava con la sua statura e la sua fama una sorta di barriera difensiva sia che parlasse di Sant’Agostino, dell’essere marrani, di scrittura e teologia apofatica, del concetto di democrazia, del divario tra giustizia e diritto, tra legge e forza, o del concetto di Stato-canaglia. Per dirlo con parole povere, Derrida allargava costantemente l’area del pensiero e della teoria, come i migliori scrittori allargano l’area del narrare. Nel 2004 Derrida aderì a un appello «contro la guerra all’intelligenza» lanciato dalla rivista Les Inrockuptibles: pur esprimendo riserve su quel soprannome, esso disse Derrida «designa chiaramente una politica ispirata dal misconoscimento, l’accecamento, il risentimento, anche, di tutto ciò che è giudicato, a torto e secondo un cattivo calcolo, improduttivo, o addirittura nocivo per gli interessi immediati di un certo mercato liberale: la ricerca fondamentale, l’educazione, le arti, la poesia, la letteratura, la filosofia. Nella sua forma caricaturale, ciò che viene denunciato è un economicismo miope, quelli che ne soffrono sono invece tutti i cittadini, la società civile, lo Stato e anche l’economia». Insomma, Jacques Derrida parlava molto del proprio tempo (che è il nostro), anche se agli antipodi dell’esaltazione del «presente vivente» con cui Jean-Paul Sartre inaugurava nel 1948 Les Temps Modernes (...).
DA SHAKESPEARE A PHILIP DICK
Il nostro tempo, ha suggerito Derrida in Spettri di Marx (Cortina 1994), è molto simile al tempo sconnesso di Amleto, quando grazie allo spettro conosce la vera ragione del nuovo ordine del regno e prende atto che «The time is out of joint». Analoga profetica disgiuntura fu annunciata da Marx, della cui descrizione economico-antropologica del capitalismo dell’alienazione tramite il feticcio della merce, del valore del valore e altri spettri, che non era già mai solo alienazione del lavoro, ma alienazione dell’uomo e «della specie» si traggono soprattutto oggi le conseguenze. È il tempo out of joint del liberismo selvaggio e della crescente esclusione dalla vita democratica, della disseminazione di armi atomiche e degli «Stati-fantasma», come la mafia, il consorzio della droga, ecc. Scrive Derrida: «(I)l tempo è disarticolato, lussato, sconnesso, fuori posto, il tempo è serrato e disserrato, disturbato, insieme sregolato e folle. Il tempo è fuori di sesto (hors de ses gonds), il tempo è deportato, fuori di sé, disaggiustato. Dice Amleto». Derrida passa in rassegna le traduzioni di questo verso di Shakespeare (...)fino a quella magniloquente di Gide, «cette époque est déshonorée». Altrettante versioni esistono in italiano.
Derrida non ha letto, credo, lo scrittore americano Philip K. Dick, e in particolare il suo romanzo del 1959 dal titolo Time out of joint. Interessante è la variante del traduttore italiano per Sellerio, del resto assolutamente fedele al senso del romanzo: «Tempo fuori luogo». Come tutte le storie di Dick parla di un dis-astro, un deragliamento, un andare fuori asse del tempo che comincia in modo impercettibile e deve assolutamente trasformarsi. Narra di quella situazione così letteraria del percepire qualcosa fuori posto, sconnesso, disaggiustato nell’ordine delle cose (...); un oscuro disagio il cui crescendo spettrale ricorda la situazione filosofica dell’aporia descritta da Derrida in, appunto, Aporie. Tralascio la trama. Il problema narrativo, qui come nel genere di romanzi detta dei «mondi possibili», è sempre l’amletico problema di Hamlet, vorrei dire dell’homeless: quello di tornare a casa. Come tornare, e come «sentirsi» a casa. Nello spettro dell’abitare, lo sappiamo, hanter, «infestare», è una delle non tantissime modalità.
Il «fuori luogo» dice la dislocazione, la dis-giuntura su cui indugia Derrida nel libro su Marx; ciò che Amleto chiama il tra, l’interim, ovvero il passaggio impossibile, l’aporia; percorso dal Ghost al Guest e viceversa, secondo l’etica dell’ospitalità e dell’accoglienza più volte ribadita da Derrida. Fuori luogo sono i discorsi inattesi e paradossali (come minale, poiché «essere clandestini» oltre a un pleonasma è un reato). Il fuori luogo, faglia o rottura spazio-temporale, è la sensazione così attuale di essere ovunque e in nessun luogo al tempo stesso, come in una diaspora universale in cui si è dappertutto ma mai a casa (forse per questo abbiamo bisogno di una home page). È una dislocazione (o «delocazione», come le opere straordinarie di Claudio Parmiggiani ottenute col fumo e le tracce dell’assenza delle cose), che connette la questione dello spettro e dello spettrale alla speculazione e la scrittura delle storie di fantasmi alla scrittura fantasma, ghost writing. (Questione in sospeso, quindi, di cosa e come sia una lingua di fantasmi). La disgiuntura, il «tempo fuori luogo», dice l’urgenza, come ha scritto altrove Derrida, «faticosamente, dolorosamente, tragicamente, (Di) un nuovo pensiero delle frontiere, una nuova esperienza della casa, del chez-soi e dell’economia». Questa nuova esperienza dell’abitare è naturalmente anche una nuova esperienza del linguaggio: leggendo Shakespeare (ma anche leggendo Derrida, Marx e Philip K. Dick), il lettore investito da questa dislocazione è trasformato in un guest-writer.
Ovvero, per esempio, un testimone, che è sempre un, o il, fantasma revenant, colui che ritorna. Un arrivante, un ritornante, un superstite.
(...) In realtà è un’esperienza molto antica. È quella dell’unica vera avventura, di fronte alla quale ogni altra ne è solo l’insoddisfacente surrogato, del «parlare con i morti», su cui da anni sto scrivendo il mio, chiamiamolo così, «romanzo», e che ritrovo, sempre in anticipo e insieme in differita, in différance, in Derrida.
Trasformare il ritorno in rivolta, ha scritto Derrida, a proposito di Marx, e dello spettro del comunismo.
Il tempo del fantasma (come l’archivio) è l’avvenire, ha scritto altrove Derrida, e la sopravvivenza è «la vita più intensa che sia possibile».

Ansa.it 8.10.10
I gemelli socializzano in utero, prima di nascere 'giocano'
Studio ricercatori diretti da docente Universita' Padova

qui segnalazione di Francesco Maiorano
http://www.ansa.it/web/notizie/rubriche/scienza/2010/10/08/visualizza_new.html_1734592913.html

Terra 9.10.10
Farmaci e bugie
di Federico Tulli


Terra 9.10.10
Alice e la conoscenza
di Alessia Mazzenga